Seconda Edizione Agosto 2015 - raccontarsiraccontando.it · vere appieno struggimento e speranza....
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Seconda Edizione Agosto 2015
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I proventi dalla vendita di questo libro, scritto da AnnaMaria Calore e
Loredana Simonetti e presentato presso la Libreria Gulliver di Rieti,
sono stati interamente devoluti al Centro Anziani di Belmonte in Sa-
bina (Rieti) per la costruzione di giochi in legno da posizionare nella
scuola primaria locale
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Prefazione
di Loredana Simonetti
La Fata Draga, di questa storia, è una bambina cre-
sciuta serenamente, capace di coltivare un patto segreto con
il sole: al tramonto sa catturarne l’ultimo raggio per tenerlo
con sé per tutta la notte, complice delle sue letture segrete
sotto le coperte, fiabe, racconti, leggende e filastrocche.
Crescendo, però, comincia a sentire una strana in-
quietudine, come se le mancasse qualcosa di vitale. La
nonna che intuisce il suo stato d’animo, comprende come
sia giunto il momento di raccontarle una storia “antica
come il mondo”, poiché una donna, per essere felice, deve
acquisire “la consapevolezza che solo l’autonomia può
dare”.
Dalla storia che le racconta la nonna, inizia il viaggio
di Fata Draga attraverso la “conoscenza”. Incontrerà di-
verse donne di diverse epoche, ciascuna con una grande
piccola storia, quale testimonianza personale da donare alla
giovane donna.
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Un antico proverbio popolare dice che ai bambini bi-
sogna dare ali e radici. Ali grandi per volare alla ricerca di
cieli sempre nuovi e radici profonde per capire qual è stata
la propria origine. Per questo le storie dei nonni e delle ge-
nerazioni passate creano le basi di continuità tra il presente
e il futuro di figli e nipoti.
Fata Draga è l’espressione più profonda di quanto
sia importante la conoscenza, a partire da noi stessi, per sa-
per incontrare gli altri. Una conoscenza, purtroppo, limitata
dalla storia di sempre, che ha arginato la figura femminile
a ruoli stereotipati e limitanti.
La ragazza tratteggiata da AnnaMaria Calore in que-
sta storia, è intraprendente e naturalmente incline all’acco-
glienza. Essa contrasta con l’immaginario del femminile di
chi vuole le donne solo belle, provocanti e silenti.
Il passaggio dall’adolescenza alla maturità cognitiva
di Fata Draga avviene attraverso la condivisione, con altre
donne, di sofferenze, lotte, desideri, timori e speranze. Per
arrivare a comprendere come si possa vivere appieno la
propria vita, solo esprimendosi compiutamente per quello
che si è, e non per quello che gli altri si aspettano da noi.
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Prologo
di Annamaria Calore
Ho conosciuto Vivien quasi per caso, mentre cercavo
un luogo lontano dai rumori della città, tra il verde dei bo-
schi reatini, dove potermi rilassare e scrivere in tranquillità.
La mia ricerca mi ha portato a Belmonte in Sabina,
dove ho trovato proprio quello che cercavo: una piccola
casa, quasi un nido d’aquila, affacciata sulla valle del Tu-
rano. Dal terrazzino ho potuto vedere il Terminillo in tutta
la sua grandiosità e mi sono innamorata di quella splendida
vista. Non lontano dal mio “nido” ho scoperto una piccola
trattoria a conduzione familiare “Il Focolare”, dove ho in-
contrato Florin un giovane uomo di origine rumena che, da
anni si è stabilito in Italia.
In quel periodo collaboravo a un progetto di raccolta
di storie di persone venute in Italia dai paesi dell’Est Euro-
peo ed ho chiesto a Florin se voleva regalarmi una sua te-
stimonianza. Lui, schernendosi, mi ha proposto di racco-
gliere quella di sua sorella Vivien che, di lì a poco, ci
avrebbe raggiunto al “Focolare”. E’ così che ho conosciuto
colei che avrebbe ispirato questo racconto.
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Come mai questo titolo per questa storia? Per due
motivi; il primo legato a ciò che, di Vivien, ha colpito la mia
immaginazione: la sua freschezza quasi infantile, unita a
uno sguardo penetrante e colmo di profonda consapevo-
lezza, e la sua spontaneità unita al desiderio di rimettersi
continuamente in gioco. Il secondo motivo è legato ad una
canzone molto nota in Romania, che avevo trovato facendo
ricerche sulle canzoni popolari di quel Paese. Una canzone
semplice e senza pretese, come quelle che si ascoltano per
la strada, cantata da Madalina Manole una donna bellis-
sima e fragile la cui voce si è spenta troppo presto in tragi-
che circostanze. Il titolo era, appunto, “Fata Draga” (cara
ragazza) e ne trascrivo la prima strofa in Lingua Rumena,
con accanto la traduzione e qualche licenza poetica in Lin-
gua Italiana.
“Fata draga nu fi trista fiindca e pacat (cara ragazza non essere
triste perché è un peccato) fara lacrimi nu exista dor adevarat se
zvanta norii-nsoare (niente lacrime questo è il tuo tempo di nu-
vole e sole) lacrima usor si surasul reapare (asciuga le lacrime e
riapparirà il sorriso) “.
In Italiano il pronunciare “Fata Draga”, mi suscitava
l’idea di un archetipo femminile, dolce e tremendo nello
stesso tempo, una sorta di Eva-Lilith consapevole della
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dualità della sua anima capace di accoglienza e benevo-
lenza, ma anche di trasgressione e rimessa in discussione di
regole del gioco non giuste. Una donna, nel cui sguardo si
potesse indovinare, per chi sapesse coglierlo, quel bagliore
dorato lungo un solo istante, lontano e profondo millenni e
millenni; un bagliore capace di raccogliere la forza e la dol-
cezza di tutte le donne vissute prima di noi e di tutte quelle
che verranno dopo. Donne capaci di essere dolci e spietate,
fragili e coraggiose, timorose e ardimentose, e capaci di vi-
vere appieno struggimento e speranza.
Donne capaci di volare come le fate, oppure, se lo
preferite, come le streghe!
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FATA DRAGA
Emotie de Toamna
A venit toamna, acopera-mi inima cu ceva,
cu umbra unui copac sau mai bine cu umbra ta.
Ma tem ca n-am sa te mai vad, uneori,
ca or sa-mi creasca aripi ascutite pana la nori,
………………………………………
(Nichita Stanescu)
Emozione d’autunno (traduzione)
E’ arrivato l’autunno, coprimi il cuore con qualcosa,
con l’ombra di un albero oppure meglio con l’ombra tua.
Ho paura a volte di non rivederti mai più,
che mi cresceranno ali sottili fino alle nuvole,
……………………………….
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Questo racconto è dedicato alle piccole,
grandi donne
che abbiamo incontrato
nel nostro lungo sentiero di vita, tra impegni e speranze.
Annamaria e Loredana
L’immagine di copertina, che ritrae Vivien Ciocan sullo sfondo di Bel-
monte in Sabina,
è un disegno di Ilaria Maione
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CAPITOLO I
BUCUR
Sorcova vesela sa traitisa imbatriniti,
ca un mar, ca un par, ca un fir de trandafir,
tare ca piatra, iute ca sageata, la anul si la multi ani.
Ti auguro di avere una lunga vita, come i meli, come i peri,
d'avere la forza di una montagna,
per affrontare l'anno nuovo, nel modo migliore.
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CAPITOLO II
IL SENTIERO DI LILITH
(…c’era una volta e una volta non c’era…)
(disegno di Luca Tarlazzi)
C’era una volta, ed una volta non c’era, una bimba
di nome Fata Draga che possedeva uno sguardo luminoso
ed intenso come non si era mai visto. Viveva in una città
oltre la quale abitava il sole che sorgeva ogni mattina da
oriente. Questa città era situata in un paese lontano, oltre il
mare azzurro; si affacciava sul Mar Nero nel punto, dove il
Danubio ricama il suo delta, ed era circondato dai monti
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Carpazi, altissimi e spesso coperti di neve. La città dove vi-
veva Fata Draga era chiamata anticamente Bucur che signi-
fica bella, e veniva definita, da tutti coloro che l’avevano vi-
sitata, “ La Città della Bellezza”. Un fiume, chiamato Dam-
bovita cingeva, quale preziosa cintura, il centro storico di
Bucur. L’architettura stravagante e la cultura cosmopolita
ne facevano un luogo ameno e molto amato dai suoi abi-
tanti.
La piccina dagli occhi di luce aveva una mamma, un
papà e due fratellini che le volevano bene. Era una bimba
che andava a scuola come tutte le altre bambine della sua
età, giocava come giocano tutte le bambine, ma possedeva
un segreto che non aveva mai confidato a nessuno.
Fata Draga, infatti, sapeva catturare l’ultimo raggio
del sole, proprio un attimo prima che oltrepassasse l’oriz-
zonte e lo teneva chiuso nel suo pugno, tutta la notte. Poi,
quando tutti in casa dormivano, lasciava filtrare tra le dita,
la luce solare che le permetteva di leggere nel buio della
notte, sotto le coperte, fiabe, racconti, leggende e filastroc-
che. Alla luce dorata del sole le figure contenute nei libri, si
animavano e Fata Draga poteva giocare, di nascosto, all’in-
saputa dei suoi familiari, con fate, gnomi, piccoli animali e
con tutti i personaggi delle fiabe.
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All’alba, quando il sole compariva di nuovo, subito
dopo l’aurora, Fata Draga apriva le dita per lasciare che il
raggio di sole potesse raggiungere la luce del mattino e, con
il nuovo giorno, scomparivano le magie della notte. Nes-
suno in casa sapeva del suo patto segreto con il sole. Solo
la vecchia nonna aveva intuito qualcosa. Perché anche la
vecchia nonna era stata una bambina strana! Ora che era
anziana raccontava tantissimi fatti che diceva appartenes-
sero alla “storia della sua vita”, e nessuno sapeva distin-
guere quanto vi fosse di vero e quanto d’inventato in quelle
storie, tanto erano fantastiche! Era comunque un piacere
ascoltarla e guardare nei suoi occhi che sapevano riempirsi
di lacrime gioiose, dalle risate che faceva quando narrava.
Fata Draga ascoltava attentamente tutto quello che
la nonna diceva, anche le cose più incredibili perché lei,
Fata Draga, sapeva come potessero essere veri anche gli ac-
cadimenti più impensati.
Così cresceva Fata Draga anno dopo anno, stu-
diando, giocando, cantando e facendo crescere, di nascosto,
le sue ali sottili, capaci di giungere sino alle nuvole, per tra-
sportarla in alto sopra la terra insieme al suo amico segreto,
“Ultimo Raggio di Sole”, che di notte le faceva compagnia.
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Con gli anni, la bambina, era diventata una bellis-
sima giovane ragazza, corteggiata da tutti i ragazzi che ave-
vano la fortuna di incontrarla. Di notte non le bastava più
giocare con i personaggi delle fiabe. Ascoltava parole lon-
tane portate dal vento del sole che raccontavano di amori,
gioie, dolori, sogni e desideri.
Il primo giorno del nuovo anno, Fata Draga sarebbe
dovuta essere felice, c’erano feste, giochi, fuochi d’artificio
in tutta Bucur. Avvertiva invece una inquietudine, come se
per essere felice le mancasse qualcosa, qualcosa di vitale.
La vecchia nonna, che tutto sapeva indovinare, le disse,
guardandola profondamente negli occhi:
“Piccina mia, ti ho osservata crescere e mi sono augurata
per te tutto l’amore e gioia che la vita possa offrire. C’è qual-
cosa, però, che devi sapere, perché nella vita gioia ed amore
non possono rendere felice una donna se non sono illumi-
nati dalla consapevolezza che solo l’autonomia può dare.
Per questo voglio raccontarti una storia, antica come il
mondo e talmente lontana nel tempo che è diventata una
leggenda.”.
Fata Draga si accoccolò, allora, ai piedi della nonna che
cominciò a raccontare:
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“ C’era una volta e una volta non c’era………La storia
che ti voglio narrare è quella di un mito del quale si è ri-
schiato di perdere la traccia e si trova racchiusa in uno degli
scritti religiosi più affascinanti: “Il Libro Antico Della Ge-
nesi”. Questo testo antichissimo, raccoglie le credenze tra-
smesse oralmente, dalle diverse tribù ebraiche prima della
loro unificazione, e narrano la creazione dell’universo.
La creazione dell’uomo viene raccontata nella Bibbia
nel modo in cui tu già sai: il Buon Dio che impasta la creta
e ne forgia le membra, gli dona una compagna, Eva, traen-
dola dalla di lui costola dopo averlo addormentato, e poi
tutto il resto sino alla cacciata dal Paradiso Terrestre.
Spulciando, però, tra le Genesi meno conosciute
delle tribù dimenticate, esiste la traccia di qualcosa che av-
venne prima della creazione di Eva; infatti, molto prima di
lei, un’altra creatura femminile era stata chiamata alla vita
come compagna al fianco di Adamo; questa creatura miste-
riosa e quasi sconosciuta ai più, aveva come nome Lilith e
fu protagonista dei fatti che ora voglio narrarti:
Il Buon Dio aveva già terminato la sua opera univer-
sale, il cielo, la terra, le piante, aveva popolato i boschi di
animali, le acque di pesci e, alla fine si stava accingendo a
comporre con la creta l’effige dell’uomo e della donna. Non
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sapeva a chi dare la priorità ma, essendo non a caso un Dio,
riuscì a comporre le forme dei due esseri nello stesso istante
e con i medesimi materiali; quindi, emettendo il Divino Sof-
fio, diede loro l’anima ed essi cominciarono a vivere all’uni-
sono. Il primo essere vivente che Adamo vide fu Lilith ed il
primo che Lilith vide fu Adamo. I loro occhi s’incontrarono,
si guardarono con interesse, si piacquero e, prendendosi
per mano, iniziarono ad esplorare il Paradiso Terrestre nel
quale il Signore li aveva collocati. Si nutrivano dei frutti de-
gli alberi, bevevano l’acqua delle sorgenti e volevano go-
dere l’uno dell’altra come, del resto, facevano tutti gli ani-
mali dell’Eden. Purtroppo, dopo il primo periodo di grande
innamoramento, a Lilith per essere appagata, non bastava
più soggiacere supinamente ad Adamo come facevano le
femmine degli altri mammiferi con i loro maschi. Con
estrema dolcezza e tatto fece presente al suo sposo l’esi-
genza di giocare in tanti modi diversi ma lui, preoccupatis-
simo e soprattutto spaventato, cominciò a lagnarsi dell’ir-
requietezza di lei. Alle recriminazioni del compagno, Lilith
rispondeva: “Sono stata creata da un impasto di terra esat-
tamente come te, nello stesso modo. Per quale motivo mi
vuoi sempre e solo sotto il tuo corpo? E’ vero, siamo diversi
fisicamente, ma simili poiché ognuno di noi due ha qual-
cosa che l’altro non ha; quindi, perché uno solo di noi deve
sempre e soltanto soggiacere? Non potremmo lasciare alla
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fantasia del momento il timone delle nostre iniziative amo-
rose ?”.
Adamo non sapeva rispondere a quelle imbaraz-
zanti domande, si sentiva a disagio. Aveva la sensazione
che il compito di “primo uomo” impostole da Dio venisse
sminuito, la propria immagine rischiasse di essere offu-
scata, ma sopra ogni cosa, temeva di contrariare il volere
Divino. Andava sempre più spesso a chiedere conforto dal
suo Dio ma Egli lasciava che le cose lentamente si compis-
sero come già nella sua Onnipotente Mente erano destinate
a compiersi. L’uomo, sempre più sconcertato e confuso,
non riusciva a comprendere ciò che gli veniva chiesto né,
tantomeno, cosa dovesse fare. Fu colto da una profonda de-
pressione e non riusciva a capire cosa si volesse da lui. Av-
vertiva il rischio di perdere ogni riferimento non riscon-
trando, nelle femmine degli altri animali, atteggiamenti pa-
ragonabili a quelli della sua Lilith che amava ricordare in-
namorata e remissiva come i primi tempi.
Lentamente fu preso dall’angoscia diventando irri-
tabile e spaventato, non riusciva più a giocare con la sua
donna come una volta. Per cercare di distrarsi, iniziò da
solo un nuovo gioco: accumulare e nascondere bacche e
frutti illudendosi così di potersi consolare. Malgrado ciò,
era sempre più infelice! Lilith, che per sua natura era anche
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paziente, amava molto Adamo ed in un primo momento,
tentò di sollevare il compagno da quello stato pietoso.
Cercò di condividere il nuovo passatempo, anche se am-
mucchiare riserve e tenerne una noiosa contabilità non le
piacesse affatto, ma, alla fine si arrese; prendendo atto che
non poteva fare nulla per lui, mentre voleva fare, qualcosa
per se stessa!
Prese allora a girovagare da sola per il giardino in-
cantato, individuando angoli segreti e nuovi sentieri; ma si
guardava bene dal fare partecipe Adamo delle sue scoperte,
perché voleva viverle da sola per crescere. Un giorno si av-
vide che nell’angolino più buio, dove la vegetazione era
fitta ed impenetrabile, una pietra del muro di cinta risultava
facilmente removibile.
