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SENECA LETTERATURA LATINA IN ETÀ IMPERIALE
© GSCATULLO
Seneca Propedeutica
L’Oratoria
In età imperiale l’oratoria civile (quella ciceroniana) cessò di essere praticata, essendo assenti i dibattiti
politici. L’insegnamento retorico però resta parte dell’educazione romana, le orazioni che possediamo di
questo periodo sono fittizie o epidittiche, scritte per l’insegnamento o per l’intrattenimento. Continuano ad
essere recitate le orazioni giudiziarie nei tribunali.
Si diffonde inoltre la pratica delle declamationes, ovvero l’esercizio di recita di orazioni fittizie su argomenti
spesso singolari, il cui fine è quello di stupire. La declamati ora già presente nell’oratoria dell’Atene del V
secolo a.C., con Isocrate e già prima con i sofisti. È però in età alessandrina che l’oratoria epidittica ha il suo
apice. Il declamatore aiuta i suoi allievi a perfezionare alcune parti della retorica: esercizio della memoria,
l’actio quasi teatrale, l’inventio nel raccogliere argomenti oggetto della declamatio.
Le declamationes sono importanti poiché si concentrano sul pubblico, e indirettamente spingono anche la
poesia a fare lo stesso: il poeta, con lo stesso scopo di colpire la platea, scrive la propria opera ispirandosi ai
discorsi retorici, divide l’opera in sezioni più brevi (la modula) per non stancare il lettore, varia spesso
l’argomento, e ricerca in definitiva nello scrivere l’appetibilità per il pubblico (uso di temi esotici, ricercati,
espressioni piacevoli o truculente, spettacolarizzando in definitiva la letteratura).
Quintilliano deprecherà le declamationes considerandole la causa del declino dell’oratoria ciceroniana.
Seneca il Vecchio, padre di Seneca, ritiene invece che la decadenza dell’eloquenza sia parte del ciclo biologico
del genere, che raggiunti i suoi apici doveva necessariamente conoscere il declino; ritiene inoltre che sia da
ricondurre ad una corruzione dei costumi e all’assenza di libertà politica. Sempre Seneca il vecchio descrive
gli esercizi che venivano svolti dai retori: le controversie, discorsi giudiziari di difesa e accusa su episodi fittizi,
citando o persino inventando leggi; e le suasorie, discorsi deliberativi-politici, anch’essi fittizi, in cui l’oratore
immagina di poter convincere un personaggio politico, fittizio o meno, o mitico a compiere o meno una
determinata azione. Lo scopo non è il convincere, ma l’intrattenere: l’obbiettivo è la spettacolarità e
l’esaltazione della bravura del retore.
Un’altra forma di intrattenimento pubblico sono le recitationes, in cui l’attore legge parte della sua opera in
pubblico, per promuoverla o per correggerla, ed anche qui è presente una spettacolarizzazione. I più ricchi
affittavano sale, gli altri sfruttavano ambienti pubblici. Questa forma di pubblicazione della poesia ne
implicava che la valutazione sulla qualità di un lavoro era legata al suo gradimento, provocandone
un’inevitabile volgarizzazione. Da un punto di vista stilistico inoltre l’attenzione dell’autore non era più circa
la cura del periodo ma verso la parola. Alcuni autori tra le recitationes vi fanno rientrare le tragedie di Seneca.
Il Neo-Stoicismo
Il movimento stoico, che prende nome dal luogo dove i seguaci di questa filosofia si riunivano (la στοὰ ποικίλη
d’Atene), ha origine nel III secolo a.C. con Zenone, aveva l’obbiettivo di raggiungere la virtù, intesa come
adesione al progetto di una ragione ordinatrice superiore, il Λόγος, e qualora lo si mancasse era prevista la
scelta del suicidio. Nel II secolo a.C. lo stoicismo fu rielaborato da Panezio e Posidonio e reso meno rigido,
questo era il modello di Cicerone per il De officis.
