SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA - Unicollege SSML · 2019-05-14 · La sociologia della devianza non...
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Luca Azzano Cantarutti
SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
CON UNA SINTETICA ANALISI DEI METODI EMPIRICI PER COMPRENDERE E VALUTARE IL COMPORTAMENTO DEVIANTE
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LUCA AZZANO CANTARUTTI
DISPENSA DI
SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
CON UNA SINTETICA ANALISI DEI METODI EMPIRICI
PER COMPRENDERE E VALUTARE IL COMPORTAMENTO DEVIANTE
Unicollege - Anno accademico 2018-2019
Luca Azzano Cantarutti
SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
CON UNA SINTETICA ANALISI DEI METODI EMPIRICI PER COMPRENDERE E VALUTARE IL COMPORTAMENTO DEVIANTE
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Indice
1. INTRODUZIONE ALLA DEVIANZA
ED ALLA SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA. DEFINIZIONI pag. 4
2. PRODROMI ED ORIGINE DELLO STUDIO DELLA DEVIANZA pag. 9
2.a La scuola classica. pag. 10
2.b La scuola positiva. pag. 16
3. EMILE DURKEIM E ROBERT KING MERTON:
LA NASCITA DELLA SOCIOLOGIA CRIMINALE pag. 22
3.a Emile Durkeim pag. 23
3.b Robert King Merton pag. 25
4. LA SCUOLA DI CHICAGO E LA SOCIOLOGIA URBANA pag. 28
4.a Edwin Hardin Sutherland: la criminalità dei colletti bianchi. pag. 30
4.b Albert Kircidel Cohen: I ragazzi delinquenti e le sottoculture giovanili pag. 32
4.c Howard Saul Becker: outsiders, reazione sociale e devianza
nella teoria dell’etichettamento. pag. 34
4.d Stanley Cohen: Mass media, panico morale e capri espiatori pag. 36
4.e Gresham Sykes e David Matza: Le tecniche di neutralizzazione pag. 37
5. LA NUOVA CRIMINOLOGIA MARXISTA pag. 42
5.a Alessandro Baratta: Criminologia critica e critica del diritto penale pag. 43
6. LA PAURA DELLA CRIMINALITA’ E L’INSICUREZZA SOCIALE pag. 47
6.a Michel Foucault: Il meccanismo della sicurezza. pag. 48
7. LA CORRELAZIONE FRA CRIMINALITA’
E PERCEZIONE DELL’INSICUREZZA pag. 51
7.a Le ricerche statistiche su criminalità ed insicurezza. pag. 51
7.b Bauman e Beck: fra modernità e postmodernità. pag. 55
7.c Ceretti e Cornelli. Oltre la paura. pag. 58
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CON UNA SINTETICA ANALISI DEI METODI EMPIRICI PER COMPRENDERE E VALUTARE IL COMPORTAMENTO DEVIANTE
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PRESENTAZIONE
Questa dispensa, ad uso degli studenti, contiene gli appunti delle lezioni tenute presso
Unicollege – Scuola Superiore Mediatori Linguistici, Sede di Firenze, nell’Anno
Accademico 2018-2019.
La prospettiva di studio si fonda su un’accezione della devianza che comprende non solo
la trasgressione delle regole e delle norme socialmente condivise, ma anche l’analisi di
tutto ciò che contribuisce alla produzione e alla riproduzione di essa come fenomeno
insito nei mutamenti sociali.
Nel corso delle lezioni vengono esaminate le teorie sociologiche (latu sensu) che hanno
interpretato la devianza attraverso lo studio delle sue molteplici manifestazioni e delle
numerose reazioni che queste suscitano in diversi momenti storici, in diversi contesti
sociali e politici.
Scopo delle lezioni è quello di fornire allo studente la piena comprensione del linguaggio
sociologico per poter affrontare la disamina dei fenomeni di devianza che
contraddistinguono da sempre la storia umana, per quanto il suo studio sia recente.
Lo studente potrà così valutare sotto un’ottica più consapevole i mutamenti sociali, il
cambiamento del controllo sociale e del disciplinamento dei comportamenti collettivi e
individuali e quindi valutando attentamente ciò che si considera deviante, avendo a
disposizione gli strumenti per affrontare i casi concreti di devianza che si troverà ad
affrontare nella vita professionale.
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CON UNA SINTETICA ANALISI DEI METODI EMPIRICI PER COMPRENDERE E VALUTARE IL COMPORTAMENTO DEVIANTE
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CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE ALLA DEVIANZA ED
ALLA SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA. DEFINIZIONI.
Il concetto di devianza non è intuitivo né univoco ma costituisce il frutto di un
ragionamento necessariamente soggettivo. Prova ne sia che, nel corso dei tempi, la
definizione di devianza è ripetutamente variata, soggetta alle convinzioni degli studiosi
della materia e, inevitabilmente, alle contingenti situazioni politiche e sociali.
Tanto premesso, possiamo ritenere che la definizione di devianza possa essere raggiunta
concordemente, attraverso una sintesi del pensiero maturato dai vari autori, nei termini
che seguono.
Allorchè la maggioranza dei membri della comunità stabilisce delle regole, coloro che le
vìolano tengono comportamenti devianti rispetto all’ordinamento, all’insieme delle
regole, provocando una lacerazione nel senso di appartenenza alla comunità che, invece,
ritiene quelle regole necessarie per la convivenza ordinata.
Per evitare fraintendimenti, giova precisare come il concetto di devianza sia distinto da
quello di criminalità.
La devianza è un comportamento che vìola regole, comprese quelle non scritte della
società o di una delle dimensioni della vita quotidiana.
La devianza può diventare criminalità allorchè la condotta vìola norme giuridiche
sanzionate da norme penali proprie di una società; siamo nell’ordine dei reati.
In altre parole, la criminalità è una tipologia (non l’unica) di devianza; sono concetti
collegati alla devianza quelli di disadattamento, disagio, emarginazione, criminalità.
Com’è facilmente intuibile, la società che si è data delle regole adotterà altresì una serie
di strumenti per garantirne il rispetto, strumenti la cui efficacia diventa fondamentale per
la sopravvivenza della società stessa.
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Alla luce di queste considerazioni, come possiamo definire la devianza ed il controllo
sociale?
DEVIANZA: la condotta, tenuta da uno o più soggetti, che infrange le norme in
vigore in un determinato ordinamento sociale o giuridico. In altre parole, il
comportamento che si discosta dalle regole sociali o dalle norme.
CONTROLLO SOCIALE: l’insieme delle risorse materiali e simboliche di cui una
società dispone per assicurare la conformità del comportamento dei suoi membri ad
un insieme di regole e principi prescritti e sanzionati.
Queste due definizioni evidenziano la diversità dei due approcci di studio e di ricerca:
l’osservazione sociologica si divide, dunque, nelle due prospettive della devianza e
dell’ordine/controllo sociale.
Se la devianza è un comportamento ritenuto abnorme, o addirittura illecito, dai membri
di una collettività, la scienza sociologica studia tali comportamenti al fine di
comprendere:
a) i motivi per cui tale devianza avviene e si replica all’interno del corpo sociale;
b) come la devianza può influire sui comportamenti dell’intera società, anche in relazione
ad altre discipline (quali, ad esempio, la psichiatria e la criminologia) che studiano la
devianza sotto altri profili;
c) quali siano le possibili reazioni della società o di una parte di essa dinanzi a
comportamenti o atteggiamenti non riconosciuti come conformi (controllo sociale).
La sociologia della devianza si propone lo studio di tutto ciò che ha attinenza con la sua
dimensione sociale. La prospettiva della ricerca sociologica si prefigge di scoprire e
analizzare tutti gli aspetti ed elementi che in una data società sono direttamente o
indirettamente coinvolti nella produzione e riproduzione della devianza.
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L’OGGETTO DI STUDIO DELLA SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
1. la devianza, con riferimento a comportamenti (tra cui quelli criminali) di
violazione delle norme anche sociali;
2. la reazione della società di fronte a fenomeni di devianza.
L’interrogativo sociologico principale è: perché il crimine, perché la violazione delle
norme?
Nell’ambito, così circoscritto, della sociologia della devianza possiamo quindi
distinguere tre concetti:
A) comportamento (o condotta): l’azione o l’omissione di una o più persone;
B) agire sociale: la reazione, il controllo della società colpita dal comportamento
deviante;
C) aspettative di comportamento: la controreazione che la società si attende dal/dai
deviante/i.
Questi tre concetti possono essere riferiti indifferentemente sia a soggetti individuali che
a soggetti collettivi.
Gli altri approcci alle problematiche sopra descritte studiano la devianza come fatto o
comportamento interno ad un processo individuale; sono scienze quali per esempio la
psicologia, la criminologia o l’antropologia clinica, la psichiatria o anche la psicanalisi.
La sociologia della devianza non ignora né trascura i processi individuali, ma cerca
sempre di comprenderne i nessi o le interazioni con i processi sociali, prendendo in
considerazione il comportamento deviante ed osservando i meccanismi di risposta alla
devianza, sempre avendo attenzione alle azioni e alle relazioni esterne ed osservabili dei
soggetti sociali.
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Per individuare un comportamento deviante è possibile utilizzare diversi criteri.
Criterio quantitativo: un comportamento viene valutato dalla maggioranza dei membri
della società, che attribuisce una patente di normalità o di devianza (es.: la maggioranza
politica considera deviante la propaganda del partito fascista);
Criterio statistico: un comportamento viene valutato in funzione della distanza rispetto
alla media dei comportamenti standardizzati (es.: lavorare due ore al giorno devìa rispetto
alla media di otto ore).
Criterio di ruolo: un comportamento viene riferito alle regole sociali relative al ruolo
ricoperto nella società dall’autore della condotta (es.: per un sacerdote è considerato
deviante il turpiloquio).
Criterio professionale: la valutazione viene demandata agli individui che sono in
contatto con il fenomeno diretto (es.: un magistrato valuta la devianza della condotta
rispetto alla legge).
Ciò posto, è possibile definire in modo costante e condiviso dalla società che cosa sia
deviante e che cosa invece non lo sia?
Quali presupposti è possibile usare per ricercare valutazioni condivisibili circa un
comportamento, al fine di ritenerlo deviante o meno?
Ecco cinque presupposti per definire come “deviante” un comportamento:
1. Un gruppo che riconosca e condivida la definizione di devianza ed i criteri di
valutazione;
2. L’esistenza di norme;
3. Il riconoscimento (soggettivo) della valutazione negativa del comportamento non
conforme;
4. La reazione al comportamento non conforme;
5. L’esistenza di sanzioni o conseguenze negative.
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Tra la devianza e lo specifico sistema culturale e normativo esiste una relazione
bidirezionale. La devianza esiste perché un comportamento è definito come tale dalla
società e, a propria volta, contribuisce a valorizzare il sistema culturale e normativo che
può fregiarsi del proprio valore in quanto sovrapposto e contrapposto alla devianza.
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CAPITOLO SECONDO
PRODROMI ED ORIGINE DELLO STUDIO DELLA DEVIANZA
La devianza, nell’accezione sopra richiamata, è stata oggetto di studio solo in tempi
recenti. E’ infatti solo a partire dalla seconda metà del XVIII secolo che, sulla scorta del
crescente successo riscosso dai princìpi illuministici, alcuni autori avviano un’analisi
sistematica di uno dei principali fenomeni di devianza, ossia il crimine.
Come detto, l’ambiente culturale è fortemente influenzato dal pensiero illuminista che ha
generato alcuni criteri fondamentali che possono essere rinvenuti in tutti gli studi che si
interessano al fenomeno:
- preoccupazione per l’ordine sociale;
- certezza dei diritti dell’uomo e della libertà umana come diritto fondamentale;
- la ragione individuata come fondamento guida dei comportamenti umani;
- l’uomo, essere razionale, che realizza i suoi progetti su base edonistica;
- fiducia nella legge.
Pur nella consapevolezza delle molteplici sfumature del pensiero degli studiosi che si
sono avvicendati (e talvolta contrapposti) in questo sforzo titanico, portiamo innanzitutto
all’attenzione dello studente due grandi scuole che hanno analizzato il crimine ed il
criminale: la scuola classica e la scuola positiva.
Lo studio del pensiero di queste due Scuole non esaurisce certo la comprensione del
dibattito filosofico, giuridico e scientifico che sfocerà nella nascita della sociologia della
devianza, ma costituisce patrimonio imprescindibile di chiunque voglia affrontare la
materia che ci occupa.
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2.a LA SCUOLA CLASSICA. CESARE BECCARIA E JEREMY BENTHAM.
Prima di enucleare i principi della scuola classica, andiamo a proporre la lettura di alcuni
passi di opere di due autori le cui riflessioni sulla giustizia diedero inizio alla scuola
medesima: Cesare Beccaria e Jeremy Bentham.
