Sexoring di Cosimo Buccarella

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Un uomo ritrova il vecchio vizio degli stupefacenti e una ragazza disinibita da salvare. Ma tutto fa parte di una trappola che lo porterà di nuovo a cadere in basso, sempre di più, fino a giungere a situazioni estreme e pericolose. Il continuo rimando al disinganno del protagonista, che sa guardarsi con occhi poco indulgenti, dà il via a una lettura agile, priva di distacco etico e retorica.

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A Chiara, per la felicità di ogni giorno

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Capitolo 1

Molte persone muoiono proprio quando stanno iniziando a di-ventare interessanti. O forse entrano a far parte del gruppo dei potenzialmente interessanti solo perché sono morte. Sulla tua la-pide potresti scrivere: “Ero una persona interessante. O se non altro, tu non hai prove che non lo fossi”.

Si scoprono molte cose sulla gente, dopo che è morta. Una volta, da bambino, mentre attraversavi il cimitero insieme ai tuoi genitori, diretto alla tomba dei nonni, tuo padre indicò una son-tuosa cappella funebre. Aveva cancelli di ferro battuto smaltati di nero, sculture sacre ai lati del portale, vetri colorati e un tetto svettante come un’astronave. Tuo padre la indicò e disse: «Sai, l’uomo che ha costruito quella cappella per sé e la sua famiglia, viveva in una casa diroccata. Quando pioveva, dal tetto l’acqua gocciolava in casa. Sua figlia soffre d’asma forse proprio a causa della muffa che impregnava la casa in cui è cresciuta. Eppure, quell’uomo spese una fortuna per costruire quello stupido mau-soleo».

Poi s’inginocchiò e ti posò le mani sulle spalle e ti disse: «Quan-do sarai grande, devi ricordarti di dedicare la tua vita alla vita, Emilio. Non alla morte. Alla vita».

Si capiscono molte cose sulle persone anche dal modo in cui muoiono. Per suicidarsi, ad esempio, chi soffre di depressione sceglie in genere metodi poco spettacolari. Il classico taglio delle vene. O un colpo in testa. Le donne prediligono modi indolore e in un certo senso privati, come l’overdose di farmaci. Gli psico-tici cercano una morte più pirotecnica. Si lanciano giù da palazzi in strade affollate, o sotto il treno della metropolitana nell’ora di punta. Qualcosa che desti impressione.

L’essere in piedi sul parapetto del balcone di casa, al terzo pia-

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no, a valutare se la caduta ti ucciderà o ti lascerà in terra, vivo ma agonizzante, con tutte le ossa fracassate, fa quindi di te uno psi-cotico. Il che comporta un aggiornamento del tuo epitaffio: “Ero un tipo interessante, uno psicotico schizzato. E avrei dovuto dar retta a mio padre”.

Senti le tende della camera da letto frusciare alle tue spalle, sospinte dal vento. Vedi i passanti ignari sotto di te, affaccendati nelle loro pratiche del primo mattino, e un brivido ti percorre le guance. Non ti eri mai reso conto di quanto in alto fosse quel balcone. Ti assale il dubbio che il lancio nel vuoto non sia il tuo modo di morire. Eppure ormai sei lì, è sufficiente chiudere gli occhi e far pendere un po’ il peso in avanti, e tutto sarà finito.

Chiudi gli occhi.Nei film, questo è il momento in cui il telefono squilla e fa de-

sistere il protagonista dall’insano gesto, oppure un eroico agente di polizia con l’impeccabile uniforme appena incurvata da un ac-cenno di pancetta fa irruzione nella stanza e lo convince a non ammazzarsi, dicendogli qualche frase scontata e chiamandolo molto spesso “amico”.

Ma il tuo telefono non squilla. E non senti la porta di casa aprirsi. Nessuno sembra avere intenzione di salvarti.

Il tuo corpo sembra all’improvviso farsi leggero. È l’adrenalina che ti scorre nelle vene, con il cuore che pompa all’impazzata e un mal di testa feroce che immediato ti assale.

Pensi a quante probabilità ci siano che il tuo sfintere anale si rilassi durante la caduta. Il tuo epitaffio allora sarebbe: “Ero un tipo interessante e disturbato. Me la feci addosso per la paura, ma riuscii lo stesso a suicidarmi”.

Questo non è il modo in cui vuoi morire. Non vuoi che il me-dico legale scopra che sei morto di paura prima ancora di toccare terra.

