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1 Senso e identità del paesaggio Luisa Bonesio 1. Il paesaggio è un’immagine? La figura del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich (1818) appare esemplare per molti versi in un’interrogazione sul paesaggio. Innanzitutto il dipinto presenta gli elementi costitutivi del paesaggio come costrutto culturale della modernità: lo sguardo di un soggetto che contempla, ritratto en abîme, lo spazio che gli sta di fronte, de- limitato dalla chiusura dell’orizzonte; una natura rappresentata significativamente nel registro del sublime romantico (montagne, nuvole). In questa mise en abîme, leggiamo anche l’origine artistica della parola e dell’idea di paesaggio, coniata per designare un genere di pittura (la pittura di paesaggio, o meglio quell’inserzione nel dipinto, tramite il riquadro di una finestra o di un’altra apertura, di una porzione di spazio esterno – il “paese”, appunto). Nell’evoluzione dall’accezione di rappresentazione artistica all’oggetto rappresentato, il termine “paesaggio” (Landskap, da cui Landschaft, Landscape, e nelle lingue neolatine, dal tardolatino pagus e pagensis, paese, paesaggio), conio linguistico e genere di rappresentazione di origine fiamminga risalente al XV secolo, non va mai definitivamente perduta la memoria della condizione di possibilità che aveva dato luogo a questa creazione: quella prospettiva artificiale, vera “forma simbolica” occidentale tramite la quale la cultura dell’incipiente modernità pone alla giusta distanza e nelle debite condizioni scientifiche lo spazio da rappresentare, ordinandolo e razionalizzandolo, fino a mettere in ombra la de-finizione locale e singolare di terra abitata che si esprimeva nel termine 1 . La vediamo ancora rappresentata, in citazione, nella posizione del viandante, che pure ha ormai conquistato un punto di vista più allargato e panoramatico. Ma quel che conta sottolineare è la ineliminabile connotazione artistica ed estetica della parola paesaggio, che si tende spesso a usare come sinonimo di spazio, territorio o ambiente, ma di cui, in ogni caso, si assume la connotazione di valore estetico (che era implicito nel fatto di rappresentarlo artisticamente). L’intelligenza filosofica di Friedrich si rivela nella genialità di dare a vedere il dispositivo dello sguardo paesaggistico così come è stato messo in atto dalla cultura moderna occidentale, e soprattutto di svelarne l’intrinseca connotazione faustiana. Basta osservare la posa rilassata e signorile del gentiluomo 1 Pagus = cippo di confine fissato in terra, che designa una regione rurale ben definita, e, come dimostra filologicamente J. Brinckerhoff Jackson (Discovering the Vernacular Landscape), nelle lingue anglosassoni Land designava storicamente uno spazio definito da frontiere, anche se non necessariamente da chiusure o mura.

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Senso e identità del paesaggio

Luisa Bonesio

1. Il paesaggio è un’immagine? La figura del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich (1818) appare esemplare

per molti versi in un’interrogazione sul paesaggio.

Innanzitutto il dipinto presenta gli elementi costitutivi del paesaggio come costrutto culturale della

modernità: lo sguardo di un soggetto che contempla, ritratto en abîme, lo spazio che gli sta di fronte, de-limitato dalla chiusura dell’orizzonte; una natura rappresentata significativamente nel registro del sublime romantico (montagne, nuvole). In questa mise en abîme, leggiamo anche l’origine artistica della parola e dell’idea di paesaggio, coniata per designare un genere di pittura (la pittura di paesaggio, o meglio quell’inserzione nel dipinto, tramite il riquadro di una finestra o di un’altra apertura, di una porzione di spazio esterno – il “paese”, appunto). Nell’evoluzione dall’accezione di rappresentazione artistica all’oggetto rappresentato, il termine “paesaggio” (Landskap, da cui Landschaft, Landscape, e nelle lingue neolatine, dal tardolatino pagus e pagensis, paese, paesaggio), conio linguistico e genere di rappresentazione di origine fiamminga risalente al XV secolo, non va mai definitivamente perduta la memoria della condizione di possibilità che aveva dato luogo a questa creazione: quella prospettiva artificiale, vera “forma simbolica” occidentale tramite la quale la cultura dell’incipiente modernità pone alla giusta distanza e nelle debite condizioni scientifiche lo spazio da rappresentare, ordinandolo e razionalizzandolo, fino a mettere in ombra la de-finizione locale e singolare di terra abitata che si esprimeva nel termine1. La vediamo ancora rappresentata, in citazione, nella posizione del viandante, che pure ha ormai conquistato un punto di vista più allargato e panoramatico. Ma quel che conta sottolineare è la ineliminabile connotazione artistica ed estetica della parola paesaggio, che si tende spesso a usare come sinonimo di spazio, territorio o ambiente, ma di cui, in ogni caso, si assume la connotazione di valore estetico (che era implicito nel fatto di rappresentarlo artisticamente).

L’intelligenza filosofica di Friedrich si rivela nella genialità di dare a vedere il dispositivo dello sguardo paesaggistico così come è stato messo in atto dalla cultura moderna occidentale, e soprattutto di svelarne l’intrinseca connotazione faustiana. Basta osservare la posa rilassata e signorile del gentiluomo

1 Pagus = cippo di confine fissato in terra, che designa una regione rurale ben definita, e, come dimostra

filologicamente J. Brinckerhoff Jackson (Discovering the Vernacular Landscape), nelle lingue anglosassoni Land designava storicamente uno spazio definito da frontiere, anche se non necessariamente da chiusure o mura.

