Serie VI- Fascicolo 26 - anno 1984 · che nelle loro continue citazioni, sembrano giustificarsi e...

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MOSTRE SPUNTI DALLA XLI BIENNALE Venezia, Giardini di Castello e Magazzini del Sale. l O giu- gno-13 settembre 1984. Arte e Arti. Attualità e storia è il titolo della XLI Biennale che, come precisa il responsabile, Maurizio Calvesi, " più che un tema enuncia un programma ", all'interno del quale sono state individuate quattro se- zioni: Arte e spettacolo, Arte e media, Arte e architettura, Arte e Arte, poi ricondotte, in ultima analisi, a due fon- damentali iniziative. Le prime tre sezioni sono state infatti riunite in un'unica mostra, Arte Ambiente Scena, sotto l'emblema della luna, non certo intesa come sim- bolo lirico, per rievocare immagini classiche o romantiche; al contrario la luna come emblema del '' riflesso ", di un'arte appunto "orbitante" - commenta Calvesi nel catalogo -, sconfinante fra le varie manifestazioni che ne illuminano il volto: teatro, architettura, video, per- formances... . Nel fregio che accompagna la mostra e commenta lo stesso catalogo, come nella ideale comple- mentarietà tra il femminile e il maschile, appare, in ovvio contrappunto, il sole, simbolo " fisso ", splendente di luce propria, eletto a emblema della sezione Arte e Arte, ossia " arte allo specchio " : esso sta dunque a rappre - sentare la polarità dell'opera, il suo perpetuo rinascere da se stessa, il suo inesausto citarsi. La porta del sole ci conduce in un ideale percorso lungo alcune celebri tappe dell'arte moderna, dalle acqueforti di Duchamp ai ' Ri - tratti in oro di Mona Lisas ' di Warhol, fino ad arrivare alle manifestazioni " anacroniste " o " colte " - come si definiscono - di questi ultimi anni; espressioni queste, che nelle loro continue citazioni, sembrano giustificarsi e ostentare valore, richiamandosi alle opere dei più noti artisti del Novecento, in una pretesa e - mi sembra - assolutamente arbitraria, continuità storica. I - MURRHARDT, COLLEZIONE PRIVATA - CARLO CARRÀ: I DIOSCURI (1922) Esposta alla XLI Biennale di Venezia nella sezione Arte allo Specchio II5 ©Ministero per beni e le attività culturali-Bollettino d'Arte

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MOSTRE

SPUNTI DALLA XLI BIENNALE

Venezia, Giardini di Castello e Magazzini del Sale. l O giu­gno-13 settembre 1984.

Arte e Arti. Attualità e storia è il titolo della XLI Biennale che, come precisa il responsabile, Maurizio Calvesi, " più che un tema enuncia un programma ", all'interno del quale sono state individuate quattro se­zioni: Arte e spettacolo, Arte e media, Arte e architettura, Arte e Arte, poi ricondotte, in ultima analisi, a due fon­damentali iniziative. Le prime tre sezioni sono state infatti riunite in un'unica mostra, Arte Ambiente Scena, sotto l'emblema della luna, non certo intesa come sim­bolo lirico, per rievocare immagini classiche o romantiche; al contrario la luna come emblema del '' riflesso ", di un'arte appunto "orbitante" - commenta Calvesi nel catalogo -, sconfinante fra le varie manifestazioni che

ne illuminano il volto: teatro, architettura, video, per­formances... . Nel fregio che accompagna la mostra e commenta lo stesso catalogo, come nella ideale comple­mentarietà tra il femminile e il maschile, appare, in ovvio contrappunto, il sole, simbolo " fisso ", splendente di luce propria, eletto a emblema della sezione Arte e Arte, ossia " arte allo specchio " : esso sta dunque a rappre­sentare la polarità dell'opera, il suo perpetuo rinascere da se stessa, il suo inesausto citarsi. La porta del sole ci conduce in un ideale percorso lungo alcune celebri tappe dell'arte moderna, dalle acqueforti di Duchamp ai ' Ri­tratti in oro di Mona Lisas ' di Warhol, fino ad arrivare alle manifestazioni " anacroniste " o " colte " - come si definiscono - di questi ultimi anni; espressioni queste, che nelle loro continue citazioni, sembrano giustificarsi e ostentare valore, richiamandosi alle opere dei più noti artisti del Novecento, in una pretesa e - mi sembra -assolutamente arbitraria, continuità storica.