La mattina successiva, piena di eccitazione, tornò nel
luogo della scoperta, spostò la pietra, sbirciò attraverso
l’apertura e, con stupore, poté intravedere qualcosa di com-
pletamente diverso da ciò che era abituata a vedere. Nel Pa-
radiso Terrestre era presente ogni creatura immaginabile,
ogni pianta, ogni fiore, tutto era armonia, la vegetazione
cresceva lussureggiante. Gli animali non conoscevano fero-
cia alcuna ed anche i predatori erano mansueti come agnel-
lini. La temperatura era mite ed il vento gradevole brezza.
Tutto era pace per lo spirito e benessere per il corpo. Dal
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suo spiraglio di osservazione, Lilith poteva invece vedere
una immensa distesa di sabbia rossiccia tormentata da venti
caldi ed impetuosi che, con il loro turbinio, modificavano
continuamente l’aspetto del paesaggio. All’orizzonte si sta-
gliavano altissime montagne imbiancate da neve e ghiacciai
perenni. Vedeva aggirarsi belve a lei sconosciute e feroci
che emettevano terrificanti ululati e uccelli predatori dai
grandi orridi becchi che volteggiavano gracchiando sopra
prede moribonde. Ella ignorava cosa fosse la morte; non
aveva mai visto, da quando era stata creata, un essere co-
perto di sangue ed agonizzante. Da quella visione ne fu at-
tratta e spaventata; la sua pelle fu percorsa da uno strano
brivido mai provato prima, fatto di raccapriccio e curiosità.
Guardando con più attenzione le parve di vedere in lonta-
nanza il luccichio di una grande distesa d’acqua dallo
strano colore, avvolta da nuvole di vapore. Non ebbe il co-
raggio di fare null’altro. Rimise la pietra al proprio posto e
tornò ai giochi di sempre portandosi, nel cuore e negli oc-
chi, il suo segreto.
Quella sera Adamo vide, negli occhi azzurri della
sua compagna, una luce talmente intensa e diversa dal so-
lito, che ne fu spaventato, ma ormai la distanza tra di loro
era così tanta, che non osò neppure chiederle a cosa stesse
pensando. Il sonno notturno di lei fu agitato e colmo di pre-
sagi. Riviveva, in sogno, le immagini che aveva visto quella
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mattina sbirciando fuori dal Paradiso Terrestre, e quelle im-
magini erano accompagnate da fortissime e sconosciute
emozioni perché, quello aveva scoperto, esercitava su Lilith
un richiamo inconscio ed irresistibile.
L’uomo, da parte sua, sempre più preoccupato,
tornò ancora una volta a lamentarsi dal suo Dio dicendo:
“La compagna che mi hai dato non mi rende felice; non ob-
bedisce, non si prende cura di me. Il nuovo gioco dell’accu-
mulo che ho inventato per lei, la interessa fino ad un certo
punto. Perché tutti gli altri esseri hanno femmine docili ed
affettuose ed io no? Lilith è ribelle, misteriosa, va in giro per
il giardino da sola, non mi segue come una volta. Ultima-
mente, poi, é diventata veramente strana, ed io ho rinun-
ciato a comprenderla.”.
Il Creatore decise che era ora di intervenire; chiamò
la donna presso di sé e la pregò di rientrare nell’ordine sta-
bilito delle cose; le ricordò quale fosse il suo posto nell’in-
sieme del creato ed infine le impose di non far più soffrire
Adamo, ma di assecondarlo, custodirlo, curarlo nell’anima
e nel corpo, poiché per questo era stata creata.
Lilith provava profondo affetto e riconoscenza per il
suo Signore, sapeva che a Lui doveva la vita, ma sapeva, e
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perfettamente, come Lui l’avesse creata e questo non ri-
spondeva alle pretese che venivano avanzate nei suoi con-
fronti. Il suo corpo di fango era stato animato dallo Spirito
Divino come quello del suo compagno e questa strana ri-
chiesta di subalternità ad un essere uguale a lei pareva
troppo ingiusta. Cercò con molta dignità di perorare il pro-
prio punto di vista, ma ebbe scarso effetto. Dio era il prin-
cipio di tutte le cose, l’ordine dell’universo era nelle sue
mani e Lilith non era disposta a ricorrere a sotterfugi né,
tantomeno, a cedere a crisi isteriche per perorare la propria
versione dei fatti. Così prese atto di quanto il Signore le
aveva detto, non ne condivise neppure una parola e pur con
sommo dolore, capì che nell’Eden, da quel momento, non
ci sarebbe più stato posto per lei. Quella stessa notte, appro-
fittando del profondo sonno di tutte le creature, giunse fino
al muro di recinzione, tolse con cautela la pietra e, insinuan-
dosi nella stretta fessura, passò dall’altra parte. Era nuda
Lilith, al di là del muro la temperatura della notte era umida
e fredda. Le mancava il corpo caldo e l’amore del suo
Adamo? La sicurezza e la bellezza dell’Eden? Si volse in-
dietro, poi, sollevò gli occhi verso il cielo. Vide il grande
disco argenteo della luna piena e lo scrigno delle pleiadi in
tutto il loro splendore. Si sentì libera e felice! Si avvolse al-
lora nei lunghi capelli, che le giungevano sino alle caviglie,
ed andò verso la propria vita.
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Sarebbe venuto il tempo della conciliazione, lo av-
vertiva chiaramente come un sicuro presagio, e solo allora
la sua mano e quella di Adamo avrebbero di nuovo intrec-
ciato le dita per accompagnarsi nel cammino. Ora Lilith era
sola e da sola voleva inoltrarsi nei sentieri del mondo.
Avrebbe camminato e camminato nei secoli e nei millenni,
lasciando un lungo strascico dietro di sé, ed i suoi capelli,
come una cascata capricciosa, avrebbero cancellato i suoi
passi.
Lilith non avrebbe potuto camminare veloce e leg-
gera, perché suoi capelli andavano raccogliendo minuscoli
frammenti di mondo; foglie di vite, boccioli di fiori, polvere
di stelle marine, sogni ed incubi, canti d’amore e risate som-
messe, spuma di mare, semi di granata, piccole piume por-
tate dalle bufere di vento, profumi, viole, sussurri e segreti,
baci e stille d’amore, scintille crepitanti di fuoco. S’intride-
vano delle acque salate degli oceani tempestosi, si asciuga-
vano al vento freddo che veniva dal nord, s’intrecciavano
alla tramontana ed allo scirocco e volevano conservare del
mondo e degli esseri viventi, tutto ciò che non deve essere
dimenticato. Il ricordo, i racconti, le lacrime, tutto sulle forti
e fragili spalle di Lilith. E lei continuava a camminare ed
ancora, cammina, cammina......”.
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Fata Draga ascoltava con gli occhi spalancati il rac-
conto della nonna e quando lei s’interruppe per riprendere
fiato, la supplicò: “Nonna, nonnina cara, raccontami an-
cora!”
La nonna riprese a narrare: “I miti della creazione
raccolte nelle Antiche Genesi raccontano, seppure con di-
verse sfumature, come sia proseguita questa storia. Lilith
iniziò la sua avventura nel mondo, presso le rive dello spec-
chio d’acqua che aveva intravisto quando era ancora nel Pa-
radiso Terrestre.
Lungo quella spiaggia, molto inospitale, incontrò
Lucifero e le schiere degli angeli precipitati dal cielo e dive-
nuti demoni. Nelle cupe notti senza luna, i diavoli inizia-
rono Lilith a tutte le stregonerie; le insegnarono a preparare
filtri magici, ad insidiare i sogni notturni degli adolescenti
e tutte le arti della menzogna e del sortilegio.
Lilith apprese tutto quello che c’era da apprendere,
ma sentiva di non appartenere alle legioni demoniache; lei
si sentiva impastata di luce e d’infinita capacità d’amare;
Sapeva che dove c’è luce poteva esserci ombra e dove c’è
amore immenso può albergare anche la delusione o il tra-
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dimento. Solo accettando di guardare la vita dritta negli oc-
chi o attraverso lo specchio deformante del segreto nasco-
sto, ne avrebbe potuto comprendere il senso!
Era consapevole che questi suoi saperi l’avrebbero
resa diversa dallo stereotipo femminile e sapeva che le sue
ali sarebbero state leggere come quelle delle farfalle e forti
e potenti come quelle dei predatori notturni. Ora che cono-
sceva tutte le altezze dell’amore e tutti gli abissi del male,
sentiva giunto il momento di prendere tra le mani il proprio
destino.
Adamo, invece, resosi conto dell’abbandono defini-
tivo da parte della sua donna, tornò per l’ennesima volta
dal Padre Eterno per chiedere aiuto. Egli, che tutto già sa-
peva, al fine di rassicurarlo gli promise di risolvere quanto
prima la dolorosa situazione. Lo fece cadere in un profondo
sonno e, mentre dormiva, tolse a lui una costola; da quella
creò Eva. La nuova femmina, nata dal corpo di un uomo,
era destinata, nei disegni divini, ad essere per sempre, e si-
curamente, subalterna all’uomo.
Adamo fu felice della sua nuova compagna la amò di tenero
amore, generò con lei figli e figlie. Nei suoi sogni notturni
però, e contro la sua volontà, spesso appariva Lilith. La sua
indimenticabile presenza turbava in modo inconfessabile e
profonda i suoi sensi.
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Questa leggenda sarebbe finita. Le Genesi passano a
narrare altri racconti, altri miti, altre storie, ma nessuna Ge-
nesi arriva a raccontare una cosa che né Dio né tantomeno
Adamo avevano messo nel conto:
… Avvenne un giorno, millenni e millenni dopo, che Lilith
ed Eva s’incontrassero, casualmente, sullo stesso sentiero.
Non ha importanza di quale sentiero si trattasse: quello che
portava ad un borgo oppure ad una grande città, quello che
conduceva al fiume oppure alla fonte, quello che saliva
verso i monti o quello che scendeva verso il mare! Né aveva
importanza alcuna quali scelte di vita avessero fatto, se fos-
sero sole o felicemente legate ad un uomo. Qualunque
fosse il sentiero della vita che stessero percorrendo, Lilith
ed Eva finirono per incontrarsi. Si guardarono negli occhi,
si riconobbero, i loro sguardi svelarono affinità e consape-
volezze più di quanto qualsiasi umana parola potesse mai
dire.
Si compresero immediatamente ed un lampo di luce
gioiosa e colma di intraprendenza balenò nei loro occhi. Sa-
rebbe stato duro ma non impossibile, tentare di creare, in-
sieme, un mondo più giusto, più vivibile e più autentico per
se stesse, per le figlie ed i figli di tutte le donne e per tutti
gli esseri viventi.
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Si resero conto di non essere più sole come all’inizio
del creato. Tutte le donne, un poco Eva ed un poco Lilith,
si stavano incontrando come antiche sorelle dimenticate
che potevano finalmente abbracciarsi libere da ogni impo-
sizione di compiti, ruoli, aspettative, carichi familiari e so-
ciali, doveri, piaceri, appartenenza a razze e religioni. E an-
che tanti uomini, stavano avviandosi sul sentiero della con-
sapevolezza; timidi, spauriti, stavano tentando quell’im-
pervio sentiero che richiedeva l’abbandono di tante, troppe,
false certezze.
Nei loro occhi e nel loro cuore, rimasero soltanto le
scelte ed i valori più autentici, consapevolmente voluti ed
accettati. Tutti insieme cominciarono a cantare, nello stesso
momento in tutte le parti del pianeta. Cantavano tutto
quello che volevano dirsi da tempo, e quel canto era un
lungo abbraccio attraverso il presente, il passato ed il fu-
turo. Un abbraccio luminoso come il primo raggio di sole
mattutino, caldo come la sabbia assolata e, come la terra,
fertile di promesse”.
La giovane ragazza, aveva ascoltato con grande at-
tenzione ed ora, mentre stava per porre una domanda alla
nonna, incontrò lo sguardo di lei. Ne indovinò un bagliore
dorato lungo un solo istante, lontano e profondo millenni e
millenni, un bagliore che raccoglieva la forza e la dolcezza
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di tutte le donne prima di lei, ma anche di tutte quelle che
sarebbero venute dopo. Senza quasi rendersene conto, Fata
Draga raccolse e fece suo quel bagliore, e con quello, anche
forza e dolcezza, coraggio e lacrime, paura e tenacia, gioia
e tristezza, struggimento e speranza.
Raccolse tutto questo e lo chiuse, come tesoro pre-
zioso, nello scrigno segreto ove nascondeva i suoi sogni, il
suo amore e tutti i suoi desideri più cari, e comprese allora,
che era giunto il momento di prendere in mano la propria
vita. Si strinse alla nonna, forte forte, sussurrando sempli-
cemente “grazie”. Non sapeva se l’avrebbe più rivista, e
non sapeva se avrebbe rivisto i suoi genitori ed i suoi fra-
telli. Abbracciò anche loro quella sera, con tutto l’affetto
possibile; avrebbero certamente capito!
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CAPITOLO III
LUNGO IL SENTIERO DI ERSILIA
(… c’era una volta e una volta non c’era…)
C’è un posto al mondo
Che più d’ogni altro amo.
Ha dolci colli e generosi ulivi…
…Vi affondano le mie radici
Vi inventa tregue la mia esistenza
Vi custodiranno le mie ceneri
E’ la mia terra e la mia gente.
La mia Sabina
(Teresa Principessa)
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Fata Draga preparò soltanto una piccola borsa con
dentro lo stretto indispensabile; pochi abiti, il suo diario,
una matita e il suo scrigno dei desideri. La notte fu lunga e
buia perché, per la prima volta, non trattenne l’ultimo rag-
gio di sole a farle compagnia.
Aspettava il primo raggio di sole del nuovo giorno
e, appena apparve all’orizzonte, Fata Draga si fece trovare
pronta per il viaggio. Sapeva di avere pochissimo tempo
per farsi trasportare lontano, il tempo che la luce impiegava
per sorgere da oriente e raggiungere l’occidente. Balzò ve-
locemente a cavallo di quel raggio di sole e volò sopra le
case, le pianure e le montagne, traversò un braccio di mare
e poi ancora monti e valli fino a quando il primo raggio di
sole la depositò con leggerezza in una nicchia all’interno di
un’antica quercia, dove Fata Draga, finalmente, si addor-
mentò esausta.
Solo al crepuscolo si svegliò, chiedendosi dove mai
si trovasse. Non c’erano luci di città intorno a lei, solamente
quiete e silenzio. Realizzò di trovarsi su di una collina non
molto alta, coperta di verde e posta alla confluenza di due
fiumi, uno lento e maestoso ed uno più piccolo, nel quale si
specchiava la vegetazione. Poco lontano si vedevano delle
rovine circondate da fortificazioni ormai in disuso ma nes-
sun cenno di vita umana. Stava allontanandosi per cercare
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un sentiero praticabile, quando una figura femminile av-
volta in un ampio mantello, apparve al suo fianco. Era una
donna bellissima, fiera nello sguardo e con il viso dai linea-
menti delicati. Si sedette accanto a lei e prese a dire:
“E’ da molto tempo che ti stavo aspettando. Il mio
nome è Ersilia figlia di Curzio principe degli Antemnati.
Questo è il luogo dove sorgeva la mia città Antemne non
lontana da Fidene e Crustomerio, antiche città preesistenti
a Roma. Io sono colei che, portata via dai romani con l’in-
ganno, venni reputata come la più bella delle sabine rapite
e portata al cospetto di Romolo. Pur nel dolore, la paura e
la rabbia, mi innamorai di lui non appena lo vidi e lui si
innamorò di me. Mi scelse non solo perché ero la più bella,
ma anche per l’orgogliosa fierezza che lesse nei miei occhi
pieni di lacrime.
L’austera educazione ricevuta da mio padre, mi impose di
resistere alle lusinghe amorose per lungo tempo. E lo feci
solo per ubbidienza al volere paterno e non perché il mio
cuore non volesse. La mia volontà resisteva all’amore, per-
ché la mia gente non riteneva possibile che l’amore potesse
nascere e nutrirsi d’inganno e di violenza. Romolo com-
prese che, una donna come me, non poteva essere presa con
la forza, mi tenne nella sua casa con onore e rispetto, aspet-
tando pazientemente che il mio cuore si aprisse a lui.
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Per lungo tempo nelle mie orecchie hanno risuonato, le
urla, le imprecazioni e i lamenti che seguirono al tradi-
mento dei fondatori della nuova città. Tutto accadde nel
giorno in cui si festeggiavano le Consualia in onore del Dio
Conso venerato dalle popolazioni sabine e dai romani che
avevano fondato da poco Roma.
