Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

8

description

ATTI DEL CONVEGNO-SEMINARIO STORICO-LETTERARIO-ARTISTICO ORGANIZZATO DAL COMITATO CULTURALE “ANGELO CORSETTI” DI PIETRASANTA, P.zza Matteotti, 35, Aula Magna dell’Istituto “Don Luigi Lazzeri Stagio Stagi”, 55045, Pietrasanta (LU) - ARGOMENTI DELLE TRE CONFERENZE: 1. Merc. 24/02/2016 h. 15,30-16,30: La cultura dell’interventismo, Prof. Paolo Buchignani, Università per stranieri di Reggio Calabria; 2. Merc. 02/03/2016 h. 15,30-16,30: La lirica nella terra di nessuno: Ungaretti ed altri poeti, Prof. Alberto Casadei, Università di Pisa; 3. Merc. 09/03/2016 h. 15,30-16,30: La mobilitazione dei letterati: diari e romanzi della Grande Guerra, Prof. Marcello Ciccuto, Università di Pisa. Questo seminario si pone come una prosecuzione, o meglio un approfondimento, di letteratura e marginalmente anche di storia dell’arte, dell’altro seminario sulla prima guerra mondiale svoltosi nell’ a. a. 2013/14 ed avente come titolo “Un secolo dalla Grande Guerra".

Transcript of Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

Page 1: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra
Page 2: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

1

SCRITTORI ED ARTISTI ITALIANI NELLA GRANDE GUERRA ATTI DEL CONVEGNO-SEMINARIO STORICO-LETTERARIO-ARTISTICO ORGANIZZATO DAL COMITATO CULTURALE “ANGELO CORSETTI” DI

PIETRASANTA, P.zza Matteotti, 35, Aula Magna dell’Istituto “Don Luigi Lazzeri Stagio Stagi”, 55045, Pietrasanta (LU) - ARGOMENTI DELLE TRE CONFERENZE:

1. Merc. 24/02/2016 h. 15,30-16,30: La cultura dell’interventismo, Prof. Paolo Buchignani, Università per stranieri di Reggio Calabria;

2. Merc. 02/03/2016 h. 15,30-16,30: La lirica nella terra di nessuno: Ungaretti ed altri poeti, Prof. Alberto Casadei, Università di Pisa;

3. Merc. 09/03/2016 h. 15,30-16,30: La mobilitazione dei letterati: diari e romanzi della Grande Guerra, Prof. Marcello Ciccuto, Università di Pisa.

