Seminario Estivo 27 Luglio 03 Agosto...
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Reg. Num. 6188 – A
Villa Nazareth – Fondazione “Comunità Domenico Tardini” ONLUS
Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma – Tel. 06-895981, Fax. 06-6621754 Siti web: www.villanazareth.org, collegio.villanazareth.org, www.vnservizi.it
E-mail: [email protected], [email protected]
Seminario Estivo 27 Luglio – 03 Agosto
2014
VILLA
NAZARETH
“THE POWER OF SPORT”
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“THE POWER OF SPORT” 27 Luglio – 03 Agosto
PROGRAMMA
“THE POWER OF SPORT”
Domenica 27 luglio
Pomeriggio Arrivo e sistemazione presso il Centro Vacanze e Cultura Grand Hotel Dobbiaco
Ore 18:45 Celebrazione eucaristica Ore 20:00
Cena e saluto del card. Achille Silvestrini, di mons. Claudio Maria Celli, della prof.ssa Angela Groppelli, del prof. Carlo Felice Casula, del dott. Marco Catarci del dott. Massimo Gargiulo.
A seguire Presentazione del seminario a cura degli studenti della Commissione Cultura
Lunedì 28 luglio
Ore 8:00 Colazione
Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
Martedì 29 luglio
Ore 8:00 Colazione Ore 9:15 Conferenza: “Lo sport in Italia tra cultura ed etica"
Relatori: Italo Cucci, giornalista sportivo e scrittore
Manuela Di Centa, campionessa olimpica e membro del C.I.O
Moderatore: Nino Marzullo
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“THE POWER OF SPORT” 27 Luglio – 03 Agosto
Ore 13:00 Pranzo Ore 14:30 VN SPORT DAY Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
Ore 20.30 Commissione Cultura - Incontro Gruppi Regionali (studenti
residenti e non residenti)
Mercoledì 30 luglio
Ore 8:00 Colazione Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata Ore 18:45 Celebrazione eucaristica presieduta dal card. Achille Silvestrini nell'anniversario della morte del Cardinale Domenico Tardini
Ore 19:30 Cena
Giovedì 31 luglio
Ore 8:00 Colazione Ore 9:15 Conferenza: “Quando lo sport cambia la vita”
Relatore: Pierpaolo Addesi, campione italiano di paraciclismo Moderatore: Daniele Marchesani
Ore 13:00 Pranzo
Ore 16:00 Laboratorio degli studenti Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
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“THE POWER OF SPORT” 27 Luglio – 03 Agosto
Venerdì 1 agosto
Ore 8:00 Colazione Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena
Sabato 2 agosto
Ore 8:00 Colazione Ore 9:15 Conferenza: “Come fare squadra per il sociale”
Relatori: Igor Cassina, ginnasta italiano e campione olimpico
don Mario Lusek, direttore dell’Ufficio Nazionale della CEI per la Pastorale
del tempo libero, turismo e sport
Virna Duca, responsabile regionale FISDIR e direttore tecnico
internazionale DSIGO
Moderatore: Lorenzo Tama
Ore 13:00 Pranzo Pomeriggio libero Ore 18:45 Celebrazione eucaristica
Ore 19:30 Cena Tipica
Domenica 3 agosto
Ore 8:00 Colazione
A seguire Saluti e partenze
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“THE POWER OF SPORT” 27 Luglio – 03 Agosto
INDICE
Biografie dei relatori – pag. 6
Articolo n.1: “Manifesto dello Sport” - pag. 9
Articolo n. 2: “Essere cristiani nel mondo sportivo”, mons. Carlo Mazza - pag. 11
Articolo n.3: “Lo Sport come filosofia educativa e sociale: una prospettiva
decostruzionista”, Emanuele Isidori - pag. 18
Articolo n.4: “Intervista a Domenico Latagliata”, Francesca Piccoli - pag. 26
Articolo n. 5: “Sócrates e la Democrazia Corinthiana”, Solange Cavalcante - pag. 28
Articolo n. 6: “Teófilo Stevenson: la revolución sul ring”, Lucio Iaccarino - pag. 31
Articolo n.7: “Baseball VS. Calcio : un limes sportivo divide le Americhe”, Mauro
Fresca , - pag. 34
Articolo n.8: “Un calcio alla tristezza”, Roberto Nocella - pag. 38
Articolo n.9: “Lo Sport che muove le idee e le persone”, Paolo Crepaz, - pag. 47
Bibliografia – pag. 56
Filmografia – pag. 57
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“THE POWER OF SPORT” 27 Luglio – 03 Agosto
Biografie dei relatori
Italo Cucci
E’ cresciuto a Rimini, dove ha iniziato la sua avventura giornalistica nel 1958 con il settimanale La Provincia. Successivamente ha collaborato ad
alcuni settimanali della capitale (Lo Specchio, Il Meridiano, Qui Italia, la Folla, Reporter) diventando infine giornalista professionista nel 1963 al Resto
del Carlino. Ha insegnato giornalismo alla LUISS DI Roma e Sociologia della comunicazione sportiva alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di
Teramo. È anche collaboratore di numerose università tra cui la ”Sapienza” di Roma dove tiene seminari e lezioni sui vari aspetti dello sport. Ha
diretto i giornali in cui è stato redattore: prima il Guerin Sportivo, poi lo Stadio, il Corriere dello Sport-Stadio e il Quotidiano Nazionale. Ha diretto anche il
mensile Master e il settimanale Autosprint. Scrive per il Corriere della Sera edizione di Bologna. Ha collaborato con Pupi Avati al soggetto e alla
sceneggiatura del film “Ultimo minuto” con Ugo Tognazzi. Ha vinto numerosi
premi sportivi e letterari, in particolare il premio "Dino Ferrari" assegnatogli da Enzo Ferrari. Collabora con la RAI come opinionista/editorialista sportivo.
Dal marzo 2012 è direttore del periodico Primato ed attualmente è direttore editoriale dell'agenzia di stampa Italpress, attraverso la quale collabora
come editorialista per numerosi quotidiani nazionali e locali. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo “Minuto per minuto”, “Il mio mondo” , “Un
nemico al giorno”, “Tribuna Stampa”, “Il mondo di Giacomo Bulgarelli” ,”Bad Boys”. Nel 2014 ha pubblicato per Minerva Editoriale il romanzo
“Verità ELETTROSHOCK - E la chiamano depressione”, scritto insieme al figlio Ignazio.
Manuela Di Centa
E’ una dirigente sportiva, politica e fondista italiana. Esordì in Nazionale nel 1980, all’età di 17 anni, dopo essersi messa in mostra nelle categorie giovanili;
due anni dopo partecipò ai suoi primi Mondiali, Oslo 1982. Nello stesso
anno conquistò un argento ai mondiali. Ha partecipato come atleta azzurra a 5 edizioni delle Olimpiadi invernali: Sarajevo 1984, Calgary 1988, Albertville
1992, Lillehammer 1994 e Nagano 1998. Diviene campionessa olimpica ai XVII Giochi olimpici invernali di Lillehammer 1994, vincendo una medaglia in
ognuna delle gare di sci di fondo in programma. È anche conduttrice televisiva e alpinista. Nel 1996 ha ricoperto l’incarico di Presidenza della
Commissione Italiana Atleti mentre nel 1998 è stata eletta membro del Comitato Olimpico Internazionale, prima atleta e donna italiana a ricoprire
questa carica dirigenziale internazionale. In occasione dei XX Giochi olimpici invernali di Torino 2006 è stata "sindaco" dei Villaggi olimpici. Nel 2010 è stata
nominata Presidente del Comitato Organizzatore dei Campionati del Mondo Master di corsa in montagna ed è stata rieletta membro onorario del Comitato
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Olimpico Internazionale al termine del suo mandato come membro. Sempre
nello stesso anno è stata insignita dell' "Ordine Olimpico" per gli importanti servizi resi al movimento olimpico. Dal 2006 al 2013 è stata deputata del
Parlamento italiano. Nel 2011 ha pubblicato una sua biografia dal titolo “Libera
di Vincere”.
Pierpaolo Addesi
Nasce a Mariano Comense in provincia di Como. Affetto da focomelia
all'avambraccio sinistro, dall’età di due anni indossa una protesi. All'età di 5 anni si trasferisce in Abruzzo con la sua famiglia ed è per questo che si sente
abruzzese. Papà di due bimbi, Claudia e Riccardo, nel 2005 ha scoperto che lo sport era davvero la strada giusta per iniziare un nuovo percorso, più reale, ma
soprattutto più felice. Si avvicina al ciclismo per gioco ma ben presto diviene una pedina importante della Nazionale di Ciclismo Paralimpico. Ottiene diversi
risultati importanti, nazionali ed internazionali: 11 titoli italiani, partecipazione alle paralimpiadi di Pechino 2008, 7 mondiali disputati.
“La mia più importante vittoria è stato accettare se stesso. Lo sport mi ha fatto accettare il mio handicap e mi ha fatto capire che anche senza un braccio tutto
si può fare, l'importante è cercare sempre il proprio limite, in tutto quello che
si fa. Quest'anno vestirò la maglia azzurra per il decimo anno, e cercherò di onorarla fino alla fine”.
Igor Cassina
Ginnasta italiano e Campione olimpico nella specialità della sbarra.
Nel 2001 è 4º alla sbarra ai Mondiali di Gand e l'anno successivo agli Europei di Patrasso conquista un bronzo. Nel 2003, ottiene l’argento ai Mondiali
di Anaheim. Il 23 agosto 2004 vince l'oro nella sbarra alle Olimpiadi di Atene, primo italiano a riuscirci con questo attrezzo. Nel 2005 conquista la medaglia
d’oro ai mondiali tenutisi a Parigi e la medaglia d’argento al campionato
europeo di Debrecen. Nel 2007 si classifica primo ai campionati del mondo di Parigi per poi conquistare il bronzo agli Europei svolti ad Amsterdam. Alle
Olimpiadi di Pechino 2008 arriva quarto nella finale alla sbarra mentre il 29 maggio 2010 si laurea con il massimo dei voti e la lode in Scienze motorie e
dello sport con una tesi dal titolo “L'esperienza sportiva come occasione di crescita per la persona”, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Il 5 marzo 2011 gareggia per l'ultima volta al campionato italiano di ginnastica artistica. Igor Cassina è stato il primo atleta al mondo a presentare
un Kovacs teso con avvitamento a 360° sull'asse longitudinale, e come riconoscimento la federazione internazionale ha dato il suo nome all'elemento,
che dal 2002 è ufficialmente chiamato "movimento Cassina". Ha inoltre ricoperto importanti incarichi istituzionali e sportivi tra cui ricordiamo:
Ambasciatore ONU negli anni 2005-2006, testimonial della Federazione Ginnastica d’Italia. Attualmente ricopre l’incarico di direttore tecnico presso la
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Società Pro Carate di Carate Brianza ed è promotore del progetto “Sport
Modello di Vita”.
don Mario Lusek
E’ un sacerdote dell’Arcidiocesi di Fermo dove ha ricoperto diversi incarichi in svariati e diversificati settori pastorali, ricoprendo anche il ruolo di Incaricato
Diocesano e Regionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport. Ha svolto numerosi servizi diocesani nell’associazionismo cattolico (Agesci, Csi,
Farsi Prossimo e dal 1° ottobre 2007 è direttore dell’Ufficio Nazionale per la
Pastorale del tempo libero, turismo e sport della Conferenza Episcopale Italiana. Rappresenta la Cei nella Consulta Nazionale delle Antiche vie storiche
e di pellegrinaggio, presso il Ministero dei Beni Culturali. In qualità di Cappellano della Squadra Italiana ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino e
Londra, a quelle invernali di Vancouver e Sochi, ai Giochi del Mediterraneo di Pescara e Mersin (Turchia), ai Campionati Mondiali di Atletica di Berlino.
Collabora con numerose riviste sui temi riguardanti lo sport, il turismo, il tempo libero. Tra gli articoli più recenti ricordiamo: “Il gioco, una vita. Se
andiamo in profondità”, “Lo sport che cambia il mondo” “Spazi sportivi in parrocchia”, “Sport. Quando in “campo” c’è l’educazione”. “Uno sport per
l’uomo aperto all’Assoluto”, “Progettare la pastorale dello sport in Parrocchia”.
Virna Duca
Laureata in Scienze Motorie, ha insegnato educazione fisica in lingua inglese
dal 1992 al 2003 presso la “Sir James Henderson British School” di Milano, dal 2000 al 2002 presso la “Scuola Europa” di Milano e dal 2002 presso l’
”International School” di Monza. Ha ricoperto altri importanti incarichi quali: tecnico Federale, Giudice Nazionale di ginnastica artistica femminile,
collaboratrice della F.G.I. (Federazione Ginnastica d'Italia) e allenatrice della S.G.M. Forza e Coraggio 1870 ASD dal 1980 al 2000. Attualmente è direttore
Sportivo della Società Ginnastica Milanese Forza e Coraggio 1870 ASD e responsabile gestionale del Centro Sportivo Forza e Coraggio. Dal 2003 ricopre
l’incarico di Responsabile Tecnico Regionale e Nazionale della FISDIR
(Federazione Italiana Sport Disabilità Intellettiva e Relazionale) per la ginnastica artistica e ritmica e nel 2012 è divenuta Direttore Tecnico
Internazionale per la ginnastica artistica e ritmica DSIGO (Down Syndrome International Gymnastics Organisation).
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Articolo n.1: “Manifesto dello Sport” Dal quaderno ”Notiziario dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale del tempo libero,
turismo e sport” – Gennaio 2001
Lo sport è uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo. Coinvolge innumerevoli persone in ogni paese del mondo e si sviluppa ogni giorno di più.
Praticato direttamente o vissuto come spettacolo, se opportunamente orientato, costituisce un grande risorsa a disposizione della persona umana e
della collettività, poiché è in grado di svolgere importanti funzioni: - ludica, in quanto si propone come mezzo per sprigionare creatività, gioia,
gratuità nella fruizione del tempo libero, sia individuale che collettiva; - culturale, poiché contribuisce una più approfondita conoscenza delle
persone, del territorio e dell’ambiente naturale;
- sanitaria, poiché concorre a preservare e migliorare la salute di ogni
persona; - educativa, perché favorisce un’equilibrata formazione individuale e lo
sviluppo umano a qualsiasi età;
- sociale, in quanto intende promuovere una società più solidale, lottare contro
l’intolleranza, il razzismo e la violenza, operare per l’integrazione degli “esclusi”;
- etico-spirituale, perché, nel perseguire i valori morali, vuole contribuire allo sviluppo integrale della persona umana;
- religiosa, perché, sviluppando appieno le potenzialità della persona, aiuta ad apprezzare sempre più la vita, che per i credenti è dono di Dio.
Lo sport sa parlare alle persone con un linguaggio semplice, per dire cose
importanti:
- che occorre impegnarsi a fondo per realizzare le proprie mete ed aspirazioni, senza tuttavia cadere nel culto della perfezione fisica;
- che bisogna prendere coscienza dei propri limiti e capacità; - che si deve resistere alla tentazione di arrendersi alle prime difficoltà;
- che la vittoria e la sconfitta fanno parte della vita e quindi bisogna saper vincere senza ambizione, prepotenza e umiliazione dell’avversario, e bisogna
saper accettare la sconfitta con la consapevolezza che non si tratta di un dramma irreparabile e che la vera vittoria ciascuno la ottiene dando il meglio di
se stesso; - che qualunque competizione deve svolgersi nell’osservanza delle regole, nel
rispetto degli altri e senza esasperazioni. Noi crediamo che oggi le funzioni e le potenzialità dello sport debbano essere
salvaguardate e rafforzate, a fronte dell’apparire di fenomeni nuovi che mettono in causa l’etica ed i principi dello sport.
Lo sport non può diventare elemento ulteriore di divisione tra ricchi e poveri,
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tra forti e deboli, né la corsa al guadagno e alla vittoria possono privare lo
sport dei suoi valori morali. Né lo sport dev’essere appannaggio dei soli paesi ricchi e questi non devono imporre il loro modello sportivo ai popoli
economicamente meno sviluppati, né si devono usare le periferie del mondo
come riserve per lo sfruttamento di giovani promesse. La ricerca e l’addestramento di nuovi talenti tra i minori non può avvenire nella
violazione dei diritti fondamentali dei fanciulli e dei ragazzi: diritto al gioco, all’istruzione, ad una vita serena in ambito familiare.
Non è lecito alterare la natura dello sport ricorrendo a prodotti, pratiche e comportamenti che attentano alla salute dell’atleta e falsano il risultato in
maniera sleale e ingiusta.
Noi vogliamo uno sport che: - abbia come centro e riferimento costante la dignità della persona umana, e la
salvaguardia della sua integrità fisica e morale; - consenta la scoperta di ideali e l’esperienza di valori che migliorino la qualità
della vita personale e sociale; - si sviluppi in modo da conservare sempre, anche nelle sue espressioni
agonistiche più alte, quando costituisce carriera e professione, il carattere di
confronto leale e gioioso, di incontro amichevole e aperto alla comprensione e alla collaborazione;
- si esprima in forme armonicamente rispettose dei bisogni e delle possibilità psicofisiche di ciascuno, anche in rapporto alle differenti età, senza escludere o
emarginare i più deboli e i più poveri, come gli anziani o i diversamente abili; - cooperi efficacemente ad affermare una cultura della pace, dell’avvicinamento
tra i popoli e del dialogo tra le nazioni. Noi, a nome di atleti, dirigenti e tecnici del movimento sportivo, qui riuniti in occasione del “Giubileo degli Sportivi” del
29 ottobre 2000, ci impegniamo affinché lo sport sia promosso, organizzato e vissuto in modo da:
- essere – soprattutto per i bambini, i ragazzi ed i giovani – scuola di democrazia, partecipazione e solidarietà;
- contrastare ogni forma di discriminazione, intolleranza e violenza, contribuendo ad abbattere i pregiudizi e sconfiggere forme degenerate di
nazionalismo;
- rifiutare ogni forma di esasperazione e di sfruttamento, e qualsiasi pratica che possa subordinare la persona umana agli interessi economici e alla ricerca
dei risultati; - rispettare e valorizzare l’ambiente.
Ai Governi nazionali, alle istituzioni internazionali, al movimento olimpico e a
tutte le organizzazioni sportive chiediamo di far proprio questo Manifesto, impegnandosi a divulgarlo e a realizzarne le aspirazioni, facendone la base per
lo sviluppo dello sport del Terzo Millennio.
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Articolo n. 2: “Essere cristiani nel mondo sportivo”,
Mons. Carlo Mazza Dal sito www.salesianiperlosport.org
Sport, tra individualismo, deriva vitalistica e impresa
Va bene annotare brevemente e succintamente alcuni elementi della situazione corrente dello sport. La fase attuale manifesta una tendenza in “movimento” con punte di ambiguità preoccupanti. Siamo nella piena bagarre individualista,
vitalista e commerciale. Questi caratteri appaiono montanti e pervasivi ed esprimono un processo socio-culturale a forte caratterizzazione soggettivistica
e privatistica. La tendenza in atto va presa in grande e responsabile
considerazione sia perché rivela bisogni e domande diffuse e sia perché denota un dominio commerciale che veicola interessi, scelte ideologiche, occupazione
totalitaria del tempo libero. Secondo un’indagine della Camera di Commercio di Milano, le imprese che si occupano di sport in Italia sono aumentate, negli
ultimi quattro anni, del 26% (da 9.955 a 12.583) e gli impianti sportivi sono cresciuti del 29,4% (cfr. Il Sole 24 Ore – Sport, n. 6/ottobre 2005) e
attualmente sono 148.800 (uno ogni 3000 abitanti circa) secondo le rilevazioni del CNEL. L’indice di tendenza in aumento delle imprese private è spiegato in
questi termini: “C’è una crescita dell’area fitness-wellness, una crescita delle attività di gestione delle strutture dedicate allo sport, ma si tratta di realtà
destrutturate, cioè non inserite in realtà quali le federazioni o altre organizzazioni. Ciò non significa che l’attività sportiva strutturata e finalizzata
all’agonismo sia in crisi, ma che si possa parlare di un’esplosione delle attività collegate allo star bene” (R. Ghiretti, responsabile di “Studio Ghiretti”). Ora,
non bisogna demonizzare queste tendenze, ma operare un serio
discernimento. Se il CONI si preoccupa e corre ai ripari istituendo uno Sportello ad hoc con una scelta di programmazione e di concertazione siglata da un
Protocollo (29 settembre 2005) con l’UPI, ANCI e le Regioni, significa che un tale sviluppo della pratica sportiva, fuori dai controlli federali e dagli Enti locali,
non sempre produce effetti positivi per un autentico accrescimento della persona. Fate conto se non dobbiamo farcene carico noi!
