Scritto da: Aurelio Alfio Alberto Abate Nel periodo Marzo ...

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1 Scritto da: Aurelio Alfio Alberto Abate Nel periodo Marzo/Aprile 2020 “ questo libro è nato come prova di scrittura, poi è diventato la via di fuga per superare la quarantena da coronavirus ” Come dico sempre: “ se non puoi uscire dal tunnel …arredalo. “

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Scritto da:

Aurelio Alfio Alberto Abate

Nel periodo Marzo/Aprile 2020

“ questo libro è nato come prova di scrittura, poi è diventato la via di fuga per

superare la quarantena da coronavirus ”

Come dico sempre: “ se non puoi uscire dal tunnel …arredalo. “

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PARTE I

Wuhan

CAPITOLO 1

Contagio

Mi chiamo Ungeziefer, sono di Wuhan, l’esteso capoluogo della provincia di Hubei, nella Cina

Centrale, un polo commerciale attraversato dal Fiume Azzurro e dal Fiume Han. Questa città

comprende numerosi laghi e parchi, come il grande e pittoresco Lago dell’Est. Non lontano da casa

mia sorge il Museo della provincia di Hubei, dove sono esposti reperti risalenti al periodo dei Regni

combattenti, tra cui la bara del marchese Yi di Zeng e le campanelle in bronzo ritrovate nella sua

tomba, che risale al V secolo a.C.

Tutto cambiò quando mi trovavo in una sala del tempio buddista Guiyuan, che si trova nel distretto

di Hanyang, che è stato fondato nel XVII secolo. In questa sala ammiravo l’esposizione delle 500

statuette dorate dei Iohan ( i discepoli illuminati ). Notai qualcosa di diverso non tanto nelle

statuette, ma per la sorveglianza irrequieta degli operatori culturali, in quel momento non capivo e

non sapevo niente, quindi decisi proseguire sulla Jianghan, una strada pedonale molto frequentata,

riservata allo shopping.

Proseguì sull’Hankou Bund, un viale che costeggia il fiume Azzurro, dove si affacciano edifici

risalenti alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, che porta casa mia, oltrepassando questa zona

famosa perché avevano sede le cinque concessioni straniere. Come punto riferimento vi era su

un’alta collina dall’altro lato del fiume, la Torre della gru gialla, che svettava con i suoi cinque

piani, che era la ricostruzione di un antichissimo monumento.

Fu lì che vidi il manifesto bilingue, in cinese e in inglese, dei giochi militari tra il nostro esercito e

quello U.S.A. che duravano due settimane, in corrispondenza del capodanno cinese. Sapevo che

dovevano farlo nella stagione della fioritura dei ciliegi, in primavera, ma evidentemente avevano

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anticipato l’evento. I luoghi designati erano il campus dell’Università di Wuhan e il monte Mo sul

Lago del’Est, due luoghi molto frequentati dai giovani e dagli sportivi. Andai subito per vedere gli

atleti americani, ma arrivato lì rimasi deluso, non c’erano, chiesi in giro e mi dissero che non

potevano partecipare all’incontro, perché avevano avuto tutti una brutta intossicazione a causa, si

pensa, ad una prelibatezza locale, cioè la zuppa di pipistrello. Molto gradita dalla gente locale,

soprattutto nei periodi di magra, che però spesso presentava dei problemi di digestione e in qualche

raro caso portava dei virus intestinali.

I pipistrelli, da tempo vengono studiati dalla facoltà di biologia dell’università di Wuhan e da

alcune maxi fabbriche farmaceutiche straniere, americane con sede in Brasile, francesi con sede in

Siria, e poi una fondazione Inglese con sede in India. Tutte cercavano di carpire la parte del DNA e

il genoma, che permettevano al pipistrello di essere immune a molti virus e batteri, al massimo

portatore sano. Come in passato si era fatto, ma con scarso successo, con gli squali, altri detentori

dell’invulnerabilità fisica ai 4 cavalieri neri del mondo microscopico, cioè batteri virus funghi e

protozoi.

CAPITOLO 2

Wenliang

La mia mente tornò indietro al dicembre scorso quando Li Wenliang aveva notato in sette pazienti

un virus simile alla Sars, ma le autorità locali lo misero a tacere. Ora a mesi di distanza la polizia di

Wuhan si scusa per il trattamento riservato al medico-eroe Li Wenliang, perché fu il primo a

lanciare l’allarme sul coronavirus e in seguito morì per aver contratto il Covi-19. Il 34enne fu

accusato di “diffusione di false informazioni su internet”. L’Ufficio di pubblica sicurezza della città

focolaio, ha ora scritto in una nota che sul caso “ ci fu una applicazione errata della legge e delle

procedure irregolari”. Le scuse arrivarono dopo le conclusioni della National Supervisory

Commission, secondo cui “l’azione della polizia non fu appropriata”.

A quel punto il mio interesse per la situazione fu massima, sia per quanto riguardava la mia salute

personale, e sia per quanto riguardava il mio lavoro essendo un operatore sanitario che lavorava in

ospedale. Quindi decisi di addentrarmi nella matassa e tirare fuori tutti i nodi.

Iniziai proprio dal mese di dicembre e proprio da Li Wenliang. Il dottore che aveva notato i sette

casi di un virus che gli ricordava la Sars all’ospedale di Wuhan dove lui lavorava ed io ci lavoro

attualmente. Aveva tentato senza successo, di avvertire i colleghi, di condividere l’allarme, che quei

casi sospetti avevano suscitato, ma le autorità locali gli fecero capire che era il caso di

smetterla.Allora raccontò la sua storia sui social, pubblicando una sua foto sul letto dell’ospedale in

cui si trovava intubato proprio a causa del coronavirus. Ma ormai per il medico-eroe non c’era più

niente da fare.

Il momento più buio? A fine Gennaio, quando qui a Wuhan ci sentivamo il lazzaretto del mondo,

isolati da tutti. Quando bisognava decidere come andare avanti. Vedevo spesso un italiano, tale

Lorenzo M. Uno della decina di italiani della città dov’è scoppiata l’epidemia. Lui decise di restare

in Cina, perché il suo lavoro e la sua vita erano lì da 15 anni. Si chiuse in casa con la moglie e con i

due figli.

Ora l’ho rivisto Lorenzo, mi disse: “A Noi va bene ora, o almeno decisamente meglio, da giorni i

contagi si sono fermati, oggi zero, stiamo ancora in casa la maggior parte del tempo, ma il peggio è

alle spalle”. Inoltre mi disse: “ è stato un crescendo di disposizioni restrittive, a partire dal 23

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gennaio. Prima ci hanno detto di uscire solo uno per nucleo familiare, ogni due giorni, poi ogni 3.

Ultimo passo restare dentro casa e aspettare.

Dura da accettare per uno come me abituato a viaggiare per l’Asia per la mia attività commerciale;

per mia moglie che lavorava in ufficio; per i miei bambini con la loro routine di scuola e giochi

all’aperto e sport che è stata spezzata all’improvviso. Poi 14 giorni dopo l’ultima uscita, mi sono

reso conto che siccome stavo bene, stavamo bene tutti, bastava restare a casa e seguire le

disposizioni per restare puliti dall’infezione”.

Un grandissimo sollievo per me sentire quel “dopo il 14esimo giorno”, mi ha dato la spinta per non

cedere. E ora sono qui, SANO.

CAPITOLO 3

La Paura

La paura è un’emozione primaria, comune sia al genere umano sia al genere animale.

Sostanzialmente la paura è un emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo

che può essere reale, anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia. La

paura è spesso accompagnata da una reazione organica, di cui è responsabile il sistema nervoso

autonomo, che prepara l’organismo alla situazione di emergenza, disponendolo, anche se in modo

non specifico, all’apprestamento delle difese che si traducano solitamente in atteggiamenti di lotta e

fuga.

Nella paura c’è quindi la sensazione che qualcosa minacci la nostra esistenza o quella delle persone

a noi più vicine. L’emozione della paura può proiettarsi nel futuro: qualcosa di brutto come il

coronavirus che colpirà me o gli altri, può spingere ad aggredire chi si avvicina troppo oppure al

contrario fuggire per evitare il contagio. La reazione alla paura è un emozione dominata dall’istinto,

cioè da un impulso, che ha come obiettivo la sopravvivenza ad una determinata situazione di

pericolo; irrompe ogni qualvolta si presenti un possibile cimento per la propria incolumità, e di

solito accompagna ed è accompagnata da un’accelerazione del battito cardiaco e delle principali

funzioni fisiologiche difensive.

Lavorando a stretto contatto con pazienti affetti da Paura, ho riscontrato: una intensificazione delle

funzioni fisiche e cognitive, difficoltà di applicazione intellettiva, protezione istintiva del proprio

corpo, ma anche una ricerca di aiuto, ed in alcuni casi voglia di fuggire. La fuga per sindrome

ansiosa accade quando la paura non è più scatenata dalla percezione reale di pericolo, ma dal timore

che si possano verificare situazioni di profondo disagio. La Paura ha diversi gradi di intensità a

seconda del paziente. Pazienti che vivono intensi stati di paura di frequente hanno atteggiamenti

irrazionali, un esempio è la paura che sfocia in Ira, come risposta al dolore o alla sua percezione. Se

un individuo impaurito è costretto ad attaccare, l’ira può prendere il sopravvento e la paura svanire.

La paura quasi sempre inizia dal suo grado più basso, cioè il timore che è la forma meno intensa

della paura e si determina quando una situazione promette piacere ma, al tempo stesso, anche

dolore. Poi salendo di grado si passa all’ansietà, alla fobia, al panico, al terrore ed infine all’orrore

che è un sentimento di forte paura e ribrezzo destato da ciò che appare crudele e ripugnante in senso

fisico o morale. Un orrore può essere un fatto, un oggetto o una situazione che desta tale

sentimento. Le paure possono essere legate ad un trauma specifico. Ad esempio nel mio caso, la

paura del cane può essere legata a uno o più episodi di aggressività da parte di questo animale.

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Il buddismo si basa in parte sulla paura; la paura della sofferenza. Il Buddha uscì nella sua ricerca

spirituale quando si rese conto che tutti sono soggetti a disagi, problemi e dolore, e con l’obiettivo

di trovare un modo per porre fine a tutto, ha scoperto una “via di uscita”.La terapia buddista nel

trattamento delle paure esagerate non è probabilmente diversa dalle modalità di trattamento

occidentali. Il trattamento si basa sul tentativo di vedere che la paura è una forma di sofferenza di

cui desideriamo sbarazzarci e di usare l’abitudine e il controllo della nostra mente per dissolvere le

paure irrazionali; è solo che il buddismo cerca di portare alla fine la soluzione dei problemi mentali,

per fermare il nostro stesso potenziale di sofferenza e problemi raggiungendo la liberazione e

l’illuminazione.

CAPITOLO 4

Badminton

Reika: < Ohhh finalmente abbiamo l’onore di avere qui con noi l’illustrissimo Ryo Ungeziefer!!!>

Ryo: < Ciao Reika … scusa per il ritardo. Gl’altri già sono arrivati?>

Reika: < non solo sono arrivati … ma già stanno giocando da un pezzo! Cafumi ti ha sostituito

nell’attesa che il re si facesse vedere dalle parti del giardino.>

Il giardino era nel retro della villetta dove si trovavano la piscina e il campo da badminton. Lì

c’erano Cafumi, la sorella minore di Reika, Selene la maggiore, e Jackie Qiang il ragazzo di Reika.

Cafumi appena mi vide, mi salutò e si eclissò, lasciandomi la racchetta come unico indizio che lei

aveva finito di giocare. Tolta la giacca mi misi dal lato di campo con Selene, dall’altra parte della

rete Jackie e Reika. Facemmo 5 partite serrate, vincemmo alla bella 3 a 2.

Selene: < pensavo che eri totalmente fuori forma!!!>

Ryo: < ero solo arrugginito, è un pezzo che non faccio sport, anche una partita “amichevole” si fa

un pò di fatica.>

Selene: < comunque abbiamo vinto ed è quello che conta, con Cafumi non avevo speranze.>

Reika: < ti sei impegnata di più solo perché avevi Ryo accanto, se no potevamo giocare contro il

muro, sarebbe stato un avversario più temibile!!!>

Jackie: < Reika sai sempre dire la cosa sbagliata al momento sbagliato. Quei due si annusano da

anni, ma sono così timidi, che le loro guance hanno cambiato colore tre volte per l’imbarazzo!!!>

Reika: < ha parlato il maestro della racchetta, non sei sceso a rete neanche una volta, bravo solo a

fare battute a distanza.>

Ryo: < dai !!! ho le guance rosse per la fatica e per il caldo, niente di più temerario.>

Il pomeriggio proseguì bevendo birra d’importazione, la partita era finita, quindi le doti atletiche

potevano andare a dormire, mentre uscivano fuori la chitarra e le canzoni dei cartoni animati,

sempre le stesse, perché quelle nuove, secondo tutti, erano troppo lente e noiose. Si passava alla

cena verso le 20:00 a base riso al cherry e alette di pollo impanate e fritte un pò troppo, ma Reika li

faceva da sempre così ed era così che dovevano essere.

Eravamo cresciuti dal tempo delle classi superiori, c’eravamo allontanati un po’, ma sempre uniti

con il pensiero. Reika aveva studiato giurisprudenza e ora era un avvocato divorzista, che in Cina

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non è la cosa più semplice del mondo, ma stava raccogliendo i primi frutti. Jackie era un meccanico,

aveva un officina vicino al tribunale, e quando per la quarta volta in un mese la macchina di Reika

venne parcheggiata davanti l’ingresso, lui gli disse: “ho ti decidi a cambiare la batteria o ti decidi ad

uscire con me!!!” scelse la seconda opzione, che era di gran lunga più interessante, infatti da lì a

poco si misero assieme e non si mollarono più.

Per quanto riguarda Selene è tutta un’altra storia. L’ho conosciuta ad una festa di compleanno di

gente un po’ più grande, frequentata d’artisti o presunti tali. Chi era scultore, chi pittore, e chi era

grafico pubblicitario come lei. Lei aveva studiato le belle arti e aveva vissuto per due anni a Firenze

in Italia, per apprendere lo stile dalla fonte (così mi disse), non la conoscevo, ma già notai la

differenza tra lei e quel guazzabuglio di sciroccati inventori del nulla. Lei aveva talento, mi mostrò

un suo lavoro in una teca, era proiettata un immagine in movimento, una macchina da corsa che

sfrecciava a forte velocità, ma che restava contenuta in quello spazio. Mi disse che ormai l’arte esce

fuori da un computer e da dei programmi reimpostati, il talento era riuscire a far diventare una cosa

dozzinale e scialba, in un bolide fiammante che qualunque potenziale cliente agognava. Capì che

vedeva il mondo in un modo diverso, che era abituata a ragionare ad un altro livello, e si era

rassegnata ad esprimersi come un padrone che rimprovera il proprio cane, perché ha fatto una

marachella, ma il cane non sa di averla fatta.

Lei in me vide il classico pesce fuor d’acqua, un po’ più giovane ed inesperto, ma ancora

recuperabile dal pattume che era in giro. Ci vedemmo svariate volte con varie scuse plausibili, del

tipo: ho visto il tuo spot alla tv locale e ho visto che hai usato il colore che ti avevo detto per lo

sfondo … sta proprio bene, e poi la conversazione passava ad argomenti meno noiosi, del tipo: dai

organizziamo un uscita per andare al fiume azzurro, conosco un posto dove ancora si può pescare,

l’inquinamento di lì non passa, c’è una diga un po’ più sopra devia le acque reflue, mentre da sotto

risalgono i pesci che vanno a riprodursi, una settimana fa ne ho visto un paio belli grossi, da fare

bruciare alla griglia dalla cuoca Reika.

Quando la cosa si fece inevitabilmente più seria e intensa, cambiò tutto, tutte le inadeguatezze, tutti

i timori, tutte le ansie, tutte le paure vennero a galla. Lei voleva sfondare nel mondo come public

manager o robe simili, e doveva viaggiare molto, vedere la gente giusta per fare il salto di qualità,

essere libera di gestire il suo mondo a suo modo, l’unico modo che aveva sempre utilizzato. Mentre

io ero fisso in un posto, senza grandi prospettive, non avevo interesse a fare carriera e tantomeno a

girare per il mondo come una trottola, non conoscevo lingue straniere, e alcune volte mi sentivo già

forestiero poco fuori dal mio quartiere, era un impegno troppo grande seguirla, e glielo dissi.

Gli dissi che qui e ora eravamo perfetti, ma fuori dalla nostra bolla eravamo simili come una farfalla

e un elefante, quindi gli diedi una specie di ultimatum, o viveva la vita qui con me insieme, oppure

poteva fare la sua vita ovunque ma senza di me. Lei decise di decidere di prendersi del tempo per

decidere, che detta così sembrava più complessa delle pitture postmoderniste dei suoi amici snob.

Alla fine i troppi dubbi e paure, ci fecero allontanare senza bisogno di risposte o algoritmi

complessi usati dai matematici teorici. Da vederci tutti i giorni ci vedemmo solo qualche volta, le

chiamate al telefono erano sempre più corte e neutre, avevamo paura degli eccessi, di quello che si

voleva dire realmente. Lei partì verso la patria degli Yankee e ci restò per un pezzo, interrompendo

drasticamente l’inizio di una storia che era già nata, ma che non cresceva, stagnante nel orrore di

una perdita definitiva.

La partita a Badminton fu la scusa cercata e non voluta, per poterci riavvicinare, se non come due

pilastri di una storia d’amore, almeno come una bella amicizia che si rafforza con il passare del

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tempo. Ma la chimica è bastarda, quando nel cervello avvengono certe reazioni e difficile fare finta

di niente, e come quando in radio passano il pezzo metal preferito, non si può fare altro che agitare

la testa e cantare a squarciagola, e te ne freghi se al semaforo il vicino di macchina ti guarda storto.

La vita è una e non si deve avere paura di ciò che ci piace, ma viverlo al 100%, che sia una canzone

o un amore perduto. Se c’è del fuoco che ancora brucia in fondo al braciere, non bisogna spegnerlo,

ma alimentarlo, in modo tale da portare la fiamma all’antico splendore, che si veda da lontano,

come faro d’Alessandria, che porti il marinaio alla sua meta.

CAPITOLO 5

Ginseng

La partita a badminton, mi aveva lasciato interdetto. C’eravamo salutati tutti allo stesso modo, come

facevamo anni fa, tutto regolare da parte dei vecchi amici, ma sapevo che la partita per me non era

ancora finita, anzi eravamo ancora al primo set con un campo più vasto e più accidentato. Il giorno

dopo mi ritrovai ad affrontare gl’ultimi strascichi del coronavirus in ospedale, alcuni lungodegenti

avevano avuto delle ricadute e non si volevano ulteriori decessi a pochi metri dal traguardo. Dal

canto mio nulla era cambiato nella subroutine, facevo le stesse cose, forse un po’ più lento e

disinvolto a furia di ripetere i stessi giri, però vedevo i miei colleghi, un po’ meno abituati di me a

fare i nonstop, che arrancavano nelle corsie come fantasmi in una casa stregata, evanescenti, che

tiravano le loro lettighe o catene, asseconda del punto di vista. Mentre ero avvolto nei miei pensieri

funambolici, vibrò il cellulare in tasca, entrai in una stanza vuota e controllai, era un messaggio di

Selene che m’invitava a prendere un ginseng al bar vicino il suo studio. Ormai l’avevo visualizzato,

quindi sapeva che l’avevo letto, qualcosa gli dovevo rispondere, e visto che avevo voglia di

rivederla, scrissi semplicemente: < ok, ci vediamo lì alle 15:30 >, semplice e coinciso.

Io, con la mia solita ansia, ero già davanti al bar alle ore 15:30. La vidi uscire dallo studio e

percorrere il marciapiede nella mia direzione, attraversare la strada e arrivare al bar. Era vestita

semielegante, con giacca nera sopra una camicia azzurro pallido, gonna al ginocchio nera con delle

strane cuciture bianche a zigzag tipo denti di coccodrillo, le scarpe erano delle comode ballerine,

che venivano sostituite all’occorrenza da scarpe con il tacco. Nel complesso bellissima e sensuale,

ma senza eccessi di volgarità.

Selene: < Ciao Ryo!!!...è molto che aspetti?...io ho ricevuto una telefonata inutile un secondo prima

di uscire e mi ha fatto perdere tempo. >

Ryo: < Ciao Sele!!...no sono arrivato da poco, come sempre ho il passo lungo e non mi piace

arrivare per secondo.>

Selene: < Dai entriamo e sediamoci, che ti devo dire una cosa e di certo non te la posso dire qui in

mezzo alla strada.>

Entrammo al bar, ci sedemmo in fondo al corridoio in un tavolo un po’ più appartato, Selene anche

se formalmente atea, volendo si poteva pure confessare in quel posto, in perfetto cristianstyle dei

suoi amici italiani. Venne il cameriere, prese l’ordinazione e sparì come era comparso. Selene non

aspetto i ginseng per iniziare a parlare.

Selene: < sai che negl’ultimi sei mesi mi occupo delle relazioni tra la Printer di Wuhan e

l’università di Firenze? In particolare per il registro di alcune gallerie d’arte interne, catalogare e

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verificare l’interesse del pubblico cinese per queste opere? Ora la Printer vuole che faccia al

contrario, cioè verificare l’interesse del pubblico di Firenze per l’arte cinese.>

Ryo: <Okay…>

Selene: < Quindi , probabilmente dovrò stare a Firenze per un po’ per questo lavoro.>

Ryo: < beh questo è il tuo lavoro e sono sicuro che dopo il tuo passaggio in Italia, tutti

conosceranno o vorranno conoscere l’arte cinese, sai catturare l’anima delle opere e valutarle, come

un orafo misura sul bilancino un gioiello.>

Selene: < non esageriamo, ho già acquisito una discreta esperienza in materia, ma è solo in parte il

motivo per cui ti ho fatto venire qua. In passato tu mi hai accompagnato a svariate gallerie d’arte e

molti incontri con autori, il tuo giudizio così distaccato e imparziale è quello che mi serve>

Ryo: < fammi capire meglio cosa vuoi che io faccia esattamente?>

Selene: < che mi accompagni a compilare lo start book con le opere più interessanti e fare le

relative recensioni>

Ryo: < ti ricordo che ho un lavoro con orari più o meno rigidi, non posso andare in gita premio così

su due piedi>

Selene: < Sapevo che mi avresti risposto così, conosco i tuoi turni, sei troppo abitudinario per

cambiarli o per farteli cambiare dall’amministrazione, quindi ho creato uno schema ad incastro,

sempre se tu non hai altri impegni nei momenti di non lavoro>

Ryo: < beh detta così, per citare un noto italiano, visto che siamo in tema, “Obbedisco!!!” >

Selene: < ah ah ah, poi dici che di cultura non ne sai niente, sei un pozzo di conoscenza, citarmi

Garibaldi, in un bar nella immensa Cina, non è da tutti. Ok allora è confermato, ti mando il file con

lo schema sul tuo cellulare, così ti regoli un po’>

Ryo: < e se ti avessi detto che c’era qualcosa di strano in città..chi avresti chiamato?>

Selene: < I Ghostbuster ovviamente!!!>

Ryo: < non l’ho capita, ma sicuramente ti starai riferendo a qualche film trash americano anni 80>

Selene: < vedi non conosci la citazione, ma conosci bene me, e riesci essere brillante nella tua

ignoranza cinematografica. Comunque sconosci un filmone che ha fatto epoca.>

Ryo: < Sai com’è, sono più da concerti rock ed escursioni in montagna, il caos e la quiete.>

Con questa battuta, finì la nostra chiacchierata pseudo lavorativa, bevemmo i nostri ginseng, pagai

il conto direttamente alla cassa come mia “solita abitudine” e uscimmo fuori dal bar. Lei mi disse

che alle 16:45 aveva un noioso impegno in centro e ancora doveva mettersi in tiro, che secondo me

si traduceva solamente ad un cambio di scarpe all’uscita dell’auto.

Ci salutammo amichevolmente, anche questa volta, senza far trasparire in nostri sentimenti, che

covavano nel profondo e che solo noi ci ostinavamo a nascondere, tra paure e timori, ma che tutti i

nostri amici conoscevano, talmente evidente, che poteva apparire come un insegna fluorescente

all’ingresso di un tempio buddista. Percorsi la strada per casa a piedi, c’era un bel po’ di tragitto da

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percorrere, ma mi sarebbe stata utile per pensare, immagazzinare i dati e prepararmi a quello che

sarebbe accaduto nei prossimi giorni.

CAPITOLO 6

Ritorno al museo

Non entravo al museo dall’inverno scorso, da quella volta prima che il COVID-19 irrompesse a

Wuhan e poi in tutto il mondo, mi ricordo bene le facce degl’addetti alla sicurezza, tese e

preoccupate come chi sa un increscioso fatto ma non lo può rivelare a nessuno, sicuramente

avvisate dal governo perché quello era un potenziale luogo di contagio e propagazione del

coronavirus. Ora lo so, anzi ora lo sanno tutti, ed in qualche modo siamo passati avanti o ritornati

indietro?

Il tempo era passato, ma mi trovavo la domenica pomeriggio al museo con Selene per catalogare e

in qualche modo giudicare opere, che poi si dovevano spedire in Italia dove sarebbero viste nelle

gallerie più nobili di Firenze. Con Selene capitavano giornate così, o per meglio dire facevamo

capitare la giusta occasione per vederci, doveva sembrare casuale, invece era una trama già scritta,

si doveva solo interpretare, avevo pure lo schema dell’itinerario, neanche fossi un turista.

Già gli ero sfuggito per l’andata a pesca lungo il fiume Azzurro, con la scusa dell’incompatibilità

degli orari lavorativi, quindi aveva creato un sistema perfetto per fare stare noi due nella nostra

“bolla” e rimanerci il più possibile. Inoltre visto che il tempo era limitato non potevo rimandare

all’infinito come il mio solito. Lei adorava stare nei musei e nei luoghi d’arte, era una cosa che

andava oltre il lavoro, era passione pura e semplice, ed io ero il suo complice in quei corridoi così

lunghi, che per troppo tempo erano stati chiusi al pubblico. E tra una statua di Buddha e una

pergamena di mille anni, Selene fece la mossa successiva.

Selene: < Ho pensato ad una cosa, ad una cosa importante, tu sei qui con me, conosci tutte queste

opere come me, potrei aggiungere un biglietto per l’Italia…>

Ryo: < Ah capisco, quindi mi stai chiedendo una mano per trovare un collaboratore adeguato che ti

aiuti per le mostre di Firenze? >

Selene: < Beh in un certo senso si, cerco un collaboratore che mi aiuti, ma volevo che fossi tu. Lo

so che per te cambiare continente per sei mesi è fantascienza, ma ho pensato che potevi partire con

me e stare solo una settimana, per allestire e programmare tutto, poi puoi tornare alla tua tranquilla

vita. Non credo che i tuoi superiori ti possano negare una settimana di ferie, hai lavorato tutti i

giorni, anche oltre il tuo orario regolare, facendo straordinari su straordinari, ora che le frontiere

sono riaperte, penso non ci sia momento più adatto di questo.>

Come sempre la sua logica m’impressionava, soprattutto la logica applicata su di me, uno dei miei

punti deboli era che se iniziavo una cosa, poi la volevo portare a termine, non uso mezze misure e

c’era sempre un unico modo per fare le cose, input => algoritmo => output. Che poi l’algoritmo era

fare migliaia di kilometri per poter stare il più tempo possibile con lei, erano dettagli insignificanti,

forse per un pazzo scappato dal manicomio, ma non per me.>

Ryo: < Tu la fai sempre facile, sono sempre io quello che ti deve rincorrere in lungo e in largo, non

voglio essere la zavorra della tua vita, voglio essere un attore protagonista, non una comparsa che

ogni tanto si vede nel fondale della scena. Non conosco l’italiano, come mi dovrei esprimere … in

cantonese o in mandarino???>

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Selene: < ma quanto sei lamentoso!!! Non saresti di certo zavorra, anzi saresti più che un

collaboratore, ma un correlatore ufficiale per la Printer Enternement Weekly. Per quanto riguarda

la lingua, imparare cose nuove non ti farà male, al limite puoi parlare in inglese, che è una lingua

internazionale utilizzata in tutti meeting del mondo. Quindi, a fine tour di questi giorni, voglio una

tua risposta secca e definitiva. Non c’è possibilità di tergiversare al tuo solito, non voglio che anche

questa “nostra” cosa vada in prescrizione dei tempi!!!>

Ryo: < Okay, ci penserò, con celerità. Nel frattempo vedi che vuole quella tipa.>

Si era avvicinata una distinta signora sui 45 anni, capelli tinti neri, alta circa 160 cm, che poteva

pesare al massimo 40 kili stentati. Era Yuki Amato, mediatrice euroasiatica, rappresentante della

Printer, nonché il capo di Selene. Yuki aveva dei tratti ibridi, il viso aveva i lineamenti orientali ad

esempio il taglio degl’occhi, ma il naso era tipico di un europeo bianco.

Selene e Yuki si misero a parlare animatamente per circa 5 minuti, poi si avvicinarono a me, e

Selene mi presentò a Yuki, che mi squadrò ai raggi X dalla testa ai piedi. Il suo viso non cambiò

espressione, non si capiva se avevo fatto bella o brutta impressione, disse soltanto: < veda di portare

a termine il lavoro nei tempi previsti, non disperda troppe energie in troppe cose.> indicandomi

inequivocabilmente, con lo sguardo, Selene. In pratica Yuki aveva sottolineato che il lavoro era

egregio, ma dovevamo stare nei termini senza “distrazioni”, e che dovevo valutare le priorità.

Dopo poche altre parole, Yuki si congedò e sparì nei meandri del museo. Mentre io e Selene

andammo verso l’uscita, alla ricerca di aria fresca. Selene si era innervosita, gli accadeva di rado,

non era una che accettava consigli, figuriamoci ordini, da una che poi di arte ne capiva poco, ma

che era bravissima a muoversi nella politica societaria e manovrare soldi.