La scuola classica vede fra i propri fondatori il marchese Cesare Beccaria (Milano, 1738-
1794), che nel 1764 pubblica “Dei delitti e delle pene”, opera che – per prima – propone
un’analisi del fenomeno criminoso suscitando in Italia (rectius, negli Stati della penisola
italica) un tale scandalo da essere messa all’indice, riscuotendo invece un successo
enorme nella Francia di Voltaire, Diderot e d’Alambert.
Non si tratta di un testo prettamente legislativo, come il titolo farrebbe supporre al lettore
frettoloso, ma di un’opera volta a propugnare una giustizia umana (non più ispirata,
dunque, ai principi del diritto naturale o divino), in un’analisi del mutamento sociale
dell’epoca.
Lo scopo della giustizia, secondo Beccaria, deve essere quello dell’educazione morale
attraverso la prevenzione, che favorisce il processo di civilizzazione di una società che
mira alla perfezione garantita dal lume della ragione. La giustizia deve garantire
“gl’interessi della umanità!”, tanto che Voltaire commenta: “E’ evidente che venti ladri
dal fisico robusto, se condannati a lavorare a vita alle opere pubbliche, scontando la loro
pena servono allo Stato; se messi a morte, invece, non recano vantaggio ad altri che al
boia, che è pagato per uccidere la gente al pubblico cospetto”.
Al bando, dunque, la tortura e la pena di morte, concetti sino a quel momento mai messi
in discussione da una visione che vedeva la giustizia quale espiazione di un peccato contro
l’ordine naturale delle cose. La tortura vìola il principio, enunciato da Beccaria, della
presunzione di innocenza ed in quanto tale dev’essere bandita dalla giustizia. “Una
crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo,
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mentre si forma il processo, o per costringerli a confessare un delitto, o per le
contradizioni nelle quali intercorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale
metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui
potrebbe esser reo, ma non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della
sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia
deciso ch’egli abbia violato quei i patti coi quali le fu accordata”.
Viceversa Beccaria osa proporre un diritto certo, sottratto alla discrezionalità dei giudici.
“Io parlo di probabilità in materia di delitti, che per meritar pena debbono esser certi …
Dove le leggi siano chiare e precise e l’officio di un giudice non consiste in altro che di
accertare un fatto” (C. Beccaria (2009), Dei delitti e delle pene, Mondadori, Milano, p.
38).
“Abbiamo visto quale sia la vera misura dei delitti, cioè il danno della società … alcuni
delitti distruggono immediatamente la società, o chi la rappresenta; alcuni offendono la
privata sicurezza di un cittadino nella vita, nel beni, o nell’onore; alcuni altri sono azioni
contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben
pubblico” (ivi, pp. 25-26).
In un’ottica volta a tutelare la società, la prevenzione dei delitti costituisce il sistema
preferibile e Beccaria arriva ad illustrare anche i metodi per garantire la prevenzione.
“E’ meglio prevenire i delitti che punirli” (ivi, pag. 102); ma quali sono i metodi per la
prevenzione dei delitti? “Volete prevenire i delitti? Fate leggi che sian chiare, semplici”
(ivi, pag. 103); “Un altro mezzo per prevenire i delitti” … Si è d’interessare il consesso
esecutore delle leggi piuttosto all’osservanza che alla corruzione” (ivi, pag. 107); “un
altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare le virtù. … finalmente il più
sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione” (ivi,
pag. 108).
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Anche la pena di morte non è utile, né necessaria, perché vìola il contratto sociale in
forza del quale l’individuo rinuncia a parte della propria libertà delegando alla società,
allo Stato, l’esercizio dell’autorità ricevendone in cambio protezione e giustizia. “Quale
può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non
certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di
minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà
generale, che è l’aggregato particolari. Chi è mai che abbia voluto lasciare ad altri
uomini l’arbitrio di ucciderlo? … Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ha
dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino,
perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non
essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità” (ivi, p. 66 ss.).
Cesare Beccaria ha aperto una prospettiva sino ad allora sconosciuta, tracciando un solco
nel quale si sono avviati molti altri pensatori che hanno ampliato l’ambito di studio della
scuola classica.
* * * * *
Particolare rilievo assumono il pensiero e l’opera di Jeremy Bentham (Londra, 1748 –
Westminster 1832), giurista formatosi nello studio di Montesquieu, Voltaire, Helvetius;
è tuttavia la lettura dell’opera di Beccaria “Dei delitti e delle pene” che lo entusiasma e
lo porta a concepire una scienza della morale che auspica una legislazione razionale,
scientifica, ove i risultati sulla società possono essere misurati in termini di utilità.
Bentham concepisce una pena proporzionata al delitto, individua sei criteri per misurare
l’utilità della pena e della ricompensa in relazione alla prevenzione, sia essa particolare
(del delinquente) che generale (della comunità intera), quest’ultima in un’ottica che già
persegue una visione sociologia del crimine.
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Bentham persegue la prevenzione attraverso azioni che valgono a:
- limitare la libertà che permette all’individuo di compiere il delitto;
- causare la diminuzione del desiderio di delinquere;
- intimidire il potenziale delinquente.
Deve esistere, sostiene Bentham, una precisa proporzione fra il delitto commesso e la
pena inflitta, come già teorizzato da Montesquieu e Beccaria, e Bentham si spinge a
misurare tale proporzione attraverso sei regole, che consentono appunto di misurare la
giustizia della pena sotto il profilo etico, ma anche sotto quello utilitaristico.
“Punire, nel senso più generale, è infliggere un male ad un individuo, con l’intenzione
diretta a produrlo, a causa di un atto che appare aver fatto o omesso” (J. Bentham,
(1987), “Teoria delle pene e delle ricompense”, citato in Curti, “Criminologia e
Sociologia della devianza”, Wolters Kluvert, Milano, 2017, p. 64).
Di interesse particolare ed innovativo è un esperimento di carattere socio-penitenziario
posto in essere da Benham alla morte del padre (1792), del quale dilapidò le sostanze
proprio per realizzare tale esperimento, da lui teorizzato in un’opera: il Panopticon
ovvero la Casa di ispezione.
Fra il 1785 ed il 1788 Bentham viaggia in Italia, Costantinopoli ed in Russia, dove scrive
il Panopticon, opera che prende le mosse dalla constatazione di un problema che
affliggeva l’Europa intera, la necessaria ristrutturazione del sistema penitenziario in cui
le carceri traboccano e forgiano delinquenti in un sistema non controllabile.
Ecco allora il progetto del Panopticon, un complesso architettonico (ad uso penitenziario,
ma anche di scuola od ospedale) ove ogni soggetto è sottoposto alla possibile vigilanza,
all’osservazione di ogni sua mossa, perché con lo sguardo si controlla tutto lo spazio: lo
sguardo è potere.
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“Lo scopo dell’edificio sarà tanto più perfettamente raggiunto se gli individui che devono
essere controllati saranno il più assiduamente possibile sotto gli occhi delle persone che
devono controllarli. … Essendo questo impossibile, il meglio che si possa auspicare è
che in ogni istante, avendo motivo di credersi sorvegliato, e non avendo i mezzi di
assicurarsi il contrario, creda di esserlo” (J. Bentham, citato in Curti, “Criminologia e
Sociologia della devianza”, Wolters Kluvert, Milano, 2017, p. 70).
* * * * *
Dopo questo brevissimo florilegio tratto dalle opere di Beccaria e Bentham, andiamo a
riassumere i tratti essenziali della scuola classica enucleati dalle opere dei suoi principali
protagonisti, quasi tutti di formazione giuridica e/o filosofico-politica.
Oggetto dell’analisi della scuola classica è uno studio teorico del reato come ente
astratto, entità di diritto e non di fatto, nello sforzo di comprendere il crimine, l’atto
delittuoso: che cos’è, come si punisce, come si previene.
Per svolgere questa analisi la scuola classica non si avvale di un metodo scientifico strictu
sensu, ma avvia riflessioni teoriche, di stampo filosofico e giuridico, focalizzate sulla
legislazione penale, sui crimini e sulle pene.
Questo metodo si innesta su alcune premesse filosofiche, quali il libero arbitrio degli
individui e la loro responsabilità morale e giuridica per le azioni compiute.
L’individuo è necessariamente un essere dotato di ragione e, pertanto, ben capace di
comprendere l’eventuale disvalore delle proprie azioni.
Egli sceglie liberamente quali comportamenti adottare e deve assumersi la
responsabilità delle conseguenze, rimanendo sostanzialmente irrilevanti i
condizionamenti esterni alla sua volontà che è, per l’appunto, libera di autodeterminarsi.
E’ muovendo da queste premesse che gli esponenti della scuola classica costruiscono un
sistema penale.
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L’individuo e la società stipulano un accordo, il Contratto sociale, finalizzato a
proteggere sia i diritti del singolo (in particolare quelli che con linguaggio attuale
definiremmo “diritti civili”) che a garantire la sicurezza della società.
L’idea di contratto sociale va fatta risalire al filosofo svizzero Jean Jacques Rousseau,
autore de: “Du contrat social: ou principes du droit politique”, pubblicato nel 1762, ove
teorizza la necessità di un accordo che vada a tutelare il singolo attraverso la forza della
società: “Trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la
forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno,
unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima”.
Se questo, dunque, è lo scopo del contratto sociale, la legge deve essere chiara e semplice,
la pena certa e proporzionata, così da eliminare l’arbitrio del giudice al quale spetta solo
il compito di accertare i fatti; l’applicazione della pena sarà operazione meramente
consequenziale rispetto al fatto accertato.
In tale modo saranno garantiti i diritti dell’individuo, detentore del potere attraverso lo
Stato del quale fa parte: “Ora, essendo il Sovrano formato solo dai singoli che lo
compongono, non ha né può avere interessi contrari ai loro; di conseguenza il potere
Sovrano non ha alcun bisogno di offrire garanzie ai sudditi, perché è impossibile che il
corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri; (...). Il Sovrano, per il solo fatto di essere, è
sempre tutto ciò che deve essere”.
Scopo della pena inflitta dallo Stato è la retribuzione per il fatto commesso, per la qual
cosa la pena dev’essere fissa e predeterminata, sì da consentire all’individuo razionale di
poter meglio determinare la propria azione: conoscendo esattamente quali saranno le
conseguenze della propria condotta, egli potrà scegliere fra il rispetto della legge od il
crimine, fra il bene ed il male (considerati non in ottica religiosa, bensì ordinamentale).
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Evidente è la funzione di deterrenza per il delinquente il quale, essendo essere razionale,
non potrà esimersi dal comprendere - attraverso l’espiazione della pena - il disvalore della
propria condotta e la necessità di evitare ogni sua reiterazione.
* * * * *
2.b LA SCUOLA POSITIVA.
La scuola positiva nasce un secolo dopo quella classica (rispetto alla quale è palesemente
contrapposta), sulla scorta dell’affermarsi del determinismo (in natura nulla avviene per
caso, ma per ragione e logica, necessaria consequenzialità) che giunge a presidiare ogni
aspetto delle scienze umane.
Il determinismo si affaccia prepotentemente anche nel campo dell’elaborazione dottrinale
giuridica, dando vita non solo ad una nuova visione del diritto penale ma anche alla
criminologia e, successivamente, alla sociologia criminale.
I suoi esponenti raramente sono giuristi, più spesso medici, scienziati, insegnanti.
Alla fine dell’Ottocento gli statistici morali si propongono lo studio della matematica e
della statistica per analizzare, sezionare, classificare i comportamenti umani,
innanzitutto quelli criminali.
La scuola positiva utilizza un metodo basato sull'osservazione sistematica, e
l'accumulazione di prove e di fatti obbiettivi, all'interno di una cornice deduttiva.
* * * * *
Adolphe Quételet: il delitto come fenomeno sociale
Adolphe Quételet (Gand, 1796 - Bruxelles, 1874) è un professore di matematica belga e
per primo teorizza il delitto come fenomeno sociale. I comportamenti umani sono
influenzati da fattori sociali, quindi esterni all’individuo, sì che il crimine è frutto non del
libero arbitrio dell’individuo bensì di una serie di elementi che il delinquente non può
controllare.
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Quetelet elimina ogni attenzione per la dimensione individuale, particolare od incidentale
del comportamento, in uno sforzo prettamente matematico-statistico che consente di
apprezzare le caratteristiche generali, la regolarità nel numero e nella tipologia dei delitti,
nei mezzi utilizzarli per commetterli, nelle pene irrogate.
“Noi dobbiamo prima di tutto, perdere di vista l’uomo visto isolatamente e considerarlo
soltanto come una frazione della specie. Spogliandolo della sua individualità, noi
elimineremo tutto ciò che non gli è accidentale, e le particolarità individuali che hanno
poca o nessuna azione sulla massa si cancelleranno da se stesse e permetteranno di
afferrare i generali risultati … Noi possiamo enumerare anticipatamente quanti
individui macchieranno le loro mani del sangue dei loro simili, quanti saranno falsari,
quanti avvelenatori; circa come si possono enumerare in anticipazione le nascite ed i
decessi che devono succedersi” (A. Quetelet, “Il mito dell’uomo medio”, Il Segnalibro,
Torino, 1996, pag. 5 - 8).
