SI FA PRESTO A DIRE MADRE

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Questa è la storia di Tiziana, che vive con il suo bambino dietro le sbarre; è la storia di Marta, che da una sedia a rotelle insegna al figlio a camminare; è quella di Anna, che scorda la sua piccola in auto e la trova morta; ed è quella di Silvia e Francesca, che insieme hanno costruito una famiglia. Sono alcune delle voci di madri che in questo libro si sono trovate a cantare assieme. Stonate e maldestre talvolta, ma sincere. Madri perfette solo in apparenza e madri tutte sbagliate capaci di sensibilità nascoste. Madri che scelgono di crescere i figli di altre e madri che di bambini non ne volevano sapere. Madri con mariti violenti e madri i cui mariti si sono scoperti femmine. Madri che ai figli sopravvivono e madri che ne aspettano il ritorno. E figli che crescono nella pancia o che rimangono solo nella testa

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E poi la mamma torna a prenderti e raggiungiamo i tuoifratelli a scuola, e andiamo di corsa a casa, aspettiamo chearrivi papà, intanto infilo la biancheria in lavatrice, correggoi compiti dei miei studenti mentre metto su il sugo, diamo damangiare al gatto che anche lui ha fame, chiamiamo lanonna, prenoto la torta per il tuo compleanno che è domani,come è passato in fretta il tempo, metto l’umido fuori, mar-tedì lo vengono a ritirare, il secco no, quello lo ritirano il gio-vedì, mercoledì poi c’è il saggio, devo ricordarmi che il piùgrande ha la partita sabato e la tuta non è ancora lavata e sti-rata, bisogna poi comperare le scarpe nuove che in quellevecchie non ci sta più. Devo anche passare in lavanderia,pagare il carrozziere, prenotare il dentista e farmi venire inmente dove ho messo la multa che ho preso la scorsa setti-mana, dove avrò la testa non si sa, pagarla entro quindicigiorni altrimenti raddoppia. Poi ognuno di voi mi raccontacosa ha fatto a scuola, arriva papà e tu gli corri incontro, luiti fa volare in alto verso il soffitto, e via tutti in cameretta agiocare mentre la mamma finisce di preparare la cena e poimangiamo tutti insieme, facciamo il bagnetto, il papà vi

9. Anna che ha scordato, ma non dimentica

«Perdonami», le disse non appena lei sollevò la cornetta.«Per che cosa?» La voce di sua figlia era irrigidita

da aspettative poco piacevoli.«Per qualunque cosa tu creda abbia fatto»

(J. Berliner)

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mette il pigiama e la mamma vi racconta una favola mentrevoi vi addormentate come angioletti.

Doveva andare così. Invece. Invece piove, è la fine di maggio e Anna, che di solito ripe-

te questo mantra a Martina, la figlia più piccola, per farla starebuona, questa volta non ha bisogno di farlo. La bimba, sedutain auto sul seggiolino di dietro, si è addormentata. Non haneanche due anni e, come tutti quelli che non hanno ancoradue anni, alle otto del mattino fa i capricci per vestirsi, fa icapricci per alzarsi, fa i capricci perché non vuole stare sedu-ta sul seggiolino dell’auto. Allora la mamma ripete la neniadelle rassicurazioni per calmarla. Invece quella mattina labambina si addormenta sul seggiolino.

Piove. Anna, tra i trenta e quarant’anni, una laurea, unmarito, tre figli, sale in macchina e guida per le strade bagna-te. Dalla sua casa, una villetta con i fiori alle finestre e un belgiardino, al liceo dove insegna ci sono sette chilometri.Sarebbero nove, perché Anna dovrebbe deviare un po’ per por-tare Martina, come ogni mattina, dalla baby-sitter. Dovrebbe.Invece guida diritta verso il liceo.