Intorno a quella nuova città c’erano altre genti, popoli
molto più antichi e villaggi operosi. Le stagioni cadenza-
vano il nostro tempo: si coltivava il frumento, la vite e
l’ulivo, si allevava il bestiame e si veneravano i nostri dei,
affinché proteggessero i raccolti e le persone. Da bambina
fui consacrata a Larunda, antica e misteriosa divinità sa-
bina, protettrice della famiglia e della casa, e questi valori
erano fortemente radicati in me. Venni promessa ad un gio-
vane valoroso, mentre aspettavo di crescere, per sposarmi
ed avere dei figli con lui.
Romolo e gli altri giovani romani lamentavano la
mancanza di donne nella città di Roma appena fondata, de-
sideravano delle mogli con le quali mettere al mondo figli
e figlie che avrebbero fatto grande la loro città. Avevano
più volte chiesto ai capifamiglia Sabini di avere figliole in
spose, ma i Sabini non avevano concesso le loro donne. Al-
lora Romolo architettò un piano. Fece diffondere, ad arte, la
notizia di aver trovato, durante gli scavi per la costruzione
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della nuova città, l'altare del dio Conso e di volerne cele-
brare il ritrovamento con una gara ed una festa solenne, alla
quale sarebbero state invitate le popolazioni vicine a Roma.
Arrivò moltissima gente, anche per il desiderio di
vedere la nuova città, soprattutto vennero, più numerosi,
coloro che abitavano più vicino: i Ceninensi dai Colli
Anieni, i Crustumini e gli Antemnati dalla zona tra il Te-
vere e l’Aniene. I Sabini, poi, vennero al completo con tanto
di figli, figlie e consorti al seguito.
Dopo aver visto la posizione della città, le mura for-
tificate e la grande quantità di abitazioni, gli ospiti furono
invitati nelle case romane, e tanta fu la loro meraviglia nel
vedere la rapidità con cui Roma era cresciuta! Durante lo
spettacolo previsto, quando tutti erano concentratissimi sui
giochi, scoppiò un tumulto non a caso, ma organizzato ad
arte dai giovani romani e, ad un preciso segnale di Romolo,
i romani si misero a correre all'impazzata per rapire le ra-
gazze. Molte finivano nelle mani del primo in cui si imbat-
tevano, ma quelle che spiccavano sulle altre per bellezza,
destinate ai senatori più insigni, venivano trascinate nelle
case di questi ultimi, da plebei cui era stato affidato quel
compito. Finito lo spettacolo nel terrore, gli uomini sabini
ed i padri delle fanciulle che erano venuti senza armi per-
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ché convinti che si trattasse di una festa amichevole, fuggi-
rono affranti. Accusarono i romani di aver violato il patto
di ospitalità ed invocarono la vendetta del dio Conso, in
onore del quale erano venuti a vedere i giochi solenni.
Le giovani rapite, d'altra parte, spaventate ed in
preda alla collera, temevano per il loro destino e si stringe-
vano le une alle altre, chiedendo di non essere separate. Ro-
molo in persona si aggirava tra di loro e le informava come
il ratto fosse diventato l’unica soluzione possibile anche a
causa dell’arroganza dei loro padri che avevano negato ai
romani, la possibilità di contrarre matrimoni con donne sa-
bine in età da marito. Egli cercava di rassicurare le donne
sul fatto che sarebbero diventate loro spose, sarebbero state
onorate e rispettate in quanto mogli ed avrebbero condiviso
tutti i loro beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro
agli esseri umani, i figli che avrebbero avuti.
Per queste ragioni, Romolo supplicava le donne af-
finché frenassero la collera e affidassero il cuore a colui al
quale la sorte aveva già destinato il loro corpo. Citava il
detto che “Spesso al risentimento di un affronto segue l'ar-
monia dell'accordo” ed esse avrebbero avuto dei mariti
tanto migliori in quanto, compiendo il loro dovere di spose,
ciascun romano si sarebbe allora impegnato a supplire alla
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mancanza dei genitori e della patria. A tutto questo si ag-
giungevano le promesse di attenzioni speciali da parte dei
mariti stessi, i quali giustificavano il ratto con il trasporto
della passione e giuravano amore eterno e devozione, argo-
menti tra i più efficaci nei confronti dell'indole femminile.
I nostri padri, però, che avevano subito l’inganno ed
avevano visto le loro figliole rapite con la forza dai Romani,
meditavano vendetta ed inviarono spedizioni militari a più
riprese contro Roma. Per primi furono sconfitti i Ceninensi,
poi la mia gente, gli Antemnati ed infine i Crustumini.
I Romani, dopo aver vinto le battaglie, occuparono
le nostre terre inviando dei coloni nei nuovi territori con-
quistati. Roma diventava sempre più grande. Un ultimo at-
tacco fu tentato dai guerrieri delle varie famiglie sabine al-
leatesi tra di loro, per cercare di sconfiggere Roma.
Noi, Sabine rapite, sentivamo crescere angoscia ed
ansia nei nostri cuori. Da una parte c’erano i nostri padri,
dall’altra i nostri mariti. Eravamo legate alla nostra terra
d’origine, ma stavamo imparando ad amare Roma e quegli
uomini che, pur avendoci sottratto con la forza alle nostre
genti, si dimostravano mariti esemplari. Io stessa, avevo
aperto una breccia nel mio cuore e, con il tempo, stavo im-
parando ad amare l’uomo che non mi aveva violentato, pur
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potendolo fare, e cercava di conquistare il mio amore con
attenzioni e rispetto.
Così accadde che, mentre infuriava la battaglia, noi
donne unite le une alle altre, ci lanciammo tra i due eserciti,
nel mezzo di una pioggia di frecce e lance, per cercare di
dividere i contendenti con il nostro corpo e di placarne la
loro collera distruttiva. Qualcuna di noi aveva il proprio
piccino attaccato al seno. Urlavamo a voce altissima di
smettere, ed eravamo come possedute da un Dio. Grida-
vamo i nomi dei nostri padri e quelli dei nostri mariti, pre-
gandoli di deporre le armi e chiamando con i nomi dolcis-
simi della nostra infanzia i nostri padri e con quelli dei mo-
menti d’amore i nostri mariti. Supplicavamo di non com-
mettere crimini orribili macchiandosi del sangue di un suo-
cero e di un genero, per il bene dei figli che avremmo par-
torito o che già avevamo tra le braccia. Perché preferivamo
morire piuttosto che vivere senza padre o senza marito.
Non volevamo diventare orfane o vedove!
I due schieramenti ebbero momenti di incertezza e
noi ne approfittammo per metterci, compatte tra di loro, an-
che a rischio di rimanere uccise. Gli uomini si fermarono
per non farci del male e non colpire donne inermi mosse
solo dall’amore filiale e maritale. Terminata la guerra, si de-
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cise di stipulare un patto di pace che unificasse il Regno Sa-
bino, il cui re era Tito Tazio, con quello di Roma il cui re era
Romolo. Tutto il potere decisionale fu accentrato a Roma e,
in onore di Cures capitale della Sabina, il popolo romano
avrebbe preso il nome di popolo dei quiriti ed i sabini si
sarebbero insediati sul Colle Quirinale. Romolo e Tito Ta-
zio, regnarono insieme per molti anni rendendo Roma una
città grande a forte.
Ecco come l’amore poté vincere le ire bellicose degli
uomini. Noi donne guardavamo al futuro, pensavamo al
bene dei nostri figli e non c’era spazio per la vendetta nei
nostri cuori. Fu così che mi sentii libera di amare Romolo
con tutto l’amore che avevo. Fummo felici insieme per lun-
ghi anni e l’offesa iniziale fu seppellita per sempre.”.
Fata Draga aveva ascoltato la voce di Ersilia che,
mentre narrava, l’aveva trasportata tra quelle genti antiche,
condividendo con loro l’orrore del tradimento, il desiderio
dei romani di avere spose e generare figli, la guerra distrut-
tiva, la vendetta e infine la riappacificazione. Aveva condi-
viso, soprattutto, il coraggio e la determinazione delle
donne sabine nel ricercare la pace e la vita su quei campi
dove si rischiava l’annientamento. Ersilia era riuscita a ren-
derla partecipe di quei momenti terribili e, con lei, lei aveva
sentito il fragore delle armi, i gridi di guerra, l’odore del
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sangue e le suppliche delle donne. Ora erano ambedue
stanche e mentre l’aurora cominciava a tingere il cielo di
rosa, si abbracciarono, come a suggellare un’intesa.
“Debbo andare - disse Ersilia – il mio compito è con-
cluso. Nessun libro avrebbe mai potuto narrarti questa sto-
ria come tu l’hai ascoltata dalla mia viva voce. Tu sei gio-
vane, ricca di energia e coraggio, non dimenticherai la mia
testimonianza”. Detto questo e prima di congedarsi, cercò
con lo sguardo quello della giovane donna. Fu uno sguardo
lungo e caldo, che conteneva affetto, sapienza, coraggio e
determinazione. In quello sguardo Fata Draga vide nuova-
mente, e per un solo istante, quel bagliore dorato nel quale
riconobbe tutte le donne come Ersilia, quelle che erano vis-
sute prima di lei, e quelle che sarebbero venute dopo.
La luce rosata dell’aurora portò via Ersilia con sé ed
il nuovo primo raggio del mattino raccolse Fata Draga, per
depositarla poco distante, sul crinale di un rialzo del ter-
reno, dove sorgeva una costruzione rotonda, circondata dal
verde. All’interno il luogo era buio e fresco e Fata Draga
intravide ricche decorazioni di mosaici preziosi.
Fata Draga trovò un angolo appartato, dove vi era
una panca di marmo, si distese e, poiché era molto stanca,
si addormentò.
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CAPITOLO IV
LUNGO IL SENTIERO DI ANGERONA
(… c’era una volta e una volta non c’era…)
(Disegno di Patricia Mathews)
… ma qual nome ora, de' tuoi tre nomi,
dirà l'Italia? Il nome arcano è tempo
che si riveli, poi ch'è il tempo sacro.
Risuoni il nome che nessun profano
sapea qual fosse, e solo nei misteri
segretamente s'inalzò tra gl'inni…
Giovanni Pascoli
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Si svegliò solo quando l’ultimo raggio di sole le ca-
rezzò per pochi secondi la fronte, prima di scomparire oltre
l’orizzonte. Fata Draga si guardò intorno, stropicciandosi
gli occhi. Ancora una volta si risvegliava in un luogo a lei
sconosciuto. Aveva sentito delle voci femminili venire
verso di lei. Per un momento aveva pensato di trovarsi a
Bucur e di essersi addormentata nel solaio della casa dove
era nata e che quelle voci fossero di sua madre e di sua
nonna che la stavano cercando. Non riusciva, però, a vedere
nessuna persona e ricordò, tutto ad un tratto, quanto fosse
lontana Bucur e quanto fossero lontani i suoi cari.
Ebbe un tuffo di nostalgia ed un attimo di incertezza.
Aveva abbandonato le calde sicurezze della sua famiglia,
gli affetti più cari e si trovava in una terra straniera e miste-
riosa. Aveva fatto la cosa giusta? Era questo quello che vo-
leva veramente? Abbandonare certezze per inoltrarsi lungo
sentieri sconosciuti? Mentre pensava a tutto questo, i suoi
occhi si abituavano all’oscurità del luogo dove si trovava e
poté finalmente distinguere due figure femminili poco lon-
tane. Venivano verso di lei tenendosi per mano. Parlotta-
vamo a bassa voce e le loro parole erano come una dolce
cantilena.
Erano già emerse dall’ombra e si avvicinavano al suo
giaciglio. Ecco, ora le vedeva benissimo; una donna dalla
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lunga tunica rossa ed oro con la bocca bendata e gli occhi
spalancati quasi a voler parlare solo con l’intensità del suo
sguardo. Teneva per mano un’altra donna, non giovane ma
molto bella, agghindata come un’antica matrona romana,
dall’aria regale ed autorevole.
Giunte che furono vicino a Fata Draga, che stupita
osservava la scena senza proferire parola alcuna, la ma-
trona tolse con delicatezza la benda dal viso dell’altra, sco-
prendo due labbra carnose e sensuali. Le labbra, liberate
dalla benda, si atteggiarono a dolcissimo sorriso, e la voce,
liberata dalla benda che la teneva prigioniera, cominciò a
fluire formulando dapprima parole che sembravano venire
da molto lontano e poi, pian piano, il tono della voce di-
venne sempre più comprensibile. La donna si presentò
come Angerona dicendo: “La mia voce è prigioniera di un
sortilegio che mi chiude le labbra, perché conosco un se-
greto che non posso svelare ad alcuno. Stanotte, le mie pa-
role fluiranno come acqua di sorgente purissima, perché
sono qui per offrirti conoscenza. Pochi esseri umani meri-
tano questa mia fiducia, ma tu la meriti, poiché sei una ra-
gazza coraggiosa e determinata a raggiungere la consape-
volezza più profonda.
Io sola conosco il nome segreto di Roma, sul quale
molti uomini si sono interrogati lungo i secoli. Tale nome è
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nato insieme alla città eterna ed è stato tramandato nei
tempi solo per via regale sino a giungere ai Cesari. Da Ro-
molo in poi, i re della città eterna pronunciavano il nome
segreto della città, sottovoce e solo nelle cerimonie solenni.
Mai doveva essere pronunciato fuori di esse, perché il nome
celeste di Roma era sacro e pronunciarlo fuori dalle cerimo-
nie sacrali, significava essere condannati a morte. Solo il
Pontefice Massimo, colui che come un ponte collegava i bi-
sogni degli uomini al volere degli dei durante i sacrifici ri-
tuali, lo mormorava a voce bassa.
Il Pontefice Massimo era la massima autorità reli-
giosa, era il capo del collegio dei pontefici che presiedevano
alla sorveglianza e al governo del culto religioso presso i
romani. Nominava i Flamini che erano sacerdoti con il com-
pito di servire una divinità specifica, della quale dovevano
seguire il culto e le festività, ed il Rex Sacrorum, sacerdote
al quale erano affidate le funzioni religiose compiute, un
tempo, dai re. Il Pontefice Massimo aveva anche il potere di
nominare le Vestali ovvero le sacerdotesse di Vesta.
Vesta era la dea del focolare domestico, venerata in
ogni casa e il cui culto consisteva principalmente nel man-
tenere acceso il fuoco sacro: le sacerdotesse legate al suo or-
dine, avevano proprio il compito di custodire il fuoco sacro
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alla dea, acceso all’interno del tempio a lei dedicato, fa-
cendo in modo che non si spegnesse mai. Le sacerdotesse
di Vesta erano dieci, scelte tra le fanciulle più nobili della
città. L’essere scelta costituiva un onore per la fanciulla e la
sua famiglia. Al momento della consacrazione, durante la
cerimonia detta della “cattura”, il Pontefice Massimo pro-
nunciava le parole rituali “Ego te amata capio” (Io ti
prendo, amata) a seguito delle quali la fanciulla veniva po-
sta sotto il suo potere, uscendo per sempre dalla potestà pa-
terna.
I compiti della vestale erano essenzialmente tre: te-
ner vivo il fuoco di Vesta, pulire il tempio della dea, - in
particolare nel giorno del cosiddetto "rito della stercoratio"
che si celebrava ogni 15 giugno, nel corso del quale le sacer-
dotesse, dopo aver spazzato il tempio, portavano l’immon-
dizia sul colle Capitolino - ed infine la preparazione della
mola salsa, una speciale farina salata che, in occasione dei
sacrifici animali, si spargeva sulle vittime, sull’altare e sul
coltello del sacrificante. Per compiere degnamente questi
compiti, le Vestali dovevano essere pure; per questa ra-
gione, erano tenute a prestare un voto di castità trentennale
e, qualora lo avessero infranto, venivano punite in modo
terribile; murate vive.
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La mia immagine sacra era custodita nel tempio di
Volupia e, nel giorno del solistizio di inverno, veniva espo-
sta in pubblico. Venivo rappresentata come una donna bel-
lissima con il dito sulle labbra chiuse, a significare il silenzio
ed a ricordare il nome impronunciabile di Roma che io cu-
stodivo. Per questo la mia bocca veniva perennemente ben-
data, affinché neppure durante la notte o nel sonno mi sfug-
gisse tale nome.
Questo divieto, metteva Roma al riparo dalle male-
dizioni scagliate dai nemici della città come pure dalle pre-
ghiere dei conquistatori. Proprio i Romani avevano potuto
verificare come l’aver pregato Uni Sospita, patrona della
città di Veio, durante l’assedio della città etrusca, promet-
tendole che sarebbe stata adorata meglio di quanto faces-
sero gli attuali abitanti, la battaglia volse a favore dei Ro-
mani che conquistarono così Veio.
Il nome di una città era comunque considerato sino-
nimo di potenza e grandezza magica, quindi pronunciarlo
significava acquisire tali forze, perché la “parola” è evoca-
tiva. Detto ciò, non si doveva conoscere nemmeno il nome
della divinità protettrice di Roma, onde evitare che questa
potesse cedere alle lusinghe dei nemici come era accaduto
a Veio. Queste precauzioni facevano sì che addirittura il
sesso del nume che proteggeva Roma, non doveva essere
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rivelato. Furono apposte iscrizioni sotto le statue degli dei
protettori, alle porte della città e sui suoi colli che dicevano:
"Sei Deo sei Deas" che vuol dire "Sii tu un Dio o una Dea",
proprio per confondere i nemici della città.
