Simmetrie naturali

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All’interno del panorama letterario degli ultimi cinquant’anni il profilo di Luigi Malerba si staglia con spiccata individualità: la ricchezza del suo percorso, una sperimentazione tanto incessante quanto lontana da esiti estremi e poco fruibili, si misura soprattutto nel virtuoso equilibrio raggiunto tra una sensibile vocazione affabulatoria e una continua mistificazione del reale (e del verosimile). Queste caratteristiche, dispiegate sia nei romanzi e nei racconti sia nelle scritture per il cinema e la televisione, hanno fatto di Malerba uno dei più interessanti scrittori e intellettuali italiani del secondo dopoguerra (vincitore, peraltro, di prestigiosi premi letterari e alla carriera).

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Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

Coordinamento editorialeFabio Di Benedetto

In copertinaFotografia di Luigi Malerba

(per gentile concessione di Anna Malerba)

ISBN 978 88 8103 791 9

© 2013 Istituzione Biblioteche del Comune di Parma© 2013 Edizioni Diabasis

Il volume è realizzato per conto della Istituzione Biblioteche del Comune di Parma

Questo volume raccoglie gli Atti del Convegno di studi Luigi Malerba. La letteratura e il cinemasvoltosi a Parma presso l’Istituzione Casa della Musica nei giorni 8 e 9 ottobre 2009, orga-nizzato dal Dipartimento di Italianistica e dal Dipartimento di Beni culturali e dello Spet-tacolo dell’Università di Parma, e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma

Comitato scientifico del convegno

Paolo Briganti Roberto Campari Nicola Catelli Michele Guerra Anna MalerbaRinaldo Rinaldi Gabriella Ronchi Giovanni Ronchini

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Il volume è realizzato da Edizioni Diabasis - Diaroads srlvicolo del Vescovado 12 43121 Parma Italy

telefono 0039.0521.207547 [email protected]

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D I A B A S I S

Simmetrie naturaliLuigi Malerba tra letteratura e cinema

a cura di Nicola Catelli

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Ringrazio, anche a nome del Comitato scientifico, Anna Malerba e Giovanna Bonardi, checon generosità hanno confortato e favorito l’iniziativa e contribuito a creare insieme agli stu-diosi intervenuti le migliori condizioni di lavoro e di dialogo, nonché l’Istituzione Bibliote-che, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma e l’editore Diabasis, che con la loro di-sponibilità e competenza hanno voluto e saputo sostenere questa pubblicazione. Un miopersonale ringraziamento è dovuto a Michele Guerra e Giovanni Ronchini, co-ideatori delconvegno e della pubblicazione antologica della rivista «Sequenze», i quali non hanno fat-to mancare consigli e indicazioni anche durante la realizzazione degli Atti.

Questo volume si dedica alla memoria di Alessandro Scansani, editore e intellettuale. NdC

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Simmetrie naturaliLuigi Malerba tra letteratura e cinema

A cura di Nicola Catelli

Presentazione, Luigi Allegri, Gabriella Ronchi

Luigi Malerba tra comico assoluto e comico significativo, Walter Pedullà

Il narratore diviso, ovvero i salti mortali della scrittura, Francesco Muzzioli

«Un commerciante di francobolli può essere tutto». I centomila volti del personaggio laico di Malerba, Giovanni Ronchini

Luigi Malerba e il suo lettore, Dominique Budor

Dalla tana al lager. Per una scrittura di interni, Rinaldo Rinaldi

Malerba novelliere, Romano Luperini

Lo scrittore con gli stivali: Malerba e la narrativa per ragazzi, Paola Cosentino

Alla ricerca di un filo conduttore nella narrativa di Malerba, Renato Barilli

Malerba, storia e geografia, Paolo Mauri

In un “fuori campo” in realtà è il mondo. I viaggi nel “vuoto” di Luigi Malerba, Ambra Meda

Robinson e le parole abbandonate, Enzo Golino

Sceneggiatori da corsa, Fabio Carpi

Malerba sceneggiatore, Gian Piero Brunetta

Donne e soldati, Roberto Campari

Archeologie malerbiane: la critica cinematografica, Michele Guerra

L’arte del parossismo. La scrittura di Luigi Malerba dal cinema alla televisionePier Paolo De Sanctis

Le radici ritrovate, Giovanna Bonardi

Postfazione, Nicola Catelli

Gli autori

Indice dei nomi e delle opere

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Presentazione

Il Convegno di studi Luigi Malerba. La letteratura e il cinema (Parma, 8-9 ot-tobre 2009), organizzato dai Dipartimenti di Italianistica e di Beni culturali edello Spettacolo dell’Università di Parma, ora uniti nel Dipartimento di Lettere,arti, storia e società, e dal Comune di Parma, si inserisce all’interno di una seriedi iniziative – fra cui altri due convegni, a Chicago e a Roma, e la pubblicazioneantologica della rivista «Sequenze», fondata e diretta da Malerba – volte a con-siderare nel suo complesso l’intensa produzione dello scrittore, a un anno dallasua scomparsa.