Anna per sette chilometri pensa al fatto che è in ritardo eche il tempo non basta mai. Pensa che deve fare in fretta, devemostrasi puntuale e precisa, anche perché è appena tornata allavoro dalla maternità, la terza maternità. E questo nessuno telo perdona. Pensa a cosa si prova ad arrivare a scuola sempreun minuto dopo l’orario perché hai accompagnato tre figli epensa che sarà per sempre una dei ritardatari, dei male orga-nizzati. Pensa al figlio più grande che non sta mai fermo, aquello di mezzo che è troppo magro e forse avrebbe bisognodi fare un po’ di sport. E pensa anche a Martina, che è lì inauto, e che domani compirà due anni. Pensa alla festa di com-pleanno da preparare, alla torta da ordinare, alle mamme deglialtri bimbi da chiamare, al fatto che piove e chissà se il giornodopo ci sarà il sole e si potrà festeggiare in giardino, pensa allanonna che non vuol venire se non la si va a prendere, all’altra

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nonna che non sta bene. E poi pensa a quel ragazzino a scuo-la che le ha messo la gomma da masticare fra i capelli e a tuttala classe che rideva mentre lei non capiva ed era solo stanca esudava e sudava e parlava dell’atomo e a nessuno parevaimportare. E a quell’altro studente, un po’ grosso e impaccia-to, che non parla mai, ma le ha scritto un messaggio di scusecon la sua ortografia incerta e lo ha lasciato sul cofano dellamacchina. E poi ripete la lista delle spesa, pensa alle rate delmutuo da pagare, al tubo dell’acqua che perde in garage. Masoprattutto pensa al fatto che è in ritardo, che il rosso del sema-foro dura un’eternità, che corre il rischio dell’ennesimo richia-mo, dell’ennesima occhiata severa del preside, che non si chia-ma neanche più preside e se fosse precisa si ricorderebbe ilnome giusto.

Quando Anna arriva a scuola non ha ancora smesso di pio-vere, spegne il motore, scende dall’auto, afferra la borsa, noncerca neppure l’ombrello, che sarà da qualche parte, ma non sadove, prende i libri e se li mette sopra la testa e corre sottol’acqua verso l’entrata, chiude l’auto da lontano con la chiusu-ra automatica mentre si infila dentro la scuola, con i libri, lostrumento del suo lavoro, che grondano acqua da tutti gliangoli, sgualciti come la sua autostima, inzuppata nel senso dicolpa e di inadeguatezza.

E Martina? Martina è in macchina, sul seggiolino del sedi-le posteriore, dorme.

A qualche chilometro di distanza una signora, la baby-sit-ter di Martina, guarda fuori dalla finestra, inizia a preoccupar-si. Passano i minuti, passa un’ora, ne passano due. La baby-sit-ter esce di casa, guarda verso la strada per controllare se stia-no arrivando. Niente. Allora prende il telefono, compone ilnumero di casa di Anna che squilla a vuoto, cerca il numerodel cellulare nella rubrica, ci mette un po’ perché deve trovaregli occhiali, finalmente li trova, li indossa, apre la rubrica,compone il numero, ma il telefonino di Anna ha la suoneriaabbassata.

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Ha un brutto presentimento, la baby-sitter, e allora chiamanuovamente a casa di Anna e, questa volta, prima di riattacca-re lascia un messaggio in segreteria. «Come mai non mi aveteportato la bimba?»

Passano le ore. Durante l’intervallo alcuni studenti si fer-mano davanti all’auto, vedono la bambina, che si è svegliata,sembra tranquilla, seduta sul suo seggiolino saluta con lamanina. Loro, incuriositi, le fanno “ciao” con la mano, pic-chiettano con le dita sul vetro, lei continua a guardarli tran-quilla, poi squilla la campanella, i ragazzi tornano in classe.

Trascorrono minuti, ore, inizia a fare sempre più caldo inauto, anche se ha piovuto tutta la mattina, l’aria è poca e sof-focante. Forse Martina piange, grida, picchia le manine suifinestrini. Ma nessuno la nota più, nessuno riesce a salvarla.La bimba patisce la mancanza d’aria, il sole che sembra usci-to apposta dopo ore di pioggia senza sosta, niente acqua, nien-te cibo.