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che osserva il paesaggio: in cima alla rupe da cui domina l’intorno, il viandante mostra di avere ormai consuetudine con le escursioni e le altitudini alpestri, inaugurate in tempi recenti proprio grazie alle poetiche e alla sensibilità del sublime e del pittoresco, non meno che – come ha ribadito Farinelli – alla domesticazione delle montagne e all’inserimento nel mondo culturale di porzioni di terra selvaggia. Che cosa vede, se dal compatto mare di nubi emergono solo alcune vette e un sole al tramonto (o all’alba)? Friedrich esibisce, per così dire, la verità estrema dello sguardo estetico portato alla natura (come a qualunque altro oggetto): non importa che cosa si vede; rilevante, nel giudizio di gusto, è la disposizione suscitata nel soggetto contemplante, la sua sensazione soggettiva, lo stato d’animo. Semplice occasione o pretesto, anche il paesaggio non è che la quinta per rispecchiarvi il sentimento del soggetto. D’altra parte, però, è significativo che il viandante scruti l’orizzonte: bella rappresentazione dell’ansia faustiana dell’oltrepassamento, della Sehnsucht per l’infinito, per il travalicamento di ogni limite. Qui è possibile riconoscere la verità profonda e il ruolo, nella mappa della ragione occidentale, dello sguardo estetico sul paesaggio (ma di ogni “estetica” in senso moderno e post-cartesiano): in fondo, uno stesso anelito faustiano si esprime tanto nel progetto di dominio sul reale, nell’assoggettamento, tramite la scienza e la tecnica, della natura – che porterà in breve tempo alla irreversibile trasformazione del volto della terra e alla rapida scomparsa dei “paesaggi” –, quanto nel vagheggiamento estetico (e da subito nostalgico) della natura bella o sublime o pittoresca. Esiste un’intrinseca e necessaria coappartenenza tra il gesto conoscitivo e disponente, tramite la certezza della razionalità metodica e calcolante, del soggetto (la res cogitans di Cartesio) che si rapporta a una natura intesa come mera estensione quantitativa e inerte (la res extensa) da assoggettare alla propria volontà, e la marginalizzazione, nella dimensione umbratile e soggettiva, non passibile di conoscenza oggettiva e comunicabile, indimostrabile e tendenzialmente intraducibile, del mondo delle qualità, del sentire (aisthesis), della sensazione, del non-razionale, per il quale, non a caso, proprio nel XVIII secolo, viene “inventata” un’apposita disciplina filosofica: l’Estetica.

Così la natura sarà al contempo lo spazio del più disincantato e brutale assoggettamento, e l’oggetto di un vagheggiamento nostalgico e idealizzante, che culmina nel “culto” romantico della natura come paesaggio. Quello, appunto, esemplarmente rappresentato nella pittura di Friedrich.

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2 C. D. Friedrich, Il Watzmann (1824-’25)

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3 Ma nell’un caso come nell’altro, la “natura”, il “mondo” sono rimessi come oggetto alla fruizione

di un soggetto che vi si pone di fronte, in una asimmetrica contrapposizione, e si arroga la libertà di disporne senza limiti. In un caso come nell’altro, si verifica una soggettivizzazione, una riconduzione di tutto alla misura imposta dal soggetto. E la stessa pulsione al travalicamento di ogni orizzonte e limite, che porta alla violazione di tutti i segreti della natura, si manifesta nel consumo estetico dei paesaggi. “Inventati” in rapida successione tra XVIII e XIX secolo, scoperti, fruiti e goduti in misura crescente e intensiva anche grazie a una progressiva divulgazione letteraria, pittorica, iconografica, oltre che grazie alla possibilità, tramite il viaggio prima e alle progressive forme di turismo e all’apertura di sempre nuove vie di comunicazione poi, i paesaggi si riducono a icona o cliché, mentre la curiosità estetica spinge a scoprirne e a valorizzarne sempre nuovi. Anche in questo modo, il paesaggio finisce per entrare nella temporalità propria della modernità, fatta di consumo e accelerazione crescente, e, in ultima istanza, di distruzione.

2. Nel paesaggio si abita Se si pone mente alla rapida trasformazione e avvicendamento di modelli nell’ambito del gusto,

delle poetiche e delle forme di arte ed estetizzazione della vita, dal Settecento a oggi, secondo un’accelerazione crescente, un’innovazione molto simile, nei ritmi e nella logica, alla moda, non si può non notare la straordinaria persistenza (e certamente banalizzazione) dei modelli di fruizione e apprezzamento estetico in ambito paesaggistico. In fondo, almeno fino a poco tempo fa, si sono apprezzati e ricercati i paesaggi codificati e “messi in forma” all’epoca della loro scoperta (le Alpi, la natura selvaggia, le campagne pittoresche, ecc.). Non solo più o meno gli stessi luoghi, ma – è possibile dimostrarlo tramite un’analisi di immagini pittoriche, fotografiche, commerciali, turistiche, amatoriali, ecc. – gli stessi modi di inquadratura, di prospettiva, di selezione dei particolari. In fondo, come si verificò da subito, si va a cercare, in un paesaggio, quello che è stato visto all’inizio, replicando incessantemente e inconsapevolmente la forma di quella prima valorizzazione. Fenomeno osservabile, fatte le debite proporzioni, anche nell’odierna industria turistica, in cui ci si reca a verificare in loco la congruenza del paesaggio reale con l’immagine che ci si è fatti a casa propria, dal dépliant o dalle foto

3 C.D. Friedrich, L’albero solitario (1821).

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degli amici. È possibile mostrare come la persistenza di modelli estetici che grosso modo ricalcano le poetiche del pittoresco e del sublime

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oppure la valorizzazione di un’idea regionale (tipica) del territorio, orienti ancora oggi il giudizio e la “domanda” (e dunque i modi della valorizzazione) di paesaggio, spesso scontrandosi con la percezione e gli usi degli abitanti locali6.