Il convegno parmense, in particolare, ha inteso indagare alcuni gangli del-l’attività di Malerba nella prospettiva del rapporto simbiotico fra letteratura,cinema e televisione, fra scrittura e immagine. Grazie al contributo degli stu-diosi coinvolti, le giornate del convegno hanno rimarcato e ulteriormente illu-minato alcune delle più solide acquisizioni sull’opera malerbiana, avanzando alcontempo – anche attraverso il proficuo incontro di metodi e approcci diffe-renti – nuovi sguardi critici.

Non ultimo, il convegno è stato l’occasione per “riportare” Malerba a Parma,città nella quale lo scrittore è nato e si è inizialmente formato – negli anni fon-damentali dell’adolescenza, a cavallo del secondo conflitto mondiale – e doveha cominciato a sviluppare i propri interessi letterari e cinematografici.

Questo volume di Atti raccoglie con cura la traccia delle stimolanti giornatedel convegno, che, si auspica, potranno fornire anche l’impulso per futuri ap-profondimenti critici.

Luigi Allegri Gabriella Ronchi

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Luigi Malerba tra comico assoluto e comico significativo

Walter Pedullà

Essendosi fatte da parte degli organizzatori sempre più legittimamente insi-stenti le richieste di un titolo per la relazione, ho dato il più generico fra quelli chemi vennero in mente con la convinzione che, come tutte le strade conducono a Ro-ma, così tutte le questioni della contemporaneità conducono a Malerba, a partireda quella sulla, come dire, centralità del riso nel Novecento. Questo scrittore ha at-traversato la letteratura italiana dalla fine del neorealismo al post-moderno percollocarsi al vertice della narrativa che si muove per esperimenti radicali quali so-no quelli dell’avanguardia – nella fattispecie chiamata neoavanguardia – di cui ènota l’inclinazione a raccontare la vita nella fase attuale della nostra storia dallaparte della comicità.

Malerba ha riso – si fa per dire, lui faceva ridere gli altri, ma non partecipava –solo per vent’anni del suo mezzo secolo di attività, dagli anni Sessanta agli Ottan-ta, considerando fra l’altro che Testa d’argento riunisce anche racconti preceden-ti agli anni Ottanta. Dopo ha fatto quasi soltanto (tranne cioè che nei racconti di Tisaluto filosofia) la tragedia con risultati memorabili, specialmente col romanzo Ilfuoco greco, quello in cui i cortigiani uccidono con le parole, confermando quan-to gli sperimentalisti vanno dicendo da cento anni e cioè che la parola viene primadella cosa. Con le parole si fanno giochi che sono una fabbrica del riso, più quelloassoluto che non quello voltairiano.

Il titolo l’ho ricavato dal saggio di Baudelaire sull’essenza del riso, dove il poe-ta francese distinse quello significativo, la satira voltairiana, dal riso assoluto o me-tafisico di cui per lui era esempio sublime l’italiana commedia dell’arte. Per non in-golfare il discorso con troppe citazioni, mi libero subito di quelle che tutticonoscono a memoria ma che più o meno direttamente coinvolgono il problemadel riso in Malerba. Salto l’opinione di Freud, secondo il quale il riso nasce dalsentimento di superiorità rispetto a una persona o una situazione di cui sinora unoabbia avuto paura (gli anni Sessanta sono un decennio di benessere dopo la mise-ria degli anni Cinquanta, ma allora se è tornata di moda la tragedia negli ultimivent’anni significa che abbiamo di nuovo paura?), mi lascio alle spalle la formuladi Bontempelli, che nella maturità preferisce il comico che è anche tragico (nes-suno più ama il comico che è solo comico? Che malattia culturale è questa che ri-solve tutte le alternative con il compromesso? È forse questo il postmoderno?), emi soffermo su queste idee:

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1) Il riso è un ottimo avvio per la dialettica, dice Benjamin. A Malerba unmondo siffatto non piaceva e provò ad annegarlo nelle risate, in attesa che qual-cuno lo costruisse nuovo, secondo un’irresistibile speranza che ora pare desti-nata al ridicolo. Il timore più diffuso è ora che non c’è nulla che possa riavviarela dialettica. Quando questa si blocca, nessuno chiede il mutamento. Stavolta siignora dove esso porterebbe e ci si sente più sicuri nell’immobilità. È in questesituazioni che resuscitano il riso assoluto, la commedia dell’arte, le maschere te-levisive, la loro comicità demenziale?

2) I comici profondi non ridono mai, secondo Max Jacob. Notoriamente Ma-lerba non ha mai riso, almeno in pubblico. In cambio ha fatto ridere quanto pri-ma di lui aveva fatto solo Campanile, l’inventore dell’assurdo e della “farsifica-zione globale”. Cosa succede nelle zone profonde dei comici perché non ridano?