La terza corrente è nota come neostoicismo e si diffonde a Roma incontrando il favore dell’etica latina
austera e risoluta, nonché il favore imperiale. Diffusa soprattutto in ambiente aristocratico (senatorio), lo
stoicismo non contesta la forma imperiale di governo ritenendola la raffigurazione fisica della realtà
metafisica del Λόγος: un’unica mente che regge l’universo, come l’imperatore fa con l’impero. Qualora
l’imperatore non si sarebbe dimostrato all’altezza, da un punto di vista etico-morale, ed avesse abusato del
proprio potere sarebbe stato legittimo secondo il punto di vista stoico la ribellione, subendo la persecuzione.
Altra caratteristica del neostoicismo è l’ideale dell’humanitas, la solidarietà fra gli uomini, che sono tutti
uguali in virtù della comune partecipazione al λόγος. Nonostante ciò non si oppone alle differenze fra le classi
sociali: esse sono il posto in cui il Λόγος ha scelto di porre ognuno nel suo progetto. Propone un’etica
razionalista molto severa, che vuole il saggio come colui che si sa controllare e sa dominare le passioni con la
ragione. Non sposa l’ideale epicureo del laete biosas, proponendo invece la partecipazione attiva nella
politica, a patto di non immischiarsi con violazioni etiche, e nel qual caso si presenti questo rischio è
necessario ritirarsi. Sempre in virtù della comune partecipazione al λόγος si sostiene l’ideale del
cosmopolitismo, che fa decadere il concetto di patria, e ben si sposa con l’impero.
Nel neostoicismo si distingue una scuola particolare che è quella dei Sesti, che prende nome da Quinto Sestio,
un aristocratico che rinunciò alla carriera politica in favore della filosofia, e che fonde lo stoicismo con aspetti
del neopitagorismo, come l’ascetismo, la dieta vegetariana, il digiuno e l’esame di coscienza.
Seneca sposava la corrente neostoica, nella sua visione però il sapiens che ricerca la virtus è proficiens che vi
tende senza mai raggiungerla. Il suo pensiero era poi caratterizzato dall’humanitas, servizio alla collettività,
che cerca di adottare prima con la politica e, dopo l’ascesa di Nerone, con la filosofia. La sua era una ricerca
della perfezione, perseguendo la giustizia, la fortezza, la prudenza e la temperanza, e che superava la paura
della morte, considerandola parte del progetto del λόγος che non avviene improvvisamente ma lentamente
(«si muore un poco ogni giorno»).
L’Autore
Vita
Seneca nasce nel 4 a.C. a Cordova (Spagna betica), una zona fortemente romanizzata e di forte tradizione
repubblicana, in una ricca famiglia equestre. Era il secondo genito di Seneca il Vecchio, dopo Marco Anneo
Novato ed aveva per fratello minore Anneo Mela.
Seneca si recò a Roma dove ricevette un’accurata educazione filosofica, fu allievo dello stoico Attalo, del
neopitagorico greco Sozione e dell’ex retore Papirio Fabiano. Nel 31 d.C. intraprende la carriera forense-
politica con grande successo, provocando le invidie dell’imperatore Caligola che lo condanna a morte; salvo
grazie all’intercessione di un’influente donna di corte, è costretto a lasciare la carriera forense.
Caduto in disgrazia presso Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, Seneca fu accusato di adulterio con
Giulia Livilla, sorella di Caligola e figlia di Germanico. Probabilmente si trattò di un complotto politico volto a
colpire la famiglia del precedente imperatore, vicina al Senato e filo-repubblicana. Nel 41 a.C. Seneca fu
condannato alla relegatio, una pena consistente nell’allontanamento dalla patria, che a differenza dell’esilio
non comportava il sequestro dei beni.
Nel 49 d.C. Seneca viene richiamato a Roma da Agrippina, seconda moglie di Claudio, che lo volle come
precettore dell’undicenne Domizio, figlio di primo letto della donna adottato dall’Imperatore che gli
succederà come Nerone. Tra il 54 e il 59 d.C. nel quinquennio felix Seneca governa Roma assieme ad Agrippina
e ad Afranio Burro, sino al matricidio che Nerone compie forse su suo consiglio, almeno secondo i sospetti
dello storico greco Cassio Dione (155 d.C.). Dopo il 62 d.C., con la morte per avvelenamento di Burro e la sua
sostituzione con Ofonio Tigellino, preferisce ritirarsi dalla politica. Inviso all’imperatore nel 65 d.C. Seneca,
ormai anziano, viene istigato al suicidio accusato di aver partecipato alla congiura dei Pisoni.