I - MURRHARDT, COLLEZIONE PRIVATA - CARLO CARRÀ: I DIOSCURI (1922) Esposta alla XLI Biennale di Venezia nella sezione Arte allo Specchio

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Come ha rilevato Roberto Tassi su La Repubblica, dobbiamo tener presente che l'attuale momento " è caratterizzato da un'enorme pluralità di esperienze ( ... ) tale da non lasciar capire se si tratti di ricchezza o di caos " ; ed è indubbio merito di Calvesi l'aver còlto questa pluralità, articolando le molte opere della mostra in un assetto ben preciso, anche se certe scelte non sa­ranno condivise, e i nomi saranno motivo di nuova pole­mica. È certo significativo che la mostra si apra con opere quali, ad esempio, i famosi baffi alla ' Gioconda ' di Duchamp (' L.H.O.O.Q. ', del 1946) : tuttavia mi riesce difficile ricordare il geniale artista francese soltanto per avere egli citato la ' Gioconda ' o Rodin o i capola­vori della classicità. Certo non lo pensa neppure Calvesi, ma nel contesto della mostra emerge soltanto un'imma­gine sfocata e spesso insipida di queste celebri personalità, disinserite dalla loro cultura ed originalità storica, che aveva permesso loro di partorire quelle immagini geniali e dissacranti. Penso ad alcuni De Chirico esposti, fra i più brutti di tutto il corpus di opere del pittore, copie, ancora una volta, da Boecklin o da Raffaello, fantasie, sottili esercizi pittorici, sebbene con tutto l'acume che quelle copie rivelano. Procedendo nel nostro itinerario incontriamo fra le più belle fotografie di Man Ray, ' Volto allo specchio con lampadina ', del 1932, ' Roi David' del 1938, poi le elaborazioni picassiane di Ve­lasquez e varie altre celebrità, in un'insolita antologia di pietre miliari del Novecento. Ma quale significato assumono queste presenze alla XLI Biennale? Si cerca una giustificazione storica che leghi all'attuale pittura " colta " le opere dei maestri, che tuttavia, strano para­dosso, sono presentate con taglio metastorico, muti sim­boli, assunti non nel loro significato originario, ma solo per l'evidenza delle loro citazioni.

Mi torna alla mente - chissà come - la lontana vicenda del ritrovamento del ' Laocoonte ' , opera che sconvolse per la sua forza e la sua bellezza più di una generazione di artisti. Eppure non potremmo ricordare il gruppo solo perchè molto citato, prescindendo così dai suoi valori; nè tantomeno potremmo riconoscere la grandezza di Michelangelo o di Annibale soltanto perchè ne subirono il fascino. Se nel contesto di una mostra escludiamo l'opera dalla sua vicenda non ci rimane che l'ombra della citazione, la parte più arida, più meccanica, in un atto di più o meno cosciente prevaricazione storica; la citazione, in fondo, è sempre generata dalla fusione di un valore antico con la moderna sensibilità dell'artista, e non nasce mai casualmente. Mute dunque ci appaiono in questo contesto le copie dal Correggio o da Piero della Francesca di Guidi e Semeghini, tanto più se accostate all" Autoritratto di Leonardo' di Schifano o alla 'Venere degli stracci ' di Pistoletto.

Col procedere della mostra si ha l'impressione di una grande manipolazione, sorta di moderna alchimia, comprensibile, a mio avviso, quasi esclusivamente nella sala dedicata all' Arte povera, senza dubbio la più riuscita: è infatti proprio questa espressione " concet­tuale " che si è valsa e si è fatta vessillo di alchimia, di elaborazioni criptiche, indecifrabili, di antichi messaggi. Così Paolini, muto, assorto, ermetico, nel celebre ' Gio­vane che guarda Lorenzo Lotto ', e Parmiggiani, nella sua ' Alchimia ' , appunto, o nella ' Casa del poeta ': opere dalle quali emerge il tono lirico, intenso, del fan­tastico assemblaggio culturale.