Essere cristiani nello sport Nell’affrontare il tema proposto si affollano molte domande, ad esempio: Come
rispondere alle tendenze e alle emergenze attuali dello sport? Con quali strumenti e proposte concrete? Con quali progetti socio-educativi aderenti alla
domanda differenziata di sport e con quali metodologie? I cristiani hanno qualcosa di specifico da offrire? L’associazione sportiva di ispirazione cristiana
come si muove e come è presente nel movimento creato dallo sport? 1. Partirò da una premessa decisiva che formulo così: i dirigenti laici sportivi
cristiani fondano il loro servizio sull' opzione oggettiva e determinante della
fede. Questa opzione qualifica in modo chiaro il loro impegno sociale. Non si tratta di dedurre immediatamente dalla fede i modelli di attività, ma che sia la
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fede ad ispirare l’attività, ad infondere una qualità specifica e visibile alle scelte
anche sportive. Sotto questo profilo, il punto di partenza e la motivazione di fondo dell'impegno non possono ammettere incertezze, diversamente si
rischiano fraintendimenti, conflitti di coscienza, logoramenti rispetto alla
primigenia intenzionalità educativa cristiana. 2. La consapevole adesione e l'approfondimento dell'identità cristiana, che è un
bene inestimabile, portano alla testimonianza dei valori cristiani nel proprio ambiente di lavoro, di famiglia, di attività di tempo libero e di sport. Se
l’opzione di fede è autentica e matura non esistono differenze di luoghi, di circostanze, di persone, tali da giustificare la dimenticanza o l'accantonamento
delle personali convinzioni interiori. Esse mantengono una rilevanza e producono una risonanza dovunque ci si trovi a vivere, a progettare, ad
organizzare, a costruire una realtà di gruppo che sia profondamente motivata e trasparente rispetto ai fini da raggiungere.
3. La ricorrente scissione tra fede e impegno nel mondo ha provocato quel fenomeno chiamato laicizzazione o secolarizzazione, dove appunto nella visione
globale della vita viene a mancare qualsiasi riferimento alla trascendenza e al fine ultimo dell'uomo. Il processo indotto diventa tanto più rischioso in quanto,
smantellando i principi fondativi della fede e della morale, svaluta la vita e la
riduce a pura funzione biologica, psichica, economica, edonistica. Come è stato scritto: "se la vita non reca più il sigillo del sacro la si butta via appena non
serve più" e si perde in tal modo la sua assoluta dignità. Si abolisce nell'uomo la sua integrità e la sua finalità.
4. Ora il vero sportivo cristiano non si imbarca in operazioni che distruggono l'uomo ancora prima che possa affermare qualcosa delle sue qualità fisico-
atletiche, della sua forza e della sua abilità. Che senso avrebbe la fatica di condurre una persona alla scoperta e alla valorizzazione delle sue risorse
corporee ed intellettive se questo sforzo non fosse concatenato ad un centro di unità che esprime, significa e unifica tutto l'uomo? In fondo il dirigente,
l’accompagnatore, l’allenatore agiscono come interpreti complessivi dell'uomo per la sua promozione totale, e dunque sono chiamati a esplicitare
tutte le dimensioni della personalità dei ragazzi e dei giovani in vista del loro futuro. Di conseguenza l’ “essere cristiani”, non essendo un optional ma una
scelta di vita e di campo, caratterizza in modo evidente l’impegno da parte del
dirigente nel particolare ambito dello sport e ne manifesta tutte le conseguenze pratiche che rivelano una vita virtuosa, trasparente e gioiosa.
Confrontarsi da cristiani nello sport
1. Alla necessità di rendersi conto delle tendenze socio-culturali della società
occorre farvi fronte con adeguate attenzioni, con sollecite iniziative di carattere spirituale e formativo, con illuminate avvertenze sui pericoli insiti in certe
ideologie consumistiche. Allora si comprende che, se si è vuoti di valori e se l'impegno si basa e si ferma
al puro schema sportivo, alla materialità dell'organizzazione, alla conoscenza tecnica dei gesti sportivi, non può condursi a buon fine la costruzione
dell'uomo, ragazzo, giovane o adulto o vecchio che sia. D’altra parte se la
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testimonianza non si evidenzia con forza persuasiva non si porterà un vero
contributo alla edificazione di una società in grado di creare condizioni di vita non solo migliori, ma profondamente segnate e illuminate dalla fede.
2. Occorre dunque confrontarsi da cristiani anche nel mondo sportivo e vedere
come incarnare la fede negli ambiti sociali di impegno per aprire vie ad un futuro cristianamente qualificato e dotato di quei valori forti che sostengono
una convivenza più umana e più rispettosa dei diritti e dei doveri di tutti. E’ stato detto che lo sport è una “scuola di vita”, una palestra di virtù e di
autentica umanizzazione. Questo è verissimo, ma per noi lo sport diventa anche una esperienza di comunione e di fraternità, di solidarietà effettiva, di
conquista di quei valori enunciati dalle beatitudini evangeliche: la pazienza, la mitezza, la magnanimità, la lungimiranza, la povertà, il dono di sé. Dunque lo
sport diventa occasione propizia per un itinerario ascetico-mistico. 3. Se la secolarizzazione della società pone problemi al mondo sportivo è
perché tende a materializzare lo sviluppo delle risorse fisiche e psichiche, ad incanalare l'esercizio sportivo nel soddisfacimento puramente edonistico e
competitivo nel voler sempre e comunque condizionare lo sport al denaro. Per farvi fronte diventa improcrastinabile l'elaborazione di una cultura dello sport
fondata sui valori umanistici e spirituali da inserire nei dinamismi strutturali
della persona, della società in genere e delle istituzioni sportive. In tale progetto non può essere estranea l’ispirazione della fede. Essa è forza
trainante ed efficace per riuscire ad incarnare nella prassi sociale dello sport diverse attitudini e differenti idealità più rispondenti alla concezione dell'uomo
e al suo sviluppo: si tratta di dare corpo alla visione dello sport nella prospettiva di autentico sviluppo della persona. Ciò non esclude l’efficienza e
l’impresa ma che siano coerenti con i principi.
Compito specifico dei laici impegnati
Con intelligenza e coraggio dobbiamo accogliere l'invito a declinare la scelta cristiana con l’impegno nello sport, in particolare sotto due rilevanti profili di
valore. 1. Il primo: risulta evidente il significato del connubio etica e sport se lo si
confronta con gli obiettivi veri e perenni dello sport. Lo sport non è
un idolo cui asservirsi ma è un valore a servizio dello sviluppo dell’uomo creato e redento. Lo sport non deve condurre ad un edonismo sfrenato e totalizzante,
ma serve all’elevazione di tutto l’uomo attraverso il costante sforzo per il continuo superamento di sé, per ritrovare il meglio di sé.
2. Il secondo: l'autentico sviluppo dell'uomo, valido anche per l'uomo-sportivo, si attua nel quadro della solidarietà e della libertà e nel rispetto
dell'ordine della verità e del bene. Qui si configura il culmine dei valori orientativi e la somma degli obiettivi anche nelle attività sportive. Solidarietà,
libertà, verità e bene definiscono un punto di riferimento ideale cui attenersi con ogni sforzo possibile e sul quale esaminarsi con assiduità. I due profili
indicano il compito che riguarda i laici sportivi impegnati nell’ambito della Chiesa. In forza della loro vocazione battesimale sono direttamente
responsabili e protagonisti della continuità dell'opera creativa di Dio nel
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particolare mondo dello sport e della esplicitazione delle potenzialità iscritte
nella natura umana. Come insegna san Leone Magno: «Per l’unità della fede e del battesimo c’è fra noi una comunione indissolubile sulla base di una comune
dignità. Lo afferma l’apostolo Pietro: “Anche voi venite impiegati come pietre
vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pt 2,5).
Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce. Con l’unzione dello Spirito Santo poi sono consacrati sacerdoti. Tutti i
cristiani sono rivestiti di un carisma spirituale e soprannaturale che li rende partecipi della stirpe regale e dell’ufficio sacerdotale. Non è forse funzione
regale il fatto che un’anima, sottomessa a Dio, governi il suo corpo? Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli
sull’altare del cuore i sacrifici immacolati del nostro culto? Per grazia di Dio queste funzioni sono comuni a tutti». Conseguentemente i laici cristiani sportivi
attraverso la loro competenza e la loro professionalità, esercitate sotto l'ispirazione cristiana, realizzano quel contesto specifico entro cui si dispiega
l'attività sportiva che risalterà perché capace di promuovere tutte le virtualità dell'uomo, tutte le risorse della comunità, tutte le opportunità di
collaborazione con altri organismi e con le istituzioni, a servizio esclusivo del
“bene” della persona.
Domanda di senso e sport
Nella prospettiva delineata il tema “Essere cristiani nel mondo sportivo” si presenta assai provocatorio e affascinante per un dirigente sportivo.
Nonostante se ne parli da sempre, se il tema viene riproposto significa che risponde a delle effettive domande, a delle profonde esigenze di specchiata
coerenza. Soprattutto una domanda emerge sopra le altre: come dare senso cristiano allo sport. E’ la domanda mai del tutto esplicitata che coglie
la necessaria relazione dello sport con il compito della salvezza personale. Tale “salvezza” va intesa evidentemente come dono che viene dall’Alto che si
realizza nello sviluppo integrale della persona e nella sua finalità ultima. 1. La questione, anche se antica, si intreccia oggi nella novità della diffusa
richiesta di sport. L'estensione massiva del desiderio di sport sta a segnalare
un fatto nuovo con il quale bisogna fare i conti, cioè l’emergere della soggettività personale. Qui osserviamo un fenomeno inedito che si lega
inscindibilmente con la riscoperta della corporeità come espressione vivente ed avvolgente di sé, in particolare come “luogo” in cui lo sport si attua.
2. La novità sta nell'esperienza viva del “corpo” e della sua rilevanza nell'universo dei significati della vita. E dunque tocca anche la questione finale
della salvezza dell’uomo. In questa considerazione il corpo non è un'appendice, una marginalità, un peso da sopportare, ma una rivelazione, un luogo
potenziale ad alto indice di mutazione e di indicazione: è un linguaggio da interpretare secondo bisogni e attese; esprime autoaffermazione e relazione,
conoscenza del mondo e richiamo ad altro,quasi una profezia. Il corpo rimanda ad una finalità più alta, trasfigurata da una potenza che viene
dall’esterno: la glorificazione del corpo per via partecipativa alla gloria del
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“corpo di Cristo risorto”. Il corpo diventa segno della creazione in atto ed
esigenza di sviluppo in una traiettoria che realizza, forse più inconsciamente che consapevolmente, un progetto: il progetto di Dio sull’uomo.
3. Perciò in un quadro di valori legato e determinato dalla concezione del
corpo, come avvenimento imprescindibile nella definizione della personale esistenza nell'ambito sociale e nello spazio dell'autocoscienza, lo sport assume
una dimensione psicologica e spirituale importante. Tende ad essere lo strumento per antonomasia idoneo al fine: quello di esibire un corpo in
condizioni ottimali, nella perfetta estensione delle possibilità fisico-psichico-spirituali. Oggi si manifesta la tendenza per uno sport a fini non soltanto
agonistici, atletici, motori, ma estetici, sensitivi, quasi mistici. Si tende ad un'attività sportiva multipla che privilegia l'effetto, l'emotività, la
performance personale, l'equiparazione al modello-carismatico alla ribalta. Lo sport, davvero più che mai, è “metafora della vita”, simbolo di esigenze che lo
superano. Dunque garantisce la possibilità di operare un “salto di qualità”, di valore aggiunto, in favore della rivelazione della “gloria di Dio” che è appunto
espressa nell’ “uomo vivente” (cfr. Sant’Ireneo).
I criteri di valore nello sport
Cerchiamo di vedere insieme alcune identificazioni che ci permettano di
ricavare un profilo generale dello sport considerato come evento nel quadro di una psicologia dinamica della persona, in vista di un’educazione integrale
attraverso lo sport. Per riconoscere puntualmente i “valori” messi nel circuito vitale dell’attività sportiva, li presenterò nella dialettica dei loro contrari: in tal
modo sarà più facile cogliere il rilievo degli uni rispetto al rilievo degli altri, secondo una linea interpretativa di complementarietà.
1. Potenza e impotenza. Nello sport si evidenzia la dialettica potenza/impotenza,come fonte di sfida con
sé stessi e con gli altri, come codice rivelativo di un ordine superiore all'uomo stesso. Accogliere la sfida e attestarsi al codice statutario dell'essere uomo
rappresenta i parametri entro cui misurare la validità e il limite dell'attività sportiva.
Dire che lo sport serve l'uomo nella sua crescita e nel raggiungimento della sua
perfezione significa imprimere al tempo sportivo una caratura di valore che lo rende determinante. Ma perché non sia sopraffatto dalla retorica e da una
enfatizzazione fuorviante è necessario delimitarne i confini entro la dialettica potenza/impotenza. Tale dialettica distingue il massimo delle risorse che un
uomo tiene in serbo al modo di un cumulatore dinamico e il minimo estremo dell'efficienza, cioè il riconoscere la propria finitezza, la misura di sè ultimativa.
Da qui nasce l’esigente applicazione pedagogica di educare e educarsi alla conoscenza e alla padronanza di sé: è quel particolare atteggiamento interiore
ed esteriore che i pedagogisti chiamano "autoperfezionamento attraverso lo sport". Il principio suggerisce l'allestimento di "capacità introspettive, di estro
ed inventiva, per trovare la via, anche stilistica, con cui dare espressione alla propria originalità. Ogni vero sportivo non si esaurisce nella assolutezza
metrico-temporale della prestazione, ma ad essa associa il raggiungimento di
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traguardi interiori strettamente personali". Perciò anche la percezione della
propria incapacità o impotenza, lungi dal provocare crisi di identità e sfiguramenti di sé, aiuta ad accettarsi nelle misure reali del proprio essere e
della distanza/vicinanza con gli altri.
2. Creatività e accidia. Nello sport si evidenzia la creatività in contrapposizione all’accidia. Conosciamo bene tutta la letteratura al riguardo e non mi soffermo
in considerazioni descrittive. Solo il richiamo ci garantisce dal rischio di essere in qualche modo astratti e ripetitivi. E' ormai di dominio comune la convinzione
che la funzione ludica nell'uomo non scatena soltanto la competizione e il massimo rendimento personale ma pone in esercizio le facoltà fantastico-
creative, le invenzioni della libertà psico-motoria, le opportunità organizzative, la voglia di divertirsi come espressione dell'Homo ludens e come liberazione
dell'asservimento alle logiche del professionismo, del campionismo, del tecnicismo. Perciò si comprende come in una corretta visione dello sport, la
moltiforme attività sportiva serva da poderoso antidoto alle devianze non solo giovanili, alle vuote ore del tempo del non lavoro, e alla stessa piaga della
disoccupazione. Qui si ripropone il tema forte dei valori morali dello sport e della loro concreta attuazione, della loro efficacia nella costruzione-formazione
dell'uomo integrale. La gioia genuina che lo sport praticato suscita non si
scontra con una vita morale consapevole e matura, anzi ne valorizza appieno la forza e la stabilità, rimediando a possibili ricadute nell’ozio, nella noia e
nell’accidia. 3. Gratuità e possesso. Lo sport esalta un altro principio della pedagogia
umanistica che è la gratuità. L’essere gratuito implica la non-economicità, la completa inutilità rispetto agli interessi, di qualsiasi genere, in quanto rivela la
più alta espressione del dono, del servizio, della solidarietà, della promozione dell'uomo. L’esatto contrario della gratuità è il possesso. La gratuità discende
da Dio perché fa parte dell'amore e perché rivela la struttura dell'essere di Dio e dell'uomo "fatto a sua immagine". Il possesso sale dall’uomo come forma di
potenza e di contrapposizione con i suoi simili, creando contrasti, lotte, ingiustizie. Nella dimensione sportiva, la gratuità si riferisce al valore della
corporeità, strettamente congiunto al valore dell'interiorità personale, dell'amicizia, della magnanimità. Queste sono di fatto le virtù proprie dello
sportivo, poste a corollario della gratuità e sua concreta esplicitazione.
4. Spiritualità e materialità. Non esiste migliore opportunità di mettere alla prova l’unità psicosomatica dell’uomo come nell’attività sportiva. La forte
tentazione nello sport è quella di elidere o l’una o l’altra delle parti (anima-corpo, spirito-materia) praticandolo come se l’uomo fosse dimezzato. Qui si
tratta di recuperare non solo la teologia del corpo, ma l’intera spiritualità dell’atto umano attraversato dall’avvenimento della redenzione e abitato dalla
presenza della Trinità. Scrive Didimo di Alessandria: “Come un vaso d’argilla il corpo umano ha bisogno per prima cosa di venir purificato dall’acqua, quindi di
essere reso saldo e perfetto per mezzo del fuoco spirituale cioè di Dio che è fuoco divorante. Poi deve raccogliere in sé lo Spirito Santo, dal quale riceve la
sua perfezione e da cui viene rinnovato” (Didimo di Alessandria, “Sulla Trinità”, Lib. 2,12; PG 39, 667674). Il rischio del dominio della materialità porta a
trasformare lo sport in “res”, una cosa da usare e dunque priva di valore
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autonomo, causando una deriva di cui si conoscono tutte le nefande
conseguenze.
Sintesi conclusiva: la figura del Dirigente sportivo
Nel contesto delineato di valori dinamici, il dirigente sportivo assume una
valenza di grande significato sia per la sua esperienza personale sia per la sua qualità nel dedicarsi alla causa dei ragazzi e dei giovani: in lui avviene la sintesi
teorica e pratica dei valori cristiani. Lo sport, infatti, evidenzia il ruolo del dirigente come leader che esercita un
enorme influsso e determina nella concretezza il progetto sport nella sua globalità. Egli appare come il maestro di vita che sapientemente guida verso i
veri traguardi finali, attraverso il "traguardo intermedio"[8]. Su questa persona cade la più urgente attenzione: vale la pena di metterla al centro degli sforzi
più costosi per qualificarne le esigenze, per promuoverne la preparazione, per valorizzarne la competenza, la professionalità, la disponibilità, la virtuosità, il
legame con il territorio, con la comunità, con la scuola, con le istituzioni, con gli altri organismi impegnati nel sociale.
E’ necessario che i dirigenti siano coinvolti costantemente nel progetto
sport, non come operatori passivi, come esecutori esterni, ma come "imprenditori alti dello sport". Si tratta di una consapevolezza che si
sviluppa nel delineare il senso vero della identità del dirigente come genialità capace di assemblare idee e proposte, prassi e iniziative. I dirigenti sportivi,
ben motivati e preparati, con le debite mediazioni, sono pronti a rispondere alle domande poste in precedenza in termini di strategia di ascolto, d
incomprensione delle sollecitazioni culturali che salgono dalla mutazione sociale, di testimonianza cristiana e di convinta partecipazione ecclesiale. Si
può ben dire che quanto più il dirigente è nel mezzo della socialità ed è ben equipaggiato di ingredienti culturali e tecnico-organizzativi, tanto più deve
essere ricco di eticità cristiana, in modo che sappia operare a tutto campo con abilità, efficienza, determinazione e creatività. Di conseguenza diventerà
“testimone di integrazione tra fede e vita”, capace di armonizzare i valori creduti con la passione educativa, la coerenza morale con la pratica sportiva, la
donazione nel volontariato con l’esemplarità del suo servizio alla causa dei
ragazzi. Per chi si impegna nell'associazionismo sportivo di ispirazione cristiana, con animo retto e generoso e con l'intelligenza sostenuta dalla fede,
non troverà impossibile disegnare, in un progetto di umanesimo sportivo, il ruolo di dirigente che realizzi la pienezza delle qualità dell'uomo e la pienezza
delle qualità del cristiano, in una sintesi armonica e felice.