Opere
Il corpus delle opere di Seneca è vastissimo, e le opere che lo compongono varie ma legate tra loro.
10 opere sono raccolte in dodici libri con il titolo di Dialogi.
2 Trattati dal contenuto morale: il De Beneficis in 7 libri, ed il De Clementia in 3 libri.
1 trattato filosofico scientifico, il Naturales Questiones in 7 libri.
124 Epistolae ad Lucillium, in 20 libri.
1 prosimetro, il Ludus de Mortis Claudi.
9 Tragedie coturnate ed una praetexta (la Ottavia), che però è spuria.
Circolano sotto il suo nome anche gli Epigrammi e l’Epistolario (apocrifo) tra Seneca e San Paolo.
Dialogi
I Dialogi sono dieci opere tramandate in dodici libri con un titolo ed un’organizzazione note già a Quintilliano
ma probabilmente non attribuibile a Seneca. L’opera non è in forma dialogica, nonostante siano presenti
alcune allocuzioni (tu), ma per dialogus si intende più genericamente la discussione filosofica con tesi e
antitesi.
I temi trattati sono anzitutto filosofici, Seneca riprende le tesi di Crantore e alcune epicuree (come la
riflessione sul passato), valorizza la memoria e utilizza una struttura retorica organizzata, che fungerà da
modello per l’oratoria latina. Si inizia ad affermare il tema della morte che influenzerà il resto delle sue opere,
e che si fonde con l’obbiettivo pratico di tornare a Roma dall’esilio.
Consolatio ad Marciam Marcia figlia dello storico Cremuzio
Cordo, accusato di lesa maestà da Seiano per aver difeso i
repubblicani Bruto e Cassio, si lasciò morire di inedia.Seneca
scrive la consolatio nel 40 d.C. dopo la riabilitazione di Cordo
sotto Caligola, per vicinanza al lutto di Marzia che aveva tre
anni prima perso un figlio. Nell’opera si esalta la figura di
Cremuzio Cordo, esaltatore dei tirannicidi. Nell’opera viene
descritto il figlio di marcia che viene accompagnato dalle
grandi anime romane, tra cui il nonno, a contemplare
l’universo, anch’esso destinato a morire. Viene quindi ripreso
in parte il contenuto del Somnium Scipionis ciceroniano,
avvicinandosi ad un ambiente repubblicano.
Consolatio ad Elviam Matrem In quest’opera Seneca consola
la madre per la sua lontananza da Roma, che viene associata
in questo modo alla morte, come in Ovidio. Vengono
sottolineati i lati positivi dell’esilio, quale la possibilità di
dedicarsi agli studi e allo scrivere, che la madre pare
apprezzare particolarmente. Ritrae dunque la propria
famiglia come colta e modesta, chiaro l’intento di voler
tornare a Roma.
Consolatio ad Polibium Polibio è un liberto di Claudio che si dedicava all’archivio e che tra le sue altre
funzioni riceve le suppliche dirette all’Imperatore. Seneca gli scrive questa consolatio per la morte del
fratello, ma appare chiaro il tentativo di ingraziarsi un funzionario che l’avrebbe aiutato a rientrare
dall’esilio. Da molti considerata una “caduta di stile”, scriverà, quasi in apologia a questa il Ludus de Morti
Claudi.
De Ira È un’opera in tre libri pubblicata dopo la morte di Caligola, per questo può essere citato come
esempio di ira, è un trattato di fenomenologia riguardo i pensieri umani, parla specificatamente dell’ira
solo nel terzo libro. È dedicato al fratello Novato (che nel 58 d.C. verrà adottato dal retore Giulio Gallione
e sarà chiamato con il suo prenome). Nella discussione tra stoici-epicurei, che volevano eliminare l’ira,
ed i peripatetici, che prevedevano che il saggio si potesse irare, si schiera con i primi, sostenendo che
ogni sentimento debba essere governato dalla ragione.