Questo seminario si pone come una prosecuzione, o meglio un approfondimento, di letteratura e marginalmente anche di storia dell’arte, dell’altro seminario sulla prima guerra mondiale svoltosi nell’a. a. 2013/14 ed avente come titolo “Un secolo dalla Grande Guerra”. 1.La cultura dell’interventismo, Prof. Paolo Buchignani, Università per stranieri di Reggio Calabria. Il Prof. Buchignani ha alle spalle numerose pubblicazioni su tutta la cultura italiana del Novecento ed ha approfondito in particolare le tematiche dell’interventismo agli albori della Grande Guerra e il fascismo; è inoltre autore di romanzi e racconti. L’art. 11 della nostra Costituzione afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e di risoluzione delle controversie internazionali. Nel primo ‘900 si parla invece di guerra come “sola igiene del mondo”: la cultura dell’interventismo si diffonde in Italia ed in Europa soprattutto negli ambienti intellettuali. La prima guerra mondiale è molto differente dalle guerre del Risorgimento, ottocentesche, è una guerra di massa, una guerra ‘totale’, tecnologica, avanzata. Christopher Clark ne I sonnambuli afferma che invece i politici e gli intellettuali di inizio secolo ragionano ancora con categorie romantiche, ottocentesche, in base alle quali la guerra è considerata un atto ‘eroico’. Norberto Bobbio parla di “radicalismo”, alle spalle del quale vi è la cultura mazziniana e garibaldina che tende a considerare fallito ed insufficiente il Risorgimento (è questa una tesi anche gramsciana, come afferma, per ragioni ovviamente differenti il fondatore del partito comunista d’Italia ne Il Risorgimento, uno dei suoi sei Quaderni dal carcere, in cui sostiene che la trascuratezza della questione meridionale e della questione sociale hanno appunto fatto fallire il Risorgimento, che è stato un Risorgimento solo del nord e dei Savoia, mentre poteva essere un Risorgimento nazionale). Tale cultura è ripresa da Verga, Pirandello, Marinetti, D’Annunzio (ad esempio nel romanzo Le vergini delle rocce) e, più tardi, da Tommasi di Lampedusa. Nel secondo Ottocento si accusa la corruzione dello Stato liberale appena sorto, critica che, nel primo Novecento, investe anche il parlamento. Ecco che la cultura dell’interventismo prima ed il fascismo subito dopo si pongono come perfezionamento dello Stato risorgimentale, debole, corrotto, diviso; mentre nell’Ottocento le categorie di “liberalismo” e “nazione” procedevano di pari passo ed erano reciprocamente connesse, nel primo Novecento si ritiene che le istituzioni liberali abbiano indebolito la nazione. Anche la situazione internazionale incide su questo aspetto, ad esempio con la guerra anglo-boera o con il conflitto russo-giapponese del 1905, che vede vincitori i giapponesi, un popolo di razza gialla, sulla razza bianca, caucasica, rappresentata dai russi. Un intellettuale del tempo che ha influenzato non solo la cultura del nazionalismo, ma anche Gramsci e Gobetti, è Oriani, che sostiene che lo Stato liberale abbia denigrato la nazione, la patria. Oriani insiste sul rapporto tra avanguardie e masse, un connubio che deve scavalcare le istituzioni, nelle quali Oriani non mostra fiducia. Tale sfiducia nelle

Page 3: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

2