3) Nelle corti solo i buffoni dicevano la verità. Questo lo sostiene Brancati.Proviamo cioè a vedere se sapremo la verità raccontando storie buffe: sono tan-to vere quanto più sembrano impossibili. Ce n’è una nel romanzo Il serpente cheindirizza alla verità impossibile di Malerba: la scoperta del canto mentale, colquale è stata ottenuta un’arte, udite udite, che non ha né significato né signifi-cante. Questa buffa invenzione potrebbe guidarci verso la verità che Malerbaha sinora gelosamente nascosto? Non è la sola, l’autore del Serpente ha inventa-to – come Ezra Pound ordina agli scrittori d’avanguardia – anche l’amore con ac-compagnamento e spinta musicale.

4) Che il riso profuma di morte lo dice Bergson. Lo sperimentalismo, osses-sionato dall’urgenza di cambiare linguaggi e idee, produce arte con una vitalitàscatenata che si destina al suicidio. Dopo aver infatti distrutto ogni cosa conl’irrisione più feroce devi rivolgere contro te stesso la tua arma, cioè il linguaggioche pretende e pratica il mutamento a ogni costo. Quando morì, fu uccisa o sisuicidò la neoavanguardia, Malerba riformulò il proprio codice e ne scrisse di-versi, ancorché coerenti con la sua storia; prima meccanismi sperimentali chevengono interpretati da uomini, poi uomini che nascondono i meccanismi, checomunque sono, se non rotti, allentati per fare sorprese comiche quanto una ca-duta in scena. Comunque se con il riso ci si dà alla pazza gioia – “fuoco divino”lo definì Max Jacob – non ci si deve vergognare, come spesso succede dopo cheè passata la festa che è l’avanguardia, e la neoavanguardia.

Secondo Savinio da vecchio, il comico è deperibile, solo il tragico è peren-ne. Palazzeschi insiste nella sua tesi che oggi bisogna ridere di Amleto, Edipo, Al-cesti ecc. E si rida a ogni funerale, a cominciare da quello delle tragedie in cui ab-bonda la cartapesta. Deperibile è però la satira, non il riso assoluto di Malerba,che resta la più feconda macchina di comicità capace di sopravvivere al collassodell’idea e del tema.

Se sull’argomento si chiede di dire la sua a Hölderlin, la risposta è: se ridisempre e di ogni cosa e non sai fare altro che ridere, ebbene questo significa es-sere disperati. Malerba da giovane ha fatto il libertino, ma poi ha sposato il riso

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1 1Luigi Malerba tra comico assoluto e comico significativo

con la disperazione. Sono nati racconti e romanzi in cui si va dalla comicità as-soluta a quella voltairiana, dall’assurdo alle tragedie della storia, cioè quei ro-manzi storici finali in cui si raccontano come drammi vicende che nell’attualitàmostrano la sfrenata dissennatezza per la quale ci facciamo un mucchio di mat-te risate. E qui vi evito la citazione da Socrate per il quale il comico e il tragico so-no due facce della stessa moneta. Il Novecento però ha difeso le ragioni del co-mico anche contro molte teorie del comico. E non si dica che non sappia vivereda single: La scoperta dell’alfabeto e Testa d’argento non si vergognano di fre-quentare il riso che sull’altra faccia della moneta non la fa tragica.

Conclusione provvisoria: sia da giovane che da vecchio preferisco il Malerbache racconta la tragedia come insensata commedia. Non solo i racconti dellesuddette raccolte ma anche i romanzi come Il serpente, Salto mortale e Il prota-gonista non finiranno mai di rendere ridicoli comportamenti, idee, discorsi chesi siano sublimati in verità con le quali sono stati istupiditi i creduloni , che poisaremmo noi stessi quando aderiamo a una cultura dimenticando che presto es-sa dirà quasi sempre delle losche sciocchezze. Su un testo di Malerba non crescenessuna idea o parola che non sappia meritarsi la sopravvivenza conl’autoderisione. Ciò che non è ridicolo, è tragedia. Le tragedie di Malerba ini-ziano quando ha smesso di ridere con un linguaggio per cui deve lasciare ognisperanza qualunque cosa seria entri in un suo romanzo o racconto degli anniSessanta e Settanta. Possiamo dire che gli argomenti di cui lui parla non ci inte-ressano più, ma non appena mettiamo in funzione la sua prosa narrativa preci-pitiamo come in un frullatore di parole esilaranti. Malerba sarà pur sempre ilnarratore che sa raccontare con grande felicità la vita come una tragedia da ri-dere. Se si ripete, come disse un pensatore indimenticabile, è una farsa.