Questa notte sono qui, per accompagnarti e per il-
luminarti nel tuo percorso, perché sapevo del tuo arrivo,
come della tua sete di conoscenza e del tuo desiderio di tro-
vare il sentiero più giusto, quello che ti porterà verso la
completezza. Ed io ho voluto mi fosse tolta la benda per
poterti parlare, perché attraverso il racconto di me, penso
di poterti offrire una traccia della quale potresti avere biso-
gno.
Devi sapere che a Roma, non è mai stato eretto un
tempio in mio onore, e la mia statua era ospitata nel tempio
della dea Volupia, la Dea dei desideri appagati. A me si ri-
volgevano gli amanti, perché ero la depositaria dei desideri
segreti, in particolare i desideri legati all’amore che non do-
veva essere svelato. Anche l’amore per Roma aveva il suo
segreto: era il nome segreto di Roma, che era stato dato alla
città dai padri fondatori e che non doveva essere svelato a
nessuno.
Io sono la Dea del Silenzio dell’Inverno, quando la
sera cala presto ed il buio dura a lungo. Sono la Dea del Sole
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morente e al contempo nascente. La mia festa cadeva du-
rante il Solstizio d'Inverno. Ero considerata la Dea che
porta alla luce della conoscenza ciò che solitamente è silen-
zioso e invisibile, come ad esempio il sapere interiore e tutto
ciò che solo nel silenzio può essere trovato. Non debbo ag-
giungere altro, perché quello che ti ho già detto illuminerà
la tua strada, senza bisogno di aggiungere nulla.
Tanaquil che mi accompagna, benderà di nuovo la
mia bocca, perché quel nome non esca dalle mie labbra, ma
sia tu a trovarlo. Ho un dono per te, un piccolo specchio
d’argento cesellato e sarà proprio questo che ti svelerà,
quando sarà il momento, il segreto di Roma ed il segreto
della tua felicità.”.
Ciò detto si volse verso Tanaquil, la quale con deli-
catezza, pose di nuovo la benda sulla bocca di Angerona.
Tacque la voce che sino a poco prima narrava e i suoi occhi
diventarono più luminosi, quasi a voler compensare, con la
forza dello sguardo, le parole prigioniere dietro la benda.
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CAPITOLO V
LUNGO IL SENTIERO DI TANAQUIL
(… c’era una volta, e una volta non c’era …)
Ho abitato l'aria nera col coraggio della notte
sognando il dolore e il male. Ho cercato le calde caverne
nei boschi, le ho riempite di pentole, sculture, scaffali, armadi,
sete, oggetti innumerevoli ……. ho ballato e danzato nuda,
ho parlato a fiumi e ruscelli e ad ogni creatura nelle notti
più gelide e più calde. Ho ascoltato e amato.
Una Donna così viene facilmente fraintesa!
Ho imparato le ultime strade illuminate sopravvivendo
con le fiamme alle cosce e le costole rotte dalla ruota.
Una Donna così non si vergogna di morire.
Erica Jong
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Tanaquil si avvicinò a Fata Draga e carezzandole i
capelli le disse: “Come sei giovane! Hai nelle tue mani tutti
i doni che la vita ti ha riservato. Non sciuparli, solo per la
paura di osare, non permettere al tempo di rendere opaco
il tuo sguardo, perché lo sguardo è l’unica forza che può
restare vivida anche nel viso di una donna anziana e pro-
vata dagli eventi della vita. Lo sguardo, più della parola, ha
la forza segreta del tuo animo e può condurre il tuo deside-
rio, anche il più segreto, verso la sua realizzazione”.
Così dicendo si soffermò a lungo negli occhi di Fata
Draga e la giovane ragazza comprese che questa anziana
donna diceva il vero, perché vide lo stesso bagliore dorato
visto negli occhi di sua nonna e che ormai sapeva ricono-
scere. Doveva averne parecchi di anni e le sue spalle dove-
vano aver sopportato responsabilità tremende, perché
erano curve e stanche. Eppure la sua figura esprimeva au-
torevolezza ed il suo viso, anche se appassito, era comun-
que di una bellezza espressiva, sottolineata dal color avorio
della carnagione.
Tanaquil colse la curiosità e gli interrogativi di Fata
Draga, si assicurò che Angerona stesse comodamente se-
duta e, non senza fatica, si accoccolò essa stessa vicino a
Fata Draga per cominciare a narrare:
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“Come puoi intuire dal mio aspetto, sono di nobile
discendenza ed abituata a benessere e potere. Le vicende
della mia vita, che ha dell’incredibile, sono legate ad un
esule greco di nome Demarato, fuggito da Corinto a causa
del tiranno, Cipselo, che allora governava in quella città.
Demarato, dopo aver girato a lungo per i porti del
mar Ionio e del Tirreno, si rifugiò a Tarquinia, dove già esi-
steva una colonia di artigiani corinzi. A Tarquinia Dema-
rato si sposò con una donna del luogo ed ebbe due figli di
nome Lucumone ed Arunte. Lavorò alacremente, ed es-
sendo un bravissimo artigiano, divenne ricco in breve
tempo. Solo Lucumone sopravvisse al padre Demarato ed
al fratello Arunte che morirono a pochi giorni di distanza
l’uno dall’altro, Prima Arunte e poi suo padre. E anche se
Arunte lasciava una moglie incinta e prossima al parto, alla
morte di Demarato, Lucumone ereditò tutte le ricchezze pa-
terne. Divenne all’improvviso ricco ed avrebbe voluto far
pesare questa sua ricchezza per avere un ruolo di potere nel
governo della città.
Nella città di Tarquinia, Lucumone veniva reputato
uno straniero figlio di un uomo venuto da lontano e trattato
con diffidenza, per cui non c’erano possibilità di governo
per un uomo come lui. Io, allora giovanissima, mi innamo-
rai ricambiata di questo uomo ingegnoso e capace, che i
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Tarquini non sapevano valorizzare solo perché di origini
straniere. E fui proprio io, quando divenni la sua sposa, a
mettergli nel sangue, insieme alle gioie dell’amore, la sma-
nia di emergere e di farsi valere.
Leggevo tra le rughe della sua fronte, l’insoddisfa-
zione profonda per riconoscimenti pubblici negati che sa-
peva di meritare, e questa sua insoddisfazione ben si legava
alla mia, che avrei voluto essere la moglie riconosciuta di
un uomo ricco e potente. Ritenevo che fossimo trattati male
in terra Etrusca, nonostante le ricchezze, le capacità ed il
benessere che c’eravamo conquistati.
Una sera presi la grande decisione. Mi feci più dolce
e seduttiva del solito, presi il discorso alla larga e convinsi
mio marito ad andare via dalla Città Etrusca così matrigna
con i suoi figli, per recarci a Roma, città nuova, fondata da
genti inesperte di cose di potere.
Lucumone convenne con me sul fatto che Roma
fosse davvero la città adatta a noi. Un popolo giovane, ove
non doveva essere difficile diventare nobili e potenti, pur-
ché si avessero intelligenza e cuore saldo. Se nella nuova
città di Roma aveva trovato cittadinanza, accoglienza ed
onori un re sabino come Tito Tazio, nonostante il triste epi-
sodio del ratto delle donne sabine, se Numa Pompilio
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aveva potuto regnare ben quarantatré anni succedendo a
Romolo ed essendo anche lui di origini sabine, se lo stesso
Anco Marzio era diventato re ed aveva esteso il dominio di
Roma sino alle Terre Latine, quale traguardo poteva dirsi
impossibile a due giovani ricchi, ambiziosi e abituati alle
lotte di potere come quelle che si consumavano a Tarqui-
nia?
Mi fu facile convincere mio marito a lasciare la no-
stra città natale per recarci verso Roma. Partimmo dopo
qualche giorno lasciando la patria ingrata. Scendemmo il
ripido pendio che dalla città portava verso il litorale, co-
steggiammo il mare sino alle foci del Tevere, per poi risalire
il fiume verso Roma.
I sette colli della città appartenevano ormai tutti alle
genti romane, ma Anco Marzio aveva annesso di recente,
alla città, un altro colle: il Colle Gianicolo, non perché sugli
altri colli non ci fosse più spazio per abitare, ma solo per
evitare il rischio che qualche popolo nemico si appropriasse
del Gianicolo per insidiare il potere di Roma. E questo non
doveva assolutamente accadere.
Proprio mentre ci trovavamo, con tutti i nostri averi
caricati sui carri e meditando di trovare posto proprio sul
52
Gianicolo, accadde un prodigio: un’aquila scese su Lucu-
mone, gli portò via il cappello, si alzò nel cielo compiendo
ampie evoluzioni e poi planò una seconda volta per ripo-
sare il cappello di nuovo sul capo di mio marito. Io ne fui
stupita e felice perché, da esperta di aruspicina, sapevo in-
terpretare gli eventi e quello che si era svolto sotto i miei
occhi, era un prodigio che non poteva che portare presagi
favorevoli dato che l’aquila, messaggera di Giove, era da
sempre associata a potere, fortuna, ricchezza.
Ci sistemammo ai piedi del colle Gianicolo e fu allora
che iniziò la mia opera di persuasione su mio marito prima
e sul popolo romano poi, per dimostrare come Lucumone
fosse destinato a diventare re di Roma. Con acutezza e com-
pleta dedizione al mio uomo, costruii pezzo dopo pezzo un
progetto che puntava il più in alto possibile, per lui e per
me.
Così spiegai subito, a tutti coloro che si interroga-
vano sul prodigio, la significanza di quello che l’aquila
aveva fatto: l’uccello è messaggero di Giove, manifesta-
zione della sua volontà, è giunto proprio dalla parte mi-
gliore del cielo, gli ha portato via il berretto per avvicinarlo
al dio, consacrarlo, restituirglielo divinizzato. Lucumone,
ora, aveva Giove al suo fianco e coloro che udivano questa
storia, ne rimanevano conquistati.
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Pensando di aver troppo osato, per lungo tempo re-
stai nell’ombra di Lucumone, perché non si dicesse che ero
troppo ambiziosa. Tra le pareti della nostra casa romana,
ero io a consigliare, a suggerire, anche a dirigere Lucumone
nelle azioni più adatte al nostro comune disegno, perché
volevo fortemente che il mio uomo, diventasse re di Roma.
Cercai un nome più romano per lui e da quel mo-
mento Lucumone divenne Tarquinio Prisco. Imparò a di-
stinguersi in ogni campo, civile e militare, nel pubblico e nel
privato sino a quando il Vecchio Re Anco Marzio non lo
nominò tutore dei suoi figli. Quando Anco Marzio morì
molto vecchio, Tarquinio Prisco diventò abilissimo, sempre
da me consigliato, nel condurre la propria campagna elet-
torale attraverso meriti veri e presunti e ricordando sempre
la storia del prodigio che lo voleva re di Roma. Ed io, appa-
rentemente nell’ombra, spargevo d’intorno sorrisi, parole
che attestavano le capacità di mio marito, consapevole di
quanto sarebbe stato difficile far accettare ai romani, l’idea
di scegliere un re di provenienza etrusca.
Ero sempre pronta ad imbeccarlo, a fargli notare ciò
che rischiava di sottovalutare, attenta e decisa a sostenerlo
verso la gloria che meritava.
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E finalmente accadde. Tarquinio Prisco fu re, un re
di grande successo. Fece entrare nella Curia altri cento
nuovi senatori, le sue armate presero a vincere ovunque e
Roma, sotto di lui, diventò una vera città invidiata da tutti
gli altri popoli allora conosciuti. Con furbizia, seguendo i
miei consigli, re Tarquinio non smetteva mai, lui etrusco, di
esaltare la forza ed il coraggio dei romani. Sempre consi-
gliandosi con me, destinò un’area del Campidoglio al culto
di Giove, con grande gioia e consenso del popolo romano.
Qualche storico ha scritto di me, dipingendomi come
intrigante e manipolatrice. Nessun poeta, scrittore o com-
mediografo, in tutti questi secoli, ha speso parole benevole
per la mia persona. Queste voci che mi descrivono intri-
gante, hanno forse una loro ragione. Quando un complotto
di palazzo portò a morte Tarquinio Prisco io, anche se ad-
dolorata per la morte del mio sposo, mi resi conto che la
mia vita e la stessa situazione politica di Roma, erano ad
una svolta pericolosa. Mentii allora al popolo, dicendo che
Tarquino Prisco non era morto, ma solo ferito. Con la soffe-
renza nel cuore ed il sorriso sulle labbra dissi che il re do-
veva essere curato e riposare nella parte più segreta della
sua casa.
Nel frattempo, cominciai a raccontare di un altro
prodigio che riguardava Servio Tullio, marito di una delle
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mie figlie. Raccontai al popolo come Servio mi fosse ap-
parso, in sogno, con una corona di fuoco intorno alla testa
e di come questo stava a significare la volontà di Giove su
chi dovesse essere il nuovo re: non uno dei miei figli maschi
e del mio sposo, che pure ne avevano diritto senza averne
la capacità, ma lui Servio Tullio.
Feci questo discorso in modo diretto, assumendomi
tutto il peso di una decisione rischiosa e parlando diretta-
mente al cuore della gente. Perché il vero re di Roma ero
sempre stata io, ed ero io la padrona delle situazioni, anche
quelle più difficili e dolorose. Io, Tanaquil, donna straniera
che ero riuscita a procurarmi due regni, quello per mio ma-
rito e quello per mio genero.
Molte donne, mogli, figlie ed amanti, nei secoli suc-
cessivi, cercarono di imitarmi, riconoscendomi capacità e
determinazione. Per molto tempo la conocchia che avevo
usato per filare, nel buio della mia casa, fu conservata nel
tempio di Sanco, una divinità umbro-sabina. Il mio man-
tello, invece, che avevo intessuto con le mie mani per Tar-
quinio Prisco proprio utilizzando il filo lavorato con quella
conocchia, fu venerato nel tempio della dea Fortuna. Gli
storici furono cattivi con me, ma il popolo romano mi sti-
mava e mi amava.
56
Amava me, Tanaquil, donna e moglie devota e fe-
dele, costruttrice di politica, astrologa, capace di trarre au-
spici dal volo degli uccelli. Mi amava perché la tenacia e la
fiducia nelle mie capacità non mi avevano mai abbando-
nato, neppure nei momenti più difficili! E morii da regina,
come del resto avevo vissuto, lasciai la terra dei vivi in età
molto avanzata, circondata dall’affetto dei miei cari e dalla
devozione che il popolo romano provava nei miei con-
fronti. Coloro che salirono al trono di Roma dopo la mia
morte, criticarono la mia ambizione e vi lessero solo desi-
derio di potere. Io sapevo quanta invidia e malevolenza
maschile circondano una donna capace e volitiva. Eppure
sapevo filare per ore nella penombra della mia casa, eppure
sapevo stare in disparte quando era il momento di farlo,
sempre un gradino più in basso di Tarquinio Prisco, felice
solo degli sguardi d’intesa che lui mi mandava! Forse non
mi fu mai perdonata sagacia ed intelligenza, spregiudica-
tezza ed acume. E’ il prezzo, che ho pagato volentieri, per
essere stata me stessa, nel bene e nel male”.
Nel dire queste ultime parole Tanaquil guardò lon-
tano, come se sentisse qualcuno arrivare. Poi, dando un’ul-
tima carezza ai capelli di Fata Draga, la salutò dicendo:
“Ora devi andare; ecco il primo raggio di sole che viene a
portarti via. Ti solleverà veloce, viaggiando verso ovest.
Vedrai una breve discesa, con un avvallamento nel quale
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scorre Ostrio, un fiumiciattolo che si getta nell’Aniene.
Sulla sponda sinistra, guardando verso nord, il terreno ri-
sale verso l’alto. Lì passa l’antica Via Salaria, che in quel
punto costeggia boschi e catacombe prima di attraversare il
ponte sul Fiume Aniene.
Devi solo aspettare che il giorno finisca e, al calar del
sole, passerà di lì un carro carico di bauli e viveri scortato
da alcuni cavalieri. Su quel carro viaggia una fanciulla gio-
vane come te, accompagnata dalla sua matrigna. Ricono-
scerai la fanciulla dal suo volto dolce e malinconico, è sol-
tanto una ragazza, ma ascolta quello che ti vorrà dire e ac-
compagnala per un tratto del suo viaggio verso Petrella
Salto. La sua sofferenza è incontenibile ma lei vorrà lo
stesso farti un dono. Accettalo, qualsiasi cosa sia, perché
sarà un dono legato alla disperazione, all’amore, alla spe-
ranza e, anche nella tragedia, un dono di vita nonostante la
morte”.
Fata Draga non comprese bene le ultime parole di
Tanaquil, perché il primo raggio di sole del mattino la stava
già portando via.
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CAPITOLO VI
L’AMARO SENTIERO DI BEATRICE
(… c’era una volta e una volta non c’era…)
L’amara bocca dai rubati baci
lordò l’infanzia al trasgredito amore.