A un certo punto, a casa arriva il marito di Anna che trovail messaggio in segreteria e inizia ad agitarsi. Telefona a scuo-la, chiede alla segretaria se può cercare sua moglie, la segreta-ria va in sala insegnanti dove trova Anna mentre prepara laprossima lezione.

«Come mai non hai portato la piccola alla baby-sitter?»«Oddio».

Vola dalle scale la mamma di Martina, corre all’auto, ilrespiro strozzato in gola, il sudore freddo lungo la schiena, ilterrore di trovare la figlia in lacrime, il senso di colpa, la spe-ranza, l’angoscia. Ma Martina è una bambola di pezza. Nonrespira più. Abbandonata sul seggiolino del sedile posteriore èpallida, come di cera. Anna apre l’auto, cerca di rianimare lasua piccola, le fa aria, l’accarezza, chiama il 118, arrivano gliinsegnanti, i ragazzi, arrivano il marito e i carabinieri. Lei, latesta improvvisamente vuota da tutti quei pensieri, da tuttequelle liste di cose, da fare, fatte, da rifare, ripete a tutti, comeun automa, i gesti automatici di una mattinata qualsiasi: è arri-

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vata a scuola, si è fermata in presidenza, è stata mandata acoprire alcune ore di lezione, poi in laboratorio, ancora lezio-ni e formule.

«L’ho dimenticata in auto – ripete ossessivamente –, l’hodimenticata in auto».

Lei e il marito sono conosciuti in paese, una famigliamodello, frequentano la parrocchia, si sente ripetere nelle cro-nache locali, come se la frequentazione di Dio li ponesse alriparo da una serie di coincidenze irreparabili. Anna, il maritoe la bambina corrono in ospedale, ma i medici stringono le lab-bra, scuotono la testa. La bambina è disidratata, il battito car-diaco debolissimo, la pressione assente.

Martina, che il giorno dopo avrebbe compiuto due anni,muore.

Per giorni, settimane intere, i dettagli di cosa può aver pen-sato, provato, immaginato Anna hanno affollato la mente dicentinaia di mamme che hanno scritto nei forum, nei blog spe-cializzati, nei siti Internet. La storia di Anna è diventata la sto-ria di tutte. Un’ondata di pietà, di dolore, di comprensione, dicommozione si è levata online. Nei byte si è riversata moltaamarezza, spesso indignazione, qualche volta condanna.Moltissime donne, ma anche qualche uomo, hanno scritto pergiorni e notti intere, di quello che era accaduto.

«Lo so – scrive una mamma al sito Panorama.com – cheuna bimba che muore prima del suo compleanno, perchédimenticata in auto dalla mamma, suscita un tale dolore e unsenso di assurdità, che viene quasi naturale sfogare contro lamadre, colpevole del fatto, il nostro sdegno. Ma io vi chiedo:chi siamo noi per giudicare?»

Molti confessano di aver sfiorato lo stesso dramma: «Unamattina – ammette una donna al forum alFemminile.com – sonoentrata nel parcheggio dell’azienda dove lavoravo e mi sonoaccorta che il piccolo era ancora seduto sul suo seggiolino. (…)avevo saltato la tappa dalla balia. Senza spegnere il motore ho

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girato l’auto e sono uscita. (…) Quello che ti salva non è la bra-vura ma il destino».

«Avrei potuto essere io! – scrive una mamma in un blog –A me è capitato di arrivare al lavoro e di aver fatto le cose tal-mente di corsa da arrivare a pensare: ma il piccolo l’ho lascia-to all’asilo? Ah, sì, mi ha anche salutato... o era ieri? E via achiamare l’asilo perché mi monta la paranoia».

«Ho 28 anni, una figlia di 29 mesi e uno di 6 e mezzo»,dice Stefania sempre al forum alFemminile.com. «Fino aqualche mese fa non l’avrei pensata così e mi sarei indignata.Ora capisco».

«Sono un uomo ma quella mamma potrei essere io», scriveun lettore sul blog Barbablog della giornalista Daria Bignardi,al quale su questo tema sono arrivati più di cento messaggi.