È un genere già presente nella letteratura
greca dove era usanza consolare il lutto con
tesi morali, in età alessandrina-ellenistica
poiché in età arcaica il lutto veniva elaborato
in modo comunitario con espressioni
ritualizzate, mentre dopo il quarto secolo con
l’affermazione dell’individuo (causato dalla
crisi della πόλις) richiede un’elaborazione
personale.
Nella consolatio si fondono i temi della
filosofia con gli strumenti della retorica. Si
segnalano le opere Sul lutto (330 a.C.) di
Crantore, che la dedica ad un tale Ippocle, che
aveva da poco perduto i figli, cui propone una
posizione intermedia tra quella stoica di
Zenone e lo sfogo irrazionale del dolore,
consigliando un’elaborazione del lutto
moderata. Quest’opera viene ripresa da
Cicerone in occasione della morte della figlia
ed usata come modello a Roma per il genere
della consolatio.
La Consolatio
De Vita Beata è dedicata a Gallione (scritta quindi dopo il 58 d.C.) ed analizza il rapporto tra felicità e
ricchezza. Alcuni pensano l’abbia scritta in apologia alla propria condizione di ricco per usura. Sostiene
che la felicità non è possedere dei beni terreni, in funzione anti-epicurea, ma perseguire la virtus. La
ricchezza, dice Seneca, non va rifiutata poiché potrebbe favorire il perfezionamento e la virtù (ad es. la
solidarietà), ed il proficiens sopporta la sua condizione di ricco. Alcuni ne danno una lettura politica
identificando la ricchezza con il potere.
De Costantia Sapientis La collocazione cronologica dell’opera è incerta, probabilmente subito prima o
subito dopo il ritiro della vita politica, intorno al 62-63 d.C. Il dedicatario è Anneo Sereno, esponente del
ceto equestre e funzionario di Nerone. Tratta dell’ἀπάθεια (imperturbabilità) che è uno strumento dei
saggi per non lasciarsi turbare dalle avversità della vita. Gli eventi infatti sono neutri, né buoni né attivi,
ed è l’atteggiamento interiore del saggio a connotarli. Quando il saggio non può giovare alla collettività
tramite la politica (il negotium), dice poi Seneca, lo deve fare con la filosofia (l’otium). Propone all’amico
lo stoicismo come soluzione ai propri problemi.
De Tranquillitate Animi È dedicato anche questa a Sereno che ormai ha abbracciato la filosofia stoica, e
risponde a delle domande che il dedicatario pone, è l’unico in forma dialogica dei Dialogi, circa
l’opportunità che il saggio partecipi o meno alla vita pubblica. Si oppongono in questo caso la visione
epicurea, del laete biosas se non necessario il contrario, a quella stoica, della partecipazione attiva fin
tanto possibile.
De Otio Opera a favore dell’ozio, anch’essa probabilmente dedicata a Sereno, ed alcuni studiosi lo
intendono come parte di una trilogia con un unico dedicatario. Spiega che l’otium è da scegliere nel
momento in cui il negotium è impossibile. È rivolto all’umanità intera, realizzando così l’ideale stoico del
cosmopolitismo.
De Brevitate Vita Dalle indicazioni interne si può dedurre sia stato scritto dopo il rientro dall’esilio nel 49
d.C. È dedicato a Pompeo Paolino di Ades, di cui Seneca aveva sposato la figlia, Paolina. Paolino è il
prefetto dell’annona ed è considerato da Seneca come l’emblema del cittadino disaffezionato dall’attività
pubblica poiché gestita completamente dall’Imperatore. Contiene una riflessione sul tempo, in cui esorta
a non attaccare al futuro ma al presente. La vita sembra breve – sostiene Seneca – poiché non la
sfruttiamo per il nostro perfezionamento interiore ma la sprechiamo in attività inutili. Parla
dell’alienazione ovvero l’attività non concepite per il soggetto ma ripetute in maniera completamente
vuota e distaccata. Ha la forma di protreptico, in cui esorta il destinatario ad impiegare il tempo per
migliorare sé stesso. Non è un dialogo retorico, in cui il raggiungimento della verità si ha con la
discussione, ma un’esortazione, che riprende anche dallo stile della diatriba.
