Simone Weil e l'Iliade

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Riflessioni sulla guerra Riflessioni sulla guerra tratte dal saggio "L'Iliade poema della tratte dal saggio "L'Iliade poema della forza“ forza“ di Simone Weil

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Sunto a cura di maria Rosa Panté del testo "Iliade poema della forza" di Simone Weil. Una lettura originale e fondamentale del poema di Omero.

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Riflessioni sulla guerraRiflessioni sulla guerra

tratte dal saggio "L'Iliade poema della forza“tratte dal saggio "L'Iliade poema della forza“

di Simone Weil

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Vero eroe, vero argomento, centro dell’”Iliade” è la forza.

L’anima umana appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza. La forza è ciò che rende chiunque vi sia sottomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo essa fa dell’uomo una cosa, nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere.

“… i cavalli

scotevano i vuoti carri sulle vie della guerra,

in lutto dei loro aurighi senza macchia. Essi per terra

giacevano, agli avvoltoi più cari assai che alle spose”

Dal potere di tramutare un uomo in cosa, facendolo morire, procede un altro potere, e molto più prodigioso: quello di mutare in cosa un uomo che resta vivo. È vivo, ha un’anima: e nondimeno è una cosa. L’anima non è fatta per abitare una cosa; quando vi sia costretta, non vi è più nulla in essa che non patisca violenza.

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Nel poema sono presenti diversi esempi di reificazione:

1. il supplice (Priamo e Achille) che però, una volta esaudito, ridiventa uomo;

2. lo schiavo; vi sono, infatti, uomini che senza morire, sono diventati cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi è alcuno spazio, alcun vuoto, alcun campo libero per qualcosa che procede da loro. E’ una morte che si stira si allunga per tutto il corso della vita. Non si può perdere più di quanto perde lo schiavo, egli perde ogni vita interiore.

“Esse di certo se ne andranno in fondo alle concave navi,

io fra di loro; tu, mio bambino, o con me

mi seguirai, a fare avvilenti cose,

penando sotto gli occhi di un padrone senza dolcezza”.

Il potere della forza è tale da essere simile a quello della natura; anche la natura quando entrano in gioco i bisogni vitali, cancella ogni vita interiore, persino il dolore di una madre, come accade per Niobe, che perse dodici figli eppure, cessate le lacrime, pensò a mangiare ( si può pensare anche alla figura dantesca di Ugolino n.d.a.).

La forza usata dagli altri è imperiosa sull’anima come la fame estrema…

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La forza stritola, inebria chiunque la possieda o creda di possederla, infatti nessuno la possiede veramente.

Persino nell’Iliade non si trova un solo uomo che ad un certo momento non sia costretto a piegarsi sotto la forza. Ad esempio Tersite, ma lo stesso Achille deve sottomettersi ad Agamennone.

Gli eroi tremano come gli altri: Ettore, Aiace, persino Achille, anche se non ha paura di un uomo, ma di un fiume.

Infatti a forza d’essere cieco, il destino stabilisce una sorta di giustizia, cieca anch’essa, che punisce con la legge del taglione: “Ares è equanime e uccide quelli che uccidono”.

Il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, ma l’uno e l’altro lo ignorano. Essi non si credono della medesima specie.

Coloro cui la forza è stata prestata dal destino periscono per troppa sicurezza. Non possono non perire. Essi pensano che il destino ha dato a loro ogni diritto e nessuno ai loro inferiori. Da quel momento essi vanno aldilà della forza di cui dispongono. Ignorano che quella forza ha dei limiti, sono allora abbandonati al caso e le cose non gli obbediscono più.

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Il corso della guerra nell’”Iliade” è questo gioco pendolare. Il vincitore del momento dimentica di usare la vittoria come una cosa destinata a passare.

“Non si accettino ora né le ricchezze di Paride

né Elena; ciascuno, anche il più ignaro, vede

che Troia è all’orlo della sua perdita”.