S’arrese il pianto in ruggine di grido
e l’incarnato giglio si vestì di sangue.
Oh triste sorte, che mi diede in padre
il verro ripudiato dal porcile
e un inclemente Dio, da verità distorte
mi rese spettro pallido in mare d’ombre.
Fiori in ghirlanda qual corona al viso,
nel paniere abbracciato dalle donne,
e lacrime sommesse ed impotenti,
ricorderanno l’ingiustizia vile.
A quante ancora nel futuro incerto
sopporteranno stessa pena mia,
che sia il coraggio scudo di saggezza,
la ribellione al demone selvaggio.
(Loredana Simonetti: “Il gemito di Beatrice “)
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(Guido Reni: ritratto di Beatrice Cenci)
Protetta da un gruppo di vecchi lecci e nascosta da
un cespuglio di gelso carico di frutti, Fata Draga non riu-
sciva a riposare. Si trovava in un bosco molto grande e ben
curato, forse un latifondo di nobile proprietà, sulla via Sa-
laria, nelle vicinanze delle Catacombe di Santa Priscilla.
Lungo la tenuta, situata sopra un rialzo del terreno,
correva la strada antica che, sin dalla notte dei tempi, le-
gava il suo nome ad uno dei commerci più preziosi: quello
del sale. La strada si snodava, dopo aver superato l’Aniene,
lungo il Tevere verso Nord, valicando l’Appennino sotto il
60
Terminillo “Gigante Buono” a difesa dei boschi e dei pa-
scoli dell’Alta Sabina. Dalla cima del Terminillo si poteva
vedere sia il Mar Tirreno sia il Mar Adriatico. La via Salaria
proseguiva, dentro le gole del fiume Velino, s’inerpicava
per raggiungere Ascoli Piceno ed arrivare, attraverso la
valle del Tronto, alle saline adriatiche di Porto d’Ascoli.
Come le aveva accennato Tanaquil, doveva aspettare
il tramonto per intraprendere un viaggio. Si sentiva stanca
e forse anche un poco spaventata; ansiosa per quello che
ancora la aspettava. Chi era questa fanciulla che avrebbe in-
contrato al tramonto? Perché doveva salire sul carro in-
sieme a lei ed accompagnarla nel suo viaggio? Dove
l’avrebbe condotta quel viaggio? Cominciava ad avere
troppa nostalgia del tepore della sua casa, della presenza
affettuosa di sua madre, di sua nonna e dei suoi fratelli. Co-
minciavano a mancarle le piccole gioie della sua vita serena
e tranquilla. Pianse un poco Fata Draga e si accorse di avere
molta fame. Sapeva che di giorno doveva rimanere celata e
rimase nascosta tra il buio del fogliame, mangiando solo i
frutti bianchi del gelso.
Nel primo pomeriggio, quando la luce del sole co-
minciò a renderle pesanti palpebre e membra, si appisolò
in uno strano dormiveglia. Passarono così le ore che man-
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cavano al tramonto sino a che, con il bacio leggero dell’ul-
timo raggio di sole, udì avvicinarsi il rumore di zoccoli di
cavalli e cigolii di un carro.
Uscì allora dal suo nascondiglio, giunse sulla strada
e vide avanzare, sulla destra verso Roma, un drappello di
cavalieri ed un carro coperto trainato da cavalli. Tre dei ca-
valieri erano uomini e sembrarono non accorgersi di lei, il
quarto era una donna non giovane mesta in viso, di corpo-
ratura robusta e di età indefinibile. Solo lei diede segno di
averla vista e con il capo accennò al carro che la seguiva.
Quando questo si fermò, una fanciulla giovanissima, dal
viso candido e luminoso come giglio di mare, scostò la tela
di sacco che copriva l’entrata e le fece cenno di salire per
sedersi accanto a lei. Fata Draga titubò ancora un attimo,
in preda all’inquietudine, ma decise di accettare l’invito. Il
carro riprese il suo viaggio, traversò il ponte sopra l’Aniene
e si avviò lungo la via Salaria, dirigendosi in Sabina.
La ragazza che l’aveva invitata sul carro era vera-
mente molto bella, di una bellezza morbida e pacata con
profondi occhi dorati come le foglie in autunno. Era vestita
di panno chiaro con i capelli nascosti da un turbante az-
zurro imperiale che lasciava intravedere solo lunghi riccioli
scuri; aveva piccole mani delicate e labbra atteggiate ad un
broncio infantile.
62
Si guardarono a lungo, come se non sapessero cosa
dire e poi proruppero quasi all’unisono chiedendosi a vi-
cenda: “Chi sei, come ti chiami?”. Questo le fece ridere di
cuore per qualche istante, poi la ragazza con il turbante az-
zurro imperiale, tornò triste e rispose: “Mi chiamo Beatrice
e sono figlia del Conte Francesco Cenci. Tu hai l’aspetto di
una giovane donna che viene da molto lontano, può darsi
che non ti sia giunta notizia alcuna su di me, la mia famiglia
ed il terribile destino che mi sia toccato. Ogni ventidue anni,
da quel lontano aprile del 1595, sono costretta a ripercorrere
la strada che mi portò verso l’epilogo di anni di indicibile
sopportazione”.
Fata Draga vide gli occhi di Beatrice farsi più scuri e
profondi e, con grande pena, comprese quanto questa ra-
gazza avesse bisogno di narrare la sua storia. Si fece, allora,
più vicina sussurrandole di fidarsi, perché altre donne le
avevano annunciato questo incontro, e lei, Fata Draga,
aveva atteso tutto il giorno, dall’alba al tramonto per po-
terla incontrare e per condividere la sua sofferenza.
Beatrice, fece un cenno con la testa come a dire che
sapeva anche lei di questo incontro. Tacque ancora qualche
istante e poi continuò a narrare: “Ogni ventidue anni, ti di-
cevo, sono costretta a ripercorrere la strada che mi allon-
63
tanò da Roma per portarmi verso la prigione. Ogni venti-
due anni, perché tante erano le primavere che avevo
quando una giustizia ingiusta mi tolse la vita. La mia ucci-
sione bastò a saldare il conto con l’iniqua legge umana, ma
non con quella dell’umana pietà sopraffatta dall’orrore. Per
questo sono condannata al supplizio di rivivere questo
viaggio verso l’inferno che mi aspetta nel chiuso della
Rocca di Petrella Salto.
Il luogo dove si trova la Rocca è impervio perso tra i
monti che, dall’Alta Sabina, guardano verso l’Abruzzo e
verso gli altipiani dell’Aquilente, in territorio del Regno di
Napoli. Il viaggio dura due lunghi giorni nei quali io rivivo
tutta la rabbia, il disappunto e la sofferenza di quei mo-
menti, lontani nel tempo dei vivi, ma sempre presente nel
mio cuore di giustiziata. La condanna è di sapere, ogni
volta, quello che accadrà tra quelle mura.
La donna a cavallo che scorta il carro è la mia matri-
gna Lucrezia, una donna che, già in quel lontano primo
viaggio era, ormai, vinta dalla cattiva sorte, perché condan-
nata a essere prigioniera insieme a me, nella Rocca di Pe-
trella Salto, e condannata in eterno a questo supplizio. Lei
non sapeva far altro che piangere, sommessamente, già uc-
cisa dalla sua stessa impotenza. Io, invece, che difficilmente
lascio che le mie lacrime plachino il bisogno di giustizia,
64
meditavo senza tregua improbabili strategie per fuggire.
Pensavo di scrivere al papa affinché mi liberasse, di implo-
rare i miei fratelli perché mi trovassero un marito, di na-
scondermi nel Monastero delle Clarisse, a Borgo San Pietro,
più a valle rispetto a Petrella, e cento altre possibili solu-
zioni pur di non soccombere inerte al crudele destino.
Sono, comunque, affezionata a Lucrezia nonostante
la personalità scialba e rinunciataria di lei. Ha avuto la sfor-
tuna di sposare mio padre, vedovo, portando con sé una
figliola frutto del suo precedente matrimonio. Ebbene
quella figliola, poco più che bambina, è stata uccisa da mio
padre in uno dei suoi momenti d’ira. Quest’orribile delitto
ha trasformato Lucrezia in una donna morta dentro senza
più parole, senza più luce nello sguardo e desiderosa solo
di morire”.
Si soffermò un momento Beatrice, temendo di spa-
ventare la sua interlocutrice ma Fata Draga le prese d’im-
peto le mani e, facendo sua la pena della fanciulla, le chiese
di continuare nella sua narrazione se ne aveva voglia per-
ché lei, Fata Draga, voleva starle vicino come una sorella e
l’avrebbe accompagnata per un tratto di strada, se questo
poteva sollevarla un poco.
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Beatrice le sorrise grata per quelle parole e lenta-
mente riprese la sua narrazione:
“Nacqui ricca in una Roma, dove tutto doveva destare me-
raviglia. Era la seconda metà del 1500 e, artisti da ogni parte
d’Europa, giungevano nella mia città per volere di papi e
mecenati, con il sogno di realizzare opere di bellezza indi-
cibile nelle quali, suggestivi giochi di luce ed ombre sedu-
cessero coloro che vi avrebbero posato lo sguardo. Tutto
doveva essere magnifico e splendente nel cuore di Roma,
meta dei lunghissimi viaggi di visitatori e pellegrini.
Ma nel chiuso dei palazzi, nell’oscurità di vicoli e
cortili si consumavano violenze familiari e delitti di ogni
genere a causa di uno smodato bisogno di potere, di de-
naro, e d’inenarrabili desideri sessuali perpetrati anche in
nome dei legami di sangue. Ormai c’erano delitti ogni
giorno, consumati all’interno di nobili abitazioni o in ag-
guati per i vicoli di Roma.
Roma era la città dove vivevano le più belle corti-
giane d’Europa, amate da nobili e da uomini illustri. Donne
colte e bellissime, biasimate ed invidiate da molte altre
donne, quanto desiderate da uomini potenti.
In questo scenario maturò la mia condanna a morte. In uno
dei processi più famosi della storia, il più tragico, perpe-
trato in nome di quella giustizia ingiusta che ti dicevo. Ero
poco più che ventenne, quando fui decapitata e, anche se la
mia storia è stata narrata da grandi scrittori, da autorevoli
66
storici e da sensibili poeti che hanno pianto con me il tragico
destino riservatomi, anche se sono stata immortalata in ce-
lebri dipinti, ho oltrepassato romanzi, storia e poesia con il
passo pesante della mia sofferenza e solo per entrare a far
parte della leggenda.
Non romantici sogni di fanciulla ma incubi ed orrore
riempirono la mia vita di adolescente e di giovane donna.
Non carezze materne colme di amore, ma artigli impietosi
ghermirono la mia innocenza di giovinetta. Non sguardi
adoranti di giovani spasimanti, ma fessure di strette fine-
stre dalle quali entrava solo una flebile spada di luce, mi
narrarono del mondo, della vita e dell’amore a me negati.
Quello che vado narrandoti si consumò tra il palazzo
della mia famiglia, i Cenci, nella piazza a ridosso del
Ghetto, e la Rocca di Petrella.
A Roma ero chiamata dal popolo la bella Cenci, per-
ché già a sedici anni ero considerata la più bella e ricca gio-
vinetta della città. La mia era una famiglia dove non regna-
vano amore e rispetto ma terrore e violenza. Mio padre ci
tiranneggiava in tutti i peggiori modi che si possano imma-
ginare. I miei fratelli maschi erano stati allontanati da casa
e pochissimo ricevevano da mio padre, che li affamava
mandandoli a servizio da prelati.
La mia matrigna ed io stessa, eravamo torturate con
la mancanza di acqua e cibo. Non avevamo neppure abiti
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per cambiarci! Eppure mio padre era ricco, ma prepotente
ed arrogante. I denari che egli possedeva, i terreni, le case,
le ville non gli bastavano mai, continuava ad acquistare
fondi per avidità, prestava denaro a condizioni di usura
spaventosa, ma doveva anche pagare alte somme ed in-
giunzioni per i danni che faceva e per le condanne dovute
ad inganni e prepotenze. Tutto questo a causa del suo ca-
rattere collerico, avaro e rissoso.
Pensi che io non abbia sognato il matrimonio con un
giovane che mi amasse e rispettasse? Certo che lo sognavo,
poteva essere una via d’uscita dagli incubi quotidiani ma
lui, il Conte mio padre, non aveva voglia di sborsare denari
per la mia dote. Implorai, allora, perché mi lasciasse diven-
tare almeno monaca, andando a vivere in un convento, ma-
gari in quello di Montecitorio dove ero cresciuta, in colle-
gio, da bambina.
Non riuscii a convincerlo; la sua brama di possesso non ri-
guardava solo il denaro, ma anche la mia persona. Mi con-
siderava sua proprietà e pertanto non dovevo avere sogni,
desideri, aspirazioni che non fossero le sue. Ero sempre più
spaventata e disgustata dalla brutalità e dal disprezzo con
cui mio padre mi trattava, obbligandomi anche ad accudire
alle sue pulizie personali.
Ormai mio padre era oberato da debiti pesantissimi,
accusato di delitti infamanti, condannato a pagare ingenti
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somme per colpe aberranti e allora, pur di non pagare una
dote per me, mi rinchiuse insieme alla mia matrigna nella
Rocca di Petrella Salto ed in quella forzata prigionia, crebbe
a dismisura il mio risentimento verso di lui.
Tentai, con la complicità di fidati domestici, di in-
viare richieste di aiuto ai miei fratelli maggiori ma senza al-
cun risultato. Una delle lettere che arrivò per caso nelle
mani paterne, ne provocò la dura reazione e fui brutal-
mente percossa e sottoposta a sevizie che il mio labbro non
riesce neppure a pronunciare. C’era solo qualche servitore
nella Rocca oltre al castellano Olimpio Calvetti, ma non riu-
scivo a parlare con loro per cercare aiuto. La mia vita era
sempre più triste e grigia e Roma era così lontana! Impre-
cavo, inveivo contro mio padre che era tornato in città, la-
sciando me e Lucrezia in quel posto dimenticato dagli uo-
mini e da Dio.
Il Castellano era l’unica persona che sapeva dimo-
strarmi una certa attenzione e rispetto. Girava lo sguardo
quando, a me prigioniera, riusciva a portare un cambio di
biancheria e vesti pulite e sapeva parlarmi con gentilezza e
riguardo facendomi capire quanto ammirava la mia forza
d’animo. Provai a chiedere la sua complicità per cercare di
raggiungere Cittaducale, lungo la valle del Velino, nelle vi-
cinanze di Rieti e non troppo lontana da Petrella Salto, dove
contavo di essere accolta e protetta. Sapevo che Cittaducale
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era una città retta dal governo giusto e illuminato di Mar-
gherita d’Austria, figliastra di Carlo V e moglie di Ottavio
Farnese. Sapevo che Margherita era una donna energica e
volitiva, e sapevo di come sapesse curare, oltre gli aspetti
economici ed organizzativi della sua città, la cultura, il ri-
spetto e la tolleranza. In quel periodo, a Cittaducale, si co-
struivano splendidi palazzi e strade curatissime, si racco-
glievano libri presso le numerose biblioteche private, la
città possedeva addirittura una stamperia e la giustizia era
amministrata tenendo conto dei valori cristiani.
Chiesi ad Olimpo di aiutarmi a fuggire per raggiungere Cit-
taducale. Ma non facemmo in tempo ad organizzare un
piano di fuga perché pochi giorni dopo, una mattina, i servi
mi annunciarono che il Conte mio padre era sul sentiero che
risaliva dal fondovalle e portava a Petrella. Stava tornando,
quindi, e pensai che forse potessi ancora convincerlo a la-
sciarci libere, pensavo che sia per me stessa che per Lucre-
zia ci fosse ancora una possibilità di vita dignitosa.
E invece no, non mi volle ascoltare. La sua ira si sca-
tenò in prepotenze e violenze indicibili ed io me ne stetti
zitta, come una pietra di quella Rocca, chiudendo l’animo
mio alla rabbia che chiedeva di esplodere, alle lacrime che
cercavano di varcare le ciglia ed all’urlo di raccapriccio che
voleva fuoriuscire dalle mie labbra. Restai muta e fredda
come marmo, solo perché la violenza finisse presto.
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Dopo qualche giorno, Il Conte mio padre per timore
della nostra fuga, ordinò che Lucrezia ed io fossimo chiuse
nell’ala più alta della Rocca, con finestre e porte sprangate.
Il cibo ci veniva passato per uno sportello talmente piccolo
che solo una mano ed una scodella potevano entrare. Lu-
crezia ormai non diceva più nulla, aveva anche rinunciato
a pregare, ma io no, io non mi volevo arrendere, avevo solo
diciotto anni quando giunsi a Petrella Salto e confidavo an-
cora che gli eventi potessero volgersi a mio favore!