Selene: < Quella stronza impertinente!!! Chi gli da diritto di parlare così??? Solo perché è straricca

e ha agganci ai piani alti???!!!>

Ryo: < Dai non fare così…>

Selene: < Comunque ha guardato tutte le tue relazioni, gli sono piaciute le note di esposizione,

credo che quando ha letto il trattato sul peso specifico del bronzo per le campane, abbia goduto, la

stronza. Come dice lei, vedi le tue priorità e faccele sapere, perché più di una persona alla fine

potrebbe rimanere delusa.>

Ryo: < Ha letto tutto il rapporto? Incredibile! Per il resto vi faccio sapere a breve>

Andammo alle macchine, questa volta ci salutammo con un po’ troppa enfasi, eravamo entrambi

caricati al massimo, c’era troppa tensione, perché c’erano da prendere decisioni a breve, e non si sa

come sarebbero finite le cose, ancora tutto era possibile, sia nel bene che nel male. Lei salì in

macchina e partì a razzo. Io feci con molta calma, mi presi il mio tempo, entrai in macchina,

abbassai i finestrini, accesi la radio, cambiai un paio di volte stazione, poi accesi il motore, inserii la

marcia e partì.

Arrivato a casa, mi misi al cellulare, anche se era domenica, incominciai a contattare i miei colleghi

e i miei dirigenti, in maniera molto informale, per tastare il terreno e vedere la fattibilità di un

potenziale viaggio di una settimana leggermente fuori città. Alla fine del giro delle telefonate, avevo

trovato più pareri positivi che negativi per il potenziale viaggio. Domani avrei presentato richiesta, a

prescindere dalla mia decisione definitiva, perché ci voleva almeno una settimana per l’accettazione

della domanda di ferie. Io potevo attendere, ma la mia Ansia no.

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PARTE II

Firenze

CAPITOLO 7

L’otto

L’otto per i cinesi è un numero fortunato, se era vero, in quel momento dovevo essere l’uomo più

fortunato del mondo, era giorno 8, l’aereo partiva alle 8 del mattino e avevo il posto a sedere 8H, e

H era l’ottava lettera dell’alfabeto occidentale. Io invece mi sentivo più un condannato a morte che

stava sul patibolo, ormai non potevo più ritornare indietro, le ferie erano state convalidate e i

biglietti erano stati fatti, ed ora ero nella sala imbarchi in attesa che chiamassero il volo.

Selene felice come non mai, stava in piedi tutta saltellante, come se dovessimo andare in gita al

Pechino Park a vedere gli animali dello zoo. Ovviamente per lei il viaggiare era la normalità, negli

ultimi 5 anni aveva girato mezzo mondo, mentre per me era come oltrepassare le colonne d’Ercole

del mondo antico, stavo già ripassando mentalmente il mio mediocre inglese e quelle 4 parole in

italiano che avevo cercato su google, tanto per non fare brutta figura appena sceso dall’aereo.

L’aero partì alle ore 08:30 puntuale, viaggiò tutto il mattino senza alcun problema, dall’oblò il cielo

era limpido ed io incominciai a rilassarmi un po’, mi scossi solo quando l’aereo atterrò a Roma

Fiumicino per lo scalo. Prendemmo il diretto Roma => Firenze che atterrò nel tardo pomeriggio, poi

attesa per i bagagli per me e i bauli per Selene, poi il taxi all’uscita per andare all’Hotel Nonfinito

che si trovava nel centro storico, o almeno così avevo capito.

Per tutto il viaggio non ho quasi detto niente, qualche parola ogni tanto per non fare capire che ero

in modalità zombie, cioè che il mio corpo andava avanti e faceva cose, mentre il mio cervello era

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tipo a 10000 km di distanza. Selene sapeva il mio comportamento e sapeva che doveva aspettare

qualche altra ora prima che il suo Ungeziefer ritornasse senziente dal mondo delle nuvole.

L’Hotel era tutto un programma, la facciata con tutte quelle statue che raffiguravano non so chi,

guardavano dall’alto a basso i comuni mortali, mentre loro erano immobili, incuranti del tempo e

delle generazioni che passavano di lì. L’interno era di lusso, doveva essere stato in passato un

palazzo di qualche famiglia nobile ormai decaduta, c’erano quadri alle pareti, i mobili di

antiquariato, un cortile interno con tutto un colonnato attorno. Le nostre stanze erano al secondo

piano l’una affiancata all’altra, si accedeva da un lungo corridoio con le grandi finestre che davano

sul cortile interno, mentre le stanze davano sulla strada principale, si sentiva un po’ di rumore di

sottofondo dalle finestre, ma non era una cosa eccessiva.

Stavo finendo di disfare le valige, quando bussarono alla porta, era Selene che avvertiva che la cena

era per le 21:30 al ristorante dell’Hotel, abbigliamento informale. Io finì con il guardaroba, mi feci

una doccia rapida e la barba, mi vestii semisportivo per stare un po’ più comodo, e alle 21:15 ero

già nel gran salone da pranzo dell’Hotel. Selene arrivò alle 21:45, mentre io già stavo pensando di

fargli uno squillo di cellulare per vedere se dava segni di vita.

Lei vestita come Penelope Cruz alla notte degl’oscar, altro che informale, si era messa in tiro ed era

un belvedere, e un po’ del mio nervosismo incominciò a scemare, sostituito a velocità da felicità e

inadeguatezza in una percentuale di 50 a 50. La feci sedere al suo posto contrassegnato da un

cartellino bianco con scritta oro, almeno le buone maniere non le avevo scordate in Cina, poi in

base al secondo cartellino mi sedetti di fronte a lei. Arrivarono subito i camerieri per portare l’acqua

e prendere le ordinazioni. Lasciai che fosse lei a decidere il menù della cena, lei conosceva le cose

buone locali, io avrei chiesto del riso e pollo fritto e birra.

Tra una costata spessa tre centimetri quasi cruda e un buon vino d’annata, mi sciolsi

completamente, nel grado di come si andava a riempire la mia pancia. Fu in quel momento di difese

abbassate che lei attaccò.

Selene: < Ora che sei ritornato tra noi viventi, ti espongo cosa dobbiamo fare domani giorno 9:

alzataccia alle 7 perché alle 8 passa il taxi che ci porterà a palazzo Pitti, abbiamo appuntamento con

Yuki Amato alle 9 al suo studio, ci darà tutte le credenziali e i permessi che ci serviranno per fare il

nostro lavoro. Da lì andremo direttamente in Via Maggio dove dovremmo preparare

l’allestimento.>

Ryo: <Ho un po’ di domande da farti. La prima è che ci fa qui Yuki? La seconda è ma palazzo Pitti

non c’è un presidio delle forza dell’ordine? Terza domanda non è che stiamo lavorando per dei

religiosi?>

Selene: < Yuki lei è nata in Italia, il padre è di Arezzo mentre la madre è nostra conterranea. Il

motivo perché ci vediamo in quel palazzo è perché i documenti nostri li rilasciano lì, ci fanno un

trattamento privilegiato. Per quanto riguarda “i religiosi” la commessa presa dalla Printer parte da

loro, o parte dall’economato della curia. Hanno il più grande salone espositivo d’Italia, ma

soprattutto sono in cerca di personale ultra qualificato, per stimare alcune delle opere, che facciamo

il nostro dovere e che poi ritorniamo dall’altra parte del mondo, senza fare trapelare valutazioni

economiche>

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Ryo: <Quindi il lavoro vero inizierà il 9 pomeriggio, va bene, così mi riprenderò dal fuso orario.

Allora se hai finito di cenare, possiamo ritornare nelle nostre camere e farci almeno 8 ore di sonno

piene>

Selene: < ma chi tu? ti fai 8 ore filate di sonno consecutive? Non ci credo neanche se sto tutta la

notte a guardarti russare!!! Comunque andiamo dai.>

Salimmo al secondo piano, questa volta ci salutammo lentamente, con tanti sguardi, ammiccate e

sorrisi sinceri. Rientrai stanco in camera, ma totalmente sereno, sapevo quello che mi aspettava

domani e ora non mi faceva così paura, anzi il fatto che domani sarei stato tutta la giornata in

compagnia di Selene, mi rendeva felice come non mai.

Accesi la tv, girai i canali in cerca di qualcosa per intrattenermi in attesa che sonno prendesse il

sopravvento, trovai un documentario sui i pinguini imperatore, che andavano dal centro del polo sud

alla costa glaciale, per buttarsi in acqua e andare a caccia. Quei animali così goffi ed impacciati

sulla terra ferma, diventavano dei proiettili per velocità e acrobati per la loro destrezza. Pensavo alla

stranezza di quei uccelli che non sapevano volare, che nidificavano sulla terraferma e che

cacciavano in mare come se fossero dei pesci. In quel momento gl’occhi si chiusero e non pensai

più a niente.

CAPITOLO 8

Il nove

Per i cinesi tutti i numeri hanno un significato, se l’otto era il numero fortunato per eccellenza, il

nove era un numero magico, un numero che portava stranezze e cambiamenti. Io alle ore nove di

giorno nove, mi trovavo al palazzo Pitti di Firenze, nello studio di Yuki Amato per ritirare tutti i

documenti per iniziare i lavori. Subito ci fu un imprevisto, i documenti di Selene erano belli che

pronti, mentre a me mancava un visto per il lavoro di collaborazione, e per averlo dovevo andare al

palazzo di Giustizia a 10 minuti di macchina dal centro storico.

Selene e Yuki confabularono per 5 minuti in una lingua che era per metà cinese e per metà italiana,

poi guardarono me e diedero il responso. Selene sarebbe andata direttamente in Via Maggio per

iniziare il lavoro da sola, mentre Yuki mi avrebbe accompagnato a ritirare il visto, soprattutto

perché non parlavo italiano e lei era conosciuta dall’amministrazione del posto e non le avrebbero

fatto perdere altro tempo.

Così alle ore 09:30 Selene partì in taxi per andare in via Maggio, mentre io salivo in macchina con

Yuki per andare a Ghotam così aveva chiamato quel luogo completamente avulso dai palazzi che

contraddistinguevano Firenze. Il palazzo di giustizia, era al mio dire di stile gotico, alto, tutto di

cemento e vetrate, di forma irregolare, niente gli assomigliava in zona. Non mi stupirei se vedessi

all’ingresso Batman che combatte contro Joker.

L’interno era ampio, pieno di niente, tanto spazio vuoto per mettere in soggezione le persone, chi

entrava si sentiva piccolo come una formica, e come un formicaio quel posto aveva infinite scale e

ascensori che salivano e scendevano, migliaia di porte tutte uguali, tutte della stessa forma e colore,

cambiavano solo le targhette in ottone, che distingueva questa da quell’altra sezione. Se non era per

Yuki, mi sarei perso prima di entrare, lei invece andò dritta all’obiettivo senza tergiversare, girò a

destra e imboccò un corridoio, scendemmo 2 rampe di scale, un’altra volta girammo a destra, altro

corridoio, e alla fine l’ultima stanza a sinistra era quella che cercavamo.

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La porta era chiusa e al di sopra c’era una luce rossa accesa, lei suonò il campanello 2 volte per 3

ripetizioni, scattò la serratura della porta ed entrammo. Dentro trovammo alla sinistra una scrivania

con dietro una persona che mi sembrò un segretario, si alzo ed entrò nella stanza alla mia destra,

dopo circa 10 secondi riuscì il segretario e fece cenno di entrare. All’interno di quest’altra stanza

cera il Cancelliere Brioschi, che senza distogliere gl’occhi dal PC allungò, con la mano sinistra

libera dal mouse, un foglio A4, che diede a Yuki. Lei disse: < Grazie Gianpaolo ti devo un

favore!!!> e il Cancelliere rispose: < una cassa di vino aretino e siamo a pace>. Un paio di sguardi

d’intesa e poi uscimmo da quel dedalo di vetri e cemento. Arrivati alla macchina, la sensazione era

quella di essere usciti da un labirinto e dalla ferocia del Minotauro.

Yuki: < Senti Ryo, io ho delle commissioni da fare, a te conviene seguire me, da qui non riusciresti

ad arrivare in tempo con i mezzi pubblici in centro.>

Ryo: <Si questa zona e più isolata del centro storico, inoltre si deve prendere l’autostrada, e da

quanto ho capito si devono prendere un paio di svincoli>

Yuki: < Ok allora, prima tappa andiamo da Vogan per gli imballaggi, i nostri clienti che vorranno

portare i nostri pezzi in collezioni private, lo dovranno fare con la massima sicurezza e con tutte

assicurazioni possibili>

Arrivammo nello scarico merci della Vogan e Yuki si volle assicurare di persona che tutti

gl’imballaggi erano pronti per essere trasportati e montati, mancava ad occhio mezzo camion, ma il

capo amministrativo gli assicurò che per il pomeriggio l’avrebbero riempito.

Fatto questo, ritornammo in macchina e partimmo per un posto ancora più in periferia, quasi al

limitare della zona industriale, dove c’era la sede locale della Printer. Lì al dodicesimo piano c’era

lo studio principale di Yuki, dove teneva tutti gli espositori e tutte le cartelle, che contenevano

faldoni di carta scritta al computer e con dei segni e sottolineature a penna. Nella stanza c’erano due

scrivanie, una grande di Yuki e una più piccola meno ordinata; c’era un plotter per le grandi stampe

e due lavagne che ricoprivano una parete, nella parete opposta c’era una libreria in legno pregiato

con dei libri antichi in bella mostra. Impiegammo poco tempo, un rapido controllo all’email e

rispondere ad un paio di quelle più urgenti, poi passammo al quarto piano per recuperare una

cianografia arrotolata e il lavoro lì era finito.

Si era fatto mezzogiorno e io non toccavo cibo dalle 07:30, lo stomaco iniziò a borbottare e Yuki se

ne accorse. Mi fece una smorfia che era tutto un programma e mi disse: Ti sistemo io!!! E cambiò

strada accelerando e senza mettere la freccia direzionale. Dopo circa 3 minuti arrivammo al portone

di una villa, con il giardino verde a prato, sul perimetro alberi di alto fusto, una stradina fatta di

ciottoli bianchi che portavano all’ingresso principale. Uscimmo dalla macchina ed entrammo nella

villa, o meglio ci passammo dentro per spuntare dalla parte posteriore, dove superando una porta a

vetri splendeva un enorme solarium accompagnato da una piscina di almeno 20metri di lunghezza e

6 metri di larghezza. Su una sdraio, tutta spalmata di crema, c’era una ragazza sui 18 anni che

ascoltava della musica e si godeva il sole, era la figlia di Yuki.

Yuki: < io mi levo la vita a sgobbare e tu qui a cazzeggiare!!! Fra 2 mesi hai la Maturità e ancora

non hai preparato niente??? Non ti aspettare che la faccia tutta io la progettazione per tecnologia

delle costruzioni!!!>

Beatrice: < Mamiiiii!!! Non ti preoccupare ancora c’è tempissimo per gli esami, e poi con questo

sole, solo tu e questo tizio potete lavorare!!! Chi è?>

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Ryo: < Salve sono Ryo Ungeziefer> Tutto quello che riuscì a dire nel mio italiano

Beatrice: < Ti fa sgobbare Eh?! È sempre così, tutta una corsa senza mai prendere fiato>

Ryo: < Grazie> dissi senza capire il significato

Yuki: <Ryo, vieni con me, lascia stare questa invasata, andiamo a mangiare che la giornata è lunga,

e qualcuno deve portare la pagnotta a casa.>

Andammo nella cucina più grande che avessi mai visto, era sconfinata, aveva 2 forni a castello, il

frigorifero che da solo faceva quartiere, un doppio piano cottura e un doppio lavabo in acciaio, un

isola con un piano in marmo spesso 2cm contornato da sgabelli alti molto poco cinesi.

Yuki: < siediti, non sono una grande cuoca, ma la tecnologia mi aiuta, 5 minuti e il tuo stomaco non

brontolerà più>

Ryo: < Grazie Yuki, dovevo prevedere oggi l’imprevisto e portarmi del cibo di scorta, mi rimarrà

come insegnamento>

Yuki: < Quando girano grandi quantità di soldi ci sono “sempre” grandi rogne, ricordatelo>

Mangiammo direttamente in cucina, due fette a testa di carne arrostita sulla piastra, insalata di

carote zucchine e patate, vino bianco per fare scendere il tutto. Alle ore 13:15 finimmo di pranzare,

ci prendemmo un caffè espresso e poi di nuovo in macchina, ma solo dopo che Yuki fece la seconda

ramanzina alla figlia, che tutto voleva fare tranne che studiare.

Alle ore 14:30 arrivammo in Via Maggio, dopo il passaggio in autostrada e le vie strette del centro

cittadino, tra un ingorgo e l’altro. Mi lasciò all’ingresso senza scendere. Mi disse solo: < ricordagli

a Selene che domani passa il Commenda> io risposi con un : < Ok, Ciao!!!>.

Entrai nel grande portone, seguì il corridoio buio e uscì nel grande cortile interno, percorsi metà del

colonnato, presi la scala di destra e scesi al piano seminterrato, dove si trovava Selene, piegata a

terra in cerca di stabilizzare una scultura un po’ troppo ballerina. L’aiutai a sorreggerla mentre le ci

metteva una zeppa provvisoria.

Il pomeriggio passo veloce, c’era molto da fare e io ero stato di zero aiuto tutta la mattinata, cercavo

di recuperare il tempo perduto, ma Selene non era molto collaborativa anzi sembrava arrabbiata,

non mi aveva chiesto cosa avevo fatto o dove ero andato, semplicemente andava avanti con il suo

mestiere. Alle ore 20:00 sembrava di aver sistemato tutto. Mangiammo una cosa veloce al bar nella

piazza poco distante e alle 21:00 eravamo ognuno nelle proprie stanze, entrambi stanchi morti.

Dormire non fu difficile.

CAPITOLO 9

La galleria

La mattina del giorno 10 era l’inaugurazione della galleria cinese in Italia, Selene mi fece un

resoconto rapido ma esauriente su chi era il “Commenda”, Si chiamava Calogero Platania, era nato

a Sciacca provincia di Palermo, trasferito in tenera età in America con la sua famiglia, era cresciuto

a New York City, aveva l’aspetto di Marlon Brando ne “ il Padrino” , alto almeno uno e novanta,

oltre i 100 chili di peso, e un età che si aggirava intorno all’ottantina. Classica persona che si era

fatto da solo, tutto di un pezzo, aveva creato dal nulla la Printer, iniziando come commesso in un

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negozio di tipografia, poi proprietario del negozio, poi proprietario di una catena di tipografie e poi

il cambio di tipologia di lavoro per andare incontro ai tempi. Ogni cosa stampata nell’Eastcost

U.S.A. aveva a che fare con lui, ora si stava espandendo in Asia e in Europa, grazie a internet e i

mezzi di trasporto rapidi. Sapeva che per aprirsi il mercato a suo favore doveva avere amici potenti

e soci influenti, quindi con la scusa di fare da mecenate dell’arte mondiale, espandeva il suo raggio

d’azione con politici e religiosi dei paesi di suo interesse.

L’inaugurazione fu alle ore 10:00, con tanto di nastro rosso, tagliato dal Commenda, protagonista

assoluto, anche se lui in pratica non aveva fatto niente, lui muoveva i fili da buon puparo siciliano,

lasciava il lavoro sporco ai suoi dipendenti che si dovevano occupare della concretizzazioni dei

suoi pensieri. Io e Selene eravamo in seconda linea, a controllare tutto, dall’esposizione d’arte, al

rinfresco, alla pulizia e a tutta la logistica del caso. C’erano oltre un centinaio di persone, tutte

facoltose, che intrecciavano legami, molto al di fuori dalle campane di bronzo cinesi, più interessati

a farsi vedere nell’alta società e dimostrare la loro forza politica.

Il clero non si confondeva con gl’altri, un po’ per i vestiti e un po’ il loro modo fintamente non

aggressivo che si portavano dietro, lì erano tutti predatori, le prede erano fuori da quell’ambiente,

mi viene in mente la potenziale stranezza di una gazzella che sonnecchia in mezzo ad un branco di

leoni, non era una cosa naturale. Noi eravamo quelli che facevamo una specie di safari per vedere in

natura le belve feroci, leoni, ma anche iene, avvoltoi e coccodrilli. Mentre facevo questi voli

pindarici si avvicinò Yuki, che mi svegliò dal torpore in cui ero e mi disse di seguirla.

Mi portò in un’altra sala, quella più piccola, dove vi erano un paio di tavoli rotondi pieni di ogni

bontà culinaria, nel primo tavolo vi erano i supporter dei pezzi grossi e nel secondo tavolo vi erano i

pezzi grossi, capeggiati dal Commenda e accompagnato da due religiosi di alto rango, quattro

politici e tre tecnici, lo sapevo perché i posti li avevo assegnati io, ma non pensavo che ne dovessi

far parte, ero passato da turista di safari a preda per i predatori.

Scoprì che il Commenda parlava un perfetto cinese, fu formale nelle presentazioni, mi chiese senza

preamboli, quanto tempo avevo impiegato per progettare e per allestire tutto quello che lo

circondava in quel momento, facendo un gesto teatrale con il dito che disegnava nell’aria un

cerchio. Gli risposi che io e la mia collega avevamo impiegato tre settimane di progettazione, due

settimane per la traslazione di tutti gli oggetti e circa un giorno e mezzo per l’allestimento finale.

Lui alzò il sopracciglio, come per dirmi “davvero?” e prima che continuassi a parlare, mi chiese se

avevo altri tipi di conoscenze, ad esempio se avevo esperienza nel campo alimentare, non capii

all’inizio a cosa si riferisse, ma il suo viso ammiccò sul cibo davanti a lui. Gli dissi che su quel

tavolo c’era tutta l’eccellenza italiana e internazionale, tutta roba freschissima e di prima scelta, così

anche gli oggetti, posate in ceramica smaltata, forchette e coltelli in argento con incisioni finissime,

e un centro tavola che sembrava di stare in un giardino botanico. Non mi scorderò mai le sue parole

dette in quel momento, con il suo linguaggio siculo/americano.

Commenda: < Bravu stu picciotto…ti sai vinniri troppu bonu, tu mi poi servere, chiù avanti ti fazzu

chiamare, OK?!>

Io non avevo capito quasi niente di quelle parole, mi limitai ad un doveroso “OK”

Dopo di chè Yuki mi fece capire che la conversazione era finita e mi potevo allontanare. Salutai

tutti con sorrisi e genuflessioni accennate, dopodiché andammo dietro, nel privè con Yuki, e gli

chiesi: <ma che voleva?>

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Yuki: <Hai fatto buona impressione al Commenda bravo!!! Continua così e farai strada.>

Ryo: <Ma perché ha parlato solo con me e non ha chiamato anche Selene? Io sono solo un

collaboratore e anche parecchio improvvisato!!!>

Yuki: < Il Platania è un maschilista convinto, per lui le donne devono stare dietro i fornelli a

cucinare e sfornare figli, sono gli uomini che comandano e prendono decisioni>

Ryo: < beh ma non è giusto, neanche in Cina vi è una mentalità così arretrata!!!>

Yuki: < Non ci pensare, ha 80 anni, lo vorresti cambiare tu adesso, dopo una vita che si comporta

sempre allo stesso modo? Comunque ti devo dire due cose: cerca d’imparare bene almeno l’inglese

e poi vai a dare una mano a Selene che poco fa ti cercava dappertutto>

Ryo: <Ok, Grazie Yuki!!!>

Tornai nel salone principale e diedi subito una mano a Selene che era stata catturata da dei notabili

cinesi, che erano venuti a controllare che tutto il materiale esposto era in perfette condizioni.

Intervenni io dicendo che le teche erano in materiale totalmente isolante e che anche l’aria al loro

interno era sta filtrata, inoltre ogni scultura e quadro avevano dei sensori di movimento attivi e

controllati, da 2 guardie nella cabina computer istallata al primo piano, Niente poteva entrare o

uscire senza una apposita autorizzazione.

I cinesi si rincuorarono e lasciarono in pace Selene, il suo volto si fece meno teso e mi chiese “ma

dove eri finito?”, gli risposi che ero andato nell’altra sala per controllare che anche lì andasse tutto

bene, che avevo incontrato Yuki, che a sua volta mi aveva presentato al Commenda. Lei rimase

sbigottita del fatto, ma c’era troppa gente di cui occuparsi e rimandò a dopo le sue domande.

La mostra rimase aperta ai privati fino alle ore 13:00, che fecero le loro richieste e le loro relazioni.

Ci fu una pausa fino alle ore 15:00, dopo di che venne aperta al pubblico fino alle ore 19:00. C’era

tanta gente, una fila lunghissima che arriva in strada, ma era la novità del momento, e tutti, chi più e

chi meno volevano sapere di cosa si trattasse.

Io e Selene tornammo in albergo solo alle 23:00, dopo un interminabile compilazione di richieste,

dette a voce, che dovevano essere riportare in scrittura. Entrai nella mia stanza, mi spogliai, feci

una lunga doccia e mi buttai a letto con la televisione accesa che si guardava da sola.

CAPITOLO 10

Uffizi

Giorno 11 Aprile, non riuscì proprio ad alzarmi ero tutto indolenzito dal giorno prima, si sentiva il

rumore crescente provenire dal finestrone che dava sulla strada principale, segno che il giorno stava

avanzando mentre io stavo fermo a poltrire. Il mio udito spostò la sua attenzione dal finestrone alla

porta d’ingresso della stanza, che si apriva lentamente, misi a fuoco gl’occhi stropicciandomeli, e

vidi Selene entrare.

Selene: < ciao dormiglione!!! Sicuro che ieri hai solo parlato con il Commenda? Gente al mio

servizio mi ha informato che ti sei appartato nel privè con Yuki, devo sapere altro che non mi hai

detto ieri?>

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Ryo: <sono stanco perché ieri ho fatto una maratona e ho fatto cose che esulano dalla mia

normalità, e con questo voglio dire che non ho fatto niente con Yuki, si, ci siamo andati nel privè,

ma per pochi secondi, per farmi la traduzione di quello che non avevo capito, poi sono andato

subito nel salone grande per darti manforte con quei burocrati assetati di dare fastidio.>

Selene: < Sarà, ma non me la conti giusta, stamattina già mi sono arrivate due chiamate dall’alto,

per alto non intendo dal terzo piano, ma da chi comanda. Mi hanno informato che tra un quarto

d’ora passerà una macchina per andare a trovare una persona agli Uffizi, la famosissima galleria

delle Statue e delle Pitture, che fa parte del complesso museale fiorentino, che comprende il

Corridoio Vasariano, le collezioni di Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli. Insomma tanta roba,

sbrigati a vestirti!!!>

Mi cambiai velocemente, mi diedi una lavata alla meno peggio e scesi all’ingresso, dove una Rolls

Royce grigio scuro metallizzato mi attendeva, salì dietro dove già era seduta Selene, e partimmo.

Quella macchina valeva centinaia di migliaia di euro, quindi chi dovevamo vedere era sicuramente

un pezzo da novanta, e non continuavo a capire io che ci facessi lì, elemento estraneo a tutto ciò che

mi circondava. L’unico mio appiglio era Selene e cercai spiegazioni da lei.>

Ryo: < Stamattina hai detto che hai ricevuto due chiamate, una per questo viaggio turistico, la

seconda di che trattava?>

Selene: < Ieri devi aver fatto proprio una buona impressione al Commenda, mi ha chiamato il suo

vice Steve Young con chiamata da Londra, per informarsi quanto tempo Tu ti trattenevi in Italia e

che impegni avevi successivamente, in pratica mi hanno scambiata per la tua segretaria e cercavano

di combinare un appuntamento formale. Ho dovuto spiegare che tu eri un mio collaboratore e che

stavi a Firenze in totale solo una settimana e che poi saresti tornato in Cina, ho dovuto dargli il tuo

numero di cellulare per mettervi d’accordo, ma non ho capito per mettervi d’accordo per che cosa?>

Ryo: < non ho idea di chi sia questo Young e perché mi cerca, io ho solo parlato due minuti ieri con

il suo boss, e abbiamo parlato solo di cibo e del locale, niente di più. Comunque gli hai dato il mio

numero, quindi prima o poi si farà sentire lui e spero di capire cosa vuole.>

Nel frattempo eravamo arrivati a destinazione, l’autista ci fece scendere davanti ad un ingresso

secondario. Appena scesi una donna sulla sessantina si presentò davanti a noi, si chiamava

Francesca Petrazzoli, era la nostra guida e ci introdusse all’interno di quel posto apparentemente

infinito. All’inizio era solo un semplice corridoio con il tetto a cupola e varie porte ai lati, poi

arrivammo a un ascensore e salimmo di due piani, arrivati al piano, già la situazione era cambiata,

dove ti giravi trovavi pezzi d’arte e capolavori, già solo la struttura del palazzo era un opera d’arte

in se stessa. Facemmo ancora un po’ di strada e mi bloccai di schianto, eravamo sopra il Ponte

Vecchio e sotto scorreva il fiume Arno, una meraviglia nella meraviglia. Di lì erano passati i

personaggi più famosi di un epoca lontana, ma che qui in qualche modo vivevano ancora. Qui la

famiglia dei Medici erano di casa, o quanto meno molte delle opere esposte erano state

commissionate da loro, per uso personale, per regalo ad amici, o semplicemente perché erano

talmente ricchi e potenti da fare quello che volevano.

Riprendemmo la nostra marcia, e ci dirigemmo in un luogo oltre l’Arno, ma sempre collegato

internamente, senza mai uscire all’aria aperta. Prendemmo un altro ascensore, ma questa volta

scendemmo al piano -3. Qui la Petrazzoli si accomiatò e ci indicò la stanza dove dovevamo entrare,

lei riprese l’ascensore e sparì dalla nostra vista. Entrammo dalla porta indicata, dentro c’era una

gran luce, prodotta da candelabri monumentali con lampadine ad incandescenza, che rendevano la

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stanza calda e confortevole. In fondo allo stanzone pieno di cornici e statue impolverate, c’era una

scrivania ricolma di oggetti e carte ingiallite, dietro tutto questo, c’era un ometto pelato e con grossi

occhiali con montatura di color oro, anzi mi sa che era proprio fatta d’oro.

