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Aa. Vv. SENTIERI ILLUMINATI DALLO SPIRITO Atti del Congresso internazionale di mistica Abbazia di Miinsterschwarzach * Edizioni OCD

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Aa. Vv.

SENTIERI ILLUMINATI DALLO SPIRITO

Atti del Congresso internazionale di mistica

Abbazia di Miinsterschwarzach

*Edizioni OCD

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Traduzione dall’originale inglese, francese, tedesco e spagnolo di Fabrizio Iodice

Traduzione dall’originale portoghese di Luca Arcese

Tutti i diritti riservati

ISBN 88-7229-215-8

© Edizioni OCD - Anno 2006Via Anagnina 662/b - 00040 ROMA MORENAtel. 06.79.89.08.1 - fax 06.79.89.08.40e-mail: [email protected] - web: www.edizioniocd.it

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Il fenomeno mistico. Un confronto1

Juan Martin Velasco

Il titolo della mia relazione presuppone resistenza di un fenomeno misti­co composto da una varietà di manifestazioni e invita al suo studio mediante il confronto dei fatti o forme che ne fanno parte integrale. Dato che il pro­gramm a di questo convegno prevede, in tante altre relazioni, lo studio detta­gliato di differenti forme di mistica, cristiane e non cristiane, la mia sembra debba orientarsi ad offrire i risultati di questa forma particolare di studio del­la mistica, che consiste nelTisolare la struttura significativa del fenomeno a partire dalla comparazione sistematica delle sue diverse forme. Intendo, quin­di, il titolo proposto come un invito ad offrire i risultati di una fenomenologia della mistica. Ma il significato dello studio chiamato con questo nom e è molto lontano dall’essere chiaramente definito. Per rendersene conto basta far riferi­mento agli studi sulla mistica che, in forma esplicita o implicita, sono stati desi­gnati con questo nome.

A partire dai primi decenni del secolo XX, troviamo studi sulla mistica che rispondono in modo più o meno rigoroso alle intenzioni della fenomenologia. Così, già nel 1901, A. Poulain, nella sua celebre opera Des gràces d ’oraison. Trat­te de théologie mystique [tr. it. Delle grazie di Orazione, Ed. Marietti, Torino 1912],2 si inscrive nella scuola descrittiva, a fronte di quelle speculative, teori­che o dottrinali; egli prende come punto di partenza l’osservazione dei fatti che sono gli stati mistici; e intende utilizzare un metodo in qualche modo scientifico. E noto che questo autore attribuisce un’importanza speciale ai fenomeni straordinari - le grazie della preghiera - che accompagnano i cosid­detti stati mistici, e che sulla base di tali fenomeni descrive l’esperienza misti­ca come una sensazione spirituale di un genere speciale ottenuta mediante i sensi spirituali o intellettuali.3

1 Per le citazioni delle opere di santa Teresa e san Giovanni della Croce sono usate le seguenti abbreviazioni convenzionali nelle versioni italiane: santa Teresa di Gesù, M = Castello interiore o Mansioni; San Giovanni della Cro­ce: S = Salita del Monte Carmelo; Lett = Lettere [n.d.T].

2 Beauchesne, Paris 1901.3 Op. cit., p. 93.

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Nel 1923, Gerda Walter, dìscepola di Husserl, pubblica una Phànomenolo- gie der Mystik4 in cui centra la sua attenzione sul fenomeno originario dei vis­suti mistici, come esperienza reale e immediata, anche se non adeguata o com­pleta, di Dio in persona. Più di recente, N. Pike elabora un testo sull’unione mistica, Mystic Union. An Essay in thè Phenomenology o f Misticism5 che, come preciserà in seguito, offre una fenomenografia, in quanto il saggio è basato più sugli scritti che descrivono il fatto dell’unione, che sull’osservazione del fatto stesso. Il libro intende dimostrare che l'esperienza mistica possiede una strut­tura simile a quella della percezione e che in quella, Dio sarebbe percepito come oggetto dei sensi spirituali.

L’intento di questa relazione si distingue da questi modelli, non solo per le sue conclusioni, ma per la concezione stessa del compito e del metodo uti­lizzato. La fenomenologia della mistica che propongo si inscrive nel quadro della fenomenologia della religione e opera con un metodo proprio. È noto che la fenomenologia della religione è stata sviluppata, nel corso dell’ultimo secolo, seguendo tre modelli principali.

Il primo consiste nello studio filosofico della religione, secondo il metodo proprio della fenomenologia husserliana, come hanno fatto Max Scheler, Edith Stein e altri discepoli di Husserl. L’opera del primo, De lo eterno en el hom- bre [tr. it. L’eterno nell’uomo, Fabbri, Milano 1972], è il modello di questo tipo di fenomenologia della religione, che certamente costituisce una forma pecu­liare e sicuramente interessante di filosofìa della religione.

Il secondo modello ha inteso la fenomenologia della religione come sto­ria comparata delle religioni, una forma peculiare di storia, che evidenzia gli elementi comuni, le somiglianze, le convergenze e le peculiarità delle religio­ni, in stretto contatto con le circostanze culturali di ciascuna di esse. I rap­presentati di questi modelli sono autori di nazionalità e tendenze distinte, come, tra gli altri, B. Christensen, E. O. James, R. Pettazzoni, G. W idengren e N. Smart.

Il terzo modello intende la fenomenologia della religione come scienza sistematica o scienza integrale delle religioni e nasce dall’applicazione ai dati rac­colti dalla storia delle religioni di alcuni elementi del metodo fenomenologi­co, specialmente il ricorso alla comprensione come forma per captare nei fatti il significato particolare che autorizza la loro iscrizione in un mondo umano

4 Walter Verlag, Olten und Freiburg 31975.5 Cornell University Press, Ithaca-London 1991.

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Il fenomeno mistico. Un confronto 11

specifico, nel nostro caso, il mondo del sacro. Questa corrente ha i suoi ante­cedenti in Fr. Schleiermacher, W. Dilthey, N. Sòderblom e R. Otto; e i suoi rap­presentanti più famosi in J. Wach, G. van der Leeuw, Fr. Heiler, G. Mensching, C. J. Bleeker, J. Waardenburg e, in una certa misura, M. Eliade.6

La fenomenologia della mistica, che riassumo in questo contributo, si inscrive nel solco della fenomenologia della religione elaborata secondo il ter­zo modello. Per svilupparla, comincerò con l’esporre il cammino seguito da noi che la coltiviamo a partire dalla fenomenologia della religione; in seguito, esporrò il suo statuto epistemologico e il metodo di studio che comporta; infi­ne, riassumerò i suoi risultati più importanti.

Dalla fenomenologia della religione alla fenomenologia della mistica

Sulla base della scoperta dei tratti mistici in tutte le religioni, la fenome­nologia della religione ha portato all'identificazione di un elemento mistico7 in tutte le religioni e a rilevare neH’interno del fenomeno religioso un fenomeno mistico, proprio come la presenza del fattore religioso in tutte le tappe della storia e in tutte le società e culture dell'umamtà aveva portato all'identificazio­ne di un fenomeno religioso, parte o settore inseparabile del fenomeno um a­no. Ma esiste un fenomeno mistico?

Iniziamo riferendoci alla parola con cui designamo il fatto che cerchiamo di studiare. In un primo momento, mistico e mistica8 sono aggettivi per espri­mere la condizione speciale che acquistano determinati oggetti, come il calice eucaristico, azioni, come le celebrazioni sacramentali, testi, come quelli della Scrittura oltre il suo senso letterale, e forme di conoscenza riferite agli strati più profondi dei misteri cristiani, come quando lo scrittore ecclesiastico cono­sciuto come Pseudo-Dionigi scrive la prima Teologia mistica9 riferendosi ad una conoscenza esperienziale ed immediata di Dio, in opposizione alla cono­

6 Per ulteriori dettagli riguardo alla fenomenologia della religione, i suoi rappresentanti, la sua storia, il meto­do e le principali correnti, mi permetto di rimandare ai miei studi, Introducción a la fenomenologia de la religión, Cri- stiandad, Madrid 61997, e Fenomenologia de la religión, in M. Fraijó, Fibsofia de la religión. Estudios y textos, Trotta, Madrid 1994, 57-87.

7 A questo fa esplicito riferimento l'opera pionieristica di Fr. Von Hiigel, The Mystical Element of Religión, as Studied in Saint Catherine of Genoa and her Friends, J. M. Dent, London 1908, 2 vols.

8 Dati per la storia del termine in H. De Lubac, Corpus mysticum, Aubier, Paris 21949, spec. le pp. 47ss.; anche L. Bouyer, “Mystique”: essai sur “histoire d’un mot”, in «Supplément à la vie spirituelle», 3 (1949), pp. 3-23.

9 Testo casigliano di questa opera in Pseudo-Dionigi, Obras completas, Ed. preparata da T. H. Martin, BAC, Madrid 1990, pp. 371-380.

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scenza puram ente razionale, elaborata in base a dei concetti generali e che caratterizza la teologia speculativa.

Solo nella prima metà del XVII secolo si comincia ad utilizzare la parola mistica come sostantivo, per riferirsi alle persone che coltivano questa forma di conoscenza (in precedenza le si chiamava spirituali o contemplative) e a tu t­to ciò che riguarda la forma mistica della vita, isolato e fatto oggetto di parti­colare attenzione.10 Così, l'apparizione del sostantivo mistica, proprio in que­sto m om ento della storia del cristianesimo e della riflessione sul fenomeno religioso, mostra «la configurazione di una regione, di alcuni oggetti, itinera­ri e linguaggi propri, nel complesso della vita sociale». A partire da questo momento, «uno spazio delimita un modo di esperienza, una classe di discor­so, un ambito di conoscenza», che in seguito, quando si svilupperanno gli stu­di che cercano di chiarirlo, darà luogo a quello che sarà denominato fenome­no mistico.

Un passo importante nell’isolamento del fatto mistico avrà luogo quando lo studio della storia delle religioni riuscirà ad identificare in ciascuna di esse una serie di manifestazioni, determinate esperienze, fenomeni psicosomatici straordinari, forme simili di linguaggio, forme di vita e itinerari spirituali comuni, che permetteranno di parlare della mistica come di un elemento all’interno di ciascuna religione. Da quel momento, si comincerà a studiare le varie forme di mistica religiosa, come quella indù, la buddista, la taoista, l’ebraica, la mussulmana e la cristiana.11 Così il riconoscimento dell’elemento mistico nelle religioni ha permesso l’identificazione di un fenomeno mistico all’interno del fenomeno religioso. Infine, dopo la secolarizzazione della socie­tà e della cultura, l’apparizione di alcuni tratti caratteristici del fenomeno mistico in fatti extrareligiosi condurrà ad allargare le frontiere del fenomeno mistico ben oltre le frontiere religiose, e si inizierà a parlare del fenomeno mistico come di un settore del fenomeno umano, presente sotto forme reli­giose, ma realizzabile anche al loro margine in forme laiche o profane.12

10 Ha studiato questo fatto M. de Certeau, “Mystique” au XVIIe siècle. Le problème de langage mystique, in L’hom- me devant Dieu.. Mélanges... H. De Lubac, Aubier, Paris 1964, voi. 2, pp. 267-291.

11 Riferimenti a tutte queste forme di mistica religiosa e alle monografìe più importanti su ciascuna in El feno­meno mistico, cit., pp. 131-250.

12 Questa forma di mistica è stata studiata in dettaglio in M. Hullin, La mystique sauvage, PUF, Paris 1993. Rife­rimenti a numerosi esempi di esperienze mistiche al margine della religione e perfino di ogni credenza, in lingua fran­cese in E. Poulat, Vuniversité devant la mystique, Salvator, Paris, pp. 219ss. È nota l'espressione di Nietzsche: «Sono un mistico e non credo a niente», rimettendo a quell'oltre che emerge nella parola. Un’espressione quasi identica si tro­va in Flaubert: «In fondo sono mistico, e non credo a niente», divenuta molto frequente oggi. Cfr. J. C. Bologne, Le mysticisme athée, éd. du Rocher, Paris 1995, e lo scritto di A. Comte-Sponville, Moi, athée, qui me délecte des mystiques (Actualité des religions, maggio 2001, p. 38).

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fl. fenomeno mistico. Un confronto 13

A partire da quel momento, la parola mistica, utilizzata come sostantivo, designerà un fatto storico preciso e la tradizione nella quale questo fatto si inscrive. Il fatto ha il suo centro in un tipo speciale di esperienza. Ma la sua condizione di fenomeno si deve alla presenza di alcuni elementi che perm et­tono la sua identificazione tra altri fenomeni religiosi e umani. Il primo di que­sti elementi è la peculiare forma di linguaggio, lo speciale modus loquendi che caratterizza i soggetti che ne riferiscono oralmente o pongono per iscritto le loro esperienze. Le esperienze, interiori e riferite al misterioso e occulto, divengono così manifeste e si prestano ad essere oggetto di studio, grazie al corpus di scritture in cui si esprimono e al tipo speciale di linguaggio che le caratterizza.

Insieme al linguaggio orale e scritto, il fatto mistico si fa fenomeno osser­vabile grazie ai fenomeni psicosomatici straordinari che i mistici, o almeno molti di loro, sperimentano. Il mistico vede così il suo corpo convertito in lin- guaggio di ciò che vive interiormente. La mistica, che fino al medioevo aveva avuto il suo corpo in un determinato linguaggio, acquisisce il suo linguaggio sociale moderno nel corpo del mistico, trova l'espressione delle esperienze inte­riori che la costituiscono nel corpo del mistico e nei fenomeni psicofìsici stra­ordinari di cui è soggetto, una specie di ferita al femore di Giacobbe, segno del­la sua particolare lotta notturna con l’angelo.13

A partire da questo momento, iniziato in epoca moderna, lo studio del fenomeno mistico sarà possibile e si farà indispensabile per conoscere il feno­meno religioso fino a raggiungere il fondo del fenomeno umano, rivelando tutte le sue conseguenze solo nel corso del XIX secolo.14

Il fenomeno mistico e le forme moderne di approccio

Una volta isolato come fenomeno umano specifico, è normale che al suo studio siano state applicate tutte le discipline che nel corso dell’epoca moderna cercano di decifrare l’enigma che l’uom o è per se stesso. La peculiarità della sua condizione e la straordinarietà delle manifestazioni che lo rendono visibile spie­gano le peculiarità che presenta la storia del suo studio nell’epoca moderna.

13 M. de Certeau, Mystique, in Encyclopedia Universalis, voi. 11, pp. 521-526.14 Ampi riferimenti alla storia di questo studio in quest'epoca, soprattutto in Francia, in É. Poulat, Critique et

mystique, Le Centurión, Paris 1984, spec. pp. 254-306. Per una visione più completa di questa storia, cfr. B. McGinn, Apéndice: Fundamentos teóricos: El estudio moderno de la mistica al primo volume della sua opera magistrale: The Presen- ce of God. A History of Western Christian Mysticism: The Foundations of Mysticism, SCM Press, London 1992, pp. 265- 343, con ampi riferimenti agli studi teologici, filosofici, psicologici e comparati.

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14 Sentieri illuminati dallo Spirito

Dalla fine del XIX secolo, storici, sociologi ed antropologi, cultori delle scienze delle religioni, psicologi e psichiatri, medici, studiosi del linguaggio, filosofi e teologi hanno accumulato descrizioni, spiegazioni e interpretazioni del fenomeno mistico che hanno fatto avanzare notevolmente la sua cono­scenza, ma che, come succede con tutto quello che attiene a quanto è più pro­priamente umano, sono lontani dall’aver conseguito una spiegazione adegua­ta e dall’avere svelato tutti i suoi segreti. Probabilmente, uno dei risultati più importanti di questi studi è quello di aver superato la tentazione, frequente agli inizi, di offrire una spiegazione adeguata a partire da ciascuna delle pro­spettive delle diverse scienze, superando così le spiegazioni riduzioniste della sociologia, psicologia e psichiatria degli inizi. Oggi, inoltre, è sempre più este­sa la convinzione che sia indispensabile uno studio interdisciplinare del fatto e la ricerca dell’articolazione dei diversi sensi che ciascuna disciplina rivela. A ciò hanno contribuito le riflessioni sullo statuto di ciascuna disciplina, le limitazio­ni che il materiale stesso impone a coloro che vi lavorano e i presupposti e gli interessi che indirizzano perfino le riflessioni più obiettive. Nel contesto di queste discipline si situa la fenomenologia della mistica alla quale il titolo di questo contributo rimanda.

L'approccio fenomenologico allo studio del fatto mistico

Il punto di partenza dei saggi di fenomenologia della mistica è la consta­tazione, a partire dai dati che offrono la storia delle religioni, la storia della spi­ritualità e i documenti raccolti dai loro studiosi, di una serie di fatti: esperien­ze, testi che le raccontano, fenomeni straordinari che le accompagnano, mol­to differenti nelle loro forme concrete, strettamente relazionati con il resto degli elementi delle religioni in cui si inseriscono, condizionati dalle circostan­ze storiche e dalle culture in cui si producono, e, allo stesso tempo, imparen­tati tra loro da un’evidente aria di famiglia che perm ette di includerli sotto il nom e di mistica, proprio della tradizione cristiana, ma del quale non mancano termini omologhi con i quali altre tradizioni religiose designano fatti analoghi.

Come abbiamo indicato, nella nostra esposizione si dovrà dare per sconta­to questo punto di partenza, in quanto vari contributi vanno ad esporre al nostro congresso in forma dettagliata alcune delle più importanti manifestazio­ni di questo fenomeno mistico che ci proponiamo di studiare.15 Sulla base di

15 Annotiamo soltanto che, partendo dalla constatazione che stilare un elenco esaustivo delle forme di misti­ca è praticamente impossibile, quelle offerte dal nostro congresso potrebbero ampliarsi con riferimenti alle manife-

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questo punto di partenza, qui solo accennato, il primo passo di una fenomeno­logia della mistica consisterà nella comparazione delle differenti forme in cui appare.16

Ma è possibile un tale confronto? Quale contributo può apportare alla conoscenza della mistica? È noto che l’applicazione del metodo comparativo alla storia e alla fenomenologia della religione, e conseguentemente alla feno­menologia della mistica, incontra non poche difficoltà che hanno dato origi­ne a numerose critiche sulla sua utilizzazione.

La prima difficoltà si riferisce alla selezione dei fatti oggetto di compara­zione. È evidente che dai fatti selezionati dipende in buona misura il risultato della comparazione. Ma come procedere alla stessa, se, per definizione, al mom ento della comparazione dei fatti ancora non si dispone di una nozione di mistica che perm etta di discernere i fenomeni in cui si manifesta? La rispo­sta, puram ente pragmatica, a questa difficoltà di principio consiste nell’accet­tare come mistici i fenomeni che la storia delle religioni e delle spiritualità ci propone e che una nozione elementare, ampia e semplicemente euristica, per­mette di identificare in principio come tali. L’arricchimento che apporteranno a questa nozione previa lo studio e la comparazione dei differenti fenomeni selezionati grazie ad essa perm etterà in seguito di esaminare i casi problema­tici e di decidere ragionevolmente la loro inclusione o esclusione come mate­riali per la scoperta della struttura del fenomeno. Di fatto, numerosi lavori sto­rici, filosofici e fenomenologici procedono proponendo una nozione il più generale possibile di mistica che guida il loro sviluppo e che le investigazioni successive andranno precisando. Così, E. Underhill, in una delle opere più influenti dell’inizio del secolo scorso, propone questa definizione introduttiva: «Mistica è l’espressione della tendenza innata dello spirito umano alla comple­ta armonia con l’ordine trascendente, qualunque sia la formula teologica con cui si comprenda questo ordine».17 R. C. Zaehner inizia un altro studio impor­tante a partire da questa definizione primaria: «Mistica [...] significa la realiz­zazione o la presa di coscienza di un’unione o di un’unità con un qualcosa immensamente, infinitamente più grande dell’empirico».18 Da parte mia, a

stazioni delle religioni tradizionali, in special modo allo sciamanesimo, così come alle frequenti forme di mistica lai­ca, non religiosa e perfino atea che, a partire dalla fine del XX secolo iniziano a diffondersi nelle società occidentali più secolarizzate. Cfr. El fenomeno mistico, cit., pp. 97-129.

16 Gli studi comparati sulla mistica hanno i loro antecedenti nelle opere dei fenomenologi già citati N. Sòder- blom, Fr. Heiler, R. Otto, R. C. Zaehner. Una recente e valida sintesi, in C. - A. Keller, Approche de la mystique dans les religions occidentales et orientales, Albin Michel, Paris 1996.

17 Mysticism, Methuen, London 1911, p. XIV18 Inde, Israel, Islam, DDB, Paris 1965, p. 273.

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partire da una prima considerazione dei fatti raccolti come mistici dalla storia delle religioni e dai tratti che distinguono le persone che la storia della spiri­tualità presenta come tali, propongo questa descrizione introduttiva: «Con la parola mistica mi riferisco ad esperienze interiori, immediate, fruitive - le qua­li avvengono in un livello di coscienza che supera quello valido nell’esperien­za ordinaria e obiettiva - dell’unione, qualsiasi sia la forma in cui la si viva, del­l’intimo del soggetto, del suo livello più profondo, con il tutto, l’assoluto, il divino, Dio o lo spirito».

L’elasticità di questa nozione previa, che contiene una prima approssima­zione al tipo di relazione vissuta nell’esperienza, e all 'oggetto della stessa, per­mette di scegliere, come manifestazioni del fenomeno che cerchiamo di descri­vere, la notevole varietà di forme di mistica presenti nella tradizione cristiana, tanto orientale che occidentale; le forme di mistica presenti nelle più varie for­me di religiosità: quella di livello arcaico, come lo sciamanesimo presente in numerose religioni tradizionali; le religioni orientali di orientamento mistico, le monoteiste di orientamento profetico; fino a giungere alle spiritualità pensate e vissute al margine di ogni tradizione religiosa o che mescolano in maniera sin- cretistica elementi di differenti tradizioni religiose e non religiose.

Può sembrare che una nozione tanto vaga, applicabile a fatti tanto diffe­renti, risulti scarsamente operativa. Si potrebbe pensare di essere in una situa- zione simile a quella che si crea quando si adotta per la delimitazione dei feno­meni religiosi una definizione di religione non sostanziale, vale a dire che non fa riferimento alla realtà che orienta e polarizza tutti gli elementi che configu­rano qualsiasi religione, ma che si accontenta di far riferimento alla funzione che la religione esercita nella vita della persona o nel seno della società, come fanno numerose psicologie o sociologie della religione. In realtà, però, la descrizione proposta rimanda ad una forma di esperienza già sufficientemen­te delimitata in opposizione a quelle che avvengono a livello della coscienza ordinaria, e specifica notevolmente la realtà term ine di questa esperienza, desi­gnandola con parole che la situano oltre gli oggetti mondani, anche se ancora non ne precisa la natura.

Tipologie delle diverse forme di mistica

Provvisto di questa comprensione iniziale, lo studio fenomenologico del­la mistica è ora in grado d’iniziare la descrizione e comparazione dei fatti che la realizzano. Questa descrizione permette, come secondo passo, di stabilire

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tipologie che li classificano in famiglie, raggruppandoli secondo diversi crite­ri.19 Per muoverci sul terreno neutro della fenomenologia, evitiamo le classifi­cazioni elaborate a partire da criteri teologici, le quali portano a qualificare come soprannaturale o rivelata la propria religione e, nel nostro caso, la misti­ca corrispondente, condannando tutte le altre alla condizione di religioni e mistiche naturali. Attenendoci a criteri di classificazione e non di valorizzazio­ne, crediamo sia im portante distinguere, in primo luogo, tra mistiche profane - di orientamenti distinti: filosofico, come la mistica di Plotino; estetico, come quelle che rappresentano alcune sensibilità romantiche; etico, come quelle che appaiono in alcune spiritualità antiche e m oderne che insistono soprattutto sulle forme di vita e su determinati valori - e mistiche religiose. La differenza che separa entrambi i tipi di mistica non sta solo nell’interpretazione religio­sa o meno della realtà term ine dell’esperienza. A mio parere, in questi due grandi tipi di mistica, è diversa la stessa esperienza, dovuta soprattutto al gra­do di implicazione e di impegno del soggetto in essa e, di conseguenza, alla modalità di esperienza che ne consegue.20

Nel vastissimo campo delle esperienze mistiche di natura religiosa, siamo d’accordo con la maggior parte degli autori per una prima classificazione che distingua tra le mistiche delle religioni dell’Estremo Oriente (religioni cosid­dette di orientamento mistico), quelle di orientamento profetico (sorte nel seno del mazdeismo) e le religioni del ceppo abramitico. Dal punto di vista della forma di rappresentazione del termine dell’esperienza, conviene parlare di mistiche moniste o, più precisamente, non dualiste, mistiche teiste e misti­che del vuoto o dell’annientamento, come quella rappresentata soprattutto

19 Cfr. P. Rodriguez Panizo, Tipologia de la experiencia religiosa en la historia de las religiones, in Experiencia religio­sa y ciencias humanas, PPC, Madrid 2001, pp. 111-143. Anche J. Martin Velasco, Las variedades de la experiencia religio­sa, in A. Dou (ed.), La experiencia religiosa, UPC, Madrid 1989, spec. pp. 36-38.

20 Visto che in seguito farò riferimento quasi esclusivamente alle forme religiose della mistica, segnalerò dò che mi sembra fondamentale mettere in evidenza riguardo alle esperienze di mistica profana. Anch'esse sono, a mio parere, esperienze di trascendenza. In esse si produce l’irruzione di un oltre rispetto al mondano che permette al soggetto di percepire, sospettare o intravedere, a seconda dei casi, una realtà che trascende l’ordine del mondo, o, più precisamente, dimensioni occulte, profonde della realtà che fino a quel momento gli erano passate inosservate. Tale irruzione allarga notevolmente il suo campo visuale, ponendolo nella disposizione adatta per adottare nuove forme di relazione con se stesso e con il mondo. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il soggetto non adotta una decisione in relazione con questo oltre che gli si annuncia. Non realizza un’opzione personale nei suoi confronti. Le esperienze religiose, in cambio, si incentrano proprio sull'opzione, con la quale il soggetto riconosce ed accetta la realtà di un altro ordine che gli si è fatta presente, con la conseguente trasformazione radicale della forma di esisten­za e di vita. Le numerose antologie di racconti di esperienze religiose offrono anche esempi di queste esperienze di trascendenza. Cfr. tra le altre, P. Miquel, Uexpérience de Dieu, Beauchesne, Paris 1977; P. Weil, Anihologie de Vextase, Albin Michel, Paris 1989; J. Otón Catalàn, Vigias del àbismo, Sai Terrae, Santander 2001.

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dal buddismo theravada. Non credo sia necessario aggiungere che i confini tra i differenti tipi non sono rigidi e che non mancano all’interno di ciascun grup­po forme di mistica imparentate con altre caratteristiche di gruppi differenti.

Senza entrare nella descrizione di queste differenti forme, che qui diamo per supposta, ci soffermiamo nel precisare l’obiettivo della descrizione del fenomeno mistico, il metodo seguito per conseguire questo obiettivo e i risul­tati a cui giunge.

Alla ricerca della struttura del fenomeno mistico: la fenomenologia tra l’essenzialismo e il costruttivismo

I primi studiosi della fenomenologia della religione si proponevano come obiettivo principale la scoperta dell’essenza del fenomeno religioso che, a loro avviso, era soggiacente, latente, in tutte le sue manifestazioni storiche. Sedot­ti dall’ideale della Wesensschau del metodo husserliano, autori classici della fenomenologia della religione, come G. van der Leeuw e Fr. Heiler si propo­nevano la ricerca dell’essenza della religione presente nelle sue manifestazio­ni. Così l’opera fondamentale del primo nella sua edizione francese porta il titolo: La religion dans son essence et dans ses manifestations,21 e la fenomenolo­gia della religione di Heiler si intitola Erscheinungsformen utid Wesen der Reli­gion [tr. it. Le religioni dell’umanità, Jaca Book, Milano 1985].22 Sulla scia di tali studi (influenzati talvolta dalle filosofìe illustrate della religione, che scopro­no una pretesa religione naturale o della ragione sotto le molteplici religioni positive o statutarie della storia), numerosi studiosi della mistica si propongo­no una fenomenologia che scopra l’essenza del fenomeno, realizzata nelle diverse forme originate dalla sua incarnazione in culture ed epoche storiche differenti. Il suo metodo è stato qualificato come essenzialismo, perenniali- smo o universalismo. A questo orientamento appartengono, in una qualche maniera, avant la lettre, i sostenitori di una philosophia o religio perennis,23 stu­diosi come A. Huxley, F. Schuon, R. Guénon, A. Coomaraswamy, ecc. Num e­

21 Payot, Paris 1955.22 Kohlhammer, Stuttgart 1961.23 Valga, come espressione dello spirito di questa corrente, il seguente testo di S. Radhakrishnan: «Dietro le

varie espressioni, Brahaman, Yahvé, Ahura Mazda, Allah, è latente la stessa intuizione, lo stesso impulso, la stessa fede. Tutte le religioni scaturiscono dal suolo sacro della mente umana e sono animate dal medesimo spirito. I dif­ferenti sistemi sono tentativi, più o meno soddisfacenti, di inquadrare la realtà spirituale», in East and West in Reli­gion, Alien and Unwin, London 1933, p.19.

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rosi e importanti autori della prima m età del XX secolo hanno orientato la loro fenomenologia della mistica in una direzione simile. Segnaliamo tra gli altri, E. Underhill, R. Zaehner, N. Smart e W. T. Stace.24 Per tutti questi, le manifestazioni della mistica sono espressioni di un’identica esperienza o, almeno, di un numero ridotto di esperienze. Tutti fondano questa conclusio­ne a partire dalle somiglianze dei racconti delle diverse tradizioni e da un’ana­lisi del fenomeno che ci porta a distinguere in tutte queste due livelli: quello dell’esperienza di base, coincidente, o almeno convergente in tutte le forme di mistica, e quello dei mezzi di interpretazione ed espressione della stessa, condizionati dalle differenti circostanze storiche e dalle differenti culture.

Tutte queste posizioni e il proposito che le anima sono entrate in crisi a partire dall’inizio della seconda metà del XX secolo. La radice di questa crisi sta nella variazione di paradigma epistemologico che si produce in questi anni nell’ambito delle scienze umane. Tale variazione, nel caso degli studi sulla mistica, è il risultato di una trasformazione nell’orientamento e comprensio­ne degli stessi, che, partiti inizialmente nel campo della psicologia e di una fenomenologia poco elaborata, sono infine sfociati nelle prospettive della lin­guistica e della sociolinguistica, molto influenzate dagli studi sul linguaggio di L. Wittgenstein e dalla nuova comprensione della cultura sviluppata dagli stu­di di antropologia culturale e sociale.

La radice dell’errore degli essenzialisti, a cui si oppone la nuova corrente, sarebbe una concezione ingenua dell’esperienza e della sua relazione con il lin­guaggio che l’esprime e le teorie che la interpretano. L’esperienza pura, estra­nea a tutte le culture, universale, identica in tutte le forme di mistica, postula­ta da questi autori, non esiste. Neanche andrebbe bene, d’altra parte, «un discorso universale sulla mistica in cui si dimentichi che l’indiano, l’africano, l’indonesiano non hanno né la stessa concezione, né la stessa pratica di quel­lo che noi designamo con questo nome».25

A partire da questa constatazione, l’interpretazione del fenomeno mistico passa dall’essenzialismo al costruttivismo, rappresentato soprattutto da St. Katz, J. Hick, H. Penner e altri.26 Per tutti questi autori le esperienze mistiche sono sottomesse ai «processi formativi e costruttivi del linguaggio e della cultura», e «tali processi non solo intervengono configurando la nostra interpretazione del­

24 Un esposizione più dettagliata delle loro posizioni, in J. Martin Velasco, El fenòmeno mistico, cit., pp. 37-38.25 M. de Certeau, Mystique, in Enciclopedia Universalis, loc. cit., p. 522.26 Riferimenti in El fenòmeno mistico, cit., pp. 38-42.

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l’esperienza dopo che essa ha avuto luogo, ma nel corso stesso della sua realiz­zazione».

L’esperienza mistica, dice il principale teorico della nuova posizione [...] è confi­gurata da concetti che il mistico porta all’esperienza e che la configurano. Il pro­cesso di differenziazione dell’esperienza mistica negli schemi e simboli di tutte le tradizioni religiose stabilite è esperienziale e non ha luogo soltanto nel processo post-esperienziale consistente nel riferire ed interpretare la stessa esperienza. Tale processo avviene prima, durante e dopo l’esperienza.27

Le interpretazioni costruttiviste hanno posto in questione il principio del­le letture essenzialiste secondo le quali: «Tutte le esperienze mistiche sono (in fondo) la stessa o tra loro simili». Però il costruttivismo è andato, a mio pare­re, troppo oltre. È passato dall5affermazione del carattere condizionato di ogni esperienza, alla riduzione dell’esperienza a questo condizionamento e alla negazione dei tratti comuni evidenti che imparentano tra loro queste esperienze, le rendono comparabili e perm ettono di identificarle sotto la stes­sa denominazione di mistiche, entro l’innegabile varietà delle forme che rive­stono.

Tra essenzialismo e costruttivismo, il metodo fenomenologico, quando si lascia istruire dagli apporti delle scienze umane e dalla variazione epistemolo­gica da loro introdotta, rende possibile una conoscenza del fenomeno mistico che, pur non ignorando la varietà che le differenti situazioni storiche e cultu­rali in cui si manifesta impongono alle sue molteplici forme, fa a sua volta giu­stizia delle innegabili somiglianze che comportano, perm ettendo di ottenere la descrizione di una struttura comune a tutte queste manifestazioni.

Il costruttivismo ha ragione quando afferma che ogni esperienza è un’esperienza interpretata e, pertanto, dipendente dal contesto e influenzata da esso. In effetti, ogni esperienza umana è vissuta nella mediazione di un lin­guaggio con tutto ciò che questo com porta in term ini di pensiero, storia e cultura. Ma questo non significa che l’esperienza si esaurisca in ciò che il sog­getto le apporta. «Ogni esperienza umana, secondo una felice espressione di P. Ricoeur, è una sintesi di presenza e interpretazione». È vero che quanto vie­ne dato nell’esperienza è recepito in un soggetto configurato da alcuni sche­mi di comprensione, abitudini di reazione, aspettative di desiderio, ambiti di

27 St. Katz, Language, Epistemology and Misticism, in St. Katz (ed.), Analysis, Mysticism and Phibsophical Analysis, OUP, Oxford-New York 1978, pp. 26-27.

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valorizzazione, ecc. Ma è vero anche che tutto questo può configurare il tipo di essere che siamo, persino nella relazione con il trascendente. Ma 1J«essere ciò che siamo» non si esaurisce nella forma storica, certamente condizionata, in cui questo essere si realizza. Anche se fossero realizzabili solo storicamen­te, e il pensiero non fosse capace di percepirle astoricamente, esistono senza dubbio una serie di invarianti umane al margine di ogni mediazione cultura­le, in una nozione che esprime un’essenza atemporale, assoluta. Questo insie­me di costanti umane, in relazione a se stessi, al mondo, all’arte, alla religio­ne, ecc. fa sì che si possa parlare di una storia umana, di una storia dell’arte, del pensiero, della religione, che si realizzano solo nella pluralità delle cultu­re, ma che tuttavia in essa si realizzano effettivamente. Questo insieme di costanti che costituiscono il soggetto um ano è quanto perm ette di parlare del linguaggio umano, anche se questo sia valido solamente nella pluralità dia­cronica e sincronica delle lingue; dell’arte, realizzata soltanto in una pluralità di forme culturalmente condizionate; e, per la stessa ragione, della religione o della mistica, anche se queste esistono realizzata solo nella pluralità cultu­ralmente condizionata delle religioni e delle mistiche.

Di fatto, nel proporre una fenomenologia della religione, siamo coscienti che la parola religione con cui designamo questo complesso di fatti raccolti dal­la storia delle religioni, è un termine sorto in una tradizione, quella occiden­tale cristiana, che riassume una comprensione di questi fatti contaminata da essa e che per questo è incapace di spiegare le peculiarità delle manifestazioni religiose di altre tradizioni. Sappiamo, per esempio, che ciascuna delle religio­ni designa se stessa con termini presi da altri campi semantici che orientano la comprensione di sé verso altre direzioni rispetto alla parola religione intesa cri­stianamente come unione di Dio con l’uomo. Così, l’induismo intende se stes­so come Sanatoria Dharma, il buddismo come Damma, le religioni cinesi come Chiao, ecc.28 Prendendo come punto di partenza per lo studio del fenomeno religioso una comprensione sufficientemente ampia ed elastica di religione, perché sia applicabile a tutti i fenomeni della storia religiosa, è lo studio dei fatti stessi in tutta la loro varietà ciò che perm ette al fenomenologo occiden­tale della religione di riempire di un contenuto più ricco la parola della pro­pria tradizione, con la quale designa questo complesso di fenomeni tanto vari quanto convergenti. Ma la parola religione non contiene la definizione di un’es­senza sottesa alle religioni e alle loro differenze. La parola si riferisce ad un

28 Ulteriori riferimenti in G. Lanczkowski, Begegnung und Wandel der Religionen, Diederichs, Dusseldorf 1971, pp. 39-43.

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significato presente nella forma straordinariamente varia delle religioni esisten­ti; si riferisce allora ad un insieme di elementi presenti nelle religioni, nelle for­me proprie di ciascuna di esse, e organizzati in ciascuna di queste religioni in una forma convergente. La parola religione non si riferisce, dunque, ad un con­cetto univocamente realizzato nelle differenti religioni. Costituisce, piuttosto, una categoria interpretativa, dotata di un contenuto preciso realizzato in for­ma analogica nelle differenti religioni.

Qualcosa di simile accade con il termine mistica, con il quale designamo l’enorme varietà di fatti storici che costituiscono il fenomeno mistico. Tutte le forme esistenti di mistica sono l’incarnazione, in differenti culture, della real­tà a cui fa riferimento la parola, realtà che esiste solo incarnata e diversificata culturalmente, ma che rende presente, in modo diversificato, un complesso di costanti o di invarianti umane che ciascuna cultura realizza a suo modo. D’ac­cordo con la nostra proposta metodologica, la parola mistica non designa l’es­senza di un’esperienza umana unica, che le differenti mistiche realizzerebbero in forma univoca, come se la varietà e le differenze si originassero dagli sche­mi espressivi e interpretativi con cui i soggetti li formulano. La parola è stata coniata per designare un’esperienza che appartiene alla propria tradizione e che in questa riveste una o, meglio, varie forme differenti, anche se chiaramen­te identificabili come analoghe. A partire da questo uso nella propria tradizio­ne, lo studioso (nel nostro caso occidentale e cristiano) dei fenomeni religiosi utilizza questa parola, che di fatto non esiste, e addirittura può non avere cor­rispondenza in un solo termine nel resto delle tradizioni religiose, per riferir­si ad esperienze correlative di altre culture, espresse in esse in equivalenti omeo- morfici, vale a dire, parole che «disimpegnano una funzione equivalente nei sistemi ai quali appartengono».29 In altri termini, con la parola mistica designa­mo la struttura significativa del fenomeno mistico presente in tutte le manife­stazioni, a partire dalle quali abbiamo elaborato la comprensione di questa struttura. Per struttura intendiamo il complesso di elementi presenti sotto for­me distinte nelle differenti forme del fenomeno, l’organizzazione di tali ele­menti, le relazioni che li uniscono, il posto che ciascuno di essi occupa nel sistema.

È necessario avvertire, ancora, che la struttura non è un dato che si incon­tra tale e quale al di sotto delle diverse manifestazioni e che la descrizione del fenomenologo riflette in modo speculare. La struttura è una costruzione del­

29 Cfr. R. Panikkar, La experiencia filosòfica de la India, Trotta, Madrid 1997, pp. 106-110.

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l'interprete, elaborata a partire dai fatti osservati e comparati, con il fine di ser­vire all’interpretazione dello stesso. Come tale, necessita di essere confronta­ta permanentem ente con i fatti a partire dai quali si elabora e ai quali si appli­ca, perché questi verifichino o falsifichino la sua validità, come succede con le teorie proposte dagli scienziati per la spiegazione dei fenomeni che studiano. Ma allora, dopo aver posto tutte queste premesse metodologiche, qual è la struttura del fenomeno mistico?

Verso una descrizione della struttura del fenomeno mistico

Una delle difficoltà con cui la fenomenologia della mistica si scontra è quella che pensa di convertirla in oggetto del suo studio, in fenomeno, che per definizione si riferisce a qualcosa che si mostra, una realtà che, come il nome stesso mistica indica, rimanda a qualcosa di occulto e misterioso. È vero che esiste un corpus di scritti, a cui gli storici delle religioni e della spiritualità aggiungono ogni giorno nuovi testi, che danno luogo ad una tradizione misti­ca presente in tutte le religioni. È vero anche che, nel corso della storia, come mostra l’esempio eminente di Plotino, e specialmente nell’epoca moderna, anche la letteratura e la filosofìa aggiungono nuovi elementi a queste tradizio­ni religiose. Ma riconoscere in queste un fatto osservabile, un fenomeno misti­co, comporta il paradosso di designare come un qualcosa che si mostra, quel­lo che per sua natura è identificato come resistente ad ogni manifestazione, per il suo essere occulto e misterioso. Tale difficoltà si vede accresciuta se lo scopo della fenomenologia non si limita alla descrizione degli aspetti esterni dei fatti in questione ma intende cogliere la struttura comune ad essi.