De Provvidentia È un’opera dedicata a Lucilio in cui si pone il problema della compatibilità tra il progetto
perfetto del Λόγος e le ingiustizie della sorte che manda agli uomini il male. La cattiva sorte, riflette però
il filosofo, è propria degli uomini buoni cui viene mandata come prova della loro virtù dal Λόγος.
De Clementia
Il De Clementia è un trattato, datato tra il 55 e il 56 d.C. e probabilmente incompleto. Possediamo il primo e
il secondo libro, mentre in maniera lacunosa il terzo. È rivolto ad un Nerone – da questo se ne ricava la
datazione – molto giovane, diciottenne, per suggerirgli il modo migliore di governare. Da quest’opera
prendono spunto i medievali specula principis e, abbandonando l’attenzione per il discorso morale, il Principe
di Macchiavelli.
La figura cui pensa Seneca è un principe moderato e paternalistico con i sudditi: l’autore non sconfessa il
potere imperiale ma pone l’attenzione sulla necessità di un’etica interiore in chi lo detiene che in assenza di
leggi che limitino il principe, egli impedisca di cadere nel dispotismo.
Lo stile argomentativo è molto simile a quello dei Dialogi ma non fu incluso nell’opera dall’editore o,
sposando la lezione di alcuni studiosi, dello stesso Seneca. Sulle motivazioni che hanno portato a questa
scelta bisogna considerare l’eminente destinatario (l’Imperatore) o l’esplicito impegno politico.
Libro I Funge da introduzione in cui viene spiegato che la clemenza è una virtù divina, così che
l’imperatore viene paragonato a Dio. Viene espressa una concezione fortemente paternalistica a
vantaggio sia dei sudditi che dell’Imperatore, garantendo così una serenità nel governo.
Libro II Sorge una trattazione sulla natura della Clemenza, che è diversa dalla compassione.
Quest’ultima considerata vizio dagli stoici, poiché visto come sentimento irrazionale. La Clemenza
invece è intesa dal neostoicismo, in maniera vicina al diritto romano, che la intendeva come la
possibilità per il giudice di mutare una pena in una più lieve: l’Imperatore dispone dunque di un
potere grandissimo controllabile con la virtus.
Libro III Si interroga su come sia raggiungibile la Clemenza. L’intento è raggiungere un pubblico
particolarmente ampio per mostrare il proprio impegno politico a favore della concordia tra Senato
e Imperatore: rassegnandosi alla forma monarchica, Seneca proponeva un ritorno all’epoca
d’Augusto, in accordo con la somiglianza della concezione imperiale con la filosofia stoica: un Λόγος
che è provvidenza per la molteplicità, così l’Imperatore provvede all’Impero con la Clemenza.
Opere precedenti nella letteratura classica che presentano consonanze con questa potrebbero essere la
Repubblica dei filosofi, di Platone, e l’impostazione ciceroniana del cittadino-filosofo. Tuttavia nel caso di
Seneca non è il filosofo ad avere il potere, ma colui che lo detiene a doversi educare alla filosofia. Spesso
vengono citati esempi greci, come Ciro, ed altri sovrani noti per la magnanimità e l’etica.
De Beneficis
È dedicato ad Ebuzio Liberale ed è datato nel periodo del ritiro (62-64 d.C.), Seneca vi critica l’ormai defunto
imperatore Tiberio accusandolo di dispotismo, e criticando così indirettamente Nerone. L’opera è speculare
al De Clementia, Seneca abbandona il tentativo di educazione etica dell’Imperatore e la tenta con i cittadini,
invitandoli alla solidarietà, messaggio rivoluzionario presso i latini tra i quali vigeva l’etica del do ut des.
Per Seneca la beneficenza è buona di per sé indipendentemente dal risultato. Non è un trattato teorico, pur
rifacendosi al De Amicitia e al De Officis, ma ha almeno illusoriamente l’obbiettivo di persuadere la
cittadinanza ad un cambiamento morale. Mantiene l’atteggiamento paternalistico, indicandolo come
opportuno tra le classi elevate e non, escludendo però la mobilità sociale, che invece in questo modo
mantiene.