E invece non andò così, mio padre rimase nella
Rocca perché a Roma aveva troppe pendenze giudiziarie,
le più turpi e vergognose che un uomo possa avere a causa
di debiti mai saldati, usura, tracotanza. Dopo qualche
tempo tornammo libere dalla segregazione più stretta, ma
solo per essere costrette ai suoi servigi personali, anche
quelli più sconvenienti; quelli che nessun padre o marito
avrebbe mai chiesto alla propria figlia ed alla propria mo-
glie. I miei fratelli Giacomo e Bernardo, anche loro presso
la Rocca, nulla potevano fare contro le prepotenze paterne
e Bernardo in particolare che ne soffriva più di tutti, aveva
solo tredici anni. Indovinavano le violenze che subivo dai
miei occhi cerchiati e dall’espressione amara delle mie lab-
bra.
71
La mia matrigna, poi, era troppo debole per difen-
dermi e non voleva sapere cosa accadesse quando lui chiu-
deva la porta della mia stanza da letto. Lui, quella bestia
alla quale il nome di padre non si addice, oltre che pren-
dersi tutto quello che voleva, era preoccupato per la sua
stessa vita. Aveva paura di essere avvelenato e mi costrin-
geva ad assaggiare tutto il cibo che veniva preparato per il
suo pasto. Passarono così tre lunghi anni.
Poi, la mattina del 9 settembre 1598, in tutta Petrella
si sparse la voce che, Francesco Cenci, era stato trovato
morto nella boscaglia sottostante la Rocca, con il cranio
sfondato e trapassato da una canna di sambuco.
La versione della caduta accidentale dal balcone, for-
nita da noi della famiglia, dal castellano e dai servi, non
convinse pienamente, malgrado tutti si aspettassero che,
prima o poi, Francesco Cenci sarebbe morto di morte vio-
lenta. Papa Clemente VIII, pressato dai creditori e dall’odio
che avevano molte vittime di mio padre in attesa di risarci-
menti, inviò immediatamente un’ispezione che giunse a Pe-
trella in meno di due giorni.
L’ispezione constatò come non vi fossero tracce di
sangue sul terreno dove giaceva il suo corpo inerte mentre,
il materasso e le lenzuola del suo letto, erano sporche di
sangue. Provammo a suggerire che forse dei banditi o delle
72
persone che avevano conti in sospeso con lui l’avessero uc-
ciso e gettato dal balcone, ma anche questo sembrò non con-
vincere gli ispettori.
Fu un pover’uomo, un contadino di Petrella, a darci
il colpo di grazia! Confessò di avere partecipato al delitto,
deciso da me e dai miei fratelli a causa del controllo osses-
sivo e violento che Francesco Cenci esercitava su noi fami-
liari e su tutti coloro che avevano la sfortuna di stargli ac-
canto. Diede la sua versione dei fatti, solo dopo che gli fu
mostrata la camera delle torture. Lui, in buonafede, pen-
sando che quelle motivazioni avessero potuto salvarci, di-
chiarò ai giudici che, a causa delle vessazioni che subivo, io
stessa gli avessi chiesto di trovare qualcuno disposto ad uc-
ciderlo e che fu il castellano, segretamente innamorato di
me, a chiedere l’appoggio di mio fratello Giacomo per ese-
guire l’omicidio”. Beatrice, vinta dalla commozione, smise
di parlare.
Fata Draga era sconvolta dai fatti che stava ascol-
tando. Provava ribrezzo ed indignazione e, nello stesso
tempo, una pena infinita per quella giovane donna che
aveva accanto. Stava per chiederle, con semplicità, come
fossero veramente andati i fatti ma, si rese conto che il ri-
spetto delle leggi umane e divine, non avrebbero potuto
trovare spazio in un orrore come quello narrato da Beatrice
73
e che, comunque fossero andate le cose, non sarebbe stato
così importante sapere chi fosse stato il vero colpevole.
Si avvicinò ancor di più alla povera ragazza dicen-
dole con voce calda e pacata: “No, non voglio sapere come
siano andati veramente i fatti perché le inchieste dovreb-
bero appartenere alla ricerca della giustizia e tu non vivevi
tra giusti nel tuo tempo. Quello che ho bisogno di compren-
dere, se avrai voglia di raccontarmelo, sono i moti
dell’animo umano che hanno portato alla tua condanna!”.
La loro conversazione fu interrotta dall’arresto del carro e
degli zoccoli dei cavalli. Scostarono la tenda e si resero
conto che fuori il sole era calato del tutto, lasciando ad un
buio senza luna e senza stelle, lo spazio della notte.
“Abbiamo superato la Marcigliana ed i Sette Bagni,
il Ponte del Grillo ed il bivio per il Castello di Nomentum
proprietà del Principe di Venafro ed ora siamo nel territorio
degli Orsini a Monterotondo. Passeremo qui la notte, ospiti
nel loro palazzo, per poi ripartire alle prime luci dell’alba”
disse Beatrice, prendendo del tempo per continuare il suo
racconto. Entrarono, quindi, nel cortile del Palazzo Orsini,
poi salirono le scale sino al piano nobile.
Le due ragazze erano di nuovo sole e Beatrice, indi-
candole un affresco sulla parete le disse. “Vedi questa fi-
gura femminile nuda ed in fuga? Il suo nome è Mirra, una
74
fanciulla che appartiene alla mitologia e che fu presa da in-
sana passione. Infatti, s’innamorò perdutamente di suo pa-
dre Cinira e, con la complicità della nutrice, riuscì a trascor-
rere diverse notti con lui quale amante. Ma il genitore, inor-
ridito, si accorse dell’inganno guardandola dormire alla
luce di una lampada. Vedi? Furibondo per la vergogna su-
bita, rincorre Mirra brandendo la spada per ucciderla.
Mirra, allora, resasi conto improvvisamente del vergo-
gnoso inganno perpetrato, chiede perdono al padre, e
chiede agli dei di essere punita, ma di farle salva la vita. Gli
dei impietositi la trasformano in albero, quello di mirra ap-
punto, che piange lacrime di prezioso balsamo.
Nella mia storia, invece, le insane azioni appartene-
vano solo al mio genitore, e non ci sono stati Dei pietosi a
salvarmi la vita; interessi biechi e vigliaccherie mi hanno
condannata al patibolo. Domani, se vorrai ancora viaggiare
con me, ti racconterò il resto della mia storia perché ora
dobbiamo riposare. I prìncipi che ci ospitano, Franciotto ed
Ottavio Orsini, sono nobili romani gentili e discreti e ci of-
friranno un ricovero per la notte senza chiederci nulla del
nostro strano viaggio”.
Per la prima volta da quando aveva lasciato il suo
paese, Fata Draga dormì una notte intera, un sonno pro-
fondo e senza sogni sino all’alba del nuovo mattino quando
75
fu svegliata da Beatrice. Fuori, nel cortile del palazzo i ca-
valieri già erano pronti per partire, volgendo loro le spalle
e le due fanciulle salirono di nuovo sul carro, accanto ai
bauli e qualche provvista per riprendere il cammino.
Lasciarono Monterotondo e, dopo poco, la Via Sala-
ria prese a salire verso il Passo Corese, superando il bivio
che portava verso Fara Sabina. Fata Draga incuriosita
aveva guardato fuori scostando la tenda e si era resa conto
che carro e cavalieri stavano procedendo come su di una
invisibile strada, a più di dieci metri da terra; sotto di loro
la Via Salaria, con il suo traffico, i piccoli borghi lungo la
strada ed i campi coltivati a vite ed ulivo. Stupita e sgo-
menta, guardò Beatrice, ma lei la tranquillizzò: “Non te-
mere, disse, non sei nella dimensione reale, ricorda che stai
viaggiando con me nel tempo senza tempo. Prima della fine
di questa giornata, ci dovremo lasciare e tu tornerai la ra-
gazza di sempre, libera di vivere la tua vita. Sino al mo-
mento del tramonto, se lo vorrai, potrai farmi compagnia,
dandomi l’illusione di essere anch’io una ragazza come
tante altre, e non la protagonista di una tragica vicenda”.
Pronunciando queste parole gli occhi di Beatrice si
riempirono di lacrime, ma il viso rimase sereno, come se
nell’attimo stesso nel quale aveva espresso un desiderio, si
fosse resa conto che tale doveva rimanere. Poi, dietro solle-
citazione di Fata Draga, volle continuare a raccontare la sua
storia:
76
“Non partecipai alle cerimonie funebri per la morte
di mio padre, e come me, neppure Lucrezia, i miei fratelli,
il Castellano ed i servi della Rocca. Lui, Francesco Cenci,
non era amato da alcuno e nessuno provava pietà per la sua
morte. Fu seppellito nella Chiesa locale di Santa Maria,
mentre noi lasciavamo il castello con i suoi orribili ricordi
per tornarcene a Roma, nella nostra casa, liberati dalla sua
presenza.
La prima ispezione, avvenuta subito dopo la morte
di mio padre, ci aveva lasciati coperti di dubbi e sospetti, e
già si mormorava che fosse stato ucciso da noi familiari.
Venne allora un’altra ispezione, ordinata dal Viceré del Re-
gno di Napoli nel cui territorio si trovava Petrella Salto.
Questa seconda ispezione fu caldeggiata dal Duca Marzio
Colonna, principe romano e feudatario di Petrella. Lo
stesso pontefice Clemente VIII, a questo punto volle inter-
venire nella vicenda.
Gli ispettori dissero di avere le prove della nostra
colpevolezza, prove avute sotto tortura e così i miei due fra-
telli Bernardo e Giacomo furono rinchiusi nel carcere di Tor
di Nona, mentre io e Lucrezia in quello di Corte Savella. Di
nuovo in un carcere, quindi, dopo aver assaporato, solo per
poco tempo, liberazione e libertà!
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Il processo fu falsato da molti vizi e dichiarazioni
non vere o estorte con la tortura. Io stessa, nonostante la
convenienza mi suggerisse di confessare le violenze subite
da quello che era stato mio padre, mi vergognai di ammet-
tere che così era stato. Non so perché lo feci; pudore? Ver-
gogna? Oppure estrema difesa di colui che mi aveva fatto
tanto male eppure mi aveva concepito? Non te lo so dire,
ma qualcosa mi vietò di esporre pubblicamente quell’or-
rore. All’avvocato che difendeva la mia famiglia, fu impe-
dito di fare l’arringa finale e fu ammesso in aula solo a sen-
tenza già emessa. C’erano troppi interessi in gioco. Se fos-
simo stati condannati a morte, tutti i nostri beni sarebbero
stati confiscati, poiché eravamo eredi di un grosso patrimo-
nio che faceva gola a molti. Attraverso diversi maneggi, la
parte più cospicua dei possedimenti, fu acquistata da Gian
Francesco Aldobrandini, nipote del Papa, per una cifra as-
sai inferiore al suo valore reale. Lo scandalo fu clamoroso e
se parlò a lungo nelle cronache dell’epoca.
Io non ebbi la fortuna di amare, perché la mia vita
era troppo devastata da violenze e soprusi, ma ci fu un
uomo che mi amò, in silenzio e con discrezione e che per
me sarebbe stato pronto a tutto. Non so dirti se fu lui ad
uccidere mio padre, o se fu mio fratello Giacomo o ancora
il maniscalco della Rocca di Petrella un certo Marzio da Fio-
ran detto il Catalano. O forse fu un’azione congiunta dove
78
anch’io avevo le mie responsabilità, perché fui io a deside-
rare più di ogni altra persona della famiglia, la morte di mio
padre. Quando seppi che era morto, e Dio mi perdoni per
questo, provai un infinito senso di liberazione.
Quell’uomo di cui ti ho parlato, che mi amava in si-
lenzio e che penava per le violenze che subivo, era Olimpio
Calvetti, il Castellano di Rocca Petrella. Morì in circostanze
misteriose, quando ormai il processo era avviato. E’ stata la
sua morte, quale inaspettata opportunità, che mi permise di
dare la colpa dell’omicidio tutta a lui, cercando di salvare
Giacomo, me stessa e, soprattutto il giovanissimo Bernardo.
Era come un ultimo dono che ricevevo da Olimpio, colui
che mi aveva amato con discrezione e profonda devozione.
Non mi vollero credere e fummo tutti condannati. Il
popolo di Roma, parteggiava per la nostra assoluzione ed
in particolare sperava nella mia salvezza. Ma così non fu.
Giacomo fu squartato vivo e poi ucciso con un colpo di
mazza alla testa, Lucrezia ed io decapitate ed il giovanis-
simo Bernardo condannato ad assistere alla nostra morte,
legato ad una sedia. Fu poi mandato a remare a vita sulle
galere pontificie, dopo che gli fu tolta la sua virilità per
mezzo della castrazione.
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Condussero me e Lucrezia sulla Piazza di Castel
Sant’Angelo, luogo delle esecuzioni. Il carro percorse via
dell'Orso e via del Giglio, passò per S. Apollinare, Tor San-
guigna e Pasquino. Poi proseguì dinanzi alla Corte Savella
e poi per il Palazzo della Cancelleria. Entrato a Piazza Far-
nese proseguì per via S. Maria di Monserrato, Banchi, e San
Celso. Qui ci fecero scendere dal carro per arrivare a piedi
sino a piazza Sant’Angelo. La folla tacque quando all'im-
bocco di San Celso apparve il corteo che accompagnava me
e Lucrezia. Poi apparve anche Giacomo, con le carni stra-
ziate, ed infine Bernardo costretto ad assistere all'esecu-
zione.
Vidi la mia matrigna portata a braccia sul patibolo,
perché aveva perso i sensi dallo spavento. Vidi recidere il
suo capo e la testa cadere nel paniere. Vivevo tutto come un
brutto sogno, ma non piansi, e non implorai pietà. Poi toccò
a me. Mi sfilai le pianelle ed a piedi nudi salii le scale di
legno. Cercai lo sguardo del carnefice per esprimergli il mio
disprezzo, ma non lo incrociai. Non volli aiuto da nessuno
per salire su quel patibolo, vi arrivai fiera, con le spalle ed
il capo eretto. Era l’11 settembre dell’Anno Domini 1599 e
sapevo che tra i presenti vi era il pittore Caravaggio ed Ora-
zio Gentileschi, con sua figlia Artemisia. Era una giornata
molto afosa. La calca ed il caldo provocarono la morte di
80
diversi spettatori, schiacciati dalla folla o annegati nel Te-
vere cadendo dagli spalti.
Salii sul patibolo con tutto il coraggio dei miei venti-
due anni, sistemandomi da sola i capelli in modo da non
farmi toccare dal boia. Cavalcai la tavoletta del ceppo, ma
prima di stendermi su di essa e poggiare il capo, lanciai un
urlo terribile, che giunse sino a San Pietro: l’urlo della mia
vita che stava per finire lanciato contro tutti i prepotenti, i
violenti, gli sfruttatori, gli opportunisti, perché Dio li male-
disse in eterno e perché non trovassero mai pace nell’aldilà,
ma fossero condannati ad udire per sempre il mio grido che
reclamava, nell’imminenza della morte, il diritto a vivere
l’amore, la felicità, la gioia.
Non c’era mai stato miele nella mia breve vita, ma
solo inganni ed amarezze. Poi la voce mi tradì, l’urlo si tra-
mutò in rantolo e la grande spada per le esecuzioni, calò sul
mio collo. Il mio corpo ebbe un lunghissimo sussulto prima
di trovare la pace. Le mie spoglie furono portate in proces-
sione dai romani per Via Giulia, traversarono Ponte Sisto,
salirono tra i boschi del Gianicolo, sino alla Chiesa di San
Pietro in Montorio. Qui fui ricomposta riavvicinando il mio
capo, portato da due donne in un paniere, al corpo muti-
lato. Il mio povero viso ancora sereno dopo l’orribile morte,
fu ricongiunto al mio cuore ormai muto. Piansero le donne
81
romane, ma anche i loro uomini piansero la mia morte, tra-
gica come la mia stessa vita. Poi, i Confratelli delle Sacre
Stimmate, calarono la mia salma in un loculo dell’abside,
dove venni seppellita. Nessuna iscrizione sopra la tomba,
come era uso per i giustiziati”.
82
CAPITOLO VII
IL CASTELLO AQUILA
(… c’era una volta e una volta non c’era…)
Paul Bril (1554-1626), Feudo Di Rocca Sinibalda,
…. nel bosco tranquillo, dove spesso origlio,
e ogni cosa è silente in quella luce.
Io ti sono vicino e tu mi sei vicina,
pur sapendo che sei così remota.
Mentre il sole tramonta e sorgono le stelle….
W. Goethe
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Tra le due giovani donne, cadde un silenzio denso di
sguardi come se, un destino così crudele, non potesse tro-
vare parole per descrivere lo sgomento e la profonda pietà.
Poi la mano di Fata Draga cercò quella di Beatrice intrec-
ciando le sue dita con le dita di lei, quasi ad ancorare alla
vita, quell’anima pallida e muta, perduta nel tempo dell’or-
rore. Fata Draga era solo una giovane donna ancora inno-
cente, venuta da un lontano paese dell’Est per cercare la
propria strada nel mondo cogliendo l’essenza della vita e
questo incontro con Beatrice, le faceva comprendere ap-
pieno quanto la vita potesse essere così indissolubilmente
legata alla morte.