Appurato che il lancio nel vuoto non è adatto a te, scendi dal parapetto e strascicando i passi rientri in casa. Il tuo ennesimo proposito suicida del mattino è fallito. Ti tocca darti una ripulita e uscire di casa.

Quando sei per strada e imbracci la cartelletta che contiene le copie del tuo curriculum, diretto verso la prima di una lunga lista

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di agenzie di lavoro interinale che devi visitare, ripensi a Emma. A quando ti ha detto che è una balla buona per i gonzi che il licenziamento per riduzione del personale non sia brutto come quello per incapacità. A quando hai realizzato che la verità è che presto resterai senza un soldo, che fuori tutto continua ad andare e tu invece sei fermo. Che non hai alcuna idea di quando ripartirai e in che direzione lo farai.

L’agenzia interinale è ormai in vista e pensi a come ti pre-senterai all’impiegata. Questo ti fa immaginare la sua faccia im-balsamata che circonda gli occhi densi dell’insoddisfazione che ha imparato a reprimere. La voce acida nel tono professionale e sbrigativo che serve a far intendere che nella sua agenzia ci sia tanto lavoro da fare, perché questo renderà sbrigativo e profes-sionale anche te. E t’immagini le parole che dirà: che sei troppo vecchio o troppo titolato. Oppure che s’è appena liberato un im-piego perfetto per te, che consiste nel dar giù cibo alla mensa dell’Università; che ti impegnerà soltanto due ore al giorno, il che è l’ideale per te, perché così avrai gran parte della giornata libera per fare altro. E tu chiederai quanto guadagneresti e lei ti risponderà quattro euro l’ora. Tu le domanderai cosa sarebbe, dunque, l’altro che potresti fare nella tua giornata con gli otto euro guadagnati durante la pausa pranzo. E allora lei, piccata, ti risponderà che se non vuoi il lavoro basta dirlo, che c’è la fila fuori dalla porta di persone che lo bramano e tu penserai: allora che se lo prendano.

Ma fuori della porta non c’è nessuna fila. Attaccato alla vetrina c’è soltanto qualche sparuto volantino che annuncia la disponi-bilità di lavori temporanei come cuoco, saldatore, addetto alla catena di montaggio. Sai che sono annunci fittizi e allora pensi che persino gli specchietti per allodole non sono più quelli di una volta e questo non è davvero un buon segno.

Non hai nessuna voglia di deprimerti ancora di più e allora guardi quel grosso cassonetto con le fauci spalancate e prendi la mira e lanci la cartelletta come un frisbee. Questa volteggia, si carica d’effetto, fa una curva e plana proprio nel mezzo dell’im-mondizia. Giusto in tempo, a quanto pare, per evitare di esse-re visto dall’individuo che ti sta salutando con la mano alzata

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dall’altro lato della strada mentre si lancia al trotto lungo le strisce pedonali.

Abbozzi un sorriso di cortesia e lo attendi, sperando che un SUV non faccia in tempo a frenare e ti liberi dalla necessità del-la conversazione che scaturirà da quell’incontro. Ma non accade nulla se non che Manuel Giosuè Cardarelli col suo passo zam-pettante salta giù dal marciapiede all’asfalto, e poi su, dall’asfalto all’altro marciapiede e te lo ritrovi quasi attaccato al naso.

Gli chiedi come sta e Manuel inizia subito a raccontarti di come stia facendo un sacco di soldi perché sembra che tutti vogliano fare causa a tutti per tutto, e tutti quanti abbiano bisogno di un avvocato. E mentre lo ascolti pensi che Manuel abbia senz’altro le adenoidi e ti domandi come mai, con tutti i soldi che ha, non si faccia operare.

«E tu» continua Manuel «come stai? Ho sentito che non te la passi molto bene».

«Scherzi? Va tutto a gonfie vele. Adesso sono in ferie. Guarda, stavo proprio andando in agenzia a ritirare i biglietti per la vacan-za e, anzi, scusa ma devo scappare o faccio tardi».

«Emilio» dice lui. Alza un sopracciglio: «È lunedì mattina e le agenzie viaggi sono chiuse... Inoltre alcuni tuoi colleghi si sono rivolti al mio studio per intraprendere azioni legali contro i licen-ziamenti».