Il crimine non dipende dal volere del singolo soggetto, ma dal volere della società la
quale, dunque, ne è l’unica responsabile. L’ordinamento di ogni società contiene un
certo numero ed un certo ordine di delitti, che sono conseguenza necessaria
dell’ordinamento stesso; di ciò la società dev’esserne felice, poiché dallo studio statistico
di questi fattori è possibile migliorare gli uomini, modificando le loro istituzioni, le loro
abitudini, in generale tutto ciò che influisce sul loro modo di essere.
Compreso anticipatamente il problema, sarà agevole trovare le adeguate contromisure.
* * * * *
La ricerca scientifica sul criminale: Cesare Lombroso e l’antropologia criminale.
Cesare Lombroso (Verona, 1835 – Torino 1909) è il fondatore dell’antropologia
criminale nonché maestro indiscusso della scuola positiva.
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Medico, viene inviato dall’esercito in Calabria dove visita, studia e misura oltre tremila
soldati. Nel 1863 è direttore di vari manicomi, dove si dedica allo studio degli alienati.
Nel 1876 pubblica “L’uomo delinquente, studiato in rapporto all’antropologia, alla
medicina legale ed alle discipline carcerarie”.
Per primo, Lombroso mette in relazione le caratteristiche fisiche dei soggetti e la loro
“vocazione” a commettere reati.
Il determinismo lombrosiano è di stampo biologico, fondato su due assunti, che vanno a
coprire l’intero ventaglio di possibilità di spiegare il criminale: il delinquente nato e
l’atavismo e la pazzia morale.
Il primo pilastro è quello del delinquente nato. I delinquenti presentano una
predisposizione congenita su base ereditaria, provocata da anomalie presenti dalla nascita.
Il secondo è dato dall’atavismo e dalla pazzia morale, teoria per cui il delinquente risulta
fermo ad un livello primitivo di sviluppo o, comunque, manifesta una regressione a tale
livello, una sorta di selvaggio che, presentando un’alterazione del proprio senso morale,
son pazzi morali ed epilettici.
Lombroso studia il delinquente da un punto di vista antropologico, misurando e
classificando “i caratteri abnormi anatomici, biologici e psicologici del delinquente
(caratteri atavici), i caratteri patologici e morbosi, le anomalie e le deformazioni
craniche, le comparazioni fra le anomalie di donne e uomini, quelle di donne normali e
di donne delinquenti, quelle del delinquente e del pazzo, poi le anomalie cerebrali,
scheletriche e viscerali (è lo studio attraverso le autopsie). A questo si aggiunge
l’antropometria e la fisionomia del delinquente (statura, peso, testa; anomalie della
faccia, del’orecchio, del naso, della bocca; i peli e la cute) e le anomalie del corpo (torace
e arti, mano: lunghezza, dito medio, piede)” (così: Curti, Criminologia e sociologia della
devianza, op. cit. p. 91).
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Riportiamo qui un passo tratto dall’opera “L’uomo delinquente”, significativo del metodo
utilizzato da Lombroso: “Anche il maggior volume della mandibola che trovammo nei
criminali così comune come quello dell’orbita, se scarseggiò nei pazzi è comune ai
selvaggi ed ai crani preistorici” (C. Lombroso, “L’uomo delinquente”, Napoleone
editore, Roma, 1971, p. 91).
Citiamo, ad esempio, la descrizione dell’assassino: “sguardo vitreo, freddo immobile,
qualche volta sanguigno e iniettato; naso spesso aquilino, adunco, o meglio grifagno,
sempre voluminoso; robuste le mandibole; lunghe le orecchie; larghi gli zigomi; crespi,
abbondanti i capelli oscuri; assai di frequente scarsa barba, denti canini molto
sviluppati; labbra sottili; frequenti il nistagmo e le contrazioni unilaterali del volto, con
cui scopronsi i denti canini quasi a sogghigno o minaccia” (L’uomo delinquente, op. cit.,
p. 232)
Lombroso, pioniere della scuola positiva, attraverso una ricerca e raccolta meticolosa di
dati, giunge ad affermare che i criminali sono affetti da anormalità fisico biologiche, di
natura atavica, o degenerativa. Queste inferiorità fisiche facevano nascere nel gergo
criminologo il cosiddetto delinquente nato.
Dopo le critiche che gli furono mosse, egli accettò di includere tra le cause criminali anche
fattori economico sociali, ma sempre in maniera secondaria rispetto agli aspetti biologici.
* * * * *
Enrico Ferri e la sociologia criminale.
Enrico Ferri (San Benedetto Po (MN), 1856 – Roma, 1929) fu giurista, Consigliere di
Cassazione, Deputato per il Partito Socialista Italiano, Direttore de “L’Avanti” e quindi
Professore di Diritto penale.
Ferri va oltre il suo maestro Lombroso, riconoscendo sì quale causa del crimine il
delinquente nato, ma ricercandone ed individuandone altre quali fattori di tipo fisico
(razza, geografia, clima), di tipo antropologico (età sesso, psiche), e di tipo sociale
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(costumi, economia, religione), affermando che: “I fattori antropologici, inerenti alla
persona del delinquente, sono il coefficiente primo del reato” (Ferri, Sociologia
Criminale, Fratelli Bocca editori, Milano-Roma, 1900, p. 299).
Tuttavia Ferri presta già attenzione alle cause sociali del delitto: “E resta infine la
categoria dei fattori sociali del delitto, risultanti dall’ambiente sociale in cui vive il
delinquente, come: la varia densità di popolazione; lo stato dell’opinione pubblica, dei
costumi e della religione; la costituzione della famiglia ed il regime educativo; la
produzione industriale; l’alcolismo; l’assetto economico e politico; l’ordinamento
dell’amministrazione pubblica, della giustizia e della polizia giudiziaria; ed infine
l’ordinamento legislativo in genere, civile e penale” (ivi, pag. 300)
Alla luce di queste considerazioni, Ferri classifica (non dimentichiamo che siamo in
ambiente che si pretende rigorosamente scientifico, che tutto tende a catalogare) i
delinquenti in cinque categorie:
- delinquenti pazzi (al cui interno distingue la categoria dei pazzi morali);
- delinquenti nati: è la categoria già studiata da Lombroso;
- delinquenti abituali: sono coloro che pur non avendo i tratti antropologici del
delinquente nato, tuttavia dopo aver commesso il primo reato persistono poi nel delitto
per una propria debolezza morale unita all’impulso delle circostanze e dell’ambiente
circostante; commettono per lo più reati contro il patrimonio;
- delinquenti d’occasione: non hanno per loro natura una tendenza al delitto, ma vi cadono
piuttosto per l’incentivo delle tentazioni offerte dalle situazioni personali o dall’ambiente
esterno e non vi ricadono se queste tentazioni scompaiono.
- delinquenti per passione: sono rari, commettono per lo più reati contro le persone, sotto
l’impulso di una passione che scoppia come la collera.
* * * * *
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Raffaele Garofalo: il delitto naturale
La scuola positiva ha visto tra i propri protagonisti anche Raffaele Garofalo (Napoli 1851
- 1934), avvocato, magistrato e politico.
La sua opera principale è “Criminologia. Studio sul delitto e sulla teoria della
repressione” (Torino, Fratelli Bocca, 1885), nella quale elabora il concetto di “delitto
naturale”, ossia gli atti ritenuti criminali in tutte le società. E’ una sorta di contraltare del
“diritto naturale”, ossia quelle norme insite nella natura umana sì che ciascun
ordinamento le considera intoccabili (es.: non uccidere).
Nell’opera citata (p. 14), Garofolo definisce così il delitto naturale: “chiameremo
DELITTO NATURALE l’offesa a questi sentimenti profondi ed istintivi dell’uomo
socievole”.
Più oltre precisa quali siano questi istinti: “Quell’elemento di immoralità necessario
perchè un atto nocivo sia considerato come criminoso dalla pubblica coscienza, è la
lesione di quella parte del senso morale che consiste nei sentimenti altruistici, la pietà
e la probità, in guisa che la offesa ferisca non già la parte superiore e più delicata di tali
sentimenti, bensì la parte di essi più comune, che è considerata come patrimonio morale
indispensabile di ciascun individuo nella comunanza sociale. In ciò sta quello che noi
chiameremo delitto naturale” (ivi, p. 36)
Garofolo enuncia tre categorie di delinquenti (anche in questo caso si sente l’influenza
marcata del positivismo, che vuole classificare tutti i fenomeni naturali): assassini,
violenti, ladri.
Tale distinzione opera non in base alle conseguenze dell’azione del delinquente (concetto
più appropriato per la scuola classica), bensì sulla scorta dell’analisi dell’anomalia
morale che aveva condotto il delinquente a commettere il crimine.
Garofolo, infatti, cataloga i comportamenti devianti come un’inferiorità morale scaturente
in una mancanza di sensibilità altruistica e di morale.
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CAPITOLO TERZO
EMILE DURKEIM E ROBERT KING MERTON:
LA NASCITA DELLA SOCIOLOGIA CRIMINALE
La scuola positiva della criminalità si era spinta ad analizzare le possibili cause (naturali,
biologiche, psicologiche, psichiatriche) che inducono il criminale a commettere un
delitto.
Tuttavia, a fronte di alcuni passi avanti nell’indagine conoscitiva circa il criminale e la
pena, molte rimanevano le lacune che non consentivano di spiegare appieno le cause della
criminalità.
Nell’humus della scuola positiva si innesta per la prima volta la ricerca sociologica, volta
ad analizzare le influenze dell’ambiente sociale sulla condotta dell’individuo.
Per la prima volta la ricerca si porta dalle ragioni della criminalità interne all’individuo
alle ragioni esterne alla sua persona e la riflessione non riguarda più la sussistenza o meno
del libero arbitrio bensì la possibilità che questo sia condizionato od addirittura annullato
dai fattori esterni, indipendenti alla volontà del singolo.
* * * * *
3.a EMILE DURKEIM (Epinal, Francia, 1858 – Parigi, 1917),
Emile Durkeim, filosofo e pedagogo, nell’opera “La divisione del lavoro sociale” e poi
ne “Le regole del metodo sociologico” e ne “Il suicidio” analizza il reato come
“fenomeno normale e utile alla società”.
Qual’è la reale portata di questa affermazione?
Secondo il filosofo francese il reato è “normale” perché non esiste società senza
criminalità (“la società che ne fosse esente sarebbe assolutamente impossibile”); ogni
società ha le proprie regole e in ogni società vi è qualcuno che trasgredisce quelle regole,
dunque è “normale” che vi siano delinquenti.
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Dunque il reato non costituisce una malattia: “Fare del reato una malattia sociale
significherebbe ammettere chela malattia non è qualcosa di accidentale, ma deriva
invece, in certi casi, dalla costituzione fondamentale dell’essere vivente; significherebbe
cancellare ogni distinzione fra il fisiologico e il patologico …. Classificare il reato tra i
fenomeni della sociologica normale non significa soltanto dire che esso è un fenomeno
inevitabile, benchè increscioso, dovuto all’incorreggibile cattiveria degli uomini; ma
significa anche affermare che esso è un fattore della salute pubblica, una parte
integrante di ogni società sana”. (E. Durkeim, Le regole del metodo sociologico,
Edizioni Comunità, Torino, p. 72).
La criminalità, peraltro, non presenta elementi costanti ma presenta forme caratteristiche
proprie di quella società ed in tal senso quel reato è “normale” nel contesto
di quella società. In altre parole, il reato è “normale” perché in ogni società esso è una
condotta che presenta caratteristiche generali a cui si riferisce. Ad esempio, la criminalità
mafiosa siciliana presenta connotati ben specifici, noti alla società siciliana ma
tendenzialmente diversi da quelli della criminalità pur presente in Toscana od in Veneto.
Perché Durkeim definisce “utile” la criminalità?
Quello che a prima vista sembra un paradosso costituisce in realtà il risultato
dell’osservazione logica della società: ogni forma di criminalità costringe la società ad un
cambiamento, non fosse altro per adeguare le proprie difese rispetto alla criminalità, si da
risultare addirittura “necessario” in quanto foriero di mutamenti sociali che costituiscono
comunque un progresso.
Alla luce delle proprie riflessioni di carattere sociologico, Durkeim arriva a concludere
che: “Contrariamente alle idee correnti, il criminale non appare più come un essere
radicalmente non-socievole, una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non
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assimilabile introdotto in seno alla società; egli è invece un agente regolare della vita
sociale”.
Se, dunque, il reato non è una malattia e la pena non ne è la cura, la pena non può avere
come scopo la guarigione del criminale; la sua funzione va ricercata altrove.
ANOMIA E DEVIANZA.
L’analisi sociologica di Durkeim introduce tre concetti innovativi, quali coscienza
collettiva, solidarietà meccanica e solidarietà organica.
Con l’espressione “coscienza collettiva” Durkeim intende l’insieme delle convinzioni,
delle credenze e dei sentimenti che costituiscono patrimonio comune alla media dei
membri di una medesima società.