Giovanni: < Piacere della vostra visita, io sono Giovanni Battista Gastone dè Medici, ultimo erede

della famiglia, pro pro nipote del mio omonimo Battista, prego accomodatevi>

Selene: < Buongiorno, lieti di fare la sua conoscenza, il mio collega non parla italiano>

Giovanni: <Non è un problema, parlo fluentemente 8 lingue, e il cinese è tra queste. Vi ho fatti

venire in questo posto, che di fatto è la mia tana nonché rifugio dal mondo, per mostrarvi un quadro

e un documento, per autentificazione e relativa certificazione, non tutto quello che arriva qui è

lecito e autentico. Voglio che le opere quando salgono in “superficie” siano a tutti gli effetti

autentiche e legali, perché per un nobile non c’è niente di più importante del suo nome, e se

s’infanga bisogna porvi repentinamente rimedio.>

Il nobile uscì dalla sua tana e ci accompagnò in una stanza attigua, completamente vuota, c’era solo

un tavolo, due sedie, un quadro appeso alla parete, e un foglio di carta dentro una busta sigillata.

Giovanni: <Signori io mi congedo, vi lascio al vostro lavoro, lì nell’angolo ci sono guanti e

attrezzature per la verifica, il documento finale lo farete in un secondo tempo, arrivederci.>

Così di punto e bianco, ci trovammo in un sotterraneo a trafficare con roba che poteva essere rubata

o falsa, e noi dovevamo capirlo e certificarlo in pochissimo tempo. Io mi misi i guanti e anche

Selene, io controllavo il quadro e lei il foglio sigillato.

Ryo: < il quadro risale al 1450 circa, è un vaso di frutta, lo sfondo è un grigio cupo che tende al

nero, la frutta è compatibile con la data che ho detto, il quadro è olio su tela, dimensioni 90 cm di

altezza e 58cm di larghezza, non vi sono presenti firme, i colori sono compatibili a quelli

dell’epoca, le screpolature sono coerenti e continue, la cornice è successiva di almeno due secoli, il

retro e di colore bianco sporco, in basso a destra c’è una scritta sbiadita fatta credo con un

carboncino o con una matita poco appuntita, c’è scritto 12/52 che potrebbe indicare il dodicesimo

pezzo di una serie di 52 quadri. Secondo me è autentico, come va con il foglio?>

Selene: < Ho tolto il sigillo, ho aperto la busta, l’ho adagiato su un foglio bianco standard neutro, ho

verificato la dimensione 22cm x 10.5cm, stretto e lungo, la carta è vecchia può avere anche oltre i

300 anni, per quanto riguarda la scrittura è stata fatta con piuma d’oca, l’inchiostro è di un nero

degradato in marrone scuro, il testo è fiorentino e tratta di una collezione di quadri che doveva

andare a Ferrara per delle nozze, che dovevano adornare la chiesa tutt’attorno le navate. Secondo

me il quadro alla parete era uno di quelli, ma il foglio non è originale, o meglio la carta ci può stare,

l’inchiostro pure, ma il modo di scrivere e l’inclinazione delle lettere è sbagliato, probabilmente

fatto artificialmente con qualche tipo di macchinario, non ci sono sbavature o macchie, per me è un

falso.>

Fatte le nostre considerazioni, riposammo tutto come l’avevamo trovato, uscimmo da quel bunker,

prendemmo l’ascensore, e all’uscita dell’ascensore trovammo la guida ad attenderci, probabilmente

c’erano telecamere e sensori ovunque anche se occultati. Ripassammo di nuovo dal ponte,

ritornammo al primo ascensore, arrivammo al primo corridoio, e all’ingresso ritrovammo la Rolls

Royce già con il motore acceso e sportello passeggeri aperto. Nel ritorno all’Hotel non aprimmo

bocca, solo quando ritornammo nella mia stanza si aprì la conversazione fiume.

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Selene: < questo pomeriggio andrò alla sede della Printer per allestire il documento, per certificare

quello che abbiamo visto e percepito, così ci togliamo il pensiero>

Ryo: < Ok, per le scartoffie ci pensi tu e poi sono in attesa di quella chiamata importante. Senti

secondo me c’è dell’altro, secondo me è un test, ci hanno messo alla prova. Sicuramente in un posto

come quello ci saranno almeno 100 relatori più qualificati di noi che si ammazzerebbero per essere

dove noi siamo stati stamattina, non può essere una casualità, non ci hanno fatto entrare

dall’ingresso principale, non ci hanno dato dei pass, ma abbiamo fatto un giro diciamo

“panoramico” ma per un pubblico selezionato. Il buon Giovanni, sta lì perché lì sta il suo tesoro,

non avrebbe mai permesso a due estranei di maneggiare e circolare fra le “sue” opere>

Selene: < in effetti quel che dici ha senso, e il fatto che la Petrazzoli non sia entrata nelle ultime due

stanze, dopo tutto quel girovagare, rafforza la tua tesi. Allora che dobbiamo fare?>

Ryo: < tu compila quello che devi compilare, ormai avranno sentito e risentito quello che ci siamo

detti in quella stanza e lo dobbiamo confermare, penso sia quello che vogliono. Dopo che invierai la

mail con posta certificata, sicuramente mi arriverà quella telefonata e vedremo chi è che ci spia.>

CAPITOLO 11

Mister Young

Erano le ore 16:00 di un pomeriggio pieno di aspettative, Selene era andata alla sede di Firenze

della Printer, per la ratifica dell’ispezione dei due manufatti visionati agl’Uffizi, con conseguente

PEC ufficiale. Mi mandò un messaggio per darmi l’avviso che tutto era stato fatto secondo i piani.

Un quarto d’ora dopo, come mi aspettavo e prevedevo, arrivò la chiamata di Mister Young.

Steve: < Goodevening mister Ungeziefer. My name is Steve Young.>

Ryo: < Goodevening mister Young. My name is Ryo. Do you speak Chinese?>

Steve: < Yes I can speak very well.>

Così si passò dal mio stentato inglese ad un fluente cinese, che aiutò a velocizzare la conversazione

e a capirci meglio.

Steve: < Allora Ungeziefer, dobbiamo discutere di molti argomenti e abbiamo pochissimo tempo a

nostra disposizione. Partiamo dal passato e ci proiettiamo nel futuro. La prima cosa è il suo

compenso, per le due settimane di lavoro a Wuhan e questa settimana a Firenze, sarà pagato con

10000 Sterline nette più eventuali spese in fatturazione, le sta bene?>

Ryo: < Guardi è più di quello che mi aspettavo di prendere, quindi mi va più che bene>

Steve: < Ok. Seconda questione è quella presente, cioè della galleria in via Maggio, ottimo lavoro

da parte sua e da parte della signorina Miyazaki, il suo contratto finisce giorno 15, noi vogliamo

prorogarlo di altre 3 settimane, lei che ne pensa?>

Ryo: < Signor Young, io ho un lavoro che mi aspetta in Cina, non credo che i miei datori di lavoro,

mi lascino libero per tutto questo tempo>

Steve: <Non si preoccupi, già abbiamo parlato con i suoi superiori e ci hanno concesso la sua

professionalità in cambio di una generosa donazione all’ospedale di Wuhan.>

Page 21: Scritto da: Aurelio Alfio Alberto Abate Nel periodo Marzo ...

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Ryo: < Ah bene, quando tornerò sarò indicato come salvatore della patria. Mi dica, il mio lavoro

sarà sempre in via Maggio?>

Steve: < Per la galleria di via Maggio se ne occuperà la signorina Miyazaki come era stato previsto

nel progetto iniziale. Abbiamo prenotazioni per almeno quattro mesi, è il nostro Fort Knox. Mentre

per lei abbiamo previsto un’altra occupazione>

Ryo: < Prima di parlare di questo, volevo farle alcune domande se mi era concesso. Il lavoro svolto

agli Uffizi come si colloca con il mio impegno con la Printer e perché è stato concesso questo

onore?>

Steve: < Signor Ungeziefer, lei è molto sveglio, ha capito che quello era un nostro test per provare

le vostre abilità tecniche e deduttive, superato a pieni voti. Avrà anche capito che la

documentazione prodotta per questa cosa sarà totalmente sottotraccia, non ci sarà documento

pubblico, ma un affare interno complesso, risolto brillantemente.>

Ryo: < Bene, era quello che immaginavo, mi saluti il dè Medici, che è un gran bravo attore, ma che

si è dimenticato che il confine tra Patrizi e Plebei alle volte è più grande di quello che si voglia fare

apparire. Ora mi parli del futuro.>

Steve: <All right, abbiamo previsto che per i prossimi 3 giorni studierà inglese con la dottoressa

Amato, perché il suo è profondamente scarso, mi scusi se glielo dico ma io sono un madrelingua.

Dopo di che, il 15 sera prenderà il volo per New York City negli U.S.A. dove vi è la nostra sede

principale, lì starà come detto 3 settimane, per un lavoro che si svolgerà al MoMA, dovrà essere il

nostro riferimento per allestimento di una mostra, ma di proporzioni molto più grandi rispetto a

quelle di Via Maggio. Alla fine delle 3 settimane, le faremo un bonifico 36000 pounds sul suo conto

e lei potrà ritornare in Cina, più ricco sia economicamente e sia culturalmente. Che ne pensa?>

Ryo: < Penso che solo un pazzo rifiuterebbe un viaggio tutto spesato nella grande mela, io

sicuramente accetto di slancio, ma sono convinto che non è tutto, sono quasi certo che mi nasconde

qualcosa che ancora non so definire.>

Steve: < Ok affare fatto. Per i suoi dubbi per ora non posso dirle altro, sarà il tempo e la sua

perspicacia a fare luce sul suo futuro. Le auguro una buona serata e mi auguro di risentirla.

Arrivederci.>

Ryo: < Arrivederci Mister Young>

La conversazione non era durata più di 20 minuti, ma avevo capito molte cose, che prima ignoravo

totalmente. Quando tornò in Hotel Selene, gli riferì tutto il contenuto della conversazione. La cosa

strana e che non si stupì più di tanto per l’affare degli Uffizi segretato, non si stupì per il mio futuro

incarico in America, ma si incazzò come una iena quando seppe che Yuki nei prossimi giorni mi

doveva fare da tutor per migliorare il mio inglese.>

Selene: < Ho capito, quindi io ti ho portato qui per darmi una mano con la galleria d’arte e tu cosa

fai? Vai a fare lo scolaretto sotto la gonnella di quella vecchia smorfiosa?! No non è giusto!!!

Potevo insegnartelo io l’inglese tranquillamente, così passavamo tutto il tempo assieme e

invece…vaffanculo!!!> Uscì dalla mia stanza sbattendo la porta come un tuono squarcia l’aria. Era

arrabbiata e aveva le sue buone ragioni. Io invece già stavo pensando a come conciliare lo studio e

il lavoro in maniera efficiente.

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CAPITOLO 12

Lezioni d’inglese

Giorno 12, la mia voglia di fare, era diminuita considerevolmente, la mia spinta era Selene e non

esisteva che stessi senza di lei tutto il giorno. Chiamai Yuki al cellulare di prima mattina per

metterci d’accordo sulle lezioni d’inglese, lei era propensa per le ore 17:00, ma io gli dissi che

rendevo meglio la mattina presto, potevamo fare dalle 09:00 alle 11:00 nell’ufficio delle Printer,

c’era una seconda scrivania che poteva fungere da studiolo e cosa da non trascurare non la

distoglievo troppo dal suo lavoro quotidiano, lei accettò di buon grado. Chiusi la chiamata per farne

subito dopo un’altra, prenotai un taxi alle ore 08:30 davanti l’hotel, così avevo il tempo di una

doccia, fare la barba e scendere al piano terra per fare colazione.

Facemmo colazione insieme io e Selene, nel mentre gli spiegai il mio piano per la giornata e per i

giorni a seguire. La prima mattinata sarei stato alla Printer con Yuki per studiare l’inglese, poi nella

tarda mattinata andavo in Galleria in via Maggio per aiutare Selene nel lavoro di controllore mentre

lei si dedicava alle pubbliche relazioni. All’inizio storse un po’ il naso, ma poi capì che in questo

modo ci potevamo vedere quasi tutto il giorno, e fece una smorfia a mò di arresa.

Arrivai alla Printer alle 08:55, mi identificai alla reception e poi salì al piano, fino alla stanza di

Yuki, che era alla scrivania a pestare i tasti del PC, mi fece un cenno ad entrare e di accomodarmi,

nel frattempo lei completava una relazione su una fornitura d’imballaggio della Vogan che non era

stata consegnata nei tempi previsti.

Iniziammo alle 09:15, prima con la grammatica, verbo avere ed essere, formare frasi affermative o

negative o in forma di domanda, poi passammo ai numeri e ai conteggi, alle unità di misura, e tutto

quel repertorio di cose che mi potevano essere utili. Yuki non si limitò solo all’inglese, ma mi diede

tutte le dritte che a New York mi sarebbero servite sicuramente, dall’hotel dove avrei alloggiato, al

portiere che sapeva tutto di tutti, ai bar e ristoranti migliori della zona. Mi parlò anche delle persone

di cui mi potevo fidare e di chi dovevo stare alla larga, parlò ovviamente delle opere che avrei

trovato in esposizione, perché questa volta non sceglievo io, ma sceglievano altri, altri che non

avevano alcun piacere che fossi lì, ma ero raccomandato dal Commenda e quindi dovevano

sottostare alle sue scelte. Tutto questo venne discusso in inglese, domande e risposte, osservazioni e

dubbi, che piano piano si andavano diradando e la fiducia crebbe in maniera più che proporzionale.

Alle 11:15 mi alzai dalla mia scrivania e mi accinsi ad uscire, ma Yuki mi fermò e mi disse che

dopo la teoria ci voleva la pratica, quindi scendemmo al piano 3, la sala grande dove c’erano una

trentina di persone disposte in un quattro file, e un uomo su un palchetto che descriveva un grafico

sul maxischermo, ovviamente parlava in inglese.

Yuki: < Questo è il tuo compito per casa, ascoltare la conferenza in inglese, cercare di capire il più

possibile, e domani mi fai un riassunto esplicativo sempre in inglese, così vedrò anche la tua

scrittura.>

Ryo: < Ok, ma quanto dura questa conferenza?>

Yuki: <è iniziata da poco, finirà alle ore 13:00.>

Ryo: <Capito.>

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Nel frattempo il mio cervello iniziava a “smadonnare”, due pensieri fissi nella testa. Uno era capire

cosa diceva quel damerino in giacca e cravatta sul palchetto, trovare il tempo di scrivere un rapporto

in inglese di quello che mi sembrava un bilancio semestrale basato su calcoli statistici, che si

traducevano in istogrammi e aerogrammi profusi nel maxischermo. Due, cosa potevo inventarmi

per non farmi uccidere da Selene visto che la stavo lasciando da sola, nonostante il mio piano

perfetto che gli avevo proposto quella mattina?

Finimmo alle 13:00 spaccate, nessuno aveva minimamente voglia di fare domande, le persone

sedute si alzarono e uscirono dalla sala, mentre il damerino ancora stava sistemando la sua

attrezzatura tecnica. Yuki volle presentarmi quel signore e ci avvicinammo a lui.

Yuki: < Ciao Carl, ti volevo presentare il signor Ungeziefer, sarà il nostro nuovo Admin a New

York.>

Carl: < Buongiorno Myster Ungeziefer, io sono l’ingegner Carl Shevcenko, benvenuto alla Printer e

spero di non averla annoiata troppo con i miei bilanci aziendali.>

Ryo: < Salve Ingegnere, mi chiami semplicemente Ryo, no non mi ha annoiato per niente, si figuri

che farò una relazione su quel che ha detto in questa sala.>

Carl: <Ho capito, la dottoressa Amato ti sta mettendo alla prova, fa bene, qui siamo tutti predatori,

solo i più forti vanno avanti, questo è un mestiere supercompetitivo, un giorno sei nessuno e il

giorno dopo sei Dio, e il giorno ancora dopo si sono scordati di te. Ora vi saluto, vado a riprendere i

miei figli da scuola. È stato un piacere, arrivederci>

Carl uscì dalla sala e facemmo noi lo stesso poco dopo, andammo agli ascensori, risalimmo allo

studio per prendere le cose e poi scendemmo nel garage per prendere l’auto.

Ryo: < Senti mio puoi dare un passaggio? Ho scordato a chiamare il taxi e vorrei evitare di stare qui

mezzora ad aspettare>

Yuki: < Guarda, io sto tornando a casa, possiamo fare come l’altro giorno, mangi da me e poi ti

accompagno in centro, anche perché ci devo passare per altri motivi, ti sta bene?>

Ryo: < Ok, credo sia la migliore opzione, ma non vorrei approfittare della tua gentilezza…>

Yuki: <Tranquillo, mi fa piacere avere compagnia, inoltre visto che abbiamo solo due giorni e

mezzo prima della tua partenza, possiamo approfittarne per continuare con lo studio dell’inglese>

Arrivammo a Casa Amato alle 13:30. Posteggiammo sempre davanti l’ingresso principale e ci

facemmo strada dentro il villone. Dall’altra parte si sentiva musica a tutto volume di un gruppo

musicale che non conoscevo, c’era Beatrice che ballava con una sua amica coetanea, si facevano i

selfie incuranti del resto del mondo. Yuki questa volta non provò neanche a fargli una ramanzina,

mi fece cenno di seguirla in cucina, ci riscaldammo due pizze al microonde e bevemmo un paio di

birre a testa, nel frattempo conversavamo in inglese per migliorare la dizione. Poi mi disse che si

doveva cambiare per l’appuntamento delle 16:45, e salimmo al primo piano dalle scale, c’era un

salottino con la tv in cima, ma camminammo ancora lungo il corridoio, fino l’ultima porta, era la

sua stanza da letto.

Lei non provò neanche a fingere, chiuse la porta dietro di se, mi guardo, mi baciò, si aggrappò a me.

Successe tutto in un momento, non me lo sarei aspettato, e ora avevo le sue labbra morbide

spalmate sulle mie, e la sua lingua che cercava di entrare dentro la mia bocca, non riuscì ad

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allontanarla, potei solo assecondarla. Rallentò un po’, ma solo per tirarmi ancora più vicino a lei e al

letto gigante, che ora si trovava alle sue spalle, iniziò a spogliarsi, e io feci lo stesso, con una

frenesia mai capitata prima. Ci schiantammo nel letto con una ferocia incredibile, come leone e

leonessa, nel periodo dell’accoppiamento, in quel momento era la biologia dell’istinto che

dominava la chimica del cuore.

Alle 16:15 eravamo ancora a letto, completamente stravolti, ma nessuno voleva interrompere quel

momento, allora pensai che così non potevo uscire dalla stanza, proposi una doccia nel bagno

padronale, lei mi guardò languida e si preparò per un secondo round.

Morale, arrivai in via maggio alle ore 16:50, Yuki schizzo via con la macchina perché era in ritardo,

e non voleva incrociare lo sguardo con quello di Selene. Sguardo che colpì me, appena entrato, che

era un misto tra un muro di cemento armato e Mike Tyson da giovane, una delizia.

Ryo: < Scusa.>

Selene: < Stronzo!!! Bel piano,Grandioso!!!>

Non mi parlò per tutto il pomeriggio, e lo stretto necessario i successivi due giorni. Io non facevo

niente per riavvicinarla a me, ma mi sentivo oltre ogni modo possibile colpevole, anche perché con

Yuki la cosa proseguiva, in maniera molto appagante, e fra qualche ora avrei salutato entrambe.

Giorno 15 ero libero, non dovevo lavorare, non dovevo studiare, preparavo le valigie per la sera, ma

ancora era pieno giorno. Con Yuki già c’eravamo salutati, oggi lei era fuori Firenze, e non sarebbe

ritornata in tempo per la mia partenza. Allora pensai di cercare di chiarirmi con Selene, anche

questa volta eravamo rimasti appesi, come dei panni stesi al sole, aspettando che qualcuno li venisse

a ritirare, ma questa volta la macchia era troppo grossa, da ignorarla, andai in Via Maggio, a piedi,

non era vicino per niente, avevo bisogno di buttare fuori tutta l’energia negativa e pensare cosa dire.

Arrivato in galleria, vidi Selene e gli feci segno che gli dovevo parlare. Lei disse ad un

collaboratore che si assentava per mezzora, e insieme ci allontanammo per i vicoli stretti di Firenze,

perdendoci, ma in quel momento poco ci interessava.

Ryo: < Ti vorrei chiedere sc…>

Selene: < Sta zitto, non voglio sapere niente, voglio solo che tu mi faccia una promessa, quando

finirà tutto questo, ci rivedremo e non ci lasceremo mai più, Prometti!!!>

Ryo: < Prometto>

Lei mi baciò teneramente, ma quelle labbra bruciavano e facevano male, lei piangeva e si stringeva

a me, non voleva lasciarmi, ma si fece forza, si staccò da me e se ne andò senza guardarsi indietro,

senza sapere dove stava andando. Io morto nel cuore restai fermo immobile in quel vicolo

sconosciuto, in una città che non era mia, ma che incominciavo a sentire mia, e che a breve avrei

abbandonato al suo destino, come ogni altra cosa della mia vita.

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PARTE III

New York City

CAPITOLO 13

Primo allenamento

Quando arrivai al JFK di New York era ancora giorno 15 Aprile, ma questo poco m’importava,

cercai il mio unico bagaglio nel nastro trasportatore. All’uscita c’era una persona ad aspettarmi, con

in mano un cartello con scritto il mio cognome a grandi lettere in grassetto, io gli feci cenno con una

mano, si avvicinò, prese il bagaglio e mi fece segno di seguirlo nella zona di parcheggio a sosta

rapida. L’autista era alto quasi due metri, nero, massiccio, penso che pesasse oltre i 120 kg, e la

maggior parte di quel peso dovevano essere muscoli a giudicare di come quel vestito gli stesse

attillato, quasi sull’orlo di esplodere. Il viaggio durò circa 20 minuti su una vecchia Cadilac anni 80

perfettamente messa a nuovo, meglio di quando era uscita dalla fabbrica, l’hotel si chiamava SoHo

a Midtown, vicino Central Park, zona di lusso.

All’ingresso incrociai il portiere Giuseppe, quello che mi aveva descritto Yuki per filo e per segno

era inconfondibile, ma non ci parlai, perché la stanza era già pronta e l’autista mi accompagnò

direttamente all’ascensore, salimmo al sessantaquattresimo piano, c’erano solo 3 appartamenti, il

mio era quello a sinistra in fondo al corridoio, l’autista aprì con una tessera magnetica e mi fece

segno di entrare, poi posò la borsa in un apposito sgabello, poggiò la tessera sopra un tavolo. Mi

disse: < Domani ore 08:00 A.M. passo a prenderla, arrivederci a domani.> e se ne andò.

Mi guardai attorno, la stanza era più grande di un terzo rispetto a quella di Firenze, aveva tutti i

confort possibili, ma mancava di personalità, era un corpo senza vita, guardai dall’enorme parete a

vetri che dava sul vuoto, non ero in cima ad un grattacielo, ma lo spettacolo meritava di essere

ammirato allungo. New York si trova alla foce del fiume Hudson, sull’oceano Atlantico, e

comprende 5 distretti. Manhattan, il suo cuore pulsante, è considerato uno dei poli commerciali,

finanziari e culturali più importanti al mondo. I luoghi più caratteristici della metropoli sono i

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grattacieli come l’Empire State Building e l’estesa zona di Central Park. I distretti erano divisi in

contee: Manhattan, Bronx, Kings, Queens e Richmond. Io ero deciso a vederli tutti, non credo mi

sarebbe capitata un’altra opportunità del genere per il resto della vita.

Dopo un quarto d’ora canonico che ero in stanza arrivò una chiamata sul mio cellulare, il numero

era sconosciuto, ma decisi di rispondere lo stesso.

Ryo: <Salve, con chi parlo?>

Kaled: < Buonasera, sono Kaled Irragi, parlo con il signor Ungeziefer?>

Ryo: < Si, sono io, che desidera?>

Kaled: < Sono il suo Tutor Coach Motivatore, l’avvertivo che la prima lezione sarà pratica, ci

vediamo domani alle ore 08:30 a Central Park, Mike il suo autista le indicherà il punto esatto

dell’incontro, si vesta sportivo, tutto chiaro?>

Ryo: < Si tutto chiarissimo, ci vediamo domani mattina, arrivederci>

Chiusi la telefonata senza aspettare la risposta, ero furibondo, ero lì da pochi minuti, ma già avevo

capito che le mie prossime 3 settimane sarebbero state molto poco artistiche, e molto accentrate

sulla mia persona. Tutorcoachmavacagare!!!!

L’indomani mattina mi svegliai alle 07:00 come da sveglia impostata, doccia e barba, avevo fame e

svaligiai il frigobar pieno di schifezze americane, mi lavai i denti, mi vestii con una tuta e una

maglietta a maniche corte di sotto. Misi in un piccolo marsupio, portafoglio cellulare, chiave

magnetica della porta, e scesi al piano terra, dove c’era Mike pronto per salirmi a chiamare, ma ero

già lì, quindi andammo direttamente alla macchina, che questa volta era un SUV nero di grossa

cilindrata, nuovissimo. Ci vollero solo 5 minuti di strada e ci fermammo ad un ingresso centrale di

Central Park, mi indicò un gigante superpalestrato dalla pelle olivastra in tenuta da corsa, scesi dalla

macchina e mi avviai verso quello persona.

Kaled: < Buongiorno signor Ungeziefer, pronto per correre?>

Ryo: < Pronto.>

Furono due ore in modalità massacro, non mi allenavo da mesi, e di certo mai a quel livello. Corsa

per tutto il parco, flessioni, addominali, stretching e per sino qualche posizione Yoga, come se

dovevo allenarmi per andare a fare la guerra, ma io ero un novizio relatore di opere d’arte. Alla fine

ero completamente sudato e mi mancava il respiro, ritornammo al punto di partenza, dove c’era

Mike in attesa, feci per andare, ma Kaled mi disse qualcosa.

Kaled: < Per oggi va bene così, domani ci vediamo stessa ora ma in palestra, non si dimentichi

l’appuntamento di questo pomeriggio con l’Architetto Rogi alle 18:00>

Ryo: < Non si preoccupi non mancherò domani e neanche questo pomeriggio>

Gli eventi andavano avanti senza che io ne avessi nozione, si succedevano ad oltranza, senza un mio

controllo diretto, ma restavo passivo, e questo doveva cambiare rapidamente. Salii in auto e tornai

in Hotel.

Il MoMa è l’acronimo di Museum of Modern Art, si trova a Manhattan al 11 West 53rd Street, cioè

si trova a Midtown vicino al mio hotel. Inaugurato nel 1930 il museo di arte contemporanea, ha

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avuto una straordinaria importanza per lo sviluppo dell’arte moderna ed è stato spesso considerato il

principale museo moderno del mondo. La collezione del museo propone un’incomparabile visione

d’insieme dell’arte moderna e contemporanea mondiale, poiché ospita progetti d’architettura e

oggetti di design, disegni, dipinti, sculture, fotografie, serigrafie, illustrazioni, film e opere

multimediali.

Mi trovavo ora con l’architetto Rogi, parlavamo in inglese e ogni tanto scappava qualche parola in

italiano, comunque ci capivamo. Yuki lo conosceva di persona, mi disse che era un genio, che

conosceva tutto su l’arte e se avevo qualche lacuna, lui l’avrebbe dissolta come nuvole al vento,

quindi lo feci parlare il più possibile, su ogni argomento, e lui era felicissimo di elargire chicche su

ogni cosa era presente in quel museo. Era un uomo sui 65 anni, media altezza e corporatura, capelli

bianchi, portava gli occhiali e aveva delle profonde rughe sulla fronte che lo facevano sembrare

ancora di più ad un maestro alchimista del medioevo, o almeno io così me l’immaginavo.

Stabilimmo le date per la nuova schedatura delle opere, giorni e orari. Fissammo la data per la

nuova mostra di arte contemporanea. Ci scambiammo i numeri di cellulare, e ci promettemmo di

vederci per prendere un caffè all’italiana degno di questo nome. Dopo 3 lunghe ore ci salutammo,

ma con la speranza di rivederci presto, cosa che non era uguale riguardo al mio autista simpatico

come un pitbull pronto a mordere, mi aspettava innervosito con lo sportello aperto e motore acceso.

Ritornato in Hotel ordinai la cena in camera, perché l’architetto mi aveva dato dei documenti da

controllare, e poi avevo l’acido lattico in tutto il corpo dovuto all’allenamento della mattina che si

faceva sentire e non poco. Il mangiare faceva letteralmente schifo, soprattutto rispetto al cibo

italiano, in una settimana non c’era stata pietanza gradevole, anche il panino al bar aveva un sapore

superiore a quello che mi avevano portato in camera. Prenotai per la cena di domani al Jungsik, che

faceva cucina asiatica e in particolare quella coreana, luogo consigliatomi da Yuki, che non era una

gran cuoca, ma sapeva bene muoversi negli ambienti e cercare il meglio a disposizione.

Giorno 17 Aprile, era un venerdì, ogni giorno era una scoperta, sempre cose e persone nuove da

vedere. Non avevo un cambio adeguato sportivo in valigia, abbozzai dei pantaloncini bermuda fuori

moda da un decennio e una canotta giallo fluorescente dozzinale, presi chiave elettronica, cellulare,

portafoglio e uscì dalla stanza. Appena uscito, mi trovai un muro umano davanti, era Mike che

stavolta era stato più puntuale di me; andammo all’ascensore, feci pigiare il tasto a lui, ma invece di

pigiare il tasto del piano terra, premette il numero 75, stavamo salendo. Arrivati al piano lui rimase

in ascensore, mentre io andai avanti da solo, superai una porta a vetri e mi ritrovai nella palestra

dell’Hotel.

Kaled stava facendo riscaldamento appoggiato ad una panca, quando mi vide, mi indicò di fare

come lui ed imitare i suoi movimenti. Dopo circa 10 minuti passammo all’allenamento vero e

proprio, con i pesi e i macchinari, allenai pettorali bicipiti e addominali, con pesi bassi per dare

modo al mio fisico di adattarsi allo sforzo fisico. Kaled, anche se non diceva niente, era

palesemente infastidito dal mio abbigliamento inadeguato, pensai che a breve avrei fatto shopping,

dovevo comprare dell’abbigliamento tecnico sportivo e anche dei vestiti eleganti per le giornate di

gala che ci sarebbero state nelle prossime settimane. Finito l’allenamento, come se avesse letto i

miei pensieri, il mio Motivatore, mi diede una carta di credito argento per fare acquisti, con il mio

nome e cognome inciso sopra, forse avevo sottovalutato Kaled, o per meglio dire, avevo

sottovalutato i padroni del mio personal trainer.