C’è chi invece rivede la scena dal punto di vista della figlia. «Quando ero piccola – scrive S. –, è capitato anche a me di

essere dimenticata all’asilo dai miei genitori (…) Alla fine miportò a casa la maestra e io non volevo più andare all’asilo».

«Questa storia della bimba dimenticata in macchina mitorna in mente troppo spesso», scrive una donna. «Sonomamma da soli 8 mesi, sono tornata per forza al lavoro quan-do N. ne aveva 4 e ogni giorno metto post-it ovunque perricordarmi dei vari pezzetti di vita che dovranno comporre lenostre giornate».

C’è anche chi non vuole saperne. «Ma stiamo scherzando? – scrive un padre –. Ok alle

mamme tutto fare (…) ma qui stiamo parlando di figli! Miamadre non si sarebbe mai dimenticata nemmeno di venirmi aprendere da scuola! Io non accetto tutto questo, è impensabileche una donna si dimentichi il proprio bambino in auto e nelfrattempo vada a lavorare. Quella è una donna e basta, appun-to, non una mamma».

Sempre dal Barbablog, sempre un uomo: «Non diciamostupidaggini. Non si dimentica nessuno in macchina, manco ilcane. Figuriamoci un figlio. E piantiamola di inzuccherare

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tutto con falso buonismo. Hai voglia a scongelare polli o a pas-sare aspirapolvere, un figlio ha la priorità. Almeno sul pollo.Scongeliamo meno polli e ricordiamo di far scendere dallamacchina chi ci abbiamo messo».

Anche per molte donne e mamme è una situazione impos-sibile da decifrare. C’è chi invoca la pena di morte, chi si chie-de se non fosse «un modo per far capire al marito che non desi-derava altri figli».

Sempre sul sito alFemminile.com: «Nessuno pensa mai aibambini e alla fine atroce che fanno, si pensa solo a giustifica-re gli adulti dopo che compiono le peggiori nefandezze anchese a volte lo si fa inconsciamente. (…) non si facciano i figlise si hanno troppe preoccupazioni».

Molti tentano di circoscrivere questi casi a momenti di follia. «Dimenticare la figlia in macchina è sinonimo che qualche

cosa non funziona», sostiene un papà.«Ma come si fa? – si legge sul sito Buoni genitori – Sono

buoni genitori questi? Sono normali? (…) Poveri figli…»E ancora. Un papà scrive sul sito Nienteansia.it: «Questa

povera signora stava male e nessuno se ne era accorto.Neanche lei».

Fra quelli che comprendono si instaurano spesso discussio-ni sul peso del lavoro per una donna e la difficoltà di teneretutto assieme, lavoro e famiglia.

«Volevamo la parità – dice un’iscritta al forumalFemminile.com –, abbiamo ottenuto che lavoriamo più degliuomini, guadagniamo di meno e una volta a casa abbiamo casae figli di cui preoccuparci, perché purtroppo questi sono anco-ra considerati compiti femminile. È parità questa? (…) Quantastrada da fare…»

Una giovane studentessa si preoccupa per il suo futuro:«Leggo e non posso non pensare a mia madre che con la nasci-ta del secondo figlio lasciò un lavoro prestigioso e remunera-tivo per l’impossibilità di tenere le fila di una vita assurdamen-te frenetica. Sarà il bivio di fronte a cui anche noi, studentes-

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se universitarie di belle speranze, a un certo punto ci trovere-mo davanti?»

Un uomo scrive: «Nessuno ha il coraggio di dirlo, si preferi-sce la versione patinata della giostrina con le apine sulla culla etutti si scandalizzano quando succedono queste cose, ma cresce-re dei figli in questo tessuto sociale è una cosa pazzesca».

Antonia parla delle difficoltà di chi vuole continuare alavorare: «Io non voglio stare a casa dal lavoro (…) ma vorreiavere un po’ più di tempo per mio figlio. Chiedo un part-timedi sei ore (…) e sembra che questo sia fantascienza!»