E infine sono presentati gli Anacronisti, già amplia­mente sostenuti in altre occasioni dallo stesso Calvesi: Gérard Garouste, Christopher Lebrun, il più ricco di

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mistero e fascino pittorico, Carlo Maria Mariani, con le sue espressioni " neo-classiche " e molti altri giovani artisti: tutti con una loro particolare vitalità pittorica, tanto da chiedersi se era proprio necessaria la precedente legittimazione dei maestri del Novecento. La curiosità eclettica nei confronti del passato, porta questi artisti ad attingere alla tradizione, decontestualizzandola vistosa­mente, con un atteggiamento definito " metafisica ", che privilegia i luoghi della memoria, talvolta in una pittura densa, vit.ale, talvolta invece in un approccio più freddo e meccamco.

Per quanto riguarda i padiglioni stranieri molto ci sarebbe da dire, ma nella moltitudine di nomi e di ten­denze - dalla Minima! alla Transavanguardia, dalla pittura Anacronista colta, fino al recente Graffitismo -si può constatare come il " ritorno alla pittura " , o meglio all'espressione pittorica, abbia da vari anni prevalso sui movimenti concettuali, malgrado ristrette isole ancora fedeli a quelle tendenze che hanno caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta. Così infatti vediamo nel padiglione del Canada, con gli artisti Jan Carr Harris e Elizabeth Magor: entrambi non si affidano al linguaggio pittorico, ma continuano, ricercando segrete suggestioni, a valersi di un linguaggio di " concetto ", di materiali " minimi ", insistendo sull'allusione sottile, sui significati reconditi, sulle frasi come ' Ho sempre pesato 44 Hgm. ' della Magor, o 'Una sezione di ... ' di Harris. Similmente il pa­diglione della Finlandia presenta due artisti: Hain Topper che, con le sue sculture in legno di betulla, di ontano, di pino delle grandi foreste finlandesi, ricerca una cre­scente astrazione, simulando l'effetto avvolgente di forme levigate dall'acqua, patinate sì, ma poi corrose come dalla pioggia o screpolate dal gelo; accanto Cari Erik Stra m, che si avvale di immagini fotografiche per narrare le sue storie " naturali ", animate da piccoli animali, come chiocciole, molluschi, in viscerale rapporto con spazi infiniti, montagne, foreste, in continua ideale comple­mentarietà. Così in '400 milioni di anni' del 1981, dove un fossile di chiocciola è fotografato accanto all'ani­male vivo: passato e presente, morte e vita si bruciano in un lampo mentale. Strom è infatti fra i pochi che con­tinuano a trovare ispirazione dalla poetica Land e Mini­mal, riuscendo in opere di misurata e assorta bellezza.

Il padiglione austriaco si è invece affidato ad una proposta di carattere storico, in una mostra, organizzata impeccabilmente dall'architetto Hans Hollein, dove sono presentati documenti, disegni, schizzi, progetti di Josef Hoffman per il padiglione stesso, da lui progettato, e del quale ricorre il cinquantesimo anniversario. A com­plemento della sezione storica è presentato, nel nuovo padiglione, Ludwig Attersee, artista nel pieno della ma­turità e che nelle sue pitture " di gusto ormai interna­zionale " si esprime con colori e segni bizzarri, vigorosi, che possono ricordare i nostri Chia o Paladino.

Anche la Francia propone un artista quale Jean Dubuffet, che non ha bisogno di presentazioni: a 83 anni questo indomito maestro dell'arte contemporanea si esprime con vitale aggressività, in vortici di segni e colori, pochi ma intensissimi, gialli, rossi, neri che si intrecciano quasi in una danza propiziatoria, stagliandosi violentemente nella sala completamente bianca. Come l'Austria, anche la Francia dedica poi un'altra sezione della mostra ad esperienze contemporanee, presso Palazzo Sagredo: sono qui presentati artisti di varie generazioni, dai più maturi Hans Hartung e Jean Hélion, ai giova­nissimi Thierry Cauwet e Philippe Favier: oltre l'in­fluenza di gruppi e movimenti, l'interesse che lega questi

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artisti è la ricerca di una propria conquistata originalità e la fede nell' individualità più che nella supremazia delle scuole.