In ogni caso, il punto di partenza della fenomenologia della mistica non può essere altro che quello da cui essa si lascia percepire, quello che la mani­festa e la converte in fenomeno umano, storico. La visibilità della mistica si ren­de realtà attraverso un corpo multiplo: quello dei testi che descrivono le espe­rienze assolutamente peculiari del mistero; le tracce di queste esperienze nel corpo dei soggetti mistici: i fenomeni straordinari che le accompagnano; e que­st’altro corpo sociale che costituisce il genere di vita dei protagonisti di questi fatti nel seno delle società religiose e nell’insieme delle società umane. In tu t­ti e tre questi casi, abbiamo a che fare con fatti osservabili, e come tali studia­bili, e con il riferimento di questi fatti a una dimensione interiore che riguarda alcune esperienze peculiari. Così, l’originalità del fenomeno mistico risiede per lo più sui due livelli inseparabili, impossibili da isolare, che lo costituiscono: le

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manifestazioni esterne e una realtà interiore ed invisibile alla quale esse riman­dano, nella relazione che questi due livelli mantengono. La fenomenologia del­la mistica vive di una duplice convinzione: quella che nel mondo dell’umano si manifesta una realtà di un altro ordine, a cui non si ha accesso con i mezzi che valgono nell’ordine del mondano, e di cui pertanto «non si può parlare» (L. Wittgenstein). E la convinzione che questa manifestazione spinge a fa r par­lare ad ogni costo e ad indagare fino a quando questi elementi visibili, indizi od impronte dell’invisibile, non riescano ad offrire tutto il senso di cui si dimo­strano abitati. Gli elementi visibili del fatto mistico sarebbero così, per la feno­menologia della mistica, ciò che le ierofanie sono per la fenomenologia della religione.30

Il linguaggio mistico

La comparazione dei linguaggi, comuni in molti aspetti, delle tradizioni mistiche, ha evidenziato una serie di tratti che li caratterizzano fino al punto di poter parlare di un modus loquendi, di un linguaggio mistico o di un linguag­gio dei mistici.31 È noto che questo linguaggio non si limita ad un genere let­terario preciso. I mistici come tali parlano in forma poetica, in narrazioni auto­biografiche, in esortazioni e dichiarazioni con intenzione pedagogica, fino a giungere a riflessioni di indole filosofica o teologica, nelle quali pongono in rilievo le connessioni tra quello che vivono e il sistema di religione alla quale appartengono, o manifestano come il vissuto in queste esperienze illumini il senso e allarghi o approfondisca la visione del mondo a partire dalla quale pen­sano.32 Naturalmente, in ciascuno di tali generi si manifestano in forme diver­se i tratti propri del linguaggio mistico. Quali sono questi tratti e che cosa ci dicono del lato misterioso del fatto mistico di cui fa parte questo linguaggio?

30 J. Baruzi esprime dò molto precisamente quando parla di questo duplice corpo della mistica che è il linguag­gio e la storia: «La mistica, in fondo, sfugge alla storia come sfugge al linguaggio. Ma storia e linguaggio costituisco­no il suo corpo e, se la proiezione è fedele, ne può essere indovinata l’anima profonda» [Introduction à des recherches sur le langage mystique in M. M. Davy (éd.), Encyclopédie des mystiques, Paris, voi. 1, p. XLV1].

31 Sul linguaggio mistico, cfr., tra molti altri studi, M. Baldini, Il linguaggio dei mistià, Queriniana, Brescia 21990; A. M. Haas, Sermo mysticus. Studien zu Theologie und Sprache der deutschen Mystik, Universitàtsveriag, Freiburg, Schweiz 1979.

32 Per questo non è strano, e mi sembra perfettamente legittimo, che lettori contemporanei di testi mistici di altri secoli scoprano in essi veri tesori di riflessione filosofica, come nel caso di J. Baruzi, H. Bergson e G. Morel con san Giovarmi della Croce.

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Il primo, senza dubbio, è quello di essere e di proporsi come linguaggio di un esperienza. Il mistico parla non di quello che sa per sentito dire, né di ciò che sa grazie a concetti astratti generali, ma di quanto ha sperimentato e vissu­to; di quanto ha provato in un’esperienza. Questo conferisce al linguaggio dei mistici la sua concretezza, la pregnanza psicologica ed affettiva che caratteriz­za molte delle sue forme. «Il linguaggio mistico è necessariamente diverso da quello fìlosofìco [...] visto che qui si tratta di rendere sensibile la stessa espe­rienza (e che esperienza!), la più ineffabile di tutte».33 I mistici possono parla­re delle stesse realtà di cui parlano i teologi e determinati filosofi, distinguen­dosi da questi, però, perché parlano di queste realtà a partire dall'esperienza che ne è stata loro data. Di qui, la condizione autoimplicativa, il riferimento al soggetto che questo linguaggio suppone, il coinvolgimento di colui che par­la nella verità che il suo linguaggio svela, nelle affermazioni che comunica. Di qui, anche, il predominio in questo linguaggio della funzione espressiva su tu t­te le altre funzioni del linguaggio umano.

Questo riferimento del linguaggio mistico all’esperienza non deve essere inteso come se le parole del mistico fossero rivestite o esprimessero con i ricor­si verbali del linguaggio un’esperienza interamente estranea ad esso. Giusta­mente le proprietà a cui faremo riferimento in seguito mostrano che il lin­guaggio è esperienziale e che solo l’esperienza può essere vissuta come un’esperienza a cui è possibile dare un nom e e di cui si può parlare.34 Gli stes­si tentativi, a cui alluderemo in seguito, di sfuggire al linguaggio, che sono il riferimento all’ineffabilità del vissuto e al silenzio come supremo mezzo espressivo, sono possibili ed esprimibili solo nel linguaggio e grazie ad esso. Un linguaggio che, proprio con la sua debolezza nel dire l’indicibile, attesta la forza e la sublimità di quanto si è sperimentato. Per questo si è potuto affer­mare che il linguaggio del mistico è testimone della sua impotenza, pur «por­tando il linguaggio umano fino alle sue estreme possibilità».35

Da questa prima proprietà scaturiscono tutte le altre e, in primo luogo, la condizione simbolica di tutti i suoi elementi. Non è solo che il linguaggio mistico sia ammantato di simboli. Il fatto è che esso è tutto simbolico. Attra­verso i significati primari delle parole che utilizza, il mistico tende a realtà di un altro ordine, alle quali è possibile l’accesso solo con la mediazione del sim­bolo. Per dirlo con i termini della poetica che costituisce il prologo di san Gio­

33 L’espressione appartiene aj. Maritain, Distinguer pour unir ou les degrés du savoire, DDB, Paris 1932, p. 382.34 A. M. Haas, op. cit., p. 32.35 Ibid., p. 29.

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vanni della Croce al Cantico spirituale: le sue canzoni, che vogliono esprimere «l'esercizio di amore tra l'anima e lo sposo Cristo», sono scritte «con un certo fervore di amore di Dio»; si riferiscono, cioè, ad un’esperienza di tale natura, che neanche le anime che vi passano possono capire, né manifestare con paro­le. Perciò devono ricorrere a «figure, comparazioni e similitudini», con le qua­li «preferiscono far comprendere parte di quel che sentono, e dall’abbondanza dello spirito spargono segreti misteri». La condizione simbolica di questo lin­guaggio fa sì che non sia possibile tradurre né esprimere «la larghezza e l’ab­bondanza» di significato del suo contenuto. Solo raramente, il linguaggio umano acquista la densità simbolica propria del linguaggio mistico. In esso si realizza nella forma più piena la condizione di metafora viva dei simboli auten­tici; questa condizione che è «molto più di una figura stilistica, e comporta un’innovazione semantica [...] una testimonianza a favore della virtù creatri­ce del discorso» (P. Ricoeur). La condizione simbolica del linguaggio mistico lo situa in uno stato permanente di trasgressività che ha la sua radice nella ten­denza a portare il senso primario dei vocaboli fino al limite della sua capacità significativa, facendolo orientare verso la terra promessa, e mai posseduta, di una realtà che mai finisce di svelarsi.

Il riferimento ad una realtà che non si adatta a nessuno dei termini di cui l’uom o dispone spiega il ricorso constante dei mistici al paradosso, alTossimo- ro, all’antitesi, alla negazione e alle espressioni apparentemente contradditto­rie che sono state messe in evidenza da tutti gli analisti di questo tipo di lin­guaggio. Questo stesso riferimento spiega la presenza nel linguaggio mistico di costanti allusioni all’ineffabilità di quanto cerca di esprimere, e la presenza del silenzio come orizzonte e clima in cui il mistico inscrive le sue parole sem­pre inadeguate. «Tutto avvolto nel silenzio» (san Giovanni della Croce),36 aggiunto a tutti gli elementi del linguaggio, è un’eccellente maniera di espri­mere l’insoddisfazione del mistico nei confronti del suo linguaggio e la sua incapacità a rinunciare ad esso.37

Se dovessi segnalare l’aspetto più significativo di questa sommaria analisi del linguaggio mistico, tesa a scoprire la struttura del fenomeno nel suo com­plesso, sottolineerei il riferimento permanente ad un’esperienza e la condizio­ne interamente peculiare di questa esperienza rivelati dal resto delle proprietà di questo linguaggio. In definitiva, è la condizione anagogica dell’esperienza

36 Lett 8, 35.37 A. M. Haas, op. cit., p. 26; J. Baruzi, loc. cit., pp. XX-XXIV

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che è alla sua origine ciò che sostiene l’analogia, il carattere metaforico e sim­bolico, di tutti i term ini del linguaggio del mistico.

I fenomeni psicosomatici straordinari

Nella medesima direzione punta quell’altro aspetto visibile del fenomeno mistico rappresentato dai fatti straordinari di carattere psicosomatico, che accompagnano con frequenza molti dei mistici e che costituiscono ciò che alcuni hanno chiamato il loro linguaggio corporale. Della sua presenza rac­contano le biografìe, scritte tradizionalmente sotto forma di agiografìe dei mistici e di proprie relazioni autobiografiche. L’attenzione che medici, psico­logi e psichiatri hanno prestato al fenomeno mistico dalla fine del secolo XIX si è soffermata su questi fatti con vero piacere. In questi fenomeni hanno visto, soprattutto nella prima epoca di tali studi, sintomi della condizione patologi­ca di coloro che li vivevano. A partire da essi hanno elaborato frequentemen­te spiegazioni del complesso fenomeno mistico che in molti casi riducevano a mero prodotto dell’una o dell’altra infermità mentale.38

Hanno insistito su di essi, ma interpretandoli come indizio o persino pro­va del carattere soprannaturale dei vissuti di coloro che vi erano soggetti, anche non pochi teologi, cultori di una apologetica che «pretendeva di trova­re il soprannaturale nel mondo, tra i fenomeni», cadendo così in «un’illusione tanto grave come quella di attribuire moralità ad una pietra».39

Senza entrare nell’interpretazione di tali fatti (visioni, locuzioni, levitazio­ni, stimmate, inedia o anoressia, telepatia, chiaroveggenza, ecc.), mi sembra evidente che essi siano anche segnali che rimandano a vissuti interiori, ad espe­rienze dei soggetti che le vivono e ad un tipo speciale di esperienze, di contat­to del soggetto con un ordine di realtà che esulano dal circolo formato dagli oggetti mondani accessibili nella vita ordinaria. In effetti, in quanto vengono superate le spiegazioni puramente materialiste di tali fatti e si riconoscono le limitazioni metodologiche delle spiegazioni scientifiche, le quali, anche se

38 Sui criteri epistemologici per una valutazione di tali interpretazioni restano valide le considerazioni di J. Maréchal sull’opera di J.-H. Leuba, Un exemple d ’optimisme scientiste dans Vétude desfaits mystiques, contenuta in Études sur la psychologie du mysticisme religieux, L’Édition Universelle, Bruxelles-Paris 1938, voi. II, pp. 385-407. E, più in genere, Science empirique et Psychologie religieuse, ibid. voi. I, pp. 3-62. Anche A. Vergote, Dette et desir, Seuil, Paris 1978, spec. pp. 15-60.

39 Espressioni, ancora molto degne di essere tenute in considerazione, prese da E. Récéjac, Essai sur lesfonde- ments de la connaissance mystique, Alcan, Paris 1897, cit. da É. Poulat, Critique et mystique, cit., p. 260, nota 8.

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spiegano il funzionamento psicosomatico del soggetto, non possono pronun­ciarsi sulla realtà della causa che lo produce, ciò che resta, come hanno già osservato autori spirituali antichi, è che in essi si manifestano due «cause con­trarie: eccesso e difetto, sovrabbondanza di devozione, luce interiore o gusto personale e mancanza di vigore» delle potenze del soggetto, come succede con il vino e l’ubriachezza in persone di costituzione debole.40 Detto altrimenti, i fenomeni straordinari, ai quali non si riesce ad attribuire alcun valore di pro­va della verità del vissuto e ai quali gli stessi soggetti non attribuiscono il valo­re di criterio di autenticità della loro esperienza, possono essere considerati, in cambio, come l’impronta, nella psiche e nella corporeità di coloro che li vivo­no, del carattere totalmente speciale della esperienza che essi accompagnano. Speciale, almeno, per l’autoimplicazione radicale del soggetto in loro; per l’in­tensità dell’esperienza; per la tensione estrema delle facoltà che in essa inter­vengono. Tali fenomeni possono per questo essere visti come indizi dell’avvi­cinamento del soggetto, nelle esperienze che li producono, alle frontiere del­l’umano e del mondano con l’oltre che li coinvolge.

Dagli aspetti visibili del fenomeno ad un’esperienza singolare

I due elementi visibili del fenomeno mistico rimandano, quindi, come pri­m o elemento dello stesso - in un senso che si dovrà precisare in seguito - all’esperienza del soggetto. In questo, i dati oggettivi, accessibili attraverso il lato visibile del fenomeno, coincidono con la testimonianza offerta dagli scrit­ti dei mistici. In effetti in tutti loro, al di là delle forme esterne più diverse, come le esperienze estatiche, trances, visioni, cammini verso la unificazione, interiorizzazione e concentrazione; processi di progressivo svuotamento di se stessi, ricerca dell’unità o unione, esercizio dell’amore più intenso, ecc..., si tratta sempre di esperienze. Sono esperienze singolari che si contraddistinguo­no in quanto superano la modalità della relazione soggetto-oggetto vigente in tutte le altre esperienze umane; producono o comportano con frequenza sta­ti alterati di coscienza; sono accompagnate da profonde commozioni affettive; portano con sé un alto indice di riferimento alla realtà, che produce nel sog­getto la sicurezza di stare in contatto con quanto è veramente reale; alcune esperienze si presentano al soggetto come passive: non sono il prodotto del

40 J. Graciàn, cit. in P. Sainz Rodriguez, Espiritualidad espanola, Rialp, Madrid 1961, pp. 60-61.

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suo sforzo, né sorgono come effetto della propria iniziativa. Di tutti questi aspetti delle cosiddette esperienze mistiche parlano le descrizioni che, a parti­re dall’opera pionieristica di W. James,41 vanno offrendo gli psicologi della reli­gione dei più vari orientamenti.

Ma tutti questi aspetti rimandano in radice ad un aspetto centrale che accorda a tutte le esperienze il loro vero significato. È il riferimento ad un ter­mine, quello dato nell’esperienza, la realtà con cui pone in contatto, che i sog­getti designano con i nomi più diversi: il Tutto, l’Assoluto, il Divino, il Tao, Brahman, Dio, lo Spirito, ma che comporta in tutti i casi una serie di tratti interamente originali che conferiscono la loro ultima peculiarità all’esperien­za attraverso la quale il soggetto entra in contatto con quella stessa realtà.

Si dice, a ragione, che questa realtà non è conosciuta se non si è entrati in contatto esperienziale con essa. Prima di questo, la si può conoscere per sen­tito dire; si può avere di essa un’idea più o meno precisa. Un’idea, tuttavia, che l’esperienza riduce a paglia, come l’esperienza mistica che san Tommaso al termine della sua vita avrebbe fatto con il Dio della sua teologia; o riduce a cenere, come, secondo l’esperienza narrata da Pascal nel Memoriale, il fuoco fece con il Dio dei filosofi e dei sapienti. Ma è necessario aggiungere, in segui­to, che solo la presa di coscienza della realtà di cui si è fatta esperienza spiega la natura interamente speciale dell’esperienza in questione e perm ette di com­prenderla. Vale a dire che, senza la considerazione del suo oggetto, o, meglio, del suo contenuto, le migliori analisi scientifiche o psicologiche a cui può esse­re sottoposta mancano di molto la sua vera natura.42

Dall’esperienza alla Presenza originante del mistero, contenuto dell’espe­rienza ed elemento centrale della struttura del fenomeno mistico

Se ci interrogassimo su questa realtà solo a partire dalle testimonianze del­la tradizione mistica cristiana, saremmo obbligati a rispondere identificandola con Dio, sotto forma del Padre di Nostro Signore Gesù Cristo. Per cui, dun­que, la presenza di esperienze di questo tipo nelle tradizioni religiose che

41 The Varieties of Religious Experience (1902), trad. castigliana, Las variedades de la expériencia religiosa, Peninsu- la, Barcelona 1986.

42 In questo le critiche di tutti i fenomenologi del fatto mistico coincidono con quelle fatte dai teologi. Cfr. A. Léonard, Recherches phénoménologiques autour de l'expérience mystique, in «Le Supplément à la vie Spirituelle», 23 (1952), p. 441. Allo stesso modo i testi di teologi come H. De Lubac e L. Bouyer.

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disconoscono questa forma di identificazione, che non dispongono di una rap­presentazione per essa in termini propriamente teisti, o perfino mancano di ogni rappresentazione per la realtà a cui queste esperienze rimandano, obbli­ga allo studio comparato delle esperienze mistiche allo scopo di ricercare una categoria capace di identificare questa realtà più ampia di quella costituita dal­la rappresentazione cristiana di Dio. Questa categoria si riassume per noi nel termine mistero.43 Con questa ci riferiamo alla realtà anteriore e superiore - un supra e un prius, come diceva H. Bianchi - presente in tutti i sistemi religiosi e che può perfino farsi presente all’uom o sotto forme non religiose, come suc­cede in alcune forme di spiritualità non religiosa nelle società sottoposte ad una forte secolarizzazione ed ad una crisi acuta delle religioni tradizionali. La lettura dei riferimenti religiosi alla realtà significata con questa categoria nei simboli, le preghiere, e persino le rappresentazioni concettuali delle teologie, ci hanno portati a scoprire alcuni pochi tratti comuni a tutte queste rappresen­tazioni, configurazioni e concezioni dell’o (tre in tutti gli ordini, a cui rimanda­no tutti gli elementi dei differenti sistemi religiosi. Tali tratti sono: l’assoluta trascendenza, espressa simbolicamente nella sua condizione di invisibile, nel­la sua totale alterità in relazione con tutto il mondano; nella sua superiorità assoluta e, soprattutto, nel fatto che solo l’uom o può entrare in contatto con questa realtà trascendendo le possibilità di tutte le sue facoltà.

Ma la condizione di trascendente non relega alla più assoluta lontananza la realtà espressa con la categoria di mistero. Al contrario, proprio per il suo essere assolutamente trascendente, «totalmente altra», totus alius, come diceva sant’Agostino, è la realtà «non altra», non aliud, come diceva Niccolò Cusano, ad essere in relazione con tutte le realtà del mondo e con lo stesso uomo, e a stare alla radice di esse e nel cuore del soggetto, permettendo a tutto di esse­re quello che è. Per essere superior summo meo, può essere interior intimo meo (sant’Agostino) o, con le parole di san Giovanni della Croce, perché non teme confronto con alcuna creatura, può incontrarsi con l’uom o «nel più profondo centro dell’anima». Giacché, come dice la spiegazione di questo verso, «il cen­tro dell’anima è Dio». Si tratta, quindi, della trascendenza nell’immanenza.

Il terzo tratto della realtà a cui rimanda la categoria di mistero è riassun­to dal termine di presenza nel senso forte che la filosofìa esistenziale di G. Mar­cel44 ha dato a questa parola. Con esso intendiamo esprimere la differenza fon­

43 Per il senso più preciso e il contenuto più sviluppato di questa categoria, mi permetto di rimandare ai miei studi sulla fenomenologia della religione citati sopra, nota 1 .

44 Cfr., per esempio, Position et approches concrètes du Mystère Ontologique, trad. castigliana, Aproximación al miste- rio del ser, Encuentro, Madrid 1987, pp. 64ss.

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damentale tra Dio, termine di un atteggiamento puram ente speculativo, come quello che appare in determinate teologie filosofiche che ricorrono all'idea di Dio come chiave di un sistema esplicativo della realtà, e il Dio mistero santo delle tradizioni religiose e termine delle esperienze mistiche. Il Dio mistero santo appare ai soggetti religiosi come la realtà trascendente nell’immanenza a cui ci stiamo riferendo, in atto permanente di rivelarsi, di autodonarsi, ren­dendo così possibile lo stabilirsi di una relazione con gli umani nello stile del­la relazione interpersonale.

Riassunti questi tre aspetti, che il riferimento ai dati della storia delle reli­gioni e ai testi degli autori mistici arricchirebbe in modo considerevole, pos­siamo concludere che l'esperienza religiosa e quella dei mistici, che costituisce una forma peculiare di essa, rimandano, come proprio contenuto, termine e radice, a questa Presenza originante dell’assoluta trascendenza intimamente presente al centro stesso della persona, intavolando con essa una relazione assolutamente originale.

In effetti, l’analisi e la comprensione delle differenti forme rivestite dal­l’esperienza mistica, mostra che, con i nomi più diversi (Dio, Brahman, Tao e persino con il silenzio su questa realtà come supremo mezzo espressivo), le differenti religioni rimandano in tutti i loro elementi ad una realtà che presen­ta questi tratti attribuiti al mistero santo. Ad una tale realtà rimandano le dif­ferenti forme di esperienza mistica che sono al centro di tutti questi sistemi religiosi. La sua condizione di Presenza originante, non data né aggiunta al soggetto già esistente, ma dante in quanto origine permanente del suo essere, spiega i tratti caratteristici desunti da un primo approccio fenomenologico all’esperienza. La sua condizione di assolutamente trascendente spiega come la sua presenza si mantenga sempre misteriosa, elusiva, come non possa mai giungere ad essere oggetto di nessuna facoltà um ana e come appaia sempre sotto la forma di una certa assenza. Spiega ugualmente la condizione eminen­temente passiva deiresperienza attraverso la quale l’uomo entra in contatto con la suddetta realtà; spiega ancora il suo carattere di esperienza non obiet­tiva, e, più in generale, la sua totale originalità rispetto a tutte le altre espe­rienze umane.

La religione, ogni religione, che si presenta come un sistema organizzato di credenze, riti, pratiche, tradizioni, ecc., al servizio dell’esperienza espressa da tutti questi elementi, ha il suo centro in questa Presenza. Senza di essa l’uo­mo non potrebbe né conoscere, né desiderare, né immaginare, né sentire la mancanza di una realtà che per definizione lo trascende assolutamente. Di qui, tutta la religione e l’esperienza di Dio, in quanto parte della stessa, ripo­sano su questo fatto originario che è la Presenza originante del mistero.

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Eco dell’originalità dell’esperienza religiosa derivata dalla radicale novità della realtà che la origina è la comprensione e la realizzazione della condizio­ne umana, l’antropologia, vissuta prima che pensata, espressa dalle testimo­nianze dei mistici. Per loro, l’essere umano, al di sotto dei sensi corporali, dei sensi interni e delle facoltà che giustificano il suo speciale posto nel cosmo e nell’ordine degli esseri viventi, è un essere che nel suo essere più profondo, quello per il quale accede alla sua condizione di spirito, consiste in una spro­porzione interiore, una «sintesi attiva di finitezza e di infinitezza»,45 un exces- sus che lo costringe ad andare più in là di se stesso, giungendo ad essere quel­lo che si sente chiamato ad essere. Quest'ultima dimensione e possibilità del­l’umano è l’impronta nella sua natura della Presenza originante che lo abita e lo polarizza.46

Impossibile per l’uom o convertire in oggetto diretto di conoscenza e mol­to meno di dimostrazione o di prova la Presenza che, in quanto gli consente permanentem ente di essere, non può essere oggetto diretto di alcun suo atto. Ma una fenomenologia adeguata dell’esistenza umana, come quella contenu­ta da molti testi di mistici, la mostra piena di indizi di questa Presenza, fino a convertirla essa stessa in indizio, impronta e immagine di questa Presenza. Tali indizi appaiono già a livello del suo essere nel mondo, mostrandolo senza pro­fondità, decentrato e incapace di attenersi alla realtà mondana verso cui l’orientano i suoi sensi, tendenze e istinti.47 Appaiono in forma più chiara a livello della conoscenza, aperto, nella sua finitezza, alla realtà senza limiti del­l’essere e capace di vedere gli oggetti con cui si confronta inscritti nell’orizzon­te infinito dell’essere e immersi nella sua luce.48 Anche l’ordine dei desideri umani mostra l’esistenza di tali indizi, giacché il desiderio umano, sinus animi, cuore del cuore come lo chiama sant’Agostino, appare, sotto i molteplici desi­deri immediati che lo pongono in contatto con gli oggetti mondani, come un desiderio radicale, che l’uom o non ha più, ma con il quale si identifica, e che lo apre al Bene senza limiti. È quello che san Giovanni della Croce chiama «ciò che desidera il tuo cuore», in opposizione a «i molti desideri»; ciò che in pre­cedenza Niccolò Cusano aveva identificato come «desiderio intellettuale», che ha molto di nostalgia-anelo; e ciò che i medievali identificavano come deside-

45 S. Kierkegaard, La enfermedad mortai, Guadarrama, Madrid 1969, p. 47.46 Un’esposizione più dettagliata dell’antropologia mistica in El fenomeno mistico, cit., pp. 260-270.47 W Pannenberg, Antropologia en perspectiva teològica. Implicaciones religiosas de la teoria antropològica, Sigueme,

Salamanca 1993.48 Cfr. K. Rahner, Oyente de la Palabra. Fundamentos de filosofia de la religiòn, Herder, Barcelona 1969.

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riunì naturale, più che di vedere Dio, di Dio stesso. Della stessa Presenza origi­nante testimonia la libertà umana che, al di là delle sue capacità di scelta e dominio di sé, realizza, come vide M. de Unamuno, «la sua aspirazione alla grazia», giacché «è libero solo chi può ricevere la divina grazia e salvarsi per mezzo di essa».49

Qui, al termine dell’esperienza mistica, nella realtà che più che essere suo oggetto la origina, sta la chiave della comprensione del fenomeno mistico nel suo complesso. La sua condizione completamente altra spiega le peculiarità del fenomeno mistico e di tutti gli elementi della sua struttura. Tutto questo, in effetti, appare dipendente e polarizzato da una Presenza identificata giusta­mente col non essere percettibile come il resto delle realtà; inconfondibile giu­stamente nella misura in cui si rende presente nella forma interamente origi­nale dell’impronta di un’assenza.50 Così, la struttura del fenomeno mistico, che comincia a mostrarsi nei dati visibili di un linguaggio interamente peculiare e rimanda ad un’esperienza incomparabile con il resto delle esperienze umane, dipende in ultima istanza da una realtà che, per essere suprema in tutti gli ordi­ni, assolutamente trascendente, può apparire solamente in un vuoto, una carenza, un’assenza alla quale tutti gli altri elementi rimandano senza mai col­marla. Il fenomeno mistico, gli scritti in cui si è cristallizzato, le tradizioni in cui ha preso corpo, rimandano così, come all’unica ragione possibile della sua esistenza, ad un «assente della storia», ad «una presenza ritirata nel silenzio», ad un Dio che «non è mai così presente come quando è lontano», che «mai si rende meglio presente di quando si fa assente» e al quale il soggetto giunge solo mediante il più completo apofatismo del sapere e del sentimento.51

La natura di questo primo elemento della struttura del fenomeno misti­co, nucleo e radice di tutti gli altri, determina la natura della risposta del sog­getto alla sua originale forma di presenza. I dati esterni al fenomeno ci hanno condotti all’esperienza come suo elemento centrale. Ma il contenuto di que­sta esperienza, la realtà radice e termine della stessa, manifesta che le proprie­tà esterne che la distinguono sorgono da un atteggiamento umano assoluta- mente originale e di cui l’esperienza è solo un’eco.

49 Diario intimo, Alianza, Madrid 1970, p. 13.50 Su questo aspetto del fenomeno mistico ha insistito nel corso di tutta la sua opera M. de Certeau. Cfr. L’ab-

sent de Vhistoire, Marne, Paris 1973.51 Espressioni prese da H. Bremond, citate nel capitolo: La “métaphysique des saints”; d’Henry Bremond, dall’ope­

ra citata nella nota precedente, pp. 73-107.

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Atteggiamento teologale ed esperienza mistica

La Presenza originante del mistero, proprio per essere presenza nel senso forte attribuito alla parola, pone l’uom o davanti ad una triplice opzione fon­damentale: quella dell’ignoranza cosciente o incosciente di chi non si dà per interpellato da essa, come succede nell’indifferenza religiosa; quella del ricu­sare il consenso che lo reclama, sotto le due forme di «disperatamente voler essere se stesso» nella presunzione e nell’orgoglio, o «disperatamente non volere essere se stesso» come succede nella disperazione, che costituiscono le due principali forme di incredulità;52 e quella di acconsentire a questa Presen­za nell’atteggiamento religioso fondamentale, con cui il soggetto risponde ad essa in tutte le religioni. Tale atteggiamento riceve nomi differenti nelle distin­te tradizioni religiose: devotio, nel senso radicale di donazione di se stessi, bhak- ti, realizzazione dell’identità con Brahman, Wu-wei, non-azione come mezzo di perfetta conformità con il Tao, nirvana o estinzione di ogni desiderio, atteg­giamento teologale di fede-speranza-carità; islam o sottomissione incondizio­nata alla volontà di Allah, ecc. I nomi, come si può vedere, sono molto diffe­renti e corrispondono al complesso del sistema religioso nel quale questo atteggiamento si inscrive. Ma la sua esistenza e la natura, comune nei suoi tratti essenziali, dell’atteggiamento designato da essi, vengono esigiti dalla natura assolutamente originale della realtà a cui si riferisce.

L’assoluta trascendenza del mistero richiede come risposta da parte del soggetto un atteggiamento di totale trascendimento. Tutte le realtà mondane sono per l’uom o oggetto delle sue distinte facoltà e azioni, che girano intor­no a lui come loro centro, e che egli spiega, desidera, pone e domina in vista della propria realizzazione. La realtà assolutamente trascendente non si presta ad una relazione di questo stile. Per entrare in relazione con essa l’uom o deve scendere dal suo piedistallo di soggetto, abbandonare la sua pretesa di essere la misura della realtà e letteralmente decentrarsi lasciando alla realtà suprema di essere il centro della relazione in tutti gli ordini. La risposta religiosa, l’at­teggiamento teologale nel cristianesimo, hanno un qualcosa di «espropriazio­ne di se stesso»,53 di rimozione dalla condizione di soggetto attivo e centro del­la realtà, come condizione perché si produca l’incontro con questa realtà, la quale, essendo trascendente, non può essere oggetto di alcun atto umano e

52 S. Kierkegaard, La enfermedad mortai ode la desesperación y el pecado, Guadarrama, Madrid 1969, pp. 103ss.53 Saggio di fenomenologia dell’atteggiamento teologale nel nostro studio: La experiencia cristiana de Dios, Trot­

ta, Madrid 42001, pp. 37-45.

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con la quale l’uom o può solo intavolare una relazione effettiva, nella misura in cui la riconosce e la accetta come centro della stessa. In tale atteggiamento si produce, quindi, una vera inversione di intenzionalità. Come dice un teolo­go contemporaneo: «In verità, qui io non sono soggetto; sono oggetto. Altro è il soggetto. Altro agisce fondamentalmente. L’esperienza religiosa - noi diremmo l’atteggiamento teologale - richiede che io sia oggetto da parte di Dio; qui io non sono più coscienza intenzionale ma coscienza convocata».54 L’atteggiamento religioso fondamentale, l’atteggiamento teologale nel cristia­nesimo, può essere vissuto e descritto come obbedienza, conformità, dono di sé. Nei casi in cui la Presenza che lo reclama è vissuta in termini chiaramente personali, questo dono di sé si presenta come confidenza assoluta con la qua­le l’uomo, nello stesso tempo in cui trascende totalmente se stesso, incontra la sua ultima e somma possibilità di realizzazione, la sua salvezza definitiva.

La descrizione di questo livello profondo della risposta umana alla Presen­za del mistero, ci mostra che l’esperienza del soggetto, persino quella che abbiamo qualificata come esperienza mistica, non costituisce la forma origi­naria della sua risposta. Questa ha le sue radici nell’atteggiamento religioso fondamentale, vale a dire, nell’atteggiamento teologale, nel vocabolario cri­stiano e nei suoi omologhi in altre tradizioni religiose. Per questo, parlando in termini cristiani applicabili anche ad altre tradizioni, l’esperienza religiosa, persino nella sua modalità mistica, non avviene al margine della fede né è un’alternativa ad essa. Non vi sono due forme di esercizio dell’essere cristia­no: quella di coloro che vedono o hanno visto, e quella di coloro che, perché non gli è stato concesso di vedere, rimangono condannati al solo credere, come a volte ha lasciato pensare una lettura inadeguata della Scrittura e, par­ticolarmente, del testo del Vangelo di Giovanni: «Perché mi hai visto, Tomma­so, hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno».55 In real­tà, nessuno, se ci poniamo in ascolto della Scrittura, ha visto: «Dio, nessuno lo ha mai visto»,56 perché «l’uom o non può vedere Dio e continuare a vivere».57 Come san Giovanni della Croce osserva a proposito dei testimoni della risur­rezione: Maria Maddalena, i discepoli e i discepoli di Emmaus non videro il Signore e per questo credettero, ma credettero e per questo lo videro.58 Vale

54 J. Y. Lacoste, Expérience, événement, connaissance de Dieu, in «Nouvelle Revue Théologique», 106 (1984), pp. 854-855.

55 Gv 20, 29.56 Gv 1, 18.57 Es 33, 20.58 Cfr. 3S31, 8.

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a dire che l’unica risposta adeguata alla Presenza originante del mistero è la fede, e nessuna esperienza, alta che sia, è possibile al margine di essa né in alternativa a quella dell’atteggiamento teologale.

Conviene, tuttavia, aggiungere con la stessa insistenza, se non si vuole snaturare la natura della fede, che l’atteggiamento teologale, la fede, contiene un’esperienza ed è chiamato a svilupparsi in essa. In questo, l’analisi fenome­nologica porta alle stesse migliori conclusioni della teologia, le quali supera­no la tendenza a contrapporre fede ed esperienza, riducendo la fede ad una forma debole di conoscenza e l’esperienza a fenomeno psicologico più o meno esoterico.59 In effetti, l’accettazione della Presenza originante riguarda l’essere proprio della persona; avere assoluta fiducia non è un atto aggiunto all’essere già realizzato, è la forma più realizzata dell’esistere, di esercizio effettivo del­l’esistenza, che si ripercuote e si esprime nella volontà dell’uomo, nella sua ragione, e trasforma tutto l’esercizio della vita. A questo fanno riferimento le tradizioni religiose quando parlano della conversione del cuore come del pri­m o passo verso la risposta religiosa, che suppone una nuova nascita. Il nuovo essere, sorto di lì, vive in forma nuova. La ragione credente, più che spiegare la realtà, si lascia illuminare dalla sua luce; la volontà che risponde alla chia­mata e all’impulso della Presenza, più che dominare, riconosce e acconsente, con un riconoscimento che costituisce il culmine della libertà umana.

Quindi, l’esperienza mistica non è altro che una forma peculiare di espe­rienza della fede, nel doppio significato di esercizio dell’esperienza, che è la fede (genitivo soggettivo), e presa di coscienza della propria condizione cre­dente e di Dio come radice della stessa (genitivo oggettivo). Questa forma peculiare di esperienza sorge laddove una persona prende coscienza dell’origi­nalità dell’atteggiamento credente e l’assume in forma personale. Per questo la soglia del mistico consiste nella personalizzazione della fede. Per questo si può dire che dove questa personalizzazione si è prodotta si è fatto il primo pas­so nell’esperienza mistica e che, tra chi ha fatto questo passo e il mistico più elevato, c’è meno distanza che tra lui e chi vive la religione come mera cre­denza e affermazione di verità, o sotto forma di semplice appartenenza ad un’istituzione ecclesiastica, o come mera pratica di alcuni doveri ed alcune devozioni.

Sulla base di questi presupposti, l’esperienza mistica appare come un modo peculiare di vivere concretamente l’atteggiamento teologale. Per modo

59 Cfr. A. M. Haas, Struktur der mystischen Erfahrung, in Sermo mysticus, Studien zu Theologie und Sprache der deut- schen Mystik, Universitàtsverlag, Freiburg 21989, pp. 272ss.

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di vivere concretamente intendo l'incarnazione di questo atteggiamento radicale nelle differenti facoltà della persona, l'impegno, per l'esercizio di questo atteg­giamento, dell'uso di tutte le sue facoltà. Tale modo di vivere concretamente può realizzarsi in forma predominante in un determinato esercizio delle facol­tà conoscitive. In questi casi dà luogo ad una presa di coscienza particolarmen­te luminosa che genera stati di intensa certezza. Anche se non si deve perde­re di vista il fatto che la condizione trascendente del termine dell'esperienza fa sì che questa non manchi mai di essere oscura, nonostante la certezza («La sorgente ben so che emana e scorre / anche se è notte»), giacché l'esperienza non può mai convertirsi in visione, perché non può mai eliminare da essa l'ele­m ento dell'oscurità, la notte che ne è il criterio e la prova dell'autenticità. Il modo di vivere interessa anche la dimensione affettiva della persona e può pri­vilegiarla fino a convertirla nel suo aspetto predominante. L'esperienza misti­ca acquisisce allora questo aspetto di esperienza fruitiva che accompagna in determinati mom enti quasi tutti i mistici e si converte in uno dei tratti distin­tivi della loro esperienza. Il modo di vivere può ricorrere, ricorre in quasi tu t­ti i mistici e in alcuni in forma predominante, nella dimensione della volontà, manifestandosi sotto la forma di un intenso amore di Dio. Questo può essere vissuto in termini marcatamente emotivi, ma quasi sempre tende ad intender­si in radice come la conformità della propria volontà con l'ispirazione e l'at­trazione della presenza divina. Il modo di vivere concretamente consiste in questi casi in un esercizio eminente della carità. In tutti i casi si tratta di un'esperienza in cui Dio, più che essere oggetto del desiderio umano, è l'ori­gine dell'amore a cui il mistico acconsente amando i fratelli.60

Possibili tipologie delle esperienze mistiche

Le esperienze mistiche rivestono di fatto innumerevoli forme, classificabi­li a partire da differenti criteri, come la natura delle stesse secondo il sistema religioso in cui si producono, il predominio dell'una o dell'altra facoltà, il mag­giore o minore grado di sviluppo, ecc. È frequente che proprio i mistici e gli studiosi delle loro testimonianze privilegino alcune di queste forme come il prototipo, come il princeps analogatum di tutte le altre. La lettura dei racconti biblici dei grandi testimoni dell’esperienza di Dio e quella dei mistici cristiani,

60 Sulle proprietà caratteristiche dell'esperienza mistica cfr. Elfenómeno mistico, dt., pp. 319-356. Altre caratte­rizzazioni in J. Sudbrack, Mystik. Sinnsuche und die Eifahrung des Absoluten, Primus Verlag, Darmstadt 2002.

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da essi molto influenzati, ha portato ad elevare a questa categoria T esperien­za di Dio sotto la forma del sentimento molto intenso della sua presenza.61 È frequente che, a proposito di tali esperienze, i soggetti esprimano quanto han­no vissuto in esse in termini di contatto sensoriale con il divino, ricorrendo alle immagini della visione, del gusto o del contatto con la realtà divina. Di fatto, i testi di molti mistici hanno sviluppato tutta una letteratura relativa ai sensi spirituali che, letta senza le debite cautele, possono portare alla conclu­sione che i mistici si sono trovati faccia a faccia con Dio, come se Dio si pre­stasse ad essere oggetto delle loro facoltà o dei loro sensi. Un’analisi più atten­ta di quello che i mistici raccontano, riguardo a quanto considerano il centro e il culmine delle loro esperienze (contemplazione, unione, stato teopatico), perm ette di concludere che tali descrizioni non sono altro che l’espressione delle intense ripercussioni sulla loro coscienza, sulla loro affettività e sulla loro emotività della loro adesione mediante la fede, speranza e carità ad una Pre­senza che mai smette di essere trascendente e che mai smette di farsi presen­te sotto la forma di una certa assenza.62

Tutti questi dati perm ettono di concludere che, probabilmente, la forma prototipica di esperienza mistica, il princeps analogatum di tutte le sue realizza­zioni, è ciò che alcuni teologi, filosofi della religione e studiosi della spiritua­lità chiamano l’esperienza di Dio in mezzo alla vita e che K. Rahner ha chia­mato la «mistica della quotidianità».63 A questa conclusione orientano anche non poche testimonianze dei mistici. In relazione ai primi, la maggior parte di essi parte dalla condizione assolutamente trascendente del termine dell’espe- rienza e della conseguente impossibilità che esista un’esperienza di Dio che lo faccia oggetto di qualche atto umano. Così si esprime con tutta chiarezza X. Zubiri, in un’opera im portante della filosofìa della religione:

L’esperienza di Dio non è l’esperienza di un oggetto chiamato Dio». «Dio non è termine oggettuale per l’uomo.

Quello che succede è che l’uomo ha un fondamento e che Dio è la realitasjun-. damentalis, per cui l’esperienza di Dio da parte dell’uomo consiste nel fare espe­rienza di restare fondamentalmente fondato nella realtà di Dio».

61 Studio sistematico di questo tipo di esperienza inj. Maréchal, op. cit., voli. I, pp. 65-122.62 Sulla questione, con speciale riferimento alla dottrina sui sensi spirituali, cfr. El fenòmeno mistico, cit.,

pp. 377-386.63 Declan Marmion, A Spirìtuality of Everyday Faith. A Theological Investigation o f thè Notion of Spirituality in Karl

Rahner, Peeters Press, Louvain 1998.

