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Sebastiano Gatto BLUES DELLE ZUCCHE (Quattro incontri veri, uno a metà e uno immaginato) AMOS EDIZIONI

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Sebastiano Gatto

BLUES DELLE ZUCCHE(Quattro incontri veri,

uno a metà e uno immaginato)

AMOS EDIZIONI

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C’è qualcuno lì dentro? Se mi senti fai un cenno. C’è qualcuno in casa? Dai, vieni, sento che stai male, posso alleviarti il dolore e rimetterti in piedi. Rilas-sati, prima di tutto dimmi cos’è successo, solo i fatti essenziali. Fammi vedere dove ti fa male. Il dolore è sparito, ti stai allontanando.

Pink Floyd, Confortably numb, 1979

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Primo incontro

Inverno 1991: dieci anni prima

Veniamo da famiglie normali, quelle di cui non si dice mai niente. I nostri nonni non mangiano perché han-no fame, ma perché è mezzogiorno o le sette di sera: non esiste una buona ragione per rimandare il pasto. Si mangia più tardi solo nelle occasioni speciali e le occasioni speciali sono natale e pasqua. L’ora di ritardo nei giorni di festa non è un’eccezione, ma la normalità.

Osservanti quasi alla stessa maniera, questo senso del dovere l’hanno ereditato anche i nostri genitori.

Si mette in folle e per anni la vita va avanti così. Poi un giorno, di punto in bianco, tutto finisce. Accade quando, nella vita, irrompono gli acciacchi e le malat-tie. Le cause di morte dei vecchi delle nostre famiglie non scandalizzano: cancro, ictus, infarto, vecchiaia. Vecchiaia vuol dire che gli ultimi quattro o cinque anni di vita sono votati a demenza, alzheimer, deca-dimento cognitivo, deficit mnesici, confusione, ritiro psichico, deterioramento mentale, depressione senile. Chi ne soffre ignora il peso che il suo accudimento comporta sugli altri, ossia le nostre madri, che trovia-mo a sessant’anni a far da balie al suocero o al genitore non più presente a se stesso.

Che sia la figlia femmina a consumarsi accelerando

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il proprio invecchiamento nella cura del malato è del tutto normale, così come è normale, nelle coppie di vecchi, che a sopravvivere più a lungo sia la donna. La prova ce l’hai al cimitero: vedove ogni giorno siste-mano fiori, puliscono tombe, accompagnano quante hanno perso il marito da poco. Oppure puoi sosta-re all’uscita di una chiesa per vederle con le amiche pronte a prendersi il caffè e la pastina (solo quelle con a posto diabete e glicemia). Così per qualche anno, fino a quando anche in loro la senescenza non inizia a macinare.

Non è che le nostre famiglie non abbiano ombre o misteri, è che anche le ombre e i misteri delle famiglie normali sono normali. Le nostre sono piccole storie la cui narrazione lascia indifferenti o dà poco da pen-sare; se qualcosa di grave succede o qualcosa di grave qualcuno commette, non è storia che c’entri con noi. Piuttosto zingari, immigrati, barbanera.

Tirate le somme sono altri. Sempre gli altri.Che poi, se si ha pazienza, buona parte di quelli che

ci insegnano a evitare da bambini – drogati, ubriachi, brutta gente –, presto o tardi fanno i conti con loro stessi e ne vengono fuori: tutti, nessuno escluso, ab-biamo dentro delle spie come quelle sul cruscotto, che segnalano quando è meglio fermarsi e cercare soccor-so. Qualcuno, è vero, si perde, ma non è questa una nostra esclusiva: quasi tutti presto o tardi avremo un lavoro; quasi tutti faremo famiglia.

I nostri nonni sposano la vicina di casa; poco più in là vanno i nostri padri; e se per caso a noi capita una

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donna anche solo un po’ diversa dalla loro – che vuole farci vedere chi siamo, che ci mette di fronte a noi stessi e alle nostre famiglie –, lasciamo che tutto finisca per prendere vie più sicure. Poco importa se a volte si aprono crepe – un padre prigioniero del vino, un fi-glio steso al bordo della strada –: anche nello squallore ogni cosa rimane al suo posto come la polvere sotto il tappeto. Non è dato che per una crepa sprofondi un’intera famiglia.