4 Caspar Wolff, Vista del Lago di Thun e del Monte Niesen (1776). 5 Foto da un reportage turistico in Svizzera: la Via Mala.

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La persistenza del paradigma estetico “visibilistico” è stata riscontrabile per lungo tempo nelle

disposizioni legislative in materia di protezione del paesaggio, e la si può riconoscere, coerentemente, nelle teorie che identificano il paesaggio con l’identità estetica di un territorio. Esso, rispecchiando appieno l’ambiguità soggettivistica, è impotente (o comunque molto debole) di fronte all’obiezione di difendere una concezione passatista di bellezza (connessa a stili di abitare e di uso del territorio fatalmente obsoleti) a discapito delle logiche effettive di uso dei territori. In positivo, esso non può che condurre alla fissazione dell’immagine (fino al cliché) estetica dei luoghi,

con effetti che vanno dalla imbalsamazione museale a scopo di tutela, all’utilizzazione del valore di icona di un paesaggio a fini commerciali, produttivi e turistici, fino alla rappresentazione di identità e tradizionalità inesistenti.

Dal fienile walser restaurato filologicamente per essere usato come casa di vacanza di prestigio,

fino all’estremo, rivelatore, delle ricostruzioni dei mondi passati nelle Disneyworld

6 Un’interessante rassegna di casi di conflitto sociale innescati da diverse percezioni paesaggistiche (“il paesaggio

degli uni non è il paesaggio degli altri”) si trova nel volume Paysage au pluriel. Pour une approche ethnologique des paysages, a cura di C. Voisenat, Editions de la Maison des sciences de l’homme, Paris 1995.

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o a Las Vegas

7 e persino negli ecomusei all’aperto come lo svizzero Ballenberg

7 Las Vegas, Desert Passage.

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vengono prodotti luoghi senza profondità né sostanza storica, che cercano di corrispondere al proprio ipersemplificato cliché, fungendo come una sorta di icona a scala reale. Questa logica di conservazione di una mera sembianza estetica, analoga, sotto certi aspetti, a un allestimento museale, crea la convinzione che le esigenze della tecnoeconomia moderna siano compatibili con la salvaguardia di dimensioni residuali della memoria storica e identitaria sotto forma di icone o riserve (parchi, aree protette) tutto sommato rassicuranti, in cui ci si può recare la domenica o in vacanza. Le complesse conseguenze di questa convinzione, perfettamente rispondente alla logica dell’industria turistica come di altre forme di interessi economici, sono state analizzate sia dalla geografia del turismo che dalla geofilosofia9.

Sono ricadute “pesanti” e spesso devastanti a lungo termine, anche se spesso non immediatamente percepibili come tali dalle comunità locali, mostrandosi spesso sotto le mentite spoglie di una soluzione ragionevole e forse inevitabile. Anzi, come ha brillantemente mostrato Bernard Crettaz nel caso della Svizzera, la celebrazione del passato, assunto come mito di fondazione identitaria, può indurre a guardare ancor più fiduciosamente al presente, al futuro, al “progresso”: in un certo senso, la distruzione della natura e il disordine dei paesaggi in nome dell’innovazione possono trovare compensazione nei simboli della permanenza, dell’ordine, e dell’immutabilità naturale10.

Se in precedenza ci si è richiamati all’etimologia e alla genealogia del sostantivo fiammingo usato

per designare il paesaggio come genere pittorico e poi, per traslazione, il paesaggio come realtà della configurazione territoriale apprezzabile esteticamente, non è meno importante richiamarsi ad un’altra ascendenza linguistica. Nelle lingue neolatine, il termine “paesaggio” deriva da “paese”, discendente dall’aggettivo tardolatino pagensis, da pagus = villaggio, ma più originariamente cippo confinario, recinto, limite. Il paesaggio, secondo la logica di questo etimo, appare come una regione rurale definita da

8 Ballenberg, ricostruzione di una baita di Campascio (Grigioni), 1825. 9 “L’eccesso di frequentazione di territori vulnerabili comporta gravi rischi di degrado e di depauperamento delle

qualità dei paesaggi esistenti. Questo rischio, già abbondantemente trattato nel caso dei centri storici, si avverte anche nelle aree del turismo montano e costiero, sottoposte a forti pressioni di sviluppo immobiliare […]. In questi territori è in gioco la possibilità di garantire uno sviluppo sostenibile, ma in una accezione ancor più complessa di quella che abitualmente investe la tutela delle risorse non riproducibili e la coesione delle società locali. Si tratta infatti di contrastare il loro tendenziale snaturamento a ‘parchi tematici’ destinati al consumo di massa e alla monocultura del turismo, che alterano irreversibilmente i delicati equilibri tra uomo e natura di cui sono espressione questi paesaggi di eccellenza” (Conferenza nazionale per il Paesaggio 1999, Atti, Gangemi, Roma 2000: “Paesaggio e sviluppo sostenibile”, Documento preparatorio, p. 211).

10 Cfr. B. Crettaz, La beauté du reste. Confessions d’un conservateur de musée sur la perfection et l’enfermement de la Suisse et des Alpes, Zoé, Genève 1993.