istituzioni rappresentative liberali risale al giacobinismo, che alle vie diplomatiche predilige una rivoluzione di massa guidata dagli intellettuali: è una sorta di intellettualismo illuministico. Lo storico Roberto Vivarelli sottolinea come Oriani parli di “nazione dei credenti”, a differenza di Cavour, che ha una visione ‘istituzionale’, ‘legale’ della nazione. E’ un’idea che trapasserà in Gentile e nel fascismo, che vogliono fare degli italiani non dei cittadini, ma dei “credenti”: è lo “spiritualismo fascista” contestato da Croce, ma sposato da Gentile, per il quale il fascismo è l’amore di patria erede del Risorgimento (per Croce l’unica ‘religiosità’ fascismo è quella del sospetto, come afferma esplicitamente nel Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, in risposta polemica al coevo Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile, filosofo ufficiale del regime fascista). Vociani, rondisti, futuristi, nazionalisti, giornalisti come Papini e Prezzolini si presentano come i fondatori dello ‘Stato nuovo’: è un’idea presente sia nella destra che nella sinistra, in quanto entrambi gli schieramenti si muovono in questo confuso magma culturale. Nietzsche, ma anche il sindacalismo rivoluzionario soreliano sono cari entrambi a Mussolini, che nel 1912 è direttore de “L’Avanti”, ma collabora negli stessi anni anche a “La Voce” di Prezzolini, il quale, criticando il parlamento, definito dispregiativamente “un’accademia”, parla di “due Italie, una che cammina, l’altra che corre”, la prima rappresentata dallo Stato liberale, corrotto, vecchio, trasformista, giolittiano, la seconda dalla guerra, che diventa “rigenerazione morale dell’uomo”. Già nel 1909 Marinetti, nel Manifesto del futurismo, aveva definito la guerra “sola igiene del mondo”. Lo storico Emilio Gentile, vivente ed ex docente all’Università “La Sapienza” di Roma, afferma che Giolitti, con la guerra di Libia, recupera tutti gli aspetti “mitologici” della guerra, come il sacrificio eroico degli italiani, che hanno riscattato l’Italia. Su questa linea si colloca Pascoli con La grande proletaria si è mossa e nel 1927 Giovanni Gentile, già interventista per la Grande Guerra, esalta ancora la guerra, che ha anche la funzione pedagogica di educare le masse. Il fascismo, in effetti, nasce con la guerra, la prima guerra mondiale, e finisce con la seconda, è ‘compreso’ tra i due conflitti mondiali. Per Pascoli, che mostra di avere confuse idee socialiste e nazionaliste, la guerra è anche elemento di coesione nazionale tra ricchi e poveri e tra nord e sud. Già Mazzini, ed ancor più Oriani, ‘spostano’ la lotta di classe dall’interno del Paese al contesto internazionale: la lotta di classe nazionale divide il popolo, quella internazionale predica la necessità della guerra per le nazioni povere, perché povere di colonie, contro quelle ricche, perché ricche di colonie. Il ceto intellettuale italiano è un ceto medio che non si sente rappresentato politicamente e che troverà accoglienza nel fascismo, gli intellettuali disprezzano il materialismo, sia proletario che borghese, volto, quest’ultimo, alla ricerca della mera ricchezza di beni materiali, si scagliano sia contro Turati che contro Giolitti, sia contro i socialisti riformisti che contro i liberali. Il popolo è rappresentato da questa nuova aristocrazia intellettuale che vuole la guerra. La Germania diventa un altro bersagli polemico, al quale contrapporre la ‘spiritualità latina’, i tedeschi sono i nemici per eccellenza, nonostante vengano assunti quali modelli culturali, contraddittoriamente, i grandi filosofi tedeschi dell’Ottocento, come Fichte, Hegel (che aveva esaltato la guerra come unico mezzo per risolvere le controversie internazionali, definendo il conflitto come un “vento purificatore dalla putredine”) e Nietzsche. Anche Gramsci nei Quaderni dal carcere parla di “spiritualismo italiano” che deve “esportare la rivoluzione” in altri Paesi. Tale spiritualismo genera passione per la guerra, contro il materialismo della “belle époque” e della modernità borghese, frutto estremo del Positivismo ottocentesco, che ha omologato le masse. La democrazia è un altro bersaglio polemico di questi nuovi intellettuali del primo ‘900, per la sua funzione omologante, mentre la guerra pone l’individuo sotto la nazione (già Fichte, nei primi anni dell’Ottocento, aveva espresso lo stesso concetto nei Discorsi alla nazione