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Articolo n.3: “Lo Sport come filosofia educativa e sociale:
una prospettiva decostruzionista”, Emanuele Isidori
Dal sito www.magma.analisiqualitativa.com
Lo sport rappresenta nella cultura contemporanea una palestra di riflessione
sui problemi etici e culturali che la società prospetta ed è diventato oggi un oggetto del dibattito filosofico sviluppato sia in prospettiva sociale che
educativa. La filosofia contemporanea ha “riscoperto” – se teniamo conto del fatto che nella filosofia e nella cultura greca antica lo sport e l’agonalità
avevano un ruolo centrale –, le sue profonde radici “sportive”. È emblematica a questo riguardo l’immagine dell’atleta-filosofo incarnata dal lottatore Platone e
così percepita nell’antichità, come attestano le più antiche raffigurazione scultoree del filosofo, come la sua erma conservata nel museo dell’Università di
Berkeley. La “filosofia dello sport” è diventata, infatti, una vera e propria branca della filosofia come scienza, con un suo riconoscimento a livello
internazionale, che tarda però ad arrivare nel nostro paese. Lo sport
rappresenta una straordinaria occasione di riflessione filosofica ed educativa per la donna e l’uomo della contemporaneità. A partire dall’Ottocento si è
assistito ad una progressiva sportivizzazione della cultura ed all’assurgere dello sport a tema centrale del nostro tempo, come aveva già messo in evidenza il
filosofo spagnolo Ortega y Gasset (1944). Lo sport, con le sue implicazioni, culturali, sociali, filosofiche ed educative appare come un “gigante” del nostro
tempo – l’espressione è del filosofo spagnolo dello sport José Maria Cagigal (1981) – che deve essere anatomizzato, scomposto ed analizzato nelle sue
parti e nei suoi gangli fondamentali per essere compreso in tutta la sua straordinaria potenza sociale ed onto-ontica, perché legata, da una parte, ad
una dimensione propria dell’esistenza individuale di ogni essere umano e, dall’altra, ad una dimensione etica “radicale” (in senso marxiano) dell’uomo
umano. Quello che già aveva compreso Cagigal era che lo sport influisce sugli stili di vita, i modi di pensare e gli atteggiamenti mentali delle persone; ed il
fatto che esso rappresenti un sistema etico ed educativo in grado di influire
profondamente sulla società rende necessaria una lettura più attenta e meno superficiale del fenomeno sportivo in chiave filosofico-educativa. Questi truismi
e queste banalità che si concretizzano in generici assunti metafisici ed affermazioni di scarso valore sia teoretico che pratico, partono da una errata
convinzione: quella che vuole che lo sport sia, a priori, una pratica umana in grado di generare, di per se stessa, valori ed un miglioramento delle relazioni
umane e sociali tra le persone che vivono in una comunità.
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1. Lo sport tra valore e antivalore nella prospettiva della filosofia dell’educazione sociale
Il punto di partenza di questa nostra analisi filosofico-sociale è, invece, che lo sport non rappresenta in se stesso un valore, una pratica “buona” e “salutare”
(non solo in termini “fisici” ma soprattutto in termini sociali) e non si identifica neppure in un bene assoluto. Il suo valore per la donna e per l’uomo non si
trova in se stesso ma negli obiettivi e nelle finalità che esso può perseguire in un quadro di possibili funzionalità che può svolgere. Questi obiettivi e queste
finalità sono sempre date dall’educazione. Il “bene” dello sport e la sua
straordinaria portata sociale non sta dunque in se stesso ma nella finalità educativa che intende perseguire e negli obiettivi educativi che, nell’ambito di
questa finalità, può conseguire. Lo sport è uno strumento che l’educazione può utilizzare per perseguire i suoi scopi ed i suoi obiettivi educativi. Senza questo
uso funzionale all’educativo, lo sport non potrebbe essere né un valore né un bene per l’umanità e la società. In termini di filosofia dell’educazione si
potrebbe dire che lo sport di per sé stesso “insegna” ma non “educa”; Lo sport, quindi, rappresenta, come altri dispositivi sociali, uno strumento che
l’educazione ha a disposizione per il conseguimento del bene comune. Va detto, tuttavia, che lo sport presenta in se stesso un implicito educativo che gli
deriva dalla sua stessa origine. L’analisi storico-filosofica ha rivelato come lo sport nasca in origine con una finalità educativa e religiosa (si pensi all’origine
delle antiche Olimpiadi o degli altri agónes atletici nella cultura greca) concretizzata in una funzionalità volta alla risoluzione pacifica del conflitto.
2. Lo sport come phármakon: una prospettiva decostruzionista
Da un punto di vista concettuale e filosofico, il concetto di sport appare simile a quello greco di phármakon. Per i greci il termine phármakon indicava sia il
“veleno” che il “rimedio”, l’“antidoto” e la “cura” al male ed al danno che quel veleno procurava all’uomo. Questo concetto è stato approfondito dal filosofo
francese Jacques Derrida, che ne ha fatto uno dei cardini della sua filosofia decostruzionista. Peraltro Derrida ha approfondito questo concetto in un testo
molto interessante dal punto di vista della nostra analisi filosofica socio-educativa, perché ne ha parlato nel contesto dell’uso delle droghe e del doping
nello sport (Derrida, 1995). L’analisi decostruzionista mette in evidenza come il concetto di sport sia assimilabile al concetto di phármakon greco e richieda,
per essere compreso, un procedimento simile a quello utilizzato dai traduttori del Fedro platonico: vale a dire, sulla base del fatto che è sempre il contesto a
dare il significato ed il senso al concetto. Sulla base di questa analisi, quindi, lo sport rappresenterebbe una vox media, vale a dire un termine che di per sé
non presenta un significato definito ed univoco ma neutro, né positivo né
negativo, con una stessa distanza tra il polo del significato positivo e quello negativo. Questa equidistanza non permette di attribuire al termine un unico
significato, che pertanto dovrà essere di volta in volta ricavato dal contesto.
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Tuttavia, partendo dal significato e dal valore intermedio (né positivo né
negativo) del termine possono essere sviluppati due poli semantico-concettuali, positivo e negativo, sempre presenti, anche se attestati in
proporzioni progressivamente disuguali, fino alla netta prevalenza (anche se
potrebbe non essere sempre esclusiva) di uno dei due poli. In quanto termine-concetto che “funziona” come quello di phármakon, lo sport non rappresenta di
per sé né un concetto positivo e neppure negativo, ma si muove sempre orientandosi tra due poli di significato, uno positivo ed uno negativo, il cui
orientamento dipende sempre dal contesto e dall’intenzionalità-finalità che, attraverso l’interpretazione e l’azione, si vuole dare ad esso. Nel caso dello
sport, è il contesto educativo e l’intenzionalità legata a quest’ultimo, determinata da una consapevolezza e da una coscienza sviluppata da una
interpretazione intenzionalmente educativa del soggetto, a dare alla pratica sportiva quello che riteniamo sia il suo significato ed il suo valore intrinseco
positivo, socialmente condiviso e accettato, perché volto al bene della comunità ed al miglioramento delle relazioni sociali tra i suoi membri. Questo valore
viene spesso invece solitamente attribuito “a priori” (talvolta solo in forma retorica senza avere una minima consapevolezza dei passaggi logici e filosofici
che portano all’attribuzione di tale valore) alla pratica sportiva. La
decostruzione mostra che il “bene” ed il “male” nello sport convivono sempre, così come valori e disvalori, e sta al contesto ed all’interpretazione di coloro
che agiscono all’interno della cornice sociale e culturale di questa pratica (atleti, praticanti, allenatori, arbitri, genitori, insegnanti, responsabili di enti e
federazioni sportive, tifosi, ecc.) farli intenzionalmente emergere (intendiamo i valori “puri” e “positivi” dello sport). Nello sport possiamo dunque ritrovare la
dicotomia tra abilità e virtù, tra téchne e areté di cui parlava Aristotele. Il valore (etico e morale) di una abilità (o di una competenza) non sta in se
stessa ma nei fini che essa intende perseguire e per cui viene utilizzata. Nello sport le abilità e le competenze (di tipo tattico, strategico o atletico ad
esempio) dimostrate nella competizione conducono alla vittoria. Tuttavia, dal punto di vista filosofico, ad esempio, non possiamo prendere la vittoria o il
successo nella competizione o nella gara sportiva come prova della virtù e quindi come un bene per l’umanità e la società. Insomma, lo sport e la
competizione (forma nella quale esso si esprime) non sono di per sé valori –
come si diceva – ed i valori o il comportamento morale che lo sport e la pratica sportiva possono generare non sono mai il risultato della mera applicazione di
teorie di apprendimento, regole o principi. Tali comportamenti sono invece il risultato-prodotto dell’esperienza del soggetto, che dovrà essere – più o meno
implicitamente, tacitamente o esplicitamente, ma sempre intenzionalmente – volta all’educativo.
3. Sport ed educazione morale
La potenzialità dello sport come educazione morale risiede nel dare alle persone la possibilità di lavorare con concetti morali quali “onestà”, “equità” e “giustizia”, “imparzialità” (fairness), nel contesto vivo della pratica,
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sperimentando questi stessi concetti, confrontandosi con coloro che non
riescono ad agire in base ad essi ed esplorando anche il proprio eventuale insuccesso nel seguirli. La possibilità etico-morale dello sport sta nel fatto che
esso viene praticato in un ambiente relativamente contenuto, controllato e
supervisionato, in cui queste possibilità possono facilmente emergere, essere decostruite, sperimentate ed esplorate. Lo sport è quindi un laboratorio morale
in cui le astratte regole e gli astratti valori morali della società trovano senso in contesti concreti. In questo contesto controllato qual è appunto lo sport come
sistema, si possono imparare regole morali applicandole a situazioni concrete della vita. Dalla pratica e nella pratica sportiva non si imparano solo regole ma
il modo in cui rapportarsi con le regole e come comportarsi in accordo con i principi etici e morali per il rispetto dei quali vengono stabilite le regole. Non è
lo sport a generare valori ma è il contesto del rispetto delle regole a permetterne l’attuazione ed a rivelarne l’acquisizione attraverso i
comportamenti dei soggetti. Lo sport è un laboratorio esperienziale di tipo sociale che permette di apprendere realmente, nell’esperienza, i valori del
vivere personale e sociale. Il problema dello sport è che generalmente esso non viene compreso in questa sua potenzialità morale ed etico-sociale;
raramente si discute sulla funzione educativa dello sport e si riconosce
nell’educativo l’essenza stessa dello sport. Gli allenatori, i tecnici sportivi e gli stessi esperti di scienze dello sport non vengono mai formati come educatori
morali e non vengono quasi mai sensibilizzati ad avere una coscienza educativa del loro ruolo. Neppure gli atleti sono considerati degli educandi o formandi. Gli
atleti (ma questo vale anche per gli allenatori ed i tecnici sportivi), sono spinti a vincere e valutati solo ed esclusivamente sulla base delle vittorie conseguite.
Questa dimensione si è acuita e va acuendosi sempre più nella società contemporanea dominata dall’ideologia totalitaria del capitalismo assoluto. Ciò
che sostanzialmente manca in molti strati della società è un atteggiamento etico verso lo sport e una sostanziale prospettiva di lettura educativa delle sue
potenzialità; lettura senza la quale lo sport non può mai in alcuno modo ed assolutamente essere considerato un “valore” positivo per l’umanità.
4. Lo sport come laboratorio di riflessione socio-educativa
Lo sport rappresenta, dunque, una palestra di riflessione filosofica “totale” sui
paradossi e le contraddizioni della società globalizzata, perché ne ripropone
sostanzialmente i problemi su larga e piccola scala. Il concetto di sportivizzazione della società è legato al fatto che lo sport è diventato non solo
un fenomeno “totale” ma “totalizzante”, che è entrato in ogni contesto del nostro vivere quotidiano, nei nostri modi di pensare e nei nostri stili di vita. A
partire dal XX secolo, lo sport ha profondamente trasformato i costumi sociali ed i comportamenti corporei tradizionali, finendo per sportivizzare gusti
estetici, comportamenti, abiti e costumi sociali, modi di pensare e di giocare, ecc., penetrando profondamente nel tessuto sociale e culturale di tutti i gruppi
umani (basta pensare all’abbigliamento sportivo ed alla sua influenza su certi
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stili di vita e di comportamento quotidiano che ricercano la salute e
l’“attivismo” fisico permanente). A partire dal Novecento, grazie all’elaborazione culturale e filosofico-educativa
compiuta da De Coubertin, lo sport ha influenzato il sistema dell’etica
occidentale ed ha finito in un certo senso per costruirla, veicolando alcuni principi propri della paidéia atletica. Per gli antichi greci, lo sport era
fondamentalmente una competizione, un agón, un incontro tra persone che si confrontavano l’una con l’altra nel rispetto dell’uguaglianza dinanzi alle regole e
per dimostrare il loro valore dinanzi alla divinità ed alla comunità, secondo il principio dell’essere migliore rispetto agli altri. Alcuni principi dell’agón possono
essere ritrovati nel concetto stesso di democrazia che i Greci hanno consegnato alla tradizione culturale dell’Occidente; vale a dire: uguaglianza dell’atleta
davanti alle leggi ed ai regolamenti della competizione; pari opportunità per tutti i cittadini di partecipare alle gare (nei limiti della società del tempo);
garanzia del controllo e della prevenzione o della punizione dei comportamenti scorretti ed eticamente deprecabili. Lo sport era per i Greci un’agorá socio-
culturale, emanazione di un sistema educativo intenzionalmente volto a favorire un “incontro” e non uno “scontro” tra persone che, pur appartenendo a
sistemici politici e sociali diversi, si riconoscevano in una comune identità. In
questo senso lo sport, attraverso il sistema agonale, permetteva la risoluzione pacifica dei conflitti, la prevenzione della violenza e lo scarico dell’aggressività.
5. La prospettiva socio-educativa dello sport “debole”
L’approccio decostruzionista allo sport mette in evidenza la necessità di
ripensare questa pratica attraverso categorie “deboli”, in grado cioè di destrutturare radicalmente le identità forti che lo sport, ultima delle grandi
narrazioni forti dell’Occidente, in modo contraddittorio e paradossale ancora presenta e su cui basa la sua struttura di pratica sociale e culturale ancora non
inclusiva. Basta pensare al modo in cui viene concepita comunemente nella società di oggi la competizione e la gara sportiva. La gara e la competizione
sportiva vengono viste come performance sociale nelle quali degli attori sociali (gli atleti, ad esempio) si scontrano per affermare la loro superiorità come
individui o come gruppo. In questi attori sociali tendono ad identificarsi grandi masse di soggetti interessate ad affermare, attraverso l’identificazione con tali
attori, la superiorità (non solo in termini di abilità e competenze) del loro “io”
individuale o di gruppo su altri “io” – anch’essi individuali o collettivi – visti come “alterità” e “diversità” costruite attraverso una logica oppositiva (o per
meglio dire contra-oppositiva) che ha il suo punto di partenza nell’affermazione di una identità forte. Nazionalismi, affermazione di appartenenze etniche ed
identità di gruppo, desiderio di rivalsa, di primeggiare e dimostrare la propria superiorità in quanto soggetto individuale, gruppo o nazione, sembrano
rappresentare oggi le caratteristiche principali dello sport contemporaneo. Lo sport appare concepito dalla società nei termini di una contrapposizione e di
uno scontro tra identità forti dei soggetti di qualsiasi natura essi siano (individuale o di gruppo). La metafora della battaglia domina la cultura sportiva
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contemporanea. Questa contrapposizione genera violenza e scontro, perché
trasforma l’aggressività interna (e finalizzata alla sopravvivenza psicofisica) alla competizione ed alla gara sportiva (giustificabile, ad esempio, entro certi limiti,
come reazione dell’atleta a situazioni di stress logorante) in una aggressività
strumentale, non controllata, volta a recare danno all’altro; una aggressività che talvolta finisce per degenerare in una violenza strumentale che ha
l’obiettivo di recare danno e distruggere l’avversario. Nello sport le regole servono per far sì che l’aggressività interna della competizione non si trasformi
in aggressività strumentale e degeneri nella violenza, che nega di fatto i valori umani e sociali sui quali si fonda la dignità della persona e la convivenza nella
vita comunitaria.
6. Sport ed educazione: un binomio sociale inscindibile
Lo sport evidenzia la necessità di una vigilanza etica e di un controllo socio-pedagogico costante, in quanto esso rappresenta un sub sistema-sociale
fondamentale della società stessa, ormai sportivizzata e non più concepibile in termini “a-sportivi”. Una funzione di vigilanza su questo sub-sistema dovrebbe
essere svolto dalla filosofia dell’educazione sportiva. Si tratta di una funzione sociale ed al tempo stesso pedagogica di tipo critico finalizzata non solo
all’osservanza del rispetto delle regole da parte dei praticanti ma anche all’insegnamento di queste modalità di rispetto nei suoi fruitori. Questa filosofia
educativa e sociale dovrebbe evidenziare, ad esempio, come spesso i comportamenti violenti nello sport siano originati dall’uso di un linguaggio
aggressivo (basta leggere un comune articolo di giornale o ascoltare il commento di una partita di calcio alla radio o alla televisione) che ricorre
all’uso di parole e metafore tratte dal discorso bellico. Soltanto concependo lo sport in chiave “debole”, indebolendo cioè la sua struttura di pratica sociale
radicata in una identità del soggetto “forte” che si contrappone all’altro da sé (ad esempio, in termini di maschile/femminile; normalità/anormalità;
vittoria/sconfitta, ecc.), si può pensare di trasformare gli sport ed il sistema
sportivo in pratiche realmente inclusive ed in un sistema educativo in grado di rispondere alle esigenze di integrazione sociale e di convivenza democratica
prospettate dalla società complessa (o se si vuole postmoderna o ipermoderna).Ripensare lo sport sulla base di categorie deboli (concependo, ad
esempio, la competizione sportiva come una co-opetizione, un confronto-incontro tra “identità solidali”), prospetta dunque una reinterpretazione
ermeneutica dello sport su base de costruttiva. Questa reinterpretazione permette di ricondurre lo sport alla sua radice di pratica “agonale”, legata cioè
ai valori dell’agorá, dell’incontro, del dialogo, del confronto e della pratica viva della democrazia nella sua applicazione pratica. Lo sport ha probabilmente
influito sull’origine e sullo sviluppo del concetto di democrazia nella cultura greca e quindi nella cultura europea. A ben guardare, infatti, se si esaminano
le antiche descrizioni delle pratiche agonali nella cultura greca (Miller, 2004) si può constatare come la democrazia ed il suo sistema sia di fatto un agón in
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parole istituito con lo scopo di risolvere concretamente il conflitto sociale,
prendendo decisioni sulla base del principio regolativo e bilanciato dell’equità (non della giustizia).Analizzando l’origine degli antichi giochi greci si può
constatare come lo sport fosse già nell’antichità connesso con i riti sacri
dell’ospitalità e della gara; con riti nei quali lo “straniero” diventava un ospite ed un compagno con il quale era possibile confrontarsi nel nome del
perseguimento di un comune obiettivo; principalmente: la dimostrazione del proprio valore nei confronti della comunità; il rispetto dei valori sociali; la
testimonianza della propria devozione alle entità spirituali superiori. Lo sport è più antico della stessa filosofia ed esso ha influenzato alcuni procedimenti
propri della metodologia filosofica (la procedura ermeneutico-dialogica, ad esempio). Gli antichi avevano compreso le potenzialità educative e sociali dello
sport ed avevano fatto di questa pratica una parte integrante della loro paidéia. Il lungo oblio che ha colpito lo sport e l’educazione fisica nella cultura
occidentale nasce fondamentalmente da un malinteso della cultura platonica da parte di un certo filone dell’ascetismo cristiano, che ha poi influenzato il
cristianesimo medioevale, dando origine a quella dicotomizzazione mente-spirito/corpo ed a quella svalutazione del corpo, dell’attività fisica e delle sue
manifestazioni nella prospettiva ludica ed agonale, che sarà una costante nella
cultura premoderna e moderna e che ancora permane, talvolta senza che ce ne possiamo rendere conto, nella nostra. Lo sport è morto (o forse sarebbe meglio
dire “entrato” in un lungo letargo) nella cultura occidentale proprio quando esso è stato “staccato” dai valori sociali, religiosi, educativi per formare ai quali
esso era nato e che ne rappresentavano la linfa vitale. Non è un caso che quando De Coubertin vorrà far rinascere, all’alba del XX secolo, lo sport nella
sua dimensione agonale, dovrà compiere una operazione di riallacciamento con tali valori, ricreandone e reinventandone di nuovi. Non è quindi possibile
pensare sia dal punto di vista filosofico che sociologico lo sport al di fuori di una prospettiva educativa e pedagogica che non leghi lo sport ai valori umani.