Il fulcro della concezione di Durkeim, infatti, è una visione non conflittuale e non
contrattualistica della società, poiché il fondamento della società non è dato dal conflitto
né da un contratto, bensì dalle regole: norme e valori regolano e determinano il
comportamento umano.
Inizialmente Durkeim, nell’opera “La divisione del lavoro sociale”, sostiene che il
passaggio alla società tradizionale alla società industriale abbia comportato anche il
subentro di una “solidarietà organica”: individui che svolgono funzioni diverse tra loro
hanno però bisogno gli uni degli altri per raggiungere gli obiettivi comuni, così come le
diverse membra di un unico corpo. Non, dunque, le regole, bensì la necessità.
Successivamente, preso atto di come anche nella società industriale esistano degli spazi
di anomia, Durkeim precisa che anche per il buon funzionamento della moderna società
é necessario un sistema di valori e di regole, presupposto per la coesione sociale.
Abbiamo parlato di “anomia”, termine che, letteralmente, significa “assenza di norme”.
Il termine fu coniato da Durkheim nel suo studio “Il suicidio” del 1897 per identificare
quello stato di tensione e smarrimento che affliggerebbe l’individuo qualora posto in un
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contesto sociale debole, ossia incapace di proporre norme e valori sociali condivisi e
riconosciuti. Senza la guida della società, delle sue norme e dei suoi valori, l’individuo
non sarebbe in grado di porre un freno alle sue aspettative e ai suoi desideri, cadendo in
uno stato di angoscia e frustrazione di fronte all’impossibilità poi di realizzare le
ambizioni stesse.
Per Durkheim l’anomia rappresenta la causa sociale per eccellenza delle correnti
suicidogene che attraversano le diverse società: infatti, il sociologo di Epinal, la considera
una patologia sociale e non individuale.
L’anomia è un concetto fondamentale in sociologia in quanto rappresenta uno dei primi
tentativi di risalire a cause sociali per fenomeni fino ad allora considerati strettamente
individuali e psicologici quali il suicidio: in tal senso, l’anomia è uno dei primi forti
concetti sociologici espressi attraverso il metodo della sociologia.
* * * * *
3.b ROBERT KING MERTON (Philadelpia, 1910, New York, 2003).
Robert King Merton nasce da una famiglia di immigrati est-europei, in uno dei quartieri
più poveri della città. Consegue la laurea alla Tempe University ed il PHD ad Harvard,
insegnando sociologia alla Columbia University e meritandosi l’appellativo di “Mr.
Sociology” e venendo insignito della “Medaglia nazionale della scienza”. La sua opera
principali è “Teoria e struttura sociale” (Il Mulino, Bologna, 2000).
Egli si premura di comprendere “in che modo alcune strutture sociali esercitino una
pressione ben definita su alcuni membri della società, tanto da indurli ad una condotta
non conformista, anziché ad una conformista. Se ci sarà possibile individuare gruppi che
siano soggetti in modo particolare a tali pressioni, potremo aspettarci di rinvenire in
questi gruppi un grado piuttosto alto di comportamento deviante, non perché gli esseri
umani che compongono questi gruppi abbiano tendenze biologiche speciali, ma perché
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essi reagiscono in modo normale alla situazione sociale in cui si trovano. La nostra è
una prospettiva sociologica” (citato in Curti, Criminologia e sociologia della devianza,
op. cit. p. 143-144).
Merton va alla ricerca delle cause del comportamento deviante e giunge alla conclusione
per cui “il comportamento aberrante possa essere considerato, sociologicamente, come
un sintomo della dissociazione fra le aspirazioni che vengono prescritte culturalmente e
le vie strutturate per la realizzazione di queste aspirazioni” (ivi, p. 145).
Il nostro Autore prosegue evidenziando come l’individuo, stimolato dalla società a
raggiungere determinati obiettivi, tende ad utilizzare il procedimento che si mostra più
efficace tecnicamente, preferendolo alla condotta prescritta dall’ordinamento. Il
protrarsi di questa tendenza porta ad un rafforzamento dell’anomia teorizzata da
Durkeim, poiché l’efficacia delle norme istituzionali è inversamente proporzionale
alla forza di attrazione del metodo empirico più efficace.
Un esempio nell’ambito sportivo viene descritto da Merton. Quando il fine della vittoria
viene spogliato dei suoi accessori istituzionali, ed il successo viene fatto consistere
semplicemente nel vincere la competizione anziché “vincere secondo le regole del gioco”,
implicitamente si viene a premiare l’uso di mezzi che sono tecnicamente efficienti
sebbene illegittimi, come nel caso del calciatore che simula un fallo da rigore per indurre
l’arbitro a concederlo.
Merton, quindi, pone l’attenzione sui tipi di adattamento ai valori culturali, economici
e sociali da parte di persone aventi posizioni diverse nella struttura sociale, a seconda che
dell’accettazione o meno degli obiettivi, delle mete proposte dalla società e dei mezzi
istituzionalizzati per il loro conseguimento: conformità, innovazione, ritualismo,
rinuncia, ribellione.
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- conformità: i soggetti accettano le mete culturali proposte dalla società ed i mezzi
istituzionali; é la risposta tipica in una società stabile, ove le persone generalmente
condividono i valori e le mete culturali proposte, nonché i mezzi istituzionalmente
indicati per il loro raggiungimento.
- innovazione: accettazione delle mete culturali ma rifiuto dei mezzi istituzionali; questo
adattamento si verifica attraverso l’uso di mezzi istituzionalmente proibiti ma spesso
efficaci per raggiungere almeno un simulacro di successo. E’ frequente in una società che
conferisce grande merito alla prosperità economica ed all’ascesa economia promettendola
a tutti i suoi membri, ma è rigida rendendo difficile l’ascesa sociale.
- ritualismo: rifiuto delle mete culturali, ma assuefazione ai mezzi istituzionali; si verifica
allorchè le persone rinunciano a “farsi avanti”, a perseguire gli obiettivi indicati ma ciò
nonostante continuano a seguire le regole (“io mi accontento di quello che ho”).
- rinuncia: rifiuto delle mete culturali e conseguentemente anche dei mezzi istituzionali;
i protagonisti di questo adattamento sono spesso degli estranei alla società, hanno
abbandonato le mete culturalmente prescritte ed il loro comportamento non si accorda
alle norme istituzionali.
- ribellione: rifiuto dei valori dominanti e sostituzione con nuovi valori; questo
adattamento porta i protagonisti fuori dalla struttura sociale che li circonda, spingendoli
a cercare di porre in essere una struttura sociale nuova.
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CAPITOLO QUARTO
LA SCUOLA DI CHICAGO E LA SOCIOLOGIA URBANA
Sin dal 1892 l’Università di Chicago, su impulso di Albion Small, istituisce - prima al
mondo - un Dipartimento di sociologia, sulla spinta del successo che questa nuova scienza
andava riscuotendo in Europa ma anche negli U.S.A.
Fra gli anni Venti e Trenta del Novecento un gruppo di sociologi che operano all’interno
di questa Università promuove un metodo di ricerca innovativo, fondato essenzialmente
sull’osservazione diretta della realtà delle strade, “marciando con la città e nella città”,
dando vita alla cd. “Sociologia urbana”. Proprio “La città” è il nome della loro opera
principe che nel 1925 va a riassumere una serie di saggi già pubblicati, divenendo un
classico della sociologia.
Tra i principali studiosi della Scuola di Chicago va annoverato lo statunitense Robert
Ezra Park (Harveyville 1864 - Nashville 1944), che dopo la laurea in filosofia insegnerà
all’Università di Chicago lavorando insieme ai sociologi canadesi Ernest Watson
Burgess (Tilbury 1886 – 1966) e Roderick McKenzie (Carman 1885 - 1940)
I ricercatori, che danno vita alla cd. “Scuola di Chicago”, applicano una sociologia
empirica, seguendo una teoria ecologica che propugna l’esistenza di un rapporto di
interdipendenza fra i soggetti e l’ambiente naturale spazio – temporale e non solo fisico.
Proprio perché la città è il luogo privilegiato della loro osservazione, essi affrontano le
questioni legate alla mobilità, al conflitto ed al controllo sociale, al disordine delle
organizzazioni sociali.
In particolare, infatti, la personalità dei soggetti va studiata con riferimento al rapporto
con la famiglia, il vicinato, la comunità, ambiti sociali che svolgono un ruolo
fondamentale tanto da far affermare: “la delinquenza è in un certo senso la misura del
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mancato funzionamento delle organizzazioni nella nostra comunità” (Park, Burgess,
Mckenzie, “La città”, Edizioni di comunità, Milano, p. 4).
L’uomo allo stato naturale e selvaggio è inadatto all’ordine sociale in cui nasce; i
suoi impulsi sono contrari alle richieste ed alle regole della società, tanto che egli trascorre
la propria infanzia apprendendo quelle regole alle quali, viceversa, nella propria gioventù
si ribellerà. Acquisita la maturità, solitamente si adatterà all’ordine sociale per un senso
di responsabilità che gli deriva da obblighi famigliari (“devo mantenere la famiglia e,
quindi, non posso permettermi il lusso di essere un ribelle”) senza per questo
condividerne sempre valori e regole.
La personalità (questo è il termine che usa la Scuola di Chicago) dell’individuo reagisce
all’ambiente sociale, agli stimoli che lo permeano e lo circondano.
Reagiamo in primis agli stimoli del nostro corpo, si pensi alle sensazioni di inadeguatezza
che taluno prova nel confronto con altri consimili, così come reagiamo agli input della
famiglia, che ci permea di valori e di regole diverse da famiglia a famiglia.
Tuttavia non è nella famiglia, solitamente, che emerge un indirizzo verso la delinquenza,
bensì nel vicinato e, ancor più, nella comunità più vasta.
Le organizzazioni sociali al di sopra della famiglia sono le responsabili della delinquenza,
che è per l’appunto un problema del gruppo e non dell’individuo, al punto che per tentare
di riformare il comportamento delinquenziale dell’individuo si dovrà trovare un
ambiente ed un gruppo in cui egli possa vivere condividendone regole e valori,
elaborando un progetto di vita che gli consenta di realizzare i propri desideri, come
mira a fare qualunque essere umano.
Rilevante importanza viene attribuita ai luoghi di svago, intesi come luogo dove i bambini
non solo socializzano e creano associazioni permanenti, gruppi di gioco collegati con
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istituzioni dirette alla formazione del carattere (scuola, Chiesa, istituzioni locali) che li
tengano lontani dalle bande criminali.
* * * * *
4.a EDWIN HARDIN SUTHERLAND: LA CRIMINALITA’ DEI COLLETTI
BIANCHI.
L’opera di Edwin Hardin Sutherland (Gibbon 1883 – Bloomington 1950) si inserisce nel
filone più maturo della Scuola di Chicago.
E’ stato anch’egli Professore all’Università di Chicago, dove ha lavorato sui collegamenti
fra la criminalità e la condizione sociale e reddituale dei delinquenti, ponendo per primo
la questione della cd. “criminalità dei colletti bianchi”.
Sino a quel momento, infatti, veniva data per scontata l’esistenza di un nesso eziologico
fra povertà e criminalità, considerandosi invece il delitto commesso da una persona
abbiente come fenomeno del tutto occasionale.
In realtà, prima di Sutherland la criminologia non aveva svolto alcuna ricerca su settori
della società quali l’imprenditoria ed il mondo delle professioni, che egli – con una
intuizione destinata ad entrare nell’uso comune - definisce “colletti bianchi”, con
riferimento ai colli inamidati delle loro camicie.
Il metodo di ricerca elaborato da Sutherland consiste nello studio delle teorie su un
determinato fenomeno, nella formulazione di ipotesi e nella verifica delle stesse
attraverso l’analisi di casi concreti.
Proprio attraverso la ricerca sul “ladro professionale” Sutherland arriva a ritenere che non
si diventi ladro per desiderio o bisogno, ossia per una finalità edonistica, bensì perché
“istruiti personalmente e direttamente da coloro che sono già ladri” (Sutherland “The
professional thief: by a professional thief”, University of Chicago, Chicago, 1956), così
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come oggi, per usare un linguaggio giornalistico, si ritiene che il carcere costituisca una
sorta di “università del crimine”.
Sutherland amplia l’ambito di indagine tradizionale della Scuola di Chicago e va ad
indagare non solo l’ambiente degradato ove matura la professionalità delinquenziale, ma
anche gli ambienti delle classi superiori che certamente non erano esenti dalla criminalità
ma rispetto ai quali non erano state elaborate statistiche significative.
Non vi è dubbio in ordine al fatto che le stime ufficiali evidenzino un’enorme incidenza
dei crimini sulle classi sfavorite, arrivando al punto per cui meno del 2% delle persone
condannate a pene detentive appartengono alle classi superiori; ma, per l’appunto, le
statistiche riportano solo ciò su cui si va ad indagare, non necessariamente la realtà
completa!