I Greci venuti per Elena, quando potrebbero averla non si accontentano, essi ormai vogliono tutto.

Un uso moderato della forza, che solo permetterebbe di uscire dall’ingranaggio, richiederebbe una virtù più che umana, dote non meno rara che una costante dignità nella debolezza.

Vi sono nell’Iliade parole ragionevoli, quelle di Tersite, persino di Achille:

“Poiché puoi conquistare i bovi, i grassi montoni…

una vita perduta non la riprendi”.

Ma cadono nel vuoto: se le pronuncia un inferiore viene punito e tace; se è un capo, non agisce di conseguenza. Al bisogno c’è sempre un dio a consigliare la demenza.

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I combattenti sono condannati alla guerra:

“… noi, a cui Zeus

dalla gioventù alla vecchiezza assegnò di penare

in dolorose guerre, fino a perire dal primo all’ultimo”

La paura, la morte trasformano quello che all’inizio sembra il “gioco della guerra”. Che uomini abbiano per avvenire la morte è contro natura; l’anima patisce violenza tutti i giorni, si mutila di ogni aspirazione. La guerra arriva a cancellare anche lo scopo della guerra, cancella persino il pensiero di metter fine alla guerra. L’anima sottomessa alla guerra invoca liberazione, ma questa appare sotto la forma tragica, estrema della distruzione. Inoltre la morte dei compagni suscita una cupa emulazione di morte.

“Lo so che il mio destino è di morire qui,

lontano da mio padre e da mia madre amati; tuttavia

non cesserò se i Troiani non siano saziati di guerra”

Quale eco può trovare in simili cuori la timida aspirazione della vita, quando il vinto implora che gli si conceda di rivedere il giorno?

“Sono ai tuoi piedi Achille; abbi riguardo per me, abbi pietà”

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Ecco la risposta di Achille:

“Via, amico, muori anche tu! Perché tanti lamenti?

Anche Patroclo è morto e valeva assai meglio di te”

Quando si è dovuta distruggere ogni aspirazione di vita in se stessi, per rispettare in altri la vita è necessario uno sforzo di generosità da spezzare il cuore. L’unico fra i guerrieri di Omero che sia capace di un tale sforzo è colui che in un certo modo si trova al centro del poema, cioè Patroclo che nell’”Iliade” non commette nulla di brutale e crudele.

Il guerriero che vince, posseduto dalla guerra, è divenuto, non meno dello schiavo sebbene in tutt’altro modo, una cosa!

Il potere della forza di trasformare gli uomini in cose è duplice, pietrifica, diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano. Tale proprietà tocca il più alto grado nella guerra.

Omero coglie e trasmette questa forza cieca usando similitudini con forze cieche della natura:

“Come da un sanguinario leone sono assalite…”

“Come quando il fuoco devastatore cade sul fitto di un bosco…”

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Ma il rischio di una tetra monotonia è sventato dal fatto che, disseminati qua e là, vi sono momenti luminosi, brevi e divini, nei quali gli uomini hanno un’anima. Vi hanno posto solo il coraggi e l’amore. Vi sono infatti nel poema quasi tutte le forme pure dell’amore tra gli uomini:

1. ospitalità: “Così per te sono un ospite amato nel seno di Argo…

storniamo l’uno dall’altro le lance, pur nella mischia…”

2. amore filiale verso i genitori o dei genitori verso il figlio

3. amore fraterno

4. amore coniugale (Ettore e Andromaca)

“Mio sposo, sei morto anzi tempo, così giovane; e me, la tua vedova,

lasci sola nella mia casa, il nostro bambino ancor piccolo

che avemmo tu ed io, sventurati…”

5. amicizia

6. persino l’amicizia tra nemici (Achille e Priamo)

“prese allora il Dardanide Priamo ad ammirare Achille,

com’era grande e bello; aveva il volto di un dio.