Accanto al padiglione francese è quello inglese, in austera geometria neo-classica, nei cui ambienti in­terni, dipinti per l'occasione di un soffuso verde-mela, sono esposte le tele di Howard Hodgkin. La prima e unica mostra che lo rivelò fu la retrospettiva del 1976 per l' Arts Council of Great Britain; ed ora vengono pre­sentati a Venezia da Julian Andrews i lavori di un de­cennio, appunto a partire da quella retrospettiva. Hodg­kin non è certo un pittore facile, ma schivo, amante di spazi di solitudine, di quiete, e che procedono poi nel­l' espressione pittorica al ritmo pausato, assorto, della contemplazione; si dichiara appassionato di Vuillard, come si intuisce dalle superfici piatte, prive di profondità eppure vibranti nei delicati accostamenti dei colori pa­stello, chiari e ovattati. Si confessa poi affascinato dalla personalità artistica di Matisse e dall'arte e dal mondo indiano: '' è questa specie di sensibilità nuda della gente ad avere effetto su di me e che condiziona il mio lavoro portando mi a un ritmo di estrema lentezza ". Così in ' Gelosia' del 1977, in 'Alexander Street' del 1977-79, fino a ' Nel golfo di Napoli' e ' Addio al golfo di Napoli' del 1980-82; quadri di piccola e armonica dimensione, da gustare in tutti i particolari, le velature, i ripensamenti,

le stesure di quei pallidi colori, ma non pnv1 per questo di vitalità e di interiore forza, quasi come una miniatura t'an ka tibetana o indiana, delle quali l'artista è un ap­passionato collezionista.

Nel bianco padiglione olandese sono esposte le più recenti tele del poliedrico artista Armando, personalità inquieta che si afferma prima come storico dell'arte, poi musicista, pittore, scrittore di sceneggiature per films televisivi da lui stesso interpretati. M a è l'attività pitto­rica dell 'artista ad avere suscitato l'interesse della com­missione olandese, che ha scelto di presentare le opere di quest'ultimo decennio. Armando aveva cominciato a di­pingere nel 1950, proprio un anno dopo l'esordio uffi­ciale del movimento Cobra allo Stedelijk Museum di Amsterdam: il giovane si sentì fortemente attratto dalla poetica del gruppo e in particolare dalle espressioni di Wolvecamp. Da questa data iniziò la ricerca espressiva di Armando, fatta di tensione drammatica e di sponta­neità, in disegni e pitture che non ricercavano la rappre­sentazione, ma si opponevano '' coscientemente all' espres­sione facile e accademica della linea ", come osserva Pau! Helfting. Valori, questi, che in quegli anni trovarono piena rispondenza presso altri giovani artisti, e che ebbero infine una bruciante conferma nel 1958, quando la galle­ria privata di Amsterdam Le Conard propose al pubblico l'opera di Pollock e il suo esplosivo messaggio. Ed è nello

2 - VENEZIA, XLI BIENNALE, PADIGLIONE CUBANO MARIO GARCIA JOYA, RAUL MARTINEZ GONZALEZ : LA FAMIGLIA (1983- 84)

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stesso I958 che Armando, insieme a Kees van Bohemen, Henk Peeters ed altri fondò il Gruppo informale olandese. Da questo momento Armando lavora le sue tele con spessi strati di vernice, a volte impastata con sabbia, e si serve prevalentemente di due, tre colori: il nero, il rosso, il bianco; '' ciò che interessa - commenta Helfting - è l'intensità del materiale, come nei disegni gli interessa la tensione delle linee ". Dal I96o l'artista si avvicina sempre più alla monocromia, fino alle opere esposte, dei primi anni Ottanta, dove il rosso scompare e il nero inghiotte spazi sempre più ampi di quelle tele monumentali, alte fino a due metri. Di particolare interesse è la serie di opere - sette tele imponenti, tutte I55 X 225 cm - ispirate al tema della foresta, e che da ' Confine del bosco ' dell'I I aprile I983 si sviluppa periodicamente fino al gennaio I984, come confermano le date poste dall'artista a sotto­titolo: I9 aprile, I 0 novembre, ecc.; sono forme nere, minacciose, che si accampano nel bianco, come tronchi nodosi o ombre della notte, che avvolgono le foreste ammantate di neve: '' Si sono sbarazza ti di tutte le sfu­mature - annota Armando - si sono contratti, acco­vacciati, sono pugni chiusi... neve e tronco. Spietata­mente".