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Da questi principi conclude:

Certamente l’esperienza sussistente di Dio non è un’esperienza al margine della vita quotidiana: mangiare, piangere, avere figli... Non è un’esperienza al margi­ne di questo; ma è il modo di sperimentare in tutto questo la condizione divina nella quale l’uomo consiste.

Non si tratta di occuparci delle cose e, in seguito, di Dio, come se Dio fosse una realtà aggiunta a quella delle cose: no, l’uomo si occupa di Dio occupandosi del­le cose e delle altre persone.

In questo mondo l’uomo ha da vedersela con tutto, perfino con le cose più tri­viali. Ma ha da vedersela con tutto divinamente. Proprio qui sta l’esperienza di Dio.64

L’uomo, potrem m o riassumere a parole nostre, conosce per esperienza Dio, non conoscendolo, ma conoscendo tutto, facendo l’esperienza di tutto alla luce e al calore di Dio.

A partire da presupposti filosofici, consistenti almeno nella concezione di Dio come assoluta trascendenza nell’inimanenza, che impedisce di fare di lui l’oggetto di qualsiasi atto umano, K. Rahner ha sviluppato una concezione del­la mistica cristiana accessibile ad ogni credente e dalla quale l’esperienza dei cosiddetti grandi mistici si distingue soprattutto per la speciale modulazione psicologica che riveste.65 Riducendo ad alcune poche affermazioni le sue rifles­sioni piene di interesse e di ricchezza, la teologia di Rahner si contraddistin­gue per la sua costante attenzione alla spiritualità; considera l’esperienza di Dio come centro della spiritualità; incentra la mistica nell’esperienza di Dio all’interno della fede; insiste costantemente nella vita reale, quotidiana, di ogni persona, vissuta ad un determinato livello di profondità, come il luogo e il mez­zo per eccellenza della realizzazione della stessa. A questa esperienza egli dà il nome di mistica della quotidianità. Una delle preoccupazioni della sua teolo­gia è di rendere comprensibile ad ogni credente che esiste un’esperienza dello stare riferito al mistero nel più semplice esercizio della vita teologale che può penetrare il complesso della vita di ogni giorno, un’esperienza di Dio che «emerge dal cuore della nostra esistenza» e che conduce all’ignaziano «scopri­re Dio in tutte le cose». I suoi scritti sono pieni di elenchi delle numerose espe­rienze concrete, tutte esperienze umane, nelle quali il soggetto esercita que­

64 X. Zubiri, El hombre y Dios, Alianza, Madrid 1984, pp. 326-328.65 Declan Marmion, op. cit., p. 65.

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ste innumerevoli modalità del trascendimento di sé e dell'accettazione di se stesso, in cui consiste la sostanza dell'atteggiamento teologale. In tutte queste si manifesta una «esperienza mistica secolare che consiste nella coraggiosa e totale accettazione della vita e di se stesso, persino quando paiono venir meno le ragioni tangibili per una tale fiducia». Ma, più che l’elenco di tali esperien­ze, interessa porre in evidenza come la struttura dell’esperienza di Dio, rivela­ta da tutte queste esperienze umane, offra piste insospettate al fine di com­prendere tutte le altre forme possibili di esperienza di Dio e scoprire che ciò che è essenziale in esse è alla portata di tutti i credenti, potendo essere realiz­zato da questi nel mezzo delle esperienze della vita più ordinaria.66

Alla stessa conclusione conduce, per strano che a prima vista possa appa­rire, l’analisi attenta dei testi mistici. Questi coincidono nel proporre, con dif­ferenti termini (contemplazione, unione, stato teopatico, ecc.), l’essenziale e il punto culminante dell’esperienza alla quale tutti si riferiscono. In particolare, la descrizione di questi stati da parte dei mistici mostra che quanto in essi suc­cede è che giunge al suo termine questa invasione della vita dèlia persona, questa penetrazione di tutte le facoltà e dimensioni della persona che inizia l’esperienza della fede, il modo di vivere l'assenso alla Presenza nel quale con­siste l'esperienza mistica. Molto in breve, potrem m o dire che le più varie for­me di questi ultimi stati, offerte dalle differenti forme di esperienza mistica, coincidono nel rimandare ad una situazione in cui, rettificato l'indirizzo e la direzione dello sforzo nel senso dell'impulso che il riconoscimento della pre­senza di Dio imprime nella persona, tutto sta già al suo posto, scorre in con­sonanza col suo essere più profondo e perm ette al soggetto di vivere «con immensa tranquillità» (san Giovanni della Croce), nel più completo distacco, la più efficace dedizione e la più completa pace e serenità.

E a qualcosa del genere tende la parabola buddista del bovaro in cerca del bue che, dopo aver mostrato in nove quadri le tappe del risveglio (cercare il bue, seguire le orme, trovare il bue, legarlo, domarlo, tornare a casa m ontan­dolo, dimenticarlo e dimenticare se stesso e tornare all’origine), al decimo quadro presenta il protagonista «mentre se ne torna al mercato con le mani disposte ad aiutare».67

66 Saggio di descrizione di questa struttura in J. Martin Velasco, La experiencia de Dios, hoy, in «Manresa. Revi­sta de espiritualidad ignadana», 75 (2003), pp. 3-25; spec., pp. 22-25.

67 Contenuto della parabola e interpretazione in Ana Ma Schliitter, Las religiones orientales: Zenbudismo y paz, in Centro Pignatelli (ed.), La paz es una cultura, Departamento de Cultura y Turismo, Zaragoza 2001, pp. 240-242. In quanto alla tradizione cristiana, basta rimandare alla comprensione da parte dei mistia della relazione tra azione e contemplazione, espressa nella loro interpretazione del testo evangelico di Marta e Maria. Cfr., per esempio, santa Teresa 7M 4, 14-15, e P 7, 3.

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Conclusioni

Il risultato dello studio comparativo del fenomeno mistico che abbiamo proposto è stato la proposta di una struttura dello stesso che ci ha permesso di enumerare i principali elementi che appaiono in tutte le sue forme, la relazio­ne che mantengono tra loro e il posto che ciascuno di essi occupa nell’insie­me. La struttura proposta dal nostro studio ci perm ette di delineare il profilo del mistico nelle diverse religioni, colorato dai contenuti precisi che ciascuna delle religioni conferisce ai diversi elementi: Presenza del mistero, atteggia­mento teologale, modi di vivere. Il mistico religioso sarebbe, secondo la descri­zione che abbiamo ottenuto, una persona che, nata alTinterno di una tradizio­ne religiosa, dopo aver vissuto in questa la sua relazione con il Dio di questa tradizione sotto la forma dell’appartenenza all’istituzione che la regola, il com­pimento di alcune pratiche religiose e l’accettazione di alcune credenze - o, in altri casi, dopo essere cresciuto al margine di tutta la relazione con il mondo del religioso - arriva a prendere personalmente coscienza della sua Presenza, la riconosce e la accetta in un’opzione personale e radicale senza paragoni, incarnando questo riconoscimento nell’esercizio della sua ragione, della sua volontà e libertà, vivendo a partire da questo mom ento tutta la sua vita alla luce di questa Presenza.

Naturalmente, tale forma di esistenza può rivestire forme e gradi molto diversi; ma, d’accordo con il profilo che proponiamo, la vita mistica comincia quando un soggetto personalizza il m om ento centrale della vita religiosa che chiamiamo atteggiamento religioso fondamentale o atteggiamento teologale e l’incarna nell’esercizio delle sue facoltà e nello scorrere della sua vita.

La descrizione della struttura che ho proposto non entra nel merito del valore della sua realizzazione nelle diverse religioni. È realizzata a partire dal­le testimonianze che i differenti soggetti religiosi offrono di quello che vivono e senza interrogarsi sulla realtà effettiva, sul valore di verità di ciò che afferma­no, né sull’interpretazione teologica che di questa verità si possa offrire. Sen­za uscire da questa limitazione imposta dal metodo fenomenologico, lo stu­dioso può riconoscere nei testi delle differenti tradizioni, nella loro qualità, nelle loro somiglianze e, soprattutto, nella loro convergenza un chiaro indizio a favore della pretesa di verità che testimoniano.

La descrizione che ho proposto non entra nel merito dei problemi teolo­gici posti dalla convergenza dei testi. Anche se riconosco che, probabilmen­te, la teologia cattolica posteriore al Vaticano II e la teologia cristiana in cen e­rale sono le migliori condizioni per assumere il fatto e spiegarlo, rispetto a

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quanto potevano fare le teologie dei primi decenni del XX secolo. D’altra par­te, sono anche convinto che alcuni degli apporti delle scienze della religione e, in concreto, della fenomenologia della mistica che ho riassunto possono aiutare a rendere manifesta la debolezza di determinate teologie, come quel­le di orientamento esclusivista68 e alcune che si muovono nel paradigma inclusivista.

Ma al di là delle cautele marcatamente negative che ho appena detto, ter­minerò alludendo ad alcuni risultati positivi degli studi sulla religione e la mistica in cui si inquadra quanto ho offerto in queste pagine.

Le loro conclusioni mi sembrano confermare la validità delle affermazio­ni dei teologi e uomini di spirito che negli ultimi anni confermano che lo svi­luppo dell’elemento mistico del cristianesimo risulta imprescindibile per il suo futuro, nelle circostanze critiche che sta attraversando soprattutto nei paesi europei.69 Il superamento di numerosi fraintendimenti che nel corso dei seco­li hanno caratterizzato le idee ricevute sul fatto mistico, superamento a cui può collaborare la fenomenologia della mistica, può offrire due servizi di note­vole importanza. Il primo è la collaborazione all’estensione e all’approfondi­mento dell’ineludibile dialogo tra le religioni. Non è diffìcile constatare le dif­ficoltà che il dialogo religioso incontra sul terreno delle istituzioni e delle teo­logie, incapaci fino ad ora di mantenere e giustificare la propria identità reli­giosa senza che questa affermazione comporti in misura maggiore o minore un certo disprezzo nei confronti della identità dei diversi.

D’altra parte, i sociologi e l’esperienza di ogni giorno m ettono in rilievo i due ostacoli posti ai credenti dalla situazione del pluralismo religioso: il dog­matismo fanatico e l’indifferentismo. Difatti, il dialogo interreligioso sviluppa­to sul terreno della spiritualità e dell’esperienza del mistero che pone in rilie­vo lo studio comparato della mistica e che da decenni vengono realizzando monaci, uomini di spirito e contemplativi di tradizioni differenti, sta manife­stando alcune opportunità, insospettate ad altri livelli, per eliminare questi pericoli. Il dogmatismo: perché il mistico, a partire dalla scoperta personale dell’ Unum necessarium è nelle migliori condizioni per relativizzare le mediazio­ni razionali, cultuali ed istituzionali di tutte le religioni, senza che questo lo

68 Una delle teologie della mistica degli anni trenta del secolo passato affermava senza mezzi termini: «Fuori della Chiesa non c’è salvezza»; in questo senso e allo stesso modo, fuori di essa non c’è «mistica». A. Stolz, Theologie derMystik (1936). Trad. francese, Théologie de la mystique, Chevetogne, 21947, p. 69.

69 K. Rahner, Elemente der Spiritualitàt in der Kirche der Zukunft, in Schriften zur Theologie, voi. 14, Benziger, Ein- siedeln 1980, p. 375. J. Sudbrack, Der Christ von Morgen, ein Mystikerf, in W. Wòme, J. Sudbrack, (Hrsg.), Der Christ von Morgen ein Mystiker, Echter Verlag, Wiirzburg 1989, pp. 99-136.

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conduca a negare la loro necessità e validità. L’indifferenza: perché nessuno è nelle migliori condizioni per superarla di colui che ha scoperto il valore del­l’adesione al mistero, in quanto «ha scoperto e gustato quanto è buono il Signore». È di qui, dalla migliore conoscenza dell’elemento mistico procurata dal suo studio in contatto con le differenti tradizioni religiose, che ci si aspet­tano impulsi ed orientamenti per il dialogo interreligioso, indispensabile in situazione di globalizzazione e pluralismo.70

Lo studio del fenomeno mistico per le scienze delle religioni può offrire un ultimo e importante servizio all’umanità dei nostri giorni. Pregiudizi inve­terati e molto radicati nella coscienza dell’uom o moderno hanno portato a considerare la religione come un ostacolo alla realizzazione dell’uomo. False interpretazioni e, probabilmente, false realizzazioni del fatto mistico da parte di non poche tradizioni religiose hanno potuto offrire appoggio a tali pregiu­dizi. La mistica, si è detto frequentemente, per l’allusione agli occhi chiusi che l’uom o ha in sé, condannerebbe l’uom o all’irrazionalità. Coltivarla, per la separazione dal mondo che le si attribuisce, genererebbe disinteresse per i compiti umani, per la necessaria trasformazione della società e la collabora­zione nel progresso dell’umanità; la necessità, sentita da molte scuole misti­che, di dominare il corporeo, i sensi, le tendenze e gli istinti dell’uomo, con­dannerebbe i mistici alla repressione del desiderio innato di felicità.

Tuttavia, lo studio del fenomeno mistico mostra l’esistenza dei fatti su cui si basano tali pregiudizi e sospetti, li smaschera come perversioni derivate dal­l’influsso di determinate circostanze storiche e di ideologie assimilate alle reli­gioni, e, soprattutto, mostra in modo positivo la corrispondenza esistente tra l’esperienza mistica e la condizione umana, a partire dalla quale si scopre sen­za difficoltà il grande contributo che l’elemento mistico può apportare alla più piena realizzazione della persona. Ricordiamo, ad esempio, l’allargamento e l’approfondimento della ragione che dimostrano i migliori mistici; la relazio­ne tra mistica ed etica e il riferimento all’amore di Dio, che sta al centro del­l’esperienza mistica, all’amore e al servizio dei fratelli come luogo della sua realizzazione e della verifica della sua autenticità; per ultimo, la trasformazio­ne della realtà, a cominciare dal suo livello cosmico, che opera la purificazio­ne dello sguardo, che consente al mistico di vederla alla luce di Dio, e che si manifesta in modo splendido in testi come il Cantico delle creature di san Fran­cesco di Assisi e nel Cantico spirituale di san Giovanni della Croce.

70 Sulla questione, J. Sudbrack, Mystik in Dialog. Christliche Tradition - Ostasiatische Tradition - Vergessene Tradi- tionen, Wùrzburg 1992; dello stesso autore, Mystik, cit., specialmente: Grundlage im Dialog der Religionen, pp. 103-144.

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La crisi della modernità e dei suoi progetti ha esteso la sensazione che il cammino e il futuro dell’umanità sono molto incerti. Le stesse religioni stabi­lite attraversano nei paesi occidentali una grave crisi, così da perdere credibili­tà nella loro funzione di conferimento di senso e di apporto di valori alla vita di molte persone e al complesso della società. In queste circostanze, è possibi­le che la scoperta di dimensioni nell’umanità, come quelle offerte dalle forme di mistica presenti nelle differenti religioni e persino in forme laiche di spiri­tualità, possano gettare non poca luce sui veri problemi dell’umanità e offrire mezzi per cercare una risposta partendo dal dialogo e dalla collaborazione che la cura di queste dimensioni può promuovere.

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Simbolismo e linguaggio nella mistica cristiana1

Gabriel Castro Martinez

Nel corso del tempo si è giunti a chiamare mistiche alcune esperienze cri­stiane. Tutte quelle che reputiamo tali hanno tra le loro caratteristiche quella di essere ineffabili. Tutti i testi cristiani che possono adattarsi alla definizione di mistici attribuiscono al loro oggetto questo carattere comune: l'ineffabilità. Fin dai primi tentativi di classificazione sistematica della mistica di W. James e di Miss E. Underhill, si osserva l’ineffabilità di questa modalità della vita reli­giosa. Alle quattro caratteristiche da loro studiate (ineffabile, poetica, transito­ria, passiva), J. Martin Velasco2 aggiunge il carattere olistico o totalizzante, la passività (divina pathi, stato teopatico), l’immediatezza sui generis (visione, tat­to, tocchi), la fruizione (gioia, gusto, piacere, diletto), la semplicità, la certez­za e l’oscurità. In tutte le liste di note definitorie dell’esperienza mistica incon­treremo questa dell’ineffàbilità; m a non è meno certa la condizione dinamoge­nica segnalata da quest’ultimo autore. L’esperienza mistica dinamizza le potenzialità personali. Inoltre, una delle forze mobilitate dall’esperienza misti­ca è la forza del dire, la forza espressiva. Al mistico pare che sia necessario par­lare pur di non tacere, o anche confessare, convincere o semplicemente can­tare. Il mistico non solo sente e sperimenta in sé, ma anche canta, prega, par­la, scrive, detta, produce comunicazioni di vari livelli.

Sembra che tutti i mistici si trovino nel posto più scomodo per parlare. Devono parlare, non possono tacere, ma confessano di non riuscire a dire nul­la. E conoscono, soffrono e trasm ettono la scomodità della loro posizione, cominciando già dai prologhi ad affermare: «Manca in genere il linguaggio», «Con difficoltà si può dire qualcosa intorno alla sostanza dello spirito, giacché chi non possiede spirito interiore, male può parlare di esso», «Sia ben inteso che tutto quanto dirò è tanto più piccolo di quanto vi è lì, come il dipinto lo è rispetto alla realtà».3 Così, ad esempio, si esprime san Giovanni della Croce.

1 Per le citazioni delle opere di santa Teresa e san Giovanni della Croce sono usate le seguenti abbrevazioni convenzionali nelle versioni italiane: santateresa di Gesù, M = Castello interiore o Mansioni; V = Vita, san Giovanni della Croce: CB = Cantico spirituale B; FB = Fiamma d’amor vive B; N = Notte oscura; S = Salita del Monte Carmelo [n.d.t.]

2 J. Martin Velasco, El fenòmeno mistico. Estudio comparado, Trotta, Madrid 1999, pp. 319-356, cap. 5°.3 San Giovanni della Croce, FB, prol. 1

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A dispetto di tutti questi dolori, ripugnanze e fallimenti presagiti, e nono­stante l'enorm e scomodità della loro posizione, i mistici si azzardano sempre a dire qualcosa. Si sono mossi per questa regione inesplorata che è la mistica e devono raccontarlo. E non è poco il loro dolore nel parlare quando, per carattere e per convinzione, a causa della sovrabbondanza dell’esperienza vis­suta, sembrerebbe loro più appropriato tacere e operare. «Il linguaggio proprio [delle cose divine che avvengono nell’anima] è quello di capirle per sé, sentir­le per sé, tenerle e goderle da chi le possiede» (FB 2, 21).

Per colmo, sanno che non crederanno loro, che si prenderanno gioco del loro racconto o che, quando non li chiamino fanatici o maniaci, li prenderan­no per esagerati e presuntuosi. Ad ogni passo li si sentirà dire, di fronte a que­sto sospetto: «Poiché le cose rare, delle quali quindi si ha poca esperienza, come quelle che stiamo dicendo dell’anima in questo stato, destano molta meraviglia e sono poco credibili, temo che alcuni, non intendendole per scien­za e non conoscendole per esperienza, non le crederanno o le crederanno esa­gerazioni o penseranno che non corrispondano alla realtà».4

Il linguaggio mistico

Il mezzo più elementare: l’interiezione

È ineffabile, ma se il corpo è il protosimbolo, sulla sua stessa pelle si scri­vono i segni-simboli primordiali dell’esperienza mistica: le lacrime, le stimma­te, le sensazioni, le sofferenze e gli svenimenti.

Ma una volta che l’esperienza mistica ha raggiunto lo statuto di parola e ha trovato il proprio discorso e il proprio modus loquendi, si avvale di mezzi ele­mentari per esprimersi e, per poter letteralmente «parlare per disperazione». La funzione espressiva o emotiva della lingua si fortifica a partire dai suoi testi.

Per il linguaggio della passione, i mezzi più elementari consistono nei raf­forzativi, nelle formule enfatiche (Eckhart), nelle iperboli e amplificazioni offerte in continuazione, nei balbettìi e in qualsiasi altra delle forme povere di espressione, in quanto infantili o emotive. Anche con le ripetizioni e con le ripetizioni a spirale di pensieri ed emozioni, essi cercano di farci percepire la stessa cosa, ma in modi diversi.

4 San Giovanni della Croce, FB, 1 , 15.

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Con le esclamazioni, le interrogazioni e le interiezioni e con tutte le modali­tà dell’espressione affettiva ed. emotiva, l’autore mistico cerca (e vi riesce) di coinvolgerci nelle sue estasi interiori, nei rapimenti di raccoglimento o impaz­ziti. La sua voce rimane percorsa dai desideri e dagli eccessi.

In queste espressioni di impellenza interiore, come sono i sospiri, i gemi­ti, le grida, i sussurri, le esclamazioni, le interiezioni e le esclamazioni enfati­che c’è qualcosa di preverbale che rimanda più al gesto che alla parola. Come se eseguisse un rito senza rubrica, con ciò l’io mistico cerca di farsi vedere e di farsi udire al disopra del mare del mistero in cui è immerso.

Le interiezioni sono, tra questi, il migliore espediente per farci conoscere qualcosa del gemito ineffabile dello Spirito. Sono il linguaggio nativo della mistica, perché rivelano senza pudore, né censure, gli stati psichici dell’auto­re. Sono tanto vicine al grido e al gemito che si potrebbero ritenere più un’espressione corporale che verbale.

Lo stesso mistico carmelitano dà loro poco valore, mentendosi molto freddo su di esse nel commentario della poesia Fiamma di amor viva: «I term i­ni oh e quanto intendono significare la stima e l’affetto [...], fanno capire che nel cuore vi è più di quanto si possa esprimere con la lingua. La oh! serve ad esprimere un gran desiderio e un’ardente preghiera diretti a persuadere, due ragioni per le quali è usata in questa strofa dall’anima».5 Sono gli espedienti più a portata di mano, per colui che è costretto a parlare per non tacere.

Le interrogazioni, da parte loro, producono l’effetto di spodestare l’autore mistico dal suo ruolo di potere nella scrittura. Il lettore passa allora in primo piano perché, per loro mezzo, egli viene implicato, coinvolto, alluso. Davanti ai suoi gridi, lamenti e invocazioni i lettori si sentono obbligati come davanti a testimoni o davanti a giudici. Condotti allo scoperto dalle domande, siamo spettatori dei suoi dibattiti che si risolvono tanto contro di noi che in nostro favore. Evidentemente sono vestigia delle forme di testimonianza orale che sempre precedono la scrittura mistica e che permangono nei testi come mez­zo utilizzato di frequente per comunicare e cercare di trasmettere al lettore l’entusiasmo del m om ento emotivo.

5 Ibid. 1, 2.

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La metafora

La prima impressione del lettore dei testi mistici è di stare entrando in un mondo estraneo. Le parole non hanno il senso atteso. Da qualsiasi universo culturale provenga, troverebbe che qualcosa riesce a capire e qualcosa no. Pre­sto si renderà conto che può arrivare a capire senza capire. È la gloria e la miseria della metafora nelle mani dei mistici. I mistici cristiani conoscono le figure metaforiche e ricevono dalla tradizione tropi che usano con profusione nella loro testimonianza. In questi solidificano tanto i fluidi della loro emoti­vità intensa, quanto le cariche energetiche delle loro convinzioni dogmatiche. Il loro mondo mentale ne è sovraffollato. Alcune - è stato detto che il linguag­gio ordinario è un cimitero di metafore - hanno finito col lessicalizzarsi in tale misura che ci appaiono già m orte per il mistico stesso e, a volte, paradossal­mente e per effetto del trascorrere del tempo, vive per il lettore moderno. Altre metafore, certamente, nelle loro mani sono arrivate ad essere meri con­cetti con tutto il rigore dei vocaboli tecnici, hanno perso il loro valore metafo­rico e pertanto il loro potere di scoperta e ridefìnizione del mondo. Il simbo­lo non le abita più.

Il potere e la gloria della metafora mistica consistono non solo nel mostra­re le somiglianze inedite che, tuttavia, stavano lì, ma anche, per la stessa attri­buzione di insolite qualità al divino, nello scoprire mondi nuovi ed elevare il lettore ad un altro livello di comprensione. Prima di ogni valore di ornamen­to del testo, la metafora mistica svolge funzioni euristiche, scopre nuove real­tà, esplora nuove esperienze, nomina e si riferisce a cose che solo a volte sono veramente così come si presentano nella metafora.

La sua funzione nel testo mistico è, oltre che inevitabile, impagabile. L’esperienza mistica è talmente incontrollabile e irriducibile a racconti chiari e valutazioni esatte, che il lavoro dello scrittore si rende possibile solo grazie al potere della metafora e delle sue parenti, le onnipresenti figure: similitudi­ni, allegorie, immagini, visioni, parabole. Nelle opere che reputiamo mistiche, la metafora si realizza nei più diversi modi e gradi. Non vogliamo dire nulla qui ed ora delle sue classi; né vogliamo trattare qui della sua temperanza, ori­ginalità, del suo valore o trivialità letteraria senza anteporre analisi più consi­stenti.

La mistica ha attinto dalla Bibbia il suo patrimonio metaforico più abbon­dante, facendo nascere le sue metafore-chiave nei poemi più classici. Lì hanno patria e casa propria. Lì appaiono nuove, fresche e genuine. Ma la prosa misti­ca è un satellite della Scrittura e della poesia e, come loro, è fatta dello stesso

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materiale simbolico, anche se non ne possiede lo stesso fuoco e la stessa atm o­sfera. Nel tradurre in prosa, a causa del commentario e dei suoi registri, leggi e propositi propri, le metafore si asfissiano, con frequenza muoiono, si lessica- lizzano, assumendo un significato tecnico.6

La similitudine o comparazione

La comparazione è un espediente espressivo nato dall’immaginazione più che dalla passione; tende di per se stessa più alla didattica mistica che alla mistagogia. E lo specchio dove si riflettono le proprie idee. I mistici attribui­scono un grande valore didattico a questo mezzo. Anche se il valore della loro testimonianza non è radicato solo in esse, le similitudini denunciano le loro chiare doti di osservatori e contemplativi della natura. Le cose più piccole sono passate attraverso il loro sguardo con affetto, altre sono state sofferte con sopportazione; in questo si nota la loro risonanza interiore con la natura. I mistici sono anche buoni fratelli di tutte le cose. Dal mondo giungono loro all’anima e alla lingua senza sforzo. Quotidianamente le servono e con umil­tà francescana le accolgono nei loro libri. Gli autori gradiscono il loro aiuto, avvolgendole di una nube di gloria inattesa. Sono molto abili nel trarre com­parazioni da molto lontano e provocare con esse un piacere maggiore nel let­tore che ne rimane sorpreso, anche se alcune sono ereditate e stantie. Per i mistici la natura non è esaurita, chiusa o muta, ma ha sempre qualcosa di nuo­vo da offrire ai sensi, perché il mistero del Creatore possa manifestarsi con mezzi naturali. Basta che sorga un osservatore che si ponga a palpare le cose, soffermandovi lo sguardo, che tutto appare nuovo ed acquista valore religio­so. Questo ricorso alle comparazioni è proprio della prosa mistica. Sono sem-

5 Le metafore mistiche di san Giovanni della Croce, ad esempio, sono solite essere topiche della poetica seco­lare o tradizionale: «Quando giungono alla sua penna o, meglio, alla sua mente il loro significato simbolico era loro già tanto aderente, da costituire per lui una voce di un vocabolario spirituale di uso tanto naturale e spontaneo quan­to il linguaggio quotidiano» (Emilio Orozco). Altre volte si osserva che il ciclo di una metafora, con le sue virtuali­tà allegoriche, si compie e si chiude nel commento ad un solo verso. Le più fortunate hanno il loro seguito in tutte le sue opere maggiori e acquistano un successo tale da entrare per sempre nel vocabolario e nell’anima dei lettori di tutti i tempi e culture, compresi quelli che non ne condividono le convinzioni. Tra quelle metafore che hanno avu­to maggiore successo e che hanno un valore speciale nella lingua mistica, potremmo mettere in evidenza le seguen­ti: unione, unzione, cammino, smalti, vino-mosto, sete-fame, vuoto, nudità, sposalizio, sposo, caverne, splendori, tocco, uscire, fuoco, fiamma, splendori, notte. Sono termini che, nati come altri nel proprio ambito vitale e lettera­rio, da metafore sono divenuti universali e dotati di significato proprio, nuovo e comune, anche se non fìsso. Sono ormai patrimonio di tutti.

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pre chiare e di cose conosciute. Con esse, i mistici cercano solamente di chia­rire, spiegare e abbellire, cooperando, tuttavia, alla creazione di un atmosfera immaginativa e simbolica.

L’atmosfera allegorica che ricopre il simbolo

La proposta spirituale e teologica dei mistici rimane biblica in tutto, vie­tandosi per principio altra fonte che non sia l’esperienza. Come realizzare que­sto proposito di basare tutto sulla Scrittura, inclusa la propria esperienza? La tradizione cristiana lo ha fatto ricorrendo all’allegoria come metodo di inten­dere e di spiegarsi. Dell’allegoria i mistici si serviranno con libertà e gusto. La loro testimonianza mistica vi riposa e acconsente a lasciarsi trascinare da que­sto modo avventuroso di pensare ed insegnare. La tensione imposta loro dal­l’esperienza ineffabile e simbolica cede davanti alla tentazione di trasmetterla comodamente a lettori che, come loro, sono imbevuti da questa form a mentis simbolica.

Presa nel suo complesso, l’allegoria come sistema di vincoli indissolubili eppure fragili tra immagini ed idee ha nelle dottrine mistiche diversi gradi di consistenza e di aderenza all’esperienza originale. Siccome l’allegoria tende sempre alla monumentalità e al moralismo,7 ogni allegoria, considerata in se stessa, è un gioco estetico, un abito medievale e barocco di valore variabile. Le allegorie mistiche sono letterariamente sempre impure, mescolando ele­menti immaginari con elementi propriamente astratti. La maggioranza delle allegorie mistiche è di origine biblica. Si introducono con protocolli simili a quelli esegetici. La loro introduzione risulta a volte insolita, forzata, quando non assolutamente arbitraria. La nostra mente moderna rimane sconcertata, ma anche la sorpresa è un espediente che i mistici sanno impiegare per parla­re del loro strano mondo. Il loro modo allegorico è assolutamente arbitrario? Mi sembra di no. Le associazioni indeterminate e le leggi segrete valide nel regno dei simboli assumono qualsiasi maschera (allegoria, metafora o simili) riu­scendo ad organizzare surrettiziamente lo scorrere del testo mistico-didattico.

Alcuni mistici sono autoreferenziali nelle allegorie, poiché riempiono la loro prosa di temi allegorici nati nei loro propri poemi o preghiere, in cui han­no vissuto una vita di puro simbolo e tersa poesia. In questo senso, san Gio­

7 Cfr. Angus Fletcher, Alegoria. Teoria de un modo simbolico, Akal, Madrid 2002, pp. 346-350.

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vanni della Croce è un autore spirituale autoreferenziale perché, presentando il suo sistema, ricorre a quanto era già dato e compresso nei suoi poemi. Tan­to nel caso delle allegorie di origine biblica come in quelle di fattura propria, i mistici, per così dire, si lasciano guidare e attrarre dalla forza impersonale dei simboli archetipici, dell’umanità che giunge fino a questi mezzi espressivi più elaborati ed artificiali. Il testimone acconsente a camminare per queste strade, alcune obbligatorie, ma la sua originalità sta proprio nel servirsi di questa for­za del simbolo per i suoi fini mistagogici, ricreando alcuni simboli già presen­ti nelle profondità psicologiche dell’uomo.

Il paradosso e Vossimoro

Il linguaggio mistico è un modo di parlare che entra in contraddizione nel paradosso e nell’antitesi. Anche così potrem m o qualificare il linguaggio misti­co. Questa reiterata preferenza per la formulazione antitetica e paradossale indica, in questo modo di dire, la segreta intenzione di negare se stessi. Il para­dosso cristiano, nella sua versione mistica, si porta fino all’eccesso della con­traddizione. Un simultaneo affermare e negare ricorre airinterno del suo mes­saggio. I mistici mostrano l’indicibile nel letterariamente dicibile. La torsione e il fuorviamento del senso arriva in questo registro mistico fino all’inversio­ne. La sua lingua si fa luogo dell’impossibile. I mistici evitano la caduta nell’inef­fabilità rasentando l’imbecillità degli spropositi, procedendo al di fuori dei moduli della logica e accumulando contrari in un soggetto.

Formulazioni antitetiche, contrapposizioni concettuali, paradossi e ossi­mori sono figure rilevanti per l’indagine di testi mistici e, pertanto, per la descrizione del linguaggio tipico di questo registro. Tutti questi mezzi sfocia­no più nell’occultazione che nella rivelazione del senso, fanno avvertire la pre­senza del mistero al centro dei testi mistici. Il divino e il suo eccesso vengono semplicemente sfiorati, senza scoprirsi totalmente. Il mistero permane. Attra­verso queste figure del discorso, si lascia intravedere l’intima tensione che si crea nel mistico tra un’esperienza straboccante e un linguaggio insufficiente, nel suo tentativo di cogliere un mistero impossibile da chiarire.8

8 T. Polo Cabezas, op. cit., pp. 98-100.

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Linguaggio poetico

I mistici in tutte le culture ed epoche hanno creato un mucchio di espres­sioni, che hanno smantellato le frontiere della loro lingua. Quando il messag­gio si centra sulla propria elaborazione, diciamo che predomina in esso la fun­zione poetica (creativa) della lingua. Tutti i mistici, sotto la pressione della loro esperienza e nello sforzo di offrire il loro messaggio, hanno creato un vocabo­lario, figure, nuovi generi, hanno poetato. È proprio la loro pretesa di comu­nicare il loro vangelo che li porta a forzare la lingua e ad esplorare tutte le sue possibilità tecniche, a poetare - in versi o in prosa è lo stesso.

Del mistico possiamo dire che

soffre di uno straboccamento emotivo analogo a quello del poeta, anche se supe­riore per complessità ed elevatezza, straboccamento che per sua stessa intensità lo spinge ad un espressione esaltata dei suoi sentimenti, desidera comunicare quanto ha vissuto. In questo atteggiamento si identifica con il poeta vero. Esiste un consenso generalizzato tra i critici specializzati in letteratura mistica, nell’af­fermare che l’unico modo di esprimere l’ineffabile è dato, proprio, dal linguag­gio poetico. Questo, in primo luogo, perché, data la natura delle esperienze mistiche, il soggetto che cerca di esprimerle si vedrà spinto, costretto, a modifi­care il linguaggio normale. E vi riuscirà mediante un uso linguistico capace di potenziare il ventaglio di libertà linguistiche offertogli dal sistema a tutti i suoi livelli. Il massimo sfruttamento di queste potenzialità coincide con quello che ne fa il poeta. In tal modo, allora, mediante la parola poetica, il mistico «giunge a toccare il mistero nella sua straboccante pienezza e balbettare quello che può riguardo a questa esperienza... La poesia è una penetrazione reale, sebbene par­ziale, del mistero. E il paradigma di tutti i misteri è Dio».9

Per i mistici in generale, le esperienze mistiche possono plasmarsi solo attraverso i ricorsi lirici e, quindi, esclusivamente in modo allusivo. La poesia è il veicolo espressivo del suo contenuto specifico: l’esperienza mistica che vuole comunicarsi con gioia a tutto il mondo.

II verbo poetico giunge ad illuminare la tenebrosa oscurità («la nube tenebrosa») vissuta dal mistico. La poesia, in qualche modo, fa trasparire, con il canto, la «feli­ce avventura» che il mistico ha passato. La poesia è riproduzione di esperienza, prolungamento di questa. La parola poetica ci trasporta verso regioni ignote,

9 M. Jesus Mancho Duque, PaUbras y simbolos en San Juan de la Cruz, Madrid 1993, pp 132-133.

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senza poterle colonizzare. Un silenzio si distingue nel rumore delle parole. Que­sto silenzio è il segno dell’innominabile Origine, che ha permesso la fondazione poetica».10

I mistici - specialmente coloro che per giunta sono artisti della lingua - nella loro poesia hanno riflesso un’esperienza vitale, hanno lasciato trasparire il pathos divino-umano che li turba, hanno esteriorizzato la «parola interiore» che li abita; una parola segnata dalla «fiamma di amor viva» che è arsa nel loro cuore, una parola in definitiva pneumatica, ma piena di silenzi. Il testo misti­co è, da quanto abbiamo detto, la oggettivazione in forma plastica del contem­plato, il segno visibile del contemplato. Parole di uomini, ma che, paradossal­mente, sono anche «linguaggio di Dio che parla da dentro» (FB 1, 6). I testi mistici sono lucide rivelazioni di un altro mondo che, per rendersi intelligibile, assume la via dell’incarnazione, nel sensibile delle parole di questo mondo. La figura dell’esterno entra nel nostro mondo assumendo la forma del negativo. Proprio per questo inserimento, la negazione di sdoppia in affermazione posi­tiva.11 La poesia sarà, dunque, la via più adeguata per esprimere «quanto di sovrabbondante c’è stato nell’esperienza»12. Se l’esperienza mistica è esperien­za nelle tenebre della fede, nella nube del non-sapere, l’unico linguaggio capa­ce di evocarla sarà quello poetico, che è «chiaro-scuro e immaginativo» e che, al modo dello stesso mistero dell’incarnazione, rivela la sua verità velandola nella carne e nel mondo.

I generi propri della mistica

Le espressioni proprie della tradizione mistica sono legate all’esperienza, all’avventura biografica personale e alle vicissitudini ecclesiali e sociali dei suoi protagonisti. I mistici hanno cercato di trasmettere questo nucleo di comunio­ne di fede e di amore con Dio e di impegno in favore della Chiesa, esprimen­dosi con i mezzi propri dell’ambito storico e culturale di appartenenza. La ricerca di alcune espressioni proprie di articolazione della comprensione, del­la ricezione e della comunicazione dell’esperienza della fede è stata la grande lotta e vittoria dei fondatori delle tradizioni mistiche.

10 T. Polo Cabezas, San Juan de la Cruz: lajuerza de un decir y la circulación de la palabra (valor teològico del “hablar” mistico), Ed. de espiritualidad Madrid 1993, p. 102 .

11 Cfr. ibid., p. 103.12 Ibid., p. 88.

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Per questo hanno dovuto prendere le distanze dal linguaggio della cultu­ra dominante e paradossalmente lo hanno fatto appropriandosi innanzitutto dei mezzi poetici ed espressivi disponibili nell’atmosfera culturale che li cir­condava - cultura di letterati o illetterati, di donne o di uomini, di alti o bassi strati sociali - e, trascendendone inoltre i valori semantici propri, li hanno tra­sferiti verso una nuova sfera di significato: il registro mistico.

Hanno inoltre dovuto marcare il loro dominio e il loro modo di parlare sia per opposizione dialettica, sia per presa di distanza dalla teologia allora vigente. La teologia sarà la loro mappa, ma non il loro territorio. Non hanno potuto né voluto rassegnarsi al linguaggio della teologia comune per non tradire il conte­nuto trascendente della loro grazia limitandolo ai termini volgari e usati dalla sco­lastica.

La loro maniera di esprimersi coincide nei temi teologici comuni, ma vi è in loro un tanto di enfasi, trasgressione e affettività intensa che supera ogni ragione. Limitarli alla logica dello schema comune sarebbe per loro tradimen­to, non alla verità, ma all’abbondanza di luce e amore che in queste stesse veri­tà teologiche - dall’aspetto argentato - essi hanno trovato. Non è la distanza posta da un eretico quando stabilisce una comprensione o interpretazione dif­ferente o alternativa,13 anche se dentro la stesso logica, ma è invece la distanza, aperta dai contemplativi, da una realtà più profonda. Per ciò stesso cercano di condurre il lettore, con i loro propri simboli, temi ed espressioni, all’incontro - immediato, dicono - con l’Amore abissale e incomprensibile, narrando e cantando il loro proprio processo di incontro e trasformazione.

Come fossero un gioiello, queste distanze e costrizioni li obbligano ad esi­bire senza pudore, senza occultarle, le espressioni primarie del linguaggio (esclamazioni, struggimenti, pianti, gemiti, balbettìi, sospiri e grida...) e, rispettando la prossimità all’esperienza, in un secondo momento, a ricreare i generi letterari propri della tradizione che essi stessi fondano.

Tutti questi generi mistici hanno il loro embrione nelle pratiche ed espres­sioni orali che qui non consideriamo direttamente (la confessione, la confidenza, il racconto di coscienza, la comunicazione fraterna, la conversazione o pratica di parlatorio, il dettato di rivelazione, locuzioni e visioni, ecc.), ma che sono la matrice espressiva di queste formazioni testuali secondarie.

Sono caratteristici della tradizione mistica i seguenti generi letterari scrit­ti: la narrativa in forma di autobiografia, le storie dell’anima, le relazioni della vita e sul proprio modo di procedere nella preghiera, le narrazioni di pellegri­

13 H. Blommestijn, Testi mistici, in DIM, pp. 1215-1220.

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naggi, le descrizioni di esperienze; il soliloquio formulato come meditazione, esclamazione ed elevazione. La poesia come espressione lirica più che come esal­tazione innica. Il dialogo, che, prima di essere forma letteraria propriamente detta, opera come Sitz-im-Leben dove nascono modi di comunicazione orale e scritta di vastissima presenza nella tradizione mistica occidentale. Il genere epi­stolare che partecipa della componente narrativa e dialogica. Il commentario alla Sacra Scrittura - occasionale o integrato in trattati - dove si attualizza l'espe­rienza della parola viva; la glossa di versi o detti propri o altrui che funziona­no come enigma da decifrare in interpretazioni molteplici e aperte. Gli apof- tegmi che sono nati come biglietti di comunicazione confidenziale e come det­ti di luce e amore destinati alla meditazione; la letteratura cautelare o di avvisi, genere più proprio all’esercizio magisteriale. La poesia e la drammatizzazione ricreativa e dottrinale. Anche all’interno delle grandi opere come sermoni, rive­lazioni, meditazioni, trattati dottrinali o didattici, commentari e summe sintetiche e articolate, si incontrano brani propriamente mistici: racconti di visioni,14 di locu­zioni e di sensazioni, appartenenti certamente al genere narrativo e poetico. La predominanza della letteratura dell’io appartiene ad alcune tradizioni mistiche di orientamento soggettivo più attente alle ripercussioni biopsichiche e ai pro­pri stati di coscienza. Il predominio dei generi epici proprio degli inni, delle celebrazioni di radice liturgica o paraliturgica, caratterizza in generale altre tradizioni.