E a sua volta il Dardanide Priamo fu ammirato da Achille…”

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Oltre a questi episodi a evitare che un tale cumulo di violenze divenga freddo, vi è sempre un accento di amarezza inguaribile, spesso indicato da una sola parola o addirittura da un taglio di verso, da un rimando. Proprio in questo l’Iliade è unica: in questa amarezza che procede dalla tenerezza e che si stende su tutti gli umani ugualmente, eguale come il chiarore del sole. Il tono non cessa mai d’essere intriso d’amarezza, non si abbassa mai al lamento. Nulla di prezioso, sia o non destinato a perire, è disprezzato, la miseria di tutti è esposta senza dissimulazione o disdegno, nessun uomo posto al di sotto o al di sopra della condizione comune a tutti gli uomini, tutto ciò che è distrutto è rimpianto.

Tutto ciò che è assente dalla guerra, tutto ciò che la guerra distrugge o minaccia è avvolto di poesia nell’”Iliade”:

“Là si trovavano i larghi lavatoi d’accanto

belli, tutti di pietra, dove le vesti splendenti

lavavano le donne, le figlie di Troia, così belle,

un tempo, nei giorni di pace, prima che i Greci arrivassero…”

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i fatti di guerra mai:

“Allora gli saltarono i denti, gli salì dai due lati

il sangue agli occhi, il sangue che per le labbra e le nari

rendeva, a bocca aperta; la morte

nella sua nube nera l’avvolse”.

La straordinaria equità che ispira l’”Iliade” non ha avuto imitatori. A malapena ci si accorge che il poeta è greco e non troiano. Nell’Iliade l’amarezza verte sull’antica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia. Questa subordinazione è la stessa in tutti i mortali, sebbene l’anima la porti diversamente secondo il grado di virtù. Nessuno vi si sottrae nell’Iliade come sulla terra. E nessuno di coloro che vi soccombono è considerato spregevole. Tutto ciò che nell’anima e nei rapporti umani sfugge all’imperio della forza è amato, ma dolorosamente per quel pericolo di distruzione continuamente sospeso.

L’”Iliade” fu l’unico vero testo dell’epopea occidentale, suoi soli continuatori furono Eschilo e Sofocle.

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Il pensiero della giustizia illumina la tragedia attica senza mai intervenirvi; la forza vi appare nella sua fredda durezza, sempre con effetti funesti ai quali non sfugge né colui che la usa, né colui che la soffre; l’umiliazione dell’anima sotto gli effetti della forza non vi è né mascherata né avvolta di pietà facile né proposta al disprezzo; più di un essere ferito dalla degradazione della sventura è offerto all’ammirazione. Il Vangelo è l’ultima espressione del genio greco, l’”Iliade” è la prima. Nel Vangelo traspare lo spirito greco perché vi è esposta la miseria umana e questo in essere divino e al tempo stesso umano. Vi sono addirittura parole simili:

l’adolescente troiano inviato all’Ade: ”Dio l’ha dato in mano ad Achille, di colui che doveva/inviarlo alla casa di Ade, benché riluttante a partire”,

Cristo a Pietro: “Un altro ti cingerà e ti menerà dove tu non vuoi”.

Il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare. Nulla è più raro di una giusta espressione della sventura.

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Il più delle volte i Greci ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a se stessi; seppero così toccare in ogni cosa il più alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità. Ma nessuno è andato oltre a loro: tanto i Romani che gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana…Anche lo spirito del Vangelo non si trasmise puro alle successive generazioni cristiane. Il martirio, presentato quasi come una gioia, è frutto di illusione o di fanatismo. L’uomo che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita.Il genio della Grecia non è risorto nel corso di 20 secoli, ne traspare qualcosa in Villon, Shakespeare, Cervantes, Molière…

Gli uomini ritroveranno il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quindi arriveranno a non ammirare mai la forza, a non odiare i nemici e a non disprezzare gli sventurati. “E’ dubbio che ciò sia prossimo ad accadere”.