Malerba non condivide l’idea circolata nella neoavanguardia secondo la qua-le la poetica può essere poesia in virtù del linguaggio moderno che fa coincide-re tali alternative tradizionali. Per talento naturale o progetto che sia, questoscrittore che sa trasformare tutto quello che tocca con la mente in racconto hapreso la teoria e l’ha trasformata in narrativa. Meglio ancora, la teoria Malerbalatrova bell’e pronta in natura, che ovviamente è insieme cultura, come con for-mula eccitante disse Gadda («Anche il caffè-cicoria è caffè»). L’autore della Sco-perta dell’alfabeto ha inventato lo sperimentalismo spontaneo degli uomini ele-mentari che si fanno carico delle questioni basilari, cioè fondamentali, come ilmangiare, il defecare, nonché l’amare (ovviamente se uno ha mangiato: i conta-dini del Pataffio, poiché non mangiano, non defecano e non fanno l’amore). Nonmeno impellente è il desiderio di ascoltare un bel racconto, che da quando vivevain caverna l’uomo non s’è fatto mai mancare, talvolta privandosi del cibo e del-la donna pur di fantasticare, cioè andare altrove con la mente.

Provò ad andare col corpo in America e insieme a vedere il mare (desiderioche notoriamente invano coltivò Hölderlin), ma il corpo non è infallibile comeil pensiero: viaggiò in stiva e lavorò in miniera, luoghi profondi da dove però

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non si vede né il cielo, né il mare, mentre della terra che hai zappato non sai piùche fartene. Ha un sogno che è impossibile realizzare anche Malerba. Lo ar-guiamo dall’invenzione del canto mentale, che però è muto. Il desiderio fa benea non dire cosa vuole, lo diceva pure Lacan, che negli anni Sessanta dominò sul-le culture bagnate dall’Atlantico, su entrambe le sponde. Malerba andò anche ol-tre Lacan, che vedeva sempre slittare il significato sotto il significante, e tolsetutt’e due nel canto mentale.

In quel decennio argomenti molto dibattuti erano il divorzio della parola dal-la cosa, il ruolo del narratore, il fine dell’arte, la struttura del racconto, la que-stione della lingua fra dialetto e italiano. Ebbene, nei racconti malerbiani dellaScoperta dell’alfabeto elevate questioni spirituali sono state portate fra la poveragente che non mangia, ma che al racconto non sa rinunciare. Non gli parlate dimorte dell’arte, infatti per l’arte i contadini che fondamentalmente sono sem-pre gli uomini possono sacrificare un coniglio, quello che il narratore pretendein cambio del racconto. Non sono marxisti, sono materialisti, ma questi conta-dini, per poter sentire un racconto, sono capaci di digiunare. Al pasto non ri-nuncia invece il narratore, che con la sua arte certo non mangia, tanto più se in-siste sull’incomunicabilità e sull’informale, come facevano i più estremisti e i piùilleggibili dello sperimentalismo, specie neoavanguardia. Intorno al coniglio eal racconto per contadini o per le masse sarebbe possibile avviare un dibattito siaestetico che sociologico, cui non fatico a rinunciare.

Sul problema della priorità di parola e cosa, e su quello dell’esistenza concre-ta della realtà oggettiva – che per Malerba non esiste –, narra una storia delle sueil nostro autore nel racconto del contadino suicidatosi per un amore fra i più folli.In parole povere, essendosi il figlio pazzamente innamorato di una bella giova-notta che continua a respingerlo, la madre, figura che se appare è indimenticabi-le, specialmente dopo Freud, disse: tu perderai la testa dietro quella ragazza. Osti-nandosi costei a rifiutarsi, il giovane, non tollerando il dolore, combinòefficacemente le lame dell’aratro e si ghigliottinò. È una insensatezza di cui ridifollemente, come succede in tutti i racconti della Scoperta dell’alfabeto, fai prestoa dimenticare che anche in questo caso la parola anticipa, prevede e profetizzal’evento, non ti passa dalla mente che una madre nel passato più remoto ha gene-rato Edipo, e prendi atto di quello che il racconto del contadino autoghigliottina-tosi manda a dire, o meglio suggerisce: l’amore può essere un sentimento così for-te che per soffocarlo puoi arrivare a ucciderti, puoi sganasciarti sopra questosentimento ridicolo, ma omnia vincit amor anche da prima dei latini. Malerba ridecon tutti i sentimenti, o meglio fa ridere gli altri. Ne ridi, ma arriva la malinconia atenere compagnia al riso, che intanto è diventato umorismo di marca pirandellia-na. Con il sentimento del contrario solidarizziamo coi fratelli che si rendono ridi-coli con smodate passioni, che saranno scemenze ma senza le quali non c’è vita.

Dal profondo invece esplode il riso, che può far saltare la motivazione più

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seria. Non è privo di collegamenti con la superficie, un piccolo quoziente satiri-co forse ce l’ha sempre, ma questo è il riso assoluto, che fa ridere per l’attrito dielementi non riducibili alla ragione. Émile Zola rise fino alle lacrime e credettedi impazzire ascoltando al circo un clown. Sapremo mai cosa succede là sotto?Qualcosa continua ad essere nascosto sotto l’io, che da tempo, come tutti sannoda un secolo e mezzo, è anche l’Altro. C’è dunque qualcosa sotto il canto men-tale che registra il pensiero di un uomo solo che non può far coro né comunica-re singolarmente con alcuno.