Vedevo le case venirmi addosso, una dopo l’altra, e nel-le case gli appartamenti, con dentro tanta gente che si indovinava dietro le tendine, dietro le luci delle finestre; e in ogni casa tanti pesi da portare: litigi, frustrazioni, problemi, malattie, morti. Tutto questo mi dava un senso di peso che mi schiacciava. E poi ancora: sentivo questo peso insopportabile senza riuscire a trovare un ordine, un senso, un modo di tenere in mano una simile marea di problemi. E mi prendeva un senso di impotenza, quasi fossi vinto e schiacciato da un peso debordante, eccessivo, che si faceva beffe di me.

Perché mescolo i tempi copiando questi stralci? Per-ché innesto nei miei, pensieri cui allora, con a casa un atlante, al massimo un’impolverata enciclopedia, mai mi sarei abbandonato?

Perché, pur ispirate da urgenza e carità cristiana, sono proprio queste le parole che non sanno parla-re di noi. Se me l’avesse chiesto, al cardinale Martini (1927 – †2012†) avrei risposto che il senso che andava

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cercando non lo avrebbe trovato a Gerusalemme, né restando nella sua Milano. Non di risolvere problemi si tratta, ma di abituarsi a conviverci. Forse a chi ci guarda dall’altare di una chiesa o una cattedra di socio-logia diamo questa impressione, ma ciascuno di noi sa per esperienza che non è così: l’aria che tira è la stessa di sempre, pesa non più di quanto deve pesare e certo non vale l’impiego di tanta filosofia.

Favaro, Cita, Rana, Catene, Altobello, Campalto, Cipressina, Baia del Re, Santa Marta, Giudecca, Cele-stia, Sacca Fisola, Riviera del Brenta: dove si ghettizza, la merda viene fuori. Ma, oggi e per sempre, non è questa merda che ci farà annegare: anche da noi il pa-dre saggio mette nel figlio il seme del riscatto sociale; anche qui il padre dissennato rovina il figlio con l’e-sempio o con le mani. Anche nei nostri palazzoni ogni figlio è conseguente, diventando niente o responsabile, oppure responsabile, ma dopo aver salito svariati giro-ni di niente.

Ho ritrovato una frase di Checov (1860 – †1904†): quando in un racconto compare una pistola, questa prima o poi deve sparare. Come a dire: se tanto insisto sulla normalità, è ovvio che prima o poi ne scaturirà l’imprevisto, l’inatteso, lo scabroso. Ma fuori dai libri e dai film le cose non vanno così. Normale è che qualche volta ci siano imprevisti, ma nemmeno di quelli siamo i soli detentori. La verità vera è che di Cristi scesi in terra a indicare il cammino e ad abbattere certezze, nei paesi normali non se ne vedono mai. Non venire da noi se cerchi i Tesla (1856 – †1943†), i Turing (1912

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– †1954†) o i Godel (1906 – †1978†), non è da questi quartieri che escono i talenti capaci di scardinare la storia.

Siamo i frutti di questa terra e in questa terra ri-marremo. Cresciamo al modo delle zucche e quando è ora ci trovi al mondo come sui banchi del mercato, e siamo in offerta, e costiamo poco. In tanti sui banchi del mercato nemmeno ci finiamo: ci lasciano ai merli senza la fatica della raccolta.

Primo incontro

Finalmente eccoci qui: come due zucche ci stiamo di fronte e non più di quanto due zucche farebbero, par-liamo. Ma quel che conta non sono le parole, di quelle sono già pieni i discorsi più vuoti che conosco. Impor-tante è altro, ossia che tu mi abbia scelto nel mercato della vita. Ecco, forse esagero o forse è ancora presto. D’altro canto cosa vuol dire mercato della vita? Vuol dire che il mondo stasera sprofonda, ma tu sei qui per non lasciarmi solo a contemplarne la deriva.

In questa notte di novembre, nella solitudine del parcheggio e le note che escono dai muri del locale, al-lungando la mano per offrirmi, senza dire una parola, la prima Lucky Strike della mia vita, crei l’insperato. Per me, sbarbato falso magro dal giaccone colorato e dagli ancora più ridicoli riccetti, la sigaretta offerta da te, l’ombra che fino a prima vedevo immersa in un di-

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vano come Adamo nella terra, rappresenta il biglietto per salire nel mondo dei grandi.

Poco fa ero alla festa dei diciassette anni di una compagna di classe, a rifugiarmi nei dischi del padre su un divano che vale più di casa mia; ora sono fuori da questo locale a guardare le macchine vuote, a di-strarmi carpendo il testo della canzone che viene da dentro, a soffrire per l’umido e per il freddo.