Page 4: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

3

tedesca); è anche la tesi di movimenti nazionalistici come “Strapaese”, che sostiene che la guerra riconduca l’uomo alla natura, stessa tesi avanzata da Papini. La logica della guerra è, inoltre, quella del nemico: nella guerra è insita la logica dei regimi totalitari, che vedono nei dissidenti dei nemici da distruggere, non degli interlocutori, come afferma D’Annunzio nel suo celebre discorso interventista tenuto a Roma nel 1915. Tra gli intellettuali che si oppongono alla guerra vi sono socialisti riformisti, che non muoverebbero mai guerra alla Francia, patria dell’Illuminismo e della Rivoluzione, ma vi sono anche i liberali come Giolitti e Croce, oltre ai liberali borghesi, che temono che il conflitto possa danneggiare l’economia. Sono invece favorevoli al conflitto giornalisti nazionalisti come Papini, Corradini e Prezzolini, come si è detto, ed irredentisti, che vedono nella guerra la ‘quarta guerra d’indipendenza’. Anche Salandra, Sonnino ed il governo italiano considerano positivamente il conflitto come rafforzamento del trono e consolidamento dell’Italia nell’area adriatica, nel caso di una guerra contro l’Austria, perché è sempre bene tener presente che nel 1914 l’Italia ha tre possibilità: la neutralità, l’intervento a fianco della Triplice Alleanza, della quale fa ancora parte, e l’intervento a fianco dell’Intesa. Molti italiani vogliono entrare in guerra contro l’Austria, considerato il vecchio nemico risorgimentale. Interventisti sono ancora i futuristi come Marinetti, Boccioni e Carrà ed un fascista rivoluzionario come Bottai. Ma anche gli italiani che vorrebbero l’intervento a fianco della Triplice Alleanza, quando sfuma tale ipotesi, si dichiarano favorevoli all’intervento a fianco dell’Intesa, sembra che basti entrare in guerra, su qualsiasi fronte, purché guerra sia! Mussolini, inizialmente neutralista, cambierà rapidamente opinione, influenzato dal socialista Salvemini, il fondatore de “L’Unità”. Anche Bordiga e Tasca, futuri fondatori del partito comunista, vedono inizialmente positivamente Mussolini. I socialisti massimalisti vedono la guerra come la ‘vera rivoluzione’, dato che sono falliti i grandi scioperi del 1901, 1902, 1904, 1908 e la “settimana rossa”. La sinistra rivoluzionaria, alla quale ha aderito Mussolini, afferma che chi sostiene la pace sostiene il capitalismo. Anche nel mondo cattolico sono contrari alla guerra soltanto i moderati, ma autorevoli esponenti dell’alto clero sostengono che “bisogna obbedire al governo” e lo stesso prete confessore di Cadorna afferma che bisogna entrare in guerra contro la Germania “barbara e luterana”. 2.La lirica nella terra di nessuno: Ungaretti ed altri poeti, Prof. Alberto Casadei, Università di Pisa. Alberto Casadei ha studiato Dante, Boccaccio, Ariosto e la narrativa contemporanea. Giuseppe Ungaretti è un poeta-soldato che ha vissuto il dramma della guerra, del quale ci parla nelle sue poesie: è un poeta di guerra. Ungaretti visse ad Alessandria d’Egitto (come ci illustra nella poesia “I fiumi”), figlio di migranti lucchesi; si forma alla cultura francese e parigina ed a Parigi entra in contatto con il poeta Apollinaire, che sarà per Ungaretti una sorta di maestro. Aderisce alla guerra per ‘sentirsi italiano’: è dunque presente in lui il mito dell’italianità di carducciana memoria, ma non per questo non accetta una poesia che sottolinei il dramma umano della guerra. Si può infatti affermare che la poesia civile e patriottica di Carducci offra materia propedeutica alla lirica ungarettiana. Si può infatti affermare che la retorica dei poeti di guerra trova reminiscenze più nelle liriche carducciane e dannunziane che non in quelle manzoniane-romantiche e che lo stesso Ungaretti mantiene sempre la corrispondenza con in giornalista interventista come Papini. Ungaretti, testimone oculare della tragedia della Grande Guerra, vede nel conflitto soltanto distruzione, disgregazione e desolazione e non subisce il fascino, prima francese, poi fatto proprio anche da Mussolini, della ‘bella morte’, della morte ‘eroica’. Riecheggia, nella poesia di Ungaretti, anche il simbolismo francese di Mallarmé. Ungaretti non è