C’entra sempre la lingua ma non nella suddetta vicenda, dove non è ammes-so dir parola. La questione della lingua invece provoca una tragedia nel conta-dino che facendo il militare ha imparato a parlare in italiano. Quando torna alpaese e gli amici lo irridono perché parla una lingua diversa dal dialetto, lui siarrabbia e ne uccide uno. Lo inseguono i carabinieri, ma, sentendoli dare in bel-l’italiano l’ordine di arrendersi, il contadino, che ama questa lingua non meno diD’Annunzio, Landolfi, Bilenchi e Calvino messi insieme, corre loro incontro co-me se avesse ritrovato un amico, ma muore colpito a morte. Morale della favo-la: per fare il proprio dovere di cittadini in pace e in guerra tocca insistere sull’i-taliano, ma sarà una tragedia la battaglia per sradicare il dialetto. Lo stessoMalerba espresse nostalgia per il dialetto nel saggio Le parole abbandonate, masi arrese all’italiano che illumina le prose del Diario di un sognatore, dove Ma-lerba non sogna mai in dialetto emiliano.

Col dialetto si possono dire cose che pochissimi corregionali possono capire,forse le capisce il solo autore, come più in là si constaterà nella vicenda del Pro-tagonista, che oscenamente si riduce a cercare nel fondo di se stesso. Non c’èperò salvezza nemmeno nell’italiano, rischi di essere impallinato da chi ti vuoleimporre una lingua burocratica, da bollettino ufficiale: questo lo diceva Gadda,colui che scriveva parole con le gobbe, mentre Malerba scriverà quasi sempre(tranne che nel macaronico pseudomedievale del Pataffio) un italiano a paretilisce, nel quale l’espressività è delegata alla fantasia: una fantasia imbizzarritache va dove la porta il pensiero di chi, in Salto mortale, ha nella fronte il suo tal-lone di Achille.

Piacciono di più ai contadini e al popolo e alle masse i racconti realistici, quel-li dove il prima viene prima del poi e ne determina il corso e il senso. Nel rac-conto in questione il narratore orale, che si è stancato di raccontare le solite sto-rie nel solito modo, anche se non ha letto Šklovskij o Sterne, che negli anniSessanta furoreggiavano, si è convinto che si possono mischiare il reale el’immaginario, il racconto può andare avanti o indietro, dove lo guida il capric-cio, il caso che obbliga, insomma il desiderio, forse l’inconscio, qualcosa che daldi dentro spinge per moventi ignoti in una direzione o in un’altra. Pure il narra-tore scrive per il piacere di raccontare, anche se ha necessità del coniglio pro-messo. Che non è molto, se alle proteste degli ascoltatori realisti reagisce col det-

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to da allora memorabile: «Ma cosa pretendete per un coniglio?»1. Per un coniglio,per mangiare, un narratore non può sacrificare il linguaggio con cui può avvici-narsi al segreto che si è nascosto dietro il pensiero. Ci sono fasi in cui l’avanguardiaha una funzione insostituibile, ma magari prende più conigli quando diventa po-st-avanguardia e scrive romanzi di maggior consumo, che tuttavia possono essereopere d’arte che mangi con gli occhi. Sono così ben fatti Le maschere, Le pietre vo-lanti, La superficie di Eliane o meglio ancora quel Fuoco greco in cui le parole pos-sono ammazzare non simbolicamente i cortigiani: qui la lingua ha il pugnale, con-trariamente alla differenza dei ruoli assegnati in Rigoletto.

Torniamo ai romanzi che non hanno capo né coda ma che sono capolavoridella narrativa del secondo Novecento. Salto mortale è il romanzo di un idiota icui discorsi precipitano dalla testa per andare a confondere il tema più elevatocon quello più banale. Facile in una mente fare il vuoto non solo di ciò che pen-sa lui, bensì di ciò che pensano tutti, venendo essi coinvolti attraverso i modi didire nei quali si condensa la saggezza popolare e la demenza della cultura di mas-sa che un giorno fu cultura alta. Qui entrano in funzione sia la comicità voltai-riana che lo “sciocchezzaio” di Flaubert. Qualunque cosa viene detta e pensataè destinata ad essere una idiozia non diversamente che in Campanile, la cui “far-sificazione globale” è la madre ignota della contestazione totale irrisa da Maler-ba come “demoscazione totale”.