«Ah! E hanno qualche speranza?»Manuel dondola il capo e sporge il labbro inferiore. «Vedre-

mo» dice. «Nel frattempo, tieni duro». Fa quasi per andarsene. Poi sembra ripensarci e rovista con una mano nel taschino. Im-magini che stia per darti un biglietto da visita, ma poi Manuel dice: «Prendi! Per tirarti un po’ su il morale... e in memoria dei vecchi tempi» e ti allunga una caramella quadrata e smaltata, che sarebbe simile a una Golia Bianca molto grossa se non recasse incise sulla superficie liscia le minuscole lettere MOBY DICK.

«E che cosa sarebbe?» domandi.Manuel chiude gli occhi e inspira come un gatto: «Il paradiso.

Non hai idea di cosa sono in grado di fare questi laboratori chi-mici, oggigiorno. E sono sicure, sai? E la maggior parte anche legali!»

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Il tuo ex amico ride dello sguardo che dedichi al suo omaggio, come se tenessi in mano una bomba pronta a esploderti in faccia. «Non è mica una supposta» dice. «La devi polverizzare».

Quindi ti fa l’occhiolino e se ne va, salutandoti con la mano alta in cielo quando ormai ti dà le spalle.

Un tempo quel tipo era tuo amico, anche se adesso fatichi a ricordarne il perché. Certo, era avvenuto durante il periodo inter-medio tra il Grande Abbandono e il Piccolo Abbandono, e non hai davvero memoria di quello che accadde in quegli anni.

Manuel fu parte integrante del Piccolo Abbandono. Questo lo sai. Questo non l’hai scordato.

La sua figura che rimpicciolisce mentre si allontana è sovra-stata da un cartellone pubblicitario di proporzioni ciclopiche che annuncia che l’ospite d’onore della serata alla discoteca Blue Bay sarà una ragazza il cui nome non ti dice nulla, ma di cui ricordi il viso. L’hai visto in tutti i tiggì quando, da concorrente di un reality show, è diventata celebre per aver partecipato a un’orgia a favore di telecamere con tre coinquilini. Basta poco per essere ricchi e famosi. È sufficiente fare tutte le scelte sbagliate. Tutte quelle che i tuoi genitori, se ne avessero avuto il tempo, ti avrebbero racco-mandato di non fare. Insegnandoti a essere un buon perdente.

Urge fermarsi a riordinare le idee. Ti serve qualcuno con cui parlare. E magari qualcosa da bere, possibilmente a buon merca-to. Emma è al lavoro. Non ti resta che tornare a casa, prendere l’auto e andare a trovare Davide al Fico d’India.

Quando arrivi, Davide sta preparando macedonie e panini, in vista dell’arrivo dei clienti dell’ora di pranzo. Ti siedi accanto a lui nel retro del bancone, sorseggi una birra e racconti l’incontro con Manuel Giosuè.

«E perché ti ha dato la caramella?» Chiede Davide tenendo Moby Dick stretta in alto tra indice e pollice a tenaglia e rimiran-dola alla luce, come nell’atto di valutare un diamante.

«Lo conosci, Manuel. Voleva fare lo sbruffone».«La userai?»«Pensavo di dividerla tra noi domani sera, quando usciamo con

le ragazze. Che ne dici?»«Ti ricordi cos’è successo la prima volta che hai fumato uno

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spinello? Ed era solo fumo».«Che c’entra? È che il fumo mi rende paranoico. E vi avevo

avvisati prima».«Che cosa fece?» Domanda Enrico, il cameriere, continuando

a ramazzare l’atrio.Davide sogghigna mentre si pulisce le mani sul grembiule:

«Beh, è una storia praticamente di vent’anni fa: eravamo a casa di questo Manuel, Emilio e io, di ritorno da una festa in cui c’erava-mo ubriacati di brutto. Emilio era il più sbronzo dei tre, tanto che appena arrivato a casa si buttò sul letto di Manuel».

«Ero solo stanco» ti intrometti.Davide continua a parlare come se non ti avesse sentito: «Ma-