Gli Stati Uniti propongono una collettiva di pittori dal tema ' Paradiso perduto. Paradiso riconquistato ', tratto dalle due opere del poeta John Milton pubblicate nel I6oo, nelle quali si narra la storia della caduta e della redenzione dell'uomo. Ma al di là dell'esplicita allegoria con le attuali ricerche artistiche americane, la mostra si presenta come un grande coacervo di immagini, colori, nomi, dove si rende molto difficile una lettura analitica delle ventiquattro personalità presentate; è tuttavia en­comiabile il lavoro dell'ordinatrice Marcia Tucker, diret­trice del Museo di Arte Contemporanea di New York, che ha indirizzato la sua selezione con taglio prettamente " transavanguardista " o limitrofo. Fra le molte opere esposte ricorderei le tele della giovane Barbara Kassel, ' Interno ' e ' Stromboli ', entrambe del I983, non prive di suggestione e di poesia, come pure quelle di Cheryl Laemmle e di Lee N. Smith. La scelta della Tucker di tanti artisti per lo più ancora sconosciuti, è giustificata dal fatto che le presenze americane da tutti attese, ossia i Graffitisti, lanciati sulla scena mondiale dalle più presti­giose gallerie, apparivano al completo nella sezione della Biennale Aperto '84, presso i Magazzini del Sale, alle Zattere.

Il padiglione della Repubblica Federale di Germania presenta due artisti, già noti al pubblico internazionale: L. Baumgarten e A.R. Penck, quest'ultimo, ricordo, già presente con molte opere alla XXXIX Biennale nella sezione "storica" dedicata all'arte degli anni Settanta; le sue opere da allora procedono in senso fortemente espressivo, con una pittura che esplode in tutta la sua carica vitale sulle grandi tele, stese sul muro quasi come bianchi sudari. Nel pavimento sono invece incastonate le lapidi di marmo di Baumgarten, che si richiamano con­cettualmente alle antiche civiltà indiane e sudamericane.

Possiamo concludere questo sguardo veloce ai padi­glioni stranieri pensando alla poesia del cielo, che Curt Asker, artista svedese, propone come protagonista delle sue sculture-aquiloni, librate in aria come pagliuche o piume, fluttuanti, intangibili. Non si può comprare o vendere aria? Alcuni concettualisti sono riusciti a farlo!

Concludo questi ricordi della visita alla Biennale con Aperto '84: sorta di bazaar artistico dove tutto è ammesso e dove si rimane abbagliati dalla girandola di colori, luci, effetti, anche se dopo l'attenzione si sofferma soltanto

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su poche opere. Belle le tele di cotone infisse al muro, eseguite con pastelli ad olio dall'inglese Glenys Johnson, veli appannati di colori, tracce di sensazioni, rese come evanescenti da un invisibile diaframma. Di segno opposto l'americano Richard Hambleton, vitale, aggressivo, come rivelano i temi delle sue opere: il cavallo impazzito di 'Marlboro Man' o 'Temporale segreto ' , dove il pennello inzuppato di colore ha lasciato gorghi bianchi e azzurri ricchi di fascino. L'artista getta, schizza materia colo­rata sulle tele o sui muri delle metropoli con rabbia fo­cosa, per poter evocare così le sue immagini inquiete e impetuose. Al contrario lente, obsolete appaiono le oren dell'inglese Terry Atkinson, tratte dalle foto di un qual­siasi archivio familiare: bambini in riva al mare, ricordi di un sereno week-end, gruppi familiari in posa com­pongono una cronaca misteriosamente inquietante per le ombre nascoste, per le cose non dette, che stendono un velo di cinica ironia, forse residuo di suggestioni pop.

Molti nomi, alcuni già celebri, altri meno noti, e che forse ritroveremo alle prossime Biennali, nei vari padi­glioni o, chissà, nell'ambito della grande mostra "sto­rica ", come fulcro e chiave di lettura di questi difficili anni Ottanta.