Cadono come le mosche sotto l’azione del DDT le idee, i modi di parlare e icomportamenti delle masse, degli intellettuali e dei sacerdoti. Non c’è più religio-ne, non si salva niente e nessuno dal massacro comico che l’autore di Salto morta-le conduce attraverso il mentecatto che ne è protagonista come il Molloy diBeckett: l’idiozia come via rapida alla sapienza. Svuotare come sradicare, strap-pare dal terreno che calpestiamo ogni frutto avvelenato dalla famigerata civiltà delbenessere. Si chiamò allora desemantizzazione, nel senso di togliere il significatoalle parole per lasciare il guscio vuoto sul quale galleggiamo nel naufragio, o deri-va, di ieri e di oggi. Voltaire o i satirici svuotano per sostituire i vecchi significati conquelli nuovi, ma non si può pretendere tanto dagli idioti che finiscono per esseretutti gli uomini che ignorano cosa fanno e perché lo fanno. Se non torna la ragio-ne, non c’è spazio per Voltaire e per la satira capace di nutrire, ormai solo per co-sì dire, una rivoluzione. Se non l’Illuminismo, almeno uno spiraglio di luce.

Si fa il deserto per costruire un mondo nuovo? Ora è idiota pensarlo, ma allo-ra, cioè negli anni Sessanta, molti lo pensavano, anzi credevano che fosse stato giàfondato, essendo nata quella civiltà del benessere che è stata una delle religioni delnostro tempo. Tutto quel rumore però non convince Giuseppe detto Giuseppe,che se ne infischia dell’avvenire. Per caso, come succede per le grandi scoperte, dicolpo Giuseppe detto Giuseppe si sente arrivare in testa l’idea che ci riconduce alcanto mentale: «ma allora si può sapere che cosa voglio?»2.

Dunque non era questo quello che volevano, la contestazione, come pur pote-va sembrare all’interpretazione degli anni Sessanta, la desemantizzazione, come

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ritenevano di dover fare gli sperimentalisti della neoavanguardia, la farsificazionetotale, come piace pensare a chi crede con Falstaff che tutto nel mondo è burla. Sidice totale, ma più esattamente si direbbe globale, nel senso che il mondo sembragirare sempre così, segno senza significato. Non volevamo quella similrivoluzione,non volevamo questo deserto sgradevole anche per gli eremiti. Pensiero di Giu-seppe detto Giuseppe, un voltairiano dissennato: «aprite la Bibbia a caso e legge-te una pagina, c’è sempre qualcosa da imparare, io piuttosto pedalo sotto il Sole»3.

Si mise a correre dietro le parole, Giuseppe detto Giuseppe, e andò a infi-larsi in un flusso di coscienza, meglio si direbbe, nel suo caso, di incoscienza, inun monologo interiore da cui gli vennero un sacco di guai che lo portarono aconstatare d’essere lui l’autore del delitto sul quale indaga scriteriatamente pertutto il romanzo: proprio come il narratore orale che sulle orme dell’Ariosto an-dava avanti e indietro, a sinistra e a destra, per associazione semantica o fonica,avvicinando cose e fatti remoti e incompatibili e così ridere di tutti a crepapelle.A ogni svolta un’idea insensata che tuttavia è più acuta di tante espresse da pen-satori cui si riconosce saggezza. Si può ridere tranquillamente a ogni frase o pa-rola; magari non tranquillamente, a conferma di quanto aveva detto Baudelaire,e cioè che il saggio ride tremando. Malerba produce comicità anche se il suo lin-guaggio non fa follie, e forse lui solo sa perché.

Nel Serpente, che è un romanzo apparentemente tradizionale, troviamo ilprima che viene prima del poi, l’intreccio, l’ambiente, i personaggi a tutto ton-do, proprio come piacevano al contadino che aveva protestato contro le storieche non hanno né capo né coda. Per risparmiare, evitiamo il problema del con-flitto fra la narrativa realistica e figurativa e la narrativa informale e creativa del-l’avanguardia. Nel Serpente ci sarebbero tutte le premesse perché la cosa venis-se prima della parola, tuttavia questa c’è, ma quella, la cosa, non c’è e non c’è lapersona. In qualsiasi modo agisci perdi la testa lo stesso, anche se tua madre nonte lo ricorda più come quando eri un contadino innamorato. Se Roma è una città,cioè in realtà non esiste più, come fai a cambiarla realmente? Si fa sempre tantorumore per nulla, ragion per cui preferisci in ogni modo il silenzio, nel quale tirifugi col canto mentale, che dà sempre un infinito piacere.

Qualcosa di importante esiste, anche se non si tocca e non si sente. L’abbiamonominato più volte per aumentare col mistero la tensione, ma una novità ecce-zionale non s’era mai vista in azione. Allora cominciamo col dire che è stata in-ventata dal mitomane venditore di francobolli usati: che come lavoro è il nullafondato sul nulla, che come attività concreta corrisponde a quella di un artistanella fase avanzata del capitalismo. Andato a scuola di canto, un giorno casual-mente si accorse che assai meglio del canto ad alta voce, singola o in coro, gli riu-sciva il canto muto o mentale. Gli acuti più lunghi, i gorgheggi più sofisticati, ilfraseggio più complicato, insomma tutto è possibile alla mente che non sia osta-colata dalla voce. Al contrario i coristi erano sempre più sfiatati, cioè stonavano:

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insomma, meglio il canto mentale con cui puoi esprimere il più profondo te stes-so. Per campare, per farsi regalare un coniglio, un artista scrive anche cose sfia-tate e stonate, ma il suo segreto è chiuso a doppia mandata nel canto mentale.