I problemi - in questa sede semplicemente abbozzati - generati dall’esi­stenza di questo linguaggio peculiare e dalla sua radicale insufficienza, posso­no essere riassunti in quelli riferiti alla stessa esistenza ed allo statuto proprio di questa forma di parlare, alla sua relazione con l’ineffabilità, con la teologia apofatica o negativa,15 con il silenzio, con la società e con la verità.16 Inoltre: la sua unità e pluralità, la sua relazione con l’esperienza e con la profezia bibli­ca, la sua lotta con il silenzio, la sua sottomissione alla forza di un dire che vie­ne dalle strutture linguistiche anteriori al parlare proprio del mistico,17 l’ubica­zione e le relazioni del discorso mistico all’interno del campo del discorso reli­gioso in generale e più in concreto nel complesso degli altri modi primari e

14 Cfr. P. Dinzelbacher, Vision und Visionsliteratur, Stuttgart 1981.15 Una buona presentazione dei diversi problemi con una bibliografìa generale a prescindere dal titolo in Gio­

vanni Pozzi - Claudio Leonardi, Scrittrici mistiche italiane, Marietti 1988, pp. 702-738.16 M. Baldini, U linguaggio dei mistici, Queriniana, Brescia 1986; M. de Certeau, La fàbula mistica. Siglos XVI y

XVII, Univ. Iberoamericana, México 1993 (orig. francese del 1982). Germano Pattaro, Il linguaggio mistico, in La Misti­ca, Città Nuova, 1984, voi. I, pp. 483-506.

17 Teodoro Polo Cabezas, San Juan de la Cruz: lafuerza de un decir cit., ne è l'esempio migliore.

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secondari di linguaggio cristiano: kerigmatico, liturgico, profetico, confessio­nale e, specialmente, teologico.18 Abbondano le speculazioni sulle relazioni tra il modo mistico di parlare e il m odo poetico.19

Il linguaggio simbolico

Simbolismo e misticismo

L’ultimo rifugio dello scrittore mistico, il più tradizionale e fecondo, è il linguaggio simbolico. Tanto dolore davanti all’obbligazione interna della parola produce la torsione delle stesse parole. Il senso obliquo, gli sviamenti di senso e il lessico connotativo occupano tu tto lo spazio della significazione diretta. La lingua ordinaria cede sotto il peso del messaggio, si crepa e chia­ma in suo soccorso il linguaggio simbolico perché venga in aiuto della sua evidente deficienza.

Il sapere e il dire mistici, che sono un modo di «capire senza capire», un conoscimento intuitivo ed oscuro, non possono ridursi ai modi del discorso concettuale e diretto. La parola simbolica con la sua polisemia sembra la più adeguata per esprimere l’eccesso e lo spreco che si trova nell’esperienza misti­ca. Il mistico ricorre al simbolo affinché il linguaggio ne guadagni di espressi­vità e, di fronte all’impossibilità di applicare la precisione e il rigore del con­cetto, impone ai suoi destinatari il linguaggio simbolico.

Il ricorso al simbolo non è mero accessorio o retorica, abbellimento del linguag­gio, ma necessità intrinseca al medesimo soggetto per riuscire ad esplorare, risco­prire e illuminare zone della realtà, più occulte, ma non per questo meno reali e importanti per colui che «vive la vita di Dio» (FB 2, 34) e «sente le cose come Dio le sente» (FB 1, 32). Solo la parola simbolica sarà capace di farsi segno di questa realtà che si sottrae a qualsiasi identificazione riduttiva. Più che di rappresenta­

16 E. Garrigou-Lagrange, Le langage des spirituels compare à celuì des theologiens, in «Vie Spirituel», Supplément41 (1936), pp. 257-276; Y. M. Congar, Langage des spirituels et langage des theologiens, in Situation et tàches présentes de lathéologie, Paris 1967, pp. 135-158; H. Urs von Balthasar, Espiritualidad, in Verìmm Caro, Crìstiandad, Madrid 1964, pp. 235-268; J. Baruzi, Introduction à des recherches sur le langage mystique, in Recherches phlosophiques 1931-32, pp. 66-82; L. M. Gondal, La mystique est-elle un lieu théologiqueì, in «Nouvelle Revue Théologique», 108 (1986), pp. 666-684; Henri de Lubac, Préface a André Ravier, La mistica e le mistiche, San Paolo, 1996, pp. 13-36.

19 A. M. Haas, Sermo mysticus, Freiburg S., 1979; Max Milner, Ascétismepoétique et ascétisme mystique, in Actuali- té de Jean de la Croix, Paris-Bruges 1970, pp. 219-233; Ma Jesus Mancho Duque, Palabras y simbolos en san Juan de la Cruz, Madrid 1993, specialmente le pp. 129-156.

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zione, nel simbolo, si tratta di allusione, di evocazione. Il simbolo mantiene un potere di significazione complesso, multiforme; in uno stesso simbolo possono generarsi vari sensi senza che nessuno lo esaurisca totalmente; nessuna interpre­tazione esaurisce le potenzialità semantiche inscritte nel simbolo. Il simbolo rac­chiude un plus di significazione che il linguaggio standard non offre. Il potere simbolico ha una capacità tale da trascinare fino a regioni che l’autore mistico non può neanche immaginare.20

Molte possibilità di comprensione e di interpretazione rimangono ine­spresse, solo alcune si fissano e si confermano, forse tanto diverse tra loro quanto diversi sono i punti di riferimento culturali dei lettori. Il mistico con­quista un territorio per dire la scienza saporosa, la scienza vissuta dell’amore. Questo territorio è lo spazio del simbolo. In questo nuovo spazio, ognuno dei simboli mistici diventa aperto a dire l’Ineffabile. Attraverso di esso si rompe lo schema logico, si supera il principio di contraddizione, e con esso siamo intro­dotti in un nuovo ambito. Il simbolo spezza le coordinate di spazio e tempo, perm ette di mettere d’accordo le contraddizioni, riesce a provocare la coinci- dentia oppositorum. In questo modo si lascia intravedere ciò che è senza figura, ciò che sta oltre le forme.

I mistici non ricorrono ai vecchi simboli dell’umanità, ora ricreati da essi, per ragioni di bellezza, ma per la stessa condizione dell’esperienza mistica che si sforzano di dire. E non basta e neanche vale per loro il discorso razionale: i mistici cercano di trovare il linguaggio primario, immediato alla vita, che pre­cede la riflessione e, in questo senso, illogico. Di qui ne deriva che la mistica è uno dei campi dove il simbolo sorge e viene coltivato. Fin dal Medioevo e dal Rinascimento, la mistica è andata creando in questo modo il suo proprio lin­guaggio cementato nel simbolo e sempre ha dovuto farsi strada polemizzando con gli altri modi di parlare cristiano. Come ha segnalato Michel de Certeau,21 forse è l’editore tardivo di san Giovanni della Croce ad avvertire «paura» davan­ti a questa forma di parlare, paura davanti al simbolo, e pertanto la necessità di interpretare e di rendere «presentabili alla società» le frasi mistiche. Per le stesse ragioni, Sandaeus, nei decenni successivi al sec. XVII, si preoccupa di rivedere il corpus simbolico, offrendo un compendio e una chiave di comprensione per un lessico tanto strano. Allo stesso modo che per l’interpretazione dei simboli

20 Ibid., pp. 89-90.21 M. de Certeau, La fàbula mistica. Siglos XVI y SVII, Univ. Iberoamericana, México 1993 (orig. francese del

1982), pp. 158-182.

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e delle allegorie dei santi Padri, furono poste in circolazione collezioni di alle­gorie e interpretazioni canonizzate dalla ripetizione e dall’autorità (la Sylva alle- goriarum di Hieronimus Lauretus - Jerónimo Lloret - edita nel 1570 è un buon esempio di questo genere), iniziando così a fondare, in quest’altro momento della storia del linguaggio mistico, il problema della sua retta interpretazione e pertanto della necessità di disporre di chiavi. Pro theologia mystica clavis, si chia­ma l’opera di Sandaeus. Ormai è necessario spiegare quanto è divenuto incom­prensibile.

Simbolico e mistico sono quindi qualificativi che si sovrappongono al lin­guaggio degli spirituali in quanto designano caratteristiche che si trovano sem­pre insieme nel gergo o neologia mistica. Designano un modo di dire e di par­lare caratteristico di questo registro. Mistico e simbolico coincidono nel­l’espressione dello spirituale. La sua epifania ha luogo, soprattutto, in occasio- hi di vero coinvolgimento affettivo: «Questa è la causa per cui piuttosto che spiegarlo con ragioni, esse preferiscono far comprendere parte di quel che sen­tono servendosi di figure, comparazioni e similitudini, e dall’abbondanza del­lo spirito spargono segreti misteri».22

Il mistero cristiano si è comunicato agli uomini nella parola e nell’incar­nazione del Figlio di Dio. Solo in base a questa affermazione si riesce a com­prendere che la ricezione di questo mistero deve realizzarsi nella struttura aperta e limitata dello spirito incarnato degli uomini. Già questa condizione liminare dell’umano indica che solo il simbolo riesce ad essere lo strumento adeguato di comunicazione. Una forma ulteriore di accondiscendenza divina (synkatabasis) è l’uso del simbolo nella Sacra Scrittura, che ha il suo vertice nel Verbo incarnato. Così, quindi, tanto da parte dell’oggetto comunicato, come del modo di comunicarsi e del soggetto ricettore, l’incontro con il simbolo diventa un fatto praticamente inevitabile.

In questa tensione che si stabilisce tra l’essere costretti a dire e il non poter dire si apre lo spazio per l’apparizione di quest’altra caratteristica della misti­ca cristiana. Essa è simbolica, ricorre al simbolo, non più/ancora al sacramen­to, ma al simbolo.23

21 San Giovanni della Croce, CB, prol. 1 .22 II «corpo vivo» è, secondo l'espressione di D. Dubarle, «come l’arcisimbolo di tutto l'ordine simbolico»

(D. Dubarle, Pratique àu symbole et connaissance de Dieu, in Le mythe et le symbole, Beauchesne, Paris 1977, p. 243). È quindi in esso che si articolano il di dentro e il di fuori, l’io e l’altro, la natura e la cultura, la necessità e la doman­da, il desiderio e la parola. Questa in origine esiste solo inscritta nel corpo, e per suo mezzo, onticamente, in discor­si ed enunciati. Certamente è più in qua rispetto a questi ultimi, nei loro «spazi bianchi», da dove la parola viene det­ta. In ogni modo, i discorsi e gli enunciati sono necessari per dar «luogo» agli spazi bianchi dai quali essa può sorge­re. Una parola che volesse dirsi in una specie di purezza trasparente è illusoria. Nessuna parola scappa alla sua labo-

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Alla caratteristica delTineffabilità corrisponderebbe l’apparizione di sim­boli in tutte le espressioni mistiche. Tutte le esperienze sono soggettive e inte­riori, ma comportano manifestazioni esteriori anche se non verbali, sia nella sensibilità, che negli atti o comportamenti. Tutte sono posteriori all’esperien­za medesima che è di ordine interno, è uno stato interiore; tutte necessitano del campo simbolico per apparire.

Jean Ladrière descrive le caratteristiche del linguaggio degli spirituali.24 Tra queste, egli parla di un linguaggio che prende le espressioni del linguag­gio delle sensazioni, della percezione degli affetti, degli stati interiori, delle disposizioni affettive, degli stati intellettuali ecc., nel loro aspetto vissuto e nel loro m om ento fenomenologico. Ma questi, a mala pena riescono a dire che di fatto questi stati e affetti stanno lì con il soggetto mistico sotto di loro, e non giungono a descriverlo veramente: necessitano del simbolo, della figurazione.

Vale a dire ricorrono ad un uso delle espressioni che scopre in loro un secondo senso a partire da certe proprietà del senso già disponibile. Si realizza una certa relazione analogica tra il senso primario e il secondario. È una relazione di sim­bolizzazione tra i due sensi il cui meccanismo generale è il seguente: ci basiamo sul senso conosciuto di un termine definibile in modo estensivo e sfruttiamo cer­te somiglianze tra l’esperienza percettiva (base delle definizioni estensive) e l’esperienza interna per cambiare il termine in questione e caricarlo di un senso nuovo, relazionato con gli stati da descrivere. Nel caso dei mistici, questi stati sono tanto straordinari che non è facile trovare somiglianze per questi stati stra­ordinari e poco comuni.25

riosa iscrizione in un corpo, una storia, una lingua, un sistema di segni, una rete discorsiva. Questa è la legge. Leg­ge di mediazione. Legge del corpo. Per questo, la «rivelazione», tanto quella cristiana quanto quella ebraica, «si è potuta convertire in parola di Dio mediante il suo esodo in un corpo di scrittura» (S. Bréton, Ècriture et révélation, Cerf, Paris 1979). «Per trovare lo spirito bisogna aggrapparsi alla lettera, per incontrare il mistico bisogna aggrappar­si al simbolo» (L.-M. Chauvet, Simbolo y sacramento, Herder, Barcelona 1991, p. 158).

24 «l. Almeno a titolo di presupposto, fa riferimento alla fede come è espressa nel Credo. Più esattamente, è questa fede, con il suo contenuto, dò che dà all'esperienza descritta la sua strutturazione interna. 2 . Ha un modo proprio di realizzarsi: non è una semplice recensione, slegata dall’esperienza che sta descrivendo, ma effettua una specie di riattivazione di questa esperienza e in questo senso la prolunga. 3. Non è la semplice ripetizione, a titolo personale, del Credo, ma introduce alcune interpretazioni del linguaggio originario della fede (che è quello della pro­clamazione e della predicazione) e, in questo senso, deve essere situato in prossimità del linguaggio della teologia. Sebbene non abbia il carattere sistematico di questo, ne ha almeno il carattere interpretativo. 4. Comporta un aspet­to di testimonianza il cui valore si fonda sull'esperienza attestata dalle parole che la esprimono. È una forma speci­fica di testimonianza, diversa da quella caratteristica della proclamazione della fede. 5. Infine, comporta un aspetto di insegnamento pratico; dà consigli, suggerisci “metodi”, indica una via da seguire, descrive le tappe da percorrere; è una parola, insegna ad orientarsi nella vita spirituale, attraverso la testimonianza di un’esperienza particolare» (Jean Ladrière, La articulación del sentido, Sigueme, Salamanca 2001, p. 324).

25 Jean Ladrière, La articulación del sentido, Sigueme, Salamanca 2001. Specialmente nel cap. 4: El Lenguaje de los espirituaks, pp. 323-340.

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Per questo, il loro ricorso alle allegorie ed al simbolo è universale. Perché il linguaggio simbolico metaforico non solo ha la proprietà di trasmettere, copiare e riprodurre le esperienze per offrirle espresse: la sua forza più speci­fica ed efficace per i mistici sta nella sua capacità di «costruire in un determi­nato modo l’esperienza come possibile». Il simbolo informa l’esperienza misti­ca. Non solo informa su, ma anche dà form a al mondo altrimenti caotico della vita mistica. Il simbolo ha un potere euristico, incontra e scopre possibilità ine­dite nel reale. Non è un semplice riflesso della realtà o dell’esperienza (realtà soggettiva), ma possiede anche un potere autonomo di costruzione, di dar for­ma all’esperienza informe. Non solo è uno strumento di commercio con il mondo e con noi uomini che mai visitiamo le regioni mistiche, ma è uno stru­mento di proiezione delle forme dell’esperienza nuova.

Ma che cos’è il simboloì

La complessità del concetto e delle teorie descrittive, esplicative e inter­pretative del simbolo rende difficoltosa la chiarezza nelle definizioni. La poli­semia di sensi del termine, così come la distanza diametrale dei punti di vista nelle diverse discipline che studiano i molteplici piani (o strati o poli o volu­mi) dei simboli, fa sì che le correnti non si uniscano o si confondano nel mom ento di affrontare come tema di teologia mistica questo argomento del simbolo.25 Il simbolo è una realtà complessa, di definizione impossibile, per questo dobbiamo essere obbligatoriamente indeterm inati nel descriverla. Diremo solo e semplicemente quello che il simbolo possiede.

Qualcosa di biopsichico, che lo imparenta con l’energia pulsionale da dove fluiscono i sogni e le loro costruzioni, le energie psicovitali e i conflitti tra desi­deri e necessità. I poteri indefiniti dell’istinto si aprono la strada andando alla ricerca di una spiegazione dell’amalgama vitale nelle forme simboliche. L’abi­lità del simbolo è quella di ordinare e integrare la forza pulsionale del vissuto.

25 Cfr. Philip Wheelwright, The Buming Fountain: A Study in thè Language of Symbolism, eh. 5, University Press, Indiana 1954, e Metàfora y realidad, Espasa Calpe, Madrid 1979, soprattutto i capitoli 5 e 6: De la metàfora y simbolo e El simbolo arquetipico, pp. 95-153, introduzioni generali a queste questioni. Le introduzioni a dizionari come J. Che- valier - A. Gheerbrant, Diccionario de los simbolos, Herder 1985, pp. 9-37; o Maurice Cocagnac, Les symboles bibliques. Lexique théologique, Cerf, Paris 1999; o Dom Pierre Miquel, osb - Soeur Paula Picard, osb, Dictionaire des Symboles Mystiques, Le leopard d'or, Paris 1997; o J. E. Cirlot, Diccionario de simbolos, Circulo de Lectores, Barcelona 1998 [ed. or. 1958], pp. 17-59, danno un’idea della vastità e complessità del concetto, anche limitandosi al solo campo cri­stiano.

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Sotto questo aspetto interessa alle scienze psicologiche e psicoanalitiche, all’antropologia (razionale, teologia o mistica) e anche alla psicocritica lette­raria.

Qualcosa di logos, nella misura in cui si dà come fatto di parola ed è un mezzo di conoscenza e comunicazione che perm ette l’accesso alle realtà occulte attraverso quelle visibili; come il concetto, il simbolo è mediato da e mediatore del concreto verso l’astratto e generale; se il simbolo dà a pensare, e provoca l’interpretazione, secondo P. Ricoeur,27 questo aspetto interessa ai filosofi, ai teologi e a tutti coloro che sono impegnati nel far uscire la scienza dal suo impasse razionalista o positivista. Coopera con l’infinito compito erm e­neutico che è in corso nella nostra cultura.28

Il simbolo ha qualcosa di nomos, vale a dire, qualcosa di comune, di nor­mativo e di riconoscibile in ogni comunità che si identifica con se stessa mediante i simboli propri, accettandoli come esplicativi ed espressivi del suo arcano e destino quando si sottomette al loro potere confìguratore di tutte le loro forme mentali preconcettuali e affettive, primordiali e comuni ad un determinato insieme di persone.

Qualcosa di mithos, nella misura in cui il simbolo è un potere interpreta­tivo deirinteriorità oscura, della realtà mondana nella sua totalità e della tra­scendenza; il simbolo è un germe del mito e del rito e mediante il simbolo vie­ne narrata la favola o storia inventata, produttrice di senso di fronte allo sco­nosciuto anteriore, posteriore, interiore e superiore alla coscienza.

E qualcosa di theos. Il simbolo è un po’ un essere vivo e trascendente, superiore a noi. Se è vero che ci si dà nella matrice culturale, è anche vero che trasportati dal movimento simbolico siamo condotti al divino. C’è in ogni sim­bolo una mescolanza di oggettivo e soggettivo, di continuità e diversità. Nel contemplarlo, nel captarlo come un oggetto di meditazione, contempliamo la nostra propria traiettoria spirituale, ci induce a seguire una strada, c’è in esso una voce, una chiamata, una proposta, ci indica una direzione obbligata, la tra­iettoria del movimento verso cui confluiscono tutti gli esseri.29

27 Paul Ricoeur, Poètica y simbòlica in: Iniciación a la próctica de la teologia. T. I. Introducción, Cristiandad, Madrid 1984, p. 49 e in La metafora viva, Ed. Europa, Madrid 1980 [ed. or. 1975], p. 321.

28 José Maria Mardones ha offerto il suo contributo con La vida del simbolo. La dimettsión simbòlica de la religión, Sai Terrae, Santander 2003.

29 «Parti de la sensation, le mouvement symbolique nous a conduits jusqu’à la participation à VEsprit-Saint. Leparcours peut sembler àonnant. Et pourtant, si, dès la première démarche de la conscience, une ouverture n’apparaissait, on ne voit pas comment la vie spirituelle pourrait sauveguarder l’unité de Vhomme. Sans confondre les ordres du sensibile et de Vinteìligible, il est nécessaire de reconnaitre entre eux une certame continuità. En réalité, un unique dynamisme vital porte la conscience vers le

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Riabilitare il valore del simbolo, non è in alcun modo professare un soggettivi­smo estetico o dogmatico. Non si tratta assolutamente di eliminare dall'opera d’arte i suoi elementi intellettuali e le sue qualità di espressione diretta, e nean­che di privare i dogmi e la rivelazione delle loro basi storiche. Il simbolo perma­ne nella storia, non sopprime la realtà, non annulla il segno. Aggiunge loro una dimensione, l’importanza, la verticalità: stabilisce a partire dai fatti, oggetti o segni, relazioni extrarazionali, immaginative, tra i piani dell’esistenza e tra i diversi mondi cosmico, umano e divino.30

Il linguaggio simbolico è quindi una forma di espressione connaturale alla mistica. Perché allo stesso tempo unisce diversi piani di realtà, rispettando la dissomiglianza e la distanza esistente tra l’esperienza mistica e le possibilità della lingua.

Il significante nel simbolo è eletto, non in forma arbitraria né convenzionale, ma per mantenere una relazione naturale con il significato. Il che vuol dire che tra il significante e il significato esiste un nesso analogico che serve di base per l’ele­zione e l’utilizzazione del significante. Questo nesso analogico può basarsi su

monde, vers les autres, vers les valeurs, vers Dieu. Le symbolisme nait de cette continuiti dans la diversità. Pour exprimer Velari vers les valeurs ou vers Dieu, la conscience prend appui, pour les prolonger, sur les dynamismes familiers de la vie; alors appa- raissent les grands symboles de la marche, de Vascension, de la lumière comme les symboles personnels qui s’effbrcent d ’orienter le mouvement vers la plénitude de Dieu. Une telle situation se trouve confìrmée et étendue par Vintervention de Dieu dans Vhi­stoire. S ’insérant dans la vie concrète des patriarches, des prophètes et du peuple élu, assumant la mentalité symbolique primi­tive, Vaction salvatrice et révélatrice de Dieu confère à la nature et à Vhistoire la dignité de porter le mouvement de VEsprit. Avec VIncarnation du Verbe dans Vhumanitè de Jésus et son incorporation dans VEcriture, cette action divine regoit le sceau de la plé­nitude déflnitive. Tout devient signe, sacrement, symbole. Sans mélange ni conjusion, mais dans une union étroite et admirable, VEsprit-Saint se veut et se rend présent à toute chose. Il guide Vhistoire de Vhumanitè comme il inspire les écrivains sacrés. C'est lui aussi quifait sa demeure dans le chrétìen. Grdce a lui le mouvement symbolique acquiert une densité spirituelle substantiel- le. U peut se déployer à tous les niveaux. Le sensibile et la chair se sont accoutumés à porter VEsprit». (Cfr. A. Bernard, Théo- logie Symbolique, Téqui, Paris 1978, pp. 94-95).

30 J. Chevalier - A. Gheerbrant, Diccionario de simbolos, Herder 1985, p. 23. E continua: «Secondo le parole di Hugo von Hofmarinstal, allontana ciò che sta vicino, avvicina d ò che sta lontano, in modo che il sentimento possa captare l’uno e l’altro». Il simbolo come categoria trascendente dell’alto, dell’ultraterreno, dell’infinito, si rivela all’uomo intero, alla sua intelligenza come alla sua anima. Il simbolismo è un dato immediato della coscienza tota­le, afferma Mircea Eliade, vale a dire, dell’uomo che si scopre come tale, dell’uomo che prende coscienza della sua posizione nell’universo; queste scoperte primordiali sono connesse in modo tanto organico al suo dramma, che lo stesso simbolismo determina tanto l’attività del suo subcosciente quanto le più nobili espressioni della vita spiritua­le. La percezione del simbolo esclude, quindi, l’atteggiamento del semplice spettatore ed esige una partecipazione da attore. Il simbolo esiste solamente sul piano del soggetto, ma sulla base del piano dell’oggetto. Atteggiamenti e percezioni soggettive ricorrono ad un’esperienza sensibile e non ad una concettualizzazione. Il proprio del simbolo è il suo permanere indefinitamente suggestivo; ciascuno vede in esso quello che la sua potenzialità visiva gli per­mette di percepire. In mancanza di penetrazione, non si percepisce alcunché di profondo. Categoria elevata, il sim­bolo è anche una delle categorie delTin-visibile. La decifrazione dei simboli ci conduce, parafrasando i termini di Klee, fino alle insondabili profondità del soffio primordiale, in quanto il simbolo unisce all’immagine visibile la par­te dell’invisibile percepita occultamente.

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ragioni naturali, come succede con l'acqua, simbolo della rigenerazione per la sua relazione naturale con la vita vegetale, la sua apparizione e crescita; o su ragioni storiche, come succede con la croce, simbolo del cristianesimo, in virtù del suo collegamento con la forma di morte del suo fondatore. Questa caratte­ristica del simbolismo spiega perché, per la comprensione del simbolo, sia inevi; tabile il passaggio attraverso la realtà naturale che serve da significante, e spiega perché la schematizzazione eccessiva di questo, la sua «evaporazione» o riduzio­ne allegorizzante, metta in pericolo l’efficacia del processo di simbolizzazione.31

La simbolica mistica

La simbolica mistica è un oscuro insieme di creazioni culturali che ha con­dizionato e facilitato la comprensione e l’espressione dell’intera vita cristiana di ogni epoca della Chiesa. La bibliografia su questo tema è abbondantissima, il che indica con chiarezza l’interesse crescente suscitato da questo aspetto del­la tradizione mistica, interesse mai cessato dagli inizi del XX secolo, tempo di reazione culturale contro il razionalismo.

I simboli dominanti

Molte opzioni si aprono davanti a colui che vuole ordinare schematica­mente l’universo simbolico mistico. Ci limitiamo alle espressioni testuali.

Il simbolo abita la parola scritta, la più accessibile, ma non la più feconda tra le forme di comunicazione simbolica. Tralasciamo le espressioni corporee, plastiche architettoniche, musicali e soprattutto quelle vitali e pedagogiche, quelle veramente iniziatiche al mistero che provoca la reazione mistica cristia­na; laddove il simbolo o il rituale mistico si realizza comunitariamente, laddo­ve è creatore di cultura e trasmettitore di valori. La scrittura e la poesia, con la loro musica e i loro colori, sono veicoli del simbolo, ma non gli unici.

Quello che importa nei simboli è quello che trasm ettono di Dio, della sua gloria e della sua grazia. I mistici non propongono solo la negazione del lin­guaggio né sono solo gli esploratori delle sue frontiere, sono i portatori delle orme della sua trascendenza. Le loro costellazioni simboliche non funziona­no né come icona né come idolo. La proposta mistica non è neanche una festa dei sensi, né la creazione di meri patemi (unità di racconto del sentimento) che

31J. Martin Velasco, Elhombre ser sacramentai (Raices humanas del simbolismo), Ediciones SM, Madrid 1988, p. 19.

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trasportino solo l 'e sp e r ie n z a del soggetto, esigano il contatto, esigano di più, esigano di non farsi idoli ma immagini, ma accettano il corpo e i suoi affetti come portatori sacramentali della presenza e dell’assenza del Dio vivo e incar­nato nel suo Cristo, attuale e attuante già nel suo Spirito di amore, ma anco­ra occulto nella fede e futuro nella speranza.

Al servizio di questa proposta appaiono i simboli dominanti nella spiritua­lità cristiana. Non esigono solo la trasmissione di un messaggio, ma l’immer­sione in una presenza, l’implicazione in una testimonianza, l’assunzione di un impegno, il coinvolgimento dei corpi e delle anime, la trasformazione della condotta di vita. Se il sacramento è segno sensibile che santifica e dà la grazia, il simbolo è segno sensibile che rivela a ciascuno la propria grazia e lo pone in comu­nicazione estrema con la carne mondana e gloriosa del Verbo crocifìsso ed esaltato, presente e assente.

Chiamiamo, quindi, simbolica il complesso delle relazioni e delle interpre­tazioni corrispondenti ad un simbolo (la simbolica del fuoco o del castello, per esempio) e anche all’insieme di simboli caratteristici di una tradizione spiritua­le concreta, nel nostro caso quella cristiana.

La divisione tra i simboli non sarà mai adeguata e perfetta: le frontiere di questo mondo simbolico sono fluide. Conviene distinguere tra i simboli che si impongono al mistico, che lo dominano; i simboli di cui quasi egli non è cosciente, gli archetipi, i più estesi, i più comuni; e i simboli che egli impone con le sue creazioni. Non dovremmo occuparci di quelli che sono meri sim­boli personali. L’onnipresenza del simbolo, allo stesso modo, mi fa avere poca fiducia in una loro gerarchizzazione. I meno evocativi, a volte, rivelano l’espe­rienza trascendente con maggiore forza. E neanche la bellezza di una creazio­ne letteraria è indizio di maggiore forza simbolica; frequentemente il suo pote­re di svelare l’immanenza del mistero cristiano si dissimula in forme lettera­riamente poco elaborate. Il simbolo vive in molte case, vale a dire, la sua com­parsa in rilievo nei testi assume molte figure, tra le quali la metafora è la migliore delle sue dimore, sebbene non disdegni né la similitudine, né l’apo­logo, né il racconto storico. Tutti collaborano al fluire della coscienza sulle onde della realtà sperimentata.

Siamo soliti cercarli e apprezzarli nella loro incarnazione lessicale, che è il modo predominante di considerarli; ma i tipi umani ideali, le creazioni pitto­riche e architettoniche, i racconti di fondazione, le produzioni musicali sono altrettanti prodotti e oggetti simbolici in cui si potrebbe accedere ad una for­za mistica uguale o maggiore rispetto a quella dei miti, riti, metafore e altri poteri configuratoli dell’esperienza mistica e della sua iniziazione.

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Ci limitiamo qui ai testi e ai temi. Simbolico è tanto il livello fonico e la musica dei canti o dei versi quanto gli equilibri della frase in prosa o le sorpre­se dei paradossi; niente è indifferente nella trasmissione del potere di simbo­lizzare esperienze e realtà. Ma il sensibile non è solo il suono: è anche il sen­so e l’immagine concreta che veicola il senso dal concreto all’astratto, dal par­ticolare al generale. Fino a far trascendere le parole. Ma senza base sensibile, non c’è simbolo.

Possiamo organizzare un primo raggruppamento di simboli mediante la distinzione tra quelli predominanti nei testi e quelli secondari.

I simboli-schema32

Così le opere dei mistici contengono chiaramente intere sezioni che rica­dono sotto il potere predominante di certe esperienze mistico-simboliche: la via, il viaggio, l’uscita o esodo e l’esilio, con le loro radici bibliche, il monte e la salita, la navigazione. E quelle opposte: il labirinto, strada senza fine, la cella o la prigione, il chiostro e la clausura, il deserto come labirinto senza vie, il mare procelloso, vera non-strada, tutti sono parte sostanziale dell’espressione misti­ca universale. Le figure complementari elaborate dalla mistica che portano in sé una proposta di mediazione: la porta, il ponte, la soglia, il canale, l’acquedotto e il tunnel..., luoghi di passaggio che funzionano da invito alla realizzazione di sé. La dominante archetipica in questi luoghi comuni mistici è il pellegrinag­gio, la ricerca dell’eroe che parte per realizzare la sua impresa e, in essa, la sua persona e la sua vocazione. Sono questi veri archetipi o forme simboliche che orientano l’apparire del pensiero mistico, offrono possibilità ad ogni dire. Gli schemi spaziali, come alto-basso, dentro-fuori, entrare-uscire, passare-salire, ascen­sione e discesa, camminare-riposare, cadere-levarsi, avanti-indietro..., sono lo sfon­do simbolico della tram a narrativa e interpretativa delle esperienze e delle espressioni mistiche. Di tutte. Sono la tram a più forte e nascosta del tappeto. In questo non sono originali, né gli autori mistici pretendono di esserlo.

Nelle loro prossimità deve essere collocata tutta una costellazione di luo­ghi-meta che, in quanto tali, fanno parte del cammino: il centro, il cerchio, il tempio-altare, il porto, il castello, il giardino, il paradiso, la fonte e il pozzo, la terra

32 Cfr. S. Breton, Symbole, schème, immagination. Essai sur Voevre de R. Giorgi, in «Revue Philosophique de Lou­vain», 70 (1972), pp. 63-92.

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promessa, la patria e l'esilio, la città alta, la rocca di rifugio, la torre di Davide e la torre di Babele, Babilonia e Gerusalemme... che parlano misticamente di sicurez­za-insicurezza, di spazio per l’unione e di luogo di perdizione. Operano talvol­ta come simboli dell’identità e della meta del processo mistico.

Accanto ad essi, attenendoci alla classificazione dei simboli per la loro ampiezza o estensione, ve ne sono altri predominanti in una sola opera o poe­ma. La ricorrenza di determinati temi simbolici indica preferenza e perfino epi­sodi biografici soggiacenti, che gli psicologi del profondo cercano di individua­re e descrivere. Sono frutti di episodi di vita psichica condensati e ricorrenti, veri simboli personali? Simbolo come lo svezzamento sanjuanista, la maestà in Teresa, la rugiada o la faccia velata in santa Teresina mantengono una vitalità continua e un’importanza permanente nella sola vita immaginativa e reale, per cui di fatto riappaiono di volta in volta sotto diverse forme nelle loro opere. Alcuni colori, alcuni contrasti ed associazioni permanenti indicano questa pre­senza di simboli personali. Vi sono quattro gradi basilari nell’ampiezza e por­tata dei simboli della tradizione carmelitana: a) semplici immagini che presie­dono o dominano un certo poema: l’albero sul quale aprì le sue belle braccia nel Pastorcico, il bacio nel primo capitolo dei Pensieri sull’amore di Dio di santa Teresa, la nebbia nella Odaprimera di M. Cecilia del Nacimiento, ecc...; b) altri sono ripetuti e sviluppati da alcuni degli autori come se per lui fossero dotati di speciale importanza e significato; c) altri arrivano a rendersi indipendenti dai loro autori e ad avere vita letteraria propria, mescolandosi e prendendo nuove vite in nuovi contesti letterari e storici, con i quali a volte risuscitano certe metafore che parevano lessicalizzate e convertite già in termini tecnici. La scuo­la teresiana ha ripetuto più che creato i simboli della prima generazione. Que­sti versi, questi simboli sono risultati inesauribili, sono rimasti vivi e, nonostan­te tanto successo, hanno mantenuto il loro significato per tutto un gruppo cul­turale, hanno funzionato come miti che m ettono insieme una comunità intor­no ad un racconto che spiega la sua propria origine e il suo destino, d) Infine, molti simboli carmelitani sono veri archetipi, vale a dire tendono a rimanere dotati di un significato e, pertanto, ad essere compresi da tutti gli umani di qualsiasi tempo e luogo nell’identico senso, indipendentemente dagli influssi storici. Così la notte, la fiamma, il cammino, il castello, la sposa, il vino...

Simboli descrittivi

Insieme a questi simboli dominanti, ne incontriamo altri portatori di un’esperienza. Sono di valore speciale quelli che si riferiscono ad esperienze

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straordinarie: estasi, voli, rapimenti; il progresso spirituale, il viaggio. Merita­no una speciale considerazione questi simboli peculiari che possiamo denomi­nare simboli dell’esperienza in quanto, senza di essi, questa rimarrebbe cieca e caotica, incapace di manifestarsi; in tutti gli scritti della tradizione mistica sono identici, sebbene con prevalenza di alcuni su tutti gli altri a seconda dei conte­sti e degli autori. Appaiono strettamente dipendenti dalla concezione antropo- logica del volto doppio: così come l’uom o sperimenta il mondò naturale attra­verso i sensi, allo stesso modo il mondo soprannaturale e divino deve avere organi adeguati per la sua percezione.33 Da questo pregiudizio sorge lo schema che registra ogni esperienza spirituale in qualche profondo senso interiore. Tutti i vissuti mistici si rifugiano o si concentrano intorno a questi poli simbo­lici: chiaro/scuro, dolce/amaro, secco/umido, caldo /freddo, saporoso /insipido, sete /fame-acqua/sazietà, lieve/duro, soave/aspro, stretto-angusto/ampio-vasto, pesante/leggero, macchiato/pulito, forte/debole. Sono i simboli di base dell’espe­rienza umana, m a anche dell’esperienza religiosa e mistica dove sono operato­ri di valore trasceso. La malattia, il dolore, la mancanza, Yawicinarsi-allontanarsi, l’essere orfani e la filiazione sono tutte esperienze trasposte al campo mistico.

Con il progresso del processo spirituale, i commentatori hanno notato la preferenza non solo per le sensazioni positive rispetto a quelle negative (piace­re, gioia, serenità, sazietà, ecc.), ma per quelle più passive e diffuse in luogo del­le possessive e attive: così al vedere ed udire, succedono il gustare e toccare. A volte (tocchi, ferite, aromi, scintille, ebbrezza...) sono simboli tanto utilizzati dalla tradizione, da essere stati lessicalizzati e, come emblemi, caricati di sen­si noti che ricoprono e dissimulano la loro carica simbolica. Lettori molto lon­tani da queste tradizioni leggono come nuovi simboli, coniati di recente, que­ste formazioni lessicali stereotipate. Raccolgono frutti nuovi in inverno.

I simboli del processo mistico

I simboli, nel raccontare qualcosa, propongono sempre un cammino. I grandi simboli sono capaci di permanere in tutte le tappe del cammino variando le proprie valenze secondò una graduazione che non è forzata e che include a volte i loro contrari. Quindi simboli come notte, fuoco, cammino, amore sponsale, castello impregnano per intero la forma mentis e l’espressione verbale degli autori mistici. Tuttavia, altri simboli minori vanno cambiando e

33 DSAM t. XIV s. v.: Setts spirituels, coll. 598-617.

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marcando il progresso nel cammino mistico dell'unione con Dio per Cristo nell'amore.

La nascita e la vita nuova

L'uomo nuovo, il vestito nuovo parlano dello svegliarsi, della nascita spi­rituale, del rendersi conto e uscire, iniziare, della conversione (le lacrime). Così il seme, la fonte e il bambino, ma anche l’esodo e la purificazione. La simbolica della generazione e della fecondità ha un peso minore della sponsalità. Il seno mistico è più nuziale di quello materno. In alcune tradizioni mistiche si parla più di segreto, di intimità, di incontro e mansioni, di presenza intima, solitaria o esclusiva e totale che di generazione e nuova nascita. Con il «petto fiorito che intatto per lui solo avea serbato» si indica più l’intimità, integrità, totalità, esclusività dell’amore, che la nutrizione. Tuttavia «la madre amorosa della gra­zia che genera per nuovo calore [...]» simbolizza il potere di Dio, potere di ricreazione e redenzione, di vita nuova. Il centro è un qualcosa di più del cuo­re nella lingua mistica. Il rinascere da una madre, lasciarsi portare da un fiume o, meglio, percepire il processo come nascita di Cristo nella propria anima (Eckhart), come processo di concepimento e generazione. Maria è il simbolo- tipo di questo m om ento del processo mistico, perché concepisce, dà alla luce e nutre. La crescita si raffigura come maturazione, nutrimento dell’anima e in contrapposizione con la fame, la sete, il torpore e il digiuno, la siccità e la fecondità...

La simbolica della miseria e della redenzione

Nel primo tratto del cammino spirituale, la tradizione mistica colloca un’analisi che è coincidente nella simbolica di fondo, anche se non nel conte­sto, e che, con espressione di G. Morel, chiamiamo fenomenologia della miseria. Dominano qui i simboli del bestiario, gli animali. È come se si volesse espri­mere l’idea che l’uom o senza Dio e senza coscienza della sua vocazione corre il pericolo di ridursi ad un animale soggiogato dagli istinti vili e dagli appetiti ciechi: è la funzione descrittiva degli animalacci, delle sanguisughe (1S 6, 2), dei cani affamati (1S 6, 3), dei buoi aggiogati (1S 7, 1), delle api che pungono con il pungiglione, delle farfalline attratte dalla luce (1S 8, 3). L’uom o schiavo perde i suoi attributi di immagine di Dio e vive sporco-schiavo-oscuro-stanco-

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debole-povero-triste come Sansone attaccato alla mola (1S 7, 2). Nella versio­ne teresiana (1M) compaiono le immagini degli «animalacci e bestie che sono in cerca del castello» (1M 1, 6), le bestiacce e i rettili; le prime lotte sono con­tro queste dimensioni umane più basse, che solo alcuni animali riescono bene a rappresentare. Queste descrizioni comportano l'esperienza correlativa della dignità umana e della sua bellezza: per opposizione al diamante, al vetro e alla perla preziosa con cui si simbolizza il valore e non la rovina o la miseria. La fenomenologia della miseria umana non solo attinge dal bestiario spirituale forgiato in precedenza dalla tradizione, ma, nel caso sanjuanista, l’analisi del primo libro della Notte oscura (capp. 2-7) apporta un complemento di fenome­nologia della miseria dell’uom o religioso, dove la controfigura non è più il bambino capriccioso, ma innanzitutto il fariseo ipocrita del Vangelo (IN 2, 1).