Tornai in stanza alle 11:30, mi feci la doccia e mi vestii comodo. Riuscì dalla stanza, questa volta

l’autista non c’era, presi l’ascensore, ma questa volta con il verso giusto, cioè verso il piano terra.

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Arrivato all’ingresso, andai dritto alla reception dove c’era Giuseppe, gli chiesi nel mio inglese se

conosceva un negozio di valigie in zona, lui mi guardò per qualche secondo e poi mi diede un

biglietto di un negozio di articoli da viaggio, con indirizzo e numero telefonico. Ringraziai il

portiere, così efficiente, uscii dall’hotel, impostai il navigatore sul mio cellulare e andai al negozio,

che distava solo 750 metri ma non in linea retta, dopo qualche zig zag, entrai nel negozio, comprai

un trolley grande che serviva per tutto il mio abbigliamento e un trolley più piccolo, tipo quello

delle hostess che lavorano negli aerei, per portare le cose di lavoro, documenti, Notebook, articoli

di cartoleria e un piccolo beauty case per l’igiene personale.

All’uscita trovai Mike e il SUV ad aspettarmi, gli dissi che non avevo bisogno dell’auto, al

massimo mi poteva fare il favore di portare i trolley in stanza, lui caricò le 2 valigie nel

portabagagli, salì in macchina e se ne andò. Liberatomi di lui almeno per un po’, decisi di andare in

un minimarket e comprare le cose di prima necessità, senza spendere grosse cifre, presi schiuma da

barba, lamette da barba, deodorante, doccia e bagno schiuma, spazzolino per i denti, dentifricio,

forbicina per le unghia, 3 paia di calzini e 3 paia di mutande e 3 magliette bianche a manica corta.

Fatto ciò andai in un negozio di articoli sportivi e comprai 3 tute di tre colori diversi, nero grigio e

bianco, un paio di scarpe da ginnastica di marca molto comode, dei guanti da palestra e una

tovaglietta per il sudore. Fatto anche questo, mi diressi in un negozio di lusso per compare 2 vestiti

eleganti, uno per il giorno di colore grigio e uno nero per la sera, 2 camicie una bianca e una celeste

pallido, infine 2 cravatte una rossa e una blu notte. Uscito da questa ultima commissione, andai in

direzione hotel, mi fermai solo in una camionetta dei panini per assaggiare il classico Hot Dog

all’americana, rimasi profondamente deluso, non era male, ma non era la cosa più buona che avessi

mai assaggiato, un po’ deluso tornai in hotel carico di buste, ma felice di aver avuto un paio di ore

di libertà.

CAPITOLO 14

La cena

Era il Friday night a New York City. Mike mi aveva lasciato, su mia richiesta a Times Square, uno

dei posti più rappresentativi della civiltà moderna, questo incrocio di vie, che avevo visto nei film,

ora era attorno a me, con le sue mille luci e le mille persone che passavano senza guardarti, e mi

feci un selfie con il cellulare in modalità foto ricordo. Ero vestito da sera, con giacca e cravatta

nuove, un po’ le scarpe stonavano, usavo quelle mie vecchie e comode, perché mi ero dimenticato

di comprarne un paio nuove, ma tutto sommato facevo la mia figura.

Arrivai al ristorante asiatico, come sempre un po’ in anticipo, ma tornare a parlare cinese, già mi

faceva stare meglio, dissi il nome della prenotazione e mi fecero accomodare al tavolo, mi

portarono il Menù, e scelsi praticamente tutto, 4 antipasti, 4 primi, 3 secondi, 2 dessert, oltre a tre

tipi di bevande tutte rigorosamente alcoliche.

La cameriera, molto bella e sorridente, divenne rossa per l’imbarazzo e mi chiese, quando sarebbero

arrivate le altre persone per cena, perché aveva la prenotazione per uno. Io gli risposi, che tutte le

persone che dovevano cenare erano già sedute a tavola, e indicai me stesso. La cameriera rise, ma

questa volta in maniera sincera, e se ne andò nella zona cucine per dare la comanda al personale.

Tutti in sala, videro tutta quella roba uscita dalla cucina che finiva al mio tavolo e che piano piano

spariva dentro la mia bocca, restavano i piatti vuoti che la solerte cameriera portava via. Alla fine

del pasto, in maniera un po’ baldanzosa, chiesi alla cameriera: < Come ti chiami?>

Cameriera: < Mi chiamo Kim Chan, desidera altro?>

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Ryo: < Piacere Kim, mi chiamo Ryo, ti volevo chiedere se tu eri della zona?>

Kim: < Si abito qui vicino, sono di Bangkok, ho origini tailandesi, ma vivo qui da oltre 10 anni>

Ryo: < conosci un buon negozio di scarpe eleganti? Queste che ho ai piedi stanno finendo il loro

lavoro, ma non voglio niente di commerciale, qualcosa di particolare insomma.>

Kim: < Mio nonno fa il calzolaio ed è un artigiano molto apprezzato, ma a quest’ora sarà già a letto

coricato>

Ryo: < Capisco, certo non voglio svegliare tuo nonno per un mio capriccio, mi puoi dare il suo

numero di telefono? Così domani, ad un orario più decente gli chiamerò>

Kim: < Mio nonno è all’antica, non usa cellulare, chiama il mio numero domani alle 12:00 e ti

faccio sapere.>

Mi allungò uno straccetto di carta con il suo nome e numero di cellulare e io feci altrettanto. Pagai il

conto, e gli lasciai una mancia di 30$ su una cena di 110$. Salutai la cameriera e il titolare del

ristorante che mi guardarono come se fossi una slot machine che aveva fatto Jackpot. Uscii in

strada, faceva un pò freddo rispetto al tepore del ristorante, era ancora presto e decisi di farmela

tutta a piedi, per smaltire la cena e riscaldarmi. Arrivai all’hotel verso le 23:30, c’era Mike

visibilmente preoccupato quando entrai nella Hall, sicuramente era stato tutto la serata, lì, ad

aspettare la chiamata per farmi riaccompagnare a casa, ma non aveva capito che ero una persona

capace e indipendente. Al solito mi volle accompagnare fino alla mia stanza, nella speranza che non

mi muovessi più. Davanti la porta mi disse: < domani lezione di piscina, ultimo piano, ore

09:00,costume e occhialini, sono già pronti in spogliatoio. Arrivederci, buonanotte>

Io rientrai in camera, c’era un caos, tutti i vestiti erano buttati alla rinfusa sul letto, tutti i documenti

erano sparpagliati sul tavolo, decisi di dare una bella sistemata, in modo tale che domani mattina,

avevo tutto ordinato e pronto a l’uso. Si fece l’una di notte, mi andai a coricare, ero un po’ più

felice, perché lentamente stavo riprendendo il controllo della mia vita, o almeno così pensavo in

quel momento.

Sabato 18 Aprile, mi svegliai mezzo intontito, merito delle due birre cinesi da 66cl che mi ero

scolato il giorno prima. Mi alzai, con una flemma che non era mia abitudine, non avevo neanche

fame, mi vestii velocemente con una delle tute nuove, misi le scarpe da ginnastica e uscii dalla

stanza. Fuori non c’era Mike ad aspettarmi, strano, presi l’ascensore e salii in cima al palazzo.

La piscina era meravigliosa, era stata realizzata in stile romano, con marmi bianchi e colorati, Kaled

mi diede le chiavi dell’armadietto e mi indicò gli spogliatoi. Dopo un quarto d’ora uscii in costume,

con delle ciabatte ai piedi, in mano avevo cuffia e occhialini. Il mio Tutor si stupì, se a terra ero

lento come una lumaca, in acqua ero un pesce, sapevo nuotare in tutti i quattro stili, sapevo fare le

virate con la capriola e sapevo come tuffarmi senza creare schizzi. Il motivo era semplice, da

piccolo nuotavo a livello agonistico, e anche se erano passati molti anni, l’istinto prevalse sulla

ragione, e la sessione di allenamento solitamente dura, diventò un piacevole risveglio mattutino.

Uscii dall’acqua poco prima che mi spuntassero le branchie, pensai che sarei ritornato lì anche in

altri momenti, ma senza il mio mental coach dalle dubbie origini.Alle ore 11:45 ero in stanza, mi

arrivò un messaggio sul mio cellulare, era Kim, mi avvisava che suo nonno era disponibile per

creare le scarpe su misura. Mi scrisse se per me andava bene, di vederci davanti al ristorante alle ore

16:00 oggi stesso. Io risposi sempre tramite messaggio: < Ok, per me va bene, ci vediamo questo

pomeriggio ☺ >

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CAPITOLO 15

Kim e le scarpe del nonno

Alle ore 15:45 ero davanti il ristorante, Kim arrivò qualche minuto dopo, camminando con una

cartella a tracolla e quel sorriso che conquistava l’universo. Iniziammo a camminare e a parlare, gli

chiesi che cosa portava in cartella e lei mi rispose che aveva il suo computer, era studentessa

universitaria in informatica, e quello era il suo strumento di studio. Camminammo per meno di 5

minuti e imboccammo una stradina secondaria, tutti i visi che incrociavo erano asiatici, vuol dire

che esisteva una specie di linea di passaggio, chi entrava lì, era orientale o aveva a che fare con

gente orientale.

La bottega del nonno di Kim, consisteva in una prima stanza dove c’erano i strumenti da lavoro e

una stanza sul retro che fungeva da casa. Mi fece subito accomodare e mi disse qualcosa che non

capii, mi tradusse Kim, voleva che mi togliesi scarpe e calzini, per prendere la misura del piede,

prese un pezzo di pelle conciata, la poggiò sopra e con una matita incominciò a disegnare delle linee

finissime, poi passò all’altro piede. Il nonno disse qualche altra parola, Kim tradusse in “ti puoi

rimettere le scarpe” e così feci. Chiesi quanto tempo ci volesse a Kim che a sua volta chiese al

nonno, rispose 1 settimana di lavoro, io speravo prima, ma se volevo fatta qualcosa a regola d’arte

dovevo aspettare, se no potevo andare in qualunque negozio e prendere le scarpe più anonime che

c’erano.

Usciti dalla bottega, chiesi a Kim se era brava ad archiviare dati, creare schede e tabelle. Lei mi

rispose che quelle cose già li sapeva fare al tempo delle superiori, era la prima della classe e aveva

preso una borsa di studio per l’università.

Kim: < perché mi fai questa domanda? Hai problemi con il tuo computer oltre che con le scarpe?>

Ryo: < Ho una quantità infinita di oggetti da catalogare, devo fare anche delle descrizioni accurate.

Sono discretamente bravo a scrivere, ma sicuramente più lento di te>

Kim: < Cosa mi vuoi chiedere? Non capisco.>

Ryo: < Quanto ti pagano al ristorante a settimana?>

Kim: < 150$ a settimana più le mance normali, non come le tue.>

Ryo: < Ti propongo un lavoro. 250$ a settimana per la completa catalogazione degl’oggetti che ti

dicevo. 9 ore al giorno con un’ora di pausa pranzo. Accetti?>

Kim: < Guarda che io un lavoro già ce l’ho e lo sai, perché dovrei accettare una proposta del

genere?>

Ryo: < Ok capito, facciamo 300$, ma il pranzo e la cena te ne occupi tu, d’accordo?>

Kim: < Beh se la metti così, come faccio a rifiutare? Ok ci sto. Ma mi devi dire un po’ di cose, dove

lavori? Quando iniziamo? Avrò il tempo di avvertire il mio principale? Nei momenti liberi posso

comunque studiare?>

Ryo: < calma calma, ora ti dico tutto. Io lavoro al MoMA, faccio il relatore d’arte, fra circa 2

settimana ci sarà una mostra di livello internazionale, hanno creato dei totem per visionare le opere

d’arte nel museo, e hanno creato anche una applicazione per i cellulari, ma per ora non ci sono dati

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inseriti, c’è solo lo scheletro, mi hanno incaricato di metterci la carne. Io pensavo d’iniziare Lunedì

alle ore 12:00. Ti farò avere un pass come assistente/segretaria. Tutto chiaro?>

Kim: < Si tutto chiaro. Quindi tu saresti una specie di artista/ispettore dell’arte?>

Ryo: < In realtà, sono un operatore sanitario che lavora in Cina, ma una mia amica mi ha spinto a

dedicarmi ad altro, per un tempo limitato, almeno spero.>

Kim: < Questa tua amica deve essere stata molto convincente per farti arrivare fino a qua!!!>

Ryo: < Si è quel tipo di persone a cui non si può dire di no>

Kim: < e ora lei dov’è? Strano che non era con te ieri.>

Ryo: < Lei è rimasta in Europa per un altro lavoro, ne avrà ancora per mesi.>

Nel frattempo eravamo ritornati al ristorante che stava per aprire proprio in quel momento. Lei mi

salutò ed entrò, mentre io mi allontanavo e salivo in macchina, Mike partì per riportarmi all’hotel.

Dopo qualche minuto scesi dal SUV e fui scortato dall’autista al mio 64esimo piano. Arrivato alla

porta chiesi cosa c’era da fare per la domenica, Mike mi rispose: < addestramento tecnico/tattico,

partenza domani alle 08:00 e ritorno previsto alle ore 20:00>. Rimasi un po’ sbalordito, ma cercai di

contenermi, salutai Mike e chiusi la porta.

Non capivo cosa c’entrasse con me un allenamento di questo tipo. D’accordo essere preparati a

tutto, Ok studiare le lingue straniere, Ok fare sport per mantenersi in forma, ma un addestramento

tecnico/tattico a cosa mi poteva servire? Non sapevo darmi risposta. Quindi mi dedicai ad altro,

presi il cellulare e chiamai L’architetto, mi rispose al terzo squillo.

Ryo: < Buon pomeriggio architetto. Sono Ungeziefer, la disturbo?>

Filippo: < Salve, mi chiami Filippo, non mi disturba affatto, stavo guardando uno stupidissimo quiz

televisivo, niente di entusiasmante. A cosa devo l’onore di questa chiamata?>

Ryo: < Niente di onorevole, ma una semplice richiesta di ordine pratico. Per la schedulazione di

tutti i dati di tutti gli oggetti presenti al museo, sono una quantità impressionante e mi occorre un

aiuto. Le volevo chiedere se poteva intercedere con il direttore del museo per avere un pass per il

mio addetto informatico. Lo può fare?>

Filippo: < e lei mi chiama per una tale sciocchezza? Mi dica nome e cognome e domani il suo

addetto informatico avrà il suo pass.>

Ryo: < Si chiama Kim Chan, il documento lo può lasciare a Giuseppe alla reception del hotel

SoHo?>

Filippo: < si certamente, lo farò recapitare al posto desiderato da un mio commesso.>

Ryo: < Perfetto, noi ci vediamo lunedì pomeriggio al museo, grazie ancora e buona serata>

Filippo: < Buona serata.>

Mandai un messaggio a Kim, per dirgli del pass e dove lo doveva prendere. Poi mi misi a guardare

la TV.

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CAPITOLO 16

Rambo

Domenica 19, sveglia alle 07:00, doccia, barba, vestizione e scesa nella Hall. Questa volta c’erano

tutti e due, Mike e Kaled, tutti e due vestiti da militare, facevano davvero paura, stavo quasi

ripensando di risalire in ascensore, ma loro si piazzarono ai lati e mi incitarono a salire sulla Jeep

fuori dall’hotel. Ci vollero ben 2 ore per arrivare, eravamo fuori da Manhattan, penso che eravamo

in qualche angolo remoto del New Jersey, la giornata era pessima con grossi nuvoloni neri e noi ci

stavamo infilando in un sentiero sterrato in mezzo alla boscaglia. Scendemmo dalla Jeep, aprirono il

portabagagli e presero due grossi borsoni color verde mimetico, poi la custodia di qualcosa di molto

grosso, chiusero l’auto e scendemmo da una scarpata verso quello che mi sembrava un torrente.

Finita la discesa, c’era una piccola radura tutta in piano, su due lati c’erano delle falesie verticali e

davanti il fiumiciattolo che faceva da quarto lato al sentiero da dove eravamo scesi.

Mike si occupò dei borsoni verdi, in un borsone c’era dentro una tenda per 3 persone, nel secondo

borsone c’erano alimenti, un cucinino a gas e una borsa nera più piccola, che conteneva una decina

di pistole di forme e di colori differenti. Kaled si occupò della custodia rigida, l’aprì e c’erano dei

pezzi non assemblati di un fucile di precisione, uscì i pezzi e in meno di 30 secondi montò il tutto,

era una scena che mi ricordava Full Metal Jacket del 1987, ma questa era realtà e mi chiedevo

disperatamente: ma io che ci faccio qui???

La risposta arrivò a breve, Kaled mi insegnò ad usare quello strumento di morte, dal come si

montava a come si faceva fuori una lattina di birra posta a 100 metri di distanza che fungeva da

bersaglio. Caricare e scaricare l’arma, come regolare il mirino e come puntare il bersaglio,

l’impugnatura sdraiata, seduta e in posizione eretta. Poi iniziarono a fioccare i colpi, ci vollero 18

tentativi prima di colpire la lattina, mi faceva male la spalla e faceva freddo, ma Kaled mi incitava a

riprovare, avevamo venti caricatori da svuotare. Poi passammo alle pistole, il bersaglio era a

20metri, odiavo quella lattina, qui ci vollero solo un paio di caricatori per centrare il bersaglio,

distribuiti fra 10 pistole diverse, quella che mi piaceva di più era una Beretta calibro 9, forse perché

era fatta in Italia, non lo so dire.

Facemmo una pausa pranzo, mangiammo del cibo preparato da Mike, era del cibo liofilizzato

sciolto nell’acqua, accompagnato a delle gallette di riso che avevano un sapore orribile, ma c’era

questo e non volevo fare arrabbiare i due colossi, specialmente con tutta quella artiglieria a lato, mi

potevano uccidere in 100 modi differenti e in quel posto nessuno mi avrebbe trovato mai. Dopo il

pranzo si passò al corpo libero, arti marziali e armi da punta. Prima fu un’ora e passa di scaraventate

a terra e proiezioni, strette e blocchi, mosse di difesa e attacco, strangolamenti e tecniche di asfissia,

e tutto il repertorio delle arti marziali. Dopo si passò alle armi da punta, e lì mi sentii davvero

Rambo, in mezzo alla giungla ad usare un coltello con una lama da 20 centimetri, con due

energumeni che cercavano di uccidermi, o per meglio dire simulavano di uccidermi.

Poi vidi in fondo al borsone nero dei lunghi coltelli da lancio, pensai abbiamo fatto 30 facciamo 31,

e chiesi a Kaled come si usavano, lui mi spiegò che si usavano quando non si avevano pistole con il

silenziatore, e il bersaglio era entro i 10 metri. Prese un coltello e colpì un albero posizionato a circa

7 metri di distanza, provai io e riuscì a colpire il bersaglio quasi nello stesso punto, qualche

centimetro più a destra, provai altre volte e feci sempre centro o sbagliavo di pochissimo. Kaled e

Mike erano soddisfatti, smontarono la tenda, misero tutte le armi nelle rispettive borse, e risalimmo

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per il sentiero fino alla Jeep. Io ero stanco morto, dentro la macchina si stava al calduccio e mi

addormentai quasi subito.

Mi svegliarono che eravamo già arrivati all’Hotel, Mike rimase in macchina, io e Kaled salimmo in

stanza, lì mi disse che prossima settimana avrei avuto il porto d’armi e che saremmo andati un paio

di volte al poligono di tiro. Per quanto riguardavano gli allenamenti, ci vedevamo domani al Central

Park per il solito allenamento mattutino. Detto questo uscì dalla stanza senza salutare.

Da solo in stanza cercai di capire in che condizioni ero, ed ero messo male, tutto sporco, pieno di

ematomi lividi, graffi ed escoriazioni di ogni tipo. Mi faceva male la spalla dove avevo appoggiato

il calcio del fucile, con il rinculo sbatteva e sollecitava tutta l’articolazione. Nella mia mente,

pensavo che ero diventato un reduce del Vietnam, mi guardai allo specchio e sorrisi di quella cosa.

Lunedì 20 Aprile, il rottame umano Ungeziefer, si trovava al Central Park in tenuta da corsa, che

arrancava dietro al suo Tutotor Motivatore, sembrava l’inseguimento di Beep Beep da parte di Will

il Coyote, per quanto io le studiavo tutte per raggiungerlo, lui era sempre troppo veloce e distante, si

fermava solo per farmi fare le flessioni e altri tipi di esercizi che distribuiva durante il percorso.

L’allenamento finì alle ore 11:00 e questa fu la prima volta che fui felice di trovare Mike ad

attendermi, perché non sarei riuscito a fare un altro passo.

Oltretutto dovevo recuperare le forze, perché avevo solo il tempo di darmi una sistemata, dovevo

essere alle ore 12:00 al MoMA per iniziare a lavorare. Arrivai con un quarto d’ora di ritardo, che

per me era una cosa inconcepibile. Trovai davanti al mio ufficio Kim ad attendermi con il suo pass

in bella mostra e il suo sorriso che mi dava un po’ di conforto, entrammo posai il mio trolley

piccolo, feci uscire tutte le mie cose e le posizionai sul tavolo, presi un blocnotes e una penna, gli

dissi a Kim di prendere il suo portatile e seguirmi.

Trovai un carrello della forma e altezza giusta per poter scrivere e muoversi allo stesso tempo. Così

iniziò una lunghissima serie di catalogazione delle opere d’arte, divise per periodo, per autore, per

stile e per valore sociale. Ogni oggetto era correlato da una mia relazione, scritta in tempo reale da

Kim che riusciva a tenere il passo delle mie parole. Staccammo alle 14:00 per pausa pranzo, lei mi

aveva portato un bel po’ di squisitezze portate dal ristorante, sapeva della mia voracità e dei miei

gusti, e ben presto mi spazzolai tutto. Mi diede anche il cibo per la cena in formato Take Away, da

portare in Hotel.

Kim si dimostrò subito capace e attenta, capiva le mie osservazioni, e durante il pomeriggio la

presentai all’architetto Rogi, e lei sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi. L’architetto era rimasto

incantato dalla ragazza e capì che fare quel pass era stato una delle migliori cose che aveva fatto

negl’ultimi anni. Io guardavo la situazione e cercavo di non mettermi a sbuffare a ridere, poi

guardai l’orologio e mi passò il sorriso,capì che era tempo di tornare a lavoro, ancora non avevamo

fatto neanche 5% di caricamento dati.

Uscimmo alle ore 21:00 stremati dalla fatica, diedi un passaggio a Kim a casa, abitava all’ingresso

della via dove lavorava suo nonno, poi Mike mi accompagnò all’hotel, salii in stanza, aprii il take

away e iniziai a mangiare convulsamente, avevo si fame, ma era fame nervosa, perché non sapevo

se sarei riuscito a completare questa specie di immensa enciclopedia informatica. Finì di mangiare,

accesi la tv, mi misi a letto e dopo poco tutto diventò buio.

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CAPITOLO 17

Il pontile

La settimana proseguiva veloce come un jet e pesante come un camion pieno di mattoni, tutte le

mattine allenamento con Kaled e poi al museo con Kim per la compilazione catalogo informatico,

tutto era addolcito dal buon mangiare e dalle chiacchierate con l’architetto, che non perdeva scusa

per venirmi a trovare o per meglio dire, per vedere la mia segretaria/assistente tecnica. Era stata

fissata la data di apertura del museo con le nuove specifiche tecniche, il nuovo server veniva

attivato ufficialmente il mercoledì 29 Aprile, e noi eravamo al 24 Aprile con un completamento

lavori al 82%, che per la mia stima, stavamo viaggiando a gonfie vele.

Kim era pensierosa e distante, strano perché era sempre sveglia e concentrata, gli chiesi che aveva e

lei mi rispose, che stava pensando ad una tradizione di famiglia.

Ryo: < Di che si tratta?>

Kim: < Con mio fratello tutti gli anni, l’ultima domenica di Aprile andavamo al Pontile e

passavamo tutta la giornata insieme, lui ora è in Tailandia e non può venire con me, e oltretutto

domani dobbiamo lavorare.>

Ryo: < Guarda, ti dico la verità, con il lavoro siamo a buon punto, e sinceramente sono stanco di

questa monotonia, ho bisogno di una pausa. Chiamerò a Kaled e a Mike per dirgli che domani non

sarò operativo.>

Kim: < Si può fare? Sarebbe fantastico!!!>

Chiamai Mike e Kaled per informarli della cosa, dicendogli semplicemente che ero spremuto dalla

fatica e che avevo bisogno di un giorno di stacco per riprendermi.

Appuntamento alle ore 09:00 di Domenica con Kim davanti al ristorante. Tutti e due eravamo

puntualissimi, meglio perché avevamo deciso di prendere i mezzi pubblici e ci voleva del tempo.

Andavamo a Coney Island, a circa tre quarti d’ora dai grattaceli di Manhattan, per sentire il

profumo dell’oceano, prendemmo il treno Express della Metropolitana che portava direttamente alla

stazione di Stillway avenue. Coney Island è un quartiere a sud di Brooklyn, famoso per lo storico

parco divertimenti, la lunghissima spiaggia e alcuni locali caratteristici.

Appena uscimmo dalla stazione della metro, ci trovammo davanti a Nathan’s, Kim volle subito

entrarci perché così era la tradizione. Kim mi raccontò che questo posto era il locale che aveva

inventato gli hot dog nel 1916, e che qui vi erano i più buoni del mondo. Ne prendemmo tre, 2 per

me e 1 per lei, e nel frattempo che mangiavamo, Kim mi raccontava la storia della gara di chi

mangia più hot dog e mi indicava il tabellone messo all’ingresso dove erano riportati il record

attuali con i nomi del campione e della campionessa in carica.

Finito di mangiare, andammo più avanti, dove si trovava il Luna Park e poi l’incantevole lungomare

con il Pontile in legno, il Coney Island Boardwalk. Questo posto mi faceva venire in mente il film

“I guerrieri della notte” e la serie televisiva Jersey Shore, con le loro ragazzate etiliche esilaranti.

Kim mi raccontò la storia del termine “Luna Park” che prendeva il nome dal primo parco di

divertimenti della storia aperto proprio qui a Coney Island nel 1895, chiamato così in onore della

sorella di uno dei proprietari. Mi disse anche che il parco divertimenti che vedevamo non era

esattamente quello che ha fatto la storia del posto. Coney Island e le sue attrazioni hanno subito per

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diversi anni un lento degrado che aveva prospettato l’idea di far demolire il parco per lasciare lo

spazio a una nuova zona residenziale di lusso. Fortunatamente, e bisognava dire grazie ad un

azienda italiana, nell’estate del 2010 il parco giochi era stato riaperto e riportato agli splendori di un

tempo.

Non c’era nessun biglietto per entrare nel parco, si pagava solo se salivi sulle giostre. Provammo il

“Cyclone” un ottovolante in legno costruito nel 1927, poi facemmo un giro sulla storica ruota

panoramica chiamata Deno’s Wonder River del 1920. Ci facemmo coraggio e provammo l’Air

Race che ci lanciava ad una velocità di 4G, subito dopo le rapide mozzafiato del Wild River, e

infine anche se eravamo tutti e due cresciutelli ci facemmo un giro nelle immancabili tazze rotanti e

le barche-sirene della Mermaid Parade. Così passò velocemente la mattinata.

Dopo il secondo giro di Hot Dog da Nathan’s, andammo al parco acquatico, nel N.Y. Aquarium

c’erano una bella varietà di pesci e animali acquatici di vario genere. Ci mettemmo a guardare lo

spettacolino con le foche, con la loro simpatia e tenerezza, e con la bravura e la dedizione dei

responsabili, veniva illustrato il loro mondo e le loro caratteristiche. Peccato che il posto era piccolo

e per ¾ in ristrutturazione, finimmo il giro in mezzora.

Essendoci ancora tempo, tornammo al pontile e ci siamo messi a fare shopping sfrenato. Entrammo

in tutti i negozi, da quello dei costumi da bagno a quello di Jersey Shore dove facevano le magliette

con scritte e disegni a piacere, ne prendemmo due, una gialla fluorescente con la scritta “ io sono il

boss” e una fucsia con la scritta “ il mio boss è uno stronzo”,e le risate erano fragorose che

contagiarono anche i commessi che si stavano divertendo parecchio.

Ultima tappa a metà pomeriggio fu una lunga passeggiata nella spiaggia, si stava bene, non faceva

ne caldo e ne freddo, c’era una leggera brezza che proveniva dall’oceano atlantico, che portava con

se, salsedine e umidità, ma ci feci caso solo io. Kim era sospesa nei suoi pensieri, forse pensava a

suo fratello, o semplicemente si godeva quella serenità, spezzata solo ogni tanto da qualche

gabbiano che passava.

Risalimmo sul pontile e rifacemmo la strada per la metro, con le mani piene di buste che

contenevano paccottiglia di scarso valore. All’ingresso si parò davanti a noi un ragazzo con un

coltello a serramanico e dietro di noi ce n’era un altro che ci impediva di andarcene. Ci chiese i

soldi, minacciando con il coltello. Io non so per quale ragione reagì, ma fu più forte di me, agii

velocissimamente, presi dal giubbotto in jeans il ragazzo con il coltello, puntai il mio piede sul suo

stomaco e lo proiettai alle mie spalle, addosso all’altro ragazzo, entrambi caddero a terra storditi, io

mi girai e mi misi a tirare calci al volto e al costato, fino a quando nessuno dei due si mosse più.

Recuperai con una mano le buste e con l’altra presi la mano di Kim totalmente sconvolta e ci

infilammo nella metro, salimmo subito sul treno che portava a Manahattan, ci sedemmo a metà di

un vagone per riprendere fiato. Kim si voltò verso di me e mi disse: < Ma tu chi sei?!>. Io non seppi

rispondergli, gli strinsi forte la mano e l’avvicinai a me.