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confini o comunque chiaramente riconoscibile nei suoi limiti; accezione individuabile anche nel senso antico di Landschaft, la campagna lavorata, opera della comunità: dunque una realtà che allude all’insediamento, all’abitare, coltivare, abbellire e venerare11 da parte di una comunità sul territorio scelto per viverci.

Quando, per contro, la cultura fiamminga riprende il termine Landschaft ricontestualizzandolo nell’ambito artistico, è già in via di consumazione la scissione tra la dimensione urbana, con la sua specifica cultura, e la campagna, un “fuori” da allontanare o da riconquistare attraverso quella messa in forma regolata della distanza rappresentata esemplarmente dalla finestra prospettica. Non a caso, nella storia della pittura, il paesaggio fa le sue prime apparizioni nel riquadro di una finestra o di un’altra apertura dell’ambiente domestico o urbano, da cui si scorge una campagna

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(il lavoro e il contesto di vista di altri) godibile come fenomeno estetico, spettacolo che la cultura urbana rappresenta nella forma artistica, o come sfondo delle proprie città.

11 Questi i significati racchiusi nel verbo latino colere, come in quello tedesco bauen, nei quali coltura, cultura,

costruzione e culto (nel senso della ritualità religiosa e della cura per la bellezza e il decoro) sono coessenziali nell’abitare umano sulla terra.

12 J. Campin, “Il Maestro di Flémalle”, La Vierge au écran d’osier (1424).

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13 Per misurare intuitivamente la separazione accaduta tra le due dimensioni, è sufficiente pensare

agli affreschi di Ambrogio Lorenzetti rappresentanti gli effetti del buono e del cattivo governo nel Palazzo comunale di Siena, nei quali un unico paesaggio è articolato e pensato unitariamente nelle sue varie componenti, la città, le campagne, le strade, le selve, i terreni incolti, ecc.

Queste considerazioni mostrano la necessità di risalire, oltre la predominante accezione artistico-

estetica del concetto di paesaggio, a un pensiero dell’identità dei paesaggi come un’incessante realizzazione di atti territorializzanti, espressione armonica del peculiare stile di insediamento (e dunque di interazione con la natura) da parte di una cultura situata (non necessariamente autoctona!), in cui la qualità estetica non può essere scissa, come un’efflorescenza senza radici, dall’identità culturale del luogo. Lungi dal risolversi in municipalismo difensivo, chiusura automonumentalizzante, patetismo museale, questa ottica è la condizione di riconoscibilità di un profilo differenziale nell’incessante trasformazione del volto del mondo, che a buon diritto ha potuto esprimersi nell’idea fisiognomica per alludere alla manifestazione sempre singolare del genius loci, al modo coerente ma sempre rinnovato del mantenersi in accordo con il carattere del luogo che una cultura sceglie di evidenziare. In questa prospettiva, “tradizione” e “innovazione” non si collocano in irriducibile antagonismo: la continuità dello stile di una cultura (e dunque del suo modo di produrre-conservare paesaggio) si realizza attraverso innumerevoli atti di trasformazione, adattamento, riassetto.

Il paesaggio come spazio simbolico della comunità insediata è la questione si è riproposta con forza ineludibile agli urbanisti in questi anni, in relazione alla progettazione di forme di territorializzazione che non si limitino a una mera criogenizzazione dell’esistente o, per converso, alla nichilistica rassegnazione di fronte a un’omologazione azzerante che si effettua anche tramite forme costruttive e logiche territoriali uniformi, informi o palesemente deformi. Se il paesaggio è creazione di una cultura, la sua perpetuazione e incremento è correlativa a ciò che è stata indicata come “la ricostruzione della comunità”14. Se “la comunità che sostiene se stessa fa sì che l’ambiente naturale possa sostenerla nella sua azione”, il primo requisito per mantenere la peculiarità di un paesaggio è quello di

13 J. Van Eyck, La Madonna del cancelliere Rolin (1433 circa). 14 A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 91.

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non imporre sul luogo logiche economiche esogene ed estranee, modelli e ritmi di sviluppo che non tengano conto delle peculiarità locali. Questo progetto di ricostituzione di un paesaggio mira a instaurare delle appartenenze sociali locali, a un’identificazione con i luoghi dell’abitare15. Come ribadisce il documento preparatorio della Conferenza nazionale per il Paesaggio del 1999, “per evitare indebiti appiattimenti, occorre far comprendere con assoluta chiarezza che il paesaggio è specificità, è differenza, è localismo. Non sono dunque ammissibili disinvolte operazioni di trasferimento a diversi contesti di soluzioni che vanno cercate di volta in volta sulla base delle singolarità delle situazioni da trattare”16, anche se rimane, ineludibile orizzonte, la lacerazione – se non probabilmente irreversibile comunque molto profonda – di quella relazione tra dimensione urbana e campagna che costituiva in senso proprio il “paese”, dando luogo al “paesaggio” come forma rappresentativa e visibile17 di una cultura.