Simonetta in rete racconta lo scambio di battute con suafiglia e il senso di inadeguatezza continuo: «Bambina: “Nonmi ascolti mai mamma, quante volte te lo devo dire che a scuo-la si devono portare solo cose chiuse, confezionate e con ladata di scadenza? Figurati le pizzette scongelate... C’è scrittoanche nel foglietto che ti ho dato, lo ha detto la maestra... Poiricordati che ai bambini non piace che si vada a prenderli perultimi... Ricordati, eh?”»

«Certo che – riflette Antonella sul forum Panorama.com –se attorno a una madre lavoratrice ci fosse una rete di servizi epersone che la agevolano, forse lo stress diminuirebbe e lemamme riuscirebbero a essere più serene. Essere mamma sin-gle, come sono io, poi è anche peggio».

Sul forum online Nienteansia.it l’argomento tiene banco ec’è chi – come una iscritta che si firma B.– coglie l’occasioneper parlare di sé: «Sarà perché non ho avuto nessuno (a parte ilmio compagno) a darmi una mano nell’affrontare la rivoluzioneche mia figlia ha portato in casa (…). I litigi col mio compagnooramai sono all’ordine del giorno (…), mi sento sull’orlo del-l’esaurimento (…), ho davvero paura di perdere il controllo,perché non mi sento più padrona della mia vita».

Alcuni si chiedono che ruolo abbiano in tutto questi ipadri.

Scrive una lettrice del Barbablog: «In questa guerra di trin-cea che chiamiamo vita (...) dove sono i compagni maschi?

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Sembriamo tutte delle vedove! Smettiamola di considerarliinabili perfino ad annaffiare le piante».

Sentenzia un uomo: «La colpa? Io non la darei solo allamadre... mi chiederei: e il padre? Quanto ha influito nella dis-sociazione della moglie?»

Alla fine, facendo una rapido bilancio, i messaggi di com-prensione ed empatia sono molti di più di quelli di condanna.In fondo assolvere Anna significa anche assolvere noi stessi,almeno nei processi privati.

«L’imputato era un uomo immenso, più di cento chilo-grammi, ma sotto il peso della sua vergogna e del suo doloresembrava addirittura più grande».

Così inizia una lunga inchiesta pubblicata sul WashingtonPost nel marzo 2009 dal giornalista Gene Weingarten, con laquale il cronista ha vinto il Pulitzer nella primavera del 2010.L’enorme uomo descritto è Miles Harrison, un bravo padre difamiglia di 49 anni, che, come è capitato ad Anna, ha la disgra-zia di essere sopravvissuto al figlio di pochi mesi, dimentica-to per nove ore nel seggiolino dell’auto nel parcheggio dell’uf-ficio dove l’uomo lo aveva lasciato accidentalmente.

Distrazioni fatali, così si intitola l’articolo che raccontadieci di questi casi e i motivi per cui alcuni si sono tradotti inun processo a carico del genitore “distratto” (sei casi su dieci)e altri invece non sono nemmeno finiti davanti ai giudici(quattro su dieci). Miles Harrison è stato assolto, ma è condan-nato a vivere tutti i giorni con se stesso. «Non voleva nessunsedativo, diceva che non meritava nessuna tregua, nessun sol-lievo dal dolore che provava, che desiderava sentire piena-mente quel dolore e poi finalmente morire», così lo descriveWeingarten.

Per Anna non c’è stato capo d’imputazione, non c’è statoprocesso, gli investigatori hanno archiviato quasi subito il caso.

Quello che è successo ad Anna accade dalle quindici alleventicinque volte l’anno negli Stati Uniti, scrive Weingarten,

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ed è accaduto a diversi genitori negli ultimi vent’anni in Italiae nel resto d’Europa, anche se sulle vittime europee e italianenon ci sono dati precisi e ci si può rifare solo alle notizie ripor-tate dalle cronache giornalistiche.