Naturales Questiones
Composta da 7 libri, l’opera, dedicata a Lucilio, è incompleta. Può essere data tra il 62 e il 64 d.C. in quanto
si riferisce ad un terremoto in Campania avvenuto tra il 62 e il 63 d.C. ma non cita l’incendio di Roma del 64
d.C. Organizza la trattazione secondo la filosofia stoica che riteneva necessario l’interesse naturale-scientifico
per la speculazione filosofica. Ha per precedenti Varrone, ma si rifà principalmente ai Greci, riproponendo le
tesi delle scienze elleniche.
Ha uno scopo etico: biasimare i vizi umani partendo dalla notazione scientifica per parlare del vizio. Ad
esempio viene citato il caso di un tale Ostio che utilizza gli specchi – occasione di una trattazione sull’ottica –
per fini erotici, o parlando delle gallerie se ne analizza l’aspetto geologico per poter parlare delle miniere e
del vizio per l’oro e per i metalli preziosi. L’elaborazione dell’etica parte dunque dalla comprensione della
natura umana.
I libri che compongono l’opera sono:
Libro I: I fuochi - Gli specchi
Libro II: Lampi e folgori
Libro III: Le acque terrestri (completo)
Libro IV: il Nilo - Neve, pioggia, grandine
Libro V: I venti
Libro VI: I terremoti
Libro VII: Le comete
Epistulae
Le Epistuale ad Lucilium, scritte durante l’esilio (62-64 d.C.), sono una raccolta di 124 lettere raccolte in 20
libri, ma probabilmente ci è giunta incompleta, per esempio Aulo Gellio cita un ventiduesimo libro. Alcune
lettere sono particolarmente estese simili ad un trattato, altre più brevi. Sono tutte indirizzate a Lucilio, un
giovane campano d’origini modeste, al tempo procuratore imperiale in Sicilia.
Il genere è epistolario: a Roma si scrivevano lettere ad uso privato, ma non esisteva un servizio postale,
almeno sino a quando Augusto ne creò uno per le missive ufficiali. I privati utilizzavano invece gli schiavi
tabellari, mentre i pubblicani dei corrieri privati. In latino per indicare le lettere si utilizzavano sia il termine
litterae (lettera dell’alfabeto) che quello di epistulae, dal greco ἐπιστολή (invio).
Esistevano diversi precedenti di lettere private: accordi tra città, scritti di personaggi illustri (come Cicerone)
o apologetici (quelli cristiani), o anche trattati, lettere poetiche (Catullo) o filosofiche (Epicuro). Tra i modelli
si cita anzitutto Epicuro, che indirizza lettere a contenuto etico ad un suo discepolo. Nella letteratura latina il
primo a scrivere epistole in versi è stato Orazio, ma sono comunque fittizie.
I critici si sono interrogati sulla veridicità dell’epistolario:
Chi sostiene che lo scambio sia veramente avvenuto indica che in alcuni punti del testo l’autore
chiede al destinatario una risposta, e che sono presenti talvolta riferimenti a fatti reali.
Chi sostiene sia fittizio, indica l’assenza delle risposte alle lettere e l’ampiezza delle stesse come
elementi a sostegno della tesi.
In ogni caso l’epistolario, unicum nella letteratura latina, è un tentativo di Seneca di rivedere la propria
filosofia in prospettiva dialogica, ma non nella forma del dialogo, dove prevale la diatriba e l’esortazione. È
presente una prospettiva paritaria, ed il percorso l’autore lo affronta assieme a Lucilio, strutturandolo in
esortazioni giornaliere, che si concludono con una sentenza di Epicuro su cui meditare. Quest’ultimo aspetto
potrebbe essere inteso come un omaggio o come una volontà di tracciare un percorso dall’epicureismo allo
stoicismo, quasi fosse una maturazione.
Il tono è pacato e cordiale a differenza del tu diatribico. I temi trattati sono quelli sulla brevità della vita, la
virtù e l’otium, il ritiro dalla vita politica non per pigrizia ma per ricercare la libertà individuale, là dove quella
politica viene negata.