Forma artistica priva di significato e di significante, il canto mentale è unacosa mai sentita, espressione muta che più assoluta non potrebbe essere. Appa-rentemente autoreferenziale, è in effetti fedele al pensiero, un pensiero che vasalvaguardato dalla voce. Non vi dico la felicità del venditore di francobolli usa-ti. Si sente realizzato, se si potesse parlare di realtà in riferimento a qualsiasi co-sa fa, pensa e dice. Nessun personaggio di Malerba è mai stato così felice comequesto ora che ha fatto tacere la propria voce. D’altronde è lo stesso personag-gio che possiede Miriam seguendo i tempi di una sinfonia. C’è qualcosa in co-mune nelle due situazioni: nella prima il personaggio non ha la voce, nella se-conda non ha la donna, perché Miriam non esiste. Siamo infelici a causa dellavoce umana che stona e perché esiste la donna in carne e ossa? «Gli strumenti afiato sono portati a calare»4 e le donne sono fatte in modo che ti vien voglia dimangiartele, da cannibale mentale, quando come nel Serpente non c’è il loro cor-po. Sembrano idee prive di significati ma non sono insignificanti. Non possiamofare a meno delle donne, ma non importa molto che esse esistano realmente.D’altronde è un suo pensiero profondo, anche se più emerso in superficie, chenulla esiste nella realtà, già di suo inesistente.

Il protagonista del Protagonista non ha ricavato piacere da nessuna donnapiù o meno giovane, un po’ di più da una mummia e da un termosifone colorcarne. Resta il desiderio troppo elevato di possedere il cavallo, collocato sul Gia-nicolo, di Garibaldi, che qui e altrove sta a rappresentare il massimo di realtà au-spicabile per via dei Mille, che hanno provato addirittura a cambiare il destinodell’Italia. La realtà però ora è questa: poiché nulla di ciò che è reale dimostra diessere desiderabile, il protagonista prova a rientrare in se stesso dal didietro equindi di chiudere il cerchio mettendo il fermaglio al proprio corpo.

Non insistiamo sulla metamorfosi del cerchio nel quale si suole iscrivere lanarrativa di Malerba e limitiamoci a confermare la tesi di Balint secondo cuil’amore primario dell’uomo è se stesso singolarmente preso. Il protagonista tut-tavia non riesce a prendersi perché lo impedisce la natura, sia pure per pochicentimetri. Insomma saremmo felici solo se potessimo rientrare in noi stessi, inmodo non identico ma analogo a quello tenuto nel Pasticciaccio di Gadda dalbrigadiere Pestalozzi, quando sognò di rientrare nel grembo materno. Ebbene,potrebbe essere stata una felicità paragonabile a quella del venditore di franco-bolli usati che si abbandona al canto mentale: questa non cala e non stona comegli strumenti a fiato che sono gli altri uomini.

A questo punto si apre la questione criticamente più eloquente: qual è il mes-saggio del canto mentale. Non è il profondo, è il pensiero, del quale Freud e Piz-zuto hanno detto quanto può essere inconscio. Di sicuro la superficie, territorio

Walter Pedullà1 6

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del naturalismo, non basta più: vogliamo andare sempre più a fondo, come lapsicanalisi, o come i raggi X. Sia quella che questi registrano smacchi scorag-gianti: per esempio, alla radiografia non risulta il tradimento di Miriam, mentrealla psicanalisi Malerba ha lasciato qualche prospettiva scrivendo Il diario di unsognatore nonché il saggio, critico nei confronti di Freud, sulle composizioni delsogno. Ignoriamo quanto vale l’interpretazione psicanalitica che suggerisce lapresenza nel narratore di un complesso di frustrazione. Pure questo segreto èrinchiuso nel canto mentale, che è inafferrabile. In effetti forse esiste solo perchénon è reale. Quanti tesori sono nascosti nel cervello degli uomini più silenziosi!

Nessuna certezza dunque, sono ammesse solo congetture; si procede, insom-ma, per analogia. La chirurgia offrì uno sbocco quando, dopo un incidente quasimortale, il cranio di un uomo venne sostituito da una calotta d’argento, quella percui si intitola Testa d’argento una raccolta di bellissimi racconti che splendono nel-la narrativa degli anni Ottanta. Dimenticate il cranio che, secondo Svevo, fu sco-perchiato in Joyce e, secondo noi, nell’informale di Salto mortale. La calotta, chemette il coperchio sopra ogni terremoto formale, ha due punti di vista: quello del-la parte convessa che guarda all’esterno, sulle follie degli uomini del nostro tempobenestante, e quello della parte concava, nella quale si specchia la nostra mente, ov-viamente senza che questa possa registrare il canto mentale.