Accade comunque abbastanza spesso, nei Paesi occidenta-li, in particolare dagli anni Novanta, precisamente da quandole case automobilistiche hanno iniziato a inserire nel cruscottodi fronte ai sedili anteriori gli airbag. Questi dispositivi – cometutti sanno – in caso di incidente si gonfiano immediatamentee per i neonati possono essere fatali (anche se molte case auto-mobilistiche prevedono la possibilità di disattivare l’airbag delpasseggero). Nel timore che questo possa succedere, nel para-dossale tentativo di proteggere i bambini e per evitare chesiano esposti a scontri frontali, molti genitori hanno iniziato aposizionare il seggiolino sui sedili posteriori. Questa sistema-zione, nel caso in cui il bambino stia dormendo o sia moltosilenzioso e il genitore sia in un particolare stato di stress estanchezza, può portare alla “fatale dimenticanza”.

Si tratta di un processo cerebrale semplice, al quale sonosottoposti tutti gli esseri umani, che è stato studiato dal profes-sor David Diamond, esperto dei meccanismi della memoriache insegna fisiologia molecolare alla University of SouthFlorida. Il cervello umano – secondo Diamond – quando sicompiono azioni di routine utilizza inconsapevolmente la suaparte profonda e rudimentale come un pilota automatico (perquesto non dobbiamo ogni volta “pensare” per guidare un’au-to o lavorare a maglia), mentre la parte più sofisticata delnostro cervello, la corteccia frontale, è occupata contempora-neamente in pensieri meno rudimentali, più astratti.Normalmente questo sistema binario funziona a meraviglia,come una sinfonia, ma occasionalmente, se sottoposti a fortestress o stanchezza, il “pilota automatico” prende il soprav-vento sull’altra parte del cervello e impone il suo ritmo, senzaaccettare distrazioni (un cambio nella routine, uno stop nel tra-gitto da casa al lavoro). Può accadere a qualsiasi essere

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umano, ma la maggior parte delle volte riusciamo, per fortunao per coincidenza, a far prevalere la parte della corteccia fron-tale e sventare le conseguenze più drammatiche.

Non è un caso che in America esistano statistiche precise. Inquesto Paese ci sono stati movimenti d’opinione e tentativi dilobby di genitori riuniti in associazioni, come l’Organizzazionenon governativa Kids and Cars di Janette Fennell, che hannostudiato il problema e hanno spinto il governo statunitense e lecase di produzione di auto a trovare una soluzione, finora peròsenza successo. Fennell ha incontrato decine di genitori. Non liha cercati lei, sono stati loro a trovarla su Internet, nelle nottiinsonni trascorse al computer, schiacciati dal rimorso e dallapena, alla ricerca, nel Web come altrove, della prova tangibileche altre persone sono passate attraverso quell’inferno e sonosopravvissute. Il peggior caso del quale Fennell è venuta aconoscenza è quello di un bambino che, legato al seggiolinodell’auto, prima di morire – per il caldo, la sete e forse l’ango-scia – si è strappato tutti i capelli. Davanti a un’immagine così,Fennell si aggrappa alla funzionalità dei seggiolini per trovaresoluzioni pratiche a incubi diurni.

Ci ha provato anche un astronauta della Nasa, EdwardModlin, ad aiutarla. Modlin ha progettato un apparecchio faci-le da usare, economico e funzionale, basato sui sensori utiliz-zati dall’aeronautica spaziale applicati a un seggiolino chepossa segnalare la presenza, quando si spegne la macchina, diun peso. Modlin ci ha pensato dopo essere rimasto molto tur-bato dalla disgrazia che ha colpito un suo collega, KevinShelton, che, come Anna e centinaia di altri genitori, ingegne-ri spaziali come insegnanti, professionisti come operai, halasciato in auto il figlio, un bambino di nove mesi, e anche luil’ha trovato morto.

A sei anni dalla sua invenzione il “seggiolino intelligente”è stato brevettato, ma nessuna casa automobilistica ha decisodi produrlo perché diversi studi di marketing hanno decretatoche «non venderebbe». La ragione è semplice: in barba agli

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studi di Diamond e anche al buon senso, pochi genitori sonodisposti ad ammettere che una simile distrazione potrebbe toc-care anche a loro.