3. Paesaggio e comunità È a partire da queste motivazioni che da più parti si è iniziato a riscoprire la centralità del senso

del luogo18, di cui il paesaggio è la manifestazione più visibile (anche se non tutta immediatamente visibile), come coappartenenza di territorio e comunità degli abitanti, ma anche di tutta una serie insopprimibile (pena la virtualizzazione del paesaggio) di dimensioni, dalla memoria e tradizionalità – dunque il rapporto con gli ascendenti – agli aspetti della conformazione naturale ed ecologica, alle simbolizzazioni rituali e sacrali depositate come segni nel territorio, alla responsabilità verso i venturi. L’idea che una vera e propria personalità, uno stile peculiare si esprima nella singolarità di ciascun paesaggio, è utile a comprendere il significato e l’importanza della coerenza che ogni atto territorializzante deve possedere per non essere aggressivo e potenzialmente dissolutore dell’unità espressiva del luogo. Quando interventi inopportuni, disordinati, dissonanti vengono attuati sul territorio,

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15 “Nello stesso momento in cui (la società paesaggista) produce volontariamente il proprio territorio […], produce se

stessa, alla ricerca del legame sociale perduto” (P. Donadieu, La societé paysagiste, Actes Sud, Arles 2002, p. 140). 16 “Paesaggio e sviluppo sostenibile”, Documento preparatorio, cit., p. 217. 17 Cfr. anche F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003, p. 69: “Poiché se

inteso come insieme di forme visibili il paesaggio è un complesso riconducibile alla relazione tra città e campagna, perde in tal modo significato anche quel che chiamiamo ‘paese’, che è appunto il meccanismo che funziona a scala del rapporto tra ambito urbano e ambito contadino […]. Proprio la coerente rispondenza di tutte le cose del mondo a un unico visibile ordine, dunque a un modello culturale prima ancora che materiale, costituiva quel che una volta si chiamava un paese”.

18 Cfr., p. es., L. Bonesio, Riscoprire il senso del luogo, “Il Verde comunitario”, 1, 2000 (tr. fr. Eléments, 100, 2001), ora in Ead., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Bologna 2002, e Ead., Luoghi, architettura, paesaggio. Una considerazione tra estetica e geografia della postmodernità, “Bollettino della Società geografica italiana”, 4, 2003.

19 Cervinia.

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20 esso finisce in una progressiva illeggibilità e disorganizzazione che si ripercuote come impossibilità di riconoscimento da parte della comunità, con effetti di ulteriore degrado, incuria, vandalismo ma anche disgregazione e malessere sociale. Gran parte della responsabilità del degrado o della distruzione irreversibile delle identità territoriali ricade sull’ideologia dell’indiscutibile primato di un’economia incurante e miope degli effetti a lungo termine, e sulla convinzione che rispetto alla centralità del suo valore non sia possibile porre limiti reali, tanto meno quelli legati a significati apparentemente immateriali come la bellezza o la conservazione della memoria; ma altrettanto, e forse inscindibilmente, su forme di amnesia sociale, di trascuratezza, deresponsabilizzazione come sul proliferare di non-luoghi.

L’importante contromovimento di consapevolezza e riflessione di questi anni, invece, riscopre l’esistenza di un nomos intrinseco nel luogo, ossia un insieme individuabile di invarianti che costituiscono quello che gli urbanisti chiamano lo “statuto del luogo”: una griglia di caratteristiche che definiscono l’irriducibile singolarità, la fisionomia propria di un luogo, la sua specificità differenziale, la sua cifra espressiva.

20 Belgio. Per un’interessantissima documentazione sistematica di archeologia industriale europea, cfr. www.finster-

stahlart.de.

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21 Sono caratteri non riducibili alla pura sembianza estetica, che ne è, casomai, la modalità in cui ne

leggiamo l’attuazione culturale e storica. Non va dimenticato, infatti, che uno stesso “territorio”, medesimo quanto a morfologia, dati climatici, vegetazione, struttura geologica, (“ambiente”), può essere interpretato in modalità diverse da culture differenti: i “dati oggettivi” dell’ambiente ecologico e del territorio geografico costituiscono un insieme di condizioni di possibilità che possono venire, entro certi limiti, selezionate, realizzate o sottolineate diversamente a seconda della cultura che le assume come proprio “paesaggio materno”.

Il che ricorda opportunamente come termini (e concetti) come “territorio”, “ambiente”,

“paesaggio” non siano affatto sinonimi; in particolare, come vada evitata la riduzione del “paesaggio”, che è sempre una costruzione culturale, all’“ambiente”, che ne è la condizione di possibilità naturale ed ecologica. Il che comporta anche la parzialità di ogni riduzione alla pura dimensione ambientale o ecologica della conservazione e/o valorizzazione del paesaggio, anche se, ovviamente, la conoscenza e il rispetto della struttura e degli aspetti naturali – che comunque a noi si danno negli aspetti di ripetute e complesse trasformazioni storiche e innesti culturali, dunque di una “natura storica” - costituisce il grado preliminare, fondante e inaggirabile di ogni azione volta a costruirvi o a riconoscervi un “paesaggio”22.

21 Vals, Grigioni, Svizzera. 22 Come viene ripetutamente ribadito dalla geografia culturale, anche un luogo “vergine”, mai calcato da piede umano,

viene trasformato in paesaggio (culturale) dallo sguardo di chi lo scorge per la prima volta.

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23 Se tutti i luoghi esprimono, in misura e riconoscibilità diverse, un’identità, per quanto mai

fissabile una volta per tutte, allora il concetto di paesaggio non può che ampliarsi da un’accezione estetica, ristretta e alta, calibrata su salienze eccezionali, alla designazione di ogni realtà territoriale di cui si riconosce la specificità. Se non tutti i luoghi posseggono, evidentemente, le stesse qualità estetiche, tutti, almeno in linea di principio, esprimono identità culturali locali, meritevoli di essere conservate e trasmesse, non come morti reperti, ma come un’eredità ogni volta seleziona e riattualizza quanto il passato consegna. Paesaggi di diversa consistenza simbolica, identitaria ed estetica, ma tutti “teatro” di comunità degne di potere continuare a riconoscersi nella fisionomia, impressa lungo il tempo, nel proprio luogo. Quando si verifica una polarizzazione del valore estetico-paesaggistico su alcune località eccezionali, si diffonde l’idea che le altre non siano meritevoli di cura, attenzione, preservazione o potenziamento della propria identità paesaggistica, facendole così degradare progressivamente a “nonluoghi”, a territori di pura destinazione funzionale.

