Shofetìm

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Shofetìm La Parashà si conclude con un argomento assai noto, quello della “vitella decapitata”: se si trova un morto ammazzato e non si sa chi sia l’assassino, gli anziani della città più vicina compiono un rito espiatorio decapitando una vitella presso un torrente e lavandosi le mani nell’acqua. Come abbiamo avuto modo di vedere in varie occasioni, questo rito ha a che fare con il concetto di responsabilità indiretta, o responsabilità morale . L’aspetto più problematico del brano, però, è nella sua collocazione: inserito fra argomenti che hanno a che fare con la guerra, mentre qui si tratta evidentemente di qualcosa che ha a che fare con la vita civile. Se seguiamo la logica comune, risulta chiaro che se parliamo di uno stato di guerra è abbastanza comune imbattersi in un cadavere, e nessuno si domanda chi sia responsabile della sua morte: se non è una parte belligerante, è l’altra. Invece in una situazione di pace ha senso domandarsi se si è fatto tutto per evitare che un simile crimine potesse avere luogo. Ma se è così, perché questa regola è inserita fra questioni belliche ? Evidentemente, ciò che la Torà ci vuole insegnare è che perfino in situazioni di guerra i nostri doveri civili e morali non cambiano. Non è ammissibile, secondo la Torà, compiere azioni riprovevoli e giustificarli con lo stato di guerra: l’etica è una sola. Da qui si vede, dunque, quanto la guerra sia aliena dalla concezione ebraica . Rav Elia Richetti Regola 4 .A E si sappia ancora un principio importante correlato; se si vuole fare un accordo con qualcuno, per esempio dargli un lavoro o mettersi in società con lui, o concordare un matrimonio (tra membri delle rispettive famiglie), o cose di questo tipo, anche se non si è mai sentito parlare male di lui, ciononostante è permesso indagare sulla sua persona; e malgrado sia possibile che ne parlino male, anche così è permesso, perché si fa soltanto per il proprio bene, per non rischiare di subire in seguito dei danni, e poi arrivare a liti, dispute e profanazione del nome dell’Onnipotente, che D.o. ce ne scampi. Però mi sembra sia necessario informare la persona presso cui si intende indagare, che si ha l’intenzione di concordare un matrimonio o fondare una società con lui di cui sopra, e così non ci si addosserà alcun sospetto di trasgressione: né per via della sua domanda, poiché non si ha intenzione di parlarne male, ma soltanto di occuparsi del proprio tornaconto, come abbiamo spiegato (ma si presti attenzione a non credere completamente alla risposta, per via dell’accettazione della lashòn harà, bensì la si prenda semplicemente in considerazione per difendere i propri interessi); né si trasgredirà alcun divieto (chiedendo) una risposta all’interpellato, laddove si potrebbe affermare che si trasgredisce il divieto “Non porre un ostacolo davanti a un cieco” , perché se anche l’interpellato raccontasse tutto il male che pensa (dell’indagato), anche in questo caso non trasgredisce un divieto perché neanche lui racconta una critica fine a stessa dell’indagato, bensì dice la verità per il bene di chi gliene ha chiesto un parere, cosa che come abbiamo spiegato altrove è permessa. Ma bisogna stare molto attenti a non esagerare nella risposta (rivelando) più di quanto si sappia con certezza, e altre cose necessarie (cui si deve prestare attenzione). Ma se non si dice all’interpellato il motivo dell’inchiesta, e si finge di essere estranei, allo scopo di ottenere tutte le informazioni sull’indagato, appare evidente che si trasgredisce il divieto di “Non porre un ostacolo davanti a un cieco”, perché in questo modo, se l’interpellato parla male dell’indagato, trasgredisce un divieto, e ciò perfino se quanto racconto corrisponde al vero,

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Le leggi della maldicenza. La parola del Rabbino Capo. Regola 4 - PowerPoint PPT Presentation

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ShofetìmLa Parashà si conclude con un argomento assai noto, quello della “vitella decapitata”: se si trova un morto ammazzato e non si sa chi sia l’assassino, gli anziani della città più vicina compiono un rito espiatorio decapitando una vitella presso un torrente e lavandosi le mani nell’acqua. Come abbiamo avuto modo di vedere in varie occasioni, questo rito ha a che fare con il concetto di responsabilità

indiretta, o responsabilità morale .•L’aspetto più problematico del brano, però, è nella sua

collocazione: inserito fra argomenti che hanno a che fare con la guerra, mentre qui si tratta evidentemente di qualcosa che ha a che fare con la vita civile. Se seguiamo la logica comune, risulta chiaro che se parliamo di uno stato di guerra è abbastanza comune imbattersi in un cadavere, e nessuno si domanda chi sia responsabile della sua morte: se non è una parte belligerante, è l’altra. Invece in una situazione di pace ha senso domandarsi se si è fatto tutto per evitare che un simile crimine potesse avere luogo. Ma se è così, perché questa regola è inserita fra questioni

belliche ?