Eppure succede. Se si escludono i casi di reale abbandonoper negligenza o incuria, che pure ci sono (ma che qui noninteressa indagare), la dinamica è sempre la stessa: il genitorecarica il piccolo in auto, dovrebbe accompagnarlo dalla “tata”o al nido o dai nonni, ma “se ne dimentica” e guida meccani-camente fino al posto di lavoro, dove parcheggia e lascia l’au-to e il figlio tutto il giorno.

Sono molti anche i casi europei. Nel maggio 2007 è capita-to ad Hal, una cittadina poco distante da Bruxelles, a un bam-bino di cinque mesi, dimenticato nell’auto dalla madre per piùdi otto ore. Esattamente come Anna, la donna ha scordato diportare il piccolo alla baby-sitter e solo al termine della gior-nata di lavoro, quando ha suonato a casa della signora perriprendersi il bambino, si è accorta: il piccolo era ancora nelsuo seggiolino sul sedile posteriore e non respirava più.

Nel 1998 è successo a Catania a un uomo di 37 anni.Quando uscì dal lavoro, sei ore dopo, trovò il figlio di due annimorto per asfissia e ustioni, dimenticato in macchina. I peritidissero che nell’auto erano stati superati abbondantemente i 50gradi. In questo caso l’uomo fu incriminato e condannato a unanno. «Non cercate colpevoli – ammonì l’arcivescovo diCatania, Luigi Bommarito –, è una disgrazia inspiegabile».«Ero come in trance – ha detto al processo l’uomo –, nonavevo dormito tutta la notte. Mia moglie era stata male e c’eraun caldo infernale».

Nel luglio 2008 è capitato due volte nella stessa settimanain Francia. La prima volta, a metà mese, è toccato a una bam-bina di tre anni. Qualche giorno dopo, in un’altra zona delPaese, a un bimbo di due e mezzo. Il padre, un farmacista di38 anni, interrogato dalla polizia, ha detto di aver scordato ilpiccolo dopo aver assistito a un incidente stradale che lo aveva

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particolarmente turbato. L’uomo è stato condannato a ottomesi di carcere.

Nessun processo e nessuna condanna invece per il padre diuna bambina belga di undici mesi che ha fatto lo stesso terri-bile errore nel giugno 2009. Anche lui, andando al lavoro, si è“scordato” della figlia, seduta alle sue spalle.

È una disgrazia terribilmente democratica. Negli ultimianni è capitato a persone benestanti come a persone in difficol-tà economiche, a genitori giovani o in là con gli anni, madri epadri, persone istruite e persone semplici. Non tutte queste“dimenticanze” si sono trasformate in tragedie, anzi, per fortu-na la stragrande maggioranza si sono risolte perché le personeinteressate oppure un passante o un conoscente sono riuscite ainterrompere quel flusso di coincidenze terrificanti che, sesommate, possono portare a quella che lo psicologo ingleseJames Reason chiama «il modello del formaggio svizzero»,secondo il quale i “buchi” di vari strati di formaggio rappre-sentano piccoli, potenzialmente insignificanti, vuoti dellanostra memoria. Insignificanti fino a che, disgraziatamente, inun caso raro ma possibile, tutti i “buchi” non si vanno asovrapporre perfettamente, uno sull’altro.

Se Martina non si fosse addormentata sul seggiolino. Seavesse fatto i soliti capricci. Se gli studenti che l’avevano vistaavessero avvertito qualcuno. Se un passante l’avesse notata eavesse lanciato l’allarme. Se la baby-sitter avesse preso la mac-china e fosse andata a scuola a chiedere spiegazioni sulla man-cata consegna invece di limitarsi a telefonare. Se Anna nonfosse stata presa da mille pensieri. Se fosse uscita in cortile peruna boccata d’aria o una sigaretta. Se non avesse abbassato lasuoneria del cellulare. Se, se, se.

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