La cultura italiana sembra ancora ignorare l’idea che possa esistere un “filosofo in tuta”. Su questa idea pesa ancora tutto il pregiudizio tipico della cultura di
matrice idealista. Va detto, tuttavia, che l’idea che contrappone la cultura sportiva a quella filosofica e intellettuale è molto antica, e può essere ritrovata
anche nella cultura classica. L’opinione che lo sport sia nemico della riflessione
e dell’attività intellettuale è ancora molto diffusa tra gli intellettuali ed in molti strati della società. Il “filosofo in tuta” dovrebbe essere, in realtà, un filosofo
sociale dell’educazione sportiva che aiuta le diverse scienze sociali e bio-mediche a fornire conoscenze che permettano, nello sport, il passaggio dalla
teoria alla prassi e contemporaneamente alla pratica. Vale a dire, quel passaggio che parte, ipoteticamente, dal quadro dei valori metafisici e astratti
ed arriva alla pratica realmente agita ed esistenzialmente vissuta di questi valori nella quotidianità da parte di tutti gli agenti (sociali o educativi che
siano) dello sport (atleti, federazioni, famiglie, associazioni, club, tifosi, ecc.). Scollegare lo sport dai valori sociali e dall’educazione significa decretarne la
morte e svuotare questa pratica del suo significato e del suo senso più autentico. Per questo è necessario tenere sempre vivo questo legame; ed il
filosofo dello sport, insieme al pedagogista sociale, possono vigilare per far sì
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che lo sport non si scolleghi dai valori, la cui attuazione è resa possibile
soltanto dall’educazione, che influenza e determina la socializzazione nel contesto sportivo. Questo sistema di vigilanza è rappresentato dall’etica dello
sport, la cui elaborazione teorica dovrebbe essere compiuta dalla filosofia e la
trasmissione dei suoi contenuti dalla pedagogia. Sia la filosofia che la pedagogia hanno pertanto un compito decostruttivo nei confronti dello sport e
della sua etica; un ruolo ermeneutico di comprensione-interpretazione dei suoi significati nel loro farsi interno alla sua struttura, nella prospettiva della scelta
di soluzioni eque e rispettose dell’umano nel caso in cui ci si imbatta nelle contraddizioni e nei paradossi che la pratica sportiva in quanto sub-sistema
sociale complesso può comportare. Sia la filosofia che la pedagogia come scienze critiche dell’agire sociale ed educativo sono impegnate nell’attuare quel
passaggio dalla teoria alla prassi dei valori dello sport che permettono di orientare l’agire sportivo verso un agire etico, preludio di un miglioramento
della vita comunitaria.
Conclusioni
De Coubertin sosteneva che lo sport ed i suoi problemi, che per lui erano sintetizzati nell’Olimpismo e nel suo sistema culturale, erano una questione che
doveva essere lasciata solo ai filosofi ed agli insegnanti/educatori; è a loro che spettava, secondo il barone francese, prendersi cura, implementare e risolvere
i problemi della pratica sportiva. In conclusione, riteniamo sia necessario ancora una volta sottolineare con forza che i problemi dello sport sono
fondamentalmente problemi di natura filosofica e socio-pedagogica; mentre oggi le scienze filosofiche, sociali e pedagogiche vengono sistematicamente
marginalizzate nello studio dello sport, nel nome di una errata interpretazione “scientifica” positivistica della pratica sportiva, che continua ad essere vista
solo nella sua parziale dimensione di rendimento e di tecnica/comportamento corporeo. Pertanto, per concepire realmente lo sport nella prospettiva di un
autentico strumento educativo e di miglioramento della vita sociale, è
necessaria una vera e propria rivoluzione etica e culturale della nostra società. Lo sport, infatti, in quanto sottosistema della società, rappresenta lo specchio
dei suoi valori e non solo ne incarna (come già si è detto) i difetti e le contraddizioni ma anche le buone prassi; e questo deve essere sempre
compreso attraverso un processo di decostruzione continua dei significati che la pratica sportiva prospetta. Lo sport, del resto, in quanto pratica che
coinvolge il corpo, il gioco ed il movimento in una unitarietà indissolubile, rappresenta un universale culturale. Esso è legato alla dimensione esistenziale
dell’uomo e del suo esserci e possiede le potenzialità per assurgere a sistema ed a modello etico per la società, a patto, però, che si resti sempre vigili,
attraverso l’educazione, sull’elaborazione e sull’attuazione dei suoi valori, come De Coubertin suggeriva e sognava per l’umanità futura.
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Articolo n.4: “Intervista a Domenico Latagliata”, Francesca
Piccoli
Intervista e articolo ”Dream Team: Taranto campione d’Italia 2008” di Donato
Piccoli tratto dal sito www.palagiano.net
Alle volte la vita ti riserva delle sorprese che non ti aspetti, ti mette davanti ad una realtà che non sai come affrontare, ma bisogna trovare la forza per
rialzarsi ed andare avanti: questo ha fatto Domenico Latagliata, un giocatore di basket in carrozzina, che grazie a questo sport è uscito dal tunnel della
disabilità dopo un incidente che gli ha causato una lesione midollare. Ho avuto l’onore di vederlo giocare insieme alla sua squadra di basket, ho
avuto la possibilità di parlare con lui e di poter scambiare quattro chiacchiere. La sensazione e le emozioni che mi ha lasciato riflettono profondamente la sua
gioia di vivere. Qui in basso vi riporto la sua testimonianza di quanto sia stato importante per lui la realtà del basket in carrozzina.
“Mi chiamo Domenico Latagliata, ho 41 anni, sono consigliere comunale. Collaboro con un’ortopedia per facilitare la consegna di ausili per disabili, do il
mio contributo di vita vissuta nelle scuole per quanto riguarda la sicurezza stradale. Faccio sport che è la cosa principale sia a livello nazionale che
internazionale: sono stato giocatore di serie A, nel Dream Team Taranto, con
cui ho vinto diversi titoli come Campione d’Italia, Campione Europeo, Coppa Uefa, Bronzo nella coppa Campioni, poi ho anche giocato nella nazionale di
basket in carrozzina. Ed ora sto creando con altri otto ragazzi disabili una nuova realtà di basket: ci siamo iscritti al campionato di serie B e speriamo di
arrivare a giocare in serie A. Prima del mio incidente stradale facevo dello sport (calcio e snowboard) ma
solo a livello di hobby e non a livello professionistico. Sono una persona molto curiosa e anche questa mia curiosità mi ha spinto ad avvicinarmi alla realtà del
basket in carrozzina. Dopo l’incidente stradale ci sono delle fasi che seguono inevitabilmente. Innanzitutto, una prima fase di crisi acuta, ovvero la persona
che ha subito un incidente non riesce a svolgere alcuna attività, non riesce a muoversi con la carrozzina, quindi si ritrova in un tunnel. Per riuscire ad uscire
da questa fase ci vuole all’incirca da un anno a due anni. Un giorno, uscendo di casa, mi sono diretto verso un centro commerciale di
Taranto. Qui ho incontrato tre ragazzi (un australiano, un belga e un italiano).
Questi ragazzi facevano sport e frequentavano la realtà del Taranto Basket 1993. Mi hanno chiesto di conoscere e frequentare la loro realtà di basket. Io
da parte mia, ero molto titubante, anche perché non ero capace di spingere la mia carrozzina; ma per curiosità andai in palestra e li vidi giocare: si
muovevano come delle stelle! Vedendoli giocare, pensavo che non sarei mai diventato un giocatore di basket bravo come loro. Alla fine, però, mi sono
seduto sulla carrozzina da basket e pian piano mi sono avvicinato a questa realtà. Quello che sono oggi, come sportivo ma anche come uomo, lo devo al
Dream Team, perché lo sport aiuta il disabile ad uscire fuori dal tunnel e a
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renderti autonomo, ti aiuta a socializzare con altre persone che vivono la tua
stessa disabilità e la tua stessa causa. Per questo sarò sempre molto grato al presidente, Vito Mastroleo, e all’allenatore, Egidio Lincesso, e a tutte le
persone e ai tutti i ragazzi che mi sono stati vicino, che mi hanno aiutato a
diventare un grande giocatore, uno dei più bravi in Italia”. Il basket in carrozzina, inoltre, non è soltanto un mezzo attraverso cui
recuperare la propria autonomia e funzionalità ma anche occasione per ampliare i propri orizzonti culturali; i vari campionati, infatti, sono frequentati
da atleti stranieri che portano con se il loro carico di esperienze, consentendo ad atleti e dirigenti italiani di confrontarsi con sistemi differenti nel modo in cui
vengono affrontate le disabilità. Forse, per esprimere compiutamente cosa è il basket in carrozzina si dovrebbero richiamare alcune righe degli articoli che
celebravano la vittoria dello scudetto, nel 2008, della Dream Team Taranto. “Gli occhi sono puntati su questi eroi moderni, su questi trapezisti senza rete,
come li ho definiti in passato, che con le loro carrozzine disegnano sul parquet uno splendido ritratto. E’ il ritratto della speranza e man mano che passano i
minuti è possibile rendersi conto di cosa è accaduto. Ognuno di loro, per motivi diversi, ha avuto un momento nella vita in cui la Speranza è divenuta
decisiva; è divenuta un motore che ha consentito alla vita di rimettersi in
movimento abbattendo ogni ostacolo. Ci ripensi per un attimo e capisci perché tu alla fine del primo quarto pensavi alla sconfitta inesorabile e Loro, di
qualunque squadra io abbia visto, non smettono di lottare fino alla sirena che segna la fine. Arriva quella sirena, come le campane di una chiesa che
annunciano la liberazione, e ci ritroviamo a spellarci le mani per gli applausi”. E poi il taglio della retina del canestro, simbolo della vittoria nel basket, che
diventa emblema e metafora della vita per quanti in essa incontrano ostacoli. “Ness alza la coppa! Brilla come il manto di stelle che illumina le più belle notti
di Roma. Stanotte, però, le stelle hanno abbandonato il cielo per stare tra noi sulla terra, per continuare a regalarci sogni, per continuare a nutrirci di
emozioni. Le ultime due fotografie della serata mostrano il vero volto di questi ragazzi. Il taglio del codino del magazziniere, frutto di una scommessa fatta
con la squadra. Brad Ness, con una gamba sola, che si arrampica al cielo per raggiungere il tabellone; il taglio della reticella del canestro ha qualcosa di
emblematico e sembra dire; "Possiamo arrivare dove vogliamo, basta volerlo!".
Domenico e tanti altri ragazzi che vivono la disabilità a causa di una malattia o un incidente trovano la voglia di farcela e di superare le difficoltà attraverso lo
sport. E’ impressionante vedere il loro impegno e la voglia di superare i limiti, la loro tenacia di vincere ogni partita, ma anche la capacità di accettare le
sconfitte senza perdere il sorriso. Questa è la bellezza dello sport.
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Articolo n. 5: “Sócrates e la Democrazia Corinthiana”,
Solange Cavalcante Dal libro “Compagni di stadio” – Fandango - 2014 “Stiamo solo mettendo in pratica quello che consideriamo ideale per la società,
prendendo le nostre decisioni con il voto”. Nelle parole del suo protagonista Sócrates de Souza Vieira de Oliveira c’è tutta l’essenza della Democrazia
corinthiana, un’esperienza unica di gestione comune di una squadra tra giocatori, dirigenti e staff. Avvenuta tra il 1982 e il 1985, la Democracia
divenne presto anche un fenomeno politico nazionale, quando ancora in Brasile
vigeva il regime militare. La storia raccontata da Solange Cavalcante ha tutti gli ingredienti per affascinare un pubblico che va ben oltre quello degli amanti
del calcio. La vicenda sportiva si incrocia efficacemente con la lotta per la democrazia di un paese in cui la passione calcistica incontra quella politica e
quella civile. Il volume alterna con un buon ritmo pagine di storia calcistica, politica e sociale, che risultano così facilmente accessibili a un pubblico di non
addetti ai lavori. Come in tutte le storie di successo non mancano gli eroi, di cui si raccontano la forza e le contraddizioni, le imprese epiche e i fallimenti.
Ma non per questo il racconto di Cavalcante può essere ridotto alla narrazione di una leggenda o a un’apologia militante e acritica di un’esperienza
trasformata in mito da migliaia di tifosi e non solo. Al centro del volume è la storia della Democrazia corinthiana, che nasce a San Paolo in una delle realtà
calcistiche che gode di maggior seguito in Brasile – il Corinthians appunto – e che da sempre incarna l’entusiasmo e la sofferenza con cui il futebol è vissuto
in questo paese. Qui, all’inizio degli anni ottanta incrociano i loro destini alcuni
personaggi atipici per il mondo del calcio. Tra questi Wladimir, terzino, sindacalista e di colore; Adílson Monteiro Alves, direttore sportivo con nessuna
esperienza di calcio, sociologo e oppositore del regime; Walter Casagrande, giovane talento entusiasta e ribelle; ma soprattutto il doutor Sócrates, medico,
attivista e poeta dotato di qualità tecniche fuori dal comune. Attorno a lui prenderà forma un nuovo modello di gestione della società, in cui tutto, dagli
ingaggi alla formazione, viene discusso e votato in un consesso paritario. La Democracia difendeva i diritti dei giocatori, si batteva per la riduzione dei
differenziali salariali, promuoveva un modello di calcio non paternalista e non autoritario, centrato sul gioco come forma espressiva secondo il motto “libertà
con responsabilità”. Ma l’esperimento di Sócrates e compagni fu molto di più. Nonostante le critiche ricevute dalla stampa di regime e talvolta dagli stessi
tifosi, che mettevano al centro non solo le posizioni politiche, ma le abitudini non proprio professionali dei calciatori, la Democrazia corinthiana si affermò a
suon di discorsi, gol e titoli nazionali, per diventare un fenomeno politico di
rilevanza assoluta. I giocatori cominciarono a sfidare il regime inneggiando al voto e alla democrazia, e sfruttando la loro visibilità mediatica fecero dello
stadio la loro tribuna politica. La storia della Democracia è innanzitutto la storia di una lotta per i diritti dei lavoratori, che non è facile comprendere avendo in
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mente gli ingaggi miliardari dei calciatori di oggi. La storia del calcio brasiliano,
tuttavia, ci riporta a uno scenario ben diverso. Nonostante il futebol fosse considerato una religione civile già da inizio secolo, le condizioni dei giocatori,
spesso anche dei più importanti, non rispecchiavano la loro notorietà. Molto
spesso i salari non erano neppure sufficienti a coprire le spese di vitto e alloggio, e la sopravvivenza dei giocatori dipendeva
dai bichos, i premi partita. Per questo nessuno poteva sottrarsi a ritmi elevatissimi che gravavano duramente sul fisico e, conseguentemente, sulla
durata delle carriere dei giocatori. Questo meccanismo salariale alimentava il potere delle società, rafforzato anche dal vincolo di proprietà che escludeva i
giocatori da qualsiasi decisione in merito alle loro cessioni e trasferimenti. In un simile scenario dirigenti e funzionari dei club, i cosiddetti cartolas (cappelli a
cilindro), disponevano dei giocatori a loro piacimento, spesso utilizzandoli per i propri scopi politici e alimentando quel paternalismo che proprio dalla
Democrazia corinthiana sarà superato. Celebre è il caso di Mané Garrincha, eroe del Brasile, campione del mondo, ingaggiato per pochi mesi proprio dal
Corinthians nella fase calante della sua carriera per sostenere la campagna elettorale di uno dei suo dirigenti, che trascorse gran parte del suo tempo in
comizi elettorale piuttosto che sul campo.
Garrincha fu ceduto poco dopo le elezioni, quando una relazione extraconiugale con una cantante (per di più di colore e con simpatie di sinistra) lo rese
inadatto a essere un simbolo, e finirà i suoi giorni all’estero, dove si rifugerà per sfuggire alle rappresaglie del regime militare. Nel Corinthians di Sócrates i
rapporti tra capitale e lavoro sono al centro di una discussione dalla forte carica politica e ideologica, se è vero che in un’intervista lo stesso capitano affermò
che “ciò che serve al calcio del Corinthians – e non solo del Corinthians né unicamente al calcio – è accorciare le distanze tra padrone e impiegato”.Ma la
storia della Democrazia corinthiana è soprattutto la storia di una battaglia contro un regime, forse meno noto di altri regimi sanguinari in Sudamerica, ma
non per questo meno crudele,che dal 1964 alla fine degli anni ottanta governò il paese. Iniziata forse con scarsa consapevolezza (interessanti in proposito le
pagine in cui si narrano le incomprensioni con il sindacato del futuro presidente Lula), l’attività politica dei Corinthians crebbe insieme a quell’esperienza di
autogestione. La democrazia interna divenne manifesto politico, stampata
come uno stemma sulle divise dei giocatori, e la politica si intrecciò con lo sport a tal punto che nella finale del campionato la squadra entrò in campo con
uno striscione che recitava “vincere o perdere, ma sempre con democrazia”. La squadra vinse, e quelle immagini fecero il giro del mondo. Il calcio, fino a quel
momento strumento delle classi agiate tanto da far scomodare in più occasioni la nota definizione di “oppio dei popoli”, divenne terreno di lotta e affermazione
dei diritti, attraverso il pugno alzato con cui Sócrates esultava a ogni gol. Ma la battaglia contro il regime toccò il suo apice nella campagna per il sostegno
all’emendamento che mirava a reintrodurre l’elezione diretta del premier. In quell’occasione è celebre il passaggio in cui Sócrates, il cui trasferimento in
Italia era da tempo nell’aria, giura a una folla di duecentomila persone che non avrebbe lasciato il paese in caso di vittoria. L’emendamento non passò.
Sócrates si trasferì in Italia per una breve e sfortunata avventura alla
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Fiorentina, in un calcio italiano che mal si adattava a chi salutò il trasferimento
con entusiasmo per l’opportunità che gli avrebbe offerto di poter leggere Gramsci in lingua originale. I protagonisti della Democracia furono a poco a
poco ceduti e tutto tornò alla normalità. Di li a pochi mesi anche l’ultimo dei
generali al potere si dimise e una nuova fase si aprì per il paese. Cosa resta, dunque, dell’esperienza della Democrazia corinthiana? Nella narrazione lucida
delle sue molte contraddizioni e del suo epilogo, e nella saudade che affiora inevitabile, l’autrice non manca di cogliere la natura effimera di una stagione di
cui (a detta degli stessi protagonisti di allora) sembra non rimanere traccia, e la cui reale portata rivoluzionaria rimane un nodo da sciogliere. Ma è
innegabile, questa la posizione dell’autrice, che la Democrazia corinthiana sia stata un sogno e una speranza per molti in un momento difficile della storia
politica e sociale del Brasile e non solo, e come tale ci viene raccontata. Non a caso il racconto si chiude proprio con un sogno del suo protagonista in punto di
morte. Il sogno, recitano le ultime parole del libro, “di una partita estenuante ma felice. Una partita che non finiva mai”. Una partita politica e culturale
giocata con la forza e la leggerezza con cui si calcia un pallone.
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Articolo n. 6: “Teófilo Stevenson: la revolución sul ring”,
Lucio Iaccarino
dal sito www.storiedisport.it
La vita di ogni uomo, così come quella di ogni atleta, è inevitabilmente legata dai tanti se che ne tracciano e ne segnano il percorso ad ogni bivio che si incrocia: il futuro può cambiare in un battito di ciglia, in un singolo istante.
Nel pugilato il primato, o comunque il caso più eclatante di come il fato abbia influito sulla carriera di un campione, spetta senza alcun dubbio a Teófilo
Stevenson. Il pugile cubano, nato a Puerto Padre il 29 marzo 1952, è stato
senz’altro condizionato da molteplici fattori che hanno cambiato il corso della sua epopea sportiva in maniera tanto netta quanto involontaria.
Partiamo dall’inizio: Stevenson nasce e cresce nella provincia di Las Tunas. Un posto da sogno, specie d’estate, preferibile per i turisti soprattutto per una
sosta nei fine settimana grazie a spiagge e clima deliziosi e accoglienti. Teófilo mette subito a frutto il suo temperamento. Cresce sulla strada e impara i mille
trucchi da sfruttare in quello che vorrebbe essere un giorno il suo mestiere: il pugile.