Sotto di loro il paesaggio cambiava lentamente. Ora
un grande dolcissima valle verde di boschi ed ulivi si apriva
alla vista, delimitata, verso ovest, da una collina tonda e
possente come un’enorme zucca. Nel centro di questa valle,
su di uno sperone di roccia, vi era un borgo sovrastato da
un turrito castello, il Castrum Nerulae. Lontano, guar-
dando verso Roma in direzione nord ovest, il Soratte si sta-
gliava nel cielo con la sua vetta frastagliata. La Via Salaria,
in quel punto, aggirava la tonda collina, quindi iniziò a
scendere, verso la Valle Santa Reatina, sino al bivio che con-
duce verso Monteleone Sabino ed il santuario dedicato a
Vittoria, giovane martire cristiana.
84
Vittoria era una giovinetta di nobile famiglia, orfana,
che si convertì al cristianesimo sotto l'Imperatore Decio, in-
torno all'anno 250. A quel tempo un orribile drago che si
era annidato in una delle grotte di tufo della zona, spargeva
la morte fra la popolazione di Monteleone Sabino. Vittoria
riuscì, con la forza della sua fede a far allontanare il terribile
drago da quei luoghi. Per questo motivo la popolazione
tutta, si convertì in massa alla religione cristiana. Malgrado
questo fatto stupefacente, durante le persecuzioni dei cri-
stiani, fu intimato a Vittoria di abbandonare il cristianesimo
e venerare Diana, dea protettrice dei boschi della Sabina.
Al suo sdegnato rifiuto, fu condannata a morte ed uccisa
con un colpo di pugnale. Il corpo della giovane martire, fu
seppellito nella grotta del drago e lì venerata come Santa.
Ma accadde qualcosa di inspiegabile ai contadini del luogo.
Nella zona dove Vittoria trovò la morte, l’erba non crebbe
più, per ricordare a tutti l’uccisione di una fanciulla inno-
cente e generosa che, con il suo sacrificio, seppe avviare un
cambiamento religioso profondo, riuscendo a far convertire
molti abitanti dei villaggi lungo la Via Salaria, alla nuova
religione di Cristo, fondata sull’amore tra gli uomini.
Passarono molti secoli da quel fatto e, nello stesso
luogo dove fu pugnalata Vittoria, la cattiveria umana fece
altre vittime innocenti. Era il 24 aprile 1944 quando i tede-
schi, che occupavano quella parte della Sabina, fucilarono
85
dieci abitanti di Monteleone insieme ad uno sfortunato ven-
ditore ambulante che si trovava per caso da quelle parti. Li
fucilarono senza alcun motivo, a solo scopo dimostrativo
del loro potere sulla popolazione.
Il carro sul quale si trovavano Fata Draga e Beatrice,
scortato dai cavalieri, prese dunque, il bivio che portava
verso il santuario dedicato alla Martire, ma non si ferma-
rono a Monteleone Sabino, continuarono per la strada che,
superando l’entrata di Monteleone, si dirigeva verso Torri-
cella in Sabina e Rocca Sinibalda. Dopo circa un’ora di viag-
gio apparve la cittadella fortificata alta sulla strada, con il
suo castello a forma di aquila. I cavalli erano stanchi e biso-
gnò farli riposare prima di proseguire per il Varco Sabino,
Vallecupola, la Valle del Salto per giungere, infine, alla
Rocca di Petrella.
Le dita delle ragazze erano ancora intrecciate
quando, Beatrice, riprese a parlare: “Mia compagna di viag-
gio, tra poco, al bivio che porta da una parte verso il castello
di Rocca Sinibalda e dall’altra scende verso nord nella valle
del Turano, ci dovremo lasciare. La tua compagnia mi ha
permesso di liberare per un poco il mio cuore dall’angoscia
che lo opprime da molti secoli. So quello che stai cercando;
il senso della vita ed il coraggio di guardare in faccia la
86
realtà senza mai tradire la tua capacità di sognare, di imma-
ginare e di amare.
Hai tutto per riuscire nel tuo intento: sei bella, sei
giovane, sei abile e coraggiosa e, non ultimo, hai la fortuna
di vivere in un’epoca nella quale le donne sono state capaci
di conquistare dignità e diritti. Gli incontri che hai fatto in
questi giorni, illumineranno il tuo cammino verso la cono-
scenza profonda che ti richiederà impegno per tutta la vita.
Ma dovrai tenere a mente che, per crescere e diventare una
donna capace e matura, non dovrai sacrificare nessuno dei
doni che hai avuto alla tua nascita, ricordando che non sarà
più l’ultimo raggio di sole a guidare il tuo agire, bensì la tua
precisa volontà.
Quando ci saremo separate, tu prenderai la strada in
discesa, quella sulla quale domina il castello di Rocca Sini-
balda. Costeggia il fiume Turano, sino ad un piccolo ponte
e, superato il ponte, troverai un sentiero in salita che ti por-
terà a Belmonte in Sabina, un grazioso paese che domina su
due valli. Questo piccolo agglomerato di case, è retto da
una donna intraprendente e coraggiosa.
Ti ricordi quando ti ho raccontato del mio desiderio
di fuggire dalla Rocca di Petrella verso Cittaducale? E ri-
cordi come confidavo di poter essere accolta da Margherita
87
d’Austria e di come quella donna rappresentasse per me, la
capacità di usare il potere che le era stato conferito con ri-
gore unito a profonda umanità? Ebbene Airam, questo è il
nome della donna di cui ti voglio parlare, potrà diventare
per te un’amica, con la quale potrai scambiare idee e senti-
menti. Il suo cuore, che contiene anche ricordi dolorosi, si
aprirà a te, perché troverà nella tua capacità di ascolto, una
persona fidata e sincera con la quale condividere gioie e sof-
ferenze nascoste ai più. I vostri sentieri s’incontreranno
senz’altro, non avere fretta, e vedrai che questo accadrà di
sicuro.
Ma prima di Airam ci sarà un altro incontro che cam-
bierà il corso della tua vita. Ascoltami bene ora, e non di-
menticare neppure una sola parola di quello che ti dico:
giunta a Belmonte, scendi di nuovo a valle, ma verso quella
che guarda ad ovest e nella quale passa la Via Salaria. Dalla
piazza del paese, dalla quale potrai vedere un piccolo Con-
vento Domenicano, dirigi i tuoi passi lungo una via in di-
scesa che porta fuori dal centro abitato. Dopo poco, troverai
una strada che da una parte reca verso l’Abruzzo e dall’al-
tra verso la Via Salaria. Giunta sulla Via Consolare, prendi
il piccolo sentiero sterrato che la costeggia dirigendoti verso
nord. Quello è il sentiero che San Francesco percorse con i
suoi sandali dalla Sabina sino a San Pietro. Arriverai, dopo
poco, a San Giovanni Reatino e, da quel momento, lascia
88
che siano i tuoi passi a guidarti e fidati di quello che i tuoi
sensi t’indicheranno. Ricorda di portare con te il piccolo
specchio che ti ha donato Angerona, come pure questo mio
modesto dono”.
Dicendo queste parole, Beatrice si tolse dal capo il
turbante color azzurro imperiale, lo srotolò lentamente ed i
suoi riccioli caddero sulle spalle restituendole, per un mo-
mento, un’immagine infantile e serena. Piegò il drappo, e
nel fare questo si sprigionò un lieve delicatissimo profumo.
Lo porse, così piegato, a Fata Draga che lo ripose nella sua
piccola borsa insieme allo specchio, allo scrigno dei suoi de-
sideri ed alle altre piccole cose necessarie.
Compresero che il momento era giunto perché il
carro si fermò sulla strada presso il bivio che separava la
strada nei due percorsi; uno saliva verso Rocca Sinibalda su
in alto, con il suo Castello possente come un’aquila in volo
ed adagiato su di una stretta striscia di terra e, l’altra, che
scendeva nel verde di una fresca vallata. Le due ragazze si
strinsero forte con un abbraccio che suggellava la fine del
loro incontro. Fu Beatrice, a malincuore, a staccarsi, anche
se le loro mani continuavano a rimanere intrecciate. Fu an-
cora Beatrice a sussurrare “Vai ora, vai per la tua strada
dove ti aspetta la vita, tutta da vivere! Il drappo che ti ho
donato, ha un colore prezioso e regale, quello dell’amore
89
unico ed imperdibile; vai dunque! C’è un giovane uomo
alto e di bel portamento che ti sta aspettando, non sa
quando esattamente tu arriverai, ma ogni sera, quando il
sole cala dietro le montagne, lui sogna di incontrarti, Il suo
sguardo aspetta di sprofondare del lago azzurro dei tuoi
occhi e di rimanervi impigliato per sempre! Vai non atten-
dere oltre, non sono le mie dita che devi intrecciare alle tue,
ma quelle del giovane che stai per incontrare, il tuo futuro
avrà il suo nome”.
Le due ragazze allentarono la presa delle mani e Fata
Draga scese dal carro. Vide solo per un istante il corteo ri-
prendere il cammino, ma un attimo dopo che ebbe posato
il piede in terra, cavalli e cavalieri si erano dissolti nell’aria,
come per un incantesimo, e non riuscì più a vederli. Fu so-
praffatta, allora, da un intenso struggimento per quella gio-
vane donna, che non avrebbe mai più incontrata.
90
CAPITOLO VIII
L’INCONTRO
(... c’era una volta e una volta non c’era ...)
Anche prima,
molto prima della rivolta delle ombre,
e che nel mondo cadessero piume incendiate
e un uccello potesse essere ucciso da un giglio.
Prima,
prima che tu mi domandassi
il numero e il sito del mio corpo.
Assai prima del corpo.
Nell'epoca dell'anima.
Quando tu apristi nella fronte non coronata, del cielo,
la prima dinastia del sogno.
Allorché,
contemplandomi nel nulla,
inventasti la prima parola.
Allora,
il nostro incontro.
Rafael Alberti
91
Prese a scendere lungo la stretta valle sul fondo della
quale scorreva il Turano dalle acque limpide e cristalline.
In una piccola radura, dove il fiume rallentava la sua corsa
creando un piccolo lago intorno al quale si sentivano graci-
dare le rane in amore, Fata Draga si fermò a riposare, prima
di cominciare a salire su per il sentiero che l’avrebbe con-
dotta a Belmonte. Si rinfrescò il viso con l’acqua di fiume, si
pettinò i lunghi capelli biondi e si cambiò d’abito. Il drappo
donatole da Beatrice lo lasciò piegato perché temeva che i
rami del folto bosco che doveva attraversare avessero po-
tuto stracciarlo.
Superò il piccolo ponte, lasciandosi il Turano alle
spalle ed iniziò ad inerpicarsi sul sentiero che conduceva
verso l’alto. Mentre saliva, sentiva gli uccelli accompagnare
il suo cammino volando sui rami bassi degli alberi e se-
guendola passo passo. Una femmina di cinghiale si mise al
suo fianco con i suoi piccoli. Sembrava volesse farle strada
e si fermava ad aspettarla quando lei, affaticata, rallentava
il passo. Il bosco era generoso in quel periodo dell’anno, gli
alberi di nocciolo avevano i rami piegati dal peso dei loro
frutti e Fata Draga ne assaporò più di qualcuno rompen-
done il guscio sopra una pietra. Ai piedi degli alberi più
grandi, vi erano famigliole di funghi cresciuti dopo le
piogge recenti insieme a ciclamini ed altri timidi fiori. Si
fermò qualche minuto per riprendere fiato in una radura
92
già piuttosto in alto rispetto alla valle, poco prima di vedere
il paese di Belmonte.
Si voltò quasi all’improvviso per guardare indietro,
verso la valle che aveva lasciato alle sue spalle e rimase
senza fiato. Il Massiccio del Terminillo era davanti ai suoi
occhi imponente, con i suoi contrafforti coperti dai boschi
di abeti abbarbicati lungo le pendici e, più in alto, con la sua
maestosa scogliera di roccia libera da nubi.
Eccolo, dunque, Il “Gigante Buono”, che da millenni
protegge i pascoli d’alta quota e le coltivazioni umane la-
sciando che bufere e tempeste s’infrangano sulle sue vette
risparmiando le valli più in basso! Finalmente poteva ve-
derlo da vicino in tutta la sua maestosità. Sembrava volesse
sorvegliare anche su di lei, quasi a proteggerla e a darle fi-
ducia. Si guardarono a lungo Fata Draga ed il “Gigante
Buono”, poi lei riprese il suo cammino.
Giunta sulla piazza alta del paese, prese la strada in
discesa notando, poco lontano, il Convento Domenicano
accanto al Cimitero; non aveva sbagliato, era sul cammino
giusto. Scendendo ancora, trovò il bivio che l’avrebbe por-
tata giù a valle, sulla Via Salaria. Voleva raggiungere San
Giovanni Reatino prima del calar della notte e, se la strada
non fosse stata troppo lunga, forse ce l’avrebbe fatta. E non
93
si sbagliò neppure questa volta Fata Draga, perché arrivò
sul sentiero che il Poverello di Assisi aveva percorso secoli
e secoli addietro, proprio quando l’ultimo raggio di sole
scompariva dietro i monti, incendiando il cielo di rosse sof-
fici piume di nuvole alte.
Il sentiero, in quel punto, come le aveva fatto intuire
Beatrice, passava vicinissimo ad una grande casa color
rosso pompeiano, dalle molte luci accese. Era stanca, accal-
data ed affamata ma si fermò ancora un poco, titubante. Poi,
seguendo il suo istinto, si avvicinò lentamente ad una delle
finestre di quella costruzione e guardò verso l’interno.
Rimase senza parole, vedendo se stessa seduta ad un
tavolo tra altre persone. Era proprio lei, Fata Draga con i
biondi capelli ben pettinati e che indossava un abito color
blu imperiale! Un giovane alto, dai capelli corvini e lo
sguardo intenso, guardava dal fondo della sala quella ra-
gazza così simile a lei. Cosa significava tutto ciò, quale in-
cantesimo stava vivendo? E come faceva ad essere fuori
all’aperto guardando dentro dalla finestra verso l’interno e,
contemporaneamente, essere dentro il locale seduta ad un
tavolo in mezzo a tutta quella gente? E quel giovane uomo
che osservava da lontano, chi era? Sentiva un’attrazione
fortissima verso di lui, talmente forte che il suo cuore aveva
accelerato il battito.
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Smarrita si allontanò dalla finestra, si nascose dietro
un albero in preda ad emozioni contrastanti. Era questo il
momento che aspettava? Cosa doveva ancora accadere per
comprendere se il suo viaggio era giunto al termine? Dove
erano tutte le donne che aveva incontrato, perché non le ve-
nivano in aiuto? Le chiamò per nome: “Ersilia, Angerona,
Tanaquil, Beatrice, dove siete, perché non siete qui con
me?”. Una grande ansia si stava impadronendo di lei. Cosa
stava accadendo? Mentre si faceva queste domande, ebbe
un’improvvisa intuizione. Aprì la sua borsa, prese lo spec-
chio donatale da Angerona, il taccuino, la matita e lo scri-
gno dei suoi desideri.
Scrisse il nome di Roma e, come Angerona le aveva
preannunciato, lo specchio le rimandò il nome rovesciato in
“amor”. Dunque era questo il nome segreto di Roma ed era
questa l’indicazione preziosa per il suo agire, stava forse
per conoscere colui che la stava aspettando? Scrisse di
nuovo sul taccuino il nome della donna che sarebbe stata la
sua prima amica nella sua nuova vita: Airam e nello spec-
chio apparve il nome rovesciato della donna che ancora non
conosceva. Ora era quasi certa che questo era il luogo del
suo destino, dove avrebbe incontrato l’amore, l’amicizia e
dove avrebbe costruito il suo futuro di donna consapevole.
Era dunque quel giovane per il quale il suo cuore aveva
95
sobbalzato, l’uomo che avrebbe amato? E l’abito color az-
zurro imperiale, “il colore prezioso e regale; quello
dell’amore unico ed imperdibile” come aveva detto Bea-
trice, era un altro segnale che questo era il luogo dove lo
scrigno dei suoi desideri avrebbe potuto spalancarsi?
Sì, doveva essere questo il luogo. Prese di nuovo lo
specchio per guardare il suo viso e vide nel suo sguardo
quel lungo bagliore dorato che aveva già colto nello
sguardo di sua nonna, di Ersilia, di Angerona, di Tanaquil
e di Beatrice, bagliore che durava solo un istante, è vero, ma
lontano e profondo millenni e millenni. Un bagliore che rac-
coglieva la forza e la dolcezza di tutte le donne prima di lei,
ma anche di tutte quelle che sarebbero venute dopo. Si av-
vicinò di nuovo alla finestra per guardare ancora all’interno
e vide le stesse persone di prima, ma la sedia dove prima
era seduta la ragazza con l’abito color azzurro imperiale,
ora era vuota e sembrava che aspettasse solo che lei entrasse
e prendesse il suo posto a tavola. Si avvicinò titubante alla
porta di vetro dell’ingresso, posò la mano sulla maniglia e
stava per aprire, quando si rese conto che dall’altra parte, il
giovane uomo dai capelli corvini, aveva posato la mano
sulla maniglia interna, per aprire anche lui quella porta.