MAURO PRATESI

ARCIPELAGO VEDO V A

Venezia, Museo Correr (Ala Napoleonica) e Magazzini del Sale. 12 maggio-30 settembre 1984.

Quasi trecento le opere che Emilio Vedova espone a Venezia, nell'Ala Napoleonica del Museo Correr e presso i Magazzini del Sale, alle Zattere ; la mostra comprende un arco di tempo che va dal I935 al I984, e dunque può considerarsi, e ne ha il peso effettivo, una esauriente antologica, chiamata a documentare l'attività dell'artista, dai primi schizzi e disegni fino alle ultime tele, in un ininterrotto filo di pensieri e vicende. L'iniziativa, pro­mossa dall'Assessorato alla cultura, è stata curata da Germano Celant con grande impegno, sia nella parte propriamente espositiva che nell'ampio catalogo; il ti­tolo del contributo di Celant, Arcipelago Vedova, rias­sume brillantemente l'idea di questo poliedrico artista che, nella sua vertiginosa estroversione, nella sua epica visionarietà, si è dimostrato così importante per com­prendere a fondo la cultura e l'arte italiana del secondo dopoguerra.

Già Argan, nel I963, presentando per la prima volta i ' Plurimi ' alla galleria Marlborough di Roma, scrisse alcune fra le pagine più belle che siano state dedicate all'artista: "Nella pittura come nella vita può accadere qualsiasi cosa; ma bisogna entrarci, viverci dentro, non pensarla più come una finestra da cui si guarda il pae­saggio o uno specchio che riflette a distanza raddoppiata quello che accade ".

Per Vedova perciò l'arte non è mistero, fuga dalla vita, nè approda a spiagge metafisiche o concettuali, che con­gelano l'istintività dell'azione umana, riducendone l'in­terna potenza; l'arte al contrario si appoggia al gesto e si brucia nel segno immediato e folgorante, traccia della presenza fisica e passionale dell'uomo artista.

Vedova ripropone il dilemma, antico quanto l'uomo, riguardo alla funzione dell'osservatore, che può interve-

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VENEZIA, COLLEZIONE DELL'ARTISTA - EMILIO VEDOVA: OMAGGIO A DADA BERLI N (1964- 1965)

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nire, manipolare e sentirsi al contempo manipolato dal ­l' opera d 'arte, oppure contemplare e riflettere muto, assorto. Ma Vedova ha sempre scelto la prima possibilità, nel modo piu passionale e diretto, rischiando più volte la non comprensione o, peggio, la derisione di molti; per l'artista infatti '' essere nel mondo - ancora Argan -è esporsi, non chiedersi neppure se quello che accade accada a lui o accada ad altri: accade sempre ·a tutti " . Ed è così che visitando la mostra non ci sentiamo chia­mati a giudicare quelle opere, quegli " eventi o feno­meni " , con il metro della forma, dal momento che essi sfuggono al giudizio propriamente estetico, e nella lorq impetuosa carica esistenziale si propongono come '' rive­lazioni ", oltre le quali ogni classificazione di gusto o di stile perderebbe di significato. Quelle grandi tele, come pure gli spazi inquieti dei ' Plurimi ', fatti di cerniere, bulloni, compensati, cartoni stravolti dal colore, dagli smalti, dalle colle, dai giornali attaccati e impastati, di­ventano '' elementi di scatto, di shock, di paura, infine di trauma. - scrive l'artista - Pitture declassate a terra, da camminarci anche sopra, che non vogliono la firma : dove? Quale il davanti? Hanno un davanti, un sopra, un sotto, un verso, una gerarchia di movimenti preco­stituiti, di immagine? ". Nell'insofferenza formale di opere che - per dirla con Brandi - " vogliono essere impugnate, aperte, addirittura pestate dallo spettatore " , leggiamo in trasparenza le fedi e le angosce del periodo che appena ci precede, gli entusiasmi, fors'anche i pur generosi fraintendimenti e le insidiose ambiguità che talvolta, ancora, riemergono a noi criticamente irrisolti. Ora, a quasi venti anni di distanza, nell'ampio spazio dei Magazzini del Sale, i ' Plurimi' di Vedova, lontano dal contesto che li aveva generati e giustificati, possono appa­rirci vecchi trofei, aspri e sontuosi, o muti feticci in­comprensibili, sgraziati, privi di valore estetico ; o al contrario possono costringerci ad una più matura con­siderazione storica sul nostro recente e ancora sangui­nante passato, e nuovamente riproporsi nella loro carica drammatica, bruciante, a una verifica critica, invocando nuove risposte a scottanti interrogativi.