Ἀποκολοκύντωσις
L’Apokolokýntosis (Ἀποκολοκύντωσις), Apocolocyntosis o Ludus de morte Claudii o ancora Divi Claudii
apotheosis per saturam è un’opera scritta da Seneca dopo la morte di Claudio dal carattere fortemente
satirico nei confronti dell’apoteosi dell’Imperatore, decretata dal Senato nel 54 d.C. Il titolo riprende il
termine greco κολόκυνθα, che in greco significa zucca, e si può rendere come zucchificazione o deificazione
di una zucca, da intendere come cosa insignificante o proprio di uno zuccone.
La trama è semplice: Claudio giunto presso gli dèi viene spedito dopo un concilio, parodia dell’Odissea, negli
Inferi ad essere schiavo prima di Caligola e poi del suo (ex) liberto Menandro a giocare a dadi con un
bussolotto rotto. Un contrappasso che umilia l’imperatore e lo costringe a far qualcosa di insensato per
l’eternità.
Si rifà alla satira Menippea1 non tanto per lo spirito quanto per la forma che utilizza sia versi che prosa. Nei
contenuti si rifà al mimo di Decimo Laberio del I secolo a.C. e a Lucilio.
1 Di Menippo di Gadara, III secolo a.C. filosofo cinico che diede vita ad una satira in cui confluivano prosa e versi esprimendo i temi della diatriba stoico-cinica condannante i vizi della società.
Il componimento è farsesco realistico, ed è caratterizzato da parti dialogate. Il linguaggio è colloquiale e
talvolta presenta volgarismi. La realtà viene alterata tramite la parodia, anche della letteratura classica
(Concilio degli Dei) e dell’oratoria (discorso d’Augusto), ma non è completamente fittizia: a seguito
dell’apoteosi di Claudio la Corte, cui è indirizzata l’opera, effettivamente malignò e derise l’apoteosi
dell’Imperatore, tanto che Tacito racconta di risate durante la lettura dell’elogio funebre di Nerone.
L’obbiettivo dell’opera, di difficile collocazione nel corpus di Seneca, è mettere in cattiva luce Claudio, anche
per delegittimare il figlio Britannico legittimo erede al trono, in favore di Nerone. Viene persino citato l’inizio
del quinquennio felix definito initio seculi fortunatissimo. Per alcuni l’opera andrebbe intesa anche come una
sorta di rivalsa sulla consolatio ad polibium.
Tragedie
La produzione tragica di Seneca comprende nove coturnate, le cui trame riprende da Euripide, divise in
cinque atti sono le uniche coturnate che possediamo intere. Seneca mette in scena la figura del tiranno, o in
critica o in ammonizione a Nerone.
I temi principali trattati sono il contrasto tra la ratio e la forza, e fungono da exempla dei temi filosofici.
Illustrano scenograficamente la dottrina stoica, sono drammi didattici. Ma questa non dovrebbe considerarsi
una lettura totalizzante, infatti: già in Euripide vengono affrontati temi d’introspezione; talvolta il Λόγος
soccombe; e potrebbero essere considerate catartiche (la catarsi era effettivamente necessaria per lo
stoicismo). Va comunque notata una morbosità eccessiva, quasi che venisse evidenziato un certo fascino del
male.
Uno dei problemi che gli studiosi si pongono circa le tragedie di Seneca era sulla loro modalità di diffusione:
taluni ipotizzano venissero solo lette, per via della crudezza di alcune scene inadatte alla rappresentazione;
altri sostengono che la lettura avrebbe invece depotenziato il πάθος di queste tragedie ed il pubblico latino
era in ogni caso abituato al sangue.
Seneca si allontana dai modelli e contamina, non focalizza l’attenzione sul mito e quindi sulla trama, ma sulle
passioni. I cori partecipano all’azione, lo stile è fosco e cupo. La metrica è vicina alla raffinatezza di Ovidio,
utilizza sia il senario ma anche il trimetro giambico. Le frasi sono brevi, i dialoghi frammentati (sticomitia).
L’erudizione è a tratti pesanti, sono presenti elenchi e digressioni, e tende ad isolare brani e scene, il che
potrebbe essere per alcuni indizi della diffusione tramite lettura pubblica.