Lo hai avuto un amore al liceo? Hai passato ore a scuola a pensare a lei, a scriverle biglietti, testi di can-zoni, ridicole frasi piene di emozioni? Hai attraver-sato l’illusione che l’impredicibile si possa avverare? Hai coltivato la speranza che lei sappia andare oltre le apparenze, oltre il giudizio degli altri, che sia spe-ciale, che ti sappia leggere nel cuore, che veda nei tuoi pensieri le meraviglie che provi per lei? Hai cullato il sogno che ti dica di sì, che ti abbracci e per la prima volta ti baci, aprendo le porte di quel che banalmente chiamiamo paradiso?

Risposta: l’amore è cieco, ma lei ci vede benissimo. Così è che costei, un paio d’ore fa, si presenta alla

festa assieme al suo ragazzo, studente universitario di cui ignoravo – avevo voluto ignorare – l’esistenza. Al-tissimo e magro, con una barba già perfetta da esibire e un’aria intelligente (giacca a coste di velluto, dolcevita nero) che invece di respingermi seduce me per primo.

Hai la schiena appoggiata alla parete, ugualmente la pianta di un piede. Il braccio sinistro disteso lungo il

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fianco, a questo si aggrappa la mano del destro. Dentro si può fumare, perciò se sei fuori è per altra ragione: forse la compagnia, forse la musica, forse senza moti-vo. E appena ci incrociamo, soli nei pressi dell’entrata, estrai la sigaretta dal gilet e me la allunghi.

Giunto prima delle presentazioni e dei convenevoli, prima della prima parola, il tuo gesto scuote i muri; scavalco meridiani di adolescenza. Che sia empatia o un lavorio di neuroni non so, ma sento che sei qui per lenire con un gesto questo male, per dire, senza pro-nunciarle, le uniche cose giuste da dire.

Accettare o rifiutare? Dirti che non ho mai fumato o simulare?

Mi porgi lo zippo acceso e aspiro.E adesso che dire? Intanto grazie, poi il mio nome,

poi sapere il tuo.Ti spiego che ero a una festa, che sono qui perché

non ho mezzi per tornare: mio cugino è passato là a prendermi e mi darà uno strappo al ritorno. È la prima volta che vengo qui, non è una gran serata, il gruppo fa bene le cover, strimpello anch’io la chitarra.

Mentre straparlo guardi in basso: par quasi tu scriva con gli occhi parole per terra. E quando finisco, come se fosse la cosa più normale, ti offri di accompagnarmi a casa. La cosa, inutile dirlo, mi coglie impreparato, ma, per la stessa ragione per cui accetto la Lucky, dopo aver biascicato altre parole senza peso, dico sì.

Raggiunto a fatica il tavolino del gruppo di mio cu-gino, accanto al divanetto dove prima stavi tu – non so se loro amico, forse solo conoscente; di certo non

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totalmente dei loro –, gli urlo all’orecchio che vengo con te. Mi buca quasi un timpano chiedendomi se va tutto bene, se sono sicuro di non volerlo aspettare.

Gli rispondo che sono sicuro.Schermati dal fumo del locale, i suoi amici già su

di giri fanno un cenno di saluto e tornano a stupidi discorsi sostenuti dalle loro non meno stupide facce.

Io invece esco e ti seguo.La Scirocco nera posteggiata lungo l’argine è vec-

chia, il parabrezza affumicato, custodie di cassette, nel sedile affondo. Non conosco queste zone, a ogni curva mi sembra tutto uguale. Nel mutismo dell’abitacolo buio, solo cerco di concentrarmi sulla strada vuota e sulla nebbia che sale dai fossi. Mi ritrovo finalmente quando siamo in Romea, con il muso dell’auto in dire-zione Chioggia, quella opposta alla strada per Favaro. Solo dopo che hai già fatto la scelta mi chiedi se mi va di andare a Fusina. Fusina la conosco, per la gita alle medie alla centrale termoelettrica; ricordo che la strada taglia in due Porto Marghera e finisce in mezzo agli stabilimenti. Non capisco perché tu voglia andar-ci, ma, com’è avvenuto per la Lucky e il passaggio, non mi oppongo.