Sostiene invece il nostro Autore che il delinquere non sia strettamente correlato con la
povertà e le condizioni ad essa associate e va a verificare empiricamente tale tesi partendo
dalla constatazione che la delinquenza del colletto bianco è una delinquenza vera e propria
poiché, in ogni caso, è violazione della legge penale.
Differisce tuttavia l’applicazione concreta della norma, generalmente più benevola
verso il “colletto bianco”; l’atteggiamento dei giudici, a parità di condotta, non è eguale
qualora il delinquente appartenga alle classi superiori, sia per una predisposizione
culturale sia per la possibilità dell’accusato “white collar” di garantirsi i migliori
difensori.
* * * * *
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4.b ALBERT KIRCIDEL COHEN: I RAGAZZI DELINQUENTI E LE
SOTTOCULTURE GIOVANILI.
Albert Kircidel Cohen (Boston 1918 – 2014) affronta in particolare la questione della
delinquenza giovanile, stravolgendo i metodi tradizionali che tentavano di rispondere alla
domanda: “perché un ragazzo diventa delinquente?”.
Partendo dall’analisi della realtà che lo circonda, Cohen osserva come, in quel periodo
storico, i ragazzi diventino delinquenti non individualmente bensì in gruppo;
partendo da questa constatazione, Cohen elabora la propria teoria.
Per comprendere la delinquenza giovanile è necessario tenere una prospettiva nuova, che
studi ed analizzi come i vari fattori interagiscano senza escludersi, Cohen individua una
serie di caratteristiche (gratuità, malignità e distruttività) proprie dell’azione delle bande
giovanili delinquenti (baby gang) per arrivare attraverso l’analisi dei dati statistici a
sostenere che il comportamento delinquente sia più diffuso fra i ragazzi maschi
appartenenti alla working class.
Il concetto di “cultura” è riferito all’insieme di cognizioni, credenze, valori, regolamenti,
gusti e pregiudizi che sono tradizionali all’interno di qualche gruppo sociale.
Ma ciascun gruppo sociale ha la propria cultura ed, anzi, all’interno di ciascun gruppo
sociale esistono vari sottogruppi con una propria sottocultura; si pensi ai giovani
fiorentini, che pure essendo inseriti in tale gruppo sono indubbiamente suddivisi in vari
sottogruppi, ciascuno dei quali fa riferimento ad una sottocultura diversa e così via sino
ad arrivare alla famiglia.
Tutte queste sottoculture hanno in comune una cosa: vengono acquisite solo per
interazione con quanti già condividono e incarnano, nel pensiero e nell’azione, il modello
culturale.
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Quando parla di sottocultura delinquente, Cohen si riferisce ad una forma di vita che è
divenuta tradizionale in certi gruppi della società.
“Questi gruppi sono le bande di ragazzi che prosperano nella forma più vistosa entro i
“quartieri della malavita” dei nostri maggiori centri urbani. Col passare degli anni
alcuni dei membri di queste bande divengono normali cittadini attenentesi alla legge,
altri diventano criminali professionali e adulti, ma la tradizione delinquente è mantenuta
dalle generazioni seguenti” (A.K. Cohen, Ragazzi delinquenti. Una penetrante analisi
sociologica della “cultura” della gang”, Feltrinelli, Milano, pp. 6-7).
La sottocultura delinquente è, come già detto, gratuita, maligna e distruttiva.
Di solito si assume che il ladro rubi spinto dal bisogno, viceversa il rubare della banda
giovanile non mira a soddisfare un bisogno ma è di regola gratuito: si ruba un capo di
vestiario per poi portarlo in un altro negozio e scambiarlo.
Il furto non è motivato da considerazioni razionali; non è una sorta di gioco, anche perché
in un gruppo il rubare è la ricerca di una condizione sociale di rispetto e in un altro gruppo
è una macchia infamante.
Il crimine della baby gang è anche maligno, portando in sé la soddisfazione di battere il
prossimo, di infrangere un tabù. La sottocultura delinquente costituisce un modello di vita
alternativo alle norme della società adulta “rispettabile”, in conflitto con esse.
Altra caratteristica della sottocultura della banda delinquente è l’edonismo immediato:
mete a lunga scadenza, progetti di attività future, attività che richiedono impegno costante
(come lo studio) non destano alcun interesse da parte dei ragazzi componenti la baby
gang.
Cohen, inoltre, osserva l’intolleranza di ogni costrizione, in una difesa estrema
dell’autonomia di gruppo; le relazioni all’interno della banda tendono ad imporsi
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violentemente; quelle con altri gruppi tendono all’indifferenza, all’ostilità od alla
ribellione.
* * * * *
4.c HOWARD SAUL BECKER: OUTSIDERS, REAZIONE SOCIALE E
DEVIANZA NELLA TEORIA DELL’ETICHETTAMENTO.
Howard Saul Becker (Chicago, 1928-) è un sociologo e filosofo statunitense autore del
celebre “Outsiders: studi nella sociologia della devianza”.
Egli esamina tutte le definizioni utilizzate dalla scienza per definire la devianza: la
definizione statistica, quella medico - patologica, ed alcune definizioni sociologiche come
quella di Merton, mettendone via via in luce i limiti.
Becker giunge ad elaborare una propria definizione di devianza che, includendo la
reazione sociale, riesce a superare la “solita” definizione di devianza come disobbedienza
alle norme o mancanza delle stesse ovvero come caratteristica di un atto determinato da
fattori sociali sfavorevoli.
Il nostro Autore prende sì in considerazione le norme che vengono imposte ma dall’altro
lato esamina i processi di giudizio di chi ha imposto le norme sull’outsider e quelli
dell’outsider stesso che rifiuta le norme e/o la legittimità di chi le ha imposte.
Introduce, così, il concetto di processo di etichettamento da parte di alcuni (coloro che
hanno imposto le norme) nei confronti di altri, possibili trasgressori: per l’appunto gli
outsiders, ossia coloro dei quali non si può essere certi che rispettino le norme del gruppo
al quale appartengono.
Il parametro che definisce un comportamento come deviante non è dato solo dalle norme
imposte, ma anche dalla reazione che avrà, di volta in volta, il gruppo sociale che le
ha imposte.
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In altre parole, due persone possono infrangere la medesima norma ma essere giudicate,
rectius etichettate, diversamente (uno come deviante, l’altro invece non deviante) in base
alla diversa reazione che la gente avrà nei loro rispettivi confronti. Un comportamento
è deviante solo allorchè la gente lo etichetta come tale.
Si pensi al differente giudizio espresso nei confronti di colui che guida in stato di ebbrezza
e di colui che, invece, commette un omicidio. Entrambi violano norme di legge ma nel
primo caso si è portati all’indulgenza e quasi a “chiudere un occhio”, a pensare che
l’autore non sia così diverso da noi, mentre nel secondo caso siamo portati a guardare
l’omicida come un outsider.
Tuttavia la persona cui viene attribuita l’etichetta di “outsider” può non accettare la norma
in base alla quale viene giudicata o non ritenere coloro che pretendono di giudicarlo
competenti o legittimati a farlo; il trasgressore della norma può considerare i suoi giudici
come outsiders.
Peraltro una società ha molti gruppi, ciascuno con proprie regole, e ciascun individuo
appartiene simultaneamente a molti gruppi, sì che una persona può infrangere le regole
di un gruppo e rispettare quella di un altro gruppo, al quale pure appartiene.
Alla luce di quanto sopra, la definizione di devianza prende in esame la violazione di una
norma accettata; i gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione
costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone ed
attribuendo loro l’etichetta di outsiders.
La devianza, quindi, non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto
la conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme e sanzioni nei confronti di un
“colpevole”. Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con
successo; un comportamento è deviante quando la gente lo etichetta come tale.
* * * * *
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4.d STANLEY COHEN: MASS MEDIA, PANICO MORALE E CAPRI ESPIATORI.
Stanley Cohen (Johannesburg, 1942 – Londra, 2013) prosegue il lavoro svolto da Becker approfondendo
la teoria della reazione sociale (o dell’etichettamento) utilizzandola come fondamento della propria analisi
del ruolo svolto dai mass media nella moderna società.
S. Cohen osserva come il deviante subisca sì un etichettamento da parte della comunità, tuttavia questa
reazione non è spontanea ma viene fortemente influenzata dai mass media.
Nel momento in cui si verifica un fatto od un comportamento che i mass media ritengono degno della
propria attenzione, o meglio che gli interessi portati dal media richiedono sia oggetto di attenzione, essi
iniziano un’opera di critica che influenza l’opinione pubblica, descrivendo come deviante tale fatto o
comportamento.
Può trattarsi anche di un fatto banale, come il vestirsi in un modo difforme da quello richiesto dalle
“regole”, ma lo schieramento univoco dei media porta la pubblica opinione ad esprimere un giudizio di
devianza.
Tale giudizio, si noti bene, è espresso dal singolo consociato al gruppo; questo suo giudizio, tuttavia, è
davvero libero, frutto di un suo personale convincimento? O piuttosto è il risultato del martellamento dei
media, che descrivono come deviante un certo comportamento?
Pensiamo ad un qualunque fatto di cronaca politica: a seconda dell’orientamento politico del giornale,
telegiornale, social network o sito internet che leggerete od ascolterete, il fatto in esame sarà giudicato
positivamente o negativamente. Conseguentemente, il convincimento del lettore sarà fortemente
influenzato in un senso o nell’altro, soprattutto se il lettore si limita a leggere il titolo e non approfondisce
criticamente il contenuto intero dell’articolo.
Le informazioni che vengono trasmesse dai giornali, telegiornali, social network o siti internet sono a loro
volta influenzate dagli interessi di coloro che gestiscono questi mass media; il giornale di proprietà di un
uomo politico o di un gruppo industriale tenderà immancabilmente a difendere le posizioni di quell’uomo,
di quel gruppo.
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S. Cohen, peraltro, non si limita a studiare la reazione della massa sotto la sollecitazione dei mass media,
ma esamina anche gli effetti sul deviante di un etichettamento così formulato.
Il deviante viene moralmente allontanato al punto da generare un’alienazione dalla società convenzionale.
In gruppo con altri che, nella stessa condizione, vengono etichettati come devianti, vengono individuati
come capri espiatori (“folk devils”) e vengono spinti ad uno stato di panico morale (“moral panics”)
vissuto da loro nei confronti della società e viceversa. Questo, a sua volta, espone il deviante ad ulteriori
sanzioni e ad altri severi atteggiamenti da parte della società ed il sistema ricomincia a girare in una sorta
di macchina stritolatrice.
Di particolare rilevanza è “il modo in cui la situazione è stata inizialmente interpretata e presentata dai
mass media, perché è in questa forma che la maggior parte ottiene un’immagine sia della devianza, sia
dei disastri. Le reazioni avvengono sula base di queste immagini elaborate o codificate: le persone
diventano indignate o arrabbiate, formulano teorie e piani, ne parlano tra loro scrivono lettere ai
giornali” (S. Cohen, “Folk Devils e Moral Panics. The creation of mods ance Rockers”, Routledge,
London and NY, p. 24)
La comunicazione delle informazioni dipende da potere simbolico di parole o immagini; si pensi a come
un semplice nome di luogo, quale Hiroshima, possa generare raccapriccio nel momento in cui viene
accostato ai rischi di un’azione di governo!
* * * * *
4.e GRESHAM SYKES E DAVID MATZA: LE TECNICHE DI
NEUTRALIZZAZIONE.
Gresham Sykes (Plainfield, 1922 – Charlottesville, 2010) e David Matza (New York 1930 - ) pubblicano
nel 1957 sulla rivista American Sociological Review un articolo (“Techniques of neutralization: A theory
of delinquency”) con il quale prendono in esame le tecniche di neutralizzazione, ossia le giustificazioni
attraverso le quali il criminale nega, giustifica o trova comunque scuse per legittimare a se stesso il
proprio comportamento. Si tratta, peraltro, di giustificazioni che il sistema legale e la società in generale
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non ritengono valide, ma vengono artatamente create dal criminale per fronteggiare la società e tutelare il
proprio ruolo all’interno del gruppo di riferimento.
Se, da un lato, appare evidente il richiamo all’opera di Stanley Cohen, in particolare ai suoi stati di
diniego/negazione, tuttavia l’opera di questi due autori presenta caratteri decisamente innovativi
nell’interpretazione del comportamento criminale.
Le tecniche di neutralizzazione classificate da Sykes e Matza sono cinque:
a) la negazione di responsabilità;
b) la negazione delle lesioni;
c) la negazione delle vittima;
d) la condanna di chi condanna;
e) il richiamo a lealtà più alte.
a) La negazione di responsabilità.
Una prima tecnica di neutralizzazione è la negazione della responsabilità: “non sono stato io” o, ancora,
“non intendevo farlo, è stato un incidente”; il criminale tenta di definirsi come privo di responsabilità per
le proprie azioni devianti, conscio che la propria disapprovazione o quella altrui sarebbero grandemente
scemate.