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23 Valle Antigorio (Piemonte). 24 Le Corbusier, Plan Voisin (1925).

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Questa direzione di estensione del concetto di paesaggio all’insieme territoriale, che supera l’accezione vedutistica e visibilistica di certo riduzionismo estetico verso un concetto di paesaggio come luogo ed espressione insopprimibile di identità culturale, si trova espressa a chiare lettere nella Convenzione sul Paesaggio (2000) del Consiglio d’Europa che, distinguendo tre categorie di paesaggio (i paesaggi “eccezionali”, i paesaggi “degradati”, i paesaggi “del quotidiano”), opera il passaggio da una concezione puramente vincolistica, adottata normalmente per la tutela dei paesaggi “eccezionali”, ma problematicamente applicabile ad altri, ad una progettuale, di miglioramento o di gestione di tutti i luoghi, compresi quelli della quotidianità o della produzione. E questo perché “ogni paesaggio rappresenta un quadro di vita per la popolazione interessata; esistono complesse interazioni tra i paesaggi urbani e quelli rurali; la maggior parte degli europei vive nelle città (grandi o piccole) e la qualità paesistica di queste ultime incide profondamente sulla loro esistenza; infine, i paesaggi rurali rivestono un ruolo importante nella sensibilità europea”25.

Il riconoscimento dell’effettiva differenziazione delle caratteristiche locali, non riconducibili a un metro comune, induce a prefigurare “politiche” flessibili, al di là delle misure vincolistiche per aree specifiche, che si occupino progettualmente e responsabilmente del paesaggio espresso in tutti i luoghi o del suo recupero e miglioramento. Questa impostazione presuppone l’esplicito e forte richiamo, nell’art. 5 delle “Misure generali”, a riconoscere il paesaggio come identità culturale: “Ogni parte si impegna a: a) riconoscere giuridicamente il paesaggio come componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, come espressione della diversità del loro patrimonio comune culturale e naturale e come fondamento della loro identità; b) definire e mettere in opera politiche del paesaggio finalizzate alla protezione, la gestione e la pianificazione dei paesaggi attraverso l’adozione delle misure particolari individuate dall’art. 6.; c) elaborare procedure di partecipazione pubblica, delle autorità locali e regionali, e di tutti gli attori interessati al concepimento e alla realizzazione delle politiche del paesaggio summenzionate; d) integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione territoriale e urbanistica e nella politica culturale, ambientale, agricola, sociale ed economica, così come in altre politiche dagli effetti diretti o indiretti sul paesaggio”26.

Questa importante riconcettualizzazione di come vada inteso il “paesaggio” consente di evadere

dall’alternativa inaccettabile tra congelamento e museificazione da un lato, e dall’altro libera (il più delle volte arbitraria) iniziativa e manomissione del territorio, chiamando le parti in causa a una articolata responsabilità della gestione e degli interventi e finalmente riconoscendo ai singoli paesaggi l’unitarietà non scomponibile in logiche differenziate, ma tale da richiedere una concezione della necessità della visione e della gestione unitaria, e non puntiforme e irrelata, per mantenere il “senso” di un luogo e la fisionomia paesaggistica.

25 L.M. Calandra, La cultura del progetto, in A. Turco (a cura di), Paesaggio: pratiche, linguaggi, mondi, Diabasis,

Reggio Emilia 2002, p. 136. 26 Corsivo mio.

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27 Il processo di de-culturazione e la progressiva scomparsa dei tratti peculiari che si esprimono

innanzitutto nella qualità del paesaggio, nella cura e coerenza delle modalità abitative e costruttive, nella tutela e valorizzazione della territorialità agraria storica, non meno che del patrimonio artistico-monumentale, ma anche di tutti i valori simbolici, ancestrali e religiosi che caratterizzano in modo assolutamente singolare un territorio, è un rischio da cui la legislazione di tutela nazionale e regionale, come pure i documenti di indirizzo della Convenzione europea del paesaggio, intendono mettere in guardia, riconoscendo che “ogni paesaggio rappresenta un quadro di vita per le popolazioni interessate” e che “esistono complesse interazioni tra i paesaggi urbani e quelli rurali”. Ma soprattutto, come si è già ricordato, fra le misure della Convenzione viene affermata la necessità di “integrare il paesaggio nella politica di pianificazione territoriale e urbanistica e nella politica culturale, ambientale, agricola, sociale ed economica, così come in altre politiche dagli effetti diretti o indiretti sul paesaggio”. Dichiarazione che discende da un’affermazione più forte, che consiste nel “riconoscere giuridicamente il paesaggio come una componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, come espressione della diversità del loro patrimonio comune culturale e naturale e come fondamento della loro identità”. Intenti non dissimili si possono trovare espressi, almeno in linea teorica, in vari Piani di Indirizzo Territoriale a livello regionale.