Scendemmo a Midtown, alla fermata dove eravamo entrati all’andata, salimmo le scale e ci

trovammo nella city, da lì l’accompagnai fino alla casa del nonno che aveva pronte le scarpe, pagai

25$, una cifra irrisoria per un paio di scarpe che ne valevano almeno 120 se non di più, il nonno era

un vero artista. Salutai Kim, senza parlare di quello che era successo e senza aver risposto alla sua

domanda, gli dissi semplicemente ci vediamo domani alle 12 in museo e me ne andai. Tornai in

hotel a piedi per provare le scarpe nuove, erano comode, leggere e ben bilanciate, avevo fatto un

affare.

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CAPITOLO 18

Il Conte Poenari

Era il 29 Aprile, giorno di apertura del museo, con la nuova applicazione attivata. C’erano tutti,

c’ero io, Kim, l’architetto, ma soprattutto c’era il Commenda immancabile, quando si trattava di

prendersi meriti e riconoscimenti, sempre attorniato, dai suoi simili predatori, come il leone

dominante, che sta al centro del suo clan di leoni. Guardò dalla mia parte e mi fece cenno di

avvicinarmi, mi presentò tutta una serie di persone, ingegneri, magistrati, politici di vario livello,

ovviamente dopo un secondo mi scordai i loro nomi, solo l’ultimo mi colpì veramente, sembrava un

elemento totalmente estraneo a quella cerchia e non mi sbagliai.

Commenda: < Mio carissimo Ungeziefer, le presento il Conte Poenari, viene dalla Romania, è un

nobile di antico lignaggio, che spero in futuro faccia affari con la nostra società>

Ryo: < Sono Ryo Ungeziefer, piacere di conoscerla Conte Poenari>

Poenari: < Salută-te pe tânărul luminat !!!>

Ryo: < Grazie> dissi senza aver capito

Poenari: < So che è lei che ha gestito questa evoluzione macroscopica dell’arte moderna, ho aperto

l’applicazione sul mio cellulare, ho cercato una scultura, l’ho visualizzata subito, c’erano date ,

luoghi, fotografie, ma soprattutto le sue recensioni, un lavoro eccellente. Come lavoro eccellente è

stata la galleria a Firenze, più piccolo, ma si sentiva la cura maniacale per i dettagli e la passione per

l’arte.>

Ryo: < Grazie, troppo gentile, a Firenze è stato un lavoro di collaborazione, e un luogo come quello

trasuda d’arte e di storia, ci vuole poco a renderlo magico. Qui al MoMA è stato diverso, intanto per

le dimensioni e per la vastità delle collezioni di arte moderna, poi il sistema è rivoluzionario, basta

connettersi al Wi-Fi del museo, che ti viene inviato un link sul cellulare, questo link ti porta

sull’app, la scarichi, apri il file ed entri nel mondo digitalizzato del museo, ogni oggetto, ogni

collocazione, ogni sfaccettatura dell’artista si può vedere e leggere in tempo reale.>

Poenari: < Incredibile, il Commendatore Platania mi ha sbalordito per i tempi di realizzo, 2

settimane, forse anche meno, lei è una persona brillante. Le volevo porle un quesito, mi è

consentito?>

Ryo: < Libero di chiedermi ciò che desidera.>

Poenari: < Se io le facessi vedere delle antiche scritture, saprebbe capire e indicare dove si trovano

degl’oggetti sacri? Come se fossero una mappa del tesoro?>

Ryo: < La risposta è semplice, ma implica che io veda quei testi antichi, una volta visti gli direi si o

no.>

Poenari: < Questa mi sembra una risposta, da persona prudente e professionale, nonché logica.

Capirà che con me le stranezze sono di casa. Ora mi voglia scusare, devo parlare con i miei

sottoposti. Sono certo che ci rivedremo a breve. La saluto uomo Illuminato.>

Il Conte Poenari si allontanò e rimasi da solo con il Commendatore che subito mi incalzò.

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Commenda: < Bravissimo Ungeziefer, lei mi piace sempre di più. Come ha detto il Conte, ha fatto

un lavoro magnifico, sia qui che a Firenze. Il Conte è una persona ricca e “molto” influente in tutto

il mondo. La Printer sta cercando da anni, vanamente, di farlo diventare nostro cliente. Capisce che

i nostri introiti e la nostra popolarità salirebbe alle stelle, quindi dobbiamo fare in modo che lei lo

faccia contento>

Ryo: < Io cercherò di fare del mio meglio, dove si trovano questi antichi scritti? Quando li posso

visionare?>

Commenda: < Caro mio, mi sa che le toccherà farsi un altro viaggetto, le opere si trovano in

Europa, saranno in qualche luogo protetto in Romania>

Ryo: < In Romania? Ma signore, qui siamo solo agli inizi, non posso lasciare.>

Commenda: < La priorità è il Conte, qui ci penseranno l’architetto e la addetta informatica per

eventuali problemi tecnici.>

Ryo: < Quando dovrei partire? Io ancora sono in fase di addestramento e non parlo una parola di

rumeno.>

Commenda: < Partenza direi Lunedì 4 Maggio, con lei verranno Mike e Kaled, per la lingua rumena

troveremo un maestro traduttore. La saluto Ungeziefer, le auguro tante belle cose.>

Ryo: < Arrivederci Commendatore, buona giornata. >

Mi girai dal lato opposto e tornai alla mia postazione, dove c’erano Kim e Filippo. Subito mi

chiesero cosa era successo, a cos’era dovuta quella discussione con il commendatore e quello strano

tizio. Gli risposi che quel tizio era un nobile europeo, e che il commendatore mi aveva appena

assegnato un nuovo incarico, con assoluta priorità. Da lì a una settimana sarei volato in Romania

per una faccenda delicata, di cui non potevo entrare nei particolari.

Finita l’inaugurazione, restammo per guardare i risultati, c’erano state 12653 visualizzazioni, 3622

like, 715 commenti, 892 acquisti dell’App in formato integrale, cioè utilizzabile da qualunque parte

del mondo, bastava solo la connessione ad internet. Soddisfatti dei risultati, ci salutammo e

concordammo una riunione per l’analisi dei commenti.

Giorno 30 Aprile, di prima mattinata andai al poligono con Kaled a sparare, avevo il porto d’armi e

la mia calibro 9. Due ore a scaricare caricatori di proiettili, e nonostante le cuffie insonorizzate

avevo i timpani a pezzi, un po’ come il bersaglio a cui avevo mirato, stavo migliorando rapidamente

e la cosa mi spaventava, non era una cosa naturale.

Il resto della giornata lo passai al museo, facemmo una lunga riunione, per concordare tutto, dalla

lettura dei commenti dell’App, alla risoluzione di potenziali problemi, problemi che al momento

non si erano presentati, ma si potevano palesare in qualunque momento. Dissi che quello era il mio

ultimo giorno di lavoro al museo, perché i primi tre giorni di maggio li avrei dedicati a raccattare le

mie cose, e a imparare le basi della lingua rumena, che non era semplice come l’inglese.

Salutai Filippo con un fraterno abbraccio, poi diedi un passaggio a Kim al ristorante Jungsik, e con

questa scusa cenammo assieme, senza parlare molto, c’era poco da dire, molte nuvole oscure si

stagliavano all’orizzonte per me, era come trovarmi su una barca senza motore e senza remi, che

imbarcava acqua, lontana dalla terra ferma, andavo alla deriva, dove la corrente mi portava.

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PARTE IV

Braşov

Capitolo 19

La leggenda

I primi tre giorni erano passati velocemente, era tutto un correre infinito, imparare come fa un

bambino piccolo, capire le cose istintivamente, ma qui si passava da asilo nido al terzo anno di

università. In mio aiuto trovai un mio conoscente di Firenze, Carl Shevcenko, il damerino che

faceva i resoconti dell’andamento aziendale della Printer, lui era di origini ucraine, ma parlava un

perfetto rumeno, almeno per quello che ne capivo. Cercò di inculcarmi più nozioni possibili, ma io

sembravo refrattario ad ogni articolo verbo o aggettivo, la mia testa era altrove, avevo praticamente

abbandonato il mio vecchio lavoro, avevo abbandonato Selene a Firenze, ero stavo abbandonando

due nuovi cari amici a New York, gli avevo promesso che mi sarei fatto sentire sicuramente, ma

come sempre, quel che facevo, portava sempre a qualcosa di nuovo e d’imprevisto.

Erano le ore 14:00 del 4 Maggio, mi trovavo all’uscita dell’aeroporto di Bucarest, insieme a me

c’erano Carl, Mike e Kaled, salimmo su una macchina privata che ci attendeva, che ci portò fuori

dalla capitale rumena, in direzione Braşov, dove vi era la residenza del Conte Poenari. Ci vollero

due ore piene di auto per arrivare, e i miei tre compagni di viaggio non erano proprio dei gran

chiacchieroni, per Mike e Kaled lo sapevo, ma per Carl la cosa era un po’ strana, gli chiesi il perché

della poca loquacità, e lui mi rispose che questo posto non gli piaceva per niente, che gli metteva i

brividi, non per le storie sui vampiri della Transilvania, ma per i racconti di sua madre quando lui

era ancora un bambino.

Comunque arrivammo a destinazione, non sembrava un castello medievale in stile gotico, ma era

una villa gigantesca immersa nel verde, con fontane che stillavano getti d’acqua, con le scuderie da

cui partivano dei nitriti, dei cani da caccia che giocherellavano con dei bambini. L’ingresso era

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maestoso, un atrio che era grande quanto una abitazione di 3 vani, con quadri, drappi, statue, e ogni

ben di Dio, per chi era appassionato d’arte, non sapevo dove mettere a fuoco gl’occhi, poi mi

bloccai del tutto e i miei occhi erano andati in estasi mistica. Dalla scalinata di fronte, scese una

creatura di una bellezza devastante, pelle bianchissima come il più candido dei marmi, fisico

slanciato, capelli biondi chiarissimi quasi albini, occhi azzurri intensi, un passo da felino pronto a

saltare sulla preda. Si fermò ad un paio di metri da noi e incominciò a parlare, non capivo bene le

sue parole, ma erano come una melodia, come il canto delle sirene per Ulisse.

Navlata: < Bine aţi venit la casa Poenari. Sunt Navlata Rawat,a treia soţie a contelui Bullent. Va

doresc un sejur bun si o treaba buna.>

Diedi uno spintone a Carl per fare la traduzione, lui disse semplicemente “ ci da il benvenuto”, cosa

che non c’era bisogno dell’interprete. Lei fece un cenno e da una porta spuntarono quattro

camerieri, che senza dire niente presero i bagagli e li portarono al piano di sopra, dove presumevo ci

fossero le stanze, mentre noi passammo ad un ampio salone, dove il lusso si respirava nell’aria, ogni

oggetto era antico, di alto valore intrinseco perché usati materiali come oro e avorio, di valore

estrinseco perché la lavorazione artigianale era eccellente. Guardavo un piccolo angelo di bronzo,

con una grande lancia che puntava in basso, come se per terra ci fosse un serpente pronto a mordere,

opera di pregio, si vedevano le venature e le fibre muscolari che si tendevano nel gesto. Navlata ci

disse di accomodarci, che fra pochi istanti sarebbe sceso il Conte, e così fu. Il Conte Poenari fece il

suo ingresso, vestito come un re di altri tempi, mancava solo la corona e un trono dove sedersi.

Bullent: < Parlerò in inglese, in modo tale che tutti noi capiamo il senso delle parole. Sono Il Conte

Bullent, ultimo discendente della famiglia Poenari, siamo nobili da oltre un millennio e fedeli

protettori di queste terre. Vi ho fatti venire qui, per risolvere un mistero, che affligge me e il mio

popolo. Nel 1795 uno dei miei avi era in guerra con un popolo proveniente dal mare, non sapeva il

loro nome ne quanti fossero, ma sapeva che ero diretti qui, per depredare il nostro tesoro di famiglia

sconfinato per ricchezza. Il tesoro consisteva in più parti, una parte erano pietre preziose come

diamanti, rubini, zaffiri, smeraldi, topazi, ametista, giada e altre ancora, una seconda parte erano

metalli e loro leghe di valore come: rame, zinco, bronzo, argento, oro, piombo, e altri ancora, una

terza parte quella più pregiata erano i cimeli di famiglia come croci sacre, corone, candelabri, spade,

armature, stendardi, alabarde, un trono in legno con bassorilievo della storia di famiglia. Infine un

pezzo unico, la Corona del Drago, di cui noi Poenari siamo la discendenza, fatta con il cranio del

drago e intarsiata con gioielli di enorme valore, tra cui il più importante era un rubino color rosso

sangue, chiamato l’Occhio del Drago.>

Io alzai la mano, come fossi un alunno che interrompeva il professore durante la lezione.

Ryo: < Conte Poenari, scusi se l’interrompo, lei ci sta illustrando il suo passato e i suoi antichi

tesori, ma noi siamo arrivati qui per dei documenti antichi, ci potrebbe dire l’attinenza e dove si

trovano?>

Bullent: < Mi scusi, non la volevo tediare, con delle storie nostalgiche, da parte di un fanatico del

proprio popolo. Le tre rune, così le chiamiamo noi, sono state trovate, dopo un cedimento del

terreno, da un pastore, mentre faceva pascolare il suo gregge, accanto al rudere della fortezza. Sono

tre grosse pietre massicce, fatte dal mio avo di cui parlavo prima, erano il suo lascito per la sua

stirpe, sono scritti i tre luoghi dove vennero sepolti i nostri tesori. Qui entrate in gioco voi, perché il

mio avo scrisse i luoghi in un codice e non lasciò la chiave di lettura per poterli decifrare,

ovviamente tutti quelli che parteciparono all’occultamento sono morti da tempo e non possiamo

chiedere a loro. Ora io ho allestito al secondo piano del palazzo, un laboratorio di ultima

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generazione, con tutti gli artifizi della scienza moderna, che spero siano di vostra utilità, per

scoprire il mistero.>

Ryo: < Bene, ci ha detto il cosa fare, ci ha detto dove lavorare, ma non ci ha detto quanto sarà il

Quibus.>

Bullent: < Con il Commendatore siamo rimasti così d’accordo: 500000 $ per la corretta traduzione

delle tre rune, 250000 $ per ogni parte del tesoro ritrovato, bonus di 1000000 $ per la Corona del

Drago e mi assocerò alla vostra società. Penso che per le cifre che vi ho fornito, non c’è bisogno di

fare altri commenti, ma mettersi subito a lavoro. La mia seconda moglie Aya Sumika, vi mostrerà il

laboratorio, lei è una vera esperta nelle scienze.>

Comparve una donna, sempre bellissima, con lunghissimi capelli neri, e occhi neri come un abisso

infinito, fece un saluto veloce con la mano, e indicò a noi di seguirla al secondo piano. Salutammo

il conte, e prendemmo le scale per il secondo piano. Il laboratorio era quanto tutto il secondo piano,

anzi era il secondo piano, c’era ogni strumentazione che uno scienziato si sognava la notte, le

finestre erano grandi e facevano entrare una gran luce, ma era chiuse sigillate, il cambio d’aria era

fornito da svariati climatizzatori alle pareti che filtravano l’aria, inoltre c’erano delle cappe che

scendevano verticalmente dal soffitto. In fondo al laboratorio c’era una stanza più piccola che

fungeva da studio, c’era una cassaforte supertecnologica, che Aya con una rapida mossa riuscì ad

aprire, prese poi dei guanti e li distribuì a noi, per farci prendere le rune e portarli nel banco di

lavoro in ceramica per l’inizio della traduzione.

Aya: < Acestea sunt runele, aveţi grijă de ele, sunt pretioase. Descoperă mistreul şi vei fi raspati>

Carl tradusse “ fate il vostro lavoro, non fate danno e sarete ricompensati”, Aya se ne andò e ci

lasciò da soli con le rune.

Ryo: < Allora. Prima cosa, Carl sei un pessimo traduttore. Seconda cosa, Mike tu è inutile che stai

qua, vai al primo piano e vedi come siamo alloggiati, penserai per il vitto e alloggio. Terza cosa,

Kaled tu pensa alla logistica, sicuramente dovremmo andare in giro, ci servono mezzi di trasporto e

conoscere le strade per poterci muovere.>

Mike e Kaled uscirono dal laboratorio e andarono a svolgere i loro compiti. Restai solo con Carl e

incominciammo ad esaminare le rune.

Carl: < Ryo, cosa ne pensi? A me sembrano solo scarabocchi fatti da un vecchio rimbambito secoli

fa e non da un nobile protettore della patria.>

Ryo: < Le tre rune, io direi le tre lapidi, sono di pietra molto dura e resistente nel tempo, quindi chi

le ha incise, ci si è messo d’impegno, oltretutto è un lavoro professionale, non ci sono fratture nella

roccia o dei graffi non voluti. Ogni lapide è divisa in tre colonne verticali, la parte centrale è tipo il

sigillo di famiglia indica la provenienza e l’autorità, la parte di sinistra riguarda la persona sepolta

con tutti i suoi titoli nobiliari, la parte di destra è quella che interessa a noi, sembrano delle

indicazioni da parte del morto alla discendenza, un luogo, probabilmente 1/3 del tesoro della

famiglia>.

Carl: < Ma come fai a dire tutte queste cose, gli hai dato appena un’occhiata?>

Ryo: < Si gli ho dato solo uno sguardo, perché senza il codice di lettura, non possiamo sapere nomi

luoghi e date. Occorre trovare la chiave di lettura, domani andremo alla Fortezza.>

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CAPITOLO 20

La Fortezza

Alle ore 05:00 del 5 Maggio, partì la spedizione, da palazzo Poenari verso la Fortezza. Kaled aveva

noleggiato un camion di tipo militare, color verde mimetico, con un grosso cassone dietro, per

portare oggetti e persone. Di scorta avevamo una Jeep con 4 persone, 3 operai per i lavori pesanti, e

la prima moglie del conte Bullent, Sophina, che delle tre sembrava paradossalmente la più giovane,

aveva lunghi capelli ondulati rosso fuoco raccolti in una treccia, occhi verde smeraldo, pelle

bianchissima anche lei, faceva d’attendente ai lavori, era esperta del territorio, perché era nata e

cresciuta in quel luogo.

Arrivati alla Fortezza non c’era nessuno, il Conte aveva predisposto un blocco turistico di 24 ore, in

modo tale che non venissimo intralciati da curiosi che scattavano foto con il telefonino, un’ottima

idea penasi io. Sophina ci faceva strada e ci inerpicammo su un sentiero stretto e poco battuto,

probabilmente ci passavano solo le pecore e il pastore un paio di volte l’anno, in transumanza, per

passare dalla zona alta in estate, alla zona bassa in inverno. Ci fermammo sopra un buco di circa un

metro e mezzo di diametro, dentro era buio pesto, allora iniziammo ad uscire la nostra attrezzatura,

prima i picchetti che fissammo a terra a colpi di martello, poi attaccammo ai picchetti le cime delle

corde, le corde vennero attaccati ad una scala, e la scala fu scesa all’interno del foro. Due uomini

facevano luce dalla’alto con delle potenti torce, io e Kaled ci calammo in quello che sembrava una

caverna chiusa da secoli. Toccammo il fondo, facemmo scendere con le corde l’impianto elettrico

per fare luce, mentre si accese un gruppo di continuità a diesel per generare energia, fatti i

collegamenti, si accesero le luci dei fari a LED. Fu uno shock per me vedere quella caverna, era di

forma ellittica, la parete di fronte a me sembrava, anzi lo era, un grosso occhio di un drago

pietrificato, con un leggero incavo all’altezza della pupilla, doveva esserci stato in precedenza un

oggetto in quel punto, ma era vuoto.

Guardandoci attorno vidi il punto dove avevano prelevato le lapidi, alla sinistra del grande occhio di

drago, feci luce con la mia torcia frontale, e con le mani iniziai a scavare, mentre chiesi di farmi

scendere da Mike i miei attrezzi. Dopo 2 ore di lavoro avevo trovato i corpi mummificati di 3

persone avvolte in un lacero tessuto di colore rosso porpora, che era il colore del casato. Allora

chiesi di fare scendere Sophina e Carl per il riconoscimento delle salme. Liberai i corpi dal loro

sudario, e andai in ordine da sinistra verso destra.

Il primo cadavere, indossava un armatura, sicuramente era un soldato, aveva due particolarità che

risaltavano all’occhio, mano sinistra assente e testa mozzata con un taglio netto da un oggetto molto

affilato come una spada o una grossa accetta. Chiesi a Sophina se sapeva chi fosse, lei mi rispose in

rumeno, tradusse Carl, che mi disse: “ potrebbe essere Oleg Poenari, potente guerriero, ferito alla

mano sinistra in battaglia, poi successivamente sparito senza lasciare traccia”. Chiesi dov’è che

abitava, aveva possedimenti? Lei rispose che era il cugino di Bullent Primo, proprietario della

Fortezza e antenato dell’attuale Conte Poenari, il suo territorio confinava con questo, a Barajul

Vidraru, al confine con Lacuil Vidraru, il lago a nord della Fortezza.

Il secondo cadavere, quello al centro, era più basso di statura, un uomo sui 35 anni, anche lui con la

testa mozzata di netto come il precedente, sembrava tipo un esecuzione, portava abiti eleganti da

persona ricca, aveva un osso del piede storto, in vita doveva essere zoppo, aveva un anello al dito

una specie di sigillo con una P stilizzata. Chiesi a Sophina se sapeva chi fosse e lei tramite Carl mi

rispose così: “Questo potrebbe essere Bacaloff il Saggio, altra persona scomparsa improvvisamente

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in quel periodo storico. Lui era il gran consigliere di corte, nonché tesoriere del regno”. Bene dissi

io, abbiamo un Guerriero protettore di tesori, abbiamo un Primo Ministro gestore di tesori, vediamo

chi sarà il terzo.

Il terzo cadavere, era una donna, aveva capelli lunghi neri, portava un vestito di sicuro pregio, con

ricami d’oro, sicuramente di alto rango, una nobile del posto. Anche lei era stata decapitata e

avvolta nel sudario color porpora, aveva il bacino molto largo segno di più gravidanze. Mentre

facevo la mia terza ispezione, Sophina si avvicinò e si mise a piangere, disse: “Questa è la Regina

Sophina mia direttissima antenata, aveva il mio stesso sangue, pensavo fosse stata bruciata per

stregoneria, per questo non abbiamo mai cercato la sua tomba, era stata uccisa da vili assassini.”

Allora chiesi di dove era originaria quella donna e Sophina mi disse: “Di Arges, il lato nord del

lago, ma li non c’è più niente da secoli, la natura ha coperto tutto.”

Dissi a Kaled di fare scendere gli involucri contenitivi della Vogan per le opere d’arte, lui comunicò

con Mike tramite Walky Tolky, e mentre le operazioni continuavano, guardai alla destra del grande

occhio, qui c’era un cumulo di terra caduto dal soffitto, portai la mia pala e iniziai a scavare, spostai

tutto il terreno in eccesso e trovai una quarta runa, una quarta lapide. Anche questa come le altre tre

era suddivisa i tre parti, al centro la casata con lo stemma, a sinistra il nome del morto, a destra non

c’era inciso niente che sembrasse un luogo, ma sembrava una specie di alfabeto, avevo trovato la

chiave di lettura. Avevo trovato il Re Bullent Primo di Poenari, non c’era bisogno del confronto con

Sophina, l’uomo era avvolto nel suo sudario color porpora, con una grande P stilizzata in oro, segno

di potere indiscusso, aveva ancora stretta nella mano ossuta, una specie di scettro o un piccolo

bastone cerimoniale anch’esso fatto d’oro e tempestato da pietre preziose. Anche lui aveva la testa

mozzata, il cranio aveva un irregolarità sopra l’orbita sinistra, chiesi lumi a Sophina, lei mi rispose:

“il grande Re era ceco da un occhio, lui praticava la falconeria, e si narra che mentre stava dando da

mangiare un pezzo di cacciagione al suo animale preferito, questo senza nessun preavviso anziché

accettare il cibo, becco il viso del Re, accecandolo all’occhio. Si ritiene che sia stato vittima di una

maledizione, da parte di una strega rivale alla Regina Madre.”

Non c’era più niente da fare in quella grotta, tutto era stato issato su in superficie e posizionato sul

furgone militare, unica lacuna era quella rientranza vuota nell’occhio del drago, lì sicuramente vi

era stata depositata la Corona del Drago, ma qualcuno l’aveva portata via. Salì anch’io in superficie,

per prendere una boccata di aria pulita, ne avevo bisogno. Sigillammo l’ingresso alla caverna, ormai

svuotata all’interno dei suoi inquilini secolari, e andammo alle macchine per tornare al palazzo

Poenari.

Arrivammo a metà pomeriggio e detti incarico di portare, tutti i reperti in laboratorio, in maniera

rapida, ma con il rispetto dovuto. Il Conte Bullent si avvicinò a me e mi volle parlare.

Bullent: < Bravo, bravissimo il mio Illuminato, sapevo che le sue capacità potevano fare, quello che

non aveva fatto un popolo intero per due secoli!!! C’ha messo meno di un giorno per trovare tutti i

miei avi scomparsi, il Re e la Regina, il grande cavaliere e il Cancelliere di corte, nonché lo scettro

del regno. Mi dica, ha notizie dei tesori e della Corona del Drago?>

Ryo: < Le quattro persone sono state uccise in un esecuzione, gli è stata mozzata la testa, hanno

ricomposto i corpi, e li hanno avvolti in un sudario regale. Chi ha fatto questo era qualcuno di

famiglia, troppo rispetto, troppa pulizia, troppa premeditazione. I Tesori sono qui vicino, ho le

indicazioni per trovarli, ma la Corona del Drago è stata trafugata da un estraneo, sicuramente da una

persona indegna, e in un tempo più recente, c’era segno dell’oggetto scavato nella pietra.>

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CAPITOLO 21

Caccia al tesoro

Il 6 Maggio, fu un giorno dedicato alla pulitura, catalogazione e studio dei reperti ritrovati nella

grotta, ora avevamo tutti i dati a nostra disposizione, avevamo le 4 rune, ora potevamo decodificare

le incisioni e determinare i luoghi dei presunti tesori. La cosa che feci in quel momento era

totalmente istintiva, ma aveva un senso nell’insieme collettivo.

Iniziai con il primo cadavere che avevamo riesumato, Oleg Poenari, alto 181 centimetri uno

spilungone per l’epoca, il suo corpo mummificato senza vesti e senza corazza pesava 49 Kg, quindi

quando era vivo poteva pesare dai 85 ai 95 kg, carnagione chiara, capelli e peli rossicci, mano

amputata pre-mortem con arma da taglio, moncherino perfettamente guarito e senza infezioni dopo

la cucitura dell’arto, poteva avere un età compresa tra i 25 e i 30 anni, altre cicatrici minori su tutto

il corpo. Secondo me era il primo cavaliere e custode del tesoro, per questo l’assassino l’aveva

sepolto il più vicino all’uscita, perché doveva proteggere in qualche modo gli altri defunti, la sua

runa era stata anche la prima a essere scritta, perché i tagli sono più decisi e profondi, rispetto alle

altre lapidi, quindi probabilmente era stato indicato come minaccia più grande da parte

dell’assassino. La parte destra della lapide indicava come luogo del suo tesoro Barajul Vidraru,

come mi aveva detto Sophina, ma era più specifico, indicava una caverna che aveva un entrata da

dentro il lago, anzi indicava un percorso subacqueo, che rendeva arduo arrivarci, e praticamente

impossibile trasportarlo. Questo mi faceva ben sperare che la caverna non fosse stata trovata e

depredata.

Passai al cadavere numero due, quello che Sophina aveva nominato Bacaloff il Saggio, era un uomo

piccolo, circa 165 centimetri dall’altezza, capelli neri radi, con qualche ciuffo di capelli bianchi

sulle tempie, poteva avere circa 35 anni non di più, il suo peso senza vestiti e ornamenti era 34 kg,

quindi poteva pesare intorno ai 60 Kg, aveva il difetto al piede destro, probabilmente una frattura

rimarginatasi male in tenera età, non aveva nessun tipo di cicatrici, solo la testa mozzata. La sua

runa indicava il luogo dove si trovava la Corona del Drago, cioè nella caverna del Drago, sotto la

Fortezza dei Poenari, probabilmente era anche lui una vittima designata, perché la runa era stata

scritta prima della sua morte.

Il terzo corpo, quello della Regina Madre Sophina, era in condizioni migliori, le avevano riservato

tutte le cure possibili, il sudario era perfettamente aderente come un vestito attillato, il corpo pulito,

senza cicatrici, quasi sereno, il taglio alla testa era stato netto, un solo colpo, come se non si volesse

far soffrire quella donna più del dovuto. La donna poteva avere dai 40 ai 45 anni, capelli rossi, ma

con ampie zone grigie, aveva partorito almeno un figlio, c’erano segni evidenti nell’ossatura del

bacino. Pesava 25 Kg, quindi in vita poteva pesare circa 50 Kg, era alta 158 centimetri. La sua runa

indicava il tesoro di famiglia, erano incisioni meno profonde, un po’ più approssimative, ciò

indicava che la lapide era stata scritta post-mortem, l’assassino non aveva previsto questo omicidio,

non era preventivato. La runa indicava come luogo del tesoro, una zona denominata Arges nel nord

ovest del lago Vidraru, precisamente in una stretta ansa, anche qui c’era un passaggio subacqueo

per rendere difficile la vita a potenziali ladri.

Il quarto e ultimo corpo, era quello più importante, Il Re Bullent Primo Poenari, il suo corpo era

stato avvolto nel sudario in maniera frettolosa, non era perfettamente aderente, c’erano delle

increspature e delle strozzature nel tessuto, poteva avere circa 50 anni, alto 173 centimetri, pesava

45 Kg, che in vita in base alla struttura poteva pesare sui 90 Kg, decisamente sovrappeso, aveva i

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capelli totalmente bianchi, aveva delle cicatrici risanate, poi ne trovai una che sembrava peri-

motem, inflitta alla schiena tra la scapola sinistra e la colonna vertebrale, non era una ferita mortale

immediata, ma sicuramente ci sarà stato un deflusso di sangue dal corpo in maniera importante,

oltre che un coinvolgimento polmonare visto il punto d’ingresso. Poi c’era il taglio al collo per

recidere la testa, non era stato un colpo singolo, ma almeno tre colpi, con angolazioni e forza

diverse. Guardando la runa si evinceva che era un lavoro posteriore alla morte del Re, fatto con un

percussore meno preciso e tagliente, l’assassino non aveva preventivato questo omicidio, ma lasciò

comunque il codice per decifrare le lapidi, che all’origine doveva essere posizionato da qualche

altra parte e non in quella grotta.