Page 5: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

4

propriamente un poeta ‘ermetico’, ma la sua lirica, scarna e levigata, costituisce un pre-ermetismo considerato la lirica più rappresentativa per esprimere il dramma umano della guerra. Porto sepolto (1916) è una raccolta di poesie interamente dedicata alla guerra, del 1919 è Allegria di naufragi, molte sono invece le edizioni della raccolta L’allegria. In “Sono una creatura” Ungaretti ci illustra una pietra “prosciugata” che è simbolo della morte e causa del suo pianto; “Veglia” accosta la crudeltà della morte (“compagno massacrato”, “bocca digrignata”, “congestione delle sue mani”) all’amore ed all’attaccamento fortissimo alla vita. E’ una poesia datata e collocata geograficamente, come moltissime sue poesie di guerra, a “Cima Quattro”. Clemente Rebora è un altro grandissimo poeta di guerra, spesso accostato ad Ungaretti. E’ milanese, vive in Lombardia, è un laico di formazione risorgimentale e specificamente mazziniana; all’avvicinarsi del conflitto è sottotenente, ma si scontra con i comandanti superiori, spesso uomini cinici e senza scrupoli. La guerra è per Rebora un inferno sulla terra. In “Viatico” (1916) si trovano espressioni molto forti di crudo realismo (“tra melma e sangue tronco senza gambe”), come anche in Ungaretti, ma in Rebora ci sono anche molte rime ed un rispetto delle regole metriche. Emergono forti dissonanze in questa sua poesia (“affretta l’agonia”), in parte anche retorica (“grazie fratello” è la conclusione): parla di un soldato in fin di vita che invoca l’aiuto di altri suoi tre compagni, che moriranno per non riuscire nemmeno a salvarlo. Le poesie di Rebora sono caratterizzate da forte espressionismo, ovvero dal voler significare una condizione di disperazione, espressionismo che sarà dal poeta superato solo quando, al termine della sua vita, si convertirà al cattolicesimo, ma smetterà anche di comporre poesie. Anche in Ungaretti si trovano elementi di espressionismo, ma prevalgono le similitudini e le analogie; le sue poesie si possono accostare ad alcuni capolavori cinematografici del tempo, come Metropolis di Fritz Lang, un film che offre l’idea di una vita inquieta e turbata. La guerra è la causa di queste dissonanze, che si trovano nella poesia, nel cinema e nella pittura: Ernst Junger, scrittore e filosofo, descrive le medesime manifestazioni di orrore e l’aspetto antropologico si trova fortemente nella pittura intesa come una sorta di ‘immaginario mitologico’ (si pensi, ad esempio, anche se in un altro contesto, a Guernica di Picasso). Ungaretti ne “Il porto sepolto” (una poesia del 1916 che dà il titolo all’omonima raccolta) fa emergere un simbolismo che trova lontani echi nel simbolismo francese di un poeta ‘maledetto’ come Baudelaire: il “porto sepolto” è un luogo mitico, come Atlantide o le città nascoste, è, in realtà, una zona archeologica di Alessandria d’Egitto. Uno dei grandi mezzi della poesia simbolista è l’uso dell’analogia: ”Sono una creatura” e “San Martino del Carso” costituiscono, in realtà, un’unica similitudine, quella della pietra totalmente “disanimata” nella prima, quella del “cuore” del poeta, paragonato al “paese più straziato”, alle case di cui “non è rimasto neppure tanto”, a “tanti che mi corrispondevano” nella seconda. “Canto” e “carmen” sono due parole latine che esprimono entrambe il termine “poesia”, ma il “carmen” è ‘qualcosa in più’ del canto, è una sorta di magia: Ungaretti riprende questa differenza e vuole offrirci un carmen che inteso come magia che va a toccare i luoghi più profondi dell’anima, le zone più occulte, che il poeta viole cogliere con la poesia, che diventa una sorta di ‘formula magica’. La poesia può cogliere le condizioni più profonde dell’essere umano. Come emerge in “Italia” (datata “Locvizza, l’1 ottobre 1916”), in cui emerge la volontà di pronunciarsi sul mondo, espressa con una certa retorica (non è infatti questa una delle più felici poesie di Ungaretti), che viene meno soltanto nella strofa finale (“mi riposo come fosse la culla di mio padre”). “Commiato” (2 ottobre 1916) è una specie di sintesi delle tematiche della poesia di guerra: il poeta, da un lato è ancora molto legato al simbolismo, dall’altro ribadisce la forza della