nuel aveva un po’ di fumo. Manuel ha sempre un po’ di droga da qualche parte. E continuava a dire che dovevamo provarlo, per-ché era qualcosa di portentoso. Disse che gliel’aveva procurato un qualche cugino di un qualche tizio sudamericano che ades-so non ricordo. Così, mentre Emilio dormiva, lo rullammo e ci andammo a stendere anche noi sul letto a fumare. Svegliammo Emilio e gli passammo lo spino, e all’inizio se lo fumò tutto con-tento. Il letto era troppo piccolo per tutti e tre e quindi eravamo molto vicini. A un certo punto Emilio iniziò a spostarsi come un gambero verso il bordo del materasso. Manuel lo afferrò per un braccio e lo tirò verso di noi. “Che fai Emil”, gli disse, “scap-pi?”. Emilio iniziò a farfugliare qualcosa sul fatto che sapeva che volevamo violentarlo e che lui era troppo debole per opporsi a entrambi, e quindi sì, doveva scappare. Ce lo disse così, come se ci stesse spiegando una lezione di matematica. Allora mi lanciai su di lui gridando: “Sì! Vogliamo il tuo culo! Le tue belle chiappe candide!”. Lui saltò giù dal letto, sbatté la fronte sul comodino, rotolò per terra, si rialzò e corse per strada urlando: “Aiuto, mi violentano! Mi violentano!”. Lo rincorremmo per paura che fi-nisse sotto una macchina, e scoprimmo che appena uscito s’era imbattuto in una volante della polizia e gli stava raccontando di come l’avessimo drogato per violentarlo, mentre intanto si tam-ponava con la mano la ferita al sopracciglio che sanguinava a pioggia. Quando i poliziotti alzarono la testa e ci videro – Manuel e io – uno in ciabatte e boxer e l’altro a piedi scalzi e con uno

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spinello stretto tra le dita, non ci pensarono neanche un secondo prima di portarci tutti quanti in Commissariato...»

«Io ve l’avevo detto che il fumo mi fa diventare paranoico» intervieni.

«...E da allora non gli permetto più di drogarsi» conclude Da-vide.

* * *

Alla fine la visita a Davide è servita soltanto a precipitarti in uno stato d’animo ancora peggiore di quello della mattina. E la versione edulcorata della storia dei tuoi trascorsi con le sostanze ti ha lasciato dentro qualcosa che somiglia a una domanda di quelle a cui non vorresti mai rispondere. Puoi solo cercare di non pensarci, perché sai che la risposta a quella domanda potrebbe essere il motivo di gran parte dei tuoi guai.

Sei un debole?Emma dice che sei una persona gentile, ma lei non ti vede den-

tro. Non sa che di questi tempi i tuoi pensieri verso il prossimo sono tutt’altro che gentili e che l’unica cosa che ti frena è che hai una paura fottuta di esprimerli.

Nel frattempo arrivi sotto casa e per le scale incroci la vecchia Ada, la signora del piano di sopra. Senza salutarti, la donna inizia la solita litania di lamentele sugli altri vicini e tu sai che si lamenta allo stesso modo di te quando parla con gli altri. Mentre fingi di ascoltarla, ti accorgi che la tua mente sta architettando, in maniera quasi autonoma, un modo per far volare l’anziana donna giù per le scale. E ti stupisci di come tu lo stia considerando un modo accettabile per evitare di sorbirsi le sue chiacchiere. Annuisci ra-pido, mormorando qualche parola di circostanza, disgustato dai tuoi stessi pensieri. E appena la vecchia tace per riprendere fiato le sorridi, e sai che il tuo sorriso sembra così autentico che lei non può fare a meno di ricambiarlo. Le sorridi e le dai una carezza al braccio e le dici che devi proprio andare e le auguri una splendida giornata. Lei ti ringrazia e dice che la tua voce è proprio identica a quella del suo defunto marito e che a parte questo magari tutti fossero gentili come te.

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Non sai cosa cambierebbe nel mondo se tutti fossero come te, ma immagini che a un certo punto tutti darebbero di mat-to, esplodendo come pentole a pressione con le valvole otturate. Perché è così che ti senti, come se avessi le valvole occluse. Risali le scale, ti butti sul divano e imbracci il PC portatile. Dai prefe-riti selezioni quel sito di annunci di lavoro che guardi invano da giorni e lo guardi di nuovo, pur sapendo che sarà inutile, poiché oggi è un altro giorno ma è diverso da ieri solo perché occupa una casella diversa nel calendario.

La pagina ti scorre davanti agli occhi. Scegli un annuncio muo-vendo a caso il puntatore del mouse. Quando si ferma, la freccina bianca indica un numero di telefono. Decidi che il resto dell’an-nuncio non t’importa e non lo leggi neppure. Prendi il cellulare e chiami. Ti risponde una voce catarrosa di donna a cui chiedi se la richiesta è ancora valida. Ti dice di sì e ti chiede se davvero t’interessa. Qualcosa in quel davvero ti fa venire un momento di panico, ma non è il momento di avere paura. Rispondi di sì. Qualcosa sta cambiando?