Prendiamo la camionale che costeggia le fabbriche; al freddo scorgo qualche puttana. Giri dietro un depo-sito di containers, poi in una laterale senza strisce. La strada termina in una rotonda con l’asfalto mangia-to dall’erba cui segue un tratto buio di sassi. Sui sassi parcheggi, quindi scendiamo e proseguiamo a piedi. Il pezzo di strada bianca apre su uno spiazzo che ter-

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mina con un muretto. C’è silenzio e pochissima luce. Arrivati al muretto mi trovo sporto sul Canale dei Pe-troli, in un angolo della laguna. La poca luce proviene dai lampioni piantati nelle briccole. Da sinistra l’arco buio del Petrolchimico, le luci del Ponte della Libertà, Tronchetto Marittima Zattere, dietro si allunga il pro-filo del Lido e attorno il diramarsi della laguna. L’uni-co rumore, simile al ronzio di un contatore, è la cen-trale di quand’ero ragazzino e l’infrangersi dell’acqua di sotto. Imitandoti mi siedo a cavalcioni del muretto e resto a guardare.

Nel silenzio riavvolgo le immagini della festa, quella casa in cui persino un rubinetto ti dice quanto vale (e quanto poco vali tu); vedo lei che si presenta accom-pagnata, io che sprofondo nei dischi, lei, di nuovo, che bellissima saluta le compagne, lui con in mano le chia-vi della macchina, io che la patente non l’avrò prima di un anno; vedo baci, sorrisi, splendore.

Con l’animo in balia del riflesso dei lampioni mi scopro a osservarti che sbricioli una Lucky, che appog-gi un po’ di fumo sul ginocchio e lo scaldi con lo zip-po. Un doppio salto mortale: dal niente al tabacco, dal tabacco alle canne, tutto in una sera.

Fusina, fucina: nemmeno a questo mi sottrarrò.Dò un paio di tiri impacciati, una briciola di fumo

mi cade sulla mano bruciandomi; dissimulo. Ti passo la canna, me la ripassi; tre o quattro scambi finché la getti in laguna. Parliamo, non so di cosa, ma so che il fumo non c’entra; piuttosto mi chiedo com’è – oggi più di allora – che una parte di noi continuamente

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vede e registra azioni e parole e che questo bagaglio di dialoghi, relazioni e informazioni finisce in un archi-vio cui non abbiamo più accesso.

Eccoci ancora: le luci, il silenzio, tu che rolli un’altra canna, la tua bocca che pronuncia parole, l’espressione del tuo viso che non colgo.

Poi, non so come, a quindici metri da noi, dal nien-te si materializza una petroliera: nemmeno un rumore, nemmeno un faro. Un’enormità di oltre cento metri ci scivola accanto, quasi non percepita, filando sull’acqua con dentro, come il terribile pesce cane di Geppetto o il grosso pesce di Giona, gente che sa dove sta an-dando, pronta al viaggio, alla trasferta, alla lontananza, gente che dista quindici metri e poco acciaio da noi, due sconosciuti a cavallo di un muretto.

E di fatto proprio questo siamo, due sconosciuti di famiglie normali, senza case come quella della festa, ma con mani uguali a quelle dei nostri padri, pur sen-za i calli e la forza delle loro. Dalle mie mani so che non saprò andare via, che se anche lo facessi, sarebbe comunque nel solco della vita di chi mi ha messo al mondo. So che da semi di zucca nascono zucche.

Le tue mani cancellano tutto per la durata di que-sto tempo: via la festa, via lo schifo, via questo dolore bambino che ho dentro come un’era geologica.

Per ora tutto bene.

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Santiago de Compostela

Natale 2011: dieci anni dopo

In Praza de Vigo nessuno, salvo un gruppetto di ventenni ben vestiti che rientra barcollante dalla notte. Mi guardano e ridono infreddoliti. Io li ignoro, accele-ro e passo. Sotto l’avenida deserta di Rosalia de Castro si apre il campus silenzioso; c’è ancora poca luce lungo i viali dell’università.

Non un’auto all’orizzonte, nemmeno un cane o il suo padrone. Eppure non sarebbe presto da noi: a quest’ora a Venezia le Gaggia dei bar già fanno vapore, le guardie giurate, prossime a smontare, si scaldano le mani con l’ennesimo caffè; in campo gli spazzini, or-mai a metà del giro, hanno fumato un’altra sigaretta. Anche oggi; oggi che è natale.

Serviranno un paio di chilometri a prendere il ritmo e non sentire il gelo insinuarsi nel collo. Le Mizuno Wave Ultima rispondono bene: mordono sul tallone e la suola rialzata scarica in punta anziché sulla spina dorsale. Ora il campus è passato e il Pombal mi scorre sulla destra.

Scendo una ripida rampa di scale, attraverso strade interne e taglio rúa de San Lourenzo; scavalco il ponti-cello romano e mi metto in rúa do Carme de Abaixo. Qui inizia la prima parte della salita. Sarà leggera all’i-nizio; meno all’attacco del Pedroso.