È possibile vedere cosa succede nel cervello del personaggio? Sia la parte con-vessa che la concava, essendo curve, deformano gli oggetti e magari, nella fattispe-cie, pure i pensieri. Anche la calotta insomma mantiene il segreto di Malerba, che èpur sempre uno scrittore felice di vivere nel silenzio, se non fosse irresistibile in ogniuomo il desiderio di dar voce ai propri pensieri. Che perciò stonano: non sarannomai perfetti come nel canto mentale. Non sapremo mai cosa pensiamo realmentefinché non avremo dato voce a quel canto muto, che isola dal mondo sia quello cheè da ridere sia quello che è da piangere. Tertium non datur? Ebbene, la terza via è ilsilenzio con il quale fai suonare il mondo come ti piace.

Nell’ultima scena del Serpente il venditore di francobolli usati, in manico-mio, chiede soltanto che si faccia silenzio:

Sono stanco. Vorrei che questi campanelli smettessero di squillare e in ogni casonon sentirli se squillano. Vorrei non pensare a niente per non stancarmi perché sonogià stanco. Ogni mossa ogni voce ogni rumore si ripercuote e risuona come in un’im-mensa cassa armonica. Tutte queste antenne, qui in cima a Monte Mario (che poi nonè un monte ma una collina), raccolgono le vibrazioni da ogni parte e me le trasmettono.Non sto mai fermo, non ho un minuto di riposo, vibro dalla testa ai piedi. Per staretranquilli bisognerebbe tenere sotto controllo tutto, in tutto il mondo, ma come si fa conquesta grande stanchezza? Vorrei stare al buio, nel silenzio, in un luogo ben riparato.Che non ci fossero rumori e se ci sono non sentirli, che non succedesse niente. Vorreirestare fermo, immobile, in posizione orizzontale, con gli occhi chiusi, senza tirare ilfiato, senza sentire voci e campanelli, senza parlare. Al buio. Non avere nessun deside-rio, nessuno che parla e nessuno che ascolta, così al buio, con gli occhi chiusi5.

Luigi Malerba tra comico assoluto e comico significativo 1 7

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Questo silenzio è forse il canto mentale? No, questo è il silenzio che preludealla morte. Il canto mentale è muto, è come il silenzio, è desiderio, fondamentoe fucina e locomotiva della vita. Tocca lavorare ad avvicinarsi per tappe. È tesi ap-prossimativa, ma la reazione più vicina alla felicità del canto mentale è il riso.Quello voltairiano è pesante, dà un piacere passeggero, mentre è il riso assolutoad essere leggero come il pensiero. Come dietro il pensiero fedele al canto men-tale c’è qualcosa che lo ispira, così dietro il riso assoluto c’è l’inconscio che loscatena. Il canto mentale segnala la distanza massima tra l’assoluto e il relativo.Uno scrive perché desidera esprimere il mistero racchiuso nel canto mentale. Tidà piacere il riso voltairiano con cui investi il mondo, ma la vita come la vorrestiin assoluto, ebbene, la vita dà il meglio di sé in un canto che non arriva all’orec-chio di nessun ascoltatore.

Note1 L. Malerba, Le ruote della civiltà, in Id., La scoperta dell’alfabeto, Mup, Parma 2003, p. 131.

2Id., Salto mortale, Mondadori, Milano 2002, p. 48; e cfr. p. 129.

3Ibidem, p. 81.

4Id., Il serpente, Mondadori, Milano 1999, p. 16.

5Ibidem, p. 171.

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Raccolta di studisul libero esperimento

di dissacrata realtàe sogno incarnatodi Luigi Malerba

questo libro è stampato nel carattere Simoncini Garamond

su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigonia cura di PDE Spa

presso lo stabilimento di L.E.G.O. Spa - Lavis (TN)per conto di Diabasisnel giugno dell’anno

duemilatredici

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Carte di lavoroCollana della Istituzione Biblioteche del Comune di Parma

Ugo Dotti, Petrarca a Parma (2006)

Giovanni Greci, Il giro del mondo in 2300 storie. Per ragazze e ragazzi dai 6agli 11 anni (2007)

Salvatore Adorno, Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di unaborghesia padana in età giolittiana (2007)

Giuseppe Massari e Mario Rinaldi (a cura), Vento del Nord (2008)

Sergio Giliotti, La seconda Julia nella Resistenza. La più bianca delle briga-te partigiane (2010)

Fuori collanaRoberto Montali e Fiorenzo Sicuri (a cura), Storia di ieri. Parma dal re-gime fascista alla Liberazione. 1927-1945, Catalogo della mostra docu-mentaria (2011)

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