Appartiene ancora a queste prime fasi del cammino spirituale la simboli­ca delle armi e delle lotte presenti per ispirazione paolina (Ef 6,16) e che di qui passa a molte pagine della tradizione.

La trasformazione

La liberazione-uscita-elevazione è il primo passo. Ma c’è nella tradizione tu t­ta un’alchimia mistica. La vita cristiana è processo di purificazione, trasforma­zione e unione. I simboli parlano in questo caso di cura, delle ferite e dei loro rimedi, della malattia e delle medicine e altre volte di lega di metalli, di forni e fucine, di crogiuoli e di bozzoli di seta che occultano e rivelano il mistero inson­dabile della pasqua dell’uom o nuovo. L’uom o non si è ancora rivelato a se stes­so. Il suo bruco e la sua crisalide guardano la meravigliosa e inaspettata nuo­va vita alata. La metamorfosi mistica è un processo lungo, nel quale interven­gono più che i simboli attivi (lotta, viaggio) quelli passivi: notte che avvolge e rende ciechi, fuoco che entra nel legno, forno che fonde e unisce i metalli, amo­re che trasforma, unisce e assimila gli amanti. Forse la scuola mistica è rima­sta soggiogata, nel senso migliore e peggiore della parola, dal valore esplicati­vo o argomentativo di queste intuizioni; di fatto è stata incapace di innovare, di creare nuovi simboli. Non c’è più alcun’altra lingua. Su quei simboli si ripe­tono le metafore fino a restarne lessicalizzate, fino alla loro m orte e sepoltu­ra nel gergo dei trattatisti della scuola degli epigoni della tradizione. La notte e il fuoco condensano questo potere trasformatore della negatività e della passi­vità che la simbolica mistica completa con un ampio immaginario della passi­vità.

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La vita morale e l’esercizio virtuoso sono accompagnati da doni partico­lari di Dio, che ordinariamente si registrano come esperienze dei sensi: odori soavissimi, fiori, unguenti e aromi di incenso entrano nella perfezione acciden­tale e morale dell’uom o mistico.

L’illuminazione. La mistica della luce e della notte

Svegliarsi dal sonno e vegliare parlano della conoscenza come di una luce proiettata sulla propria realtà (coscienza come specchio di luce, occhio e schermo o tabula rasa), sul mondo e il divino. La trasformazione prende la figura della spoliazione e pulizia, di vestizione e nudità. La fede si purifica in contemplazio­ne. I discorsi mistici parlano di svelamento della verità. Il velo è il simbolo: è il corpo-carne, allo stesso tempo rivelazione e occultamento. Il simbolo mistico esige una conoscenza senza immagini né mediazioni. Al misticismo si pone sempre il problema del fantasma che deve purificarsi e sottomettersi alla criti­ca della conoscenza della fede. La simbolica della notte e del fuoco, della luce e delle tenebre tende al superamento di ogni simbolo che pretenda di divenire idolo. Ciò che riesce ad ottenere è solo la sostituzione di alcuni simboli più rozzi con altri più elaborati e puri, mai l’assoluto occultamento della sua pre­senza.

La simbolica della passività

«Non solum discens sed patiens divina». L’esperienza raccontata dai simboli mistici parla della grazia sottolineandone la condizione di dono gratuito, di un qualcosa giunto inaspettatamente; non c’è nulla di conquistato. A loro modo rappresentano la sproporzione tra il lavoro di disposizione e la grandezza del dono giunto inaspettatamente: acque, torrenti, piogge, ferite, mani vuote e tese, cavità limpide, ecc. Essi parlano dell’origine del dono anteriore e superiore ad ogni determinazione psichica, ad ogni possibilità di costruzione della coscien­za, ad ogni elaborazione della mente e dell’arte, estraneo ai poteri e agli espe­dienti umani. L’esperienza simbolico-mistica accade, succede, giunge inattesa; gli interpreti più dotati di strumenti di analisi e di formazione teologica, fan­no distinzioni e danno tutta una normativa cautelare perché non si confonda l’esperienza con la realtà, né tanto meno l’espressione con l’esperienza; né l’icona con l’idolo, o il simbolo con il sacramento. L’avvenimento simbolizza­

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to con la visione o nel rapimento non è un sacramento, non è un accesso diret­to alla pasqua, in un velo e in una rivelazione della pasqua futura, un’emer­genza della grazia, un anticipo, im portante ma insufficiente. La fede è più cer­ta. Quando questa grazia viene incarnata, prende la forma della carne e del tempo concreto dove questi avvenimenti avvengono e raggiungono l’uomo, arricchendolo, riem pendolo di vigore, motivandolo, illuminando la sua coscienza e smuovendone la volontà in modo da operare in modo conforme alla pasqua provata.

Solo il simbolo rende possibile il suo fulgore emergente. Ma prende mate­riali dalla vita psichica e dalle sue forze, dal complesso di relazioni efficaci che la costituiscono, dai diversi prodotti dell’anima, sogni e archetipi. E anche dai prodotti culturali di cui i mistici si approvvigionano: di questa carne si ricopre per parlare del Dio incarnato e vivo. Il silenzio, il vuoto, l’oblio, il sogno e il son­no delle potenze, la clausura, il segreto, le forme passive della realtà: vasi, seni, caverne del senso, cera molle, terra aperta e donna nubile fanno sentire la loro voce in questa fase del processo.

Simboli della passività riempiono i loro racconti dell’esperienza mistica straordinaria propriamente detta: il rapimento, l’estasi, l’elevazione e il volo parlano della veemenza della passività, dell’irruzione dell’inevitabile. Tutta la simbolica mistica dipende in questo dal testo del rapimento paolino (2Cor 12, 2-4) e parla della passività dell’esperienza vissuta. Non è frutto di uno sforzo l’estasi, l’ascensore di Teresina, il gigante che solleva (6M 5), Elia sollevato su di un carro di fuoco, l’uccellino catturato dalla grande aquila divina (V 20, 2.3.22.28). Il volo dello spirito giunge inaspettatamente, come un falco...

Il simbolo riveste tutte queste e molte altre figure, tanto da poter afferma­re che la mistica cristiana non è una mistica di ascensione, ma di assunzione. I simboli mistici parlano non di quello che carpiamo o captiamo del divino, ma di un potere che ci solleva, di una grazia che ci accade, di un fulmine che ci bru­cia, una carezza immeritata, insperata che ci tocca, che non possiamo attribui­re alla suggestione; cosa che tuttavia conosciamo e per la quale diamo segnali e avvisi perché nessuno faccia della propria esperienza e della sua propria e sola coscienza metro e misura della realtà di Dio manifestata in Cristo, che è sem­pre più grande. Più che un eroe alla ricerca di se stesso, il mistico finisce con l’essere sempre una sposa che riceve: il simbolo dell’umanità è una donna.

Assieme alla passività si colloca tutta la simbolica della veemenza e dell’ir­ruzione, della rapidità e della fugacità della visitazione mistica: i bagliori, le saette e i dardi infiammati, i raggi e i lampi di luce, le braci e i cauteri, tutti sim­boli che dicono che Dio è un fuoco che consuma (FB 2, 4). Queste irruzioni

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del divino assumono la figura delle forze più verticali e fulminee della natura: fuochi, fiam m e e vampate, venti tempestosi, istinto feroce degli animali: orsa, cer­va, aquila... (CB 20-21). Qui parlano anche i simboli della visitazione, del terro­re, del silenzio e abissi di dolore, di assenze e apparente indifferenza.

I simboli della trascendenza

Il silenzio che parla, l’abisso vertiginoso (l’abbraccio abissale), la nube (lo Pseudo-Dionigi e la Nube del non sapere), la notte, la divina oscurità che avvolge il mistero in segreto, il raggio di tenebra, tutti sono simboli in cui si intravede la trascendenza del mistero. Tra questi il nulla è stato privilegiato dalla tradi­zione (l’Aeropagita, Eckhart, Ruysbroec, Angelo Silesio, Giovanni della Cro­ce). Ma il nulla è veramente un simbolo? Oppure è solo un modo enfatico di parlare della distanza tra la santità di Dio e il peccato dell’uomo? Per mancan­za di un riferimento sensibile-concreto, sembra essere privo di uno dei com­ponenti obbligati in ogni processo di simbolizzazione: la forma concreta. Sem­bra un oggetto non simbolico, un quasi-concetto mistico in cui il simbolo non trova posto. Gli manca il concreto visibile, ma, d’altra parte, nei contesti misti­ci un uso rigoroso e strettamente filosofico del termine conduce a veri e pro­pri vicoli ciechi. È più pertinente l’interpretazione simbolica del termine, come figura senza figura della distanza tra il Creatore e la creatura. È meglio leggerlo come un mezzo atto a porre in salvo l’affermazione-negazione che il mistico desidera stabilire. Sarebbe come il primo passo che fa uscendo dal- l’apofatismo. Per aver trattato il nulla mistico come un concetto filosofico, e non come un simbolo con pluralità di significati e di livello di sensi, molte interpretazioni hanno ecceduto o sono rimaste insufficienti nella comprensio­ne di un punto essenziale del misticismo cristiano.

La simbolica dell’assenza

Altro complesso di simboli che si presentano abbondantemente con tutte le loro varianti e le loro costellazioni è quello dell’assenza. Il vuoto, la nudità, il deserto e l’esilio, il distacco e la dimenticanza, l’abbandono e la melanconia, il silenzio, la clausura e la solitudine, l’assenza amorosa, e infine l’oscurità, sono le figure e le forme con cui si rende presente la trascendenza di Dio e l’inadegua­tezza dei poteri e delle facoltà dell’uomo per l’unione con lui. La notte-tenebra

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è il simbolo più elaborato ed entra anche in questo periodo. Tutta la dinami­ca simbolica della luce e dell'oscurità, della purgazione e della notte, del cammi­no e dei suoi pericoli, del nascondersi e del mostrarsi viene a risolversi nel sim­bolismo dell "assenza dello Sposo e delle sue conseguenze: ferite, piaghe di amo­re, fatiche di cervi e servi, struggimenti di innamorati, sete, freddo e altre carenze del corpo. Desideri e molteplici necessità che parlano dell'unico desiderio e del­l'unica necessità, ansie che occultano e rivelano l’unica vera preoccupazione: la presenza-assenza dell’Amato, già rivelato, ma, allo stesso tempo, futuro. Tut­ti i simboli, in teologia cattolica, mirano sempre ad un senso che è escatologi­co: solo nell’aldilà promesso hanno senso e solo lì se ne chiarifica il significa­to preciso.

I simboli dell’incontro

Una costellazione di simboli biblici presiede a tutta la tradizione spiritua­le: l’epitalamo del Cantico dei Cantici. Questo fornisce sufficiente materiale simbolico per tutte le peripezie del progresso spirituale. Ma il Cantico non for­nisce solo le immagini, più propriamente fornisce alla mistica la chiave di com­prensione dell’alleanza come unione mistica. Se il libro svolge già un ruolo chia­ve per la comprensione di tutta la storia di Israele, il simbolo nuziale si affer­ma in tutta la tradizione in quanto espressione della relazione dell'anima con Cristo, figura oggettiva dell'amore di Dio, nella cui attività simbolica si dà l’epifania sensibile che cerca il vissuto dell’incontro mistico.

I gesti del corpo, i simboli di comunicazione, le braccia e gli abbracci, i baci, il volto e lo sguardo, la gioia e il gioco, tutti i gesti dell’amore: la comunicazione matrimoniale, le carezze, la consumazione del matrimonio, la verginità, la solitu­dine intesa come intimità, il segreto e il silenzio del talamo segnalano il punto di arrivo del processo mistico. Il Cantico biblico ha dato accesso e libertà a queste esplorazioni, predisponendo, inoltre, tutto l’armamentario di immagi­ni per le variazioni con cui la storia e le culture arricchiscono continuamente il simbolismo nuziale. Tra i gesti, lo sguardo (occhi, guardare) e il segreto (tala­mo, hortus conclusus, nido, cella vinaria, grotta, camera nuziale, caverne) sono quelli privilegiati. Tutta la simbolica dell’intimità, del mondo inteso come orto, paradiso e giardino chiuso, come palazzo abitato, ci narra una storia di amore, ci indica che stiamo davanti ad una mistica radicalmente dialogica: non culmina nella mera trasformazione, né nella fusione o dissoluzione, ma nel­l’incontro.

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Il gesto primordiale rappresentato dalla veste coopera all’arricchimento di queste prospettive con tutte le sue varianti. Velo (di vergine e di sposa), vestito da guerra (armi spirituali), veste.nel senso di travestimento e divisa (vita teolo­gale) e veste come abbellimento e ornamento, i colori, ecc. Veste sacerdotale è la nudità di Cristo in croce. Non c’è nulla di funzionale, né di insegna e presti­gio nel suo porsi. Il suo sacerdozio si esercita senza insegne. Così il simbolo mistico della nudità. La nudità è veste di unione: se cambiare o ricevere una veste (manto, cappa, abito) significa un’altra vita e un altro ruolo, un’altra esi­stenza sociale, la nudità esistenziale o lo spogliamento progressivo indicano la disposizione disarmata dell’intenzione alla grazia, proclama il desiderio asso­luto di libertà, simboleggiato dal denudarsi e dal mettersi a piedi nudi.

Il corpo mistico è corpo di donna e i gesti erotici sono quelli privilegiati dal­la simbolica mistica. Svolgono un ruolo determinante i baci e gli abbracci, sim­boli del contatto e della fusione reciproca di coscienze, e si apprezza nei testi un progresso nella dinamica dell’incontro trascendente, simboleggiato dal matrimonio come culmine e dai primi sguardi e visite. Gli appuntamenti da soli, gli slanci d’amore, le avventure notturne, il fuoco e l’ardore, le piaghe innanzitut­to e i loro gradi di pene d’amore, tutte le creazioni metaforiche e rituali del­l’amore cortese, della letteratura amatoria degli «orfani» del Petrarca e di tu t­te le epoche, cooperano all’arricchimento e permanenza di questo simbolo perenne della relazione Dio-uomo. Per Teresina sarà determinante la forma romantica degli usi amorosi.

Anche le altre forme dell’amore umano: amicale, paterno, materno, filiale, fraterno, ecc. cooperano allo stesso modo a tendere la lira mistica e a tessere la tram a dell’epopea amorosa dell’inizio, del cammino e della vetta dell’amo­re religioso.

Unita indissolubilmente all’amore sponsale, appare tutta la simbolica del­la festa e del gioco; costellazione composta da molte immagini associate nei cicli simbolici come il vino e l’ebbrezza, il gioco e il diletto, la quiete e il riposo, gli aromi e i fiori, le danze e le canzoni, ecc. La pienezza di tutti i sensi, la coabita­zione, le forme più pure della comunicazione, le nozze, i banchetti, i fiori e i frutti cooperano a creare il potere simbolico capace di parlare della pienezza dell’esperienza teologale ed estetica. Esperienza che è dialogica.

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I protagonisti

I simboli dell’identità _

Insieme alla creazione di una simbolica propria per parlare del cammino mistico, simbolica di base che genera un dialetto mistico entro la lingua eccle­siale, la tradizione ha mostrato preferenza per alcuni simboli dell’identità. Sono le metafore ricorrenti per parlare dei protagonisti del processo religioso di unione teologale. Come chiama se stesso colui che parla? Che cosa conosce e che cosa dice di sé e del suo corrispondente? Come si descrive la genealogia dell’io mistico, del soggetto che si avventura e di questa voce che udiamo par­lare e tacere, soffrire e godere? I simboli raccontano la sua storia e parlano di un soggetto che è sposa, amata, nave, casa che riposa, mansione o palazzo, orto, pellegrino, eroe errante, avventuriero, viandante. I simboli di capacità: seni, caver­ne, vasi, ricettacoli del dato operano come determinante primario di questa identità. I simboli aperti: spirito, sposa, pellegrino errante, volto e ferita, pietra in caduta fino al suo centro funzionano come indicatori del suo atteggiamento esistenziale di fondo. Poiché è amato, si intende, si conosce, si chiama e si iden­tifica nella risposta. Il suo io nasce dalla voce anteriore dell’amore di Colui che si ricorda di lei. L’identità, sappiamo, è narrativa. I simboli sono il nucleo ger­minale di questa narrazione drammatizzata che punta verso un’avventura di identificazione mediante una trasformazione dialogata o condivisa.34

Chi è il portatore della passione? Quali figure prende il desiderio per pre­sentarsi, mascherato o nudo, davanti a Dio? Un fuoco ardente, una sete, un’an­sia di possesso e di presenza, di visione e di compagnia. Cavità che deve svuo­tarsi e desiderio che deve purificarsi con la negazione sono il nome e il cogno­m e del soggetto mistico.

La fonte di forme e i procacciatori di figure dell’io nella tradizione misti­ca non sono solo la zona archetipica dei sogni, dell’incosciente e delle sue pres­sioni e complessi, o le figure affettive primordiali che delimitano la costituzio­ne dell’io, ma anche le formazioni culturali della tradizione biblica, i tipi por­tatori di esperienze simili in cui i nostri mistici trovano soddisfazione al loro

34 II dialetto teresiano preferisce qui parlare di diamante, castello, mansione e locanda, giardino, paradiso, albe­ro piantato lungo la corrente, orto da coltivare, pozzo, vaso, specchio e cristallo disposto alla transverberazione di una luce elevata... Giovanni della Croce tesse la trama dei suoi racconti con una protagonista che si chiama Amata (Sposa, Pastora errante, Cerva assetata, Tortorella desiderosa, ecc.), la stessa che nella Notte si chiama Abbandona­ta, Dimenticata, Lasciata, Addolorata, ecc. E, in seguito, Sposata, Favorita, Prediletta, ecc.

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anelo: Giobbe e altri profeti sventurati, la Sposa del Cantico, il Salmista, la Maddalena, tutti coloro che con i loro incontri con il Mistero incarnato hanno dato carne e figura, hanno reso possibile il nostro dire, sentire e simbolizzare il divino: poiché il Verbo si è fatto carne, amore, tempo, passione e dolore.

Questo è il cammino dei simboli, segni fino all’apparizione della gloria e della grazia. Non la- producono, né la rappresentano: questo rimane per il sacramento, la produzione è segnata dalla Pasqua ed è di carattere escatologi­co e sacramentale, i simboli come le immagini le danno spazio e forma per esprimersi, per rivelare a ciascuno il suo nuovo e occulto nome. Il simbolo mistico è storico ed escatologico.

Altri simboli dell’identità parlano del valore e della bellezza che sperimen­tano e conoscono in sé stessi quelli che parlano, ci raccontano una storia di dignità, e segnalano un cammino per valorizzala e farla giungere al suo desti­no: anello, gioia, diamante, gioia preziosa, perla orientale... tutti i tesori sono per l’amore condiviso con l’Altro e gli altri.

Figure dell’anima

La geometria dell’anima e l’anatomia dell’io che questi mistici sono soliti utilizzare parlano di fondo e superficie, centro e periferia, alto e basso, struttura­no sette mansioni, tracciano cartografìe di città e sobborghi, conoscono botteghe e soglie, sottani e soffitte. A volte, l’anima si riduce a cuore. C’è inoltre una vera e propria architettura dell’uomo che aderisce alla sua proposta, che non è solo descrittiva, ma coinvolge in un continuo progresso di identificazione per la relazione: nella realizzazione umana si avanza per amicizia teologale. I simbo­li non descrivono, indicano. Hanno valore non decorativo, ma etico ed esteti­co; educano al sentimento e alla percezione: esigono impegno.

In questa mappa dell’uomo nuovo c’è un punto speciale: l’apice o il centro dell’anima, 1 ’apex mentis, la scintilla, rifondo del pozzo.

Figure del divino

Anche sull’altro polo della relazione (Dio) opera la simbologia. Con essa si dà nome e figura, mediante realtà concrete del mondo visibile, all’oggetto della ricerca mistica. Nella tradizione mistica c’è già, in questo substrato pri­mordiale del coacervo simbolico della trascendenza, una traccia della Trinità:

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il Padre assume figure tradizionali: il monte, la fonte, il sole, la luce-notte, il mare, il centro, la ruota a tre raggi, la calamita, la madre amorosa. Le figure affettive sono riferite di preferenza a Cristo o sorgono nel contatto con esperienze del­l'Umanità del Signore: sono quelle bibliche e tradizionali e non suppongono una creazione simbolica vera e propria, ma solo l'insistenza nelle preferenze, espressione parlata di una determinata patetica ed estetica cristologica di que­sta tradizione: Gesù è il Cuore e lo Sposo e, come nel Cantico e nelle parabo­le, il re, il signore, l’amato, il cervo, il compagno, fratello e amico. L’amato nel cui corpo si concretizza l'amore concreto. Passiamo qui dal simbolo al sacramen­to, oggetto simultaneo del desiderio e della fede. Al contrario l’acqua viva o di torrente, l’aria intima (il fiato) o impetuosa e feconda e il fuoco in tutte le sue versioni (fiamma verticale, cauterio salutare, lume risplendente, ombra miseri­cordiosa...), gli aromi, gli unguenti e il vino inebriante mascherano e rivelano l'ombra dello Spirito Santo.

Conclusione

La simbolica mistica è uno dei mezzi a nostra disposizione per parlare di Dio. Il linguaggio primario sul mistero cristiano - canti, grida, preghiere, con­fessioni - trova nel simbolo lo stimolo coessenziale per la sua comunicazione. Il linguaggio secondario usa il concetto e la analogia entis. La simbolica per questo viene ad essere il dizionario primario che interpreta il libro della natu­ra mediante il libro della Scrittura. È lo spirito mediante la lettera. Un campo intermedio tra entrambi i libri. Allora «il nostro intelletto, per acuto che sia, non arriverà mai a comprenderla [la bellezza e la capacità dell'anima], come non potrà mai comprendere Dio».35

Il mondo confuso e caotico, le emozioni e i sentimenti della coscienza umana, innumerevoli e sfumati come i colori del bosco d'autunno, la presen­za-assenza del Mistero sono esperienze trascendentali che hanno bisogno del simbolo per ordinarsi e apparire alla coscienza. Mediante i simboli che i mistici creano e pongono in circolazione, tutti noi abbiamo la possibilità di accedere alla nostra personale esperienza, ricreandola.

Tutti facciamo la nostra personale rilettura dei simboli all’interno della tradizione mistica. Tuttavia non solo la simbolica mistica ha questo valore interpretativo, ma è anche costantemente aperta a nuove e continue interpreta­

35 Santa Teresa di Gesù, 1 M 1 , 1 .

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zioni. «Credo che sia meglio [...] lasciarli nella loro ampiezza, affinché ciascu­no ne approfitti a modo suo e a misura del suo spirito».36 Con essi, a ciascuno si aprono nuove esperienze che, altrimenti, rimarrebbero cieche ed enigmati­che, caotiche, impossibili. A ciascuno rivelano la sua grazia.

Vi è in essi, oltre a questo potere rivelatore, esploratore ed «euristico» secon­do le parole di P. Ricoeur, un valore integratore degli elementi umano-divini. Non è possibile vivere l’amore sponsale senza scoprire il valore trascendente, divino, religioso e sacramentale dell’amore; e, viceversa, non c’è esperienza mistica che possa prescindere dal grande segno (sacramentum magnimi) del­l’amore umano. Integrare i livelli di lettura della tradizione mistica significa fare giustizia alla presentazione simbolica in cui ci offrono il contenuto della grazia mistica. In essi si condensano i diversi livelli e chiavi dell’esperienza totale del mondo, della coscienza e della grazia.

La simbolica mistica è un grande insieme di potere orientativo e sanante, che offre a chi si pone in contatto con essa un universo di senso, alcuni model­li di identificazione e alcune piste di sviluppo della propria identità. La forza di trasformazione non sta nei simboli, m a nelle realtà e queste, nell’economia di grazia, vengono comunicate dai sacramenti; m a l’esperienza di queste real­tà cristiane (l’unione con Dio) è accessibile solamente all’intelletto ed esse, solo se in forma e figura di simboli, riescono a muovere le emozioni, acquista­no la forza necessaria alla trasformazione dell’energia passionale. La propedeu­tica o la pedagogia spirituale non potrà prescindere dai simboli. E non c’è mistagogica possibile senza simboli, miti e riti.

Il sistema simbolico, offerto dalla tradizione mistica, fonda una comunità di senso in cui l’uom o contemporaneo può comunicarsi in maniera intima ed esaustiva, proprio come necessita tutta la persona. Là può trovare un mondo di riferimenti sicuri, provati e profondi in cui riconoscersi, entrare in comunio­ne e realizzarsi come credente e cristiano. Un mondo di riferimenti, dove le realtà mondane recuperano il loro senso simbolico e sacramentale, si aprono a sensi nuovi e recuperano il loro valore di mediazioni.

Perché questo accada, c’è bisogno innanzitutto che la comunità di simboli mistici possa riorganizzare il suo spazio simbolico vitale dove gli individui si inizino all’esperienza dell’illimitato, si lascino trasportare dal potere del sim­bolo fino alle domande inesprimibili, fino alla presenza-assenza di chi ci fon­da in m odo radicale. Per questo, per la personalizzazione dei membri di que­

36 San Giovanni deila Croce, CB, prol. 2.

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sta comunità, oltre all’insieme simboli-parola, si rende necessario il comple­m ento ineludibile di simboli-azione e di simboli-istituzione, di simboli-amosfe- ra, o complessi coinvolgenti che educhino la sensibilità, che fomentino le espe­rienze estetiche (contemplative), che fondino un pensiero sacramentale o sim­bolico, che perm ettano i linguaggi in cui esprimere, già da ora, la prossimità di Dio presentito nelle immagini.

Il senso e contenuto proprio dei simboli mistici, essendo cristiani, è esca­tologico, vale a dire che il loro contenuto non si dà mai a conoscere qui del tu t­to: i simboli perm ettono di mantenere viva la domanda su che cosa giungere­m o ad essere; i simboli perm ettono di anticipare un qualche riflesso della glo­ria. La poesia e la simbolica mistica nel loro complesso hanno questo potere: rendere visibile un barlume di ciò che sta per venire, di quanto ci aspetta. In loro si contiene sempre una profezia dell’avvenire dell’uomo. Conservano risonanze in alcun modo morte, ma che devono tornare a vivere con una pedagogia appropriata, con una paideia mistica adeguata al m om ento presen­te che comprenda tutti gli aspetti della vita religiosa: pensiero, azione, em o­zione e comunione. Non mancano di certo dei modelli eccellenti.

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Esperienza e teologia nella storia della mistica cristianaTeresa di Gesù, donna e mistica, di fronte alla teologia e ai teologi1

Otger Steggink

Una donna e mìstica: Dottore della Chiesa!

La proclamazione di Teresa di Gesù come Dottore della Chiesa, il giorno 27 settembre del 1970, fu un evento esaltato nella linea del movimento di emancipazione della donna, come se si fosse cercato di conseguire la sua equi­parazione sociale con l’uomo.

Tale visione anacronistica del dottorato teresiano corre il rischio di sfigu­rare la personalità della Santa, come se ella, alla sua epoca, fosse stata un’espo­nente della «protesta virile», caratteristica - secondo Alfred Adler - della don­na ̂scontenta del proprio sesso e che aspira a rimpiazzare l’uom o in tutti i set­tori della vita pubblica e sociale. Tale orientamento da femminismo militante non solo altererebbe la personalità storica della madre Teresa di Gesù, ma toglierebbe anche a tale dottorato il suo senso vero e proprio, vale a dire quel­lo di «donna e mistica». Santa Teresa non è né una femminista, né un’antifem­minista - dichiara Pierre Blanchard - e «non interviene - e quanto è lontana da questa pretesa! - nell’emancipazione e nella promozione della donna» ver­so quello stile femminista contemporaneo tanto esaltato.2

Senza dubbio, la proclamazione di una donna come Dottore della Chiesa è un gesto innovatore, in quanto significa la rottura radicale dell’argomenta­zione che «le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso par­lare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono impara­

1 Per le citazioni delle opere di santa Teresa e san Giovanni della Croce sono usate le seguenti abbreviazioni convenzionali nelle versioni italiane: santa Teresa di Gesù V = Vita; R = Relazioni spirituali; CE / CV = Cammino di perfezione nell'edizione rispettivamente dell’Escoriai e di Valladolid; M ~ Castello interiore o Mansioni; P = Pensieri sul­l'amore di Dio; E = Esclamazioni delVanima a Dio; F = Fondazioni. San Giovanni della Croce: FB = Fiamma d’amor viva B [n.d.T.].

2 Si veda il prologo al libro di Dominique Deneuville, Santa Teresay la mujer, Editorial Herder, Barcellona 1966,p. 10 .

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re qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea» (ICor 14, 34-35).

Teresa di Gesù, al contrario, era «una donna che non taceva nefla Chie­sa».3

Il suo magistero femminile può essere illustrato con i molteplici aspetti dell’irradiazione della sua personalità spirituale, come: la sua attività riforma­trice e fondatrice, la sua lotta in favore della libertà religiosa delle donne con­templative, la sua opera mistagogica nella direzione spirituale delle sue mona­che e dei frati scalzi, e persino dei teologi suoi direttori spirituali.

Non deve meravigliare, quindi, che tanto per il suo magistero mistagogi- co, quanto per il carattere squisitamente femminile dello stesso, i suoi contat­ti e le relazioni intime con i teologi siano un termine di paragone estremamen­te illustrativo e, più in particolare, la sua presa di posizione nel conflitto tra i cosiddetti «intellettualisti e mistici» o, parlando come Teresa di Gesù, tra i «dotti» (letrados) e gli «spirituali» (espirituales) o «esperti» (experimentados).4

«Intellettualisti e mistici»

Mentre per i grandi teologi dell’apogeo della teologia scolastica (Tomma­so d’Aquino e Bonaventura), teologia e mistica erano indissolubilmente unite nella vita concreta, dalla fine del secolo XIV5 6 cominciò a profilarsi un divor­zio, tra la mistica, intesa come esperienza della fede, e la teologia, intesa come scienza della stessa. Sotto l’influenza di un’applicazione rigorosa della dialetti­ca nel pensare teologico, si era originato un processo di alienazione tra la teo­logia e la mistica. La teologia scolastica intellettualista e cavillosa dirottava la riflessione dalla Sacra Pagina, il «libro dell’esperienza» (san Bernardo da Chia- ravalle), rivolgendola piuttosto verso le elucubrazioni del nominalismo con­

3 Cfr. Otger Steggink, Een vrouw die niet zweeg in de Kerk: Teresa van Avila, vrouw, mystica en Kerklerares, in: Tus- sen hemel en aarde; naar nieuwe vormen van spiritualiteit. Frans Haarsma (Red.) Baarn, «Annalen van Thijmgenoot- schap», 76 (1988), afl. 2, pp. 54-59.

4 Si veda ad esempio: V 12,4: «Questo mi fa desiderare molto che molti dotti [letrados] siano spirituali»; V 13,14: «È molto necessario che il maestro abbia esperienza, perché altrimenti può fare grandi errori»; 2M 1,10: «Giova mol­to trattare con persone esperte»; cfr. anche: E. Colunga op, Intelectualistas y misticos en la teologia espanda del siglo XVI, in «Ciencia Tomista», 9 (1914), pp. 209-221; pp. 377-394; 10 (1915), pp. 223-242.

5 Così: Henri de Lubac, Exégèse médiévale. Les quatte sens de VÉcriture, I, Paris 1959, pp. 585-586.6 Francois Vandenbroucke osb, Le divorce entre théologie et mystique, in «Nouvelle Revue Théologique», 72 (1950),

pp. 372-389; Otger Steggink, O.Carm. Antimisticismo, in Dizionario di mistica, Libreria Editrice Vaticana, 1998, pp. 115- 122 .

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cettualista: cioè verso le quaestiones e quaestionunculas, le disputationes e quodli- beta e i commentari alle Sentenze. Fino a che punto fosse arrivata questa alie­nazione si può constatare a partire dagli accenti antiscientifici e antiscolastici che ritroviamo negli scrittori spirituali del XIV-XV secolo. L’autore dell’Imita­zione di Cristo, ad esempio, si sente obbligato a mettere in guardia i suoi letto­ri contro i pericoli che la scienza teologica del suo tempo comporta per la vita dell’anima: «Che vantaggio ci viene dalla curiosità di sapere cose oscure e occulte, se non sapendole non saremo ripresi nel giorno del giudizio?... Qua­le vantaggio ci viene dai generi e dalle specie dei logici?...».7

L’alienazione tra la teologia intellettualista e la spiritualità affettiva si manifestava in modo palpabile nel volontarismo pratico caratteristico del­l’orientamento ascetico e antispeculativo della Devotio Moderna. La rottura tra la scienza teologica e la vita spirituale nell’«autunno del Medioevo» deve esse­re considerata come «il grande scisma del XV secolo».8

Il Gran Cancelliere dell’Università di Parigi, Jean de Gerson (1363-1429), marcava la rottura tra la teologia e la mistica distinguendo tra mystica theobgia speculativa e mystica theologia practica. Detta distinzione comportava come conse­guenza che la letteratura religiosa perdeva il contatto con la teologia, mentre la teologia scolastica, per mancanza di contatto con l’esperienza di Dio, si conver­tiva in dialettica. Il certosino Vincenzo da Aggsbach nel suo trattato De mystica theologia (1451-1459) confermava ciò che il punto di vista di Jean de Gerson ave­va dimostrato, vale a dire che la teologia mistica e quella scolastica avevano a che fare l’una con l’altra, tanto quanto l’arte della pittura con il lavoro di uno zappa­tore.9

Quello che nel XV secolo arrivò ad essere una rottura, si svilupperà nel secolo seguente in antagonismo. Davanti alla situazione tragica di una cristia­nità divisa dalla riforma protestante, la teologia si eresse a difesa dell’ortodos­sia contro l’esperienza soggettiva di protestanti e «spirituali». Così, a metà del secolo XVI, nella Spagna del «Re cattolico» sorse il conflitto tra «intellettuali­sti e mistici».10

7 De Imitatione Christi, lib. I, cap. 3.8 Si veda Stephanus Axters op, Geschiedenis van de vroomheid in de Nederlanden, III. De Moderne Devotie, 1380-

1550, Antwerpen, 1956, p. 11.9 Cfr. E. Vansteenberghe, Autour de la docte ignorance; une controverse sur la theologie mystique au XVe siècle (Bei-

trage zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, t. XJV, fase. 2-4), Munster i. W , 1915, p. 192.10 Si vedano gli articoli del padre E. Colunga op citati in precedenza: nota 3; cfr. Meìquiades Andrés, Historia

de la mistica de la Edad de Oro en Espana y América, B.A.C., Madrid 1994, cap. X: La crisis (1525-156Q)\ id., Alumbrados, erasmistas, luteranos y misticos y su comun denominador: el riesgo de una espiritualidad mas intimista, in: A. Alcalà, Inqui- sición espanola y mentalidad inquisitorial, Barcelona 1984, pp. 373-409.

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Tale antagonismo tra uomini e donne «spirituali», da una parte, e i teolo­gi della scuola, loro censori, dall’altra, creò una profonda breccia nell’ambien­te teologico-spirituale del Secolo d’Oro spagnolo; una separazione fatale tra esperienza e dottrina mistica - «credo la chiamino mistica teologia», scrive Tere­sa di Gesù11 - e la teologia della scuola, quella dei volumi di maestri e profes­sori cattedratici, che, nella loro funzione di qualificatori del Supremo Tribu­nale dell’Inquisizione, erano diffidenti nei riguardi della vita mistica degli «spi­rituali», denunciandone le pratiche e gli scritti.12

«Tempi tristi»

Teresa di Gesù viveva sulla sua propria carne questi sconvolgimenti della sua epoca, concretizzatisi in processi e censure inquisitoriali molto clamorose. Le donne visionarie solevano costituire dei poli di attrazione, come oracoli capaci di abbagliare persino uomini im portanti.13 La più famosa fu Maddale­na della Croce, di Cordova. I predicatori ne facevano l’encomio perfino dal pulpito, e lo stesso Inquisitore generale, Alonso Manrique, la onorava con aperta venerazione. Alla fine si venne a scoprire l’impostura e, il 1° gennaio 1544, Maddalena della Croce fu incarcerata nel Sant’Uffizio di Cordova. La si dichiarò véhementer suspecta di eresia e la si condannò a fare pubblica abiura de vehementi, la qual cosa avvenne il 3 maggio 1546.14 Santa Teresa ricordava la cosa con terrore: «Siccome in quei tempi si erano scoperte delle donne che il demonio aveva ingannato con delle grandi illusioni, cominciai a temere».15 Non mancò un «uomo di autorità e predicatore» che «disse molto male di lei, comparandola a Maddalena della Croce, di Cordova».16

Il ricordo terribile delle «donne visionarie», vittim e dell’illusione o dell’«inganno del diavolo», è presente nel suo spirito e nei suoi scritti. Riferen­

11 V 10, 1; cfr. ibid. 11, 5; 12, 5; 18, 2.12 Historia de los Heterodoxos espanoles, lib. V, cap. 1: Sectas Misticas, Edición de la B.A.C., t. II, Madrid 1956,

pp. 187-188; cfr. Otger Steggink O.Carm., De mystieke school vati de Karmel: in het spoor van Teresa vanJezus enJohannes van het Kruis, in Encyclopedie van de mystiek. Fundamenten, tradities, perspectieven. Uitgeverij Kok-Kampen/Lannoo- Tielt, 2003, pp. 640-646.

13 R. Garda Villoslada, Loyola y Erasmo, Madrid 1965, cap. 3, pp. 91 ss.; M. Bataillon, Erasmo y Espana. Estudios sobre la historia espiritual del siglo XVI, Fondo de cultura econòmica, México/Buenos Aires 1950, pp. 61ss.

14 M. Menéndez Pelayo, op. cit., lib. V, cap. 1, pp. 176-177 (vedasi nota 12).15 V 23, 2; Francisco de Ribera sj, Vida de la Madre Teresa de Jesus, Salamanca 1590, lib. I, cap. 9, p. 75; cfr. V 23, 2.16 Domingo Bànez op, Proceso de Salamanca de 1592, in Procesos de Beatificación de Santa Teresa de Jesus, 1 .1, Bur-

gos, 1935 (Biblioteca Mistica Carmelitana, 18), p. 11.

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dosi alle proprie esperienze di «rapimento di spirito» esprime lo stesso timore: «Vi temetti subito un illusione; [...] pure non sapevo che cosa fare per la ver­gogna che sentivo di manifestarmi al confessore. E questo non già per umiltà, mi pare, ma per paura che mi burlasse. Finalmente, malgrado ogni ripugnan­za, andai dal confessore, al quale non osavo nascondere nulla, neppure di ciò che più mi costava, per la grande paura che avevo di essere ingannata».17

Teresa di Gesù tremava all’idea che si burlassero di lei e che considerasse­ro le sue visioni e rapimenti come «cose da donnicciole, che lei aveva sempre odiato ascoltare».18

Lei stessa riporta questo ambiente di sospetto contro le donne contempla­tive in modo suggestivo, riferendo le parole di cautela sussurrate alle sue orec­chie da confessori e amici timorosi. Si diceva: «ci sono pericoli», «la tale per questa strada si è perduta», «un’altra persona si è ingannata», «quell’altra che pregava è caduta», «fanno torto alla virtù», «ciò non è cosa per donne che pos­sono essere soggette alle illusioni», «sarà meglio che se ne stiano a filare», «sono cose troppo delicate per loro», «basta il Pater noster e XAve Maria».19

Un gesuita spagnolo, contemporaneo della madre Teresa di Gesù, descri­ve così la situazione: «Siamo in tempi in cui si predica che le donne si dedichi­no alla loro rocca e al loro rosario e non si curino più di devozioni».20 E il cele­bre teologo salmanticense, Melchor Cano, nella sua Censura del Catechismo de Bartolomé Carranza, arrivava al punto da voler proibire alle donne la lettura della Sacra Scrittura: «Per quanto, con appetito insaziabile, reclamino di man­giare questo frutto [la lettura della Sacra Scrittura] è necessario vietarlo con ogni forza, perché il popolo non vi giunga».21 Gli alumbrados avevano semina­to terrore perfino tra i «dotti». In una lettera del 17 febbraio 1555, scritta dal padre Antonio de Córdoba a sant’Ignazio di Loyola, si dice che fra Domenico da Soto, altro teologo domenicano, che «se non aveva avanti il Vangelo non sapeva pensare a Dio, siccome era invisibile, non riusciva a capire che cosa

17 V 38, 1. Qui fa allusione alla seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi 12, 2 e 4, in cui l'Apostolo parla delle grazie mistiche che ricevette dal Signore e delle miserie con cui il Signore ha voluto compensarle perché non gli fos­sero occasione di orgoglio. Allude anche alle lettere di san Girolamo che le infondevano coraggio in altre occasioni, quando si trovava in situazioni tali da non sapere che cosa fare (vedi V 3, 7 e 11, 11). Ha potuto leggerle in volgare; nel monastero di san Giuseppe in Avila, si conserva un esemplare dell'edizione del 1520, realizzata da Juan de Moli­na: Las Epistolas de San Jerónimo con una narración de la guerra de las germanias, Valencia 1520. Cfr. Victor G. de la Con­cila, El arte literarìo de Santa Teresa, Editorial Ariel, 1978, pp. 54-55.

18 R 53, 6.19 CE 35, 2.20 Monumenta historica Societas Iesu, Epistolae quadrimestres, t. 6, Madrid 1896, p. 354.21 Vedi: A. Caballero, Conquenses ilustres, II, Madrid 1871, p. 597.