Tale tecnica di neutralizzazione presenta però altre sfumature: si arriva ad affermare che “gli atti
delinquenziali sono causati da forze al di fuori dell’individuo e al di là del suo controllo, si tratti di genitori
poco amorevoli, cattive compagnie o un quartiere malfamato” (G.M. Sykes, D. Matza, Techniques of
neutralization: A theory of delinquency, in “American Sociological Review”, 1957, 22, p. 667).
Il delinquente si propone come una sorta di palla da biliardo colpita da fattori esterni che la spingono
laddove altri decidono. “Imparando a vedere se stesso come agito piuttosto che agente, il delinquente si
spiana la strada verso la devianza dal sistema normativo dominante senza la necessità di un attacco
diretto alle norme stesse” (ibidem, p. 667).
b) La negazione delle lesioni.
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La negazione delle lesioni consiste nella negazione dei danni causati dall’atto deviante: “non ho fatto del
male sul serio a nessuno!”.
L’atto vandalico, ad esempio, può essere visto come una burlata (“tanto quello è ricco, se anche gli sfascio
la porta di casa se lo può permettere”) e la rissa fra gang può essere considerata una lite privata fra
consenzienti, quindi priva di interesse per la comunità.
Il criminale, in questa situazione, riconosce che la propria azione sia contra legem ma ritiene che non causi
alcun danno di rilievo, scardinando così il legame tra i propri atti e le conseguenze.
Giova annotare come questa causa di giustificazione sia largamente praticata nella società: si pensi alle
assenze scolastiche ingiustificate od al consumo di droghe leggere.
c) La negazione della vittima.
Con questa tecnica di neutralizzazione il delinquente accetta la responsabilità delle sue azioni (“sì, l’ho
fatto io”) ed è anche disposto ad ammettere che le sue azioni devianti comportino una lesione (“ti ho fatto
male”), ma tenta di neutralizzare l’indignazione morale propria o altrui sostenendo che l’offesa non sia
stata ingiusta alla luce delle circostanze, trattandosi in realtà di una giusta ritorsione o punizione:
“dovevano prendere loro!”.
Con questo sottile espediente, il delinquente si pone come un vendicatore e la vittima viene trasformata in
trasgressore. Nella storia, ricordiamo i casi di saccheggio dei negozi degli ebrei, definiti “usurai” dalla
propaganda nazista, o le aggressioni agli omosessuali giustificate dal delinquenti sulla base di un giudizio
morale.
Il criminale deviante può anche suscitare simpatia (ricordate Robin Hood, che nell’immaginario collettivo
rubava ai ricchi per dare ai poveri?) spingendo la vittima verso la riprovazione sociale in quanto a sua volta
trasgressore.
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d) La condanna di chi condanna.
Una quarta tecnica di neutralizzazione è quella volta alla condanna degli accusatori. Il delinquente sposta
l’attenzione dalle proprie azioni alle motivazioni degli accusatori, che sono ipocriti, devianti sotto mentite
spoglie o spinti da rancore personale: “ce l’hanno tutti con me”.
Un simile atteggiamento verso il mondo conformista può divenire di particolare importanza allorchè va a
manifestare disprezzo verso coloro che hanno il compito di esprimere o far rispettarle norme della società
dominante: “i poliziotti sono corrotti”, “gli insegnanti mostrano sempre favoritismi”, “i genitori si sfogano
sempre sui propri figli”.
Applicando questo ragionamento, i risultati della conformità (quali, ad esempio, il successo professionale
od economico) diventano una questione di fortuna e non di rispetto della strada tracciata dalle regole, con
il risultato che per avere successo non serve rispettare le regole.
“Attaccando gli altri, l’illiceità del suo comportamento è più facilmente limitata o, addirittura, persa di
vista” (Ivi, p. 668).
e) Il richiamo a lealtà più alte.
La quinta tecnica di neutralizzazione classificata da Sykes e Matza è quella definita come “il richiamo a
lealtà più alte”.
“Io non l’ho fatto per me stesso”: ecco il riassunto della causa di neutralizzazione.
Il delinquente non necessariamente ripudia gli imperativi del sistema dominante, nonostante egli non li
segua; egli, però, può vedere se stesso come coinvolto in un dilemma che deve essere risolto anche a costo
di violare la legge.
Le norme, dunque, non vengono rifiutate ma violate per dare la precedenza ad altre norme scelte dal
delinquente in nome di una lealtà che reputa prevalente. Egli crede in entrambi i tipi di norme ma si trova
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dinanzi ad un conflitto fra i due sistemi e conseguentemente il suo diventa un dilemma che provoca in lui
un conflitto di ruolo che risolve stabilendo una graduatoria di valore più che di tipologia delle norme.
* * * * *
Nel 1969 David Matza pubblica “Come si diventa devianti” (in Italia edito da Il Mulino, Bologna,
1976), indagando sull’aspetto deterministico (disorganizzazione sociale) presente nella teoria della Scuola
di Chicago, la teoria dell’associazione differenziale di Sutherland e quella dell’etichettamento di Becker
o, meglio, di utilizzarle come base di partenza per elaborare la propria teoria che chiama “naturalismo”.
I tre modi principali individuati da Matza per divenire devianti sono l’affinità, l’affiliazione e la
significazione.
Se i primi due modi presentano caratteri intuitivi (affinità = condivisione del modus operandi e degli
obiettivi del gruppo deviante; affiliazione = cooptazione da parte del gruppo deviante), la significazione
presenta caratteri decisamente inesplorati.
La significazione comporta indubbiamente etichettamento (= definiti, classificati), ossia le persone
vengono suddivise in categorie e “degradate” socialmente, ma comporta anche un simboleggiamento,
ossia una elevazione a simbolo: essere significato come “ladro” non assicura la continuazione di tale
attività ma accresce l’importanza del furto nella vita di chi lo ha perpetrato e accresce il significato di quella
persona agli occhi degli altri. Colui che viene significato come ladro non è più un individuo che, fra le altre
cose, ha commesso un furto ma diviene il paradigma stesso del furto, simboleggia il furto.
Inoltre quando l’individuo viene etichettato come ladro, ciò porta a favorire e ad accelerare il processo del
divenire proprio quella cosa (ladro); il sistema porta a confondere ciò che l’uomo significato é con quello
che egli fa.
* * * * *
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CAPITOLO QUINTO
LA NUOVA CRIMINOLOGIA MARXISTA
L’interpretazione marxista classica vedeva il la criminalità come il risultato della società capitalistica, che
portava il proletario all’emarginazione e, conseguentemente, al crimine.
In Inghilterra, alla National Deviance Conference, Ian Taylor, Paul Walton e Jock Young introducono il
concetto di devianza come fatto sociale utile e normale sia dal punto di vista del soggetto che da quello
della società: il comportamento deviante è una scelta cosciente del singolo messo di fronte al disagio ed
ai conflitti sociali.
La devianza è un fatto sociale che non va criminalizzato dalle istituzioni, pena l’incorrere anche da parte
di questi ultimi in crimini contro i diritti umani.
Alla base della criminalità vi sono i “rapporti che legano l’uomo alle strutture del potere, del dominio e
dell’autorità e, quindi, a quello della capacità, da parte dell’uomo, di opporsi a tali strutture mediante
manifestazioni di criminalità, devianza e dissenso” (I. Taylor, P. Walton, J. Young, “Criminologia sotto
accusa. Devianza o ineguaglianza sociale?”, opera del 1973, pubblicato in Italia per i tipi di Guaraldi,
Firenze, 1975, p. 420).
Dunque il comportamento deviante va valutato in chiave politica o, meglio, in una lettura di economia
politica, che riconosce e nobilita tale comportamento nella misura in cui è funzionale a scardinare
il sistema imposto dalle classi dominanti in un contesto globale industrializzato.
La New Criminology critica l’impostazione positivistica in quanto incapace di render conto dei
un’economia politica della criminalità (il sottofondo dell’azione criminale) ma altresì della reazione della
società di fronte alla devianza, vedendo invece l’individuo come un atomo isolato dalla società della quale
non subisce particolari influssi.
Viceversa, osservano, la devianza è normale non nel senso indicato da Durkeim (come tratto ontologico
dell’essere umano) bensì in quanto ci sono uomini impegnati ad affermare la propria diversità umana. “Il
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compito è quello di creare una società nella quale il fatto che esista una diversità umana – sia essa
personale, organica o sociale – non sia passibile di criminalizzazione da parte del potere” (ivi, p. 443).
* * * * *
5.a ALESSANDRO BARATTA: CRIMINOLOGIA CRITICA E CRITICA DEL
DIRITTO PENALE.
Lo studio della criminologia marxista in Italia trova un punto di partenza negli scritti di
Alessandro Baratta (Roma, 1933 – Saarbrucken, 2002), in particolare nel libro
“Criminologia critica e critica del diritto penale” (il Mulino, Bologna, 1982) con cui
ripropone una revisione della formazione e dell’applicazione del diritto penale, nonché
dei rapporti di questo con la struttura economica e sociale.
L’opera di Baratta vede il superamento del diritto penale e la contestuale
affermazione di una politica criminale alternativa come la realizzazione della massima
marxista “da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Scrive Baratta: “è la società diseguale quella che teme e reprime il diverso, perché la
repressione del diverso, in tutti i sistemi normativi particolari in cui essa avviene, dal
diritto alla religione, alla scuola, alla famiglia, è una tecnica essenziale per la
conservazione della diseguaglianza e del potere alienato. Ecco perché quanto più una
società è diseguale tanto più pesante è l’inflazione delle definizioni negative di devianza”
(“Criminologia critica e critica del diritto penale” il Mulino, Bologna, 1982, p. 210).
Baratta si premura di elaborare una politica criminale delle classi subalterne attraverso
quattro indicazioni strategiche.
a) Una prima indicazione è quella della necessità di una interpretazione separata dei
fenomeni di comportamento sociale negativo che si riscontrano nelle classi
subalterne e di quelli che si riscontrano nelle class/i dominanti (criminalità
economica, criminalità dei detentori del potere, grande criminalità organizzata).
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I comportamenti devianti delle classi separate sono espressione delle contraddizioni che
caratterizzano la dinamica dei rapporti di produzione e di distribuzione; il comportamento
deviante costituisce, per la maggior parte dei casi, una risposta individuale e politicamente
inadeguata a quelle contraddizioni da parte di individui socialmente svantaggiati.
I comportamenti devianti delle classi dominanti vanno invece valutati alla luce del loro
rapporto con il potere, finalizzati all’accumulazione del capitale.
Sorge quindi la necessità di una distinzione fra politica penale e politica criminale,
intendendo la prima come risposta al crimine fondata sulla regolamentazione,
l’applicazione del diritto penale e la seconda quale politica di trasformazione sociale e
istituzionale, volta a creare una società nuova in grado di superare le diseguaglianze
sociali, cristallizzate dal diritto penale vigente, e, conseguentemente, il crimine.
b) Qualificato il diritto penale vigente come diritto diseguale, Baratta trae due
conseguenze: da un lato la necessità di allargare la tutela penale ad ambiti prima poco
considerati; dall’altro la necessità di una robusta depenalizzazione.
Il primo profilo considerato da Baratta porta la tutela penale a campi che sono divenuti
assai rilevanti nella vita dei singoli e dell’intera comunità, quali la salute, la sicurezza sul
lavoro, la sicurezza ambientale. Cosi facendo si avvia una reazione delle Istituzioni non
solo verso il singolo atto criminale ma contro la criminalità organizzata, i corpi deviati
dello Stato, la criminalità finanziaria ed economica, dovendo altresì garantire una
rappresentanza processuale.
A fronte di una maggiore tutela da garantire agli interessi collettivi, Baratta ritiene
necessario avviare una drastica depenalizzazione, ossia un’eliminazione di tutte quelle
norme incriminatrici espressione di una concezione autoritaria dello Stato che mira a
tenere soggiogate le classi subalterne. Si tratta, sempre secondo l’Autore, di alleggerire
la pressione del sistema punitivo eliminando reati che non tutelano interessi diffusi ma
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interessi che vengono messi in discussione: via taluni reati contro la moralità pubblica,
contro la personalità dello Stato, via il reato di aborto.
La conseguenza di questa depenalizzazione significa principalmente l’apertura di
maggiori spazi di accettazione sociale della devianza; meno reati = meno divieti = meno
devianti rispetto a regole ridotte.
c) La terza indicazione strategica è relativa alla presa d’atto del fallimento, storicamente
conclamato, del carcere quale mezzo per il controllo del crimine e del reinserimento del
deviante nella società. In altre parole, il carcere non redime e non serve a ridurre il crimine
ma, viceversa, porta alla frantumazione di quelle fasce marginali della classe operaia che
non hanno possibilità di affrancarsi dalla situazione di degrado.