Superarono insieme l’ultimo ostacolo che li separava, ed
intrecciarono le loro dita.
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Gli sguardi si volsero, all’unisono, verso l’ultimo bagliore
del tramonto.
Scendeva la sera, la prima di moltissime sere nelle quali
avrebbero condiviso
speranze e realtà.
fine
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EPILOGO
Il lettore di questa storia, ha accompagnato Fata
Draga, bambina di Bucur che sapeva catturare l’ultimo rag-
gio di sole, nella sua metamorfosi da innocente fanciulla a
giovane donna adulta e consapevole, protesa verso la sua
nuova vita in Terra Sabina accanto all’uomo che ha scelto
di amare.
Quasi tutte le storie a lieto fine si concludono a que-
sto punto con l’inevitabile “... e vissero felici e contenti... ”.
La storia di Fata Draga no, continua a dispiegarsi, sui sen-
tieri della fantasia, della curiosità e della gioiosità, sentieri
paralleli alla vita di tutti i giorni.
Fata Draga, donna adulta che ama, lavora e soffre come
tante donne della nostra epoca, continua a far crescere le
sue “ali sottili che sanno arrivare sino alle nuvole“ (Emotie
de Toamna di Nichita Stanescu).
Vuole che il suo sguardo intenso, sappia specchiare
le verdi colline della Valle Santa Reatina, vuole che alberi
secolari le sussurrino i saperi del vento, vuole che il gorgo-
glio dei fiumi Turano ed Ariana le suggeriscano antiche ca-
role dimenticate, perché lei possa narrarle ancora, agli uo-
mini e alle donne del Belmonte.
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Le creature dei boschi e delle acque sanno che Fata
Draga vuole continuare a giocare con loro intrecciando ar-
caiche rime, per comporre dolcissime cantilene a tutti co-
loro che non hanno perduto, crescendo, il prezioso legame
con il proprio bambino interiore, capace ancora di stupirsi
della meraviglia del creato.
E’ così che sentieri dimenticati, tornano alla luce. E’
così che oasi di pace nascoste tra noccioleti e castagni si
aprono alle anime semplici capaci ancora d’incantamento,
è così che persone, sia del passato che del nostro tempo,
possono far emergere la loro dimensione onirica, risposta
poetica e giocosa alle melanconie dell’anima.
E lei, Fata Draga, la donna bambina giunta da un lon-
tano paese dell’est cavalcando un raggio di sole, tesse ogni
giorno la sua tela-rete del presente, facendo tesoro di ogni
incontro, attingendo al ricordo, al sogno, alla fantasia ed
alla speranzosità.
Il risultato di questa magica tessitura a rete, sono le
filastroccole che troverete in quest’ultima parte del libro.
99
La Filastroccola
L’origine della filastroccola è molto antica e fa capo-
lino sia tra le pagine di numerosi libri popolari che nelle
definizioni d’importanti vocabolari.
L’Accademia della Crusca la definisce come “lun-
ghezza di ragionamenti”, definizione che si presta a molte
interpretazioni diverse tra loro!
La parola è composta da “Fila”, come i filari delle
viti, piantate alla giusta distanza l’una dall’altra, e da
“Stroccola”, un rozzo strumento musicale consistente in un
cordone grosso e spesso, con il quale si batteva il tempo du-
rante le processioni religiose, affinché laici e consacrati se-
guissero il corteo con la stessa andatura.
Fila e Stroccola, dunque, parola che trasmessa nella
tradizione popolare si è contratta in Filastrocca.
Nel Grande Dizionario Hoepli, di Aldo Gabrielli la
parola filastrocca è definita quale “componimento poetico
per bambini, con versi brevi e agili rime o assonanze”, una
catena di gioiosa musicalità che le nutrici e le mamme, da
millenni, cantilenano ai bimbi sia per trasmettere serenità e
tranquillità al bambino che per tramandare saperi tanto ele-
mentari quanto preziosi.
100
Già, al riparo nella pancia materna, il respiro della
mamma è, in assoluto, il primo ritmo musicale che un bam-
bino percepisce, un ritmo che con la sua regolarità unita
all’ovattato tepore del ventre materno, infonde pace e sicu-
rezza.
Grazie alla regolarità e alla musicalità delle filastroc-
che, si possono così trasmettere sentimenti, stati d’animo e
nozioni elementari che, agganciandosi a quel ritmo primor-
diale, saranno la base sulla quale si svilupperà la persona-
lità del bambino.
Fata Draga, con la sua magia si è fatta messaggera
per noi di “filastroccole” dedicate alle persone e ai luoghi
che sono stati prezioso contrappunto alla narrazione della
storia, tra il vero e il fantastico, di Vivien Ciocan.
La loro cadenza, le suggestioni, i vissuti, gli sguardi,
le vicinanze e le lontananze vogliono essere come un’antica
ed innocente musica segreta, capace di trasmettere minu-
scole perle di conoscenza, come sa fare solo una filastroc-
cola.
101
Lungo il sentiero del viandante
Piedi santi di Francesco
accarezzan la pianura;
benedetta è la natura
dal suo passo principesco.
Lupo bianco, Lupo nero
al Velino volgi il guardo,
verde cupo lo stendardo
che è di guardia al tuo sentiero.
Nel querceto secolare
l’ombra è fresca ad ogni ora,
l’agrifoglio non ti sfiora
si fa largo al tuo passare.
E il suo sandalo innocente
batte sempre sul sentiero
esitando, più leggero,
sopra il letto del torrente.
102
Testimone del passato
l’Acqua Dolce dà sollievo:
crolla il grigio Medioevo
con un grido disperato!
Allontana le paure
della strada calpestata;
per la vita rinnovata
e per tutte le creature
sii laudato, per la via
sii laudato, o mi’ Signore
il sentiero del mio cuore
benedici. Così sia.
103
La principessa di Rocca Sinibalda
Altera sulla valle appare già la Rocca,
aquila coraggiosa osserva tutto intorno:
ormai da mille anni la freccia più non scocca
e canto della luce, da notte si fa giorno.
La principessa impavida dalla finestra osserva
i bimbi nel cortile, giocare a far la guerra;
commossa, lei li guarda con l’occhio suo di cerva,
perché giochi di pace vorrebbe sulla terra.
I piccoli dell’uomo, che sono a lei affidati,
imparano la strada e sanno dove andare
con umiltà, coraggio, dal cuore governati
finché pace e speranza vogliono accompagnare.
Teresa, principessa, che dalla rocca guardi
quanti dei tuoi bambini, in giro per il mondo!
ché per l’umanità non è mai troppo tardi,
se amore e ancora amore darai a quel girotondo.
104
La tavolata di Pantagruel
Pantagruel guarda a tutto tondo
dei commensali suoi la tavolata,
i crapuloni, dal viso rubicondo,
attorno a quella mensa apparecchiata.
Bello e accogliente il piccolo ristoro
e le pietanze sono sistemate
come diamanti e come fili d’oro,
tanto son belle e tanto son bramate.
La locandiera è dolce da stupire
con gli occhi chiari ed i capelli biondi;
ma la serata quando può finire
con piatti pieni e calici fecondi?
Pantagruel, però, non è felice
pensa e ripensa al vecchio Focolare:
commossa nostalgia, ma non lo dice
perché a Belmonte vorrebbe ritornare!
105
Vi accolga il Focolare
Voi gente che fuggite
dal caos cittadino,
come foste infiacchite
dal turco saladino,
nel cuore del Reatino,
che ancora non si scorda
del Papa pellegrino
in fuga dalla orda,
mezzadri e contadini,
sui carri con il sale
con mogli e con bambini
saliti sul crinale,
vi accolga questo desco,
semplice come il pane,
le bocche vi rinfresco
all’acqua di fontane.
106
Vi accolga il tetto mio
Florin apre la porta,
ché l’occhio del buon Dio
alla pazienza esorta!
Vi accolga il Focolare
quale ricchezza mia
calor da ricordare
lungo la vostra via.
107
Le belle rane mi guardano
L’acqua che scende limpida e feconda
ristora la natura chiacchierando
ed il silenzio della campagna bionda
si rompe al suo passare, ansimando.
Scorre il Turano, lambisce il noccioleto
con il ricordo di profumi antichi:
il buio guarda, con l’occhio suo discreto
che il contadino più non s’affatichi.
Tra bosco e fiume la bianca mulattiera
ritrova le radici della vita
e della madre di ogni primavera:
l’anima mia adesso è rifiorita.
Le belle rane mi guardano sognare
ad occhi aperti nel vento della sera,
il mio pensiero riprendere a navigare
nel cielo blu da magica atmosfera.
108
Nel centro anziani di Belmonte …
… c’è Antinisca, la fiorente,
che sorride e non si pente,
poi Dorina, forte e salda,
che l’ambiente assai riscalda
e Maria che con le sporte,
reca a tutti le sue torte.
Se l’Alvaro “mani d’oro”
artigiano del decoro,
sopra tutte alzasse voce
e volesse esser feroce,
riuscirebbe, a onor del vero,
ma con risultato… zero!
Le sue amabili anzianette
hanno lingue sì perfette
che l’Alvaro conciliante
se le ascolta tutte quante!
109
La valle dell’Ariana
Tra la quercia secolare
e il castagno vecchio e stanco,
nel silenzio dell’incanto
un paese in alto appare.
Mura calde di torpore,
come l’acqua in Valle Santa
dà colore ad ogni pianta,
tavolozza di pittore…
Acqua santa di Susanna
rendi il latte genuino,
nutri al seno ogni bambino,
chè più dolce sia la nanna.
Rosso Salice piangente,
abbracciato al nero Ontano,
a chi viene da lontano
mostra il guardo sorridente.
110
E l’airone cenerino
china il capo con rispetto,
mentre rapido il tuffetto
attraversa il tuo cammino.
Topo piccolo Quercino,
il letargo è come un velo
sul gomitolo di pelo
del mantello tuo arlecchino.
Striscia senza far rumore
tra le rocce e i sassolini,
bruna Vipera d’Orsini
sopraffatta dal timore.
Ed il pesce Spinarello,
nella grotta più sicura
della prole ha tanta cura,
come fosse un bel gioiello.
111
La pazienza del ruscello
reca storie da contare,
delle rane il gracidare
e del gambero pastello.
Coraggioso cuor di Faggio,
con lo spirito immortale,
piega i rami al temporale
come scudo a quel paesaggio.
112
Nota esplicativa
I luoghi e le persone descritte nelle filastroccole sono reali e
di seguito elencate:
- il sentiero di San Francesco che da Assisi giunge sino a
Roma, tornato alla luce dopo centinaia di anni;
- Rocca Sinibalda, con il suo castello a forma di aquila in
volo e la sede centrale dell'Istituto Comprensivo Scolastico
dal quale dipende il Plesso di Belmonte;
- il Ristorante Pantagruel, gestito da Vivien e Francesco
nella valle dell’Ariana;
- la Trattoria “il Focolare”, dove Florin e Gianna del vicino
spaccio alimentare, vi preparano volentieri un piatto di fre-
gnacce locali;
- l’Agriturismo “ le Belle Rane”, curato con amore da Mar-
cantonio Graffeo;
- il Centro Anziani e la Scuola Elementare di Belmonte in
Sabina, a due passi l’uno dall’altra per mantenere un caldo
abbraccio tra nonni e bambini;
- la Valle del Turano con i suoi noccioleti;
- quella dell’Ariana, dove passa l’antica Via Salaria;
- La Valle Santa Reatina con le sorgenti di Santa Susanna
e i suoi conventi;
- Il Massiccio del Terminillo che protegge boschi e pascoli,
113
luoghi veri con persone autentiche, che sono state coinvolte
nella storia di Fata Draga ed in questo gioco di filastrocche,
affettuose e qualche volta pungenti.
E poi lei, Fata Draga-Vivien venuta da lontano che, con il
suo sorriso, è riuscita a farsi amare dagli abitanti di Bel-
monte e con la sua magia riesce dialogare con tutte le crea-
ture di questi splendidi luoghi dell’Alta Sabina.
114
I nostri più sentiti ringraziamenti vanno a:
Vivien Ciocan che, con il suo sguardo,
ha ispirato questo racconto
Teresa Principessa, per la preziosa collaborazione
Grazia Guatuso, per il suo sostegno
tanto discreto quanto indispensabile
Antonino Stiperlo, per il suo generoso supporto tecnico
Alvaro Antonacci Presidente del Centro Anziani di Bel-
monte
Le Maestre della Scuola Elementare di Belmonte
Marcantonio Graffeo dell’Agriturismo “Le Belle Rane”
I proventi della vendita di questo libro, sono stati devoluti al “Centro
Anziani di Belmonte in Sabina” per la costruzione di giochi in legno
da collocare presso la locale scuola materna ed elementare.
115
Bibliografia:
“Genesi 2 -7”
“Ad Urbe Condita Libri” Tito Livio
“La Nascita di Roma” Marco Terenzio Varrone
“Vita di Romolo” Plutarco
“Antichità Romane” Dionigi di Alicarnasso
“ Saturnalia libro III” Macrobio
“Il Processo Cenci” G.B.Colonna / E. Chiorando
Nota: scrivere un testo letterario è un’operazione complessa. Se il lettore do-
vesse ravvisare qualche inopportuno refuso, sarebbe gradita una segnalazione
alle autrici.
116
Annamaria Calore
(e mail [email protected])
cell: 328 9559641)
Raccoglitrice volontaria di storie ed autobiografie sia individuali
che sociali
Biografa dell’Università Popolare di Roma
Socia della “ Libera Università di Anghiari”
Responsabile del Dipartimento Attività Sociali e Volontariato
dell’A.N.R.P.
Presidente dell’Associazione “RaccontarsiRaccontando” accre-
ditata, come Associazione di Volontariato presso il II Municipio
di Roma
Con “Amanda racconta Armanda (pavimento di linoleum verde)
” ha ricevuto un premio speciale nell’ambito del concorso inter-
nazionale POWOS (Storie di mondi possibili)
Si è occupata, e si occupa tuttora, di progettazione e docenza di
percorsi formativi attraverso lo strumento autobiografico, colla-
borando con la Università Civica di Nettuno (dove ha fatto parte
del Consiglio di Amministrazione), LifeCoachItaly, la “Casa
della Solidarietà” di Roma (della quale è socia fondatrice e ne è
stata presidente), la ASL RMA, il Centro Anziani di Belmonte in
Sabina e l’Istituto Comprensivo di Rocca Sinibalda.
117
Loredana Simonetti
e mail [email protected]
Loredana Simonetti è nata e vive a Roma.
La sua laurea in Matematica e il lavoro in banca tra numeri e
computer non hanno mai messo a tacere la sua innata vocazione
alla scrittura. Ironia pungente, passionalità e drammaticità
affiorano con immediatezza dalle sue poesie in dialetto
romanesco. Favole e filastrocche emergono dalla sua fantasia,
dedicate ai due figli.
Oggi i bambini sono cresciuti, ma la passione di Loredana non
langue, anzi, miete successi e riconoscimenti. Sono numerosi i
premi da lei conseguiti, tra i quali “Elsa Morante 2007” per la
narrativa, “Roma ... in cerca di poesia” per la poesia romanesca
e “Premio Creativa” di Edizioni Creativa per le favole e
”Momenti di Poesia 2011” per la poesia in lingua.
Presente in numerose raccolte e antologie, ha pubblicato
“Filastrocca e tutti a nanna” nel 2008 e la favola “Sem il Semaforo”
nel 2009 con la casa editrice EdiGiò. Con Edizioni Creativa ha
pubblicato nel 2009 la favola “Eleonora e il suo libro di favole”. Il
suo quarto libro dal titolo “Bentornata Filastrocca”, edito con
EdiGiò.
118
INDICE
Prefazione …………………………………………… 3
Prologo ………………………………………………. 5
Fata Draga - La Storia (1ª parte) …………………... 8
- Capitolo I – Bucur ……………………………… 10
- Capitolo II – Il sentiero di Lilith ……………… 11
- Capitolo III – Lungo il sentiero di Ersilia ……… 28
- Capitolo IV – Lungo il sentiero di Angerona …. 38
- Capitolo V – Lungo il sentiero di Tanaquil …… 46
- Capitolo VI – L’amaro sentiero di Beatrice …… 57
- Capitolo VII – Il Castello Aquila ………………. 81
- Capitolo VIII – L’incontro ……………………… 89
Fata Draga (2ª parte)
Epilogo ………………………….………….………... 96
La Filastroccola ………………………………………. 98
- Lungo il sentiero del viandante ……………….. 100
- La principessa di Rocca Sinibalda ………….…. 102
- La tavola di Pantagruel …………………….….. 103
- Vi accolga il focolare …………………………… 104
- Le belle rane mi guardano …………………….. 106
- Nel centro anziani di Belmonte........................... 107
- La valle dell’Ariana ……………………………. 108
Nota Esplicativa ……………………….…….…... 111
Ringraziamenti …………………….………….…. 113
Bibliografia …………………………..……….…... 114