Un talento precoce
Il suo ingresso nei dilettanti è devastante: per gli avversari! Comincia subito a
far parlare di sé; movenze fulminee, ganci e montanti azionati come martelli, le agili e scattanti gambe sembrano leve meccaniche e fanno subito drizzare i
capelli agli appassionati. Forte, duro con quella faccia da cattivo ragazzo, sinuoso come una pantera nonostante sia un peso massimo. Insomma, un
atleta completo e una forza della natura. In molti annusano, quasi percepiscono, una carriera di rilievo. Nel 1972 rappresenta Cuba ai Giochi
Olimpici di Monaco e lo fa nella maniera migliore: medaglia d’oro. Una vittoria in scioltezza, bella e meritata. Diventa subito un idolo per la sua nazione, ma
ecco che il destino bussa per la prima volta nella sua carriera col conseguente primo se che Stevenson si porterà poi dietro. Perché non passare subito al
professionismo? Sarebbero soldi e pubblicità a palate, ma la prima amara risposta è nel suo passaporto, che recita: Cuba! Già, la legge cubana purtroppo
non prevede lo sport professionistico e bisogna farsene una ragione. Teófilo resta quindi nei dilettanti e nella successiva Olimpiade, quella del 1976 a
Montréal, vince ancora l’oro. A Cuba ormai è venerato come i più grandi. La
versatilità dei colpi, precisi e potenti nello stesso tempo, e l’estrema eleganza, sospinta dalla sobria e possente presenza sul ring, sono le sue caratteristiche
migliori. A volte pare un clown gigante e disincantato, abile nello stravolgere un incontro nel giro di un secondo. Col secondo trionfo olimpico sembra ormai
scontato ingresso nel circuito professionistico. Segnali in merito arrivano infatti al suo ritorno da eroe a Cuba. Piombano sponsor e offerte a getto continuo; gli
americani mettono nel piatto cinque milioni di dollari per organizzare l’incontro
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con Muhammad Ali: un’occasione davvero unica. Stevenson, oltretutto, può
diventare campione al debutto fra i professionisti, avvenimento in precedenza accarezzato solo da Pete Rademacher. Ancora una volta, però, Teófilo rinuncia
all’incontro per la corona e resta dilettante. La cosa ancora più sorprendente è
che stavolta è lui stesso a far sapere che si tratta di una scelta personale e non dovuta a pressioni politiche o strumentalizzazioni. La verità e il reale motivo
del rifiuto danno il via ad un vortice di ipotesi che coinvolgono tutti, tifosi e giornalisti in primis. Alcune supposizioni sono addirittura stravaganti, altri
parlano di vere e proprie minacce, ma l’ipotesi che preferiamo è quella romantica e che si riassume nelle sue stesse parole: «Cosa valgono cinque
milioni di dollari, quando ho l’amore di cinque milioni di cubani?». L’orgoglio che vince sul denaro! Si tratta di un’affermazione che lascerà una traccia, o
meglio un solco, sulla sua carriera sportiva ma che fa riemergere con altrettanto impeto ancora qualcuno di quei se. Se Teófilo Stevenson non fosse
stato cubano sarebbe diventato professionista? E, se si, sarebbe diventato campione del mondo dei massimi? Il suo orgoglio, il suo attaccamento
viscerale alla patria hanno influito nella sua carriera? Lasciando perdere le cause e i perché, non combattere contro Ali è stato un freno che il suo
immenso talento non meritava, un dazio troppo oneroso da pagare alla sua
classe. Certo, ci poteva benissimo stare una sconfitta, ma provarci era più che lecito. La scena e il contesto erano davvero entusiasmanti e gli stimoli
abbondavano: oltre ad Alì basta ricordare Larry Holmes, Ken Norton, Joe Frazier e George Foreman. In questo succulento minestrone di super-campioni,
Stevenson avrebbe certamente portato scompiglio e detto la sua. Il pugile cubano, comunque, conquista la terza medaglia d’oro consecutiva
all’Olimpiade di Mosca, nel 1980, un alloro che lo consacra come il miglior pugile di tutti i tempi della boxe dilettantistica. Infatti, solo lui e László Papp (e,
nel 2000, Félix Savón) hanno vinto l’oro olimpico in tre edizioni diverse. E pensare che i sigilli di Teófilo potevano essere quattro, visto che era dato in
gran forma anche per i Giochi del 1984 a Los Angeles. Ma, ancora una volta, il destino beffardo, gli eventi, la fatalità colpiscono il nostro eroe. L’Unione
Sovietica, infatti, decide di non partecipare all’Olimpiade per rappresaglia contro il boicottaggio statunitense di quattro anni prima e Cuba si accoda alla
decisione di Mosca. Stevenson, suo malgrado, deve rinunciare al sogno del
quarto oro.
Il ritiro
Così, nel 1986 decide che è giunta l’ora di ritirarsi. Del resto, ha vinto tutto il possibile: il suo palmarès riporta infatti molti altri successi significativi, tutti – o quasi – all’insegna del tre, un numero costante nel suo prestigioso curriculum.
Insieme ai tre allori olimpici, Stevenson si aggiudica infatti per tre volte anche i campionati mondiali: nel 1974, all’Avana, nel 1978, a Belgrado, e nel 1986, a
Reno, dove s’impone nella categoria superiore, quella dei supermassimi (oltre i 91 kg). Spesso i numeri da soli non riescono a spiegare la grandezza di uno
sportivo e quello che rimane ben inciso nella mente di tutti sono immagini,
gesti e persino parole. Ecco perché Stevenson – che è morto nel 2012 a soli 60
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anni – fu un pugile di assoluto livello, un maestro e un punto di riferimento. Ma
è anche vero che sui binari paralleli della sua parabola pesano i tanti se che si sono accaniti nel suo cammino. Poteva davvero essere uno dei migliori boxeur
di sempre? Nominato allenatore del programma cubano di pugilato
dilettantistico, Teófilo Stevenson nel 1999 si cacciò nei guai all’Aeroporto Internazionale di Miami. Prima di imbarcarsi su un volo charter, che doveva
riportare in patria la nazionale cubana di pugilato, si trovò coinvolto da protagonista in una rissa che lo vide prendere a pugni un impiegato della
compagnia e spaccargli i denti. Denunciato e arrestato, fu comunque rilasciato e rispedito a casa dopo poche ore. Nostalgia dei vecchi tempi o rabbia
accumulata nel tempo e mai sopita? Sta di fatto che, nel momento dei ricordi di gioventù e pur ammettendo di essere contento del suo passato, qualche
tempo fa alcuni giornalisti attaccarono il carillon della malinconia e gli chiesero: «Teófilo, chi ti manca?». Ancora una volta la risposta del grande Stevenson
stupì tutti. «Mi manco io», rispose.
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Articolo n.7: “Baseball VS. Calcio : un limes sportivo divide
le Americhe”, Mauro Fresca
Dalla rivista italina di geopolitica Limes n.4/03 – “Panamerica Latina”
Due aree di egemonia sportiva che coinvolgono cultura, politica e diplomazia, fino a
sfociare in conflitti sanguinosi. I pivot latini: Cuba e Brasile. All’origine della
partizione, le opposte influenze americana e britannica in America Latina.
La guerra del calcio, con 5 mila morti, fu combattuta tra Honduras ed El Salvador per 100 ore del luglio 1969. Causa: gli scontri tra tifosi che avevano
accompagnato le semifinali del torneo di qualificazione per i mondiali di Messico 1970. Di una «diplomazia del baseball», ispirata a quella «del ping
pong» di Nixon, si parlò per i due incontri tra nazionale cubana e Baltimore Orioles del 28 marzo e del 3 maggio 1999: risultato più spettacolare delle
misure di alleggerimento dell’embargo annunciate dall’amministrazione Clinton il 5 gennaio di quell’anno. Anche dopo la crisi del riavvicinamento fra
Washington e l’Avana, in seguito al «caso Elián», di «diplomazia del baseball»
si è continuato a parlare per l’incontro Cuba-Venezuela del 18 novembre 2001, con due squadre di vecchie glorie guidate dai rispettivi presidenti: Fidel Castro
in panchina come allenatore; Hugo Chávez in campo come lanciatore. Un asse anti-yankee cementato dal
più yankee dei giochi! E ci fu pure una mini-guerra del baseball, quando nel 1942 il dittatore dominicano Rafael Trujillo ruppe le relazioni diplomatiche con
Washington in seguito alla colossale rissa accesasi in campo e sugli spalti durante un incontro tra nazionali.
Il calcio e il baseball, dunque, sono al centro dell’immaginario collettivo latino-americano, fino a determinarne la diplomazia e la politica. L’America Latina
domina infatti in due fra gli sport di squadra più seguiti al mondo. Su 15 Coppe del Mondo di calcio, ben 8 sono state vinte da squadre latino-americane: 4
primi posti, 2 secondi, 2 terzi e un quarto del Brasile; 2 primi e 2 secondi posti dell’Argentina; 2 secondi e 2 quarti dell’Uruguay; un terzo posto del Cile. Non
esiste nel baseball un esatto equivalente della Coppa del Mondo di calcio, dal
momento che i professionisti statunitensi e canadesi gareggiano solo nelle loro World Series. I dilettanti statunitensi e canadesi partecipano però a
competizioni come la Coppa del Mondo, la Coppa Intercontinentale e il torneo olimpico. E qui il Brasile del baseball è Cuba:
23 vittorie, un secondo posto e 2 terzi posti su 34 edizioni della Coppa del Mondo; 9 vittorie e 3 secondi posti in 15 Coppe Intercontinentali; 2 ori e un
argento sulle tre Olimpiadi in cui il baseball è stato sport ufficiale. Il carniere degli Stati Uniti si ferma a 2 Coppe del Mondo, 2 Coppe Intercontinentali, un
oro e un bronzo olimpico. E i principali avversari dello strapotere cubano in Coppa del Mondo si trovano a loro volta in America Latina: 3 Coppe, 2 secondi
posti e 4 terzi posti per il Venezuela; 2 Coppe, 2 secondi posti e un terzo posto
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per la Colombia; una Coppa, 3 secondi posti e 3 terzi posti per la Repubblica
Dominicana; una Coppa, 3 secondi posti e 5 terzi posti per Portorico; 6 secondi posti e 3 terzi posti per il Nicaragua; 4 secondi posti e 2 terzi posti per il
Messico; un terzo posto per Panamá. Inoltre, nella Coppa Intercontinentale
bisogna ricordare 3 terzi posti del Nicaragua, un terzo posto della Repubblica Dominicana e un terzo posto di Portorico; alle Olimpiadi un quarto posto del
Nicaragua, un quinto di Portorico e un sesto della Repubblica Dominicana. Campionati professionistici erano giocati a Cuba prima del 1960 e sono oggi
giocati in Messico, Repubblica Dominicana, Venezuela, Portorico, Colombia e Panamá. La più seguita competizione al mondo dopo le World Series
nordamericane è la Serie del Caribe, che si disputò dal 1949 al 1960 tra i vincitori dei campionati professionistici di Cuba, Portorico, Venezuela e
Panamá. Vittorie: Cuba 7; Portorico 4; Panamá 1. Sospesa per l’abolizione castrista del professionismo, la Serie del Caribe fu ripresa nel 1971 tra
Portorico, Venezuela, Repubblica Dominicana e Messico. Vittorie: Repubblica Dominicana 13; Portorico 10; Venezuela 5; Messico 4. È in corso una trattativa
per un campionato a 8 allargato a Cuba, Panamá, Colombia e Nicaragua, ma nell’attesa quella del 2003 è stata una Serie a 3, in seguito alla defezione del
Venezuela per il lungo sciopero anti-Chávez.
Dunque la geopolitica del calcio latino-americano e quella del baseball non coincidono. Tra i paesi dell’aristocrazia calcistica continentale, l’unico che
fuggevolmente figura in un albo d’oro del baseball è il Brasile, con la vittoria in un campionato giovanile. Dall’altra parte, Venezuela, Nicaragua, Repubblica
Dominicana, Portorico e Panamá non si sono mai qualificate per la fase finale di un mondiale di calcio, mentre Cuba partecipò a Francia 1938, superando anche
un combattuto ottavo di finale con la Romania. Ma solo per essere fatta fuori dalla Svezia nei quarti con un umiliante 8-0.
La Coppa America, campionato sudamericano per nazionali, è stata vinta 14 volte da Argentina e Uruguay, 6 dal Brasile, 2 da Perú e Paraguay, una da
Bolivia e Colombia. La Coppa Libertadores, campionato sudamericano per club, è andata 20 volte in Argentina, 11 in Brasile, 8 in Uruguay, 2 in Paraguay, una
in Cile e una in Colombia. Per l’America centrale e caraibica un riscontro è nelle qualificazioni per la fase finale di Coppa del Mondo: Messico 12, di cui 2 come
paese organizzatore;
El Salvador e Costa Rica 2; Honduras, Haiti e Giamaica 1. Al secondo turno sono arrivati 5 volte il Messico e una il Costa Rica, e una volta il Messico è
passato pure al terzo. La Coppa dell’America centrale è stata vinta 3 volte dal Costa Rica, 2 dall’Honduras e una dal Guatemala; quella dell’America caraibica
8 volte da Trinidad e Tobago, 2 dalla Giamaica e una dalla Martinica. Solo due paesi appaiono in entrambi gli elenchi: Messico e Colombia.
Ma anche la geopolitica interna a Messico e Colombia ci insegna qualcosa. Delle 5 regioni geografiche della Colombia, Amazzonia, Llanos e Costa Pacifica sono
marginali sia dal punto di vista geodemografico che da quello politico-economico. La grande polarizzazione è invece tra Regione Andina e Costa
Atlantica, con sfottimenti reciproci tra cachacos e corronchos piuttosto simili a quelli italiani tra «polentoni» e «terroni». Ebbene, su 56 campionati di calcio
colombiani ben 48 sono stati vinti dalle 6 squadre delle tre grandi città andine,
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Bogotá, Medellín e Cali; altri 3 da club di città minori dell’eje cafetero, la zona
produttrice di caffè, pure sulle Ande; solo 5 dalle squadre di 2 città della Costa Atlantica. Al contrario, su 45 campionati di baseball 32 sono finiti a Cartagena,
unica città atlantica senza scudetti di calcio, e sede della federazione
colombiana di baseball. Le altre 2 città atlantiche hanno vinto 8 campionati, città della Costa Atlantica minori altre 3, e solo due campionati sono finiti a
Medellín. Insomma, il calcio è sport cachaco; il baseball corroncho. Il peso della capitale in Messico è maggiore che in Colombia. Le squadre di Città del
Messico, ben più di due, hanno conquistato 25 dei 63 campionati di calcio e 34 dei 73 campionati di baseball. Ma se togliamo di mezzo il peso abnorme della
megalopoli, scopriamo che l’altopiano centrale adiacente alla capitale ha 10 campionati di baseball contro appena 4 di baseball. E nel Messico centrale,
attorno all’altro grande polo di sviluppo di Guadalajara, il salto è ancora maggiore: da 22 a 4. Vediamo il Nord americanizzante, roccaforte del Partito di
azione nazionale di Vicente Fox: 3 campionati di calcio; 15 di baseball. L’Istmo di Tehuantepec, già culla di mixtechi e zapotechi: 3 campionati di calcio; 13 di
baseball. Il Sud maya: nessun campionato di calcio; 3 di baseball. Se poi scorporiamo da queste macroregioni gli Stati affacciati sul Mar dei Caraibi,
scopriamo che hanno vinto solo 3 campionati di calcio, ma 20 di baseball. La
presenza «anfibia» di Messico e Colombia nell’area del calcio e in quella del baseball, insomma, non è che il risultato della loro più generale posizione di
cerniera geopolitica tra le varie aree del Continente. In Colombia la differenza è anche etnica, tra i cachacos in prevalenza meticci delle Ande e i corronchos
in prevalenza mulatti della Costa Atlantica. Ma in Messico la pur evidente contrapposizione geopolitica tra Caraibi e montagna non ha sottofondi razziali
così forti; in Brasile i neri locali hanno un ruolo di punta nel calcio più famoso del mondo; e nelle ex colonie inglesi a popolazione nera dei Caraibi lo sport più
popolare non è né il calcio né il baseball ma il cricket. Come nelle lontane ex colonie britanniche del subcontinente indiano.
Insomma, non c’è una predisposizione etnica per lo sport di quelle che teorizzava Gianni Brera. Piuttosto, dato razziale e pratica agonistica sono
conseguenze diverse di uno stesso fattore geopolitico. L’America caraibica, porta d’ingresso delle influenze esterne in America Latina, fu subito dopo la
scoperta la prima roccaforte spagnola. Poi la conquista di Centro e Sud
America portò Madrid a sguarnire questa ex avanguardia divenuta retrovia, e l’area fu invasa da una seconda ondata di potenze coloniali, tra le quali
prevalse l’Inghilterra. Dalle basi caraibiche Londra iniziò a sua volta la conquista economica dell’area: annunciata nel Settecento con le clausole
commerciali del Trattato di Utrecht; culminata nell’Ottocento con l’appoggio alle guerre d’indipendenza dalla Spagna; liquidata nel Novecento per finanziare
le due guerre mondiali. A profittare di questa «svendita» saranno gli Stati Uniti, che però avevano iniziato a loro volta una propria penetrazione
economico-politica a partire dal 1890. E il mezzo secolo successivo è quello del confronto tra un’America a influenza Usa già affermatasi intorno ai soliti Caraibi
e un’America ancora britannica che resiste in Sudamerica. Ma è proprio in questo mezzo secolo che nel mondo il tifo per gli sport di
squadra si fa fenomeno di massa. Nelle colonie britanniche non di popolamento
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burocrati e funzionari praticano il cricket, di cui si appropriano poi i locali in
segno di emancipazione. In Oceania le missioni protestanti britanniche cercano invece di introdurre i valori «occidentali» e «cristiani» attraverso il rugby.
Calcio e baseball si diffondono dove arrivano i tecnici, gli operai e soprattutto i
marinai o i marines: marinai inglesi nel caso del calcio, da Buenos Aires e Montevideo fino a Genova; marines statunitensi nel caso del baseball,
dall’Avana e Santo Domingo fino a Nettuno. Ma non solo. Anche se c’è un’approssimativa corrispondenza tra tifo per il baseball e aree che sono state
sottoposte a occupazioni militari statunitensi, un esame attento delle fonti ci dimostra come spesso il baseball si fosse diffuso già prima. A Cuba, ad
esempio, il 1° ottobre 1868 il governatore spagnolo Francisco de Lersundi vieta per decreto il baseball, «un gioco antispagnolo e di tendenza sovversiva,
contrario all’idioma e che propizia il disamore per la Spagna». Trent’anni prima della guerra con cui gli Usa avrebbero espulso la Spagna da Cuba e Portorico!
Nella stessa Portorico, in Repubblica Dominicana e forse anche in Messico lo sport fu portato da marinai cubani ancora all’epoca in cui Cuba era colonia
spagnola. La differenza geopolitica tra America Latina del calcio e America Latina del baseball, dunque, è una testimonianza del periodo di passaggio tra
egemonia economica inglese ed egemonia economica Usa. Analogamente, la
massiccia presenza nei Caraibi di enclavi anglofone, francofone e perfino nerlandofone ci ricorda il momento del passaggio tra egemonia politica
spagnola ed egemonia politica inglese. Così come la popolazione africana sovrapposta alla popolazione amerindia
originaria dei Caraibi, estintasi con la primissima colonizzazione, ci testimonia l’iniziale arrivo dell’Occidente. Così come, infine, il fossile comunista di Cuba
testimonia del fallito tentativo del blocco sovietico di estendere la propria influenza nell’emisfero occidentale durante la guerra fredda. Ciò che
dall’Europa alle Americhe deve arrivare, per i Caraibi deve passare.
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Articolo n.8: “Un calcio alla tristezza”, Roberto Nocella Dalla rivista italiana di geopolitica Limes n.2/05 – “La palla non è rotonda”
Gli inglesi hanno avuto un’influenza considerevole sul Brasile, come ricorda il
sociologo Gilberto Freyre: il primo giornale brasiliano, il Correio Braziliense, venne pubblicato a Londra nel 1808 da Hipólito José da Costa; ancor prima a
Bahia venne rinvenuta una traduzione del libro Robinson Crusoe di Daniel Defoe che ha deliziato e fatto fantasticare generazioni di brasiliani; fu inoltre
l’ingegnere D.W. Bowman a far costruire a Pernambuco una delle prime estradas de ferro, inaugurata nel 1866 1. A tali esempi è possibile aggiungerne
un altro: il calcio, che oltreoceano ha assunto caratteristiche del tutto peculiari che richiamano più di un tratto distintivo della nazione brasiliana.