Una tragedia, l’Ottavia, è dubbia ed è una praetexta. Narra dell’uccisione di Ottavia da parte di Nerone, suo
marito. I critici nutrono seri dubbi sull’autenticità per il fatto che:
Seneca è il protagonista.
Viene descritta in maniera molto verosimile alla realtà la morte di Nerone, il che fa sospettare una
narrazione ex eventu.
Sono presenti dei brani di Seneca in versi.
Essendo però lo stile uguale a quello di Seneca si sospetta che l’autore sia probabilmente un suo allievo che
la compose intorno al 70 d.C.
Pensiero
Politica
In politica Seneca venne accusato di essere contradditorio: da un lato vicino e complice di Nerone,
nonostante l’esaltazione della morale nelle sue opere. Rimanere accanto a Nerone è in realtà per Seneca
l’occasione di arginare le sue malefatte e tentare di impedirle. Consapevole che l’etica privata e quella
pubblica in quel contesto fossero inconciliabili.
L’Otium
Il concetto di otium è diverso in età arcaica, inteso come assenza di occupazione militare, ed in età
repubblicana, assenza di attività politica. Per Cicerone l’otium è positivo se in funzione del negotium, per
Seneca non ha invece valore etico ma fondamentalmente politico, l’unico modo di impegnarsi per la civiltà
là dove il negotium era negato.
In Seneca il negotium è assente, poiché sono assente sia le guerre che le attività politica, e la rivalutazione
dell’otium è necessaria. Nel De Naturales Disputationes Seneca rimpiange di non aver dedicato i suoi anni
all’otium. Quest’ultimo desterà in Marziale e in Giovenale lo splin.
Filosofia
Seneca non ama la trattazione filosofica rigorosa, la conoscenza è per lui un’illuminazione. Novità di Seneca
è l’autocoscienza, che dà valore all’interiorità superando in questo modo Socrate. Seneca è del resto figlio
della scuola dei Sesti, ed insegna il vindicate (rivendicati) che supera il conosci te stesso ed invita
all’affermazione di sé quale unico possesso certo.
Per Seneca assume un valore fondamentale la riflessione sulla morte: ritiene infatti che imparare a morire
sia l’essenza dell’imparare a vivere. Sostiene anche che la morte va a accettata in quanto è il ritorno
dell’anima al suo principio primo, il Λόγος.
Seneca è considerato talvolta un precursore del Cristianesimo per il suo ideale di humanitas, soprattutto nei
confronti degli schiavi, che arriverà a definire umili amici. Crede infatti che tutti gli uomini sono uguali, in
virtù della comune partecipazione al Λόγος, e che è il destino a scegliere la posizione di ognuno ed è per
questo da accettare qualunque essa sia. Non propone in ogni caso un’abolizione della schiavitù ma una sua
accettazione e la solidarietà tra classi sociali.
La perfezione morale è per il Filosofo latino svincolata dall’altro, su cui ha invece una ricaduta etica positiva.
Il perfezionarsi, obbiettivo dell’otium e dell’uomo in genere, deve essere condotto lontano dalla folla che è
pericolosa e porta a sviarsi.
Stile
Il linguaggio di Seneca è secco, asciutto e sintetico. Le frasi sono molto brevi e spezzettate, utilizza, in antitesi
a Cicerone, la paratassi. È influenzato dallo stoicismo, per la convinzione di una corrispondenza diretta tra
parole e cose, e che lo stile sia uno strumento di conoscenza. Come il Λόγος organizza il mondo così lo stile il
discorso.
Alcuni elementi sono presi dalla diatriba, come la forma divulgativa-popolare, il tu diatribico, l’utilizzo di
termini medici, di exempla concreti ed il moralismo. Altri dalla retorica come le declamationes il desiderio di
esortazione dell’uditorio, dalle suasorie gli exempla tratti dal mito. Il tutto finalizzato a convincere l’uditorio,
il che si concretizza nelle tecniche della gradatio (dei climax), nell’uso della paratassi e delle sentenze.
Realizzato il 02/11/2015 da Paolo Franchi, 5BC A.S. 2015/2016.
AMDG