Di fronte a questo fallimento, è necessario perseguire l’obiettivo di “abbattere le mura del
carcere”, attraverso un percorso graduale che preveda l’ampliamento delle forme di
sospensione condizionale della pena, l’introduzione di forme di esecuzione della pena
detentiva in regime di semilibertà, l’estensione dei permessi, la rivalutazione del lavoro
carcerario. Soprattutto è importante l’apertura del carcere verso la società (e viceversa),
attraverso la collaborazione dell’Istituzione carcere con gli Enti locali e dei detenuti e
delle loro organizzazioni con quelle dei movimenti operai al fine di reinserire il
condannato all’interno della classe operaia e, attraverso l’antagonismo di classe, nella
società.
d) Da ultimo, all’interno di una strategia politico-criminale radicalmente alternativa, deve
attribuirsi grande rilevanza all’opinione pubblica che si nutre di stereotipi circa il concetto
di criminalità.
L’opinione pubblica è portatrice dell’ideologia dominante che legittima il sistema penale
attuale e crea allarme sociale, che in momenti di crisi del sistema di potere è funzionale a
legittimare campagne normative di “legge ed ordine” capaci di perpetuare lo status quo.
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E’ così evidente il danno delle classi subalterne, cui viene inibita quella devianza che si
considera legittima per sovvertire l’attuale sistema attraverso la lotta di classe.
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CAPITOLO SESTO
LA PAURA DELLA CRIMINALITA’
E L’INSICUREZZA SOCIALE
Nella Storia la “questione criminale”, ossia la necessità di far osservare la legge e, quindi,
di perseguire i criminali, ha rivestito un ruolo limitato nell’ambito dell’azione dei
governanti. Il rispetto della legge era, infatti, funzionale alla salvaguardia del potere del
Re o comunque della fazione dominante.
Nel corso dell’era moderna la tutela della sicurezza dinanzi alla criminalità (ma spesso
anche dinanzi alla semplice devianza) acquisisce centralità nelle politiche di
governo, in considerazione del fatto che sconvolgimenti sociali - quali la Rivoluzione
francese - hanno introdotto nella vita quotidiana un disordine generalizzato che ha
ingenerato una crescente richiesta di ordine e sicurezza. Si pensi, ad esempio, come
l’ascesa del regime fascista sia stata possibile grazie alla compiacenza della borghesia
che, di fronte ai continui tumulti e scioperi del primo dopoguerra, ha spinto il Re a non
ostacolare la marcia su Roma e la conseguente presa del potere da parte di Mussolini il
quale ha introdotto leggi liberticide al fine di porre fine non solo alle violazioni di legge
(crimini) ma anche ad ogni atto di devianza quali gli scioperi ripetuti ed il dissenso
politico.
Oggi, addirittura, l’efficacia dell’azione di un governo viene misurata principalmente
proprio sui risultati dell’azione di tutela della sicurezza; il governo sarà giudicato
positivamente in quanto riesce a garantire la sicurezza, a porre fine alle incertezze ed alle
paure provocate dalle sfide contemporanee.
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Posto questo semplicistico excursus, andremo ora a sviscerare e comprendere appieno
alcuni concetti quali “paura della criminalità” e “sicurezza” per inserirli in uno studio
organico delle attuali politiche sul punto.
6.a MICHEL FOUCAULT: IL MECCANISMO DELLA SICUREZZA.
Un importante approccio sistematico alla “questione sicurezza” è dato dall’opera di
Michel Foucault (Poitiers, 1926 – Parigi, 1984), storico e filosofo che nell’anno
accademico 1977-1978 tiene al College de France un corso dal titolo “Sicurezza,
territorio e popolazione”.
Egli teorizza il concetto di “dispositivo di sicurezza”, inteso come meccanismo che
analizza la probabilità del crimine, con l’eventualità della pericolosità, introducendo un
nuovo elemento sistematico: la popolazione.
Mentre il meccanismo della sovranità si esercita sul territorio (es.: la difesa dei confini) e
quello disciplinare sul corpo dei soggetti (es.: le tecniche penitenziarie quali i lavori
forzato), il dispositivo di sicurezza si esercita sulla popolazione, intesa come soggetto
proprio e non come insieme di individui.
Innanzitutto Foucault vuole rispondere ad una domanda: che cosa si intende per
“sicurezza”? Come tale concetto è stato declinato nel tempo?
Consideriamo una legge penale articolata nella semplice forma del divieto: “non
uccidere”, “non rubare” ed il relativo castigo: l’impiccagione, il bando. E’ il sistema
binario (divieto – pena prefissata).
La medesima situazione può essere modulata affiancando alla previsione astratta di una
pena una serie di sorveglianze, controlli, divisioni spaziali che permettono di capire,
prima che accada il fatto, se il ladro ruberà; sono le cd. tecniche di sorveglianza e le
tecniche penitenziarie quali la moralizzazione, la correzione, ecc…
Questo era l’approccio tradizionale sedimentatosi nel tempo.
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Una terza modulazione, il dispositivo di sicurezza, viene introdotta conservando il
sistema binario e le tecniche di sorveglianza, ma la loro applicazione viene dettata da
questioni quali: “Qual è il tasso medio di criminalità per questo tipo di reati?”
Dunque il dispositivo di sicurezza inserisce innanzitutto il furto (o altro fenomeno)
all’interno di una serie di eventi probabili, per poi inserire la reazione del potere a tale
fenomeno in un calcolo dei costi. Infine, “invece di instaurare una divisione binaria fra
ciò che è permesso e ciò che è vietato, determinerà una media considerata ottimale e poi
fisserà i limiti dell’accettabile, oltre i quali il fenomeno non dovrà più accadere”.
Illuminante è l’esempio relativo ad alcune gravi epidemie.
Sino al Medioevo vigeva un rigido apparato giuridico che prevedeva ed attuava
l’esclusione dei lebbrosi, dividendo sic et simpliciter chi era lebbroso da chi non lo era:
ai primi era vietato avvicinarsi alle città, venendo esclusi dalla realtà sociale.
Nel basso Medioevo, di fronte alle ripetute epidemie di peste, i regolamenti seguono
obiettivi diversi e si avvalgono di altri strumenti: suddividono il territorio di una regione
o di una città colpita dalla peste e lo sottomettono ad una regolamentazione che indica
agli abitanti i comportamenti da seguire, l’alimentazione consentita, l’obbligo di
presentarsi di fronte agli ispettori. Un tipico sistema disciplinare.
A partire dal XVIII secolo, per combattere il vaiolo viene introdotto un sistema
innovativo: l’inoculazione. Non viene imposta l’esclusione come nel caso della lebbra,
né la quarantena come nel caso della peste; si cerca di arrestare il fenomeno attraverso
una campagna medica portata sull’intera popolazione, nel tentativo di prevenire su basi
statistiche l’epidemia.
Questo terzo sistema può essere paragonato il dispositivo di sicurezza: non elimina il
fenomeno, ma lo può ridurre a termini che la società può considerare “fisiologici”,
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trascurando di investire risorse finanziarie ed umane per combatterlo in ogni sua
minima manifestazione.
Nelle nostre società, secondo Foucault, l’economia generale del potere si sta
trasformando all’insegna della sicurezza, dominata dalla relativa tecnologia. Oggi non si
tratta più di definire e proteggere i confini del territorio ma, viceversa, di consentire le
circolazioni, controllarle, distinguere le buone dalle cattive, favorire senza interruzione
gli spostamenti ma in modo tale che i pericoli inerenti a questa circolazione siano
annullati; non più la sicurezza del principe e del suo territorio, ma la sicurezza della
popolazione (e, di conseguenza, di chi la governa).
Foucault, in sostanza, pone un dubbio che negli anni successivi si manifesterà in forma
esponenziale: l’individuo può rinunciare ad alcune sue prerogative conquistate a suon di
lotte imponenti (si pensi alla riservatezza, finanche alla libertà) in nome della sicurezza
della popolazione?
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CAPITOLO SETTIMO
LA CORRELAZIONE FRA LA CRIMINALITA’
E LA PERCEZIONE DELLA SICUREZZA
La sicurezza è da sempre ritenuto un valore fondamentale per i cittadini: un tempo era
compito del principe garantire la sicurezza contro gli invasori esterni, il “nemico” ma
oggi quel “nemico” ha connotazioni diverse, non sempre fisiche.
7.a LE RICERCHE STATISTICHE SU CRIMINALITA’ ED INSICUREZZA.
Le ricerche statistiche relative alla paura della criminalità ed all’insicurezza sociale ci
riferiscono un dato sorprendente: la criminalità è in calo od invariata dagli anni Novanta
ad oggi ma la percezione dell’insicurezza è aumentata in misura rilevante. Di fronte alla
diminuzione dei reati, delle denunce, degli arrestati e dei detenuti la percezione della in-
sicurezza è viceversa in aumento; si pensi al successo in termini di ascolto del “genere
criminale” basato sulla narrazione seriale ed il commento da parte degli stessi protagonisti
dei fatti criminali più efferati.
Come si spiega questa apparente contraddizione?
Se da un lato è vero che i parametri di misurazione di tali valori sono diversi ed affinati
nel tempo, sì che i risultati possono essere messi in discussione, è altrettanto vero che le
principali indagini forniscono risultati sostanzialmente sovrapponibili.
Le ricerche di ISTAT, quelle di CENSIS e quelle di Fondazione ICSA forniscono dati
sull’andamento della criminalità, sulle violenze sessuali, sugli atti persecutori (cd:
“stalking”), sulla droga, sulla criminalità organizzata nonché sul rapporto fra sicurezza e
stranieri alla luce de sulla sicurezza dei provvedimenti legislativi. I rapporti di ricerca
dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza affrontano la questione della in-sicurezza nel
confronto fra rappresentazione mediatica dei fenomeni criminali e percezione sociale in
Italia ed in Europa.
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Dobbiamo peraltro precisare come in Italia la percezione della sicurezza non dipenda più
esclusivamente da fattori antropologici quali la criminalità e le ondate di immigrazione
ma si confronti anche con fattori macroeconomici; anche la crisi economica e la
disoccupazione hanno minato dalle fondamenta le Istituzioni e ciò contribuisce a
generare un senso di precarietà, di incertezza nel futuro.
In ultima analisi, ogni aspetto della vita sociale, ma anche del singolo individuo, viene
sottoposta ad un giudizio prognostico che ingenera necessariamente ansie e timori. In
questo panorama la sicurezza non è facilmente percepibile e, forse, nemmeno
raggiungibile nei termini che il progresso sociale ci ha portato ad attendere.
La paura individuale è un fenomeno che coinvolge una elevata percentuale di cittadini:
secondo il rapporto ISTAT 2010 su reati, vittime e percezione della sicurezza, il 28,9%
si sente insicuro quando esce solo ed è buio, mentre l’11,6% non esce mai di casa.
L’insicurezza è più diffusa tra le donne (37,0% contro il 20,1% degli uomini), soprattutto
fra le giovanissime (47,0%); il timore è particolarmente alto per i reati a sfondo sessuale
(38,1%), ma anche per aggressioni o rapine
A livello territoriale tale insicurezza si percepisce maggiormente nelle regioni del sud, in
testa la Campania (41,6%), regione dove tra le donne raggiunge il 47,2% e tra le ragazze
il 60,3%; valori doppi rispetto a quelli registrati in Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta.
La presenza della criminalità condiziona anche i comportamenti dei cittadini, atteso che
il 48,5% dichiara di esserne molto od abbastanza influenzato, con rilevanti differenze fra
uomini e donne che subiscono in maggior misura questo condizionamento. Altrettanto
significativa è l’analisi territoriale, con l’insicurezza che si presenta più elevata nelle
grandi città e nelle loro periferie, al Sud ed in particolare in Campania.
Analizzando i vari reati, la preoccupazione è maggiore con riferimento ai reati di natura
sessuale, di subire un furto in abitazione, un’aggressione od una rapina.
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Il Rapporto CENSIS 2011 riporta una considerazione che pone la percezione
dell’insicurezza in un’ottica che si pone nel solco delle più recenti teorie sociologiche:
“La sicurezza non è mai il frutto del solo lavoro di repressione e di contrasto svolto dalle
forze dell’ordine, ma deve essere sempre accompagnata da attività di prevenzione e di
rafforzamento del legame sociale, che hanno come protagonista la società civile e gli
individui”.
L’encomiabile lavoro svolto dalla Magistratura e dalle forze dell’ordine vale a perseguire
i crimini ma non è sufficiente a prevenirli e, conseguentemente, a rassicurare l’opinione
pubblica sul fronte della sicurezza.
Lo stesso CENSIS (Rapporto 2010) aveva definito l’insicurezza come “il vero virus che
opera nella realtà sociale di questi anni” sia nella dimensione individuale che in quella
collettiva, dando la misura del problema e delle conseguenze che provoca nella
popolazione italiana. La questione sicurezza si dipana in due aspetti: “da una parte si
pensa che l’insicurezza debba essere affrontata dall’alto, con provvedimenti volti a
rassicurare le paure: più leggi e norme in ogni realtà ansiogena; più controllo delle
contingenze economiche e delle slabbrature della convivenza collettiva; più ordine in
tutto; più obblighi e doveri per tutto; dall’altra parte si pensa che bisogna partire dal
basso, accrescendo la capacità, la preparazione, la razionalità, la coscienza dei singoli,
attraverso politiche volte a valorizzare il merito come unico strumento di affermazione
della personalità individuale e di crescita della sua classe dirigente”.