Quelle presenze vive, in una scena composta da spet­tatori - attori, presupponevano comunque un'esperienza teatrale, che Vedova aveva sperimentato realizzando le scene di ' Intolleranza 6o ' , in sintonia con la musica di Luigi Nono; intervento che oltre le scelte tecniche, gli allestimenti, le luci, gli accordi con il tessuto musicale, segnò una totale fusione di pensieri e di intenti fra i due artisti. Vedova dichiarò infatti più volte che la musica di Nono esprimeva valori particolarmente congeniali al suo spirito: " In una condizione disintegrata come la nostra arrivare al racconto, stabilire rapporti e scelte, proteste e denunce, è davvero cosa ardua! " .

Davanti alla tela come sulla scena, Vedova non mirava a circondare gli attori, come pure gli spettatori, di uno sfondo inerte, passivo, ma " li trapassava, li investiva, li irraggiava - commenta Brandi - come si sprigiona la nappa dei getti d'acqua della pistola " .

Ma oltre il fascino di queste impressioni a calélo -molte delle quali chiamate a comporre il catalogo in un puzzle di ricordi e di definizioni critiche - la mostra segue pazientemente il percorso di Vedova, nella sua continuità storica, tutta personale, se vogliamo anche monolitica; e quelle opere che a prima vista possono sembrarci, una accanto all'altra, così simili nella veste formale, risultano poi vive, come mosse da un'interna dinamica, che ogni volta dà voce con pari intensità al­l' inesauribile ricchezza espressiva di Vedova, e al suo

desiderio di rappresentare " le proiezioni dirette dei sen­timenti".

Accanto alle opere, anche i testi critici contemporanei, i più apprezzabili, si risolvono nell'analoga equazione arte - vita, come già avevano indicato i nobili prece­denti, sia artistici che critici, legati all' Action Painting. Vengono in mente così i "teleri " di Pollock, fatti di grumi e macchie, i neri cupi di Hartung o le girandole di colore di Wols, malgrado che "nè Wols, nè Pollock -scrive lucidamente Haftmann nel 1960 -hanno dato a Vedova qualcosa che egli già non possedesse " . Vedova ha trovato perciò in quegli artisti continue conferme per il suo spirito inquieto, sentendosi chiamato a superare le forme del racconto, per calarsi consapevolmente in una esplicita e drammatica dimensione esistenziale, senza altri appoggi, altri rifugi, se non la certezza del proprio " atto " . Ma ciò nonostante la pittura di Vedova non si appaga dell'azione in se stessa, di quei grovigli materici, ma con­tinua, " rivoluzionaria e dinamica " - dalle parole di Argan - a sconvogere e aggredire la vita, fino a iden­tificarsi pienamente con essa : '' Non è più una pittura fatta ipotizzando o sognando la rivoluzione ; se la porta dentro, o si agita come, nel grembo, un bambino che abbia fretta di nascere " . Vedova perciò, nel cuore dell 'Espres­sionismo astratto e dell'Informale, si ritaglia un territorio autonomo, quello del '' segno errante " . Lo dimostrano i quadri esposti a Venezia - ' Spazi inquieti' del 1954, ' Presenza ' , ' Scontro di situazioni ' , fino agli ultimi ' Di umano ' - nei quali sentiamo che l'artista ha la­sciato che la vita, le proprie idee, prendessero il soprav­vento sull'opera.