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potessero pensare alcuni inginocchiati due ore davanti all’altare, e che lui non riusciva a farlo».22 Come il suo confratello, Melchor Cano, fra Domenico da Soto si è convertito ad un tutiorismo esagerato. Nel m om ento in cui la rifor­ma protestante si affermava in Europa, questi teologi disillusi reagivano col panico; «in questi tempi tanto confusi e oscuri» scrive Domenico da Soto .23 24

«Erano tempi tristi», racconta la madre Teresa di Gesù, e non è strano che esprimesse il terribile sospetto che «potrebbero trovarvi degli appigli per denunziarmi all’Inquisizione».25 E, oltre al fatto di essere donna e mistica, dovette causare ancora maggiore timore l’ascendenza ebrea della madre Tere­sa e di varie sue amiche, candidate all’abito nella nuova fondazione di San Giu­seppe in Avila. La partecipazione dei «cristiani nuovi» al movimento illumini­sta era notevole. «Non è certamente una mera casualità - scrive Marcel Batail- lon - che tutti gli alumbrados di cui conosciamo le origini familiari appartenes­sero a famiglie di cristiani nuovi».26

Naturalmente all’orecchio dei suoi confessori dovette giungere la fama delle grazie che donna Teresa aveva ricevuto nell’orazione, provocando in loro un atteggiamento di somma cautela. «Seppi - annota lei - che gli raccoman­davano [al confessore] di stare molto in guardia sul conto mio per non lasciar­si ingannare dal demonio col credere alle mie parole».27 28

«Non comprendo questi timori: demonio, demonio!»

Esisteva, in quell’epoca, una credulità eccessiva nel potere del demonio. Era come un’ossessione frenetica che dominava i maestri di spirito e tutti colo­ro che si dedicavano alla pratica dell’orazione mentale.29

Il padre Balthasar Alvarez, giovane gesuita, che negli anni t r a i l l5 5 8 e i l 1560 era il confessore di turno della madre Teresa, dovette vedersela con un

22 Monumenta historica Societas lesu, I. cap., 30.23 In una lettera del 23 aprile 1559, citata da Melquiades Andrés, La teologia espanolà en el siglo XVI, II, Madrid

1977, nota 2-3.24 Cfr. Figures choisis de Carmélites, Mangalore 1913, p. 106, e Les Parents de Sainte Thérèse, Thichinopoly, 1914,

p. 75.25 V 33, 5.26 Marcel Bataillon, Erasmo y Espana. Estudios sobre la historia del siglo XVI, Fondo de Cultura Economica, Méxi-

co/Buenos Aires 1950, pp. 180-181.27 V 28, 14.28 Padre Ribadeneira sj, Tratado de la tribulación, II, 17 (Biblioteca de Autores Espanoles LX, 439a).29 Vedi: Melquiades Andrés, La teologia espaiiola en el siglo XVI, II, B.A.C., Madrid 1977, pp. 311-329.

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gruppo di devoti avilesi - «credo fossero cinque o sei»,30 dice lei - uomini di buone intenzioni, tutti impegnati a smascherare il demonio nelle esperienze mistiche delle carmelitane.

Alla fine il confessore, intontito, le disse «che quei tali erano d’accordo nel dichiararmi vittim a del demonio, per cui non dovevo comunicarmi tan­to spesso, ma distrarmi e non stare mai da sola».31 La povera monaca era ter­rorizzata.32

C ’era o rm ai in g iro un g ran chiacchiericcio da co m ari che giunse infine al suo m o n astero e creò un g ran d e scom piglio d escritto da G irolam o di san Giuseppe:

Credendo di perdere onore e reputazione con quello che si diceva tra il popolo sulla loro religiosa, alcune la guardavano con indignazione, altre con disprezzo, giungendo perfino ad apostrofarla con parole molto pesanti: «Ma chi è che met­te donna Teresa in queste trovate? Perché queste esagerazioni e novità, tanta ora­zione e contemplazione, questo andare a nascondersi in ogni soffitta ed angolo della casa?».33

Quello che donna Teresa sperimentava tra il 1558 e il 1559 non erano visioni; erano piuttosto delle sensazioni certam ente provenienti da Dio, «mediante le quali piace al Signore manifestarsi».34 Riceveva inoltre delle comunicazioni, come se le si confidassero delle cose; senza udire parole, le si parlava dentro, e queste cose rimanevano incise nell’anima; essa confiderà al riguardo: «i nostri sforzi in contrario non riuscirebbero a nulla».35 Inoltre avverte: «Quando mi proibirono l’orazione, mi parve che [il Signore] si mostrasse disgustato, e mi disse di far loro sapere che era una tirannia. Mi sug­geriva poi delle ragioni per farmi capire che non era opera del demonio».36

Nel 1559, il panico dovuto all’infiltrazione protestante si era trasformato in delirio. In Valladolid si celebrarono i primi autodafé. L’Inquisitore generale, don Fernando de Valdés, pubblicò un Indice de libros prohibidos, in cui si inclu­

30 V 25,14; sarebbero Gaspar Daza, Gonzalo de Aranda, Francisco de Salcedo, Hernandàlvarez e Alonso Alva- rez Dàvila.

31 V 25, 4.32 V 23, 13; cfr. Efrén della Madre de Dios ocd - Otger Steggink O.Carm., Tiempo y vida de Santa Teresa, 3a ed.,

B.A.C., Madrid 1996, pp. 166-167.33 Historia del Carmen Descalzo 2, cap. 18, n. 7, pp. 437-438.34 V 27, 4.35 V 25, 1; «Forse perché uno spirito si sente in contatto con un altro» (V 25,10).36 V 29, 6; cfr. Domenico Bànez, in: Informe, B.M.C., t. 2, p. 147.

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devano alcuni dei libri che donna Teresa soleva leggere in volgare. La solitu­dine spirituale si fece spaventosa, in quanto neanche più i libri la potevano con­solare. Allora intese la solita voce: «Non affliggerti, perché io ti darò un libro vivente».37 Alcuni giorni dopo, il 29 giugno, festività dei santi Pietro e Paolo, ebbe per la prima volta una visione: si trattava di una visione intellettuale. In seguito dovette offrirne un resoconto dettagliato al confessore. Concisamente descrive l’animato dialogo che intervenne tra i due: «Mi domandò in che for­ma lo vedevo. Io gli risposi che non lo sapevo, ma che non potevo dubitare che Egli mi fosse vicino perché lo sentivo e vedevo chiaramente [...] Allora il con­fessore mi domandò: “Ha detto di essere Gesù Cristo?”. “Egli me lo dice mol­te volte”, risposi [...]».38 Ed una testimone aggiunge che il confessore «la man­dò via con fare rude, mostrando di non crederle».39

Ma la cosa non finì là ed ebbe una simpatica conclusione:

In seguito, mentre il confessore stava nella sua cella, alzando la testa vide Cristo Nostro Signore [ .. .] Al mattino venne a parlarle dicendole quello che aveva visto. Ella [Teresa] gli disse: «Non ci creda, Padre. Perché Cristo dovrebbe apparire a Vostra Paternità? Non sarà Cristo. Lo guardi meglio». E lui [Balthasar Alvarez] le diede molte ragioni per le quali si capiva che si trattava proprio del Signore. Ma ella rispose: «Bene, Padre. E com e a Vostra Paternità ciò appare sicuro, così lo è anche agli altri che vengono a raccontarle le stesse cose».40

Poco dopo ci fu un’altra novità: le visioni cominciarono ad essere imma­ginarie. Non erano più solo nudi concetti che si comunicavano direttamente allo spirito, ma forme sensibili che percepiva molto bene nell’immaginazione.

Al di sotto di esse sentiva palpitare la vita di Cristo in persona. E spiega: «Qui vi è davvero la differenza che distingue un vivo dal suo ritratto, né più né meno. Se è un’immagine, è un’immagine viva. Non è un m orto che vedo, ma lo stesso Cristo vivente che si fa vedere come Uomo-Dio [,..]».41 Il demo­nio sarebbe capace di produrre a volte queste visioni in apparenza fisica, ma non il suo contenuto vitale; chi qualche volta ha provato queste cose, dirà di scorgere tra le due una differenza grandissima; perché «l’anima cerca di resi­stere, e intanto si altera, si disgusta e inquieta» come se sentisse presente il

37 V 26, 5.38 V 27, 3; cfr. Tiempo y vida de Santa Teresa, pp. 167-168.39 Isabel de Jesùs, Proc. Salamanca 1610, 4°, che l'aveva udito dire direttamente dalla madre Teresa di Gesù.40 Ibid. La dichiarante aggiunge di aver sentito dire dallo stesso Padre confessore che, per mezzo della santa

Madre, aveva ricevuto una grande grazia, e che si trattava proprio di questa.41 V 28, 8.

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nemico.42 Queste ed altre ragioni molto sensate dava donna Teresa ai censori. Pur essendo tanto chiare, producevano in essi effetti contrari. «Non potevo credere - avvertiva - che, se il demonio faceva questo per ingannarmi e por­tarm i all'infermo, lo facesse con un mezzo tanto contrario come era quello di levarmi i vizi e donarmi virtù e forza [.. ,]».43 L'esasperazione dei giudizi diven­tava parossistica, come se la vedessero perduta davanti ai loro occhi e con lei anche il confessore che le credeva. Gli dicevano di guardarsi dalla monaca, di non farsi ingannare dal demonio credendo a tali finzioni; il confessore cerca­va di replicare, ma «siccome il Signore non lo portava per questo cammino» non aveva fiducia in sé e, incapace di persuadere gli amici, si lasciava domina­re da loro.44

Erano timori deliranti; si giunse al punto che la monaca addolorata non riusciva a trovare qualcuno disposto a confessarla; tutti la fuggivano; e lei pian­geva continuamente.45 Le sue parole sono amarissime: «Mio scopo nel dire questo è far comprendere le sofferenze di un'anim a su questo cammino spi­rituale quando non si ha una guida sperimentata. Per conto mio, se Dio non mi avesse aiutata, non so come sarei finita, perché con tante contraddizioni c'era da perdere la testa [,..]».46 Ma quegli uomini si chiudevano sempre più nelle loro posizioni. Erano tanto sicuri che fosse il demonio, che alcuni la volevano esorcizzare.47 Lei, da parte sua, vedeva chiaramente che non la capi­vano;48 si divenne così sospettosi che, siccome le visioni andavano crescendo, uno, con cui soleva confessarsi quando non poteva il padre Balthasar Alva- rez, «cominciò a dire che si trattava chiaramente del demonio e le ordinò che “giacché non v 'era m odo di resistere”, ogni qualvolta avesse queste visioni si segnasse con l'acqua santa e facesse gli scongiuri, “e si convincesse che si trat­tava del demonio''».49 50 51

42 V 28, 10 .43 V 28, 13.44 V 28, 14; cfr. Tiempo y vida de Santa Teresa, p. 169, n. 226.45 V 28, 14.46 V 28, 18.47 V 29, 4.48 V 30, 1.49 Lett. Diese higas. Sebastiàn de Covarrubias descrive la higa così: «È un gesto di disprezzo che facciamo ser­

rando il pugno e mostrando il pollice tra l’indice e il medio; è un’oscenità camuffata. La higa antica era in realtà una riproduzione del membro virile, ottenuta estendendo il dito medio e contraendo contemporaneamente l’indice e il mignolo» (Tesoro de la lengua, p. 689, a, 30). Questo costume, di origine araba, diverrà comune in Spagna.

50 Isabel de Santo Domingo, Proc. Avila 1610, 12°.51 Cfr. Tiempo y vida de Santa Teresa, p. I (Teresa de Ahumada), p. 170, n. 228. Si tratta molto probabilmente di

un Padre gesuita: così fanno pensare le parole della Santa. E il padre Ribera dice apertamente che era «un altro Padre dello stesso collegio» dei gesuiti di Avila (Vida de Santa Teresa, 1, cap. 11).

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La Santa dice che obbediva «a chi era al suo [di Cristo] posto» supplican­do però che Cristo non la incolpasse per questo, «poiché erano i ministri che Egli aveva posto nella sua Chiesa».52

Per quella sottomissione la sua anima fu ricompensata: giorno dopo gior­no aumentavano i suoi impeti d’amore. E tra questi fu celebre la «grazia del dardo»: la famosa visione della Transverberazione.53 54 Conviene respingere innanzitutto l’idea che quella della visione menzionata fosse una ferita fìsica: la realtà principale, la vera grazia del dardo, era di ordine spirituale, mentre l’effetto sul corpo sarebbe indiretto, per la risonanza dell’anima.55 56

In realtà non erano corporei né l’angelo, né il dardo, né il fuoco, né la feri­ta. Erano solo forme visibili con cui l’immaginazione traduceva grazie misti­che ineffabili.57

Poi ci fu un'altra novità, la più pericolosa, i rapimenti, che la staccavano da sé, -la lasciavano rigida e la levavano dal suolo, a volte davanti ad altre perso­ne e in qualsiasi luogo. La poveretta tremava ogni volta che iniziava il rapimen­to; cercava di evitarlo con tutte le forze, ma inutilmente; era, secondo la sua espressione: «come chi combatte con un poderoso gigante».58 Quando torna­va in sé rimaneva smarrita; avrebbe voluto essere inghiottita dalla terra e non essere vista da nessuno.59 60 61

Da fuori si scagliavano contro la monaca visionaria mille giudizi contrad­dittori. La consideravano un’indemoniata. Essa replica serena: «Non posso cre-

52 V 29, 6.53 Vedi: Pierre Adnès, Transverbératìon, in DS 15, pp. 1174-1184, particolarmente pp. 1178-1180: Uexpérience thé­

résienne - La doctrine sanjuaniste; André Derville, Plaie, in DS, p. 1794; A. Cabassut osb, Blessure d’amour, in DS 1, pp. 1724-1729.

54 Cfr. Gabriel de Ste. Madeleine ocd, UÉcole thérésienne et les blessures de Vamour mystique, in Études carmélitai- nes, oct. 1936, pp. 208-242.

55 Essa riconosce di aver sperimentato dolore e gioia corporali: «Vi partecipa un poco anche il corpo, anzi mol­to» (V 29, 13). La somiglianza della descrizione che fra Giovanni della Croce fa della ferita d'amore con la visione avu­ta da Teresa di Gesù è sorprendente. Il Dottore mistico scrive sulle conseguenze dell’esperienza mistica: «A causa della sua unione con lo spirito, da questo bene dell’anima ridonda talvolta nel corpo l’unzione dello Spirito Santo; tut­ta la sostanza sensibile e tutte le membra, le ossa [...] con un gran sentimento di diletto e gloria, che si sente fino alle estreme congiunture dei piedi e delle mani [...] e poiché tutto ciò che si può dire intorno all’argomento è infe­riore alla realtà, perciò basta affermare sii rispetto al corpo che allo spirito che sa di vita eterna» (FB 2, 22; cfr. ibid. 2, 9). Vedi: Otger Steggink O.Carm., Experiencia de Dios y afectividad: jCuàn afectiva es la mistica? Y jCuàn mistica es la afectividad en Teresa deJesus?, in: Actas del Congreso Internacional (Salamanca, 4-7 octubre 1982), voi. II, Salamanca 1984, pp. 1058-1064.

56 R 54, 14.57 Noticias, B.M.C. t. 2 , p. 106.58 V 20, 4.

. 59 V 31, 12.60 V 31, 13; tale «altro monastero» era quello dell’Incarnazione in Valenzia; cfr. Otger Steggink, La reforma del

Carmelo espanol, 2a ed., Avila 1993, pp. 38-39.61 V 31, 14; R 1 , 23.

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dere che il demonio abbia cercato tanti mezzi per guadagnare la mia anima, per poi perderla: non lo ritengo tanto sciocco».62

Si comprende, quindi, perché si mantenesse diffìcilmente calma davanti a quella ossessione psicotica dello spirito maligno. Teresa difende costantemen­te la pratica dell’orazione mentale e delle esperienze mistiche, senza badare ai sospetti: «Non capisco le paure di chi grida: demonio! demonio! mentre potrebbero gridare: Dio! Dio! e riempire l’inferno di spavento [...] per conto mio ho più timore di chi ne ha tanta del demonio che non del demonio stes­so, perché questi non mi può far nulla, m entre quelli, specialmente se confes­sori, gettano l’anima nell’inquietitudine».63

Davanti a tale diffidenza diffusa contro le donne che si dedicavano alla vita di orazione, è naturale che Teresa di Gesù dovette ricorrere a prove.

Affidandosi agli «spirituali»

«[...] Siccome Sua Maestà voleva proprio darmi luce - commenta lei - per­ché non lo offendessi più e conoscessi il molto di cui gli ero debitrice, questo timore crebbe in tale misura, da farmi cercare con diligenza persone spiritua­li con cui trattare».64

Donna Teresa era da due mesi sotto la direzione del giovane gesuita Die­go de Cetina quando «giunse in città il padre Francesco [Borgia]».65

Il padre Cetina vide la manna dal cielo, pensando alla sua penitente, e, insieme a don Francisco de Salcedo, chiese al padre Borgia di scendere all’In­carnazione per parlare con donna Teresa. Fu la ratifica migliore, determinan- ' te, al suo parere: «Quindi, dopo avermi ascoltato, mi disse che era spirito di Dio, e che non dovevo più resistergli; [...] mi raccomandò di cominciar sem­pre l’orazione con un passo della Passione, e di non resistere quando il Signo­re mi elevava lo spirito contro la mia volontà».

«Don Francisco de Salcedo si rallegrò molto di sapermi sotto lo spirito di Dio».66 Fu così il padre Francesco Borgia che la liberò da quello stato di con­fusione e paura.67

62 R 1, 33.63 V 25, 22.64 V 23, 3.65 V 24, 4.66 V 24, 3.67 Cfr. 6M 7, 15; EfrénJ. M. Montalva, Santa Teresa por dentro, Madrid 1973, p. 289; id., Bases btogrdjìcas del dioc-

torado de Santa Teresa, in: Ephemerides Carmeliticae, 2 1 (1970), pp. 21-23.

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Il giorno 11 aprile 1557 tornava di nuovo ad Avila il padre Francesco Bor­gia. Donna Teresa lo consultò sulla questione se nella contemplazione, m en­tre la volontà godeva inebetita, potessero andare sciolte le altre due potenze, l'intelletto e la memoria. Il padre Francesco, che «ne aveva una buona espe­rienza» in quanto era «un grande contemplativo», le disse «che era proprio quanto accadeva a lui».68

Donna Teresa si sentì allora compresa nella sua esperienza dell'orazione di quiete, dichiarandosi finalmente soddisfatta: «È una grande grazia questa, a chi il Signore la fa, perché vita attiva e contemplativa vanno insieme [...] La volontà se ne sta nella sua opera senza sapere come opera e nella sua contem­plazione: le altre due potenze [l’intelletto e la memoria] servono come Marta; così che lei e Maria vanno insieme».69 70

Dal 17 al 25 agosto 1560 giungeva ad Avila un’altra persona spirituale: fra Pietro d’Alcantara. «Fin quasi dall’inizio - dice lei - vidi che mi capiva per espe­rienza, il che era quello che mi occorreva».71 Fra Pietro d’Alcantara le infuse coraggio: «Andate, figlia, che camminate bene; serviamo tutti lo stesso padro­ne».72 E donna Teresa si consolò moltissimo quando fra Pietro le assicurò «che, a parte le verità della fede, non c’era cosa più certa di questa».73 74 75 76

Apparentemente, il passaggio per Avila di Francesco Borgia e di fra Pietro diede inizio ad una fase più tranquilla per la discussa vita spirituale di donna Teresa de Ahumada.77

Tuttavia, chi intimamente si angosciava di più era proprio donna Teresa. Il clima di terrore seminato nel circolo degli «spirituali» dall’intervento drasti­

68 CV 31, 5: «So di una persona a cui spesso il Signore concedeva questa grazia. Non sapendola spiegare, si rivolse a un grande contemplativo e questi le disse che era cosa possibile e che anch'egli vi andava soggetto». Que­sta persona era in realtà la Santa che andò a consultare san Francesco Borgia, come lei stessa annota nel codice di Toledo: «Era il padre Francesco, della Compagnia di Gesù, che era stato Duca di Gandia e aveva una grande espe­rienza». In R 58, 5 si conferma: «Domandai al padre Francesco se questo fosse possibile - cioè che, in questa orazio­ne che chiamano “sonno delle potenze", Maria e Marta vadano insieme - perché mi sembrava un inganno; e mi rispose che era un fenomeno molto frequente».

69 CV 31, 5.70 Cfr. Otger Steggink O.Carm., Quiétude, in Dictionaire de Spiritualità, t. XII (Paris 1986), cols. 2842-2850.71 V 30, 4.72 Testimonianza di Pedro de Castro nel Processo di Segovia, si veda: Fray Andrés de la Encarnación, Memorias

historiales II, Dirección y coordinación: M.aJesusMancho (Junta de Castilla y Leon 1993), Ms 13483, R. n. 117, p. 143.73 V 30, 5.74 V 30, 6.75 V 30, 7.76 V 30, 7.77 Rapporto del padre Domenico Bànez, in Procesos de beatificación y canonización de Santa Teresa de Jesus, ed.

P Silverio de Sta. Teresa, Burgos (3 vols., 1934-1935), voi. 2, p. 149.

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co delTlnquisitore generale Fernando de Valdés nel 1559 contro la cosiddetta «spiritualità affettiva», col quale aveva proibito molti libri spirituali in volgare, la lasciò profondamente turbata; cosicché anche le approvazioni da parte degli «spirituali» le risultavano insufficienti; ella dice «Anche se mi consolò e calmò [l'intervento degli «spirituali»], non gli detti tanto ascolto da liberarmi del tu t­to dai miei timori».78

Infine, resta da dire la cosa più im portante dell’incontro degli «spirituali» con donna Teresa: a causa di questo aperto scambio di esperienze religiose e rifacendosi alla propria esperienza spirituale, Teresa giunge ad accettare nella totalità il suo essere donna, pervenendo ad una profonda confidenza in se stes­sa come «donna e mistica».

Teresa di Gesù: donna e mistica

Ella sapeva che l'esperienza mistica era per lo più un privilegio delle don­ne. «Vi sono molte più [donne] che uomini - così scrive - a cui il Signore fa queste grazie e questo l'ho sentito dal santo fra Pietro d'Alcantara, ma l'ho notato anch'io. Egli diceva che le donne facevano molti progressi in questo cammino, più che gli uomini, e dava per questo delle eccellenti ragioni, tutte in favore delle donne».79

Non sembri strano che la «donna e mistica» Teresa di Gesù rimanesse pro­fondamente scossa dalla misura drastica delTlnquisitore Fernando de Valdés contro gli «spirituali» e mistici, che pubblicò nel 1559 un Indice de libros prohi- bidos.80 81

La reazione della «donna e mistica» Teresa di Gesù fu, al principio, quella di un senso di frustrazione. Ella confessa: «Quando fu proibita la lettura di molti libri in volgare mi dispiacque assai perché alcuni mi ricreavano molto, e non avrei più potuto leggere perché quelli permessi erano in latino». Ma «nel giro di pochissimi giorni» la sua frustrazione scomparve del tutto, udendo nel

78 V 30, 7.79 V 40, 8.80 Cathalogus librorum qui prohibentur mandato illustrissimi et Reverend. D. D. Ferdinandi de Valdes Hispalensis Archie­

piscopi, Inquisitionis Generalis Hispaniae, necnon et Supremi Inquisitionis Senatus, Pinciae, 1559; esiste una riproduzione in facsimile, pubblicata dalla Reai Accademia Espanda: Tres indices expurgatorios de la Inquisición espanola en el siglo XVI, Madrid 1952, pp. 37-51; cfr.: Melchiades Andrés, La teologia espanola en el siglo XVI, t. II, B.A.C., Madrid 1977,

<- pp. 612-636: cap. XXII: El “Indice de libros prohibidos de 1559”.81 Vedi: Melchiades Andrés, op.cit., pp. 627-629, dove l’autore tratta della reazione dei mistici.

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suo intimo la voce del Signore: «Non affliggerti perché io ti darò un libro vivente». Ed aggiunge: «[...] il Signore m ’istruiva con tanta tenerezza e in così varie maniere che quasi non ebbi più bisogno di libri o almeno di poco. Allo­ra per apprendere la verità non ebbi altro libro che Dio. E benedetto quel libro che lascia così bene impresso quello che si deve leggere e praticare da non dimenticarsene più!»82

Tuttavia essa continua a sentirsi ancora emarginata e discriminata come donna e mistica. L'offende l'esclusione radicale della donna dai compiti eccle­siali; e, soprattutto, le dà fastidio la prevenzione rigida di teologi e inquisitori contro le donne contemplative.83 84 85

Anche se la sua posizione di donna e la sua opzione cosciente per la vita contemplativa, all’interno del contesto sociale ed ecclesiastico, sembrano con­dannarla ad una vita senza voce, in totale clausura, ella continua a lottare a difesa della libertà spirituale della donna.

Nel suo primo scritto dottrinale Cammino di perfezione più volte prende posizione contro i teologi ed inquisitori antifemministi, appellandosi espressa- mente all’atteggiamento di Gesù nei confronti delle donne che lo seguivano. Il suo perentorio grido accorato suona come una pubblica difesa della donna contemplativa sotto forma di dialogo con Cristo:

No, o Creatore mio. Voi non siete ingrato, e sono sicura che esaudirete le loro domande. Quando eravate su questa terra, lungi d’aver le donne in dispregio, avete anzi cercato di favorirle con grande benevolenza. Avete trovato in esse tan­to amore e fede86 più grande che negli uomini, essendoci la vostra Madre Santis­sima, per i meriti della quale - e portando noi il suo abito - meritiamo quello che abbiamo demeritato con le nostre colpe. Non basta, Signore, che il mondo ci tenga rinserrate, incapaci di fare qualcosa per voi in pubblico che valga qual­cosa, né osiamo trattare di certe verità che piangiamo in segreto; m a avverrà per giunta che non abbiate ad ascoltare domanda così giusta? Io non lo credo, Signo­re, dalla vostra bontà e giustizia, perché Voi siete giudice giusto, e non com e i

82 V 26, 6.83 La frase teresiana appare cancellata come anche la nota al margine, vedi anche: Reproducción fotolitogràfica

yfìeles traslados impresos del “Camino deperfècción...”, publicados por dr. D. Francisco Herrero Bayona... Valladolid 1883, p. 122.

84 CE 73, 1 .85 Vedi: Santa Teresa de Jesus, Obras Completas, 5a ed., E.D.E., Madrid 2000, p. 644, nota.86 II passo da qui fino a «quantunque siano di donne» fu cancellato dalla censura, e per questo non passò al

Cammino di perfezione (Valladolid); è una dura critica contro l’atteggiamento della Chiesa ufficiale (gerarchia-teologi- inquisitori) nei confronti della posizione ecclesiale delle donne.

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giudici della terra, i quali, figli di Adamo come sono e in definitiva tutti uomini, non vi è virtù di donna che non tengano in sospetto.87

Ella reclama, soprattutto, il diritto a poter apportare, come donna e misti­ca, la sua esperienza contemplativa. In modo inequivocabile esprime tale aspi­razione come uno dei motivi che la spinsero a scrivere la sua autobiografìa: «Questo è uno dei motivi che mi hanno molto incoraggiata ad obbedire al comando di comporre questo scritto, nonostante la mia incapacità, e di dar conto della mia misera vita e delle grazie che il Signore mi ha fatto [...] vorrei avere grande autorità per essere creduta [,..]»88 89 90

Un’identificazione evangelica di donna e mistica: Teresa di Gesù

Teresa si identifica nella figura della donna samaritana, che incontra Gesù vicino al pozzo di Sicar e crede nella sua parola comunicandola ai suoi paesa­ni. È curioso notare in che misura questo passo evangelico della Samaritana e il suo incontro con Gesù rappresenti la dinamica del suo sviluppo mistagogi- co. Ella scrive:

Quante volte mi sono ricordata dell'acqua viva di cui parlò il Signore alla Sama­ritana! Sono molto devota di quel fatto evangelico, e lo ero fin da bambina, tan­to che, senza neppure comprendere quello che chiedevo, supplicavo spesso il Signore di darmi quell'acqua: in camera mia tenevo un quadro che rappresenta­va Gesù vicino al pozzo, con sotto le parole: "Domine, da mihi aquam!”.91

Come la donna samaritana, Teresa, dopo aver trovato la Fonte, vuole far partecipare tutti alla sua esperienza, indicare loro la via e far bere loro l'Acqua viva.

\

87 CE 4,1.88 V 19,4.89 Vedi l’articolo di Adriana Zarri su questo argomento in «Concilium», rivista internazionale di teologia, feb­

braio 1970; cfr. Seelaus, Vilma ocd, The Femmine in Prayer in thè Interior Castle, in «Mystic Quaterly», 13 (1987), pp. 203-214.

90 V 8, 5.91 V 30, 19; vedi: Gv 4, 15. Nella casa paterna di Teresa de Ahumada c’era un quadro di grandi dimensioni, in

stile rinascimentale, raffigurante quella scena evangelica. Dopo la morte di suo padre (26 dicembre 1543, pratica- mente già 1544), questo dipinto fu portato al monastero dell’Incarnazione, dove allora viveva donna Teresa; là si con­serva fino ad ora. Una riproduzione fotografica si può vedere in: Nicolas Gonzàlez y Gonzàlez, Historia del Monaste- rio de la Encamación de Avila, Avila/Madrid 1995, la sesta pagina (non numerata) di illustrazioni, dopo pagina 256.

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258 Sentieri illuminati dallo Spirito

È la scienza dell'amore, l'esperienza personale, ciò che Teresa pensa di poter e dover apportare, stimolata da «alcuni grandi impeti di questo amore» per «guadagnare anime». Qui si lascia ispirare dal comportamento della Sama­ritana. «Ciò che mi sorprende è vedere come quella gente abbia creduto a una don­na [...] Fatto sta che fu creduta, e per la sua parola molti uscirono di città per andare incontro al Signore».92

«[...] come quella gente abbia creduto a una donna»

Per Teresa de Ahumada questa era la grande rivelazione che le perm ette­va di poter riconoscere come giusta la sua aspirazione ad una autorevolezza come donna e mistica, in una identificazione spirituale con la Samaritana. A questo punto può scrivere:

Mi ricordo di quella santa Samaritana a cui ho pensato varie volte. Ella doveva essere ferita dal dardo che si tempra al succo di quest’erba. Oh, come aveva ben compreso le parole del Signore, se l’abbandonò per dare ai suoi cittadini la pos­sibilità di approfittare di lui e averne giovamento [...] E in ricompensa della sua grande carità, meritò di essere creduta e di vedere il gran bene che il Signore fece in quel paese.93

Teresa de Ahumada inoltre riconosce nel comportamento della Samarita­na il grande desiderio di condividere la sua voglia di agire. Ella attesta: «Tali anime, messe in perpetuo movimento dall'amore, pensano di continuo a nuo­ve imprese, non sono capaci di contenersi, smaniano di espandersi, rigurgita­no di acqua come quelle polle, nella brama che tutti gli uomini ne bevano per poi associarsi con esse nel celebrare le lodi di Dio».94 «Quando l’anima è in questo stato, mai cessano di operare quasi insieme Marta e Maria».95

In seguito ad una spaventosa visione avuta verso la fine di agosto 1560, cominciò a provare grandissima compassione per le molte anime che si per­devano, in particolare a causa dello scisma della cristianità sfociato nell’orrore delle guerre di religione. «Pensavo - dice - che cosa avrei potuto fare per Dio e pensai che la prima cosa era seguire la chiamata che Sua Maestà mi aveva fat­

92 P 7, 6.93/ind.94 V 30, 19.95 P 7, 3; cfr. CV 31, 5; 7M 4 tit.

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to in religione, osservando la mia Regola con la maggior perfezione di cui ero capace».96 Tale disposizione di animo l’indurrà a fare il «voto del più perfet­to»97; sarà questo il punto di partenza, anche se remoto e privato, della sua atti­vità di riformatrice e fondatrice.

Nel suo monastero dell’Incarnazione contava su di un gruppo di amiche, monache e secolari che, animate dal suo esempio, non si rassegnavano allo sta­tus quo in cui versava la comunità. In questo contesto, nel corso della famosa veglia celebrata nell’autunno del 1560 nella cella di donna Teresa de Ahuma- da, sorse l’idea di dare forma concreta a tali aspirazioni. «Si cominciò a parla­re di quanto penosa fosse la vita che si menava in quella casa a causa della grande quantità di gente, del gran parlare e del gran chiasso; a quel riguardo la Santa faceva dei ragionamenti, ricordando la solitudine e il ritiro degli anti­chi eremiti dell’Ordine».98 99

Tutto lascia supporre che questa conversazione fosse stata ispirata dalla Istituzione dei primi monaci, «il principale libro di lettura spirituale» dell’Ordine, con cui i carmelitani, fino al secolo XVIII, si impregnavano dello spirito auten­tico del loro Ordine.

La vita eremitica, così si insegna nella Istituzione, ha un doppio fine:

Il primo lo perseguiamo, con l’aiuto della grazia divina, mediante il nostro ope­rare ed esercizio; ed è questo: offrire a Dio un cuore santo e puro da ogni mac­chia attuale di peccato. A tale fine giungiamo essendo perfetti nella carità [...] L’altro fine di questa vita è un dono di Dio, ricevuto da noi. Esso consiste nel godere in una qualche maniera nel cuore e sperimentare nell’anima la virtù del­la divina presenza e della dolcezza della gloria suprema, non solamente nella morte, ma già in questa vita mortale.

In tal modo vengono presentati, come meta suprema della vita monasti­ca, la vita di unione e la contemplazione infusa.100

96 V 32,9.97 Vedi il Dictamen del padre Pedro Ibanez op, n. 21: «Ha fatto voto di non desiderare altro che il più perfetto,

a meno che non le si dica di non farlo» (Tiempo y vida. de Santa Teresa, 3a ed., B.A.C. - Mayor 52, Madrid 1996, p. 190); cfr. R 1, 14.

98Jerónimo de S. José, Historiadel Carmen Descalzo, lib. I, 3, cap. 2, p. 511; cfr. Francisco de Ribera, Vida de San­ta Teresa de Jesus, lib. 1, cap. 13 (ed. Barcelona, 1908), pp. 152-154.

99 Valladolid, Archivo de las MM: Carmelitas Descalzas, ms. 42: Relación que la madre Maria Baptxsta..., Carme- lita descalza, dejó esenta de su llamamiento a la religión..., f. 282 r.

100 Alle monache dell’Incarnazione, e più in particolare a donna Teresa de Ahumada, tanto «amica dei buoni libri», era ben noto il testo della Istituzione, perché nel suo monastero c'era una copia manoscritta del trattato, in lati­no e volgare, allegato alle antiche Costituzioni dell’Ordine, contenuta in un codice della metà del secolo XV; vedi Otger Steggink, Experiencia y realismo en Santa Teresa y San Juan de la Cruz, E.D.E., Madrid 1974, pp. 110-120.

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In seguito, Teresa ebbe una serie di visioni, in cui fu esortata a realizzare questo progetto di fondazione.101

Ma, quando in giro si seppe del progetto, sorse una forte opposizione. «Neanche si era cominciato a risapere per la città - commenta lei - che in bre­ve si abbatté su di noi una persecuzione indescrivibile; le dicerie, le risa, le più disparate opinioni».102

Al riparo dei teologi

Di fronte a questa rivolta della gente, donna Guiomar de Ulloa corse dal padre Pedro Ibànez, domenicano, «a raccontargli tutto». Anche donna Teresa gli raccontò tutto quello che aveva in animo di fare.103 Dopo otto giorni di m atura riflessione «egli rimase molto convinto che il progetto era di gran ser­vizio di Dio e che non bisognava abbandonarlo. E così ci rispose - scrive don­na Teresa - che ci dessimo da fare per concluderlo, ci suggerì i mezzi da pren­dere e la condotta da tenere [,..]».104 105 106

Confortate dall'appoggio del frate domenicano, le due amiche comincia­rono ad attuare i loro piani. Quando ormai stavano per concludere l’acquisto di una casa da destinare a monastero, il Provinciale, Angelo de Salazar, si rimangiò la sua promessa di accettare la fondazione sotto la giurisdizione del­l’Ordine. «Furono tante le cose dette e il subbuglio del mio stesso monastero - spiega la protagonista - che il Provinciale non volle porsi contro tutti [...]».107 Visto questo atteggiamento negativo del Provinciale, il confessore, Balthasar Alvarez, le comandò «di non interessarmi più della cosa».108 109 110 111 112

101 V 32, 11.102 V 32, 14; si giunse perfino a negare a donna Guiomar l’assoluzione, in quanto si riteneva «fosse obbligata

a quietare lo scandalo» (V 32, 15).103 y 32 , i 6; vedi: Efirén de la M. de Dios - Otger Steggink, Santa Teresa y su tiempo I, Dona Teresa de Ahuma-

da, Salamanca 1982, pp. 388-390.104 V 32, 17.105 V 32, 16.106 V 32, 18.107 V 33, 1; questo sarebbe accaduto nel mese di ottobre o novembre del 1560; Teresa dichiara: «Avendo pen­

sato di fondare un monastero di più stretta clausura, caddi in disgrazia delle mie stesse consorelle e venni guardata di malocchio [...] Alcune dicevano che mi gettassero in prigione. Ed erano molto poche quelle che prendevano lemie difese» (V 32, 15 e 33, 2).

108 V 33, 1.109 V 33, 3.110 V 33, 6; il periodo di «cinque o sei mesi» terminò poco tempo dopo l’arrivo ad Avila del nuovo rettore del­

la Compagnia di Gesù, Gaspar de Salazar (9 aprile 1561), il cui deciso intervento in favore di Teresa de Ahumada fece togliere al padre Balthasar Alvarez il suo divieto di occuparsi del progetto di fondazione.

111 V 33, 4-5.112 V 33, 7. Jerónimo de S. José commenta: «Il confessore di donna Teresa e quelli della sua religione, anche se

erano dispiaciuti e volevano favorirla, prestavano attenzione alle lingue di tutta la città, e siccome vi erano giunti di

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Davanti a tali prospettive, la monaca dell’Incarnazione ricorse di nuovo al padre Pedro Ibànez. «Gli riferii allora con la maggiore chiarezza possibile - rife­risce lei - tutte le visioni e modo di orazione e le grandi grazie che il Signore mi faceva, supplicandolo di esaminare molto bene la cosa, di dirmi se ci fosse qualcosa contro la Sacra Scrittura e quale fosse il suo parere su tutto ciò».113114

Il domenicano redasse un bel Dictamen in favore della bontà di spirito di donna Teresa e lo lesse «davanti ad una giunta che si fece, composta di perso­ne molto importanti e dotte».115 L’autorità goduta in Avila dal padre Ibànez contribuì a conferire ulteriore solennità a questo Dictamen. Egli mantenne la sua promessa «che chiunque aveva qualcosa in contrario andasse da lui, che egli gli avrebbe risposto».116117118

Ma, a questo punto, Teresa di Gesù suscitava diffidenze non solo come donna e mistica, riformatrice e fondatrice. Diffidenze ancora maggiori susci­tavano le sue attività spirituali: i suoi scritti e la sua direzione del movimento contemplativo di monache e frati. Era inaudito che una donna si dedicasse, con la parola e con lo scritto, al magistero dell’orazione mentale, soprattutto nel modo in cui lo faceva la madre Fondatrice. L’Inquisitore generale, Fernan­do de Valdés, aveva proibito la lettura di molti libri spirituali in volgare e ctfor- tiori la composizione e divulgazione degli stessi da parte di donne.119

Era in un tale contesto politico-religioso che la madre Teresa si accostava con grande ansia ai «dotti», sapendo che dal confronto tra l'esperienza e la dot­trina - per penosa che per potesse essere - doveva emergere la verità. Proprio in questo periodo estremamente complicato del suo itinerario spirituale - dal 1559 fino al 1562 (periodo di «visioni e censure», complicato ancora di più dagli inizi della sua opera riformatrice, fondazionale e letterario-spirituale) - la sua frequentazione con i teologi diventò più intensa: l'ora della Verità era giunta.

recente e avevano bisogno e amore di tutti, non si arrischiavano ad intromettersi molto in questo, per non rendersi odiosi e perdere tutto» (Historia del Carmen Descalzo, lib. 3, cap. 4, p. 533).

113 V 33, 6.114 Cfr. Tiempo y vida de Santa Teresa, 3a edición, B.A.C.- Mayor 52, Madrid 1996 I, cap. 9, p. 187.115 II testo del Dictamen, ibid., pp. 189-191; cfr. Dichiarazione di Teresa di Gesù (la nipote), in Proceso de Avila,

1610, art. 17.116 V 32, 17.117 Vedi il testo del Dictamen, in Tiempo y vida de Santa Teresa, pp. 189-191.118 V 33, 4.119 Cathalogus librorum qui prohibentur mandato Illustrissimi et Reverend. D. D. Ferdinandide Valdes..., Pindae, 1559;

esiste una riproduzione in facsimile, pubblicata dalla Reai Academia Espanola: Tres indices expurgatorios de la Inquisi- ciàn espanola en el siglo XVI, Madrid 1952, pp. 37-51.