Un ultima riflessione fu sullo stato della grotta, il foro da cui era caduto il pastore era rimasto aperto

tutto il tempo fino al nostro arrivo? Il pastore dove si trovava in quel momento? Cosa aveva visto?

Ma soprattutto dopo che era caduto all’interno della grotta, con il tetto a 5 metri dall’altezza come

aveva fatto ad uscire? Tutte domande che esigevano una risposta. Chiesi udienza al Conte che me la

concordò per le ore 17:00 nel giardino labirinto alle spalle dell’abitazione.

Bullent: < Buon pomeriggio, per chiamarmi ha sicuramente delle cose importanti da dirmi, prego

mi esponga le sue riflessioni.>

Ryo: < Stiamo lavorando su più angolazioni, ho finito l’analisi dei corpi, e ho riscontrato due

decessi preventivati, il cavaliere e il tesoriere, e due imprevisti, Re e Regina, l’assassino era

sicuramente un parente stretto, per la cura che ha portato alla Regina anche in un momento di

urgenza. Le prime domande che le pongo sono: quando è caduto il pastore e come ha fatto uscire

dalla grotta? Le pareti sono verticali alte almeno 5 metri, se è caduto accidentalmente, di certo non

aveva portato una corda con se, e anche se l’aveva con se, dove l’attaccata per issarsi fuori?>

Bullent: < Quindi sa dove sono i tesori, bene. Per quanto riguarda il pastore di nome Dimtru

Alexandru, è caduto il 15 Marzo, è stato trovato da una guida turistica che si era allontanato dal

sentiero per un bisogno fisiologico, ha sentito il pastore urlare e ha chiamato soccorsi. Si è calato un

operaio nella grotta e ha legato il pastore, che è stato tirato su da altri tre operai intorno al foro, poi

hanno issato l’operario che era rimasto sotto. Il pastore è stato portato all’ospedale di Bucarest,

aveva una gamba rotta, e ora è a casa sua in convalescenza, gli operai e la guida sono tornati ai loro

lavori, dopo aver informato noi. Noi siamo andati ad esaminare la grotta e abbiamo trovato le tre

rune e le abbiamo portate qui, senza capire cosa significassero>

Ryo: < Penso che l’intero tesoro sia in pericolo, troppe persone sapevano di quel posto, era rimasto

aperto e incustodito. Penso che qualcuno abbia fatto una copia di tutte e 4 le rune e che sia ora a

caccia del tesoro, lo penso perché la runa del Re era occultata dal terriccio che li non ci doveva

stare, e doveva sembrare una cosa naturale, infatti vi ho fatto caso dopo ore e ore passate la sotto.

Dobbiamo allestire due missioni di scavo, al più presto prima che tutto svanisca e finisca nelle mani

sbagliate>

Bullent: < Farò cercare tutte le persone che hanno partecipato alla cosa e le porterò qui, se sanno

qualcosa che non hanno detto lo scopriremo sicuramente, ho i miei metodi. Per quanto riguarda la

ricerca del tesoro dei miei avi, è bene affrettarsi, come dice lei. Le metterò a disposizione tutto ciò

che le occorre per i sopralluoghi e controllo delle zone interessate.>

Ryo: < Benissimo è quello che volevo sentire. Vado immediatamente a dare istruzioni ai miei

collaboratori, la informerò di ogni cosa.>

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CAPITOLO 22

Inquisizione

Il 7 Maggio passò in attesa delle attrezzature che servivano per la spedizione, ci voleva un

gommone con motore fuori bordo e un carrello per trasportarlo, ci voleva l’attrezzatura da sub come

le mute gli erogatori le bombole maschere e pinne, ci voleva l’attrezzatura da campo come delle

tende per la logistica, la cucina e la zona notte, ci volevano mappe specifiche del luogo fatte dal

satellite, non si poteva improvvisare niente. Tutti tranne me erano a fare i preparativi, io stavo al

palazzo Poenari a coordinare il tutto.

Da un ingresso secondario sentii un gran frastuono, porte che sbattevano e persone che urlavano,

rumore di passi pesanti, mi avvicinai per vedere cosa succedeva. Era la polizia privata del Conte che

aveva prelevato due persone e le stava trascinando nei piani sotterranei, li seguii nella discesa, uno

dei poliziotti mi disse in rumeno che di lì non potevo passare, io gli risposi che ero autorizzato e che

avevo richiesto io stesso al conte di portare quelle persone per essere interrogate, la guardia mi

rispose che si informava e sarebbe ritornato per dargli una risposta. Passarono circa 5 minuti

lunghissimi, poi la guardia ritornò dicendo “il Conte l’aspetta”, così potei passare e arrivare in

questo piano sotterraneo, già questo ricordava molto di più i racconti del conte Dracula, era

scarsamente illuminato, le pareti erano rovinate e piene di umidità si sentiva odore di muffa.

La guardia mi fece entrare da una porta di legno massiccio con listelli di ferro battuto come

rinforzo, all’interno la stanza era un rettangolo di 3,5 metri per 5 metri, senza finestre, anche qui

odore di muffa, le pareti divelte dal tempo, al centro della stanza c’erano 4 sedie, due per gli

“ospiti” e due per me e il conte, unico mobile nella stanza presente era una cassettiera vecchissima

tutta tarlata. Il Conte mi disse di accomodarmi accanto a lui, in modo tale da poter sentire di cosa

parlavano.

Bullent: < Allora veniamo subito al sodo, non siete qui per una gita turistica o per far pascolare le

pecore, la cosa qui è molto seria, vi prego di essere assolutamente sinceri e la cosa finirà in pochi

minuti. Mi è stata rubata una cosa molto preziosa, un cimelio di famiglia, la Corona del Drago, era

nella grotta del Drago sotto la Fortezza Poenari. Voglio sapere tutto, e quando dico tutto vuol dire

tutto.>

Antonie Anghel: < Conte, io ho solo sentito un rumore da un buco a terra, ho capito che qualcuno

era caduto dentro e ho subito chiamato i soccorsi, non ho fatto nient’altro>

Bullent: < Nient’altro? Mi sembra un po’ poco. Chi hai chiamato per il soccorso?>

Antonie: < C’erano 4 operai, che lavoravano ad un muro pericolante della fortezza, gli ho detto

della persona caduta nella grotta, loro hanno preso una corda e ci siamo avvicinati al buco, un

operaio, quello più magro si era legato alla corda, e gli altri tre lo hanno calato dentro la grotta, si è

slegato e ha legato il pastore, lo hanno issato fuori dalla caverna, poi hanno tirato fuori l’operaio

dalla caverna, hanno preso sotto spalla il pastore e lo hanno portato al parcheggio, siamo stai lì fin

quando non è arrivata l’autoambulanza, poi siamo ritornati ai rispettivi lavori.>

Bullent: < Bene, visto che c’era qualcosa da dire?...e lei signor Alexandru, non mi dice niente?>

Dimitru: < Io passavo di lì, per portare le mie pecore dalla zona bassa alla zona alta, dove la

temperatura è più fresca e c’è più erba, tutto ad un tratto e senza preavviso, il terreno sotto i miei

piedi ha ceduto di schianto, non ho avuto il tempo di aggrapparmi a qualcosa, sono sprofondato giù,

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sonno atterrato male e mi sono rotto la gamba, come può vedere sono ancora ingessato, lì era tutto

buio pesto, c’era solo la luce che filtrava dal buco da dove ero caduto, non mi potevo muovere, ho

iniziato ad urlare con tutte le forze, la fortuna volle che dopo mezzora che ero lì, questa persona

accanto a me, si accorse della mia presenza, capendo che mi ero fatto male. Dopo circa dieci minuti

ho sentito rumore di più persone, ho visto che una persona che si calava con la corda e mi veniva a

soccorrere, ha guardato in che condizioni ero, mi ha imbragato con la corda e quelli di sopra hanno

tirato fin quando non sono uscito e mi hanno poggiato a terra. Poi hanno pensato a tirare su il loro

compagno e così fecero, poi mi accompagnarono a spalla al parcheggio, in attesa

dell’autoambulanza, poi mi caricarono nella portantina e svenni. Le pecore furono recuperate ore

dopo da mio cugino Peter che abita lì vicino, io in quella zona maledetta non ci sono più tornato e

mai ci tornerò, le mie pecore faranno un altro giro per salire a brucare nella zona alta.>

Bullent: < Mi sembra che le due versioni coincidano, dovremmo parlare anche con gli operai di

quel giorno, ma la ditta è ucraina e a fine lavori sono ritornati in patria.>

Ryo: < Posso fare anch’io qualche domanda?> Chiesi al Conte

Bullent: < Prego faccia pure. Anche se non so cosa possa essere sfuggito.>

Ryo: < Prime domande: Signor Antonie, lei abitualmente fa i suoi bisogni all’aperto? Non poteva

andare in un bagno? Da quel giorno si è mai avvicinato di nuovo alla grotta?>

Antonie: < Beh, veramente uso normalmente i bagni come ogni persona, ma quelli della Fortezza

lasciano parecchio a desiderare, quindi ho detto che mi allontanavo per fare un bisogno, e sono

andato in quella zona dove non va mai nessuno perché è fuori sentiero, e da lì ho sentito le urla. Io

faccio la guida turistica, si sono passato altre volte dalla Fortezza, ma no, non mi sono più

avvicinato alla grotta, d’allora vado sempre in bagno al distributore di benzina a 10 Km da lì>

Ryo: < Seconde domande: Signor Dimitru, quando lei era dentro la caverna, si è mai spostato dal

punto dov’era caduto? Se si in che zona. Quando è sceso l’operaio per soccorrerla, ha notato se quel

uomo si guardava in giro per vedere cosa c’era? Lei nella caverna ha visto qualcosa che

assomigliava alla Corona del Drago?>

Dimitru: < Io non potevo spostarmi, il dolore era troppo forte. Non ho fatto caso dove guardasse

l’operaio, non m’interessava, volevo solo uscire da quel posto infernale. Se mi sono guardato

attorno in quella mezz’ora che ero rimasto lì? Si cercavo qualcosa che mi poteva aiutare, magari

nella caduta avevo portato con me il mio bastone, ma non c’era, era rimasto sopra. Se ho visto la

Corona? Troppo buio, l’unica cosa che faceva un riflesso proveniva da una specie di nicchia nel

muro, il muro che sembrava l’occhio di un drago pietrificato, ma non so dire se era una corona o

altro.>

Ryo: < Ho finito le domande, Conte Lei?>

Bullent: < Si abbiamo finito, Guardie… portate i signori a casa, grazie per la collaborazione>

I due uomini furono scortati dalle guardie fuori da quella stanza, mentre io e il Conte restammo a

paralre.

Ryo: < Conte, sappiamo chi ha preso la Corona del Drago, l’operaio magro, quello che si è calato

nella grotta.>

Bullent: < TROVIAMOLO !!!!>

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CAPITOLO 23

Barajul Vidraru

L’8 Maggio finalmente potemmo partire dal palazzo Poenari, per andare Barajul Vidraru, la

distanza era poca, ma eravamo una carovana di persone, mezzi e oggetti di ogni genere, e si doveva

procedere a passo lento. Partiti alle ore 06:00 del mattino arrivammo alle ore 09:00, subito

spianammo una zona a 100 metri dal lago, pulita da erbacce, sassi e ciarpame vario, iniziammo a

procedere come da schema. Al centro montammo la tenda logistica di colore blu, dentro mettemmo

sedie, tavoli, monitor, computer, radio, cartine satellitari. Accanto montammo la tenda cucina di

colore marrone, serviva come dispensa e luogo per cucinare. Tre tende verdi per la zona notte,

mettemmo dentro materassi, reti, luci, scaffali per i borsoni. In fondo alla fine delle tende c’erano i

bagni e le docce. Creammo un perimetro, un quadrato di 60 metri per 60 metri, dietro le tende a una

distanza di 20metri montammo il gruppo elettrogeno e un deposito per il carburante. Poi piantammo

dei pali a terra e gli montammo delle luci a LED molto potenti, tra palo e palo montammo una rete

con filo spinato in cima che cingeva il perimetro. I mezzi erano vicino all’ingresso, messi pronti

all’uso. Creammo uno seconda uscita verso il lago e anche una strada praticabile per fare scendere

al lago il gommone con tutto il carrello. Infine creammo una connessione internet, per essere

collegati con il Palazzo, ma in generale con il mondo.

Giorno 9 Maggio, indossammo le mute, mettemmo le attrezzature nel gommone, inserimmo il

motore fuori bordo e partimmo in perlustrazione, eravamo io, Mike, Kaled, Carl, Sophina, e 4

uomini del Conte. L’acqua era verdastra, la visibilità era di 4 o 5 metri, questo significava

immergersi e andare a tentoni sulla parete, e così facemmo. Ci buttammo in acqua, bardati di

bombole, pinne, maschera, io avevo portato un coltello da sub da 20 centimetri attaccato alla coscia

e un orologio professionale impermeabile, eravamo 7 in acqua e uno che rimaneva nel gommone.

Procedevamo lungo il profilo del lago, cercando di smuovere il meno possibile l’acqua, ogni colpo

di pinna spargeva una ventata di mucillaggine dal fondale, comunque non si vedevano ingressi,

fessure, o incrinature. Quando eravamo a ¾ di percorso, notai una specie di scivola naturale che

dall’acqua saliva fino alla boscaglia che circondava il lago, non era naturale, c’era la mano del

l’uomo, il fondale era pieno di ciottoli e di materiale di risulta, ma ricoperto da uno strato pesante di

mucillagine che si era depositato in decenni o forse in più tempo. Guardai nella direzione della

scivola dall’ingresso in acqua verso le profondità, ma non proseguiva dritto, deviava sulla sinistra

verso una parete verticale, lì vidi una scritta, anzi una lettera parzialmente coperta, era una P

stilizzata, sotto di essa c’era una specie d’ingresso, ma era tutto chiuso da massi di diverse misure.

Allora cercai istintivamente, di togliere quelle pietre, quelle piccole si spostavano, ma alcune grandi

pesavano oltre il quintale, feci segno ai ragazzi di darmi una mano, e ne spostammo un paio, poi

altre tre e così via, fino a quando s’intravide un vuoto dietro le macerie.

Sbancammo completamente l’apertura, aspettammo che la polvere si depositasse sul fondo,

prendemmo le torce subacquee e le puntammo in questa specie di galleria di forma cilindrica, presi

un rotolo di corda gialla e attaccai un capo all’ingresso della galleria e l’iniziai a srotolare come il

filo di Arianna, entrando sempre più in profondità in quel tunnel sconosciuto. Le pareti erano

perfettamente circolari, si vedevano ancora i segni dei scalpelli che incidevano la roccia, andando

avanti la luce inquadrò qualcosa, erano delle grate di ferro massiccio corrose dal tempo, ma si

ergevano ad ostacolo tra noi e quello che si trovava oltre. C’era un lucchetto con serratura, ma era

totalmente ossidato, ci volevano sistemi più drastici per farci strada, tornammo fuori e presi un

oggetto dal gommone, era una fiamma ossidrica ad acetilene, quello che mi serviva, era solo una

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piccola impresa portare il bombolone fino alle grate. Ci volle un’ora, ma alla fine arrivammo alle

grate, accesi la fiamma e incominciai il delicato compito di rimozione delle massicce parti di ferro,

pezzo dopo pezzo, veniva staccato e trasportato fuori dalla galleria, fino a quando non rimasero solo

i cardini alle pareti. Diedi istruzioni di riportare la fiamma ossidrica fuori dalla galleria e rimetterla

sul gommone, io invece entrai ancora più in profondità nella galleria, e la luce inquadrò delle scale

che tendevano a salire, vidi che uscivano dall’acqua, seguii l’andamento della scala fino a quando

non emerse la mia testa dalla superficie, feci luce con la torcia, eravamo dentro una grotta, mi tolsi

le pinne ed uscii dall’acqua.

Una volta che tutti e sette erano saliti in superficie, guardai bene la struttura della grotta, era di

forma circolare, il tetto era in alcuni punti basso ad altezza uomo, in altri punti era alto oltre i 4

metri, poi vidi quello che volevo vedere, dalla parte opposta rispetto alle scale d’ingresso, c’erano

altre scale che questa volta scendevano, alla fine delle scale c’era una specie di pianerottolo e sulla

sinistra una porta di legno massiccio con rinforzature in ferro come quella vista al palazzo Poenari

nei sotterranei, non c’era bisogno comunque di forzarla, era talmente presa di umidità che il legno

con una leggera spinta sbriciolò, chiesi alla squadra di aiutarmi a togliere la porta perché le parti in

ferro erano davvero pesanti. Tolta la porta feci luce per vedere cosa c’era oltre, e un sorriso infinito

mi si stampò in faccia e dissi: < Signore e Signori vi presento il tesoro dei Poenari!!!>

Il tesoro del Cavaliere, era contenuto in quella porzione semicircolare di grotta, c’era di tutto, decisi

di fare delle foto con la fotocamera subacquea e d’iniziare da subito a fare un inventario di tutto

quello che era presente in quel luogo. C’erano 4 armature complete, di forme ed epoche diverse,

forse anche per usi diversi, due erano più pesanti e due erano più leggere. C’erano diversi tipi di

armi, spade, daghe, pugnali, alabarde, doppie alabarde, lance, tridenti, reti di maglia di metallo,

clave, mazze chiodate, archi piccoli e grandi, balestre piccole e grandi. C’erano 3 grossi otri di

terracotta, la prima era piena di monete d’argento con il conio della famiglia reale, la seconda otre

era piena di pietre preziose, di ogni colore forma e dimensione, nella terza otre c’erano delle rune,

come quelle della grotta del drago, ma più piccole e più levigate, dovevano rappresentare tutta la

conoscenza del casato, c’erano altre cose sparse, come statue e drappi colorati,ma non erano il caso

di toccarli, si sarebbero rovinati come la porta d’ingresso.

Divisi la squadra in 4 gruppi, io sarei ritornato al Campo 1 insieme al guidatore del gommone, Carl

e Sophina rimanevano lì per fare un inventario dettagliato, Mike e un’altra guardia dovevano fare

rifornimento di ossigeno e batterie per le torce, Kaled e l’ultima guardia dovevano trovare un

percorso alternativo dallo scivolo fuori dalla grotta al Campo 1.

Io risalì le scale, arrivai alla grotta principale, mi rimisi l’attrezzatura da sub e rifeci il percorso a

ritroso fino ad uscire dalla galleria, uscito dalla galleria, risalii sul gommone e ordinai di riportarmi

al Campo 1. Al campo uno andai a togliermi la muta e mi misi dei vestiti normali, dopodiché andai

in sala logistica per informare il Conte del successo ottenuto, e per dirgli che avevo bisogno di più

uomini e più mezzi per trasportare il tesoro, perché quello che avevamo qui, non bastava per tutto. Il

Conte al telefono scoppio in una risata fragorosa, doveva essere al settimo cielo, mi disse che se

fosse occorso si sarebbe messo lui stesso a fare il facchino per trasportare quei oggetti, io risi a mia

volta pensando nella mia testa come sarebbe stata quella scena.

Dopo circa 1 ora arrivò un altro camion con 8 uomini nel cassone posteriore e davanti c’era

un’autista e Aya, che si precipitò nella mia direzione.

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Aya: < Non mi aspettavo un ritrovamento così rapido, lei è un vero professionista, ora ho capito

perché Bullent parla così bene di lei, ed è dovuto arrivare lui di persona fino a New York per

convincerla a venire qui>

Ryo: < Pura fortuna, i miei uomini sono tutti operativi in vari settori, mi raccomando, non voglio

altri magrolini che rubino oggetti da svariati milioni di dollari!!! Ho bisogno di creare due percorsi,

uno dal Campo 1 alla Grotta del Cavaliere, via terra, perché ho bisogno di avere il gommone per

andare alla ricerca del secondo tesoro, e poi il gommone non potrebbe mai portare tutto quel peso,

neanche in 10 viaggi. Il secondo percorso è dal Campo 1 al Campo 2 ad Arges.>

Aya: < Non c’è bisogno che me lo diceva, la sorveglianza sarà serratissima. I percorsi, se non ci

sono, ci saranno a breve. Non vedo l’ora di portare il tesoro a palazzo e poterlo esaminare.>

Ryo: < Credo che debba iniziare dall’otre numero 3, contiene delle rune incise, credo ci sia tutta la

storia del vostro popolo dalle origini a circa due secoli fa>.

Aya mi abbracciò fortissimo, quasi a stritolarmi le ossa, era molto forte, per fortuna che le avevo

dato una grossa gioia, se no mi avrebbe ucciso. Tornai indietro al gommone e mi rifeci riportare alla

Grotta del Cavaliere. Lì c’era Mike in attesa delle forniture di ossigeno e batterie, gli dissi una volta

finito il cambio, di tornare anche lui al Campo 1 a riposarsi, poi doveva tornare qui per portare

gl’imballaggi impermeabili della Vogan, per trasportare il tesoro. Mentre dicevo questo, sentii

l’urlo di Kaled provenire dalla scivola in pietra, feci accostare il gommone e scesi atterra.

Ryo: < Allora?>

Kaled: < La scivola arriva a quei alberi, dietro gli alberi c’e un canneto lungo 10 metri, dietro il

canneto c’è una specie di sentiero che costeggia tutto il lago, se lo sistemiamo, possiamo utilizzarlo

come percorso verso il Campo 1.>

Ryo: < perfetto era quello che ti volevo sentire dire. Ora dai il cambio a Carl e a Sophina, poi torna

al cambio turno al Campo 1 che dobbiamo prepararci per il Campo 2>

Kaled: < di già? Va bene. Allora farò così>

Io feci salire Mike e Sophina nel gommone e li portai al Campo 1. Dopo di che, mi misi in sala

logistica per imbastire un piano per il giorno dopo. Da fuori si sentivano voci e rumori vari, di gente

che lavorava per il Conte, ma che in pratica prendevano tutti ordini da me, e la cosa mi faceva molta

paura. In pochissimo tempo ero diventato un pezzo grosso, la gente là fuori mi idolatrava, ma a me

non importava niente, ne dei soldi, ne del potere, li consideravo solo come dei strumenti a mio

favore.

Giorno 10 Maggio fu dedicato tutto alla creazione del percorso dal Campo 1 alla Grotta del

Cavaliere e al trasporto del tesoro dalla Grotta alla scivola di pietra. Un lavoro laborioso, perché

quel percorso non veniva utilizzato da due secoli, e l’acqua del lago della galleria, impediva un

facile e rapido spostamento di quei oggetti d’arte, indipendentemente dagl’imballaggi fatti su

misura per l’operazione.

Finalmente giorno 11, tutto il tesoro fu estratto dalla Grotta del Cavaliere, e fu portato al Campo 1.

Lì il tesoro fu ulteriormente schedato, oggetto per oggetto, con la supervisione mia, di Aya, Sophina

e Carl. Mike e Kaled, stavano preparando il gommone, per la trasferta Arges. 2 giorni di ritardo

rispetto allo schema che avevo previsto, ero arrabbiato, altre persone potevano essere già sul posto.

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CAPITOLO 24

Arges

Martedì 12 Maggio ci dividemmo in due gruppi, Aya e Carl si occupavano del trasporto in

sicurezza del tesoro del Cavaliere dal Campo 1 al Palazzo Poenari. Io, Mike, Kaled, Sophina e 4

guardie del Conte, partimmo con il Gommone per Agers. Non c’erano strade conosciute che

portavano in quel posto, e la risalita con il gommone ci permetteva, sia di arrivare velocemente e sia

potevamo guardare con una prospettiva migliore, tutto il bordo del lago. Quando arrivammo nella

zona, abbassammo il motore al minimo, tutti eravamo in allerta, guardavamo ogni masso, ogni

albero, ogni insenatura, non ci doveva sfuggire nulla. Mike, che guardava nella direzione opposta

alla mia, mi strattonò la muta da sub e mi fece guardare nella sua direzione indicandomi una scivola

di pietra che scendeva in acqua e dei binari in ferro con delle travi in legno messe di traverso,

sembravano proseguire in due direzioni, una era sotto il pelo dell’acqua e l’altra da sopra la scivola

scompariva nella boscaglia retrostante.

Ci avvicinammo con cautela, sbarcammo solo io e Kaled, andammo a vedere cosa c’era al di là

della boscaglia. C’era un canneto di circa di dieci metri, e al centro di esso c’era una spianata dove

finivano i binari e iniziavano tracce di pneumatici di un camion, che portavano fuori dal canneto e

da lì in una vecchia strada sterrata in disuso, ma utilizzata di recente. Ritornammo alla scivola,

comunicai con il Campo 1 diedi la posizione di quello che sarebbe stato il Campo 2, chiusi la

comunicazione. Dissi a 2 guardie di rimanere lì, una per la guida del gommone e una per le

comunicazioni, che in questi casi erano fondamentali, poi la restante parte delle guardie indossò

l’attrezzatura da sub e tutti ci immergemmo in acqua.

L’ingresso della Grotta del Tesoro dei Poenari, si presentava come quella del Cavaliere, anch’essa

aveva una P stilizzata sopra l’ingresso, l’ingresso era un po’ più largo, qui le macerie che

bloccavano l’ingresso erano state fatte saltare in aria con la dinamite o qualcosa di simile. La

galleria era molto buia e confidavo nel mio filo giallo da srotolare, più per scaramanzia che per

efficacia, infatti era tutto dritto, non c’erano altri percorsi da seguire, la torcia illuminò i resti di una

grata in ferro, anche qui fatta esplodere, ma con delle mini cariche localizzate, per fare crollare la

galleria.

Appena superai la grata, una luce abbagliante mi accecò, proveniva davanti a me, poi mi sentii

toccare e tirare giù, qualcosa mi aveva afferrato e mi voleva strappare l’erogatore dell’ossigeno, io

d’istinto scalciai e mi dimenai per liberarmi dalla presa ma non ci riuscivo. Allora mi venne in

mente l’unica cosa da fare, con la mano presi il coltello da sub legato nella coscia e l’infilai dove

credevo ci fosse quella cosa, colpì e ricolpì ripetutamente, fino a quando la presa di ciò che mi stata

afferrando non diminuì, allora mi liberai e a tentoni cercai il filo, lo trovai, e lo segui nuotando alla

massima velocità senza vedere dove andassi. Solo quando ritornai in superficie fuori dalla galleria

mi fermai, sentì delle urla, c’era qualcuno che mi tirava fuori dall’acqua e mi chiedevano come

stavo. Pian piano, ripresi l’uso della vista, Mike mi tastava per vedere dove fossi ferito, ero

completamente cosparso di sangue, ma non avevo ferite, allora Mike guardò Kaled senza parlare,

presero le armi e si tuffarono nel lago ed entrarono nella galleria. Passarono un paio di minuti, poi si

sentirono delle detonazioni attutite dall’acqua, altri minuti di silenzio, poi delle bolle d’aria, seguite

da Kaled e Mike che trascinavano 3 corpi sulla scivola di pietra.

Volli scendere a terra per esaminare la cosa, tre uomini in muta, due crivellati di colpi, il terzo

aveva diversi squarci profondi sul lato destro del tronco, aveva anche il mio coltello piantato su i

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suoi reni. Erano di carnagione bianca, dall’aspetto sembrava gente dell’est Europa, tutti e tre

avevano lo stesso tatuaggio, un cerchio fatto di stelle con al centro una falce.

Ryo: < Mike, Kaled, ce ne sono altri dentro?>

Mike: < No, galleria e grotta sono puliti, c’è una porta di legno come dal Cavaliere, non l’abbiamo

aperta.>

Ryo: < Capito. Tu rimani qui con gli uomini, io, Kaled e Sophina entreremo nella grotta. Chiama

Campo 1 per dirgli solamente il ritrovamento della grotta. I tre cadaveri facciamoli sparire per ora,

potremmo avere visite e questa volta non vogliamo farci trovare impreparati. Metti tre uomini sulla

riva, tu stai sul gommone con una guardia.>

Mike: < Ok. Ricevuto.>

Riscendemmo in acqua e ripercorsi quella galleria, ora ancora più spaventosa ai miei occhi, sul

fondo vicino alle grate c’era una grossa torcia, sicuramente di quel uomo che mi aveva abbagliato.

Proseguì, fino ad una scala in salita, uscii fuori dall’acqua e mi trovai in una grande caverna, molto

più ampia rispetto a quella del Cavaliere, il tetto era a volta, si vedevano delle stalattiti che

scendevano in verticale, era puntute e fatte di calcare bianco giallognolo. Anche qui c’era una scala

in discesa, e anche qui c’era una porta in legno massiccio, ma questa volta era già aperta, era solo

accostata, allora l’aprii, e illuminai quella stanza. Era un’altra grotta, molto grande, al centro

c’erano dei secchielli e palette moderne, ovviamente quelle persone erano arrivati fino a qui, si

vedeva il segno a terra della mancanza di oggetti che non si erano spostati per secoli e ora non

c’erano più. Il resto della stanza era intatto, probabilmente avevano potuto fare uno al massimo due

carichi di oggetti del tesoro.

Ryo: < Sophina, tu fotografa e fai un inventario di tutto ciò che vedi. Io e Kaled, torniamo in

superficie e aspettiamo i nostri nuovi amici che ci vengano a trovare.>

Senza altre parole, facemmo il percorso inverso per tornare alla scivola. Mandai solo un uomo ad

aiutare Sophina nella grotta, e mantenni un uomo sul gommone. Il resto della squadra rimase a

terra, tutti armati, in attesa dei ladri, e ricordai che almeno uno doveva rimanere vivo, per poterci

dire dove avevano nascosto la parte del tesoro che avevano già portato via.