A ritmo di samba e capoeira
Secondo Pier Paolo Pasolini ci sono «due tipi di calcio: la prosa e la poesia». Le squadre europee sono prosa; quelle latino-americane sono poesia. «I
brasiliani giocano a calcio come se fosse una danza. Probabilmente risentono dell’influenza di quei brasiliani che hanno sangue africano o che sono
prevalentemente africani per tradizione: tendono così a riportare tutto alla danza, che si tratti di gioco o di lavoro», scrive ancora Freyre, che riporta nel
suo libro New World in the Tropics anche una testimonianza dello scrittore ed attivista politico Waldo Frank, secondo il quale le squadre brasiliane usavano
avanzare sul campo da gioco «disegnando la linea melodica di una samba». I commentatori della televisione utilizzano l’espressione fazer um carnaval (fare
un carnevale), quando una squadra lascia gli avversari disorientati in ragione della rapida successione di mirabolanti giocate singole o collettive. Il Brasile è
l’unico paese ad avere partecipato a tutte le coppe del Mondo organizzate dal 1930 in poi. Oltre a ciò, l’ambasciata brasiliana a Londra ricorda sulla pagina
del suo sito Internet dedicata allo sport che Edison Arantes do Nascimento, in
arte Pelé, è stato l’unico giocatore ad avere vinto la coppa del Mondo 3 volte, segnatamente nel 1958, nel 1962 (anche se in questa occasione non poté
disputare la finale) e nel 1970; Jairzinho è stato l’unico calciatore ad avere sempre segnato nel corso di un torneo mondiale (precisamente quello del
1970); in quattro occasioni, inoltre, un brasiliano ha vinto la classifica cannonieri nella competizione più prestigiosa (nel 1938 Leônidas da Silva,
l’uomo «di gomma» ribattezzato dalla stampa francese il «Diamante nero», con 8 reti; nel 1950 Ademir con 7; nel 1962 Garrincha e Vavá con 4 ciascuno;
nel 2002 Ronaldo con 8). Un altro intellettuale brasiliano, João Camilo de Oliveira Tôrres, spiega la magia del calcio brasiliano riconducendola alla
capoeira, un’arte marziale praticata dagli schiavi di origine africana, oggi estremamente nota perché trasformata in danza spettacolare contraddistinta
da forza, velocità, equilibrio e ritmo così come per l’assenza di contatto tra i partecipanti 5. Il calcio è infatti definito come un «gioco
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praticato con tutto il corpo, a passo di danza e, in una certa misura, di
capoeira, tenuto conto del fatto che risulta più importante vincere un avversario con finte ariose che (compiere) un tiro dalla lunga distanza, preciso
e al quale è stata impressa la violenza necessaria. Già esisteva nel calcio
britannico la tradizione del dribbling, ma il brasiliano riuscì a conferire enfasi maggiore proprio sulla base delle grandi abilità della capoeira. La funzione
della finta (preferiamo questa ultima parola, non tanto per purismo quanto piuttosto per il fatto che essa esprime bene l’idea brasiliana di dribbling) non
comporta semplicemente il superamento dell’avversario senza toccarlo ma una vittoria in destrezza ed abilità, alla maniera di un lottatore di capoeira
attraverso gli ondeggiamenti del corpo». Le predette citazioni danno la misura dell’entusiasmo che circonda questo sport, che appassiona milioni di brasiliani
a prescindere dalla loro estrazione o posizione sociale. Ne è testimonianza un intervento sulle pagine della rivista Foreign Affairs del presidente José Sarney,
il quale nel 1986 richiamava alcuni detti popolari secondo cui «il futuro appartiene al Brasile», «Dio è brasiliano» e «nessuno può mantenere indietro il
Brasile» quasi come se il paese fosse crisis-free, ossia libero da crisi. Si trattava di una convinzione che venne meno a suo giudizio nel corso degli anni
Settanta a causa della prima crisi petrolifera e della fine del miracolo
economico brasiliano. Del resto, se Dio fosse stato brasiliano allora doveva essere andato in vacanza – aggiunse – quando la nazionale venne eliminata
dai mondiali dall’Italia nel 1982. Gli esempi del clamore suscitato dal calcio negli ambienti politici brasiliani sono numerosi: nel novembre del 2004 «Lula»
da Silva ha omaggiato il presidente Putin in visita in Brasile con un dvd sulle prodezze di Pelé, affermando che non aveva importanza il fatto che il suo
ospite non conoscesse il portoghese dal momento che «a arte do Pelé não fala, ela age» (l’arte di Pelé non parla, agisce). Quest’entusiasmo, a cui fa da
contraltare la profonda amarezza che contrassegna le sconfitte, potrebbe però risultare fuorviante se non si esamina la storia del calcio brasiliano,
esemplificativa di contraddizioni che tuttora attanagliano il paese. È il caso dunque di ripercorrerne le fasi salienti, richiamando alla memoria eroi, miti e
disfatte di un’intera nazione.
La razza in campo
I primi palloni iniziarono a rotolare, ad essere inseguiti e calciati in Brasile nel
corso della seconda metà del XIX secolo nei porti e nelle spiagge dove sostavano marinai inglesi o lungo il tracciato delle ferrovie dove operavano
impiegati della São Paulo Railway. Tuttavia, per convenzione si fa risalire l’introduzione di questo sport nei territori colonizzati dai portoghesi a Charles
Miller, ex ala sinistra del St. Mary’s (attuale Southamptom), che dopo gli studi compiuti in Inghilterra era tornato nella natia São Paulo nell’ottobre del 1894
portando con sé due palloni di cuoio. Dopo la traversata e lo sbarco a terra si dice che il padre, nel salutare il giovane, chiese cosa fossero quegli oggetti.
Charles rispose con una battuta oramai entrata nella storia: «La mia laurea». L’apostolo del nuovo sport a Rio de Janeiro fu invece Oscar Cox che aveva
studiato a Losanna. La prima partita di una certa risonanza a quanto pare
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avvenne l’anno seguente nel 1895 tra funzionari inglesi della Compagnia del
gas e connazionali della São Paulo Railway. Il futebol (conosciuto sino agli anni Trenta anche come bolapé o pébol) era originariamente praticato
dall’aristocrazia bianca e ad esso si convertirono saltuariamente alcune
squadre di cricket. Il primo club fu il Fluminense di Rio de Janeiro, creato nel 1902. Si aggiunsero successivamente il Botafogo Futebol e Regatas, l’América
Futebol Clube e il Flamengo, composto prevalentemente da studenti di medicina. Lo sport per eccellenza rimase però a lungo la regata.
L’elemento comune a molte squadre era costituito dall’esclusivismo, potendo i poveri, i neri e i mulatti praticare per le strade soltanto una versione spuria con
palloni fatti di stracci e pieni di carta. All’epoca infatti erano diffuse in Brasile alcune tesi razziste. Una notizia curiosa serve ad introdurre questo argomento:
il conte Arthur de Gobineau, autore di l’Essai sur l’inégalité des races humaines era stato ambasciatore di Francia a Rio de Janeiro tra il 1869 ed il 1870 9 a
testimonianza dei ripetuti (ed inaspettati) incroci di destini tra uomini e nazioni che avvengono nel corso della storia. In particolare, si credeva nell’idea del
branqueamento, ossia nella possibilità di imbianchimento della popolazione, che poteva essere migliorata attraverso la miscigenação (miscela) tra razze
diverse. João Batista de Lacerda sostenne a Londra nell’ambito del Primo
congresso internazionale delle razze la tesi secondo la quale la popolazione brasiliana sarebbe divenuta completamente bianca nell’arco di cento anni circa.
Al suo ritorno in patria venne criticato per l’eccessivo pessimismo. Alcuni intellettuali identificarono la nazione con un triangolo isoscele tricolore, la cui
base rappresentava i bianchi. I lati restanti, rispettivamente di colore giallo e nero, sarebbero stati progressivamente assorbiti dalla base, che col passare
del tempo si sarebbe allungata preservando tuttavia la sua purezza. Non era dato però sapere come questo processo poteva svilupparsi all’interno di un
rettangolo di gioco. La dimensione elitaria del campionato di Rio de Janeiro venne tuttavia parzialmente meno con la partecipazione del The Bangu Athletic
Club, fondato nel 1904 dalla Companhia Progresso Industrial do Brasil, un’industria tessile situata in periferia. La squadra era praticamente composta
da operai calciatori, che godevano del diritto di allenarsi talvolta anche durante le ore di lavoro. La misura costituiva uno stimolo per accrescere il sentimento
d’appartenenza all’impresa. Lo stesso sistema d’organizzazione del lavoro
venne adottato dalla compagnia inglese América Fabril, nelle cui file militò anche Garrincha. Tuttavia, si trattava di casi isolati e, comunque, non tali da
scardinare un sistema imperniato sul dilettantismo, vera e propria barriera economica per coloro i quali non appartenevano a famiglie benestanti
(bianche). L’ostacolo venne però aggirato dalla comunità di portoghesi, prevalentemente commercianti. I dirigenti del Vasco da Gama iniziarono a
prelevare i migliori talenti nei sobborghi, a prescindere dal colore della loro pelle e a retribuirli in natura a seconda dell’avversario ogniqualvolta vincevano:
l’América, campione nel 1922, valeva un’intera vacca; le squadre più deboli almeno qualche gallina. I portoghesi, per dimostrare l’esistenza di fonti
alternative di reddito, assumevano i giocatori nei propri negozi. La squadra partecipò al campionato di prima divisione di Rio de Janeiro nel 1923 e
incredibilmente lo vinse, attirandosi ovviamente gli strali delle altre squadre
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concorrenti. Gli avversari decisero di organizzare una lega a parte (l’Associação
metropolitana de esportes atléticos, o più semplicemente Amea, stabilendo al contempo delle condizioni discriminatorie per rendere l’accesso alla
competizione con i club bianchi impossibile: ogni squadra doveva essere
proprietaria di uno stadio e tutti i giocatori dovevano essere in grado di leggere e di scrivere (dopo l’ingresso in campo si prevedeva non solo la firma ma
anche il completamento di un apposito modulo). I portoghesi fecero allora costruire lo stadio più grande del Brasile, il São Januário, nonostante il divieto
di importazione di cemento proveniente dal Belgio nel frattempo imposto dal presidente Washington Luís. L’inaugurazione avvenne nel 1927. Il complesso
aveva una capienza di 50 mila persone, superando di ben 30 mila unità lo stadio del Fluminense (soltanto nel 1941 vide la luce un impianto più grande, il
Pacaembu di São Paulo). Quanto alla questione dell’analfabetismo che avrebbe pregiudicato la partecipazione dei poveri, vennero organizzati dei corsi di
lingua. I cognomi più lunghi e complessi furono comunque tramutati e semplificati in Silva. In sintesi, il calcio non fu che la cassa di risonanza delle
ingiustizie della società brasiliana (è nota l’affermazione del sociologo Florestan Fernandes secondo cui il Brasile ha un solo pregiudizio: quello di non averne).
Emblematico fu il caso del giocatore mulatto Carlos Alberto, che dopo il suo
trasferimento dall’América Futebol Clube al Fluminense, era solito prima delle partite cospargersi il viso di riso per imbianchirsi. Ancor oggi i sostenitori del
Fluminense gettano in aria del borotalco in occasione delle grandi sfide 14. Anche l’acclamato Arthur Friedenreich, un mulatto di origine tedesche che
aveva risolto nel 1919 la finale del cosiddetto Sul-americano con una sua rete contro l’Uruguay, usava stirarsi i capelli prima di entrare in campo.
Si trattava di casi invero singolari che al giorno d’oggi farebbero sorridere ma che all’epoca illustravano il senso di disagio provato da parte della popolazione
brasiliana. Si pensi che secondo alcuni storici, lo stile fantasioso ed istrionico, fatto di finte, veroniche ed improvvise rotazioni del corpo, assimilabili alla
samba o alla capoeira, venne messo in atto dai giocatori di colore, rispondendo all’esigenza di evitare il contatto fisico con i bianchi per paure di rappresaglie e
di pestaggi. una breve digressione finale, utile a correlare la diffusione del calcio in Brasile con l’emigrazione europea oltreoceano, appare a questo punto
appropriata. Anche la comunità italiana a São Paulo ebbe una propria squadra.
L’iniziativa venne intrapresa da quattro emigrati del quartiere Brás. Il 19 agosto 1914 sul giornale Fanfulla comparve il seguente comunicato: «Tutti
coloro i quali desiderino partecipare alla creazione di un club italiano di calcio (futebol) devono presentarsi alle ore 20 al n. 2 della via Maresciallo Deodoro
per la riunione istitutiva della Palestra Itália». L’incontro ebbe effettivamente luogo ma non fu risolutivo dal momento che alcuni italiani avrebbero preferito
dare avvio anche ad altre attività tra cui il balletto e il teatro. Gli estensori del progetto intesero però concentrarsi unicamente sul calcio e a distanza di pochi
giorni si tenne una nuova riunione, questa volta decisiva. L’esordio avvenne il 13 maggio del 1916 contro una formazione dell’epoca molto quotata, il
Mackenzie. Il risultato finale fu di 1 a 1 con goal di Vescovini per la Palestra Itália. La squadra venne ammessa quello stesso anno al campionato
organizzato dalla Associação paulista de esportes atléticos semplicemente
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perché si era liberato un posto reso vacante dal Wanderers, forzata a farsi da
parte per avere remunerato i propri giocatori dopo una vittoria.
Il calcio e la costruzione dell’identità nazionale brasiliana
Il passaggio al professionismo avviene negli anni Trenta alla luce della
campagna di reclutamento dei talenti sudamericani avviata, in particolare, dalle squadre italiane 16. Furono i grandi club di Buenos Aires a promuovere
quella che a tutti gli effetti potrebbe apparire come una rivoluzione onde evitare una vera e propria emorragia di calciatori con cognome italiano. In
Brasile vennero addirittura falsificati numerosi passaporti. Il 1933 è dunque l’anno della costituzione della Lega carioca di futebol e della riconversione
dell’Associazione paulista di sport atletici. Il favore accordato ai giocatori bianchi drenò verso l’Europa le risorse calcistiche aristocratiche del Brasile,
lasciando il palcoscenico nazionale alle migliori stelle nere e mulatte. Nel 1938 la Nazionale, che non era più composta da soli giocatori bianchi, si classificò
terza dopo avere perso in semifinale con l’Italia. Tuttavia, venne ricordata per avere imposto uno stile di gioco del tutto particolare (per l’appunto à la
brésilienne) che venne immortalato dalla penna del sociologo Freyre, divenuto
famoso con la pubblicazione del libro Casa Grande e Senzala nel 1933: a suo avviso, con le prestazioni offerte dalla squadra nazionale il futebol aveva subito
una trasformazione radicale passando da una concezione apollinea, intrisa di razionalità, ad una dionisiaca per bellezza ed ambiguità. Nel corso della
competizione, dopo la vittoria sulla Cecoslovacchia, scrisse sul Diário de Pernambuco: «Il nostro stile di giocare al calcio mi pare che contrasti con
quello degli europei per una serie di ragioni quali la sorpresa, la disinvoltura, l’astuzia, la leggerezza e allo stesso tempo la brillantezza e spontaneità
individuale in cui si esprime lo stesso mulatismo, la migliore affermazione del quale nell’arte della politica è stata sinora rappresentata da Nilo Peçanha».
Getúlio Dornelles Vargas, così come Francisco Franco in seguito con il Real Madrid, fece del futebol uno strumento, al pari di tanti altri, per promuovere lo
status internazionale del paese e soprattutto per forgiare e rinsaldare l’identità della nazione in linea con un programma politico generale che prevedeva il
rafforzamento dell’apparato statale ed una politica scolastica basata
sull’adozione di manuali standard, l’istruzione obbligatoria e la riscoperta di miti fondanti quali le bandeiras 20. Nel 1941 creò il Conselho esportivo
nacional, il quale si inscriveva a giusto titolo nel solco tracciato dalla cultura politica autoritaria dell’Estado Novo impiantato nel 1937. Questo organismo
sarebbe infatti servito a pilotare il processo di transizione del calcio brasiliano dal dilettantismo al professionismo e al contempo a controllare la messe di
squadre e di federazioni proliferate negli anni addietro. Alla luce di questi sviluppi emergeva un contrasto a tinte forti tra l’interventismo statale a
carattere disciplinare volto al riassetto organizzativo di uno sport sempre più popolare e l’intrinseca indisciplina creativa del «mulatismo», una tensione che
non mancherà di manifestarsi anche durante il periodo di governo dei militari. Gli anni di Vargas furono forieri anche di altri avvenimenti che avrebbero
alterato la fisionomia di alcune rinomate formazioni. Nel giugno del 1942 un
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decreto legge impose infatti l’obbligo a tutte quelle società sportive che
recavano un nome straniero di cambiare denominazione: la squadra Germânia passò ad essere chiamata Pinheiros mentre la storica São Paulo Railway fu
ribattezzata Nacional. La legislazione si attagliava naturalmente anche alla
Palestra Itália, sulla quale era calata un’atmosfera asfittica dopo la solidarietà assicurata da Vargas agli Stati Uniti e la dichiarazione sulla «situazione di
belligeranza» del 21 agosto del 1942 (seguita da un’altra più esplicita sullo «stato di belligeranza» del 31 agosto). Italo Adami, allora alla presidenza del
club, acconsentì a convertire il nome Palestra Itália in Palestra de São Paulo, così da evitare la confisca dei beni. La misura non era evidentemente
sufficiente ad allontanare la società dall’occhio del ciclone: di lì a breve venne scelto un nuovo nome, Palmeiras, in omaggio ad una formazione con cui la
Pale.stra Itália aveva sempre intrattenuto ottimi rapporti, ed eliminato il colore rosso dalla maglia ufficiale, che avrebbe altrimenti potuto evocare la bandiera
italiana. Secondo parte della storiografia del calcio brasiliano, l’accanimento contro la squadra degli italiani derivava non tanto dagli umori popolari causati
dalla guerra (un corpo di spedizione militare, la Feb, venne persino inviato a combattere in Italia) quanto dagli appetiti delle rivali intenzionate a sfruttare il
momento per impossessarsi in un modo o nell’altro dell’impianto sportivo
Parque Antártica.
Il ‘Maracanazo’ e oltre
All’inizio degli anni Cinquanta in Brasile ci fu un rigurgito di nazionalismo, pur permanendo forti dissesti socioeconomici (tuttora esistenti) che avrebbero
potuto ingenerare al contrario disaffezione e ostilità nei confronti delle regioni più ricche. Basti pensare che nel 1950 i nove decimi della produzione
industriale brasiliana provenivamo dal distretto federale e dagli Stati del Minas Gerais, del Rio Grande do Sul, di Rio de Janeiro, di São Paulo e di Pernambuco.
Uno dei giorni più significativi e tristi della storia calcistica brasiliana fu il 16 luglio del 1950, allorquando la Nazionale perse la partita decisiva per la
conquista del primo titolo mondiale contro l’Uruguay, paese che rivendicava la paternità del calcio (essendo certa la madre, cioè l’Inghilterra). La disfatta si
consumò nello stadio Mário Rodrigues Filho, più conosciuto come Maracanã
(all’epoca, prima dei lavori di restauro, capace di contenere 183 mila spettatori), fatto costruire apposta in vista della prestigiosa competizione che il
Brasile avrebbe ospitato. Tecnicamente non si trattava di una finale vera e propria dal momento che era stato adottato un regolamento speciale per il
quale non ci sarebbero state fasi di eliminazione diretta: i vincitori di ciascuno dei quattro gironi iniziali avrebbero partecipato ad un girone finale. Il gruppetto
delle finaliste includeva Svezia, Spagna, Uruguay e Brasile. La squadra brasiliana vinse contro gli scandinavi per 7 a 1 e umiliò gli spagnoli per 6 a 1.
L’incedere uruguayano nella parte conclusiva della competizione fu invece meno trionfale, avendo pareggiato 2 a 2 con la Spagna e superato la Svezia
per 3 a 2 con due reti segnate negli ultimi 14 minuti. In pratica al Brasile bastava un pareggio per potersi fregiare del titolo di campione del mondo.
L’ipotesi della sconfitta, del resto, non era nemmeno ipotizzabile, nonostante la
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squadra «celeste» potesse vantare la conquista di due Olimpiadi (a Parigi nel
1924 e ad Amsterdam nel 1928) nonché il primo campionato del mondo di calcio, giocato proprio in Uruguay. Come scrive Valdano, il pullman degli
uruguayani attraversò una folla immensa di brasiliani a Rio de Janeiro «come
un carro funebre che incrocia per caso una festa» ancor prima della partita 23. Secondo alcuni calcoli, tenuto conto dei paganti e delle persone a vario titolo
invitate, il Maracanã ospitava circa un decimo della popolazione di Rio de Janeiro. I brasiliani passarono in vantaggio con un goal di Friaça al 46° minuto.