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«Camminare nella verità»120121

Quello che Teresa desiderava con tutta se stessa era di vivere e cammina­re nella verità. Tale espressione molto teresiana è usata nella sua autobiografìa per indicare il suo ideale di vita disincantato. «Mi disinganni con la verità» scri­ve al padre Garda de Toledo,122 e in un altro passo dichiara: «Capii che cosa significa per la mia anima camminare nella verità davanti alla stessa Verità».123

Per questo stimava la scienza e sentiva una vera passione per i dotti. I testi non lasciano spazio a dubbi: «Lo studio e la scienza sono utilissimi in ogni cosa»,124 «La scienza è sempre una gran cosa, perché istruisce e illumina chi poco sa, fa conoscere le verità della Sacra Scrittura, onde si faccia quello che si deve fare». E perché chi legge non abbia alcun dubbio su quale sia il suo pen­siero in merito, aggiunge: «Che Dio ci guardi dalle devozioni alla balorda».125126 127 128 129 130

Trattando della direzione spirituale, Teresa insiste sulla necessità di una buona formazione teologica da parte del confessore o direttore spirituale: «La mia opinione è stata sempre - così scrive - [ . . . ] che ogni cristiano debba fare il possibile per conferire con direttori molto istruiti, meglio poi se istruiti moltis­simo. Chi fa orazione ne ha bisogno più degli altri, e in misura più alta quan­to più è spirituale».131 «E ritengo che la persona di orazione, che tratta con i dotti, non verrà mai ingannata dal demonio, a meno che non lo voglia lei stes­sa».132 133

D 'altra parte diffida dei «teologi mediocri paurosi», che tanto le sono costati.134 Parla, come sempre, per esperienza diretta: «So per esperienza che, quando si tratta di uomini virtuosi e di santa vita, è meglio che siano del tu t­to ignoranti piuttosto che dotti a metà, perché allora né essi si fidano di sé,

120 Vedi: Tiempo y vida de Santa Teresa, 3a ed., B.A.C.-Mayor 52, Madrid 1996, pp. 32-33.121 V 28, 6.122 V 16, 6.123 V 40, 3.124 4M 1, 5.125 V 13, 16.

5M 1, 7.127 F 23, 1.128 F 19, 1.129 F 19, 1.130 F 19, 1.131 V 13, 17.132 V 13, 18.133 F 19, 1.134 5M 1, 8.

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ricorrendo ai competenti, né io mi fido di loro. I veri dotti non mi hanno mai ingannata».135

I «dotti» preferiti agli «spirituali»

Possiamo quindi affermare che la madre Teresa di Gesù preferisce i «dot­ti» come confessori e direttori spirituali a tal punto che dà più credito a questi piuttosto che agli «spirituali». In loro vede la luce della Chiesa e raccomanda alle sue monache di trattare con uomini dotti anche quando non abbiano spi­rito, a patto che abbiano virtù.136 137

E comparando direttamente gli uomini spirituali con i letrados, i «dotti», nell’ambito della propria esperienza, confessa: «Nonostante tutto, spesso non mancava di temere e, sembrandole che anche persone spirituali potevano ingannarsi come lei, chiese al suo confessore se poteva rivolgersi ad alcuni dot­ti, i quali, sebbene non molto praticanti dell’orazione, le interessavano in quanto voleva solo sapere se era conforme alla Sacra Scrittura tutto quanto le accadeva».138

Per questo chiede consiglio e si rimette senza riserve al dettato dei mae­stri in teologia, pur conoscendo la loro prevenzione contro gli «spirituali», in modo particolare contro le donne «visionarie» e quelle che praticano l’orazio­ne di raccoglimento.

L’esperienza personale è, senza paragoni, il soggetto principale di tutto quello che dice e scrive. Così, nel prologo del Cammino di perfezione, afferma: «Non dirò cosa che non sia stata sperimentata da me stessa o da altri»,139 ripe­tendo molte volte il ritornello: «Non dirò nulla che non abbia sperimentato alcune o molte volte»;140 «Posso parlare solo di quello di cui ho esperienza».141

Tuttavia, nonostante la grande stima dell’esperienza e soprattutto il sentir­si «sperimentata», ricorre costantemente ai teologi nella ricerca della propria autenticità spirituale. Così dichiara: «Il Signore mi ha insegnato per esperienza, e poi io stessa ho trattato molti anni con grandi dotti e persone spirituali».142

135 V 5, 3.136 CV 5, 3.137 V 13, 18.138 R 53, 9.139 CV prol. 3.140 R 54, 1.141 V 8, 5.142 V 10 , 9.

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264 Sentieri illuminati dallo Spirito

Ella si rende perfettamente conto che la sua esperienza mistica di donna significa anche un apporto - come scienza di amore - alla teologia degli uomi­ni; e non si stanca di rendere partecipi delle sue esperienze nel cammino del­l'orazione i teologi consultati per assicurarsi dell'autenticità delle stesse, dan­do così prova di un prudente atteggiamento di realismo politico nei confronti dell’Inquisizione. Essa chiede sempre consiglio; ma facendolo passa ad inse­gnare con una forma tipicamente femminile di insegnamento. Si rimette incondizionatamente al giudizio dei migliori teologi rendendoli spesso parte­cipi della sua spiritualità; in tal modo li pone sul cammino dell’orazione con­templativa: è la strategia di una madre spirituale intelligente, dotata di una grande maturità come donna e mistica.

Questo accadde con uomini «di grande scienza», come lo erano fra Dome­nico Bànez, fra Pedro Ibànez e fra Garda de Toledo, i tre domenicani e con­fessori della madre Teresa di Gesù. Dove questo accostamento ai teologi appa­re molto chiaro è nella sua autobiografia, opera che riflette il clima di antago­nismo tra la teologia ufficiale e l’esperienza mistica. Attraversa queste pagine il costante desiderio di rendere partecipe delle sue esperienze colui che la diri­ge. Ella gli rivela il suo profondo desiderio di comunicargli le sue esperienze perché ne tragga benefìcio: «E dirò quanto mi accade, perché, nel caso succe­da anche a Vostra Grazia, lei possa trarne un certo profitto».143

Trattando dell’orazione di quiete, il suo eros pedagogiais nei confronti dei suoi teologi-direttori la ispira ad accentuare la parte degli atti amorosi e a ridur­re quella dell’intelletto: «In questo caso valgono di più alarne pagliuzze poste con umiltà, che non molta legna messa insieme da ragioni molto dotte». E non teme di aggiungere: «Questo avviso è molto utile per quei dotti che mi hanno comandato di scrivere, perché, con l’aiuto di Dio, tutti arrivano sin qui [...]; se la dottrina è di grande aiuto prima e dopo l’orazione, mentre si prega mi pare che non debba molto giovare se non per infiacchire la volontà [...]; in questi istanti di quiete è bene che anche i dotti lascino l’anima in pace e mettano da parte ogni sdenza».144

Nei confronti di Garda de Toledo ella si rivolge con parole di tenerezza materna: «Figlio mio, che mi ha ordinato di scrivere e che nella sua umiltà desidera che così la chiami». Allo stesso tempo, ella si professa come diretta da lui: «Vostra Grazia che mi è padre e figlio, nonché mio confessore, e a cui ho

143 V 10, 8.144 V 15, 7-8.

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affidato la mia anima. Mi disinganni con la verità».145 A volte la sua autobiogra­fìa assume la forma di una lettera diretta al suo confessore, da lei istruito nel cammino dell’orazione: «Cosicché Vostra Grazia, anche se fosse giunto ai ver­tici della contemplazione, non desideri altro cammino; che per di qui si proce­de sicuri».146

Di certo, ella continua instancabile ad inviargli messaggi, «poche parole» che arrivino alla sua anima, fino a quando non lo vede finalmente posto sulla sua orbita spirituale. «È sembrato essere proprio cosa di Dio per l'effetto che gli fecero», commenta lei. «Si determinò allora a darsi seriamente all’orazio­ne, anche se non lo fece da subito. Il Signore, come gli piaceva, per mio mezzo gli mandava a dire alcune verità che, senza io capirlo, gli calzavano così a pen­nello che egli si spaventava».147 «Il Signore lo ha m utato quasi del tutto, in modo tale da diventare irriconoscibile [...], la qual cosa sembra essere una chiamata molto particolare del Signore».148

Con profonda soddisfazione fa constatare che G arda de Toledo ha sapu­to integrare nella sua propria personalità la lezione, basata sull’esperienza, che lei gli aveva offerto: «Allora, questo Padre di cui parlo, come in molte cose che il Signore gli ha dato, si è premurato di studiare tutto quanto ha potuto su que­sto caso - in quanto è un buon dotto - e quello che non capisce per esperien­za, ne chiede spiegazioni a chi ce l’ha, e con questo il Signore l’aiuta dandogli molta fede, e così ha aiutato molto se stesso e alcune anime, e la mia è una di loro».149

Teresa di Gesù mantenne una relazione di amicizia simile con un altro domenicano, fra Pedro Ibànez. Ella lo qualifica come «il più grande dotto che c’era allora in quel luogo [Avila], e ve n erano pochi più grandi nel suo Ordi­ne»,150 e come «molto spirituale e teologo».151 Al «più grande dotto» di Avila ella si accostò di fronte alle reazioni violente sollevate tra gli avilesi dal suo progetto di fondare un monastero di carmelitane scalze. Gli aprì la sua coscienza: «Gli raccontai [...] tu tte le visioni e il modo di orazione e le grandi grazie che il Signore mi faceva con la maggiore chiarezza di cui ero capace, supplicandolo di esaminare molto bene la cosa, dicendomi se c’era qualcosa

145 V 16, 6.146 V 22, 7.147 V 34, 10-11.148 V 34, 13.149 Ibid.150 V 32, 16.151 R 4.

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contro la Sacra Scrittura e che ne pensava del tutto».152 Allo stesso tempo pen­sa di renderlo partecipe del proprio cammino di orazione quando scrive sulle quattro maniere di irrigare: «Piaccia a Dio che riesca ad esprimermi in modo da giovare a uno di quelli che mi hanno ordinato questo scritto. Il Signore gli ha fatto sorpassare, in quattro mesi, il punto a cui io ero giunta in diciassette anni».153

Non v’è dubbio che anche fra Pedro Ibànez traeva benefìcio dall’insegna­m ento esperienziale della sua penitente. Nel suo famoso Dictamen in favore dello spirito buono di donna Teresa de Ahumada, confessa: «E dico per certo che [ella] ha aiutato molte persone, e io sono una di queste».154 La madre Tere­sa, da parte sua, scrive: «Egli mi diede molta sicurezza e, a mio parere, ne fece molto profìtto; perché, anche se lui era già molto buono, da allora si diede molto più all’orazione e si ritirò in un monastero del suo Ordine, dove c’è mol­ta solitudine, per meglio potersi esercitare in questo»;155 e riferendosi al suo progresso spirituale segnala: «Colui che in precedenza mi fortificava e conso­lava con la sola sua scienza, ora lo faceva anche con l’esperienza di spirito, che ne aveva molta riguardo alle cose soprannaturali».156

Anche fra Domenico Bànez, a quei tempi «presentato del suo Ordine e let­tore di teologia in San Tommaso d’Avila»,157 faceva parte del gruppo di dotti domenicani ai quali la madre Teresa faceva riferimento. Questi si rendeva per­fettamente conto che lei, comunicando le sue esperienze spirituali, tentava «di farsi conoscere dai suoi confessori e di farsi istruire da loro; e allo stesso tem ­po di far affezionare alla virtù coloro che leggevano le misericordie che Dio aveva usato per lei».158 159 Anche se non possediamo dati concreti sull’influen­za da parte della n\adre Teresa di Gesù sulla vita spirituale del teologo dome­nicano, il tono aperto e confidenziale delle lettere inviategli da lei e le dichia­razioni di questi al Processo di beatificazione ci confermano una compenetra­zione perfetta tra l’esperienza della donna e mistica e la dottrina del maestro in teologia e cattedratico salmanticense. Di certo, un caso eccezionale in quei «tempi tristi», in cui in Spagna prevaleva un clima di antagonismo tra mistica e teologia, tra mistici e teologi.

■ 152 V 33, 6.153 V 11, 8.154 Vedi il testo in Tiempo y vida de Santa Teresa, 3a ed., B.A.C.-Mayor 52, Madrid 1996, p. 190. n. 29.155 II padre Pedro Ibanez si ritirò nel convento di Trianos (Leon), di domenicani contemplativi; cfr. V 33, 6.156 Ibid.157 Proceso de Salamanca de 1592 (Biblioteca Mistica Carmelitana, t. 18, 6).158 Ibid. p. 9.159 Ibid.

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Il dottorato femminile dell’esperienza

In questo paradosso teresiano si realizzava l’unione tra l’esperienza e la dottrina, tra l’apporto tipicamente femminile - scienza dell’amore - e quello dell’uom o alla teologia mistica.

L’attualità del dottorato teresiano si basa su questo apporto esperienziale, di carattere non teologico in senso professionale, ma che cerca di essere rico­nosciuto e valorizzato dalla teoria, di cui cerca di essere il locus theofogicus, la fonte, e a volte l’espressione autentica. La fede esperienziale con cui Teresa di Gesù crede con tutta la sua anima, deve, a suo modo di vedere, alimentare la riflessione teologica. Teresa di Gesù, donna e mistica, insegna ai teologi, con cui si mantiene in contatto di propria iniziativa, che la teologia ha le sue radi­ci nella fede come esperienza. La teoria della fede si basa nell’ascolto della Paro­la di Dio.

Nello stile dei grandi mistici, come sant’Agostino, san Bonaventura, Eckhart, Taulero e Ruusbroec, la monaca carmelitana spagnola ritiene che tale ascolto della Parola di Dio (fìdes ex auditu) debba riferirsi («magis principaliter», dice Bonaventura) all’ascolto interiore dove lo Spirito parla «all’orecchio del cuore», più che all’ascolto esteriore dove il predicatore parla «all’orecchio del corpo».160

Anche il Concilio Vaticano II pone in rilievo questo fondo esperienziale dell’uomo, quando nella Costituzione Gaudium et spes parla dell’interiorità, del profondo dell’uomo, in questi termini: «[...] nucleus secretissimus atque sacra- rium hominis, in quo solus est cum Deo cuius vox resonat in intimo eius».161

Concludendo: l’aspetto più fondamentale nel processo del pensare teolo­gico, vale a dire l’ascolto esperienziale della Parola di Dio, è possibile anche fuori dell’ambito della teologia professionale.

Ancora più chiaramente: il punto di partenza di tutta la teologia profes­sionale deve essere l’esperienza della realtà, che dalla teologia deve essere accolta, spiegata e comunicata.

L’esperienza della fede non viene esclusa dalla teologia. Questo significa che chi insegna mistica si occupa di teologia, parla a partire dalla rivelazione e comunica qualcosa alla Chiesa in quanto tale per l’edificazione di coloro che credono in Cristo; «per guadagnare anime» dice Teresa di Gesù.

160 Bonaventura, III Sent. d. 24, dub. 2.161 Gaudium et spes, art. 16.

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L’esperienza mistica può essere anche l’istanza critica della teologia, giac­ché ha il suo posto entro la fede, non sta fuori di essa. L’esperienza mistica è un livello proprio della fede. Ci sembra che questo la madre Teresa di Gesù l’aves­se compreso molto bene. Per questo si rivolgeva ai teologi giungendo persino a criticarli, come accadde, ad esempio, nella sua difesa dell’orazione mentale; in modo che proprio fra Garda de Toledo annotò al margine del testo autografo teresiano: «Sembra che riprenda gli inquisitori perché proibiscono i libri di ora­zione».162

Allo stesso tempo si deve dire che l’esperienza religiosa e mistica senza teologia non è altro che sentimentalismo volgare o gnostico. Grazie alla teo­logia, la mistica non rischia di scadere in un cristianesimo apocrifo o in un fanatismo irrazionale. Mistica e teologia hanno necessità l’una dell’altra per la propria autenticità. Per questo, ci sembra che il magistero femminile della pri­ma donna dottore della Chiesa si fondi sull’aver inteso questo valore teologi­co della sua esperienza mistica. Allo stesso tempo, Teresa di Gesù ha dimostra­to che il magistero, particolarmente diretto alla Chiesa in quanto tale, non è privilegio dell’uomo, ma anche della donna.163

Otger Steggink, O. Carm.

Collaboratore scientifico dell’Istituto Tito Brandsma di Spiritualità(Nimega - Paesi Bassi)

162 Così al margine del foglio 72v dell’autografo teresiano del Cammino di perfezione (Escoriai); vedi Reproduc- ción fotolitogràfico yfieles traslados impresos del Camino deperfección y el Modo de visitar los conventos, publicados por Fran­cisco Herrero, Bayona, Valladolid 1883, p. 145.

163 Vedi: V 40, 8; sopra: Teresa de Jesus, mujer y mistica.

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La mistica in Teresa cf Avila1

Cristina Kaujmann

Prima di iniziare a pensare al contenuto del mio contributo a questo con­gresso, ho dovuto chiarire a me stessa su quale terreno linguistico mi dovevo inoltrare. Ho pensato: «Quando sarai a Mùnsterschwarzach ti immergerai subito nel clima tedesco e ti passerà la voglia di parlare castigliano: è meglio stendere la tua relazione direttamente in tedesco». Presto, però, ho notato che non potevo evitare di scrivere nella lingua della Santa. In me stessa percepisco l’immensa ricchezza della parola umana, e a volte mi sento contesa tra varie lingue. Vi sono m om enti in cui mi pare di avere diverse anime e varie espe­rienze della stessa realtà. Mi lascerò trasportare dall’ispirazione. Mi piace ripe­tere una frase di Jean de Fécamp: «Grammatica mea Christus est». La parola che trasmetto, deve essere lo stesso Cristo. Non possiedo altra scienza e altra pre­parazione che quella di quarant’anni da carmelitana scalza, nonostante tutto quello che ha di povertà umana e bellezza di grazia.

Riguardo al tem a di questa conferenza, vorrei riflettere con voi su quel­lo che è la mistica nella Santa, come l’ha vissuta e che cosa ci insegna oggi, come oggi possiamo vivere ciò che ci ha lasciato questa donna. Questa vuo­le, inoltre, essere una relazione con un occhio particolare alle carmelitane scalze. Poche volte ci si presenta l’opportunità di riflettere su noi stesse ad alta voce.

Alla luce della lettura delle opere della Santa, e contemplando tutta la sua vita di donna contemplativa del XVI secolo in Spagna, mi piacerebbe interro­garla su alcuni aspetti concreti di quel carisma, che ella ricevette per la Chie­sa e per il mondo, e che a noi, sue figlie, deve dar vita e creatività per oggi, in

1 Per le citazioni delle opere di santa Teresa e san Giovanni della Croce sono usate le seguenti abbreviazioni convenzionali nelle versioni italiane: santa Teresa di Gesù, V = Vita; R = Relazioni spirituali; CE / CV = Cammino di perfezione nell’edizione rispettivamente ddl'Escorial e di Valladolid; M = Castello interiore o Mansioni; P = Cost. = Costituzioni; E = Esclamazioni delVanima a Dio; F = Fondazioni. San Giovanni della Croce: CB = Cantico spirituale B [n.d.T.].

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un mondo totalmente diverso dal suo. Tre domande possono servire da filo conduttore, rimanendo aderenti alla Santa e alla nostra attualità.

Come vive la Santa la presenza e la vita di comunione con Dio, il mistero, nel centro della sua vita?

Quando la Santa inizia a scrivere il suo Libro della Vita ha circa cinquan­tann i. In precedenza aveva scritto altre cose, relazioni per i suoi confessori. Con il Libro della Vita, ella fa un viaggio indietro alla sua infanzia, a tutta la sua storia fino ad allora. In questo scritto, confessa con tutta l’intensità della sua coscienza, che la sua vita non ha più altro senso che quello di essere un canto alla misericordia di Dio. Nella misericordia si incontrano la Verità di Dio e del­la persona umana. Anche se Teresa allora la espresse in termini di pena e glo­ria, la cosa decisiva nella sua vita è la verità: la verità della misericordia, l’incli­nazione amorosa di Dio sulla verità della sua povertà personale.

Grande la nostra impressione quando ci capitava di leggere che le ricompense e le pene dell’altra vita sarebbero state senza fine. Ci fermavamo spesso in questo pen­siero, e godevamo di ripetere frequentemente: Sempre! Sempre! Sempre! E così piacque al Signore che ne rimanessi tanto impressionata da concepire fin d’allora il più fermo proposito di non mai abbandonare il sentiero della verità (V 1 ,4).

La profonda intuizione di ciò che significa il cammino della verità in que­sta prima fase della vita è per Teresa una delle grazie più grandi che abbia rice­vuto. Il suo incontro con la verità non era in primo luogo una conoscenza intellettuale della realtà, bensì una persona, Colui che è la verità stessa e le inse­gna «perché tutte le altre verità dipendono da questa verità, e come tutti gli altri amori da questo amore [...]» (V 40, 4), Gesù, l’amore dal quale dipendo­no tutti gli altri amori.

Questa è la prima cosa che vedo e che si esprime nel suo stesso nome; anche se in tedesco diciamo di solito «Teresa d’Avila», lei in realtà si chiama «Teresa di Gesù». Il concreto del suo amore, della sua fede e della sua gioia di vivere le viene da Gesù, nella Scrittura, per mezzo della Chiesa. La Santa, in vari passi dei suoi scritti, racconta di incontri con Gesù, sia nella stessa «pre­ghiera interiore»2 (molto buona questa traduzione della sua parola oración)

2 Nell'originale «oración interior» (n.d.T.).

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La mistica in Teresa à ’Avila 271

sotto forma di ricerca, di grido dalla profondità della sua miseria (cfr. V 9, 1); sia sotto forma di irruzione estatica in cui tutto le è dato di sorpresa e senza misura (cfr. V 38, 17); o anche attraverso la via delle mediazioni esteriori. Il fatto stesso di scrivere è, di volta in volta, per lei occasione di incontri imme­diati con «Sua Maestà», con il «vero amico», con «lo Sposo». Gesù è il suo cen­tro, la sua vita. La leggenda di Gesù Bambino, che si perde nel chiostro del monastero dell’Incarnazione e che a Teresa, che gli domanda il suo nome, risponde: «Sono il Gesù di Teresa», è più che una simpatica storiella di m ona­che. Credo, piuttosto, che racchiuda in sé tutta quella verità che R. Guardini vede nelle leggende, la verità che sta più in là delle parole e dei fatti verifica­bili. Gesù si fa di Teresa, cioè, ella lo riconosce come Colui che sta sempre con lei, che è e sta per lei.

Teresa vive questa relazione come nucleo di tutta la sua esistenza, e ci inse­gna a dare un valore secondario a tutto il resto. Le circostanze concrete della sua vita, il suo essere monaca, fondatrice, scrittrice, maestra e madre, non sono che delle conseguenze, o campi dove questo amore fruttifica, e non appaiono mai in primo piano. È sempre lo stesso amore, lo stesso Signore, lo stesso Dio, ed è la povertà e la gioia della risposta di Teresa che forma la tram a del suo esi­stere nel corso degli anni. La Santa sperimenta in modo carismatico e profeti­co per la sua famiglia carmelitana l'unico amore: a Dio e al prossimo. Quando si dice che la Santa ama Gesù, si deve sempre intendere che, con lui, ama tu t­to ciò che Gesù ama. È questo l’unico amore che le fa trovare le forme con cui amare il prossimo, la Chiesa e l’umanità nel suo mom ento storico. Non si chiu­de in se stessa, a causa della sua intima relazione con Gesù, come uno che si sottrae dalla battaglia per potersi dedicare con calma e tranquillità a coltivare le proprie fantasie religiose: «è qui, figliuole mie, in mezzo alle occasioni, che si deve dar prova dell’amore, non nei nascondigli» (F 5, 15). Fin dalle prime esperienze mistiche nella sua vita di monaca, capisce che la sua via sarà pro­prio quella che percorse Cristo: via di donazione della vita per i fratelli, per amore del Padre. La forma che diede alla sua opera, o il modo di rendere altri partecipi del suo carisma, fu la fondazione del monastero di San Giuseppe, al quale seguirono poi altre fondazioni e le prime case dei frati carmelitani scal­zi. La risposta ai torrenti di amore che inondano il cuore è acconsentire a vive­re infuocata dalla fiamma dell’amicizia con questo divino Amante. E l’amici­zia richiede l’intimità, la condivisione tra i due amici, il tenere per propri i desi­deri dell’amico, vivere per lo stesso scopo, bramare le stesse cose.

Teresa vive in un oceano divino. La barca della sua vita, fragile come ogni vita umana, è sostenuta nella rotta assegnatale, e solo a questa deve acconsen­

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tire. Questo però non significa una comoda passività da parte sua, un conside­rare risolta la vita, lasciandosi portare senza sforzo dalla corrente. Ella invece porta nella sua barca tutto ciò che appartiene ad un’esistenza umana in tutti i suoi aspetti: le proprie qualità e debolezze (fascino e talento per la relazione, le sue insicurezze e ignoranze, le sue ambiguità, ecc.), le grandezze e meschi­nità della convivenza umana, il genio della propria creatività e sforzo, il fìtto tappeto delle relazioni umane di ogni tipo con le sue intime soddisfazioni e le proprie profonde delusioni. E, soprattutto, porta il profumo di un’infinita nostalgia che non si sazia se non «con la presenza e la figura» (cfr. san Giovan­ni della Croce, CB 11), m a si trasforma in presenza e gioia già da ora, attra­verso l’amore al prossimo e l’abbandono alla volontà di Dio. In una delle sue Relazioni, quando le manca appena un anno per morire, esprime questo stato di gloria anticipata:

Oh, potessi farle conoscere la pace e la tranquillità in cui ora è l’anima mia [...] mi pare di aver sempre innanzi la visione intellettuale delle tre divine Persone e dell’Umanità di nostro Signore [ .. .] Senza energia sono pure i desideri di patire, di subire il martirio e di vedere Dio: anzi, in via generale, non posso nemmeno formularli. È tanto maggiore invece la forza che mi spinge a desiderare che si fac­cia la volontà di Dio e che sia tutto a sua maggiore gloria [ .. .] Vi sono talmente sottomessa che non desidero più di vivere che di morire. Se bramo la m orte è solo in quei brevi istanti in cui sospiro di vedere Dio. Ma sparisce anche la pena di questa lontananza appena mi si affacciano le tre divine Persone che porto in m e così al vivo. E l’anima mia torna a bramare di vivere, se così piace al Signo­re, per poterlo servire un po’ di più. Se potesse contribuire in qualche cosa per farlo amare e lodare da un’anima, anche solo per poco tempo, le sembrerebbe assai più importante che di essere già nella gloria (R 6, Palenda 1581).

La mistica di Teresa di Gesù ha una tale capacità d’attrazione e contagio, poiché in lei si tocca con mano, si vede, si ode, si gusta e si assapora la verità che vi è solo una Verità: l’Amore; e solo una vita: l’Amore; e solo un Amore: Dio-comunione. L’esistenza umana, mediante l’incarnazione divina, è capace di vivere questa verità, ma anche vivere così è già la Verità.

E m i come viviamo?

La storia dell’Ordine che mi è toccato di vivere da quando sono entrata nel Carmelo, nel 1964, in piena celebrazione del Concilio Vaticano II, è mar­

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La mistica in Teresa d’Avila 273

cata da alcuni avvenimenti che a prima vista possono apparire marginali rispetto alla mistica, alla nostra risposta al carisma della Santa e alla tradizio­ne dell’Ordine. Anche se si presentano come avvenimenti meramente storici, con le loro opposte tendenze ideologiche, le loro evoluzioni culturali e socio­logiche, dietro di loro vi è una realtà che tocca immediatamente l’esperienza della fede, all’interno del carisma teresiano. Sono autentiche mediazioni del­l’esperienza di Dio. Le tensioni interne dell’Ordine, le incomprensioni dal­l’esterno, le incertezze sugli ideali di fondo sono stati presenti fin dall’inizio del Carmelo riformato e sempre richiedono di essere vissuti con atteggiamen­to teologale. Questo c’insegna la Santa Madre.

La mia vita di carmelitana è stata marcata, fin dai primi giorni, dalla cate­goria del cambiamento, dello sradicamento, della tensione tra vecchio e nuovo, tra l’essenziale e l’accidentale. La fede nella vocazione, la certezza che il cam­mino di Teresa di Gesù fosse anche il mio cammino, non mi ha mai abbando­nata in questi quarant’anni. Ma le conseguenze che tutto ciò ha portato nel suo sviluppo sono state completamente differenti da quanto mi sarei potuta allora immaginare.

Mi è rimasta l’impressione di aver vissuto insieme a santa Teresa, tanto per la presenza di alcune monache, come per tutto il contesto culturale e sociale così vivo che caratterizzava la nostra comunità. Mi pareva che la chiamata a vivere l’assoluto di Dio avesse la sua adeguata corrispondenza con quello stile della comunità claustrale, assoluta nella sua distanza dal mondo, con un’aper­tura solo verso l’alto e verso l'interiorità. Ma, anche se, con la ragione, pote­vo accettare ciò come logico e in accordo con l’ideale, tuttavia non riuscivo ad integrarlo tanto facilmente nella mia vita. Era un salto in un’altra cultura e ad un altro m om ento storico dentro questa cultura, che divenne per me lo stimo­lo per passare da una vita sognata alla realtà teologale, vissuta in quel conte­sto concreto, relativo e chiamato a cambiare.

Santa Teresa mi prese per mano e mi insegnò a scavare fino ad incontra­re la vena di acqua viva che attraversa tutte le culture e tutta la storia. Guida­ta da lei e, per altri versi, da Giovanni della Croce, mi si andava aprendo il cam­mino della contemplazione, proprio in piena celebrazione del Concilio Vatica­no II e negli anni postconciliari. Ma al di là delle differenze culturali e storiche, credo che vivere il mistero di Dio in noi, oggi, abbia lo stesso significato che per Teresa: rendersi conto che Qualcuno ci ha chiamato, che abita in noi. Quanto la Santa descrive in 7M 1, 7-8 è il nucleo e il centro di tutto quello che siamo chiamate a vivere come cristiane e come contemplative, anche se in for­me molto diverse:

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Qui le tre Persone si comunicano con lei [ .. .] e le fanno intendere le parole con cui il Signore disse nel Vangelo che Egli col Padre e con lo Spirito Santo scende ad abitare nell'anima che lo ama ed osserva i suoi comandamenti [...] O Dio! Che differenza udire e credere a queste parole dalTintenderne la verità nel modo che ho detto [ .. .] le vede risiedere nel suo interno e sente la loro divina compagnia nella parte più intima di se stessa com e in un abisso molto profondo che per difetto di scienza non sa definire [ .. .] si trovò migliorata in ogni cosa, persuasa che l’essenziale della sua anima non si muovesse più da quella mansione, per pene ed affari che avesse [ ...] (cfr. 7M 1, 6-10).

La vicinanza di Teresa a se stessa, la sua amicizia con Gesù e il suo radi­camento nella Sacra Scrittura (cfr. V 40, 1) sono gli elementi che oggi ci pos­sono insegnare un modo di vivere più interiore. Vi è un’interiorità intesa come verità di vita, che è prima di ogni preghiera o contemplazione, è sentirsi a casa, in pace con quello che veramente si è, anche se non è una realtà armonica, pienamente m atura ed equilibrata in tutti gli aspetti.

Le condizioni perché la vocazione possa essere vissuta, perché la vita di comunione con Dio sia realmente umanizzante per noi e per coloro che con noi vivono, non possono dipendere unicamente da un equilibrio psicologico e umano perfetto. Sarebbe disconoscere le vie di Dio. Non si deve mai dimenti­care che non si può essere carmelitane per aggiustarsi. La maggiore coscienza che non esiste eine heile Welt,3 neanche nel Carmelo, neppure nel cuore di cia­scuna monaca o frate, ci apre, talvolta, ad una maggiore povertà e a svuotar­ci completamente davanti a Dio.

Gesù ci apre il cammino, in lui sta la creazione riconciliata del tutto, in lui è possibile seguire la chiamata, in lui rintimità con Dio è allo stesso tempo veri­tà vissuta di fronte a se stessi e davanti al mondo, che anela a stare con Dio. Il cristocentrismo di Teresa può essere oggi per noi l’accettazione, nella fede e nella speranza, della nostra debolezza, della debolezza di molte delle nostre comunità, quando ci identifichiamo con Gesù povero, umile e piagato. La nostra amicizia con il Signore ha, a volte, un volto meno luminoso, a prima vista meno contagioso di quello della Santa, ma non per questo deve essere meno autentico. Mi pare molto importante che la nostra vita mistica abbia totalmente il volto della realtà che ci abita e ci circonda. E questa realtà, nella maggioranza delle comunità europee e occidentali, ha il volto della povertà e della caducità. Se un monastero non è mai servito a niente, oggi lo è ancora

3 «Un mondo incontaminato» (n.d.T.).

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meno, a causa di questa povertà. Né la cultura, né le scienze, né la politica han­no bisogno dei monaci o delle monache per svolgere il loro compito nella società. E la Chiesa, anche se molte volte dice che siamo il tesoro e i parafulmi­ni dell’umanità, non fa particolare conto sull’apporto delle contemplative per il suo compito pastorale, nel senso ampio del termine. Per questo, mi sembra molto importante che il nostro modo di vivere il carisma teresiano abbia il sigil­lo della povertà di Gesù e che sia aperto e accogliente nei confronti di quello e quelli che lo Spirito conduce fino alle nostre portinerie e ai nostri cuori.

Entro questa povertà evangelica essenziale, che oggi assume un volto molto concreto nelle nostre comunità, e va molto oltre il concetto stretto che abbiamo di voto di povertà, si situa anche la forma di vivere la mistica: poche visioni, pochi profeti, poco fuoco e molta sete, molto deserto, molto nada nel­l’esperienza, molto silenzio e dolore nell’ascolto. Questa povertà è come un muro di difesa contro la vanità, il punto di onore, la tentazione di non essere la salvezza di nessuno. La maggiore libertà personale che abbiamo rispetto ai tempi della Santa è anche maggiore povertà, perché stiamo direttamente a confronto con la nostra realtà intima, le nostre limitazioni e meschinità, che tante volte impediscono un volo pericoloso verso le alture della preghiera inte­riore e della contemplazione. Ma questa maggiore libertà, vissuta in comunio­ne entro la comunità, nel vivere il carisma della Santa, ci porta ad una ricchez­za di sfumature che può essere solo di benefìcio per tutte.

L’insegnamento di Teresa di «non rimanere senza un così buon amico» (cfr. CV 26, 1), perché tutto ci giunge attraverso «la porta» di «questa Umani­tà Santissima» (cfr. V 22, 6), ha oggi per noi un aspetto molto attuale, che già la Santa visse profondamente: ella si identifica con Cristo insieme alla Chiesa - «vogliono tornare a condannare Cristo, come dicono» (CE 1 ,5 ) - così come sperimentò Paolo quando domanda al Signore: «“Chi sei?”. “Sono Gesù, che tu perseguiti”» (At 9, 5). Tutta la nostra intimità con il Signore, la nostra con­templazione e la nostra dedizione alla vita comunitaria, deve essere sempre più segno: quello della comunione indissolubile tra Dio e il mondo, tra Gesù e l’umanità, tra «quelle di dentro» e «quelli di fuori».

La maggiore informazione ci educa a vivere con la Parola di Dio, scritta nella Bibbia e scritta negli avvenimenti del mondo. E ci induce a vivere con maggiore generosità la propria povertà, non fermandoci alla terribile ristret­tezza di vedute della nostra vita di clausura. Abbiamo un’ottima occasione per vivere ciò che la Santa ci raccomanda nel Cammino di perfezione: «No, sorelle mie, non è tempo di trattare con Dio affari di poca importanza» (CE 1, 5). Mi pare che quanto più tempo passa, tanto più si unificano interiormente le radi­

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ci della contemplazione di Dio e quelle della solidarietà con la creazione, l’umanità in concreto, con i suoi dolori del parto e le sue ansie di redenzione.

Talvolta tocca a noi, la generazione che sorge dalla fine della prima metà del XX secolo, consegnare alle nostre sorelle più giovani un nuovo modo di vivere il carisma teresiano: vivere testimoniando l’unione con la sua Santissi­ma Umanità, aperta al Cristo totale, cosmico, presente nell’umanità attuale; e allo stesso tempo, vivere con la massima intensità la comunicazione persona­le, intima, teologale con il Dio di Nostro Signore Gesù Cristo. Qui io vedo una sfida che lo Spirito ci presenta. Tanto nel tempo della Santa come oggi, l’incli­nazione essenziale alla solitudine - «trattenendosi frequentemente da sole a sole con Colui da cui sappiamo d’esser amate» (V 8, 5) - è parte irrinunciabi­le e sempre attuale della vocazione al Carmelo teresiano. È una delle condi­zioni personali che mai deve mancare. E allo stesso tempo credo che ci tocchi approfondire e studiare l’esperienza della Santa Madre durante i suoi anni di fondatrice, anni di massima attività e insieme di altissima vita mistica. Proprio di qui, ci può giungere una nuova luce sul cammino che ci si apre.

Come prepara Teresa le donne che si sentono chiamate a questa forma di vita di comunione?

Santa Teresa non ha un trattato specifico su come formare le aspiranti a condividere la vita nella comunità di San Giuseppe. Lei stessa è il metodo e la maestra. È nel contatto personale con lei, convivendo con lei, che queste don­ne imparano a fare i loro primi passi come carmelitane. È la sua presenza che imprime tra le sue figlie il segno del carisma. Non è un metodo teorico, non è il rigorismo riformatore in voga all’epoca, quello che Teresa applica, bensì l’ardore dell’amore sperimentato in se stessa e che la ha formata negli infiniti aspetti personali che avevano bisogno di incontrare il loro denominatore comune. Diventare amica di Dio e amica di tutti e di tutte: questo può essere una sintesi di quello che Teresa vuole conseguire con la formazione delle sue sorelle. N on fa molta differenza tra formazione iniziale e permanente. Teresa sa per propria esperienza che a volte gli inizi non hanno tanto bisogno di teo­ria, perché la vita, la sorpresa o l’emozione dell’incontro con il Signore riem­piono il cuore e lo conducono, quasi volando, per il cammino di perfezione. Ma sa anche che questo appoggio sensibile non dura molto e che non è fondamen­to solido per tutta una vita. E fin dal principio con poche parole, ma molto taglienti, avverte coloro che sono venute, quelle che chiedono di aderire alla

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sua forma di vita contemplativa: «Convincetevi, sorelle, che venite a morire per Cristo, e non a riposarvi per Cristo [...]» (CE 15, 3), «se non ci risolviamo a non curarci più della m orte e della perdita della salute, non faremo mai nul­la» (CV 11, 4). Queste due frasi introducono un accento realista, quasi brusco, nella formazione che la Santa dà alle sue sorelle. Sicuramente ha il suo peso l'esperienza personale di Teresa, sempre malata, e la precarietà nella cura del­la salute in quell’epoca, ma credo che le due frasi tocchino l’essenza della vita che si dona a Gesù per amore. La nostra vita chiede di andare per dove Egli andò, chiede di patire ciò che Egli patì, senza fronzoli, né pietose scappatoie. Tutta la formazione teresiana si potrebbe riassumere in questo: conoscere l’amore (Dio, Cristo) e rispondergli intraprendendo il cammino evangelico, con dolcezza e discrezione, che sono i pilastri fondamentali della spiritualità teresiana. Tutta la preghiera interiore, la contemplazione, le grazie straordina­rie, il servizio ai fratelli e alle sorelle, le qualità di ogni tipo, sono racchiuse nel­l’amore. Amore fino al limite di ogni fibra della persona, per il bene del pros­simo e per la gloria di Dio. Questo è il progetto formativo di Teresa, che ella dispiega nelle sue opere, ponendo i suoi accenti di volta in volta sull’unità del­l’amore, l’umiltà e il disprezzo di sé (CE 6, 1). L’esistenza mistica è un’esisten­za per il prossimo e per la gloria di Dio.

Teresa guarda questa verità con occhi di donna, che conosce le profondi­tà dell’anima femminile, nel suo aspetto religioso e psicologico. Qui ella radi­ca la sua profonda convinzione della grandezza dell’animo femminile, secon­do lei più dotata per la mistica dell’uomo, convinzione corroborata da fra Pie­tro d’Alcantara: «[...] come ho inteso dire dal santo fra Pietro d’Alcantara e io stessa ho constatato, Dio concede queste grazie più alle donne che agli uom i­ni, e le donne vi fanno più profitto degli uomini. Il medesimo santo spiegava la cosa con eccellenti ragioni che qui non è il caso di riportare, tutte in favore delle donne» (V 40, 8). Come dato curioso e significativo dell’attualità della vita contemplativa in Spagna dò il seguente: ci sono 38 conventi maschili di fronte a 911 monasteri femminili! Per Teresa, questo talento mistico è ciò che dà fondamento alla vocazione al Carmelo, nel senso dell’esperienza fondante la preghiera interiore, che informa tutto il nostro processo vitale. Aiutare que­sto talento a fruttificare è il compito proprio della formazione, fin dagli inizi e per tutta la vita. L’esuberanza di fenomeni mistici nella vita della Santa, uni­ta al suo senso eminentemente pratico, la rende capace di riconoscere e apprezzare questi stessi doni nelle sue figlie, e proprio in base a questo può incoraggiare e animare il cammino personale di ciascuna con generosità e rispetto.

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Teresa vuole introdurre le sue sorelle nell’oceano dell’amore. Vuole che le loro vite, con tutte le limitazioni e imperfezioni facilmente visibili, siano impregnate da quella umiltà e verità, che sono inseparabili dall’amore. Da questo, il realismo implacabile della Santa nel m om ento di smascherare i falsi misticismi, che fanno provare disgusto quando si tratta di lasciare la preghiera per il servizio delle sorelle, cercando nella preghiera più di accontentare se stessa che Dio: «riposando il corpo e rilassando l’anima» (cfr. F 5, 4). Di qui anche la grande insistenza ad aspirare all’unione delle volontà, prima che alle unioni mistiche con fenomeni straordinari, i quali non aggiungono nulla alla santità e possono invece far perdere l’umiltà. L’importante, decisivo è sempre il dono gratuito di sé a Dio e al prossimo, per amore (cfr. CE 27, 6). Il senso dello hum our svolge un ruolo importante nella pedagogia della Santa. Ella, con grande libertà, prende in giro i suoi atteggiamenti, quelli delle sorelle e di altre persone. Colpisce a fondo le debolezze senza ferire. Riferendosi all’indi­screzione ed alla vanità delle penitenze che allontanano dal vero atteggiamen­to di donazione di sé, dice: «Non osserviamo la Regola neppure in certi punti così leggeri che, come il silenzio, non ci sarebbero di danno, ci dispensiamo subito dal coro appena avvertiamo un dolore di testa, cosa che ancora non uccide; e allora un giorno non andiamo in coro perché abbiamo male alla testa; il giorno dopo perché abbiamo avuto male, e altri tre giorni perché il male non ci venga più» (CE 15, 4).