Page 6: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

5

parola, che dev’essere “scavata”, “come un abisso”, ed in quest’ultima strofa Ungaretti supera il simbolismo. Nel 1915 Rebora viene ferito in guerra e rimane profondamente scioccato: trascorre il resto della guerra da un ospedale all’altro. In “Camminamenti” si usano espressioni come “piccone sordo”, “frana di morti”, “maciullerem”, “Sfasciando al cuore”: sono versi fortemente espressionistici, molto incisivi, emerge il gusto per l’ossimoro e le contraddizioni, ma le varie sequenze della poesia non sono ben coese, restano delle fratture. Riecheggiano elementi dell’Inferno dantesco in espressioni come “galeotte”. In “Voce di vedetta morta” a parlare è un morto, che si rivolge ai vivi (“C’è un corpo in poltiglia”): emerge qui un senso del grottesco, l’amore più forte può portare alla morte. Il morto ci offre la sua visione della vita: è questo un aspetto antropologico presente in Rebora, che, ancor più di Ungaretti, s’immedesima nelle scene e nei personaggi delle sue liriche. In “Fonte nella macerie” (1918) si parla di un “forato silenzio”: è una poesia inquietante (stessa inquietudine si ritrova nel film di Stanley Kubrick Shining). Umberto Saba, un vero e proprio poeta ermetico, in “Sognare, al suol prostrato” ci offre una soluzione diversa. Coevo di Ungaretti e Rebora, a differenza di loro non partecipa attivamente alla guerra. In questa lirica ci presenta l’immagine di un aereo, molto cara a Marinetti ed a tutti i futuristi. La poesia è un sonetto, quindi Saba predilige una forma metrica tradizionale: racconta il sogno di un bambino che viene infranto da un aereo di guerra, che, alla fine della poesia, lascia il posto solo a “macerie di case in rovina”. Ardengo Soffici, come D’Annunzio, subisce il fascino dell’uomo-macchina e della violenza, tipico del futurismo: in “Aeroplano” (1915) presenta una visione completamente diversa della guerra rispetto ai precedenti poeti dei quali si è parlato, un’immagine tutta positiva, che si ritrova anche nei suoi quadri, dato che Soffici fu anche un pittore. La guerra è la liberazione degli spazi inediti, come lo stesso aeroplano; nel 1915, quando Soffici scrive questa poesia, è ancora molto diffuso il mito della guerra. La poesia sulla guerra tende, in sostanza, a svuotare il campo dall’ideologia (cfr. La guerra d’Europa, una recente antologia di poesie della Grande Guerra). 3.La mobilitazione dei letterati: diari e romanzi della Grande Guerra, Prof. Marcello Ciccuto, Università di Pisa. Ciccuto insegna letteratura italiana all’Università di Pisa, ha studiato a fondo Tobino, Viani ed Enrico Pea, è uno studioso della cultura locale, ma anche presidente della Società Dantesca Italiana, di fama mondiale. Contrariamente a quanto si possa immaginare, la letteratura di guerra è molto vasta: infatti la prima guerra mondiale ed il periodo immediatamente successivo, fino al 1930, è contrassegnato da una vera e propria fucina di opere letterarie ed artistiche. Siamo in possesso di un’enorme eterogeneità di documenti, che sono stati prodotti con lo scopo di conservare e trasmettere ciò che è avvenuto. Si tratta di documenti autentici della guerra, sono i cosiddetti “diari di trincea”, scritti appunto nel fango delle trincee, sotto i colpi di fucile e di cannone. E’ questa una peculiare caratteristica della Grande Guerra che non si riscontra in altre occasioni. La letteratura in materia varia dagli appunti di taccuino del fante alle lettere, ai diari, ai grandi romanzi. Da notare che quasi tutti i romanzi escono postumi,, mentre, sotto questo punto di vista, sono più importanti le lettere, i diari, gli appunti privati su taccuini, che sono coevi e che vengono pubblicati dopo la guerra. Gabriele D’Annunzio scrive Il notturno, un’opera in prosa nella quale riscopre, attraverso il suo particolare dolore per la perdita di un occhio in guerra, il dolore universale dell’umanità; è questo sicuramente il D’Annunzio più umanamente autentico, nei momenti in cui, disteso su un letto d’ospedale, detta ad un’infermiera, le sue memorie di guerra; pur tuttavia venendo meno il superomismo che aveva caratterizzato buona parte della sua precedente produzione in versi ed in prosa (come si evince dai romanzi Il fuoco, Le vergini