E di colpo mi tornano alla memoria le sue stesse pa­role, così cariche di passionalità, accompagnate da gesti intensi ed espressivi, in un incontro fugace, avvenuto casualmente alla mostra. I nostri pensieri non potevano non cadere sui maestri del passato a lui più cari: Dau­mier, Degas, Goya e, primo fra tutti, Tintoretto, ama­to per la sua forza espressiva e per le infinite " pennel­late danzanti " , come dimostrano anche tre quadretti esposti alla mostra, e che Vedova, giovanissimo, trasse dall'osservazione delle grandi tele di San Rocco. Così pure ricorderei, sempre del periodo giovanile, i bellis­simi disegni a china raffiguranti le chiese veneziane, còl­te con sguardo piranesiano, del Piranesi delle rovine, delle carceri, indugiando liberamente in sgorature emo­tive, nei gorghi di ombre, nelle linee svettanti, nelle mistiche fughe di colonne ; e ancora ricorderei le tele del periodo spagnolo, dove si coglie l'impeto della pas­sione, nel desiderio di partecipare generosamente a una causa.

Atipiche appaiono invece alcune opere dei tardi anni Quaranta, dove l'artista sembra congelare la propria libertà espressiva, costringendola nei reticoli geometrici di forme astratte, duramente marcate da bordi neri e regolari. E ad Arcangeli sembrò che Vedova buttasse le proprie esplosioni pittoriche e sentimentali " in una mischia senza domani " . La sensibilità sottile, intimista del critico non poteva d'altronde parteggiare a pieno per la sconvolgente forza vitale della pittura di Vedova, tanto meno nel suo momento più distaccato e astratto, desti­nato proprio per questo a non trovare seguito.

Ritorno al mio incontro con l'artista, mentre stanno finendo gli ultimi fotogrammi di un film, girato per la televisione nel 1967 da Di Laura, sull'intervento di Vedo­va all'Expo mondiale di Montreal con i suoi ' Spazio-Plu­rimo-Luce ' . "Bombardare di luce la materia, la forma" - mi diceva mentre scorrevano le immagini - per tro-

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3 - VIENNA, COLLEZIONE PRIVATA - GUSTAV KLIMT: VITA E MORTE (rgo8)

vare nei vetri colorati l'espressione più viva e fedele delle proprie sensazioni. Quelle lastre, proiettate come slid~s giganteschi si proponevano nelle loro luci, ombre, colon, in viva alternativa alle possibilità della pittura, riuscendo in effetti che le sue tele in cinquant'anni di vita hanno sempre ricercato.

Nella sua libera esplorazione Vedova non ha lasciato intentata nessuna possibilità espressiva - come l'intera mostra può attestare -, in una " ginnastica drammatica ", che doveva condurre l'artista-uomo alla disperata ricerca del " dentro ". Il catalogo si chiude con alcuni stralci da vecchi quaderni, ora rivisitati dall'artista, visti sotto nuova luce, dopo tanti anni di esperienze: " In questa perenne estenuante inchiesta si pone più che mai la domanda: l'avanguardia? Quella vera non è che questa vita all'osso ". Cosa rimane dunque di queste ricerche? Forse è ancora l'artista che ci suggerisce una risposta: "frammenti indi­fesi ", fragilissimi, inquietanti, da sottoporsi a sempre nuove verifiche, con '' il radar su un massimo di co­raggio".

MAURO PRATESI

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I N T ORNO ALLA SECESSIO NE

Venezia, Palazzo Grassi. 20 maggio-16 settembre 1984.

Nell'ambito della Biennale '84 si impone all'attenzione critica la grande mostra a Palazzo G rassi che illustra, con esemplare ricchezza di opere, l'affascinante vicenda del­l'arte viennese tra gli ultimi decenni dell'Ottocento e la caduta dell'Impero Asburgico. Come Calvesi sottolinea nel proprio contributo al catalogo, l'importanza dell'ini­ziativa risiede principalmente nella complessità e nel­l'ampiezza con cui sono presentate, con taglio inedito, le molte espressioni artistiche, senza porre accento esclu­sivo sulle figure più attese, al contrario !asciandole na­turalmente emergere, quali punte di un iceberg, dalla selva di nomi documentati. L'itinerario articolatissimo e non sempre chiarificante lungo il quale, tra stupore e stupore, il visitatore è guidato, sembra proporsi come allegoria di quella appassionante vicenda; dai residui di una cultura tardo impressionista (o meglio dall'" Im­pressionismo degli stati d'animo", proposto a Vienna da

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