E noi?

A fondamento della vocazione al Carmelo sta l’incontro con Gesù. Deve essere accaduto qualcosa tra la persona e Gesù, un incontro, un contatto che lasci un’impronta indelebile nel cuore, anche se la persona non riesce a razio­nalizzarlo in forma oggettiva e irrefutabile. Questa convinzione esperienziale di essere inabitata dallo Spirito di Gesù e che questi ci attrae fin dentro noi stesse e fino al centro di tutta la realtà, è la fonte da cui esce tutto il resto, che forma anch’esso parte della vocazione: l’inclinazione verso la solitudine, il silenzio, la preghiera interiore, il modo di vivere l’amicizia in una vita sobria e fraterna avvicinandosi alla povertà evangelica. Questi tratti della vocazione sono gli stessi del tempo della Santa; e di qui deve prendere le mosse la forma­zione iniziale e permanente.

Se nelle formatrici a fondamento della loro personalità non c’è esperien­za di Dio, tutto il resto è ambiguo, poco efficace e di poca profondità. Cono­

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scendo la difficoltà nel trovare sorelle idonee a fare da formatrici e il pregiudi­zio di non essere adatta a quel servizio, la Santa incoraggia Maria di san Giu­seppe a Siviglia ad assumersi lei questo compito: «Scrivo al priore di Pastrana per quanto riguarda la maestra delle novizie, perché mi par buono quello che dice [consiglia alla priora di fare da maestra]; volesse il Cielo ce ne fossero almeno poche, che è un gran problema, come ho detto; e il motivo principa­le per cui si perdono le case è proprio questo» (Lett. a Maria di san Giuseppe, 21/12/1579). La sintesi, nella formatrice, della sua comunione reale con Gesù dentro di sé e della sua attenzione intelligente e amorosa a quanto la circon­da è la via migliore per una vita affettiva ampia, contagiosa e raggiante den­tro la comunità e nel suo rapporto verso le formande. Dalla sua preghiera silenziosa e solitaria, dal suo contatto fraterno e intenso con le sorelle, sorge come un albero gradevole e grazioso, con molti rami e chioma che dona ombra serena e refrigerio, la relazione affettiva tra tutte. Sotto questa ombra la formatrice si siede per condividere, discernere, domandare e ascoltare lo Spirito in ciascuna. La vocazione della formatrice e di tutta la comunità, come agente principale della formazione, è di essere albero dove le sorelle possano ripararsi durante il cammino, senza però fermarsi nel loro itinerario. Ricordo un paragrafo del Libro della Vita in cui Teresa parla di coloro che accompagna­no gli oranti. Mi pare che si possa applicare perfettamente alle formatrici del­le nostre comunità:

Per questo [trovare grazia presso Dio] noi che abbiamo tanti anni di professione e di orazione, rammentiamoli pure, ma non per tormentare coloro che in poco tempo ci hanno sorpassato, e obbligarli a tornare indietro per adattarsi al nostro passo. Se con l’aiuto di Dio volano com e aquile, perché costringerli a cammina­re com e pulcini dai piedi impacciati? Volgiamoci invece a Sua Maestà e, se vedia­m o che quelle anime sono umili, allentiamo pure le redini, perché Dio, dopo averle favorite di tante grazie, non permetterà di sicuro che cadano nell’abisso [ ...] (V 39, 12).

La formatrice carmelitana deve appoggiarsi alle due colonne dell’espe­rienza fondante di Dio e dell’attenta osservazione contemplativa della realtà delle sorelle che accompagna ed educa. Secondo la mia esperienza personale, la formazione intellettuale delle formatrici è estremamente necessaria, e deve svilupparsi in futuro. Ma non è l’unica via per superare le lacune che abbiamo verificato in passato. Mi considero membro di una generazione di formatrici che ha potuto ancora svolgere questo servizio in modo positivo, disponendo di una formazione culturale da autodidatta, molto limitata. Non credo che

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questo possa più essere sufficiente in un futuro immediato. Allo stesso tempo sono convinta che la parte della propria esperienza contemplativa sarà sempre più decisiva rispetto al resto. Noi carmelitane della mia generazione ci siamo formate nel carisma teresiano e, in generale, nella teologia monastica, con un metodo assolutamente casalingo: letture condivise, corsi impartiti nella pro­pria comunità e nella federazione, conversazioni personali con le formatrici, letture particolari secondo la possibilità della biblioteca del monastero e gli interessi personali. Riconosco che in tutto questo era presente lo spirito della Santa Madre che, nel mio caso, mi ha condotto ad una profonda sintonia con lei e ha conformato la mia vita al suo carisma.

Ma sono cosciente che la formazione attuale non può rimanere al livel­lo che noi, le suore del postconcilio, abbiamo trovato e che in nessun modo ci è stato sufficiente. Il dedicarsi alla vita contemplativa, a ricercare l'espe­rienza mistica come donne oggi, non è assolutamente legato a forme che noi abbiamo ereditato dal XVI secolo. Se guardo a molte comunità, alla nostra storia in generale, mi par di capire che la forma attuale di concepire la for­mazione e di conseguenza la vita comunitaria non ha garantito, di fatto, la profondità della vita teologale che la Santa desiderava per le sue figlie e i suoi figli. Inoltre, da un altro punto di vista, lo stesso lavoro rem unerato per il sostentamento della comunità va a cambiare il ritmo comunitario in un futu­ro non lontano.

Queste considerazioni mi fanno comprendere che ci troviamo di fronte ad alcuni mutamenti che ci tocca accettare se vogliamo essere «di fondamento per quelli che verranno dopo» (F 4, 6). Intuendo che la vita della carmelitana non può più essere, per lo meno in molti Carmeli dei nostri ambienti occiden­tali, una vita totalmente separata dalla società, è necessario oggi possedere nuovi elementi per rispondere a ciò che realmente la vita richiederà alle don­ne che si sentono chiamate a condividere il carisma di santa Teresa. Non basta più la trasmissione orale, vitale del carisma airinterno di una comunità, pen­sando soprattutto a quelle comunità molto penalizzate in forze e personale. Continuerà ad essere assolutamente necessaria questa trasmissione per contat­to con la vita di ogni giorno, ma dovrà rimanere combinata con le possibilità di formazione accademica. Le donne carmelitane di oggi non dovranno più rimanere indietro rispetto alla formazione che oggi ricevono i loro fratelli nel Carmelo. Noi che oggi già stiamo entrando nella terza età, abbiamo ancora questa responsabilità di dare testimonianza dello spirito della Santa Madre, che non lasciò intentato nulla per giungere alla meta che si era proposta, o che il Signore le aveva assegnata: dare testimonianza del suo amore e amicizia con

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una vita dedicata alla preghiera interiore e alla fraternità. Inoltre siamo chia­mate a preparare o appoggiare i desideri delle nostre sorelle di ricevere una formazione che le renda capaci di dare testimonianza personale dello stile di vita di Teresa, servendosi delle possibilità di formazione aperte alle donne. I «buoni libri» e i «letterati» di allora possono essere oggi gli studiosi universita­ri di teologia, filosofìa, psicologia, ecc.

La Santa è un genio. E anche se nel corso dei secoli gli studi e i commen­tari sui suoi scritti sono stati fatti quasi esclusivamente da uomini, mai il genio femminile si è spento nell’Ordine. E molto im portante che condividiamo tra noi la nostra lettura e sintonia con la Santa Madre, «perché le donne intendo­no meglio il linguaggio delle altre donne [...]» (M prol 4). Per questo mi sem­bra molto necessario che noi carmelitane possiamo accedere personalmente agli studi, esattamente come i nostri fratelli, per vivere con maggiore intensi­tà la nostra vocazione e poter in seguito testimoniare, a partire dalla nostra vita, la freschezza e l’attualità del carisma per il nostro tempo, trovando nuo­vi stimoli «per ravvivare sempre più l’amore che abbiamo per lo Sposo» (cfr. Cost. 7). Noi, frati e monache, dobbiamo percorrere lo stesso cammino carismatico con caratteristiche complementari. La sfida consisterà nell’auten­ticità personale di ciascuna donna carmelitana. La dimensione specificatamen­te femminile nel modo di vivere il carisma teresiano avrà a che vedere sempre con la capacità di scoprire e abitare il nostro «castello di cristallo tersissimo» (1M 1, 1), con l’interiorità, con la tendenza alla solitudine per stare con l’Ami­co da sole e donarci a lui. Tuttavia, deve essere compatibile con una formazio­ne personale che non sia condizionata dall’emarginazione della donna nella società e nella Chiesa, così come la dovette vivere la Santa.

Per quali vie dovremmo camminare? Penso che la prima cosa sia di ascol­tare con la preghiera ciò che dice lo Spirito a ciascuna di noi, come vuole con­durci nell’avventura della propria vocazione. Come già dice la Santa, si posso­no avere chiamate distinte, tutte per il Carmelo, m a non tutte con la stessa intensità di talento contemplativo, o di consiglio, o di intelligenza, anche se tutte sono chiamate a giungere alla fonte di acqua viva che è la comunione con Dio nella contemplazione, che è sempre puro dono (cfr. CE 27-29; 33, 1). Non può darsi, allora, che alcune sorelle si sentano chiamate, dal centro della loro vocazione particolare, a seguire degli studi accademici, a vivere un aspet­to del carisma che la Santa non potè vivere, ma a cui anelava con tutta l’ani­ma: «dar voce» all’amore... e così aiutare altri a dare, attingendo da questa miniera di amore (cfr. V 6, 8)? Questo cambierebbe notevolmente lo stile del­le nostre comunità. Siamo preparate?

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Questa domanda porta ad un interrogativo più grande: come trasmettere e sviluppare l'esperienza mistica e contemplativa nelle attuali generazioni di carmelitane? Perché, in fin dei conti, ciò che appare irrinunciabile nel nostro stile di vita è proprio questo. In ogni persona c’è la capacità di aprirsi al tra­scendente, di vedere, attraverso quanto si vede materialmente, la realtà ultima di tutto; ma l’ambiente, l’educazione rendono questa percezione più diffìcile e meno spontanea. Ciascuna domanda dovrebbe avere l’occasione di potersi riflettere in uno specchio personale, per osservare come ognuno vive questa apertura e questa penetrazione della realtà verso il trascendente. Ma allo stes­so tempo si deve far sì che ognuno possa mettere alla prova il suo modo di vivere carmelitano in uno studio sapienziale e, se è il caso, accademico, della teologia biblica, liturgica, ecc., e degli scritti dei nostri fondatori e degli altri santi dell’Ordine.

Questo ci condurrà a comunità più differenziate. In quanto ad assicurare il modo di vivere il nucleo della nostra vocazione, credo che sarebbe di gran­de utilità, in ciascuna federazione o circoscrizione più ampia, la presenza di alcune comunità ridotte, con stile marcatamente eremitico, in cui vivere tem ­poraneamente e sperimentare fortemente la solitudine e la semplicità di vita, pratica che in un altro stile di comunità non è possibile con la stessa intensità, a causa della formazione o dell’attenzione da rivolgere alle sorelle più anziane 1 e alle persone che si avvicinano ai nostri monasteri.

Che forma di comunità femminile crea Teresa al suo tempo, come inten­de questo «collegio di Cristo»?

La nuova comunità che Teresa mette in moto in San Giuseppe manca totalmente del carattere di ribellione al monastero di origine, quello dell’In­carnazione. Mi sembra molto im portante sottolineare questo fatto, in quanto non poche volte si prende Teresa ad esempio di innovazioni di tipo contesta­tario. Ella stessa assicura in diversi passi che non lascia la sua comunità per malcontento, ma perché comprende che Dio le affida una missione entro la famiglia del Carmelo. Quando la Santa riporta le tentazioni che l’accompagna­rono proprio quando giunse a fondare il monastero di San Giuseppe, dice: «Il demonio inoltre mi faceva presente che [...] non [...] avrei potuto sopportare penitenze così austere venendo io da un monastero spazioso e dilettevole dove avevo tante amiche e dove mi ero sempre troovata bene [...] E se le nuove com­pagne non mi fossero piaciute?...» (V 36, 8). E in una lettera al padre Jerónimo

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Graciàn confessa: «Mi creda: una monaca scontenta io la tem o più di molti demoni» (Lett. a J. Graciàn 14/7/1581). Teresa non poteva essere una di que­ste monache alla ricerca in un altro luogo del suo «contento». Mi sembra im portante chiarire questo fin dal principio, se vogliamo riflettere sulla novi­tà della comunità femminile fondata da lei. Non vuole correggere il decadi­mento dell'Incarnazione con nuovi rigori. La stessa comparazione tra la legi­slazione vigente all'Incarnazione e quella che Teresa presenta alle sue figlie scalze rivela una maggiore dolcezza, in quanto le leggi precedenti erano di una durezza terribile e per questo non si osservavano e non servivano come aiuto alla vita concreta delle monache. In cambio, le poche consegne della Santa nel­le Costituzioni sono piene di dolcezza e sapienza, per potere essere di suppor­to alla vita, tenendo conto della condizione umana.

Quando, fin dal 1560, la cella di Teresa de Ahumada all'Incarnazione si converte in un luogo di riunione di monache amiche, secolari e parenti dove si discute sugli avvenimenti che commuovono la società e la Chiesa, Teresa è già mondata dall'oceano di Dio. Le esperienze sono di varia natura: consola­zione intime di Gesù, rimproveri amorosi da parte di lui, visioni del cielo ma anche dell’inferno. Tutto questo mondo interiore ravviva nella Santa la sensi­bilità raffinandola per cogliere gli istanti in cui lo Spirito e il suo spirito si incontrano per dar vita a qualcosa di nuovo, una nuova presenza di Dio nel mondo, attraverso il cuore di Teresa:

desideravo ardentemente di fare un po' di penitenza per meritarmi quel bene ed evitare quel male, disposta pure a fuggire ogni umano consorzio e a separarmi completamente dal mondo. Benché questo desiderio mi fosse assillante, tuttavia mi apportava pace e contento [ .. .] Pensando a quello che avrei potuto fare per Dio, vidi cha anzitutto dovevo corrispondere ai doveri della mia vocazione reli­giosa, osservando la mia Regola con ogni possibile perfezione (V 32, 8).

Teresa vede la sua opera come il contributo che lei e le sue amiche posso­no dare a quel m om ento storico della Chiesa e del mondo che stanno viven­do. Un gruppo di donne, che non fossero più di tredici e poi di venti, che vivo­no una comunione dove «tutte devono essere amiche, tutte devono amarsi, tutte devono aiutarsi [...]» (CE 6, 4), impegnate a dispiegare le loro capacità di ogni tipo nell'amore a Gesù, seguendo i consigli evangelici, condividendo la vita tra loro in amicizia, era per Teresa il mezzo che si offriva loro per fare qual­cosa in quel tempo di grandi sfide e di mom enti molto bui nella Chiesa e nel­la società. Questo qualcosa consisteva nell'impegnarsi totalmente nella pre­ghiera interiore, ponendosi a disposizione dello Spirito Santo, perché facesse

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con loro quello che voleva. Per Teresa questo si può vivere solo a partire dal mistero dell’Incarnazione in Gesù di Nazaret. La sua idea fissa è Gesù, la sua unica occupazione è farlo conoscere ed essere testimoni di lui, la sua unica gioia è stare con lui e che tutti stiano con lui, l’unica ragione di tutto quello che fa e dice è lui (cfr. CE 42, 4; V 40, 1-3).

La comunità di Teresa ha come modello la comunione trinitaria e il suo amore è la partecipazione a questo mistero. In R 16 parla della sua visione intellettuale del mistero della Trinità e che come effetto le rimaneva la carità e saper patire con gioia (cfr. 7M 1, 6). Forse l’Esclamazione VII esprime, in sin­tesi, tu tto quello che nel corso delle sue opere Teresa vuole manifestare come nucleo essenziale della comunità, il nudo dell’amore che non si scatena nean­che nella stessa vita trinitaria, quel luogo in cui si fa continuamente l’unione tra Dio e la creazione, nell’uom o Gesù, esaltato alla destra del Padre:

Rallegrati, anima mia, per esserci chi ama il tuo Dio come si merita; rallegrati per esserci chi conosce la sua bontà e potenza, e ringrazialo per aver Egli invia­to sulla terra il suo unico Figliuolo che così bene lo conosce, con la protezione del quale puoi avvicinarti al tuo Dio e pregarlo. Se Egli trova in te le sue delizie, non permettere che le cose della terra t ’impediscano di trovar in lui le tue e di rallegrarti nelle sue grandezze. Giacché tanto merita di essere amato e lodato, pregalo che ti dia di contribuire almeno un poco nel far celebrare il suo nome, onde tu possa dire con verità: «La mia anima loda ed esalta il Signore» (E VII).

Qui Teresa radica la ragione ultima per fondare una nuova comunità: ren­dere partecipi delle lodi degli altri, che è un desiderio che comprende l’amore di Dio e del prossimo.

Il modo di vivere esplicito del mistero di amore che ci inabita è la cosa più semplice, ma anche l’unica cosa che importa nella vita della Scalza. Teresa, nelle Fondazioni, parla alle sue fàglie della preghiera, ricordando cose che sono già scritte nel Cammino di perfezione, ma per Teresa è im portante ripeterle costantemente:

[...] il profitto dell’anima non consiste nel molto pensare ma nel molto amare. Ma come si acquista quest’amore? determinandosi ad operare e a patire, discen­dendo poi alla pratica quando se ne presenti l’occasione. È sempre vero che l’ani­ma acquista le sue determinazioni pensando al molto che dobbiamo a Dio, chi Egli sia e chi siamo noi: ciò è assai meritorio e molto utile ai principianti, purché non manchino all’obbedienza o all'utilità del prossimo. Ecco che uno di questi due doveri viene a reclamare il nostro tempo, quel tempo che così ardentemen­te desideriamo consacrare a Dio: vale a dire - a nostro modo di vedere - col

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restarcene in solitudine per pensare a lui e godere le delizie che ci dona. Ma sacri­ficare questo tempo per qualunque di quei doveri è far contento il Signore e lavo­rare per lui, secondo le sue stesse parole: «Quello che farete a uno di questi pic­coli lo farete a me». Quanto poi all’obbedienza, non può certo valere che un’ani­m a sua amante vada per una strada diversa dalla sua (F 5, 2-3).

E noi?

Fino al Concilio Vaticano II, per lo meno in Spagna, le comunità si asso­migliavano tutte tra loro, come gocce d’acqua. Le Costituzioni, il Cerimoniale e, in misura minore, le opere della Santa e del Santo erano gli strumenti con cui si modellavano le comunità. A posteriori, posso affermare che, fino agli anni ’60, le comunità carmelitane avevano nel proprio funzionamento ester­no, nei propri costumi giornalieri, un marchio chiaramente post-teresiano, cioè vi erano molti elementi della pratica della vita comune che avevano mol­to più a che vedere con influenze doriane e posteriori che con la stessa Santa: per esempio noi novizie, durante la notte, restavamo materialmente chiuse a chiave nell’ala del noviziato; si facevano molti esercizi artificiali di penitenza, ma dentro questo apparato esteriore, tacitamente accettato dalle monache come stile teresiano, anche se in realtà non lo era, continuava ad ardere viva la fiamma dello spirito della Santa.

Oggi non possiamo far riferimento a santa Teresa per mantenere intatte tutte le caratteristiche e le norm e che reggevano le nostre comunità fin dal­l’inizio dell’opera della Santa. Vi sono circostanze storiche, a cui ella fa riferi­m ento e viveva come perenni, che oggi non esistono più con la stessa durez­za o inamovibilità e che non possono essere più per noi una scusa per non crea­re ora l’ambiente di una comunità teresiana. Tutto il tem a che le donne non possono far altro che piangere «in segreto» e pregare (anche se solo in modo vocale), perché sono le «difensore della Chiesa» è radicalmente cambiato al nostro tempo. Le esclamazioni della Santa, su quello che lei avrebbe fatto se le fosse stato permesso, essendo donna, non possono rimanere come un gri­do perpetuato e consacrato attraverso i tempi. Oggi, nelle nostre culture, la donna può fare quanto alla Santa non fu possibile. Noi carmelitane siamo chiamate non a perpetuare il carisma, bensì a svilupparlo, svolgerlo e manife­starlo ben oltre quanto Teresa poteva realizzare e neanche sospettare. Ella è potatrice del carisma fontale, ma non era cosciente, né poteva esserlo, di tu t­to il compito che può avere il dono dello Spirito che le fu affidato. Oggi, noi monache siamo chiamate ad unire le nostre forze e capacità per poter conti­

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nuare ad essere comunità vive, capaci di trasmettere il carisma alle nuove generazioni. Gli ultimi dieci anni sono stati segnati dalle discussioni sulla ri­strutturazione e ri-fondazione delle nostre comunità. Le difficoltà di dialogo, di m utua comprensione sono state grandi in molte parti. Abbiamo fatto pochi passi in avanti. Abbiamo toccato con mano gli enormi problemi frutto dell’iso­lamento e della eccessiva autonomia di molte comunità, della clausura mal intesa. Tutto ciò ha contribuito a far sì che molti tra i nostri monasteri sono rimasti sotto l’influenza intensa e determinante di diversi settori della società e della Chiesa, mentre divenivano completamente emarginati da qualsiasi comunicazione con le sorelle degli altri Carmeli.

Mi azzardo a dire che ciascuna di noi deve vivere oggi qualcosa di quello che la Santa visse negli anni 1560-1562, quando il Signore, a partire dalla pre­ghiera interiore e a partire da quel m om ento storico, la chiamò a: «fare quel poco che era in mio potere, cioè seguire i consigli evangelici con tutta la per­fezione che potevo e che queste poche che stanno qui facessero lo stesso» (CV 1, 5). La riflessione e l’ascolto interiore ci faranno discernere quegli aspetti dei consigli evangelici che devono risaltare nelle nostre comunità inserite nella società concreta. La povertà dello spostamento, del disinteresse e dello sradi­camento hanno un posto importante nella nostra contemplazione vissuta, giorno per giorno. E un’opportunità non solo per salvare la presenza del Car­melo nella Chiesa nei nostri paesi e regioni occidentali, ma anche per sonda­re le profondità insospettate del carisma teresiano e sanjuanista. La Santa vol­le erigere fortezze spirituali, dalle quali aiutare coloro che combattono per Cri­sto. Oggi queste fortezze, le nostre comunità, hanno certamente un aspetto fragile e debole, mentre la vita di ciascuna di noi può essere una fortezza ine­spugnabile per una vita rinnovata e intensificata dal disprezzo e dall’umiltà, che sono i pilastri dell’amore che lo penetra tutto e tutto lo vivifica, nonostan­te le apparenze. Già vi sono carmelitane scalze europee che hanno terminato i loro giorni in una struttura per anziani, condividendo la vita con altri religio­si e religiose. Hanno sperimentato, con la loro identità di carmelitane scalze, nuove forme di fraternità, di nudità, di notte, di solitudine e silenzio e abban­dono fiducioso all’Amato. Sono sicura che queste sorelle sono seme efficace di vita nuova per molti.

Le nostre comunità attuali vivono sempre più come parte di una comuni­tà più ampia, la federazione o associazione. La mancanza di nuove vocazioni e l’invecchiamento della popolazione ci costringono a fa r quadrato, a sostener­ci a vicenda (cfr. V 7, 22). Questo non è un elemento nuovo, visto che la San­ta Madre lo visse intensamente, anche se per motivi differenti. Nell’ambiente

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occidentale, uno degli sforzi più intensi delle federazioni è suggerire, prepara­re, accompagnare e portare a termine la fusione e soppressione di comunità. E allo stesso tempo, provvedere alla cura e assistenza delle sorelle più anzia­ne. Un altro compito consiste nella formazione iniziale e permanente delle sorelle. Questo è lavoro che in molte parti di Europa si è compiuto con uno sforzo immenso e interesse da parte di tutte. Oggi non è più pensabile una for­mazione impartita esclusivamente dentro ciascuna comunità. Non disponia­mo delle persone necessarie per questo, né sarebbe desiderabile, in quanto accentuerebbe nuovamente l’individualismo comunitario che ci ha caratteriz­zato per molto tempo, nonostante gli avvertimenti della Santa: «E spiacevole che lei pensi di sapere tutto e che dica d’essere umile, quando non vede altro che la sua casetta, e non ciò che è essenziale per tutte le altre [...]» (Lett. a Ma. Bautista, Valladolid, 28/08/1575). «Per questo portiamo un abito, perché ci aiutiamo a vicenda, poiché quello che è di uno è di tutti [...]» (Lett. alla prio­ra di Valladolid e comunità, 31/05 /1579).

Oggi le federazioni dovrebbero sostenere la creatività, aiutare ciascuna comunità a trovare la personale incarnazione del carisma teresiano, la sua maniera di rispondere alla sfida della storia. Suppongo, a partire dalle notizie che ci giungono, che già esistano nella nostra famiglia teresiana molti tipi diversi di comunità. Suppongo che, come sempre, la vita preceda le leggi, la mistica preceda le istituzioni. Quando pensiamo a quello che una comunità teresiana è, possiamo applicare perfettamente le parole della Santa quando parla dell’anima: «Le cose dell’anima si devono sempre considerare con ampiezza, estensione e magnificenza, senza paura di esagerare, perché la capa­cità dell’anima sorpassa ogni umana immaginazione [...] sia lasciata libera di circolare come vuole, in alto, in basso, e ai lati, senza rincantucciarla e restrin­gerla in una sola stanza [...]» (1M 2, 8). Nel 1991, in un incontro internaziona­le di carmelitane scalze a Wurzburg, nacque la decisione di creare contatti più concreti tra noi, che ci aiutassero nel rinnovamento conciliare partendo dalle comunità alle quali apparteniamo, intuendo che possiamo avanzare solo per la via della pluralità e della comunione. Mi parrebbe un aiuto molto interes­sante e utile se le federazioni si scambiassero le loro esperienze concrete di modalità distinte di comunità, unite nell’amore, aiuto reciproco e complemen­tarietà. Se dentro ciascuna persona vi sono un’infinità di moradas4 dove dimo­ra il Re e attraverso le quali possiamo passeggiare senza permesso, in un altro

4 «Mansioni/dimore» (n.d.T.).

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ordine di cose, ci sono un’infinità di moradas all’interno della nostra famiglia teresiana e senza permesso dovremmo poterle conoscere, attraversarle, goder­ne perché in tutte incontreremmo «il Re del castello». Rimane ancora molto da fare perché le federazioni e associazioni si possano muovere con questa libertà di spirito.

Qual è per Teresa la sua via dalla solitudine e silenzio al ritorno in pubbli­co, «al mercato», la via della compassione e della comunione con i fratel­li e le sorelle del mondo?

Le esperienze mistiche più grandi sono immerse nel concreto più intenso della vita quotidiana, con le sue innumerevoli relazioni umane, i suoi compiti e progetti, le sue gioie e stanchezze. Penso che Teresa sia chiamata a testimo­niare la «Umanità Santissima» di Gesù non solo con la sua teologia mistica, sapendo comunicare agli altri quello che sperimenta e comprende, ma anche, e non come magistero secondario, con tutta la sua persona, l’essere donna, monaca e mistica. L’umanesimo di Teresa si manifesta talvolta nella simulta­neità con cui vive il mistico e il quotidiano. L’epoca in cui scrive il Castello inte­riore, tra giugno e novembre del 1577 a Toledo, è un buon esempio di questa simultaneità (cfr. Lett. a M. di S. José, 28/06, 11 /07 e a Filippo II, 13/09. A que­sto periodo precedette una grave crisi di esaurimento agli inizi dello stesso anno).

La compassione di Teresa consiste nel desiderio ardente che tutti gli uom i­ni possano vivere la ricchezza che lei vive, il dono di Dio. E questo desiderio forma parte indissolubile del desiderio di Dio. La mistica della Santa Madre non è un ripiegamento su se stessi in sfere divine lontane dalla quotidianità e dalla miseria della condizione umana. Allo stesso tempo, l’umanesimo di Tere­sa non è in primo luogo una sensibilità che si rende conto e conosce profon­damente l’essere um ano nella sua contingenza e nella sua necessità di com­prensione e compassione, ma il suo umanesimo è l’esperienza essenziale che, grazie all’Incarnazione, il divino e l’umano non si possono mai più separare, né concepire, né amare separatamente.

Penso spesso, Signor mio, che, se quaggiù vi può essere qualche cosa che aiuti a vivere lontano da voi, questa non sia altro che la solitudine, avendo l’anima in lei la possibilità di riposare col suo riposo [...] Che cos’è questo, Signor mio? Possi­bile che il riposo stanchi quando l’anima non desidera che di contentarvi? [...] Gesù mio, come è grande l’amore che portate ai figli degli uomini, se il miglior

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servizio che vi si possa rendere è abbandonare voi per attendere ad essi e al loro profitto. In tal modo vi si viene a possedere più interamente. Benché la volontà non ne goda tanto, felicissima è l'anima di contentarvi [...] (cfr. E 2).

Questi desideri restano condizionati dalla realtà sociale che la circonda. Vorrei poter andare a predicare, essere missionaria, chiamare la gente alla fon­te viva della preghiera interiore, «dar voce» (cfr. V 20, 35) perché tutti si ren­dano conto della ricchezza di Dio che portiamo nella nostra vita.

Il suo cammino di monaca scalza è retto dalla dinamica della relazione: amicizia con Dio e amicizia con le persone (cfr. V 8, 5; CE 6, 4). La traiettoria di Teresa la conduce a partire dalle sue esperienze mistiche con i loro fenome­ni straordinari, verso un esistenza serena, che si abbandona a quanto ogni giorno presenta, una sintonia con la povertà evangelica nel senso della natu­ralezza con cui la Santa lavora per il Regno, in quello che la vita le ha presen­tato, cosciente che lo splendore della Presenza che sempre la colma si va facen­do più intimo, più sottile. La stanchezza, le malattie e le crescenti difficoltà esteriori nella consolidazione della sua opera non intaccano questo splendore interiore, ma lo affinano in modo che Teresa termina la sua esistenza in com­pleta povertà: disfatta dalla malattia e dalla stanchezza, incompresa da alcune delle sue figlie e da molti dei suoi figli carmelitani, perseguitata dall’Inquisi­zione, nel bel mezzo del cammino da Medina ad Alba per eseguire un compi­to impostole da un frate abbastanza im portuno e sciocco: andare a consolare la duchessa di Alba che sta per avere un figlio.

La statua che attualmente sta davanti al monastero dell’Incarnazione rap­presenta molto bene lo stile della mistica di Teresa: una donna forte, nell’atto di camminare, avvolta dal soffio dello Spirito, il volto aperto e illuminato da dentro, dove sta la radice e la fonte di tutto il suo essere. Invisibile, dietro la Santa, il Signore che la chiama a tornare a casa: «Di che temi? Questo è già fat­to. Te ne puoi andare benissimo» (cfr. F 31, 49). Se ne andò lasciando quindi­ci monasteri disseminati tra la Castiglia e l’Andalusia.

E per noi?

Oh, sorelle mie! Come deve trascurare il proprio riposo l'anima che vive così uni­ta al Signore! [...] Sì, se ella s’intrattiene spesso con lui, come sarebbe doveroso, finisce col dimenticare se stessa per esaurire ogni sua preoccupazione nel cerca­re di maggiormente contentarlo e nel conoscere in quali cose e per quali vie pos­sa mostrargli l’amore che gli porta. Questo è il fine dell’orazione, figliuole mie.

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A questo tende il matrimonio spirituale: a produrre opere ed opere, essendo que­ste, come ho detto, il vero segno per conoscere se si tratta di favori e di grazie divine [...] Infatti, che mi gioverebbe starmene profondamente raccolta in soli­tudine, occupata in atti virtuosi innanzi a Dio, proponendo e promettendo di far meraviglie in suo servizio, se poi, uscendo di là, facessi, al presentarsi di un'oc­casione, tutto il contrario di come ho promesso? (cfr. 7M 4, 6).

Queste parole di Teresa hanno un valore per i nostri giorni che talvolta lei stessa non poteva sospettare. Quello che la Santa previde per i fratelli carme­litani, una vita di contemplazione, di solitudine e preghiera, insieme con un certo apostolato informale, non sarà anche lo stile di vita delle carmelitane nei tempi a venire? L’impossibilità delle donne a dedicarsi all'attività apostolica nella Chiesa del tempo di Teresa non esiste più nel nostro. E, poi, quello che lei creò per i frati non dovrebbe considerarsi esclusivo per loro. L’interrogati­vo e un certo timore che accompagnano questo pensiero vanno diretti al nucleo della nostra vita: la preghiera interiore, il modo di vivere radicale del­l'amicizia con Gesù in un dialogo ininterrotto. Come possiamo non solo riconciliare, ma anche fecondare reciprocamente l’intensa vita interiore che abbiamo cercato di salvaguardare con una forma di vita strettamente claustra­le e materialmente lontana da ogni attività esterna, con questa nuova disponi­bilità che mi sembra essenziale per la carmelitana scalza in questo tempo e nel futuro? Non voglio con questo dire che dobbiamo organizzarci in funzione delle attività apostoliche, ma, certamente, dobbiamo essere disponibili a quan­to lo Spirito va insinuando attraverso le richieste che ci vengono da parte dei fedeli e della gente in generale, sapendo discèrnere in ogni caso ciò che è com­patibile con il nucleo del nostro carisma. Quello che voglio esprimere corri­sponde a quanto si è andato formando nel corso dei secoli, soprattutto a par­tire dal secolo XIX: le molte congregazioni religiose che, per il loro apporto apostolico alla Chiesa, si sono ispirate al carisma teresiano. Fondamentalmen­te, noi frati e monache, siamo chiamati a formare una sola famiglia in modo più visibile rispetto a quanto abbiamo fatto finora, anche se con la comple­mentarietà tra il modo maschile e il modo femminile di vivere la mistica. Cre­do che la nostra vita dovrebbe sempre dare testimonianza peculiare dell’inte­riorità, intesa come sguardo amoroso e accogliente sulla realtà, in primo luo­go la Realtà assoluta dentro noi stesse.

So per esperienza personale quanto forte e quanto reale possa essere la tensione che si crea nel vivere il trascendente nell’immanente. Ricordo con quale forza interiore percepii all’inizio che le grate che mi separavano dai miei genitori e fratelli,, dai miei amici e conoscenti, erano come il sacramento del-

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vario. Santa Teresa Benedetta della Croce oggi svolgerebbe la sua opera come teologa filosofa senza gli impedimenti di una clausura intesa solo materialmen­te. La possibilità di scrivere fa parte del carisma teresiano e fu esercitata fin dagli inizi dalla Santa Madre a favore delle sue figlie. La tradizione letteraria è ricca e varia in molte comunità. Tuttavia, mi pare che anche in questo ci troviamo in un m om ento diverso. Dobbiamo ascoltare gli inviti e le invocazioni di aiuto che ci pervengono dalla società e corrispondere, non solo accogliere. Voglio dire che il luogo fìsico del Carmelo non deve essere un assoluto per rincontro, anche se rimane sempre un luogo concreto e reale, uno spazio fìsico dove chiunque possa attendere ad una vita votata alla trascendenza.

Il contatto con i laici non dovrebbe essere solo questione di visite o di scambio epistolare. Oggi vi sono donne che desiderano veramente condivide­re la nostra solitudine, il nostro silenzio e la fraternità, senza che per questo perdiamo nulla del nostro carisma. Lo stesso disprezzo di sé, l'essenzialità in cui viviamo la vita di ogni giorno, tutta orientata verso la preghiera interiore, senza altri fronzoli né complicazioni, ci rende capaci di aprirci a partire da que­sto clima interiore alla presenza di donne che chiedono di addentrarsi nello sti­le di orazione teresiana, senza per questo optare per la vocazione al Carmelo. Sono sempre più le donne, sposate, vedove o singles, che hanno scoperto la miniera dell'orazione e vorrebbero imparare questo stile di vita, anche se per realizzarlo in seguito in una situazione concreta distinta.

La permeabilità della comunità è possibile se c'è un radicamento forte e solido di ciascuna sorella alla propria vocazione. Quando ciascuna sorella ha trovato veramente il filo conduttore della sua vita, che la conduce sicura e sen­za dubbi attraverso il carisma teresiano, questa permeabilità comunitaria non può essere mai un’occasione di perdita di identità. In cambio può essere una finestra aperta a scoprire aspetti del carisma della Santa che isolate e rinchiu­se non ci si rivelerebbero.

Tornare in pubblico. Non deve essere un’intenzione marginale al fine del­la nostra chiamata alla solitudine e all’orazione, ma piuttosto il frutto di que- st'ultima, non perseguita come fine, ma meglio ricevuta come dono di Colui a cui ci doniamo. È un eccesso - Vermessenheit - se facciamo nostre le parole della Santa?

Mentre stavo riflettendo se avevano ragione coloro che ritenevano un male che io uscissi a fondare, e che avrei fatto meglio a mettermi a pregare, intesi: «Men­tre si vive, il guadagno non sta nel cercare di godermi di più, ma nel fare la mia volontà». Mi pareva che, poiché anche san Paolo parla della clausura delle don­ne - me l'hanno detto poco tempo fa, ma l'avevo già sentito in precedenza - que­

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sta fosse la volontà di Dio. Ma Lui mi disse: «Di' loro che non seguano solo una parte della Scrittura, ma ne guardino altre, e che ci provino a legarmi le mani» (cfr. R 19).

Da anni ci troviamo su di una soglia, e attraversarla infonde timore e rispetto. Fa proprio al caso nostro quanto Teresa dice sulla preghiera interiore:

Prendete in acconto, o Signore, tutto ciò che la nostra ignoranza ci fa soffrire in questo cammino! Il male deriva dal credere che non si debba far altro che pen­sare a voi, per cui non osiamo interrogare i dotti, né conosciamo di che cosa abbiamo bisogno. E così, per non intenderci, sopportiamo terribili sofferenze, credendo alle volte che sia grave peccato, non solo il cattivo, ma persino il buo­no» (4M 1,9).

Siamo in un mom ento storico in cui torna di grande attualità quel para­grafo di CE 4 che rimase illeggibile nel corso dei secoli:

Non basta, Signore, che il mondo ci tenga rinserrate [...] che non facciamo nul­la per voi in pubblico che valga qualcosa, né osiamo trattare di certe verità che piangiamo in segreto; ma avverrà per giunta che non abbiate ad ascoltare domanda così giusta? [...] Perché vedo tempi siffatti che non è ragionevole riget­tare animi virtuosi e forti, quantunque siano di donne (CE 4, 7).

Gli impedimenti che provengono dalla nostra mediocrità e dalle gerarchie esistenti tra noi stesse e da quelle ecclesiastiche, rendono diffìcile il progresso e la ri-fondazione. Le federazioni e le associazioni, i gruppi di riflessione e stu­dio tra noi possono apportare un contributo im portante in questo campo. For­se la semplice presentazione di cammini che andiamo trovando, per tentativi, nelle diverse regioni del mondo, esperienze concrete di ri-fondazione, è pro­prio quanto ci manca in questo momento. Credo che ciò che ci può portare un po’ di luce nel cammino non siano tanto temi astratti o riflessioni teologi­che su verità che nessuno pone in discussione, ma il condividere passi concre­ti, realizzazioni fatte da federazioni o comunità.

In mezzo a tu tto questo, la cosa irrinunciabile continua ad essere la via e la dimora dove rifugiarci sempre, tanto innamorate da fare da parte nostra quello che possiamo. «Ma se invece si trascura sino a porre le sue affezioni sopra altro oggetto che non sia Lui, perde ogni cosa [...] anime cristiane che Dio ha condotto fin qui, vi prego per amor suo di non mai trascurarvi [...]» (5M 4, 4-5). In Gesù, con Gesù e per lui, stiamo allo stesso tempo in Dio e nel­

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la creazione, disponibili per Dio e per il mondo. Dentro e fuori si incontrano, silenzio e parola, solitudine e fraternità, comunione e separazione sono sfu­mature dello stesso colore in infinite tonalità di quella luce che è la gloria di Dio in Cristo. Forse tutta questa riflessione sulla rifondazione del Carmelo femminile può essere riassunta con l’immagine di Dio che si ritira da sé in sé per lasciar posto alla creazione, il tsim-tsum della Cabala. Il nostro essere di car­melitane si ritira fino al centro del castello dove dimora il Re, per lasciare posto alla creazione che portiamo in noi fino alla Presenza che ci inabita e ci illumina.

Teresa seppe vivere questa vita con i suoi cambiamenti e sconvolgimenti continui; seppe accettare il dramma della transitorietà credendo, sperando, amando. Come pochi ha conosciuto il dolore di dover vivere la contingenza umana e come pochi ha pregustato già in questa vita quello che sperava. È questo che l’ha tenuta unita a Dio e lei ha fatto propria questa contingenza in Gesù:

Anima mia, quando t ’inabisserai in questo sommo Bene e conoscerai quello che Egli conosce, amerai quello che Egli ama e godrai quello che Egli gode, allora entrerai nel tuo riposo: la tua volontà si spoglierà della sua incostanza, né andrai più soggetta a mutamenti. La grazia di Dio sarà così efficace da renderti parteci­pe della natura divina [ ...] Amo meglio vivere e morire nella speranza e nello sforzo dell’acquisto per la vita eterna, che possedere tutte le creature con i loro beni fugaci. Non abbandonarmi, Signore! Io spero in te, e la mia speranza non sarà confusa. Dammi sempre di servirti, e fa di me quel che vuoi! (E 17).

Carmelo di Mataró