4. Abitare, oggi

D’altra parte, se il paesaggio viene definito come manifestazione e quadro di vita di una cultura e

non mera patinatura estetica proiettata da un osservatore esterno, trasmissibile nella sua concretezza e nel suo valore simbolico e differenziale grazie alla partecipazione a una trama di memoria, valori e tradizionalità, e negli abitanti e negli appartenenti alla comunità locale si identifica la principale e normale figura di produttori e conservatori della territorialità, in un’epoca in cui la tradizionalità è stata in tutto o in parte interrotta, i linguaggi comunitari e le sapienze locali si sono perduti, impoveriti o sono diventati inintelligibili e la residenzialità ha assunto forme e temporalità estranee alla sostanziale stabilità del mondo rurale, occorre interrogarsi sulla nuova figura dell’abitante che esprime la sua appartenenza al luogo.

27 Alta Carnia.

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28 Per certi aspetti, l’appello heideggeriano alla considerazione dell’abitare come luogo della

convergenza di terra e cielo, mortali e divini, che ne identifica il senso ontologico, oggi è più che mai problematico29; né, d’altra parte, è possibile sempre riconoscere negli abitanti locali i portatori di consapevolezza identitaria e di responsabilità e cura del proprio patrimonio paesaggistico e memoriale. Al contrario, molto spesso avviene che la richiesta di protezione e conservazione dei beni paesaggistici provenga da soggetti esterni, e non solo a scopo di valorizzazione e sfruttamento turistico. La crescente mobilità lavorativa e residenziale, d’altra parte, è un potente agente di delocalizzazione, assieme alla complessa dislocazione delle attività produttive, che lacera l’originario tessuto territoriale e ne scompone la percezione e l’uso, facendone smarrire l’unità profonda a favore di percorsi accentuatamente funzionali.

28 Bailleul, Francia: fotografia aerea di un complesso funerario preistorico. 29 Cfr. il celeberrimo saggio di M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo,

Mursia, Milano 1976.

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In questo contesto epocale, nondimeno, si assiste a una crescente domanda di “orizzonte”, di luoghi concreti e riconoscibili in cui l’abitare ritrovi almeno le sembianze di una domesticità perduta, di una Heimlichkeit che talora assume il carattere di una nuova consapevolezza e ricerca di identità. Dalla “rurbanizzazione” di massa a crescenti esperienze di riuso e restauro di borghi rurali, abbandonati a seguito della fase più devastante dell’industrializzazione, si delinea la tendenza, in vari gradi di intensità e di consapevolezza, anche da parte di “cittadini”, a costituire nuove comunità che trovano nei caratteri locali la loro ragion d’essere.

30 È una sorta di progetto di appartenenza elettiva, che prescinde da ragioni anagrafiche o professionali, a un luogo di cui si riconosce il carattere singolare, valorizzandolo e ricostituendone, per quanto possibile, la significatività, riattivandone la memoria, i saperi, le pratiche virtuose, gli stili edilizi, le pratiche agricole, i simboli e i percorsi della ritualità e della religiosità, ecc. Questa scoperta e valorizzazione dei paesaggi locali come riattivazione delle comunità e riscoperta di identità culturali consegue anche da una presa d’atto della obsolescenza (o comunque insufficienza) ermeneutica del paradigma produttivo, dovuta anche allo scollamento progressivo della “base” economica rispetto ai paesaggi locali31.

30 Alta Carnia, esempio di rceupero di centri abbandonati a fini agrituristici e di “albergo diffuso”. 31 “Mentre perdeva terreno in questa sua dimensione produttiva e conseguentemente anche nella sua funzione di

strumento analitico, il paesaggio preparava la sua rivincita sul piano dell’identità culturale, come insieme di rappresentazioni e di immagini condivise e sempre più necessarie. […] Il nuovo paradigma descrittivo, coniugando globale e locale, deve saper dare una risposta tanto all’esigenza di connessione, quanto all’esigenza di coesione, ovvero di identità. È per questa via che i paesaggi diventano un patrimonio da conservare e come tali acquistano una nuova oggettività, o meglio concretezza” (M. Quaini, Attraversare il paesaggio: un percorso metaforico nella pianificazione territoriale, in P. Castelnovi, Il senso del paesaggio, IRES, Torino 2000, p. 288).

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Non più un “dato”, come nel passato, una provenienza o una condanna, oggi il luogo diventa, in un mondo in cui drammaticamente prevale il deserto dei non-luoghi, una meta cui tendere, uno spazio di senso che deve essere riconquistato attraverso una cura e una consapevolezza spesso difficile da ridestare. “Nella contemporaneità […] la pratica della cura e della conoscenza del luogo scardina totalmente l’alternanza fra insiders e outsiders. […] Gli insiders (gli interni, quelli che risiedono da tempo in un luogo) possono essere delocalizzati, possono cioè non intessere nessuna relazione conoscitiva e attiva che rimetta in gioco le valenze di rappresentatività e di valore simbolico, mentre gli outsiders (gli esterni, coloro che arrivano da fuori, da lontano, residenti da poco, o semplicemente imprenditori che non vivono nel luogo) possono interpretare vantaggiosamente le potenzialità locali”32. Il che equivale a riconoscere che l’agire secondo una logica localizzata, prendendosi cura di un territorio, non coincide più necessariamente con l’essere “locali” in senso etnico; piuttosto “si tratta di coloro che riconoscono i molteplici valori di un luogo, e per questo lo amano (sono disposti a creare con il luogo stesso una relazione densa di significato), e di conseguenza se ne prendono cura. Il luogo oggi esiste solo dove è curato, indipendentemente dal tipo di proprietà a cui è sottoposto: non sono gli insiders e gli outsiders che possiedono il luogo, ma solo chi lo cura, chi lo ri-conosce come proprio, chi continuamente lo salvaguarda e lo fa rivivere, interno o esterno alla comunità insediata”33.