L’attesa non fu lunga, dopo circa ¾ d’ora si sentì il rumore di un grosso camion, era tutto nero, con

i vetri oscurati, probabilmente blindato. Non potevamo sapere quante persone ci fossero dentro e

come erano armati, quindi la tattica era aspettare che scendessero, fargli un agguato nel canneto,

sparare alle ruote del camion, e così facemmo. Tutto fu rapidissimo e spietato, Kaled e Mike, con

una doppia falciata di mitra fecero fuori sei persone in pochi secondi, io sparai alle gomme, ne presi

una in pieno, l’autista volle comunque provare a scappare, ma dopo pochi metri il camion si arenò

in una duna di fianco alla strada sterrata. Gli puntai la pistola addosso, lui alzo le mani, poi si buttò

a terra in segno di resa, arrivò una guardia e gli strinse le mani dietro la schiena e gli mise una

fascetta di plastica come fossero delle manette.

A quel punto i morti erano 9, avevamo un ostaggio e gli chiedemmo in maniera non proprio

delicata, dove si trovava il deposito del tesoro, ma lui non aprì bocca.

Ryo: < Te lo chiedo, per la prima e ultima volta: Dov’è il deposito del tesoro? Quanti siete? Di che

gruppo fate parte?>

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Mi arrabbiai, ero furioso, un’ora fa stavo per morire, e non accettavo un silenzio come risposta.

Presi il mio coltello che avevo estratto dal cadavere, e lo mostrai a quel uomo, lui vide il sangue

raggrinzito sulla lama, poi vide me, che giravo dietro di lui, presi le sue mani legate, e gli tagliai il

pollice sinistro, lui buttò un urlo disumano, disperato, capiva che la sua morte era vicina.

Kirkoff: < Mi chiamo, Andrea Kirkoff, sono di San Pietroburgo, faccio parte della setta Temhota, la

parte del tesoro trafugata si trova a Leopoli in Ucraina, ogni camion fa un solo viaggio, ne abbiamo

tanti, ogni viaggio un equipaggio diverso, la prego non mi uccida!!!>

Presi il mio coltello e glielo conficcai nella gola per tutta la lunghezza della lama, la sua bocca

gorgogliò qualcosa d’indefinito, poi cadde a terra privo di vita, con il sangue che sgorgava come un

fiume dalla sua ferita.

Tutti mi guardarono con espressione di terrore, solo allora mi resi di cosa avevo fatto, mi allontanai

e mi misi a vomitare l’anima, poi piansi fino a che avevo lacrime. Cosa mi era successo? Quello

non ero io!!!

Ritornai lucido, ritornai dalla squadra e diedi gli ordini:

Ryo: < Togliete tutti i corpi, tutto il sangue e anche il camion, qui deve essere come se ci fossimo

stati solo noi. Fatto questo chiamiamo il comando, informiamo solo che una parte del tesoro è stata

trafugata. Facciamo venire una squadra dal Campo 1 per recuperare la restante parte. Io devo

parlare con Sophina.>

Sophina fu fatta uscire dalla grotta e portata in un luogo appartato oltre il canneto in modo da poter

parlare in tranquillità.

Ryo: < Sophina, qui la situazione è grave, ci sono stati dei morti, parte del tesoro è stato rubato,

probabilmente c’è una Talpa>

Sophina: < Tu sei intelligente, dimmi cosa possiamo fare.>

Ryo: < 1) Qui non c’è stato mai un omicidio, qui c’eravamo solo noi, questo è quello che devi dire

alle guardie, non devono riferire una parola a nessuno. 2) Forse so dov’è la parte del tesoro

trafugata, quindi io e i miei dovremo partire per andarlo a recuperare. 3) Quando ritorniamo al

Campo 1 sarai tu ha cercare la Talpa, io sarò distante non lo potrò fare. Tutto chiaro?>

Sophina: < Si tutto chiaro, farò come dici tu, mi fido delle tua parola, anche se parli malissimo il

rumeno>

I corpi, il sangue, il camion e qualunque traccia di persone estranee era sparita. Venne la squadra di

rinforzo secondo l’itinerario che gli aveva riferito Kaled. Si allestì il Campo 2, dall’altra parte

rispetto al canneto era l’unico spazio libero, per un simile dispiegamento di forze. Coordinati i

lavori, la squadra si radunò sulla scivola di pietra, salì nel gommone, e tornò al Campo 1. Lì ad

aspettarmi c’erano Aya e Carl, che volevano sapere com’era andata, e io gli diedi la mia versione

concordata con il gruppo di Arges, loro furono dispiaciuti, per la parte di tesoro trafugato, ma erano

contenti che la maggior parte era rimasta al suo posto, e a breve sarebbe stato fatto il trasbordo,

dalla Caverna del Tesoro dei Poenari, al Campo 2, dal Campo 2 al Campo 1 e infine al Palazzo

Poenari.

Mi tolsi la muta da sub, mi andai a fare una doccia, sentivo ancora l’odore del sangue sulla mia

pelle.

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PARTE V

Leopoli

CAPITOLO 25

La Parigi dell’est.

Leopoli, o Lviv in ucraino, è l’ultima perla sconosciuta d’Europa, nota anche come la “piccola

Parigi dell’est”. La Città, fondata nel 1256, è un vero museo a cielo aperto che ha saputo

salvaguardare e mantenere intatta la sua architettura e il suo antico fascino. A Leopoli si vive

un’atmosfera rilassata e passeggiare per il centro storico porta indietro nel tempo. Impreziosita da

magnifici monumenti architettonici, numerosi templi, antiche piazze e ben sessanta musei, Leopoli

è una meta turistica estremamente attraente, qui sono presenti più delle metà dei monumenti

dell’intero paese, infatti, il suo centro storico è stato nominato patrimonio mondiale dell’Unesco, e

dal 2009 la città è stata proclamata capitale culturale dell’Ucraina. La Ploshcha Rynok, l’antica

piazza del mercato, è ancora oggi il cuore pulsante della città, qui si respira un clima cosmopolita e

multietnico. Numerosi edifici in stile Belle Époque padroneggiano per tutto il centro storico, primo

fra tutti il Teatro dell’Opera, un vero gioiello architettonico in stile neo-rinascimentale è un dei

teatri più belli d’Europa. Inaugurato nel 1901, offre ancora oggi spettacoli di altissimo livello. Il

punto più alto della città è l’Alto Castello (Vysokyi Zamok) da dove è possibile godere una vista

straordinaria e pittoresca del centro storico.

Era la mattina di Giovedì 14 Maggio, eravamo arrivati il mercoledì notte, in elicottero, dal palazzo

Poenari e atterrati direttamente, nel parcheggio di una scuola chiusa di Leopoli, avevamo portato

solo lo stretto necessario, cioè cibo per due giorni e armi per fare la terza guerra mondiale. La

squadra era composta da me, Kaled, Mike, Carl, 4 Guardie del Conte che erano stati con noi ad

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Arges, e Navlata la terza moglie del Conte, che sostituiva Sophina, che era rimasta al Campo 1 per

monitorare la situazione.

La scuola era stata comprata dal Conte, per darci una base operativa tranquilla. Non potevamo

scendere in piena notte da un elicottero in pieno centro storico, con svariate armi d’assalto, senza

dare nell’occhio, era si una città multietnica, ma quello era eccessivo ovunque. La scuola era

decentrata dalla zona principale, ma non distante, era abbastanza isolata, ma non tanto da fare

incuriosire la gente locale per 9 stranieri che passeggiavano tutti assieme. Creammo la nostra base

operativa nella palestra, per forma assomigliava al Campo 1 a Barajul Vidraru, ma di dimensioni

più ridotte. Mike si occupò del campo base, Kaled uscì in perlustrazione e per fare rifornimenti, io e

Carl iniziavamo ad allestire un piano operativo.

Dovevamo lavorare su più fronti, quello del Tesoro dei Poenari rubato, e quello della della Corona

del Drago, entrambe le piste portavano in Ucraina e precisamente a Leopoli. La ditta che faceva il

restauro della Fortezza era di qui, come i suoi operai, si chiamava Empio Incorporated, aveva la

sede amministrativa nel centro storico, mentre la sede effettiva con materiali e mezzi si trovava in

periferia, nella zona industriale. Quindi prima cosa da fare, era andare negli uffici e verificare chi

erano gli operai e poi andare a stanarli nel luogo di lavoro. Kaled tornò con un auto e delle

provviste, gli dissi di non entrare la macchina, ma lasciarla pronta per uscire. Avvisai Mike che

doveva prepararsi a guidare, poi andai da Navlata e gli dissi di vestirsi da sfilata, perché si andava a

fare shopping, lei all’inizio non capì, poi capì, mi sorrise e si andò a cambiare.

Alle ore 10:30 eravamo sulla piazza principale, io indossavo le mie scarpe nonno special original e

il vestito a giorno che avevo comprato nella City, Navlata indossava un vestito nero, senza maniche,

che gli arriva a metà coscia, scarpe con il tacco, e una bella dose di trucco per nascondere il suo

bellissimo pallore spettrale. Prima andammo agl’uffici della Empio, non si aspettavano visite,

parlammo con il direttore delle risorse umane, che da subito era recalcitrante a dare informazioni

dei dipendenti a perfetti sconosciuti, ma con una buona mazzetta da 500€, ci disse tutto, e se non ce

ne andavamo, ci avrebbe raccontato la storia della sua vita. Una volta saputi, nomi e cognomi, orari

e luogo di lavoro, avevamo ancora un po’ di tempo libero, e così andammo a fare shopping sfrenato,

non erano molte le occasioni per spendere i soldi che mi ero guadagnato, ne prendevo 1000 e ne

spendevo 10 o forse di meno.

Si fece ora di pranzo e indagammo dove andare. La città oltre per le sue bellezze architettoniche, è

famosa anche per le sue prelibatezze culinarie, qui infatti si può assaggiare un caffè dal singolare

aroma e sapore, le tradizioni del caffè a Leopoli risalgono al XVII secolo e si sono conservate nel

tempo, il caffè è così importante per gl’ucraini tant’è che ogni anno si celebra il festival del caffè,

unico nel suo genere. Passeggiando per le romantiche vie della città, io e Navy, era impossibile non

notare le numerose pasticcerie, veri artigiani e professionisti del cioccolato, che ci deliziarono il

palato.

Successivamente andammo a visitare il Primo Museo della Birra dell’Ucraina, il Lvivarnya, dove

erano conservate le antiche ricette risalenti al XV secolo che evidenziavano la leggendaria

tradizione birraia di Leopoli, iniziata per merito dei monaci gesuiti più di sei secoli fa. Il Museo

ospita numerose iniziative culturali tra cui esposizioni di arte contemporanea, e io mi fiondai come

una falena di notte quando vede una lampadina accesa.

Alle ore 15:45, risalimmo in auto e ritornammo alla base. Navy si andò a spogliare e farsi una

doccia negli spogliatoi femminili, io feci altrettanto nello spogliatoi maschili. Alle ore 16:30

eravamo tutti intorno al tavolo centrale, mostrai le fotocopie dei documenti d’identità degli operai

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della Empio che interessavano a noi. Oggi lavoravano tutti e 4 e il loro turno finiva alle ore 17:00,

quindi non restava che andare nell’azienda, e prelevare i simpatici lavoratori.

Kaled aveva procurato, un furgone con i vetri oscurati, grazie alle sue conoscenze. Carl e una

guardia rimasero alla scuola, mentre il resto della Squadra Arges salì a bordo. Arrivammo alle

17:00 spaccate all’ingresso dell’edificio a due piani, sotto era un casermone con tutti gl’impianti, al

piano superiore c’erano gli uffici amministrativi e commerciali. Uscimmo dalla macchina, il

cancello era aperto, c’erano 3 macchine posteggiate e un furgone all’angolo del parcheggio, non si

vedeva nessuno, uscimmo le pistole, perché la situazione era molto strana, entrammo nell’edificio, i

macchinari erano fermi e nei corridoi non si vedeva nessuno. Due guardie si misero all’ingresso, e il

resto di noi salì al piano superiore, ci mettemmo a guardare dentro le stanze, erano stanze utilizzate

da recente, c’erano ancora i cestini mezzi pieni. L’ultima stanza, che era la sala riunioni, non era

vuota, c’erano tre corpi stesi a terra, tutti uccisi da colpi di pistola, erano stati uccisi da poche ore, i

corpi erano caldi, erano gli operai della fortezza, ma mancava il Magrolino, forse li aveva uccisi lui

per non spartire il tesoro.

I cadaveri, non avevano il caratteristico tatuaggio della setta Temhota, erano solo dei poveracci che

si erano fatti raggirare nella speranza di spartirsi un tesoro, e invece erano finiti in mani terribili e

crudeli. Uscimmo nel parcheggio, e andai a guardare il furgone che era rimasto lì solitario, era

esattamente uguale a quello di Arges, aveva in più solo lo stemma della società e pensai che questi

mezzi avevano il GPS a bordo e quindi si potevano vedere i percorsi giornalieri, con gli orari di

accensione e spegnimento.

Tornammo alla base, feci una chiamata internazionale, da un numero di cellulare anonimo non

rintracciabile. Al terzo squillo, mi rispose Kim, la mia segretaria e assistente tecnica informatica,

che avevo conosciuto a New York City.

Ryo: < Ciao Kim, ti ricordi ancora di me?>

Kim: < Ryo!!!! Ma dove sei finito? Ho cercato di rintracciarti più volte, ma era come se eri sparito

dal mondo!!! Dove sei?>

Ryo: < è una lunga storia e non ho il tempo di raccontartela, mi serve un favore che solo tu puoi

fare in così breve tempo. Ti sto inviando alla tua mail,una targa, un telaio e un modello di veicolo,

con queste informazioni, puoi accedere al suo GPS e scaricare tutte le informazioni?>

Kim. < In che guaio ti sei messo? È una cosa illegale, ma si la so fare. Ti mando una mail con in

allegato tutti i file.>

Ryo: < Grazie, sei la mia salvezza e la mia speranza. Quando ci rivediamo, andremo di nuovo da

Nathan’s a ingozzarci di Hot Dog!!! Ciao, Ti Voglio Bene.>

Kim: < e mi dovrai spiegare molte cose. Ti Voglio Bene anch’io. Ciao!!!>

Finita la telefonata, accesi il computer portatile e attesi, la mail di Kim. Nell’attesa, si avvicinò a me

Navy, e mi disse una cosa che mi fece riflettere.

Navy: < Il Magrolino, come faceva a sapere che stavamo arrivando? Quello dell’ufficio sicuramente

non è stato lui ad avvisarlo, ma allora chi?>

Ryo: < Bella domanda, davvero bella domanda a cui non ti so rispondere.>

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CAPITOLO 26

Vynnykivskyi Park

Alle ore 18:57, arrivò finalmente la mail di Kim, c’erano tutti i dati e tutti i spostamenti del mezzo,

controllammo che ogni spostamento fosse giustificato, erano sempre i stessi percorsi sempre fatti

agli stessi orari, non c’erano stati incidenti, o cose rilevanti che risaltavano all’occhio. Poi a furia di

guardare dati e cartina satellitare, mi feci un’idea, abbastanza concreta, il luogo dove era depositato

il tesoro era lungo una strada percorsa abitualmente dal camion, la maggior parte delle strade era

trafficate, non si potevano spostare armature ad altezza uomo senza che nessuno se ne accorgesse.

L’unica zona tranquilla era quella che costeggiava il Parco Vynnykivskyi, ideale come scorciatoia,

e ideale come posto per scaricare materiale senza farsi notare. Guardando ancora una volta i dati mi

accorsi di un punto in cui il furgone era sempre acceso, ma restava immobile per svariati minuti, mi

segnai le coordinate e le impostai sul mio cellulare in modalità navigatore.

Dovevamo agire velocemente, prima che il Magrolino sparisse, con tesoro e corona. Alle ore 20:00,

dopo una breve cena frugale, ci mettemmo in azione. Rimasero Carl e una guardia a sorvegliare il

fortino. La squadra Arges salì sul furgone e andammo a fare questa spedizione punitiva al parco. Ci

volle circa mezz’ora per arrivare e altri 10 minuti per capire il punto preciso. Il sole era tramontato e

non potevamo accendere le torce per non fare insospettire chi le avesse viste. Trovammo un punto,

con chiare tracce di camion e delle impronte di scarpe per terra, poi vidimo delle tracce di un mezzo

più piccolo a 3 ruote, che si addentravano per una stradina. La percorremmo i silenzio in fila

indiana, dopo circa 500 metri la stradina si apriva in un piccolo spiazzale circondato da alberi di alto

fusto, qui trovammo quel mezzo di trasporto, dentro una specie di garage improvvisato. Accanto

c’era una casetta di mattoni, con il tetto fatto di pannelli ondulati, c’era una finestrella dove filtrava

una luce fioca e si sentiva il rumore di una televisione accesa.

L’attacco fu rapido e semplice, Mike sfondò con un calcio poderoso la porta di legno che si staccò

dai cardini, Kaled entrò con il mitra spianato e lo puntò alla testa del Magrolino. Il Magrolino non

ebbe il tempo di arrivare alla pistola, che fu allontana immediatamente da Navy, cercava

inutilmente di reagire in qualche modo, ma eravamo troppi contro lui da solo, lo capì e non tentò di

fare mosse azzardate.

Gli furono legate le mani dietro la schiena e fatto sedere su una sedia con lo schienale appoggiato al

muro di mattoni. Dissi a Navy e alle guardie di controllare il perimetro, in cerca del tesoro o altre

persone nascoste, nel frattempo io, Mike e Kaled ci dedicammo ad interrogare il Magrolino.

Ryo: < I ragazzi stanno cercando qua fuori il tesoro, e se c’è lo troveranno. Voglio sapere un po’ di

cose da te, ti prego di non mentirmi e farmi perdere tempo, sono le due cose che mi danno più

fastidio. 1) Dov’è il tesoro? 2) Chi ti ha fatto la soffiata alla Empio? 3) Che cosa è la setta

Temhota?>

Magrolino: < Non vi dico un cazzo, non faccio dei favori ai Fulminati!!!>

Io mi avvicinai e gli piantai il mio coltello da sub nella coscia, lui lo vide solo all’ultimo secondo,

urlò come un agnellino sgozzato. Presi una sedia e mi misi accanto a lui, poi girai il coltello nella

ferita, per provocargli più dolore. Navy sentito l’urlo si affacciò alla porta, ma fu subito respinta da

Mike.

Ryo: < Noi saremmo i Fulminati? E voi chi siete? Rispondi o morirai dissanguato!!!>

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Magrolino: < Noi siamo la forza che governa il mondo, noi siamo quelli che stermineranno

gl’illuminati, noi siamo i Temhota, noi siamo l’oscurità!!! La vostra Corona del Drago non la

troverete, ormai è andata da un pezzo, ce l’hanno i miei capi, forse se v’impegnate troverete la parte

del tesoro che abbiamo portato via, siete arrivati troppo presto, avreste dovuto trovare solo una

caverna vuota!!!!>

Ryo: < Capito, la corona ce l’hanno i tuoi capi, e la parte del tesoro è qui attorno, la troveremo con

o senza il tuo aiuto. Ora manca solo una risposta ad una mia domanda precisa, chi è la Talpa?>

Magrolino: < Non lo so come si chiama, non l’ho mai incontrato di persona, fa parte della setta, ho

sentito una volta, che lo chiamavano l’ucraino italiano, ma non so il perché>

Ryo: < Mi hai dato una bruttissima notizia, ma ti ringrazio ugualmente, per la tua sincerità.>

Mi alzai lentamente, poi in un attimo estrassi il coltello dalla coscia insanguinata, e gli infilzai il

cuore, in un attimo la sua espressione passò da stupita a persa nel vuoto, era morto, era diventato un

pezzo di carne inutile.

Estrassi il coltello dal corpo e andai a pulirlo con l’acqua corrente insieme alle mie mani

completamente insanguinate. Poi diedi ordine a Kaled di ripulire la scena, dovevamo andarcene

velocemente, la talpa, il traditore stava a casa nostra.

Uscii dalla casetta e vidi Navy che mi guardava fissa, come per dirmi cosa hai fatto? Ma non avevo

ne tempo e ne voglia di rispondere a quelle domande. Appena Kaled si liberò del corpo e pulito il

sangue, ce ne andammo di corsa al furgone, nessuno disse niente, c’era solo il rombo del motore.

Arrivati alla scuola, scendemmo nel parcheggio, mancava la macchina e la porta principale della

scuola era aperta, questo era un cattivo segno, ed infatti arrivati alla palestra trovammo il corpo

della guardia morta, sparata alla schiena due volte, non c’era traccia di Carl, aveva capito che stava

per essere scoperto ed era scappato alla prima occasione.

Prendemmo un lenzuolo e coprimmo il corpo della guardia, mi dispiaceva per lui, anche se non

sapevo il suo nome, si era comportato bene ad Arges, un vero soldato, ma queste cose facevano

male al morale. Mangiammo qualcosa di malavoglia, ci demmo una pulita e ci coricammo senza

dire una parola.

L’indomani mattina ritornammo alla casetta vicino al parco e cercammo il tesoro in tutta la zona,

che sembrava tutta la stessa, erba verde fino al ginocchio e qualche albero a delimitare i confini del

parco, ogni tanto si sentiva qualche rumore in lontananza che proveniva dalla strada principale

sterrata, ma niente di pericoloso. Poi mi venne l’illuminazione. L’erba era alta e verde, non poteva

aver scavato una buca senza fare morire le piante di sopra, quindi stavamo cercando nel posto

sbagliato. Doveva essere un posto vicino, il Magrolino non poteva portare tanto peso per lunghe

distanze, quindi era un posto vicino alla casetta. Presi il mezzo a tre ruote e lo spinsi all’indietro al

centro del cortile, poi guardai il capanno e vidi che a terra c’era un pannello di legno, messo li da

poco, lo sollevai. Sotto c’era una stanza, forse all’origine era una cisterna per l’acqua piovana, ma

non m’importava, avevamo trovato il Tesoro dei Poenari e lo mostrai ai ragazzi.

Il giorno fu dedicato interamente al trasporto del tesoro dalla casetta, al furgone, dal furgone

all’elicottero, poi il viaggio fino al palazzo Poenari per fare lo scarico. Dopo di che doveva ritornare

indietro, e fare un secondo viaggio per la seconda parte del tesoro. Infine il terzo viaggio fino alla

scuola, dove tutti eravamo stravolti dalla fatica, e arrabbiati per la fuga vigliacca di Carl.

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CAPITOLO 27

La scrivania

Sabato 16 Maggio, il cadavere di Teofilo Parnassus, così si chiamava la Guardia del Conte, ucciso

da Carl Shevcenko, faceva ritorno a casa in elicottero guidato da Mike e accompagnato da Lavlata.

Io, Kaled e le altre Guardie del Conte, dovevamo rimanere a Leopoli, la missione non era finita, era

arrivata una chiamata dal Commendatore Calogero Platania, il Boss, che mi comunicava che il

bonifico da 1000000 $ era stato accreditato sul conto principale della Printer, e che dopo poco era

stato fatto un bonifico di 250000 $ sul mio conto, inoltre si dispiaceva per la guardia morta in

servizio a causa di un suo “ex” dipendente, ma era prioritario trovare la Corona del Drago, c’erano

in ballo un altro milione di dollari e soprattutto l’affiliazione del Conte Poenari. Finita questa

chiamata ne feci una io, a Firenze, chiamavo Yuki Amato.

Ryo: < Pronto Yuki?, sono io, ti devo parlare.>

Yuki: < Unge!!! Sei vivo? Ma cosa succede, ho parlato con la tua segretaria a New York, non mi

sapeva dire dov’eri e che cosa facevi…>

Ryo: <…Yuki non ho molto tempo, ti devo fare alcune domande importanti. Ti ricordi di Carl

Shevcenko il damerino del test d’inglese? Cosa sai di lui?>

Yuki: < Di Carl? Non capisco questa domanda. Carl abita a Firenze, ha circa 40 anni, sposato e ha

due figli, un maschio e una femmina, fa il tecnico aziendale per la Printer.>

Ryo: < Ok, ma intendevo, se conoscevi qualcosa del suo passato, della sua famiglia di origine, so

che ha origine ucraine, mi sai dire qualcosa di più?>

Yuki: < Si lui è ucraino di nascita, ma dai 10 anni in poi si era trasferito con la famiglia in Italia, i

suoi genitori sono morti anni fa, gli è rimasta solo una sorella che si chiama Irina, l’ho conosciuta

per un party aziendale, anche lei è nel settore dell’arte, ma è tornata in Ucraina, che io sappia vive e

lavora lì. Ma a cosa ti servono queste informazioni? Sei in qualche guaio?>

Ryo: < Io no, ma Carl sicuramente si, doveva farmi da traduttore in Romania per un lavoro con la

Printer, ma si è buttato latitante, e il Commenda mi sa che lo vuole licenziare, quando lo troveremo,

capito?>

Yuki: < Ho capito, stai andando avanti a gesti e con il telefono i gesti non si vedono, brutta

situazione.>

Ryo: < Grazie Yuki per le informazioni, tenterò di rintracciare Carl in qualche modo, non dire a

nessuno che ci siamo sentiti, questa è una conversazione assolutamente privata. Mi farò sentire

appena si sbloccheranno le cose. Ciao Yuki!!!>

Yuki: < Ciao Unge, mi raccomando non fare troppe cazzate, che qui c’è gente che tiene a te.>

Chiusa la conversazione con Yuki, feci un’altra chiamata, a Kim a New York. Non ricordavo bene

il fusorario, non sapevo che ore erano lì, il telefono squillò per un bel po’, poi finalmente mi

rispose.

Ryo: < Ciao Kim, disturbo?>

Kim: < Ryo!!! Ma quanti telefoni hai? Non stavo rispondendo. Dimmi, cosa ti serve?>

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Ryo: < Devi fare una ricerca su una persona, si chiama Irina Shevcenko, ha circa 38 anni, nata a

Leopoli in Ucraina, fa la commerciante d’arte. Mi serve tutto quello che sai su di lei, per questioni

di lavoro, è urgente, appena hai tutto me la mandi alla mia mail, ok?>

Kim: < Cosa faresti senza di me? Vedo quello che trovo e te lo mando. Mi raccomando la prossima

volta chiamami da un altro cellulare ancora, così sarai certo che non ti risponderò. Ciao pazzo!!!>

Finita anche questa chiamata, non mi restava che aspettare la mail di Kim, e il ritorno di Mike e

Navy dalla Romania. Ma io come sempre non riuscivo a stare fermo e allora visto che ci trovavamo

dentro una palestra, proposi una partita a basket 2 contro 3, io e Kaled contro le tre guardie,

all’inizio pensavano che avessi fatto una battuta, ma poi si resero conto che era un affermazione e si

andarono tutti a mettersi la tuta. La partita durò un’oretta, vincemmo io e Kaled 45 a 43 grazie ad

un mio tiro magistrale da tre punti. Doccia veloce e cambio abiti. Poi guardai la posta elettronica,

era arrivata la mail che aspettavo da parte di Kim.

Domenica 17 Maggio ero ad una fiera d’arte in compagnia di Navy, giravamo tutti gli stand,

mostrando falso interesse per opere banali e di scarso valore, l’obiettivo era quello di stanare Irina,

dalle informazioni datemi da Kim, oggi lei era qui, perché aveva prenotato un posto per

l’esposizione. Alla fine del giro, trovammo quello che cercavamo, uno stand pieno di mobili

d’antiquariato, in particolare i miei occhi si soffermarono su una scrivania di stile vittoriano, che

aveva l’aria di essere stato restaurato da poco. Navy si allontanò con la scusa che doveva andare in

bagno e mi lasciò lì da solo come il verme all’amo.

Irina: < Complimenti, lei ha davvero buon gusto!!!> parlò in cinese.

Ryo: < Lei parla cinese? A cosa si riferiva?>

Irina: < Si, commercio in tutto il mondo, e i cinesi sono ottimi clienti. Mi riferivo alle sue scarpe,

sono di stile tailandese, in pelle fatte a mano e su misura, devono calzare come guanti ai piedi. Mi

riferivo alla sua compagna che si è allontanata, uno vera bellezza, non n’esistono in giro di una tale

eleganza. Mi riferivo soprattutto al suo sguardo che si è posato su questa scrivania pregiatissima,

potrebbe abbinarsi benissimo alle sue scarpe. Che ne pensa?>

Ryo: < Guardi, io cammino molto e per me le scarpe sono fondamentali, sono tutti soldi ben spesi.

Per quanto riguarda la donna che si è allontanata, sono io che accompagno lei e non il contrario, ed

è lei che mi ha segnalato questo oggetto d’arte. Quanto costa?>

Irina: < La scrivania è un pezzo unico, di listino lo vendiamo a 3600€, ma per lei che mi è

simpatico, posso scendere a 3500€.>

Ryo: < Ok, lo prendiamo, ma non lo possiamo portare via oggi, siamo con l’auto sportiva, sa com’è

tutto motore e niente bagagliaio, gli piace correre in strada. Se mi da un bigliettino da visita, domani

vengo in negozio, con un mezzo più consono e chiudiamo l’affare. Le do 500€ di caparra subito in

contanti e il resto alla consegna. Le sta bene?>

Irina: < Perfetto, le lascio una ricevuta per la caparra, ci sono i miei contatti scritti e l’indirizzo, così

non si può sbagliare>

Ryo: < Sta bene, allora ci vediamo domani, arrivederci.>

Nel frattempo tornò Navy, che mi prese sottobraccio, e continuammo la nostra passeggiata turistica.

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CAPITOLO 28

L’amore all’improvviso

Lunedì 18 Maggio, feci chiamare Mike al negozio di Irina, per avvertire che il signor Brown,

sarebbe passato alle ore 11:00 per ritirare la scrivania. Alle ore 11:00 puntuale eravamo arrivati con

il furgone davanti al negozio, mi ero portato le tre guardie, non volevo bruciarmi i miei uomini

migliori. Scesi dal furgone ed entrai al negozio, mentre i ragazzi andavano sul retro dove c’era lo

scarico/carico merci. Mi venne incontro Irina, mi tese la mano e si presentò ufficialmente, mi disse

che la scrivania era bella imballata, pronta per essere caricata. Io gli risposi che il furgone era già

pronto per essere caricato. Prima andammo alla cassa e passai la mia carta oro nuova di zecca a

nome di Jeremy Brown, 3000€ più 500 di caparra, erano andate vie in pochi secondi, credo che

fosse il jackpot del mese aver venduto quel mobile in così poco tempo. Irina chiamò i commessi per

fare il carico e poi si rivolse a me.