Se in un primo tempo lo scollamento fra i dati reali (diminuzione dei reati) e la percezione
della realtà veniva attribuita alle strategie di comunicazione dei media ed alla presenza
dei migranti, nel pieno della crisi economica il peggioramento della percezione sulla
sicurezza trova fondamento nella carenza di servizi per le famiglie, nel venir meno della
rete sociale di protezione e, soprattutto all’insediamento di immigrati in certe zone delle
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periferie urbane che viene percepito come elemento che compromette la vivibilità del
contesto locale.
Sino al 2013 gli immigrati arrivavano in Italia portando con sé un vero e proprio progetto
esistenziale il che, secondo il CENSIS, deve portare a studiare il metodo migliore per
l’integrazione sociale degli immigrati che manifestano un sorprendente ottimismo nel
futuro.
La questione della sicurezza sociale e della sua percezione è, in tutte le analisi effettuate
dagli Istituti di ricerca, collegata alla presenza degli immigrati che rappresentano il 7,5%
della popolazione italiana.
A questo punto è doverosa una riflessione circa la rappresentazione mediatica della
criminalità.
La nostra televisione è di gran lunga la prima in Europa per presenza di fatti criminosi
non solo nei telegiornali ma anche nelle trasmissioni “di intrattenimento”. RAI 1 ha
trattato 1173 notizie criminose, contro le 444 di Tve, le 353 di France2, le 316 di BBC
One e le 19 di Ard (dato 2011).
Inoltre la criminalità nel telegiornale italiano é distribuita in quasi tutte le giornate
dell’anno, con più di un servizio sull’argomento allorchè siamo di fronte ad un fatto
criminale eclatante.
Questi dati (ma ve n’è un gran numero ulteriore) ci consentono di affermare che i media,
televisione in primis, hanno un potere immenso nel determinare la percezione della in-
sicurezza da parte dell’opinione pubblica.
La realtà è sempre più virtuale ed è sempre più arduo costruire e trasmettere pensieri
razionali che vadano ad indirizzare le scelte politiche del governanti più di quanto
facciano le posizioni indotte dal martellamento mediatico. Anzi, oggi assistiamo al
fenomeno inverso, per cui i partiti politici mirano ad indurre nell’opinione pubblica
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pensieri conformi ai propri interessi e per farlo si servono ormai in misura massiccia del
cd “quarto potere”.
* * * * *
7.b BAUMAN E BECK: FRA MODERNITA’ E POSTMODERNITA’.
Il ruolo dei media è estremamente incisivo nell’orientare la pubblica opinione con
riferimento ai temi della sicurezza e del rischio sociale; ma il ruolo svolto dai media non
è fine a se stesso bensì è necessariamente funzionale alla gestione del consenso e,
quindi, alla gestione del potere. Orientare l’opinione pubblica significa determinare la
formazione del consenso in favore di quella parte politica che avrà saputo interpretare la
sensibilità dell’elettorato con riferimento ai temi della sicurezza, facendone la propria
bandiera.
La crescita esponenziale della paura - anziché della fiducia - del futuro supportata da
campagne mediatiche crea un circolo vizioso dal quale è difficilissimo uscire: la crescita
della paura alimenta la richiesta di misure che garantiscano sicurezza ed il partito politico
che imposta la propria strategia ponendo al primo posto l’adozione di misure volte a
garantirla acquisisce il consenso necessario per gestire il potere.
In altre parole, se la massa è indotta a richiedere sicurezza saprà dare il suo consenso a
quel partito che promette di soddisfare questo suo desiderio.
A partire dagli anni Ottanta alcuni autori hanno iniziato ad approfondire ed indirizzare il
ruolo della politica relativamente alla questione dell’insicurezza, della paura e del rischio.
Zygmunt Bauman (Poznan, 1925 – Leeds 2017) è stato un sociologo polacco di origini
ebraiche, capace di sviluppare il progetto sociologico di modernità e post-modernità, con
particolare attenzione alla fragilità dei legami sociali, all’incertezza, alla paura ed alla
precarietà degli organismi sociali e delle relazioni interpersonali, con conseguente
lacerazione delle reti di protezione quali la comunità familiare ed il vicinato.
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Osserva Bauman come all’aumento della ricchezza di tutti i Paesi europei corrisponda un
aumento della diseguaglianza economica e della paura del futuro; se nella società
moderna a preoccupare era la possibilità di prevedere certi effetti, in quella attuale
preoccupa, al contrario, la loro imprevedibilità.
Nella società moderna era l’ordine ad incutere timore, ora è il disordine. Ad una
società rigidamente ordinata e compressa corrispondeva una reazione che rivendicava il
diritto all’alternativa (si pensi alla ribellione giovanile del maggio ’68 francese, “la
fantasia al potere”), così come alla prospettiva di un disordine sociale corrisponde una
domanda di maggior ordine. Una sorta di pendolo che mai si ferma nel punto di equilibrio
ma oscilla alternativamente ora verso un estremo ora verso l’altro.
Scrive Bauman: “Allorchè si vive in uno stato di continua e insanabile insicurezza, si
provano sensazioni completamente diverse da quelle tipiche di quando l’identità veniva
faticosamente costruita in un mondo impegnato nella costruzione e nel consolidamento
dell’ordine … Con la caduta dell’opposizione tra realtà e simulazione, tra l’essenza della
cosa e la sua rappresentazione, in un certo senso si cancellano anche le differenze tra
la norma e l’anomalia, tra ciò che è conforme alle aspettative e l’imprevisto, tra il
fenomeno ordinario e quello eccentrico, tra il domestico e il selvaggio: tra il noto e
l’ignoto, tra il “noi” e lo “straniero” … Oggi gli stranieri sono indefiniti e mutevoli come
la loro identità; anche a loro, come all’identità, manca un solido punto di appiglio. …
Gli stranieri nell’era moderna sono prodotti marginali (ma anche materia prima da
riciclare) nell’incessante processo di costruzione dell’identità. I prodotti marginali,
ovviamente, si portano addosso le caratteristiche dell’industria, di cui sono i cascami”
(Z. Bauman, “Il disagio della postmodernità”, Bruno Mondadori, Milano, 2002, pp. 26-
31).
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Anche Ulrich Beck (Stolp, 1944 – Monaco di Baviera, 2015) analizza il passaggio dalla
modernità alla postmodernità come una trasfigurazione della medesima società da società
di classe, caratterizzata da diseguaglianze relative al soddisfacimento dei bisogni
materiali, a società del rischio, caratterizzata da situazioni di pericolo, intangibile ed
invisibile. Dalla società di classe si sviluppa una comunità della “solidarietà della
penuria” (noi quaggiù in basso, contrapposti a quelli lassù), mentre dalla società della
paura si sviluppa una “solidarietà della paura” (la classe dei coinvolti nel rischio si
contrappone a quella dei non ancora coinvolti, ma che domani potrebbero esserlo).
Le due esperienze sono in stretto rapporto di interdipendenza: “L’evidenza delle necessità
rimuove dalla coscienza la percezione dei rischi” (U. Beck, “La società del rischio.
Verso una seconda modernità”, Carocci, Roma, 2001, pp. 52-32).
Le diseguaglianze sociali di classe e di rischio possono sovrapporsi, condizionarsi e
prodursi a vicenda.
Nella società del rischio il benessere materiale, ben visibile, viene messo in ombra da
pericoli invisibili. Se, apparentemente, l’invisibile (il rischio) non può competere con il
visibile (l’opulenza), in realtà alla fine è quest’ultimo a prevalere: i rischi che vengono
ignorati, messi in ombra dalla produzione materiale, crescono bene ed in fretta, si pensi
all’industria chimica ed alla tecnologia nucleare che si manifestano allorchè il rischio,
sottovalutato, è diventato ingestibile.
Prosegue Beck: “Garantire lo sviluppo del’economia continua ad essere la priorità più
importante. Si agita lo spauracchio della perdita di posti di lavoro per tenere alti i valori
massimi delle emissioni e ammorbidire i loro controlli, o per far sì che su determinati
residui tossici negli alimenti non si cominci nemmeno ad indagare. … Nello stesso tempo
si affinano gli strumenti con cui si viene a capo dei rischi giocando sula loro definizione,
e si dissotterrano le asce di guerra: quelli che puntano il dito sui rischi sono accusati di
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allarmismo e di essere loro ad inventare i rischi. Si dice che il loro modo di presentarli
“non è provato”, e che le conseguenze paventate per gli uomini e l’ambiente sono
“enormi esagerazioni”. Tutto ciò provoca una crescita del pericolo” (ivi, pp. 58-60).
Questa impostazione provoca una serie di conseguenze sulla politica.
La società di classe aveva quale obiettivo il raggiungimento dell’ideale dell’uguaglianza,
contenendo una quantità di fini sostanziali e positivi (utopistici?) riferiti al cambiamento
della società in senso egualitario, l’utopia della sicurezza rimane peculiarmente negativa
e difensiva: non si tratta di ottenere qualcosa di buono ma di evitare il peggio, di garantire
a tutti di essere risparmiati dai veleni.
Di qui la comunanza della paura.
* * * * *
7.c CERETTI E CORNELLI. OLTRE LA PAURA.
La paura della criminalità e la sicurezza costituiscono uno dei problemi, se non addirittura
“il” problema sociale più diffuso nella società contemporanea, rispetto al quale la politica
assume le decisioni del caso.
Adolfo Ceretti (Milano, 1955-) e Roberto Cornelli (Milano, 1974-) scrivono il saggio
“Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica” (Feltrinelli, Milano,
2013) con il quale enucleano tre posizioni che la politica ha assunto sino ad oggi rispetto
alla paura: a) negare l’esistenza del problema della paura; b) utilizzare la paura per
legittimare le politiche penali e la propria classe dirigente; c) utilizzare la paura per
legittimare scelte volte a rassicurare la popolazione ma che, confondendo spesso la
sicurezza con l’emergenza, non risolvono o non prendono in carico il problema alla radice
limitandosi a soluzioni contingenti.
Queste tre posizioni hanno rivelato nel tempo la propria inadeguatezza e,
conseguentemente, si sono dimostrate fallimentari.
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Ceretti e Cornelli propongono un quarto approccio al problema: la politica
dovrebbe legittimare “percorsi di sicurezza orientati in senso democratico”
finalizzati a realizzare pratiche di vita consustanziali ad un progetto di società che
coniughi in modo inclusivo libertà e ordine.
Va ripensato il concetto di apoliticità (“la sicurezza non è di destra né di sinistra”) in cui
è precipitato il concetto di sicurezza per attribuirgli un senso fondato sul senso di
comunità, sulla fratellanza, sulla responsabilità e la solidarietà sociale.
Oggi la politica penale e criminale è determinata dalla paura, dal dolore, dalla rabbia, dal
disgusto, sentimenti collettivi che generano allarme sociale e giustificano, come detto,
una politica contingente fatta da caratteristiche disumane, restrizioni illiberali e politiche
discriminatorie nel tentativo, illusorio, di essere protetti da tutto e da tutti.
“Homo homini lupus” affermava Hobbes, legittimando così il potere attribuito allo Stato
di limitare la liberta degli uomini in cambio della garanzia di una maggiore sicurezza.
Dobbiamo superare questi condizionamenti, andare “oltre la paura” e far sì che le
politiche penali e criminali siano orientate dal senso di communitas attraverso il
reciproco rispetto che porti ad una società democratica.
In quest’ottica “la criminalità, che per definizione è violenza che minaccia l’ordine, viene
investita di una nuova luce. Non emerge più come problema sociale da affrontare
nel’ambito di un progetto politico-culturale che investe la società nel suo insieme
(com’era il progetto della modernità), bensì come problema individuale che pone
l’individuo solo di fronte alla propria incertezza del vivere quotidiano. Il giudizio penale,
così come le istituzioni in generale, perde la sua valenza simbolica di contenimento della
violenza e del disordine; e lascia sul campo delusione, sfiducia e insicurezza. Priva di un
apparato ideale che le restituisca un senso politico, la criminalità emerge, nella
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percezione diffusa, in tutta la sua potenzialità distruttiva per l’individuo” (R. Cornelli,
“Paura e ordine nella modernità”, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 254-256).
* * * * *
Last but not least
E’ indubbio che la nostra società oggi richieda un maggiore livello di sicurezza.
Se nei regimi totalitari del XX secolo le limitazioni alla libertà personale erano strumenti
occasionali necessari per imporre un potere assoluto stabile, cui seguiva una condizione
di ordine oppressivo, le società contemporanee mantengono costante un livello di
insicurezza sociale tale da garantire loro di poter mantenere il potere.
Gli stati liberali odierni utilizzano la paura già esistente (della criminalità organizzata e
spicciola, dello straniero, ecc…) per ottenere il controllo sociale formalmente
democratico; sono infatti proprio i cittadini a chiedere allo Stato leggi eccezionali
restrittive della libertà per ottenere maggiore sicurezza.
Il delitto perfetto!