Evidentemente, ciò che la Torà ci vuole insegnare è che perfino in situazioni di guerra i nostri doveri civili e morali non cambiano. Non è ammissibile, secondo la Torà, compiere azioni riprovevoli e giustificarli con lo stato di guerra: l’etica è una sola. Da qui si vede,

dunque, quanto la guerra sia aliena dalla concezione ebraica .

Rav Elia Richetti

Regola 4 .AE si sappia ancora un principio importante correlato; se si

vuole fare un accordo con qualcuno, per esempio dargli un lavoro o mettersi in società con lui, o concordare un matrimonio (tra membri delle rispettive famiglie), o cose di questo tipo, anche se non si è mai sentito parlare male di lui, ciononostante è permesso indagare sulla sua persona; e malgrado sia possibile che ne parlino male, anche così è permesso, perché si fa soltanto per il proprio bene, per non rischiare di subire in seguito dei danni, e poi arrivare a liti, dispute e profanazione del nome dell’Onnipotente, che D.o. ce ne scampi. Però mi sembra sia necessario informare la persona presso cui si intende indagare, che si ha l’intenzione di concordare un matrimonio o fondare una società con lui di cui sopra, e così non ci si addosserà alcun sospetto di trasgressione: né per via della sua domanda, poiché non si ha intenzione di parlarne male, ma soltanto di occuparsi del proprio tornaconto, come abbiamo spiegato (ma si presti attenzione a non credere completamente alla risposta, per via dell’accettazione della lashòn harà, bensì la si prenda semplicemente in considerazione per difendere i propri interessi); né si trasgredirà alcun divieto (chiedendo) una risposta all’interpellato, laddove si potrebbe affermare che si trasgredisce il divieto “Non porre un ostacolo davanti a un cieco” , perché se anche l’interpellato raccontasse tutto il male che pensa (dell’indagato), anche in questo caso non trasgredisce un divieto perché neanche lui racconta una critica fine a sé stessa dell’indagato, bensì dice la verità per il bene di chi gliene ha chiesto un parere, cosa che come abbiamo spiegato altrove è permessa. Ma bisogna stare molto attenti a non esagerare nella risposta (rivelando) più di quanto si sappia con certezza, e altre cose necessarie (cui si deve prestare attenzione). Ma se non si dice all’interpellato il motivo dell’inchiesta, e si finge di essere estranei, allo scopo di ottenere tutte le informazioni sull’indagato, appare evidente che si trasgredisce il divieto di “Non porre un ostacolo davanti a un cieco”, perché in questo modo, se l’interpellato parla male dell’indagato, trasgredisce un divieto, e ciò perfino se quanto racconto corrisponde al vero, così come abbiamo già esposto in precedenza, che secondo tutti i poskìm il divieto della maldicenza vale perfino sulla verità, e non la si può raccontare se non nel caso in cui questo biasimo sia utile a chi indaga, ma in caso contrario non si può. E se anche ne scaturisse un beneficio per chi indaga, in ogni caso l’intenzione dell’interpellato era di danneggiare l’indagato. Perciò bisogna agire secondo quanto spiegato

(cioè rivelare i motivi dell’inchiesta) .

(Liberamente tratto da “Le leggi della maldicenza” del Chafètz Chaìm, 2007 )

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settimanale no. 224

settimanale no. 224

A cura dell’Ufficio Rabbinico di Venezia La Parashà della settimana: Shofetìm

Acc. lumi ore: 19.50 Uscita ore:20.54

AVVENIMENTI DELLA SETTIMANA

2 Elùl 5769 25 Agosto 2009

•Rav Ya‘aqòv Provenzal •Vissuto nel quindicesimo secolo, originario

dalla Francia, fu forse il capostipite della famiglia Provenzal che ritroviamo a Mantova nel secolo successivo. A Marsiglia si occupò di commercio marittimo, ma si trasferì a Napoli, dove lo ritroviamo nel 1480 come Rabbino. Da Napoli scrisse una lettera a Messer David ben Yehudà Leon di mantova in merito agli studi secolari, specialmente quelli medici. Scrisse l’approvazione all’ “Agùr” di Ya‘aqòv Barùkh Landau (Rimini 1526). Sembra abbia composto anche un commento al Cantico dei Cantici stampato insieme a quelli di Sa‘adyà Ga’òn e Yosèf

ibn Kaspi (1577) .

בס"ד

תורת היום