La riscossa uruguayana venne guidata dal capitano della formazione, Obdulio Jacinto Varela. Per alcuni era un giocatore che incarnava alla perfezione lo
spirito charrúa, dal nome degli indigeni che abitavano la sponda orientale del Río de la Plata e che nel 1516 massacrarono il navigatore don Juan Díaz de
Solís e altri 8 membri del suo equipaggio 24. Il pareggio venne siglato da «Pepe» Schiaffino. Alle 16:38 di quel fatidico giorno venne inaspettatamente il
turno di Ghiggia, il quale poi raccontò come solo tre persone siano riuscite ad ammutolire il Maracanã: lui, Frank Sinatra e Giovanni Paolo II. In un’atmosfera
surreale si cambiò in tutta fretta a fine partita il cerimoniale per la consegna della coppa Rimet, avvenuta quasi di nascosto. Si consumò così quella che è
stata pittorescamente definita la Waterloo dei Tropici, una sconfitta che
presenta tuttora sul piano sportivo il suo fascino perverso e per la quale vennero trovati 3 capi espiatori: Barbosa, Juvenal e Bigode, tutti calciatori neri.
Varela, che nel corso della gara con un gesto all’apparenza temerario aveva impugnato la propria maglia gridando agli avversari brasiliani che quella era
«La Celeste!», venne invece preso a modello. Gli osservatori più attenti passarono perfino sotto silenzio il fatto che il «Gran Capitano» della Nazionale
uruguayana fosse mulatto e non bianco. Dopo la «tragedia» del 1950 e l’eliminazione ai Mondiali svizzeri del 1954 per mano degli ungheresi, il riscatto
avvenne finalmente in Svezia con la conquista della coppa nel 1958. Con la vittoria di una squadra meticcia vennero così messe a tacere le tesi razziste e
pseudoscientifiche riaffiorate dopo il 1950 con le quali si era inteso predicare nuovamente la presunta inferiorità dei neri e dei mulatti. Di contro ne uscì
corroborata la tesi (o ideologia secondo alcuni) di Freyre per la quale il Brasile era la risultante di un amalgama armonioso di razze e culture. In altre parole,
l’espressione più compiuta al mondo di «democrazia razziale». Uno dei
protagonisti della competizione in terra di Svezia fu Pelé (secondo un sondaggio compiuto all’inizio degli anni Ottanta il 99% dei brasiliani coinvolti
riconobbe la sua foto, a differenza di quella del presidente identificata unicamente dall’88% degli intervistati). Secondo il drammaturgo e cronista
sportivo Nelson Rodrigues il mito della tristezza brasiliana veniva meno proprio con l’impresa del 1958.
Dittatura e ‘Democracia corintiana’
Il periodo di governo da parte dei militari che va dal 1964 al 1985 fu
caratterizzato dall’assenza di modifiche sostanziali nella legislazione riguardante il futebol 28. Negli anni Settanta si assistette ad una proliferazione
di impianti sportivi tanto che il Brasile poteva vantare nel 1978 un primato
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mondiale: erano infatti presenti 27 stadi con una capacità di almeno 45 mila
spettatori, più altri 5 che ne contenevano oltre 100 mila 29. La tentazione di intromettersi negli affari calcistici divenne ad un certo punto irresistibile: nel
1970 il generale Emílio Garrastazu Médici intercedette personalmente affinché
uno dei suoi giocatori preferiti, Dario, venisse incluso nella rosa dei calciatori che avrebbe di lì a poco partecipato ai Mondiali. L’allenatore João Saldanha,
restio a soddisfare tali desiderata, venne «deposto» e rimpiazzato con Mário Zagalo 30. La squadra si aggiudicò la c oppa Rimet, dando lustro ad un paese
in pieno «miracolo economico» che intendeva assurgere al ruolo di grande potenza. Per molti, la rutilante impresa della Nazionale brasiliana non fu che un
abbaglio, che celava la sorda guerra contro il nemico interno, il comunismo, nel frattempo in atto. Il periodo in considerazione, con l’eccezione del 1970 e
dell’argento ai Giochi olimpici di Los Angeles, quando oramai il regime militare mostrava la corda, fu però parco di vittorie. Nel 1974 la squadra si classificò
quarta ai Mondiali di Germania. Il futebol-arte basato sull’irrazionalità e creatività del mulatismo calcistico venne a quel punto messo in discussione,
soprattutto in vista della competizione che nel 1978 sarebbe stata disputata in Argentina, paese che all’epoca costituiva un tradizionale rivale non solo sul
piano sportivo. Si assistette dunque ad una singolare militarizzazione dei
quadri dirigenti, quasi a volere riprodurre logiche e dinamiche afferenti altri settori. L’ammiraglio Heleno Nunes divenne presidente della Confederação de
Futebol ed il riservista Cláudio Coutinho assunse l’incarico di allenatore della Nazionale. In un’intervista dichiarò di usare tattiche apprese nell’esercito dal
momento che «tra il comandare una squadra di calcio, un plotone o un reggimento esistono molte similitudini quanto ad organizzazione, disciplina,
intesa e cooperazione». Nonostante i preparativi, la squadra si posizionò in terza posizione e per giunta fu l’Argentina ad aggiudicarsi il titolo dopo avere
battuto in finale l’Olanda ai supplementari per 3 a 1. Il paese era nel frattempo percorso da cambiamenti destinati di lì a qualche anno a cambiarne il volto. Il
presidente Ernesto Geisel aveva infatti avviato una politica di lenta, graduale e per quanto possibile sicura apertura pilotata da un geopolitico, Golbery de
Couto e Silva, che negli anni Cinquanta aveva posto con i suoi scritti le basi teoriche dello Stato di sicurezza nazionale 31. Tale nuovo corso derivava dalla
crescente insofferenza della popolazione nei confronti della dittatura dei militari
e dalle pressioni in tal senso esercitate dalla Chiesa cattolica, dall’Ordine degli avvocati del Brasile nonché dal Movimento democratico brasiliano (Mdb). Sul
piano sportivo l’avversione alla rigida disciplina, unita ad un più generale desiderio di libertà ed affermazione dei propri diritti, costituì la ragione
retrostante l’operato di alcuni giocatori del Corinthians di São Paulo, fra i quali Sócrates (anche conosciuto come il «tacco di Dio»), Wladimir e Casagrande
(«Casão»), che decisero assieme ai compagni di squadra di mettere a votazione praticamente tutto, dalla scelta dell’allenatore all’opportunità della
concentração, ossia del ritiro prepartita. Sulle loro maglie venne stampata la parola «democracia» mentre nella corsa alle elezioni del 15 novembre 1982
per deputati federali, senatori, governatori e sindaci figurò la scritta «Il 15 vai a votare».
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Calcio e politica estera
Al futebol, per quanto esso sia popolare, non è certo possibile ascrivere la
paternità di avvenimenti politici che hanno caratterizzato la storia brasiliana. È
tuttavia il caso di sottolineare come esso possa costituire un potente veicolo attraverso il quale esprimere l’identità di un paese e rappresentarne le
ambizioni e gli interessi. In occasione della cerimonia commemorativa del Giorno dell’Amicizia tra Argentina e Brasile svolta nel 2004 (il 30 novembre per
l’esattezza) l’ambasciatore Celso Luiz Nunes Amorim, ministro degli Esteri brasiliano, ha fatto stato di un suo desiderio: quello di celebrare una partita di
calcio tra il Mercosur e l’Unione europea, che potrebbe valere «alcune tariffe o quote» addirittura. Quest’affermazione non deve sorprendere più di tanto,
nonostante sia stato proprio Amorim uno dei principali estensori del G-20 nel corso del Vertice di Cancún del settembre del 2003 (il presidente Lula si
propone in proposito di cambiare «la geografia del commercio mondiale »). Il sogno trae ispirazione dal seguente desiderio, spiega il ministro: «vedere i
cittadini del Mercosur identificati con una maglietta del Mercosur». Un altro esempio di promozione internazionale attraverso il calcio è dato dalla partita
della seleção brasileira organizzata ad Haiti il 18 agosto 2004, parte integrante
di quell’attività di «solidarietà attiva» che viene dispiegata dal Brasile nei confronti dei paesi di lingua portoghese in Africa e che nei riguardi dell’ex
colonia francese nei Caraibi si è sostanziata principalmente con un intervento di natura militare a comando della missione Onu colà stanziata (la Minustah)
dopo la defenestrazione di Jean-Bertrand Aristide 34. La sfida amichevole organizzata contro la nazionale haitiana a Port-au-Prince, conclusasi 6 a 0 per
il Brasile, è stato un evento fortemente voluto da Lula in quanto, oltre a dare lustro al proprio paese, sarebbe servito, sulla base degli auspici iniziali, ad
avviare un programma di disarmo della popolazione. In pratica, la consegna di un fucile avrebbe garantito un biglietto per lo stadio. Si decise poi di non dare
seguito a questa idea dal momento che, contrariamente alle aspettative, la gente povera si industriava nelle more dello spettacolo a fabbricare armi
rudimentali.
Ritorno a Brodósqui
Alcuni osservatori sottolinearono come non ci fossero i presupposti per
disputare la partita ad Haiti stanti le condizioni del terreno di gioco, per non parlare di quelle generali di sicurezza che proprio le Forze armate brasiliane in
primis erano chiamate ad assicurare. Si è trattato di una preoccupazione che non ha lasciato indifferente Lula il quale ha in proposito interrogato i calciatori.
Ai giornalisti presenti a Port-au-Prince, il presidente ha fatto stato della risposta dei giocatori i quali hanno richiamato il loro passato sportivo trascorso
su campi in terra e non in erba 37. Viene in proposito in mente un olio su tela del pittore Cândido Portinari risalente al 1935 che raffigura un gruppo di
bambini scalzi (e di vario colore) che gioca a pallone in un campo di terra rossa a Brodósqui (São Paulo), località natale dell’artista. Molte delle caratteristiche
del futebol brasiliano sono forse richiamate proprio da questo quadro.
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Articolo n.9: “Lo Sport che muove le idee e le persone”,
Paolo Crepaz Dal sito www.sportmeet.org
Uno sguardo sullo sport di oggi
Alcune citazioni significative possono aiutare a comprendere cosa rappresenti
oggi lo sport: “Lo sport è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna e la sua assenza non potrà mai essere compensata” (Pierre De Coubertin); “Lo
sport, come la musica, è qualcosa di universale, qualcosa che è compreso in tutto il mondo, indipendentemente dalle differenze sociali, etniche o religiose.
Non solo sport è universale, ma anche i suoi valori.” (Jacques Rogge – presidente CIO); “Le potenzialità del fenomeno sportivo lo rendono strumento
significativo per lo sviluppo globale della persona e fattore quanto mai utile per
la costruzione di una società più a misura d´uomo.” (Giovanni Paolo II); “Lo sport è del tutto estraneo ai valori che ostenta, ne è la negazione più assoluta.
Illusione di civiltà, lo sport è illusione di umanità.” (Robet Redeker – filosofo); “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di suscitare emozioni.
Ha il potere di ricongiungere le persone come poche altre cose. Ha il potere di risvegliare la speranza dove prima c’era solo disperazione.” (Nelson Mandela).
Il fenomeno sport è una delle realtà più complesse, interessanti ed avvincenti del nostro tempo. Qualche numero: 800 milioni di praticanti, 5 milioni di
società sportive; aderiscono al Comitato Olimpico Internazionale 205 federazioni nazionali, alla FIFA, organismo mondiale del calcio, 208, alle
Nazioni Unite solo 192 nazioni. Il fenomeno meriterebbe approfondite riflessioni sociologiche, ma limitiamoci ad alcune, emblematiche, considerazioni
di fondo.
Lo sport è il nuovo potere spirituale planetario
La nostra epoca è segnata dall’invadente onnipresenza dello sport: lo sport è
un rumore di fondo planetario, una musica secondo altri, che condiziona la percezione della realtà e di noi stessi. Lo sport va considerato come un nuovo
tipo di antropomodellismo, un nuovo potere spirituale planetario. De Coubertin affermava che “La prima caratteristica dello sport olimpionico antico come di
quello moderno è di essere una religione”. Lo sport si può definire una parodia mercantile di una religione universale: i suoi eventi sono un’assemblea
planetaria, con tanto di pseudo liturgia.
Sport e capitalismo sono indissolubilmente legati: verso il successo ad ogni costo
Lo sport moderno è nato e si è affermato in un contesto storico e sociale che
premia la cultura del successo: ne deriva una visione dello sport che sacrifica
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l’elemento del gioco in favore del risultato, che va raggiunto a qualunque costo,
anche per gli interessi economici ad esso legati. In merito agli interessi economici è significativa l’affermazione del direttore della WADA, l’agenzia
mondiale antidoping, David Hoffman, che nel suo ultimo rapporto ha
affermato: “La malavita controlla scommesse e doping ed è implicata nel riciclaggio del denaro sporco e nella corruzione”. Il filosofo Redeker dal canto
suo, ha scritto: “Prosperando sulla morte della cultura, lo sport modella un prototipo di uomo, funzionale al capitalismo della globalizzazione tecnologica e
dei mercati, che postula la depoliticizzazione dell’umano. Il tifoso si è sostituito al cittadino”.
Lo sport riflesso della società o la società riflesso dello sport?
L’idolo sportivo oggi non rispecchia lo stile di vita di un popolo, come un tempo
gli eroi di Olimpia raffiguravano l’uomo migliore, ma, al contrario, tende ad imporre il proprio modello a tutte le altre persone, effigie di uno stile di vita
planetario. Come si veste, come si muove, che abiti indossa, tutto diviene fenomeno cult. Il calendario è, di norma, espressione di una cultura, di una
storia, di una geografia: quello sportivo li polverizza, è universale, incurva il
tempo, è ripetitivo e vuoto, annulla il passato e non ha futuro concentrando e bruciando tutto nel “presentismo”: i campioni creati dallo sport non
invecchiano, e quindi non hanno un passato, e non muoiono mai, e quindi non hanno un futuro. Anche lo spazio, al pari del tempo, è annullato: il mondo
appare come una grande palestra dove fare ginnastica e tenersi in forma, sotto la pressione della civiltà del divertimento, delle industrie ad esso collegate e
della ideologia pansportiva, dell’ebbrezza ludica.
Il corpo al servizio del consumismo
Socrate affermava: “Non mi risulta che un corpo in buona forma possa rendere buona l’anima in grazia della propria virtù: viceversa, un’anima buona,
per la sua stessa virtù, può perfezionare il corpo in maniera straordinaria”. Lo sport cerca di apparire come la cultura del fisico: il corpo è in realtà
sottomesso al diktat della prestazione, all’imperativo del rendimento e
dell’efficacia quantitativamente misurabile. Per fare questo si ricorre ad ogni mezzo, biologico, meccanico, chimico. In una cultura del più forte, il doping è
una via di fuga dal peculiare fascino della pratica sportiva che si nutre proprio del limite e della possibilità sempre esistente di sorpassarlo, per raggiungere
nuove mete e nuovi equilibri.
Le nuove tendenze dello sport
Circa un terzo della popolazione (oltre il 50 per cento nel nord Europa) dei nostri paesi occidentali fa sport con regolarità. La passione per giocare,
muoversi, specie all’aria aperta, fare sport non tramonta mai. In questo contesto stanno emergendo nuove pratiche sportive, a volte “fai da te”, a volte
lontane da controlli e indirizzi, a volte salutistiche, facilmente influenzabili da
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parte di condizionamenti commerciali. Alcune, ad esempio gli sport estremi,
spostano l’accento sul mettersi alla prova, sul far emergere una versione ideale e potenziata di sé: testimoniano una ricerca di autotrascendenza, mirano a
mostrare a se stessi e agli altri particolari qualità. Altre pratiche sportive si
vanno sviluppando nelle palestre o nelle piscine, spesso abbinate a centri wellness: qui gli sportivi non sono praticanti, ma prima di tutto dei clienti. Si
tratta di fenomeni di fuga da un’attività sportiva tradizionale spesso orientata solo all’agonismo, ed al tempo stesso di ricerca di forme creative, ma a volte
lontane da una prospettiva educativa.
La valenza educativa dello sport: una chimera?
Lo sport è ritenuto un percorso educativo, ma nelle società sportive lo sport è spesso proposto in forma selettiva, non inclusiva, discriminante, finalizzata solo
all’agonismo. Inoltre solo una percentuale molto bassa degli istruttori o degli allenatori è laureato in scienze motorie ed ha le competenze per un ruolo
sportivo educativo. L’abbandono precoce dello sport, durante l’adolescenza, è considerato giustamente un fenomeno preoccupante: i ragazzi dichiarano di
smettere perché non si divertono più, per il prevalere della dimensione
competitiva su quella ludica e per il crescere di altri interessi o impegni come quello scolastico. L’interruzione precoce dell’attività sportiva ha effetti negativi
nel tempo, sul piano della salute e della solidità del tessuto sociale.
Quali segnali e stimoli positivi dal mondo dello sport per la società di oggi?
Lo sport è una proiezione dell’esistenza, una sublimazione dei nostri splendori
e delle nostre miserie, ma è anche una importante “palestra” di vita. Per questo dallo sport ci si aspetta così tanto, a cominciare dalla responsabilità
educativa di cui viene accreditato. Perché è possibile affermare che lo sport muove le persone e muove le idee? Perché lo sport, evoluzione del gioco, fa
parte della natura stessa dell’uomo. Quello che gli addetti ai lavori chiamano “gioco locomotorio”, comprendendo in esso il gioco, l’attività motoria, lo sport,
è una delle migliori invenzioni dell’uomo, quella che gli permette di esplorare le
situazioni, di adattarsi ad esse, di superare le difficoltà. Platone affermava: “Si può scoprire di più una persona in un’ora di gioco che in un anno di
conversazione”. Lo sport fa parte della biologia della specie: consente all’uomo di sviluppare il proprio cervello, selezionando le connessioni nervose e gli
schemi sensoriale e motori ottimali, visto che l’uomo possiede, fra gli esseri viventi, il cervello meno preformato alla nascita (neotenia).
Gioco e sport per sperimentare un senso di efficacia Non è solo questo: il gioco locomotorio consente all’uomo di sperimentare un
senso di efficacia e di controllo personale su di sé, sul proprio corpo, sui propri stati emotivi e sull’ambiente e di sviluppare capacità ed autonomia per tutta la
vita, calciando palloni, scalando montagne, nuotando, correndo, sciando. Questa sensazione è fonte innata di piacere, un piacere che ha un valore
biologico, perché stimola ad impegnarsi nel gioco, con la conseguenza di
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divenire più abile ad affrontare le situazioni. Ed è un’eccezionale fonte di
motivazione: il piacere di sperimentarsi garantisce il coinvolgimento nel gioco, migliorando la qualità della propria prestazione. Lo sport è una manifestazione
ritualizzata e modificata del gioco, sostenuto non tanto da motivazioni
estrinseche (il denaro ed il successo), ma prima di tutto dall’innata motivazione intrinseca, dimensione fondamentale per la personalità, a sentirsi capaci,
competenti, in grado di controllare la realtà, auto-efficaci. Questo senso di autoefficacia, innato ed inconscio nell’uomo, è essenziale per la salute fisica e
psicologica: lo motiva e lo spinge a rilassarsi mentalmente con una passeggiata, a prevenire le malattie da sedentarietà ed a riabilitare le funzioni
con l’attività fisica. Se priviamo l’essere umano del gioco locomotorio lo condanniamo al deperimento fisico e mentale. Nel gioco locomotorio a
motivazione intrinseca la spinta agonistica è positiva e sostanziale per vincere se stessi e superare i propri limiti.
Lo sport in un contesto di crisi di identità
Le persone vivono oggi una crisi di identità, un’insicurezza, una fragilità e una
vulnerabilità, frutto di una sopravvalutazione dell’individuo, privo delle
costrizioni, ma anche della protezione, dei vincoli sociali. “Mentre si estendono gli spazi di comunicazione alla sfera planetaria, cresce la difficoltà di quotidiana
vita sociale, ovvero seduzione dei grandi spazi e constatazione che sono inaccessibili.” . In questo contesto la risorsa più contesa è la visibilità sociale:
l’effetto che il villaggio globale produce sui suoi abitanti “invisibili” è quello di alimentare un impellente desiderio di visibilità, un appello “guardami,
guardami”, più che mai vivo anche nello sport, definito dagli psicologi una “tragica illusione” per la quale l’ammirazione viene confusa con l’amore, con
una vita intera spesa alla ricerca di questo surrogato. In questo modo lo sport, derivazione del gioco, che è uno strumento al servizio della crescita
dell’individuo, della sua autonomia ed autoefficacia, del suo potenziale relazionale, può essere sognato da qualcuno come una scorciatoia per
raggiungere un senso, illusorio, di stabile identità in una società in cui questa impresa si fa sempre più improba. Spinte politiche, economiche e mediatiche
hanno fatto il resto, spingendo all’estremo l’enfasi della vittoria a tutti i costi.