Page 7: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

6

delle rocce e Il piacere, nel quale s’identifica con il protagonista, Andrea Sperelli, che vive di amori lussuriosi e di duelli nella sua barocca villa romana), resta comunque, in D’Annunzio, una fonte di egoismo, dovuto al suo dolore personale. Ne L’alcova di acciaio Filippo Tommaso Marinetti definisce il conflitto “una festa dello spirito”, offrendoci così una versione che è ben diversa dalla realtà. Altri autori del periodo sono Giani Stuparich con la Guerra del ‘15 ed il poeta crepuscolare Marino Moretti con Il trono dei poveri. Tutta la letteratura di guerra è una mistificazione, rispetto ai fatti, e la ragione di ciò è insita nel conflitto stesso, che fu devastante a tal punto da creare negli scrittori un senso di smarrimento ed incapacità a rappresentare fedelmente la catastrofe della quale furono protagonisti. Il carattere apocalittico del conflitto ha fatto sì che ci fosse anche pochissima pittura di guerra, le uniche arti figurative di un certo rilievo sono quelle futuriste, che hanno esaltato i treni, l’’ uomo-macchina’, l’impeto, il dinamismo, la violenza, il ferro e l’acciaio. I giornali del tempo presentano una visione trionfalistica della guerra a causa della censura, come si vede dalle copertine della Domenica del corriere del tempo: si presenta l’idea, falsa, del contadino che felicemente imbraccia il fucile e si reca al fronte. Boccioni, pittore futurista, muore in guerra, ma nel suo taccuino, datato 1915, ‘descrive’ entusiasticamente i colpi di cannone, con una totale vacuità etica. I taccuini sono un’importantissima fonte per i romanzieri. Gadda, uno dei più grandi scrittori italiani del ‘900, fu anche combattente, e nei suoi romanzi utilizza gli appunti che aveva preso durante la guerra, ma i suoi scritti, come Il castello di Udine, denotano una maggiore introspezione rispetto ai taccuini di Boccioni. Anche Mussolini, volontario nella Grande Guerra, ci ha lasciato le sue memorie di combattente sul Carso: il suo Giornale di guerra è da lui stesso definito “pagine di verità senza letteratura”, ma i suoi critici lo hanno invece coniato come “pagine di cattiva letteratura senza nessuna verità”. E’ volontario in guerra, ma evita il fronte ed i combattimenti: viene ferito durante un’esercitazione e, ricoverato in ospedale, grazie alla collaborazione di un’infermiera corrotta, modifica il periodo di convalescenza da due a dodici mesi! Rimane quindi un anno in ospedale, riesce a non andare a Caporetto e si salva. In sostanza, in Mussolini emerge un’evidente falsificazione dei fatti storici. Ben diversa l’interpretazione del conflitto di Carlo Bacchelli: l’autore de Il mulino del Po pubblica le Memorie del tempo presente sulla sua rivista, “La ronda” (importante rivista interventista romana), ove definisce realisticamente la guerra come “dolore che richiama dolore”. Anche Emilio Lussu in Un anno sull’altipiano illustra la tragedia del conflitto. Uno dei narratori più realisti della Grande Guerra è Corrado Alvaro: l’autore di Gente in Aspromonte afferma infatti che “la guerra è, a vent’anni, sentirsi vecchio”. Giuseppe Ungaretti, nelle sue liriche, punta sui contenuti puri, come emerge da Il porto sepolto, una raccolta di poesie che trova il suo terreno preparatorio negli appunti che il poeta aveva preso in guerra. Massimo Bontempelli, fondatore del ‘realismo magico’ ne La scacchiera di fronte allo specchio, nel 1919 pubblica una raccolta di poesie ove i camminamenti nelle trincee ed il gas vengono descritti come ‘simboli0, del tutto privi di pathos. Clemente Rebora è stato al fronte dal 1916 al 1918:afferma esplicitamente che la guerra offre solo scenari di morte, anche interiore, e non solo di corpi fatti a pezzi, la guerra, per sua natura, è la negazione dell’identità e della vita. Lorenzo Viani ci ha lasciato taccuini di guerra ed anche un’opera letteraria, Il romito di Aquileia, un suo compendio di poesie, disegni, racconti, taccuini, appunti scritti talvolta su bende e cerotti, nei quali descrive il mondo dei poveri e dei disgraziati, un mondo di sofferenze di disgraziati che nella guerra trovano purtroppo la prosecuzione della loro vita di larve umane, sono gli stessi poveri che popolano anche la pittura di Viani. Per i disperati