Naturalmente non è possibile sottovalutare le tensioni e i conflitti in queste “riappropriazioni” dei paesaggi: basti pensare allo scontro di concezioni, logiche e tempi progettuali tra industria del turismo e conservazione del patrimonio culturale ed ecologico, tra agricoltura intensiva e industrializzata e produzioni locali di qualità; tra uso “estetico” e di svago della residenzialità in campagna e logiche economiche ad alto impatto; tra valorizzazione degli aspetti “rurali” o selvatici e aspirazione delle comunità locali a entrare nel circuito allargato della comunicazione e degli interscambi; tra desiderio di stabilità e ricomposizione dei quadri simbolici, percettivi e abitativi, da un lato, e dinamizzazione crescente dei territori dall’altro. Da un certo punto di vista, è possibile affermare che, ancora una volta, la richiesta di conservazione dei paesaggi locali proviene prevalentemente dalla cultura urbana, che li mette in forma a scopi turistici, di svago, di stili alternativi di vita, producendo paesaggi rurali sempre più calibrati sulla propria richiesta di natura, ricreazione e bellezza (addomesticata o selvaggia).

32 D. Poli, Il cartografo-biografo come attore della rappresentazione dello spazio in comune, in P. Castelnovi, Il

senso del paesaggio, cit., p. 208. 33 Ibidem.

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Questa stilizzazione – che avviene prevalentemente come restauro o reinvenzione – dei territori

non-urbani si accompagna inevitabilmente all’abbandono di altri spazi a logiche di sfruttamento o di produzione più o meno devastanti, che producono degrado, abbandono, abuso34. Così come non è possibile non sottolineare il paradosso contemporaneo, in base al quale si cerca la “campagna” per trovare i modi e le forme di una residenzialità gratificante, salubre e non alienata, mentre sempre minore è il numero di coloro che dovrebbero mantenere la campagna (o la montagna) nei caratteri che la rendono appetibile ai “cittadini”.

Quella che ho chiamato “la comunità di paesaggio”35 appare allora come il prodotto di una

complessa interazione di fattori: il “prendersi cura”, la riattivazione della memoria e della sua trasmissione, in cui un aspetto centrale è quello della riscoperta di modalità accorte e rispettose di usare le risorse, l’individuazione e l’assunzione delle “invarianti” che costituiscono lo “statuto” del luogo, e dunque l’attuazione o il ripristino di uno stile di territorializzazione coerente con la fisionomia del luogo e la sua sostenibilità ambientale e culturale. È evidente che, soprattutto in società che hanno perduto i riferimenti e gli orientamenti tradizionali e le simboliche in grado di costituire un tessuto condiviso di significati, all’individualità (identità) di un luogo si accede ormai, per lo più, attraverso un cammino di ricostruzione della “biografia territoriale”36, della sua perduranza, e dunque delle ragioni intrinseche della sua stabilità dinamica lungo archi temporali molto lunghi, di contro alla rapidissima trasformazione e caoticizzazione contemporanea del territorio che ne dissolve ogni memoria e consapevolezza del limite costitutivo. Questa attività di ricostituzione dei fili interrotti della memoria locale e territoriale37 non può non passare attraverso l’educazione, la trasmissione di consapevolezza e di saperi, la condivisione del

34 Questa logica dicotomica è particolarmente visibile in Francia: “Il progetto paesaggista, che si è concretizzato

soprattutto in città, si estende sempre di più a gran parte dello spazio rurale, che sfugge ormai al monopolio degli agricoltori e dei loro partners. Esso sottolinea la rivalità di due modelli di valorizzazione delle campagne francesi, l’uno fondato sull’arte di abitare o di visitare, l’altro su quella di produrre per i mercati mondiali” (P. Donadieu, La societé paysagiste, cit., p. 119). Cfr. anche O. Marcel (a cura di), Le défi du paysage. Un projet pour l’agriculture, Champ Vallon, Seyssel 2004.

35 L. Bonesio, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, cit., e La comunità di paesaggio, “Parametro”, 245, 2003.

36 D. Poli, op. cit., p. 213. 37 Esemplari di come si possa restaurare e conservare un bene architettonico o paesaggistico indipendentemente dalla

sua (ri)funzionalizzazione, sono le decisioni di risanare alpeggi non destinati ad altro che alla tradizione della memoria, come “obbligo morale nei confronti di un bene ereditato”, in cui affiorano legami emotivi, e il valore delle memorie che “forniscono da secoli gli elementi fondanti della coesione e del ricordo della comunità”. Una consapevolezza che assume tanta maggior esemplarità in quanto provenga dagli abitanti e sia a loro carico: “Viene creato un monumento che traghetta nel futuro un pezzo importante del passato. Il fatto che […] si trovi inserito nel paesaggio rende più viva la storia che tramanda. […] Poiché l’ambiente antropico non è unicamente luogo di vita, è anche spazio identitario” (Lo spazio alpino come spazio identitario, Documento dell’Heimatschutz svizzera (architettura alpina), “Il nostro paese”, 274, 2003, p. 25).

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valore fondativo dell’identità paesaggistica rispetto alla possibilità di una comunità stabile, esperta delle possibilità e dei limiti consentiti dal luogo, in grado di costruire sempre più finemente la sua identità culturale a partire dalla sua appartenenza al luogo condiviso che la ospita.

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38 Santuario della Sassella, Valtellina, Archivio APT Valtellina.