Lo sport è il reparto giocattoli della vita umana
È comunque l’innata, giudiziosa, forse inconsapevole passione per il gioco,
l’attività motoria e lo sport, che fa sì che ce la prendiamo così tanto quando nello sport qualcosa non va come dovrebbe: qualcuno ci sta rovinando il
giocattolo indispensabile all’esistenza! “Lo sport – affermava Howard Cosell – è il reparto giocattoli della vita umana.” e difficilmente siamo disposti a
rinunciarvi o a vedercelo distruggere. Lo sport, per fortuna, inaspettatamente e ripetutamente, si mostra capace di sorprendere tutti, rivelando la grandezza
incontenibile della fantasia dell’animo e del corpo umano.
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Perché lo sport dovrebbe far muovere anche le idee oltre che le
persone?
Lo sport è un ambito in cui la persona “interpreta” una situazione, un ruolo. E
quando parliamo di interpretazione ci viene naturale porci alcune domande. Siamo noi i registi del film della nostra vita o ne siamo attori, seppure
assolutamente liberi di interpretare il nostro ruolo? Siamo noi gli autori della partitura della nostra vita o ne siamo gli interpreti, seppure in grado di farla
risuonare nell’interazione con Qualcuno che ci fa essere più noi nella misura in cui facciamo essere più Lui?
Cosa ne facciamo dello straordinario potenziale di relazione che lo
sport ha capacità di promuovere?
Le domande ci pongono di fronte alla nostra identità e di fronte alla questione: “qual è il fondamento della realtà nella quale vivo la mia vita?” Esiste un
assoluto come fondamento della mia realtà? La risposta a questa domanda può essere diversa: dalla negazione del fondamento, l’ateismo, fino alla fede in
questo fondamento come realtà fondante il mio essere. Con tutte le varianti
intermedie. Quello che non possiamo fare è eludere questa domanda: anche la negazione del fondamento è un’esperienza di esso. Non possiamo cioè non
affacciarci alla finestra, non metterci sulla soglia di questa domanda sul fondamento. Perché queste metafore? Perché un’esperienza umana
apparentemente semplice e naturale come il gioco, l’attività motoria e lo sport dovrebbe far “muovere le idee” e far “muovere le persone”? Perché gioco,
attività motoria e sportiva sono ambiti in cui la persona “interpreta” un ruolo, si pone in un presente (la partita, la corsa, la sfida con se stesso, con il
cronometro o con gli altri) in cui mette in gioco se stesso, in cui pone in discussione, in uno spazio ed in un tempo definiti, la propria identità.
Sta a chi gioca, a chi fa sport, e, parallelamente, a chi educa attraverso lo sport, saper e voler cogliere ciò che si muove, di pari passo e grazie a muscoli
ed e articolazioni, dentro di noi, attorno a noi, fra noi. Collocati nel fisico, sta a noi, porci, o meno, domande su ciò che stiamo facendo, sulla cultura che
stiamo incarnando o promuovendo, su ciò che nell’uomo vi è di più profondo.
Lo sport è un tramite, per il mezzo della dimensione corporea, di incontro con se stessi e con gli altri. Lo sport mi pone sulla soglia, apre una finestra alla
relazione. A cosa può servire questo straordinario linguaggio comunicativo che è lo sport, cosa ce ne facciamo di questo potenziale che è la relazione che lo
sport ha particolari capacità di favorire? Il segreto è qui: nello sport non si incontrano solo delle qualità fisiche, che sono la finestra, ma le persone nella
loro interezza. Sta ai protagonisti dell’esperienza motoria o sportiva, decidere o meno di mettersi in gioco, accettare di aprire la finestra, grazie allo sport, della
propria vita all’altro, far incontrare la propria umanità con quella dell’altro, correre il rischio di vedere la propria identità stravolta, ma indubbiamente
arricchita, dalla presenza dell’altro. Questo può far “muovere le idee” e far “muovere le persone”, grazie ai propri corpi.
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“L’altro siamo noi”
La comprensione e la scoperta della nostra identità è un viaggio, un’avventura
che dura tutta la vita. La persona umana è un mistero crescente di non
appartenenza a noi stessi. “L’altro siamo noi” affermava con coraggio lo scrittore Ryszard Kapuściński : è la relazione, la reciprocità che mi permette,
scoprendo l’altro, di scoprire me stesso. L’altro, l’uomo che è accanto a me diventa necessario ed essenziale perché ciascuno di noi possa dischiudersi
all’esistenza. È l’entrata nella reciprocità che dischiude orizzonti ampi e luminosi. Mai senza l’altro: lo sport implica la stimolante, destabilizzante,
piacevole necessità della presenza. Non possiamo negare che lo sport ci appaia a volte come un sistema che si autosostiene, di evento in evento, senza
riflessione, senza criticità. La passività di fronte all’imposizione di modelli di vita così negativi promossi da una certa concezione dello sport, si supera
dando massimo valore a due realtà: la cultura e la vita. La cultura è un ponte fra ciò che è l’uomo e ciò che può diventare. La cultura
ha oggi un’accezione ampia: tutto è considerato cultura, anche lo sport, secondo una concezione della cultura come “stile di vita”. La cultura è
indubbiamente il complesso dei comportamenti che assicurano la coesione di
una comunità, le abitudini collettive. Ma la cultura è anche ciò che ci permette di aprirci: svincola l’uomo, lo libera e lo emancipa, è l’elemento dinamico che lo
innalza al rango di cittadino, capace di svolgere un ruolo.La vita. Sant’Agostino scrisse: “Le persone viaggiano per stupirsi delle montagne, dei fiumi, delle
stelle; e passano accanto a se stesse senza meravigliarsi.” Sono le persone, la loro vita, lo spettacolo più grande cui ci è dato di assistere. È la quotidianità
che va rivalorizzata e scoperta carica di significato: per fare questo è necessario vincere quella che Jean Vanier chiama “la tirannia della normalità”,
quella sorta di obbligo non esplicitato che ci invita inconsapevolmente a conformarci, ad accettare come consuetudini sociali quelle che cercano di
cancellare le diversità e le fragilità, che mettono in dubbio ogni possibilità di cambiamento, di miglioramento, come se tutto fosse imponderabile e nulla
dipendesse dalle nostre persone. In particolare dobbiamo vegliare permanentemente che la nostra società prenda in considerazione ogni persona
nella sua globalità, affinché l’uomo non sia ridotto, se va bene, ad una lista di
diritti, ma sia concepito come un essere che ha, prima di tutto, un grande bisogno di relazione che lo spinge ad incontrare gli altri.
Quali prospettive? Quali proposte?
Con queste premesse possiamo provare ad elaborare qualche proposta,
semplice e concreta, solo indicativa, affinché lo sport sia capace di “muovere le persone e muovere le idee”. Alcune proposte sono più generali, altre legate alle
diverse competenze. Uno sport capace di muovere le persone e di muovere le idee, è uno sport che ha una funzione educativa , di sanità pubblica , una
funzione socializzante , culturale , ludica ed anche agonistica . Che una pratica fisica e sportiva, con queste funzioni, sia radicata nella popolazione è un fatto
di interesse pubblico: si tratta di un investimento e non di una spesa sociale.
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“Lo sport non è un’espressione vaga. È un termometro di civiltà.”
Il cambiamento dipende da noi. Insieme
Le indicazioni per uno sport che si riferisca ai valori, da tutti condivise, sono, nella pratica, molte volte disattese, a partire dal fair – play: il cambiamento
non può essere affidato al sistema, ma deve partire dalle nostre coscienze, dai nostri comportanti quotidiani, dipende cioè da ciascuno di noi. Io, prima di
altri, io accanto ad altri, insieme. Insieme puntando ad un senso più vero del tempo libero, come tempo del
recupero e del rinforzo delle forze fisiche, ma anche di quelle psicologiche e spirituali, come tempo della gratuità, del saper perdere tempo in modo
intelligente, oltre che gioioso. Insieme facendo crescere una cultura diffusa del movimento, del gioco, dell’attività fisica, fuggendo dai divertimenti artificiali,
anche riscoprendo giochi semplici, poveri e universali. Un ruolo specifico in questo tocca anche alle istituzioni in generale. Insieme contribuendo ad un
recupero della dimensione ludica dello sport, anche quando è pedana di lancio verso lo sport professionistico: ci sono testimonianze concrete che crescere
giocando non solo dà gioia, ma non è in contraddizione con lo sviluppo del
talento, anzi, crea l’ambiente migliore perché esso si sviluppi. Insieme cercando di ridare spazio a creatività e fantasia. Roberto Baggio,
affermava: “In Italia, immobile ed immutabile, prevale la cultura del risultato, purché sia. Il bel gioco, se perdi, è penalizzato in Italia, non così in Spagna. Da
ragazzo un allenatore mi fermò dopo un colpo di tacco, urlando che non siamo al circo.” Il futuro del nostro sport non è in mano a manager più o meno
illuminati, ma è in mano a tutti noi ed alla nostra capacità di costruire relazioni, alla nostra volontà di investire sulla reciprocità.
Gli educatori
Il primo rifermento specifico va a quanti hanno direttamente un ruolo educativo nello sport. I laureati in scienze dello sport sono dei professionisti
della cura della persona curandone il corpo. Cura anche in senso pedagogico: apertura, comunicazione, attenzione alla persona, alla sua realizzazione, ai
valori, nel riconoscimento della diversità e dei suoi bisogni. Anche lo sport di
alto livello può conservare valenza educativa se rimane intrinsecamente segnato dalla ludicità. Servono sempre nuove e maggiori competenze in coloro
che educano attraverso lo sport perché si aprono nuovi orizzonti professionali, grazie ai quali possono definirsi “professionisti della complessità”: Basti
pensare all’educatore sportivo sociale (nelle carceri, nelle comunità di recupero, nei paesi in via di sviluppo…) o a quello che viene chiamato
edutainement, l’intrattenimento educativo legato al tempo libero. Se molti insegnanti di educazione fisica, specie in Italia, si sentono in crisi rispetto alla
loro professione, è solo un recupero ed un riconoscimento del valore e della dignità culturale della loro professione che può valorizzare le loro competenze.
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Gli atleti ed i tecnici
La visibilità degli atleti, anche dei tecnici, è cresciuta in maniera straordinaria:
ma i campioni veri sono anche uomini veri. Ad essi è sempre più richiesto di
avere coscienza responsabile del proprio comportamento privato e pubblico. Dedicare allo sport la totalità dei propri interessi e gran parte del tempo porta
gli atleti a costruire un mondo artificiale: la responsabilità degli allenatori è di non farli fuggire dalla realtà, coltivare il talento ogni giorno, spiegare che per
vincere non basta la tecnica, occorre un’anima. Se teniamo alla crescita spirituale umana, come teniamo a quella tecnica sportiva, l’atleta, anche di
livello, sarà anche un uomo, un “hombre vertical”, un cittadino.
I professionisti attorno allo sport
Sempre più professionisti vivono di sport: medici, procuratori, giornalisti eccetera. Ciascuno può contribuire, per la propria competenza, a far sì che la
dignità umana venga apprezzata più di ogni altra cosa, contro ogni tentativo di fuga verso la vittoria a tutti i costi, che si chiami doping farmacologico o
economico, che si chiami mercificazione del corpo o mancanza di rispetto per le
potenzialità umane come per le sue fragilità. Un ruolo decisivo e perciò delicato, è quello dei mass media. Il mercato, la politica e la pubblicità si sono
resi conto da tempo della straordinaria rilevanza sociale che possono avere i messaggi trasmessi attraverso lo sport. Chi opera nel mondo della
comunicazione sportiva ha oggi una responsabilità enorme nel difendere e nel mostrare la specificità e la bellezza dell’esperienza motoria e sportiva.
Le associazioni
Il sistema associativo, anche quello sportivo che è fra quelli che reggono,
soddisfa i bisogni comunicativi ed espressivi degli individui, esposti al rischio della atomizzazione, della paralisi emotiva e dell’anomia. Ogni associazione
rappresenta una forma di mediazione necessaria fra individui, società ed istituzioni, ed è nodo di una rete di relazioni collettive che generano scambio,
interazione, coesione sociale. Una piena e consapevole partecipazione alla vita
associazionistica costituisce anche un’esperienza di educazione civica che esalta risorse essenziali al funzionamento solidale di una società, come la
propensione a cooperare, la fiducia e la pratica della reciprocità. Se l’associazione, da semplice aggregazione di iscritti si apre ad essere comunità,
genera azione sociale e resistenza collettiva ai processi di omologazione culturale.
I genitori
E’ fin troppo facile scaricare sui genitori l’immagine di persone interessate solo
ad una possibile carriera sportiva dei figli e disinteressate all’esperienza educativa: è necessaria per questo una forte sinergia fra le diverse agenzie
educative coinvolte nello sport. Per far crescere i figli come cittadini prima che
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come atleti, anche piccole testimonianze risultano significative: lasciare la
macchina ed andare a piedi assieme ai figli, giocare e fare sport con loro, chiedere alle società sportive quali obiettivi hanno nello statuto, interrogarsi sui
doveri verso la società sportiva e non solo sui diritti.
“Assumere sempre e per abito preso la fraternità universale”
Spesso ripetiamo: “Sarebbe bello, ma…” Occorre prendere nuova coscienza
della responsabilità reciproca, del valore insostituibile dell’essere “per” al fine di costruire un “noi comunitario” attore di cambiamento. Ci spronano due
concetti espressi da Chiara Lubich in un suo appunto del ’46: “Oltrepassare sempre ogni limite” e ciò significa che la reciprocità va ricercata senza
dubitare, e “assumere sempre e per abito preso la fraternità universale”. C’è un modo ed un luogo in cui cominciare: nelle città. Se è vero che “le città sono
diventate le discariche per i problemi causati dalla globalizzazione” e si promuovono “politiche sempre più locali in un mondo strutturato da processi
sempre più globali” , è anche vero che le sfide della globalizzazione si giocano e si vincono nel contesto della città, nei paesi, nei quartieri, nei condomini. È
qui, nella città che si forma il capitale sociale, ovvero l’insieme delle relazioni
fra soggetti. L’economista Easterlin elaborò il “paradosso della felicità”, ovvero dimostrò che la felicità cresce fino ad una soglia di reddito e sopra torna a
calare. Per essere felici abbiamo bisogno di costruire beni relazionali, amicizie, affetti. E questi si possono costruire in maniera privilegiata nel tempo libero,
quindi anche nello sport, perché il bene relazionale richiede tempo e contatti per essere generato. Misurarsi con queste realtà dentro la cornice della città
può rappresentare una chance in più: in un luogo circoscritto le sfide possono essere affrontate da vicino e insieme. Le città sono spazio di confronto, fra
conflittualità e dialogo; luogo di crescita fra disagi e risorse; laboratorio di convivenza fra identità e reciprocità. Dentro quella che è definita “società
liquida”, se un gruppo di persone decide di cominciare relazioni nuove, immette nella città un nuovo capitale sociale e può bloccare lo sfaldamento.
“Modificare il corso degli eventi a partire da nuovi investimenti nelle
relazioni e nei legami”
“A condizione che gli attori sociali – scrive il sociologo Mauro Magatti – guardino in faccia la realtà ed esercitino fino in fondo la loro capacità di azione,
che è poi quella di modificare il corso degli eventi a partire da nuovi investimenti nelle relazioni e nei legami, intesi come elementi essenziali per
costruire un nuovo capitale sociale.” Un cambiamento di orizzonte non può essere affidato al sistema, ma deve partire dalle nostre coscienze. Noi
vogliamo essere fra quelli che hanno un “pallino”, una passione, un obiettivo chiaro: promuovere nuove positive testimonianze di vita sportiva, elaborare e
diffondere nuove idee, essere formatori di opinione per contribuire a cambiare la società cambiando lo sport.
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BIBLIOGRAFIA
AA.VV., “Disabilità e sport. Dall'integrazione all'inclusione”, Nuova cultura editore 2011.
A.Agassi, “Open. La mia storia”, Einaudi 2011. F. Appel, “Pesi massimi. Storie di sport, razzismi, sfide”, Sinnos editrice 2012
O. Beha, A. Di Caro, “Il calcio alla sbarra”, Bur 2011. G.Boniolo, “Le regole e il sudore. Divagazioni su sport e filosofia”, Cortina editore 2013.
G.Bondini, “100 volte Coni”, Absolutely Free, 2014.
V.Brandi, “Il pallone che rotolò fino alle Olimpiadi”, 2013.
S.Cavalcante, “Compagni di stadio. Sócrates e la Democrazia Corinthiana”, Fandango Libri 2014. A.Cartwright, “Heartland”, 66thand2nd 2013.
R. Francesco, “Inganno della perfezione corporea”, Franco Angeli editore 2012.
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P. Gent, “I mastini di Dallas”, 66thand2nd, 2013.
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N.Melone, G.Malagò, “Storie di sport, storie di donne”, Rizzoli 2012. S. Martelli, “Manuale di sociologia dello sport e dell'attività fisica”, Franco Angeli editore,
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S. Martelli, “Sport, media e intrattenimento”, Franco Angeli editore, 2011.
M. Martini, “L'energia del sacro. Lo sport tra i popoli di interesse etnologico”, Aracne
editore 2014.
A. Mastroluca, “La valigia dello sport”, Effepi 2012.
R. Mauri, “Appesi a un filo. Quando lo sport dialoga con la fede”, In dialogo editore, 2013.
G. McFee, “Sport, rules and values”, Routledge 2004. G.Moroni, “Il calcio malato. Indagini e segreti del racket delle scommesse”, Mursia 2014. F. Nascimbene, “Guida alla psicologia dello sport”, Libreria dello sport editore 2011.
C.Petrini, “Nel fango del dio pallone”, Kaos edizioni, 2010.
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2012.
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“THE POWER OF SPORT” 27 Luglio – 03 Agosto
FILMOGRAFIA
"Alì", regia di Michael Mann, 2001
"Best", regia di Mary McGuckian, 2000
"Carnera", regia di Renzo Martinelli, 2007
"Cinderella Man", regia di Ron Howard, 2005
"Cool runnings", regia di Jon Turteltaub, 1993
"Fuga per la vittoria", regia di John Huston, 1981
"Gino Bartali - L'intramontabile", regia di Alberto Negrin, 2006
"He Got Game", regia di Spike Lee, 1998
"Il colore dei soldi", regia di Martin Scorsese, 1986
"Il Pirata - Marco Pantani" regia di Claudio Bonivento, 2006
"Invictus", regia di Clint Eastwood, 2009
"L'arte di vincere", regia di Bennett Miller, 2011
"Lo spaccone", regia di Robert Rossen, 1961
"Man on Wire", regia di James Marsh, 2008
"Million Dollar Baby", regia di Clint Eastwood, 2004
"Ogni maledetta domenica", regia di Oliver Stone, 1999
"Rocky", (I e V ) regia di John G. Avildsen, 1976, 1990 – (II, III, IV, VI), regia di Sylvester
Stallone, 1979, 1982, 1985, 2006
"Rush", regia di Ron Howard, 2013
"Senna", regia di Asif Kapadia, 2010
"The Fighter", regia di David O'Russell, 2010
"The Wrestler", regia di Darren Aronofsky, 2008
"Toro Scatenato", regia di Martin Scorsese, 1980
"Warrior", regia di David O'Connor, 2011
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“THE POWER OF SPORT” 27 Luglio – 03 Agosto
Un ringraziamento particolare a tutti gli studenti e le studentesse che hanno offerto la loro collaborazione e il loro supporto nella realizzazione del seminario:
Camilla Astorri Valentini, Anna Berloco, Michele Brescia, Alessia Bove, Nicola Bucciarelli, Luigi Campa, Anna Maria Cimino, Valeria Ciocchetti, Andres Matias Dabas, Giacomo Della Posta, Michela Di Lorenzo, Erica Immorlano, Alessandro Leopardi, Nino Marzullo, Daniele Marchesani, Andrea Pettirossi, Francesca Piccoli, Roberta Pilato, Vittorio Ruggeri, Francesco Santi, Mattia Sirgiovanni, Lorenzo Tama, Davide Trapani, Gabriele Tucciarone; Giacomo Rogante (supporto grafico).
Gaia Coltorti
Giulia Santi
Gennaro Cataldo
Adolfo Perrotta