Page 8: Scrittori ed artisti italiani nella Grande Guerra

7

non c’è quindi frattura tra la loro vita prima e durante la guerra. Il Ritorno alla patria (1929) è uno scritto di Viani che rappresenta fedelmente il dramma umano del conflitto. Nell’aprile 1918 Viani organizza una grande mostra a Milano intitolata “Impressioni di guerra”, con 200 opere, al palazzo delle aste. Lo spezzino Cozzani cura la prefazione al catalogo della mostra ed afferma proprio che Viani, anche prima della guerra, è il descrittore delle miserie umane: Viani non vuole mutare la realtà dei fatti, ma riscriverla. La guerra, per Viani, non fu affatto una “purificazione”, a differenza di Marinetti e di tutti i futuristi, compresi pittori come Carrà e Boccioni, e la mostruosità delle operazioni belliche non è narrabile in termini di “lineare lucidità”. Rudyard Kipling, grandissimo scrittore inglese, ha combattuto alcuni mesi sul Carso e ci ha lasciato una memoria, che viene letta e criticata aspramente da Viani, per il quale il Carso non è quel “mito” descritto da Kipling, ma uno scenario di morte e fuoco che farebbe “inorridire Farinata degli Uberti nell’Inferno dantesco”; Kipling, secondo Viani, ci descrive “un Carso inesistente”, quello degli amori tra i soldati e le ragazze. Riprendendo le parole di Wilde, Viani afferma che non è stato lui ad imitare la guerra, ma è la guerra ad essere entrata nei suoi quadri e nei suoi scritti: è proprio questa la conclusione di Ritorno alla patria. Chi aveva odiato la guerra finirà, secondo Viani, per odiare anche la vita, al ritorno dal conflitto, talmente è insopportabile il cumulo degli atroci ricordi delle vicende belliche. E questo è valido in ogni tempo: un esempio ci è offerto, sia pure in altro contesto, dal suicidio di Primo Levi, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz dopo la seconda guerra mondiale. Un altro esempio è quello di Federico De Roberto, che ci parla di un’altra guerra, quella del 1813-14 contro l’Austria, descrivendo un gruppo di italiani che rifiutano il conflitto e preferiscono il suicidio. Anche la pace, per chi ha vissuto in prima persona la guerra, è dunque sempre vista come aggressiva ed ostile. Momenti di vita di guerra di Alfonso Omodeo è una raccolta di lettere pubblicate sulla rivista “La critica” di Benedetto Croce: in queste è possibile ricostruire una storia civile della guerra. Ernesto Rossi e Vittorio Foa, nel carcere romano di Regina Coeli, leggeranno e rifletteranno sulla raccolta di Omodeo. Altri romanzi sulla Grande Guerra furono quelli di Carlo Salsa (Le trincee), di Luigi Bertolini, che fu anche un artista (Il ritorno sul Carso), Elio Vittorini (Piccola borghesia), Giovanni Comisso, che in Giorni di guerra ci narra, in modo poco realistico, la guerra come “infanzia della vita”, con gli amori spensierati tra le ragazze ed i soldati al fronte, che non erano certo “spensierati”! I due grandi capolavori della narrativa di guerra restano Addio alle armi di Ernest Hemingway e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque, entrambi pubblicati per la prima volta nel 1929, quindi un decennio dopo la fine del conflitto. In quest’ultimo l’autore, un tedesco di origine francese, volontario all’età di diciotto anni sul fronte tedesco, descrive il dramma umano della guerra, che condanna con crudo realismo (particolarmente cruente le pagine che descrivono un ospedale da campo, con i soldati feriti che “vomitano pezzi di polmone bruciato” o i combattimenti di notte nelle trincee ed in un cimitero). Non a caso la sua opera sarà censurata durante il regime nazista. Attilio Frescura nel Diario di un imboscato descrive invece la guerra come un’esperienza poco significativa, da fuggire, ma il romanzo manca di profondità. Infine Curzio Malaparte, l’autore di Maledetti toscani, ne La rivolta dei santi maledetti dimostra carenze nelle motivazioni delle sue affermazioni: è l’opera di un ‘espressionista’, che parla del conflitto senza darne una totale condanna. E’ romanzo poco rispondente alla realtà, frutto di un’ideologia reazionaria, quale è quella dell’autore, che mostra un’assuefazione alla violenza che troverà giustificazione, in seguito, nel regime fascista.