Irina: < Ottima scelta, davvero ottima scelta. Mi dica, un uomo come lei, cosa la porta in questo

luogo sperduto dell’universo? Non mi dica la bionda di ieri, perché non le credo, avrà tante qualità

che io non conosco, ma non credo che ne sappia d’arte, ha guardato quel mobile, come si guarda un

ferro da stiro>

Ryo: < Lei è il mio capo, è molto ricca, può permettersi qualunque cosa, anche solo per capriccio.>

Irina: < e lei Mister Brown, fa parte dei suoi capricci o mi sbaglio?>

Ryo: < Si sbaglia, io sono un esperto d’arte e non mi occupo di intrattenere le signore facoltose,

invito solamente le responsabili dei negozi d’arte a prendere un caffè, le va?>

Irina: < Intraprendente, per me un caffè a metà mattinata, me lo prendo volentieri, ma il furgone con

la scrivania li lascia qua?>

Ryo: < ci sono i miei operai che se ne stanno occupando, non si preoccupi. Allora andiamo?>

Irina: < Due affari fatti, di prima mattina, oggi giorno fortunato. Si andiamo.>

Uscimmo dal negozio, si fermò la macchina con Mike al volante, che scese per aprirci la portiera e

farci salire. Irina era sbalordita. Aveva un uomo accanto, che sapeva esattamente cosa voleva, non

perdeva tempo, e gli sembrava che avesse risorse illimitate alle sue spalle. La macchina si fermò al

centro storico, vicino alla piazza principale, Mike aprì lo sportello e ci fece scendere, poi risalì in

macchina e se ne andò, lasciandoci in mezzo alla gente, che creava il viavai dalla fiera lì vicino. Noi

invece ci infilammo in una traversina stretta e lunga che portava ad una piccola piazzetta, i palazzi

attorno erano di epoca medievale, ma restaurati di recente, da uno di quelli sporgeva la scritta

“Trattoria dei Devoti”, c’erano dei tavolini all’aperto e ci sedemmo su due sedie di legno, il tempo

era buono ed era piacevole stare fuori, chiedemmo due caffè artigianali, e iniziammo a parlare.

Irina: < Allora Mister Brown, cosa la spinge a venire qua, oltre a raggirare bottegaie di mezza età?>

Ryo: < chiamami Jeremy, come sai sono un critico d’arte, giro il mondo, in base ai capricci dei miei

clienti, mia madre era cinese e mio padre tedesco, si sono conosciuti a Londra, e io mi sento

cittadino del mondo, un’apolide. Come mai una persona così qualificata come te, si mette a lavorare

negli stand dei mercatini?>

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Irina: < Caro Jeremy, i sentimenti sono quelli che ti fottono alla grande, io li ho seguiti solo una

volta e sono rimasta fregata. Il mio lavoro attuale è un ripiego, prima lavoravo in un altro settore,

ma ho fatto un investimento sbagliato e chi mi doveva parare il culo è sparito, neanche la sua

famiglia ne ha notizie.>

Ryo: < Chi è questo infame che ti ha conciata così? Se vuoi ci parlo io.>

Irina: < Lascia stare, sto parlando di mio fratello Carl, il classico uomo che all’apparenza sembra

fragile e impacciato, in realtà è un gran bastardo affabulatore, e io lo dovevo sapere più di chiunque

altro.>

Ryo: < Di che merce si tratta? Ho molti contatti, magari li puoi rivendere ad un costo inferiore,

rientrando parzialmente delle spese.>

Irina: < Qui il problema è il materiale di vendita, che non è commercializzabile. Mio fratello, con i

miei soldi, comprò 110 AK-52, dei mitra super potenziati, che utilizzavano dei proiettili perforanti,

da una società con sede in Kazakistan. Li doveva rivendere ad un’altra società filonazista, di

matrice svedese, ma con sede a San Pietroburgo, la cosa mi sembrava molto pericolosa da subito,

ma volli fidarmi di mio fratello. Le armi si rivelarono, si efficaci, ma molto pericolose per chi

l’adoperava, si surriscaldavano troppo rapidamente, e la camera di detonazione esplodeva, causando

ferite permanenti a dei miei collaboratori, che stavano collaudando le armi. Capisci bene che non

posso vendere delle armi guaste a dei nazisti, mi ucciderebbero.>

Ryo: < Io ho un collaboratore esperto in armi, possiamo fargliele vedere, potrebbe fare una rettifica

dei componenti, così tu potresti realizzare la vendita e recuperare i soldi persi. Dove si trovano

queste armi?>

Irina: < Davvero puoi fare questo per me? Ho il deposito a Kiev nella capitale. Grazie!!!>

Irina mi prese la mano e la strinse forte, mi guardava fisso negl’occhi, stava guardando la parte

buona della mia anima, anima che ultimamente avevo perso. Non sapeva, che la stavo tradendo dal

primo momento che l’avevo conosciuta, il mio scopo era di trovare suo fratello Carl e farmi dire

dove trovare la Corona del Drago. Per ora stavo al gioco che mi ero creato, e poi mi piaceva

davvero stare con Irina, era una bella persona, sia esteticamente, era alta circa 170cm, bionda con

gl’occhi azzurri, pelle bianca naturale non come quella delle mogli del conte, e sia come carattere,

era brillante perspicace e intraprendente, tutte qualità che apprezzavo.

Fatto sta che non ci lasciammo più, le mani non si staccavano più, e i nostri corpi erano sempre

vicini, troppo vicini. Nella stradina che portava alla piazza principale ci baciammo, ci baciammo

come due ragazzini alla prima esperienza sentimentale, in maniera dolce e tenera, se avessi avuto

ancora un cuore si sarebbe sciolto per la gioia. In piazza c’era Mike che ci aspettava alla macchina,

ci riaccompagnò al negozio, e durante il percorso gli dissi di preparare un bagaglio, che domani la

passavo a prendere per andare a Kiev, e risolvere i suoi problemi. Non gli dissi che forse facendo

così stavo risolvendo anche i miei. Arrivati al negozio, lei mi scrisse il suo indirizzo sullo scontrino

della trattoria e ci demmo appuntamento alle ore 09:00 a casa sua, mi salutò con un bacio sulla

guancia, pieno di passione, ed uscì dall’auto ed entrò in negozio, sparendo dalla mia vista.

Mike: < Bravo Boss, abbiamo fatto conquiste eh?!>

Ryo: < Ma smettila, portami alla scuola, che dobbiamo scrivere la sceneggiatura per la recita di

domani!!!>

Page 62: Scritto da: Aurelio Alfio Alberto Abate Nel periodo Marzo ...

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CAPITOLO 29

Khreschatyk Kiev

Chreščtyk detta in russo, è la strada principale di Kiev in Ucraina. Il nome deriva dalla parola slava

Krest cioè Croce. Si trova in una valle che è attraversata da numerosi anfratti, quando la si guarda

dall’alto, la valle assomiglia a una croce. Tutta la strada è stata distrutta completamente durante la

seconda guerra mondiale da parte dell’Armata Rossa in ritirata e ricostruito dopo la guerra secondo

i caratteri tipici del classicismo socialista. La strada è stata notevolmente rinnovata nel corso del

periodo moderno di indipendenza dell’Ucraina. Oggi la strada è il centro amministrativo e

commerciale della città, e quindi un luogo popolare per kieviani.

Arrivati alle ore 12:00 a Kiev del Martedì 18 Maggio, io e Irina, girammo per le strade come due

fidanzatini. Andammo alla piazza di Besarabska a vedere il mercato di Besarabskij il mercato

coperto aperto dal XIX secolo, poi passammo per il quartiere Besarabs’kyi, un complesso di negozi

e uffici, in parte del diciannovesimo secolo che comprendeva anche il Pinchuk Art Centre di arte

contemporanea. Da lì passammo per il Metrohrad, il centro commerciale sotterraneo, e infine

arrivammo al Kyivs’kyi Pasazh, una piccola stretta strada commerciale e residenziale, qui stava il

deposito di armi di Irina Shevcenko.

Il deposito di Irina, all’origine doveva essere stata una casa abitata da una famiglia numerosa. C’era

una stanza principale che dava su un cortile, al centro della stanza c’era un bancale con le armi, in

un angolo c’era un altro bancale con le munizioni. C’era una cucina, due bagni, e quattro stanze

vuote, che sembravano camere da letto, solo una era parzialmente arredata, ma in quel momento i

mobili erano l’ultima cosa a cui stavamo pensando. Ci guardammo negl’occhi, ci baciammo a

lungo, senza fretta, per gustarci il momento, poi io spogliai lei e lei spogliò me, ci sdraiammo nudi

nel letto e facemmo l’amore, come se fosse la prima volta nella nostra vita, con un pò di esitazione,

ma nessuna voglia di fermarsi. Dopo un paio d’ore di combattimenti fra le lenzuola, pranzammo

nudi, con i panini che ci eravamo portati, bevemmo mezza bottiglia di coca cola, poi ritornammo

subito a letto per un secondo round, di piacevoli momenti di passione e serenità.

Alle ore 17:00 arrivò Kaled, in giacca e cravatta, per recitare la parte dell’esperto d’armi e fare una

verifica di qualità delle mitragliatrici e dei proiettili. Si presentò con il suo vero nome, non avevamo

avuto il tempo di preparare un’identità di copertura.

Kaled:< Piacere, sono Kaled Irragi, mi avete chiamato per una consulenza tecnica. Buon

pomeriggio Mister Brown.>

Ryo: < Buon pomeriggio Dottor Irragi, le presento l’Architetto Irina Shevcenko, io oggi sono solo

un intermediario>

Irina: < Piacere di conoscerla Dottor Irragi, in quei bancali ci sono armi e munizioni, può vedere in

che condizioni sono?>

Kaled: < Certamente, sono qui per questo, me ne occupo subito.>

Kaled si tolse la giacca e la posò su una sedia, che avvicinò al bancale delle armi, aprì una scatola

allungata plastificata rigida, e uscì il mitra AK-52, era un’arma modificata e potenziata, non troppo

precisa, ma molto potente. L’errore fu subito trovato, l’arma era stata progettata come un normale

AK-47, poi in seguito maggiorata per un calibro più grande, ma le parti originali, non potevano

resistere a lungo, le pareti erano troppo sottili, si surriscaldavano e poi inevitabilmente esplodevano

Page 63: Scritto da: Aurelio Alfio Alberto Abate Nel periodo Marzo ...

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in faccia a chi utilizzava l’arma. I processi per sistemare l’arma erano 2, o si depotenziava per farla

ridiventare un normale AK-47, oppure sostituire le parti inadeguate con parti fatte su misura, per

resistere ad oltranza. Se si depotenziavano, si poteva recuperare il 70% del prezzo d’acquisto, se

invece si interveniva modificando l’arma, si poteva avere un guadagno del 55% sulla spesa iniziale.

Valutammo con Irina che la seconda opzione era più interessante sia in termini di guadagno e sia in

termini di appetibilità per i clienti. Per quando riguardavano i proiettili, andavano bene così, non

avevano bisogno di accorgimenti.

Kaled disse che per essere modificate le armi, dovevano essere portate nella sua fabbrica, quindi

domani mattina sarebbero passati gli operari per recuperare il materiale, tutto in maniera rapida e

discreta. Il costo per il trasporto era 2000€, la rettifica delle armi costava 25000 €. A quelle cifre

Irina si sentì morire, non aveva tutti quei soldi a disposizione, ma le dissi che mi sarei occupato io

della cosa. Kaled si rimise la giacca, salutò e se ne andò, lasciandoci da soli. Dovevamo stare lì fino

a domani mattina e sapevamo come passare il tempo, non c’era altro da fare, ed era un sacrificio che

facevamo entrambi volentieri.

Solo verso le ore 20:00 ci accorgemmo che stavamo morendo dalla fame. Allora uscimmo dalla

casa e percorremmo le stradiene, stretti ancora mano nella mano, come due veri innamorati, i nostri

corpi si chiamavano a vicenda e nessuno dei due si tratteneva da fare effusioni in pubblico.

Cenammo in un localino, a gestione familiare, c’era poca gente, e fummo serviti quasi subito, io ero

affamatissimo e presi doppia razione di bistecche e in salata di ravanelli e carote, Irina invece volle

una pizza alla napoletana con le acciughe, che mi sembrava leggermente fuori luogo, ma avevano il

forno a legna e il cuoco parlava con un vago accento italiano, quindi lasciai correre. Da bere non

c’era molta scelta, prendemmo due boccali da mezzo litro di birra bionda alla spina, per fare

scendere tutta quella quantità di roba. Per digerire passeggiammo per più di un’ora avanti e indietro

nella “croce” di Kiev, ma entrambi sapevamo che era solo un riscaldamento per la notte che doveva

seguire.

Giorno 19 Maggio, era un Mercoledì diverso dal solito, mi svegliai abbracciato ad Irina, mi sciolsi

da quel corpo troppo bello per essere vero, mi alzai e mi vestii, uscii e andai a prendere la colazione

per me e per Irina, avevamo bisogno di reintegrare l’energie sprecate durante la notte. Ritornai alla

casa, e trovai Irina sveglia davanti la porta.

Irina: < Dove sei stato? Mi sono svegliata e non ti ho trovato, mi hai messo in ansia!!!>

Ryo: < Ero andato a prendere la colazione, speravo di trovarti ancora addormentata quando sarei

tornato, mi dispiace. Sono le otto, fra mezzora arrivano gl’operai, mangiamo e poi sbrigati a vestirti,

sono geloso del tuo panorama, non voglio che quei tizzi si facciano strane idee.>

Alle 08:30 Arrivarono gli operai, che in realtà erano le guardie del Conte di Arges, veloci e

silenziosi, caricarono i bancali sul camion e poi sparirono, discretamente come erano arrivati.

Chiudemmo il deposito, fuori ci aspettava Mike con la macchina con il motore acceso, salimmo e

uscimmo dal quartiere, imboccammo la strada principale verso Leopoli. Arrivammo sotto casa

d’Irina verso mezzogiorno, lei mi salutò con un bacio sulla guancia e uscì dalla macchina per poi

entrare nel suo portone.

Mike mi portò alla scuola, dove il camion con le armi era già stato scaricato. Dentro trovai Kaled a

montare dei macchinari per la modifica delle armi, ormai la Squadra Arges camminava da sola, i

suoi componenti sapevano quello che dovevano fare e lo facevano bene, io ero fiero di loro.

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CAPITOLO 30

Cattura la Talpa

Erano passati 4 giorni preziosissimi, Era il 24 Maggio, e ancora Kaled non aveva finito con la

modifica delle armi, era un lavoro lungo e noioso, senza materiali tecnici avanzati, l’avevo messo in

conto, ma stringevano i tempi per la fase 2, che consisteva nell’usare Irina come esca e le armi

come incentivo, per attirare Carl in trappola, erano sicuramente due cose importanti per lui, ed ero

sicuro che non fosse uscito dal paese, aveva troppo da perdere, chi l’aveva assoldato sicuramente

non aveva gradito la perdita del tesoro dei Poenari, e quelle armi potevano essere il ramoscello

d’ulivo per riappacificare le cose.

Nel frattempo, mi godevo la compagnia di Irina, e la istruivo inconsapevolmente, cosa doveva fare

nel caso il fratello avesse chiamato, cioè dirgli che aveva trovato un socio che aveva fatto sistemare

a sue spese le armi, che erano pronte per essere vendute, mancava solo il suo contatto per

completare il lavoro. Questo avvenne quella notte, alle 02:14, il cellulare di Irina suonò

all’improvviso, facendo svegliare di colpo lei e me che dormivo a casa sua quella notte.

Carl: < Irina, sono Carl, cosa stai combinando con le armi? Mi hanno riferito che ci sono stati

movimenti strani al deposito, un furgone e delle persone che caricavano del materiale. Hai trovato

un compratore?>

Irina: < Carl!!! Dove cazzo sei finito??? Mi hai lasciato nella merda, e ora mi chiami alle 2 di notte

per chiedere spiegazioni di quello che io faccio, sei solo uno stronzo egoista!!!>

Carl: < Si scusami, ma sono nei guai, ci sono persone che mi stanno cercando, e non per farmi

carezze. Allora cosa succede?>

Irina: < Succede che ho trovato un socio in affari, che sta provvedendo ad aggiustare le armi a sue

spese, con quello che ci ricaviamo ci rifaremo del costo dell’acquisto con i Kazachi e faremo felici i

tuoi fottuti amici nazisti.>

Carl: < Chi sarebbe questo socio? Come hai fatto a trovarlo? Gente che traffica in queste cose, non

li trovi al supermercato.>

Irina: < Questi sono affari miei, non ti devo dare nessuna spiegazione, i soldi sono i miei e sono io

che rischio, non sono tutti come te che scappano al primo imprevisto. Voglio il tuo contatto per

completare la vendita. Dove ci vediamo?>

S’interruppe la chiamata improvvisamente, pensai che Irina avesse esagerato con gl’insulti e Carl si

era spazientito. Invece si sentì il rumore della porta d’ingresso della casa, qualcuno la stava aprendo

con le chiavi, e quel qualcuno vista l’ora e la chiamata, poteva essere solo Carl. Io ero in mutande e

non prevedevo visite in quel posto, doveva essere disperato per fare una mossa del genere. Feci

segno ad Irina di andare a vedere, mentre io mi andavo a nascondere dietro la porta della stanza da

letto. Era Carl, chiuse la porta e parlò a bassa voce con Irina, quasi sussurrando, io non potevo

sentire da lì. Le voci si spostarono nella cucina e si sentì il frigorifero aprirsi, qualcuno stappò una

bottiglia di birra e mangiò i resti della cena della sera prima, era un animale braccato e affamato. Mi

misi dietro lo stipite della porta della cucina, per sentire meglio, parlavano in ucraino, ma ormai ci

stavo prendendo la mano. Lui mi dava le spalle ed Irina mi rivolgeva il suo profilo sinistro, cercava

di farlo calmare con le parole, ma non era semplice.

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Feci la mia mossa, con un balzo uscii dal mio nascondiglio e lo presi alle spalle, gli cinsi il mio

braccio attorno al collo e iniziai a stringere forte, sempre più forte, lui si dimenava, ma non riusciva

a parlare, riuscì ad afferrare la forchetta dal tavolo e me la piantò sul mio avambraccio sinistro, fece

molto male non mollai la presa, continuai a stringere, fino a quando il suo corpo non cedette a corpo

morto, ma non era morto, l’avevo fatto svenire, togliendogli l’afflusso di ossigeno al cervello. Una

volta a terra, gli legai le mani con la corda delle persiane, poi gli tolsi la pistola che aveva nascosta

sotto il giubbotto. Poi guardai Irina, per fortuna non aveva urlato, ma non capiva cosa stava

succedendo, l’uomo con cui era stato a letto poco fa, ora aveva messo KO suo fratello. Guardai il

mio braccio ed estrassi la forchetta e si mise fluire del sangue, ma non aveva preso l’arteria

brachiale, quindi non rischiavo un emorragia.

Ryo: < Irina hai un kit del pronto soccorso? Sono ferito>

Irina: < Ma cosa succede? Non capisco, non capisco niente.>

Ryo: < Irina ora ti spiego, ma prendi il kit per favore, perdo sangue>.

Lei uscì dalla stanza, andò in bagno e prese una scatoletta che portò in cucina e me la diede. Io mi

misi a medicare la ferita, disinfettante, garze per pulire la ferita, altre garze imbevute nello iodio,

poi dello scotch per stringere e saldare il tutto. Poi presi il corpo di Carl e lo trascinai nel salottino

deliziosamente arredato, e lo misi sdraiato sul divano, in attesa che riprendesse i sensi lo

imbavagliai. Chiamai Mike per informare la squadra dell’accaduto, sarebbero arrivati lì in 5 minuti.

Ora toccava la cosa più difficile fare ragionare Irina.

Ryo: < Irina siediti, dobbiamo parlare, c’e poco tempo prima che arrivino i miei uomini. Non ti ho

detto tutta la verità. È vero che sono un esperto d’arte, lavoro per una grossa ditta internazionale,

Carl fino a qualche giorno fa era un mio collega, ma ha fatto delle cazzate colossali ed è nei guai, si

è messo con la concorrenza e ha rubato un oggetto di valore inestimabile, io voglio trovare

quell’oggetto e portarlo al legittimo proprietario, l’unico a sapere dove si trova è proprio tuo

fratello, hai capito bene come stanno le cose?>

Irina: < Ma allora era tutto falso?! Tu mi hai raggirato, per i tuoi interessi!!! Mi hai preso per una

stupida buttana da sedurre e hai portato a termine il tuo piano, BASTARDO!!!> Indicando Carl.

Ryo: < Il piano è iniziato così, ma poi è diventato qualcosa di più importante, non mischio mai

lavoro con i sentimenti, ma questa volta è successo, e mi dispiace a morte averti mentito.

Comunque se non c’ero io qui oggi, ci sarebbe stato qualcun altro a dare la caccia a tuo fratello, e

non in mutande come me ora. Killer spietati, senza scrupoli, credimi almeno su questo. Ora

vestiamoci che dobbiamo andare via.>

Ci vestimmo alla meno peggio, dopo pochi minuti arrivò la squadra Arges, presero Carl ancora

mezzo svenuto e lo misero dentro il furgone e lo portarono via. Io e Irina ci mettemmo in macchina,

ma non seguimmo il percorso per la scuola, l’accompagnai ad un Hotel in centro, gli dissi che era

pericoloso per lei stare a casa, dovevamo pulire la scena di ogni traccia prima che sorgesse il sole.

Suo fratello era in nostra custodia, finche la corona non tornava in nostro possesso, era ovvio

sottolinearle, che non doveva andare alla polizia, o comunicare quello che era successo a qualcuno,

poteva mettere in pericolo la sua vita e quella del fratello. Me ne andai senza salutare, mi sembrava

un gesto inutile in questo momento.

In questo momento volevo solo tornare alla scuola, per poter giocare a guardie e ladri con Carl.

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PARTE VI

San Pietroburgo

CAPITOLO 30

Labirinti mentali

La notte tra il 24 e il 25 Maggio, fu davvero intensa. Mike e due guardie, tornarono a casa d’Irina,

c’erano segni di colluttazione violenta, sangue sparso nella cucina, sul tavolo c’era un kit del pronto

soccorso svaligiato dei suoi prodotti, se qualcuno fosse entrato, avrebbe chiamato di certo la polizia,

non trovando Irina a casa. Quindi ci fu opera di pulizia meticolosa, in cucina, ma anche nel salottino

e nella stanza da letto, luoghi dove c’era parecchio materiale biologico con inciso il mio DNA,

misero lenzuola e federe nuove e quelle usate le portano via. Chiunque fosse entrato, pensava che

era tutto nella norma e che la padrona di casa era fuori per lavoro.

Kaled e una guardia erano alla scuola, perché si doveva ancora completare l’opera di

riqualificazione delle mitragliatrici, lasciarle parzialmente finite non andava bene, e io ero un

perfezionista. Io ero nella stanza della logistica insieme al mio amicone Carl Shevcenko, seduto in

una sedia bello legato, gli avevo tolto il bavaglio, tanto aveva voglia di urlare, non l’avrebbe sentito

nessuno. Presi il coltello da sub con lama da 20 centimetri e guardai l’orologio, erano le 5 del

mattino, orario in cui di norma mi sarei alzato, invece ancora avrei dovuto aspettare tante ore prima

di andarmi a riposare. Carl vide tutto il mio rituale, sapeva che non era la prima volta che facevo un

interrogatorio, sapeva della mia piccola inquisizione con il Conte nei scantinati di palazzo Poenari,

ma non aveva idea di cosa avessi fatto ad Arges, quindi aveva una paura moderata, non una paura

fottuta, ma le cose cambiano in fretta.

Ryo: < Carl, hai fatto troppe cazzate, dovevi rimanere a fare i grafici a Firenze, quello è il tuo

lavoro, non è di certo fare la talpa per una setta che adora l’oscurità, non so come ti abbiano scelto,

ma poco importa ormai siamo qua, ora dirò le mie parole magiche, quindi cerca di prestare la

massima attenzione. “ Io sono Ryo Ungeziefer, sono l’Inquisitore, sono qui per giudicare il tuo

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passato e decidere il tuo futuro ” Ti porrò alcune domande ti prego di essere sincero e di non farmi

perdere tempo. 1) Chi sono i nazisti che vogliono le mitragliatrici e come possiamo concludere

l’affare? 2) Chi sono i Temhota e cosa vogliono? 3) Dove si trova la Corona del Drago?>

Carl: < Non ti di dico un cazzo Ryo, non mi fai paura, ho molta più paura delle tre cose che mi hai

nominato. Che ci facevi in mutande a casa di Irina alle 02:00 del mattino, come sei entrato?>

Ryo: < Carl forse non ci capiamo, sono io a fare le domande non tu. Per tua informazione io e Irina

siamo amanti, ed è stato un caso che io mi trovassi lì stanotte, infatti non avevo neanche un’arma,

ho dovuto improvvisare.>

Carl: < Tu e Irina? Ma come vi siete conosciuti?... ah già scusa non devo fare domande.>

Ryo: < Cercavo te e ho trovato lei, lei mi ha portato a te, e ora tu mi porterai a chiudere i miei

affari.>

Presi il mio coltello e lo poggiai sulla sua gola, poi piano piano, scesi e incominciai ad incidergli il

petto con la punta della lama, superficialmente, ma abbastanza da fare uscire il sangue e impregnare

la sua camicia. Lui capì che facevo sul serio e cambiò atteggiamento, poi iniziò a cantare come uno

stormo di canarini, in queste occasioni avevo questo effetto su i miei compagni di giochi.

Carl: < Ehm, per l’affare delle mitragliatrici, c’è questo gruppo paramilitare, che ha soldi da

spendere, gli mancavano le armi per fare danno, io so parlare Kazaco tra le tante lingue, e la

Temhota, mi chiamò per fare da interprete, la stessa cosa che ho fatto per te in Romania, solo che ho

voluto fare il passo più lungo della gamba e ho investito tutti i soldi di mia sorella, per comprare i

bancali d’armi e munizioni, e fare il prezzo che volevo, senza intermediari. La cosa mi è sfuggita

ampiamente dalle mani, perché i Kazachi mi hanno dato quelle armi difettose e non sono riuscito a

concludere l’affare>

Ryo: < Bene, Kaled sta finendo di aggiustare le armi, possiamo concludere l’affare, mi devi solo

dare il contatto. Così tua sorella riavrà i suoi soldi. Per lei io mi chiamo Jeremy Brown, ho usato un

falso nome. Per le altre cose cosa mi sai dire?> Girando per la tenda sempre con il coltello in mano

Carl: < I paramilitari sono svedesi, ma si trovano a San Pietroburgo, hanno una base operativa lì, ho

il numero nella rubrica del mio cellulare, che è nella giacca. Per i Temhota è più complesso, è una

setta antica, con uno stretto regolamento e una gerarchia ben precisa, si entra solo per

consanguineità, mio padre era uno di loro e ha iniziato il suo figlio maschio, hanno loro la Corona

del Drago, sono avidi di oggetti sacri, soprattutto se sono d’appartenenza agl’Illuminati, per loro

sono come i trofei di caccia, ne fanno sfoggio, me dimostrare il loro potere e sminuire i nemici.

Sicuramente i nazisti svedesi ne sapranno più di me.>

Ryo: < Ok, per ora resti lì, quando si farà giorno, ti farò chiamare loro, per concludere l’affare, non

fare scherzi, non voglio che la mia futura moglie sia triste per la perdita del fratello.>

E con quella frase ad effetto uscii dalla tenda e ordinai alla guardia di stare attento al prigioniero.

Passai da Kaled per dargli una mano, nel frattempo il resto della squadra Arges tornava alla base.

Mi fecero rapporto sulla sistemazione di casa d’Irina. Dissi a Dimitri una delle Guardie di andare

all’hotel dove stava Irina per controllare che non facesse cazzate. Con gli altri, aspettai che si

facessero le 9 del mattino, per fargli fare la chiamata a Carl. Digitai il numero della rubrica, feci

partire la chiamata e misi il vivavoce, si senti il cellulare squillare, solo all’ottavo squillo, si aprì la

conversazione.

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Zlatan: < Ehi bastardo!!! Alla fine ti sei fatto sentire, stavamo pensando di venirti a cercare, ma

dove sei finito? Qui siamo a secco di ferraglia ammazza sbirri!!!>

Carl: < Ciao Zlatan, anche a me fa piacere risentirti, sono stato parecchio impegnato. Ora sono

libero e disponibile, possiamo completare il lavoro con i mitra???>

Zlatan: < So che le armi sono al tuo paese, ma non ci vogliamo spostare, se li porti qui da noi, affare

fatto>

Carl: < Per il prezzo rimaniamo 110000€ per i mitra modificati e 40000€ per i proiettili speciali.

150000€ in totale, me lo confermi?>

Zlatan: < Noi avere tanti soldi, no problema, tu venire da noi, e noi pagare. Quando puoi venire

qui?>

Carl:< Fra due giorni, Mercoledì 27, vengo alla vostra base e facciamo lo scambio. OK?>

Zlatan: < Sta bene, mi raccomando non sparire di nuovo.>

La chiamata era andata a buon fine, ora si presentavano due problemi, trasportare le armi in Russia,

e cosa farne di Carl. Lui capì i sguardi e ricominciò a parlare.

Carl: < Ragazzi, so cosa state pensando, ma io vi servo, ho conoscenze al confine per passare la

dogana, e i nazisti non si fidano degli estranei, se vedono solo voi, vi uccidono prima di entrare. In

qualche modo avevo fatto un piano per questo lavoro, lo devo solo sistemare a causa dei ritardi, ce

la possiamo fare, ma insieme. Ora la decisione spetta a voi.>

Uscimmo tutti dalla tenda della logistica e ne discutemmo. La soluzione di ucciderlo era la più

gettonata, anche da me, ma effettivamente ci serviva, lui aveva già un piano pronto, noi no. Quindi

per votazione unanime, decidemmo di lasciarlo vivo fino alla scadenza di questa missione, poi

sarebbe diventato mangime per galline o cose simili.

Completammo le modifiche alle mitragliatrici, mettemmo tutto sul camion, comprese le munizioni.

Sul camion sarebbero andati Mike e 2 guardie. Nel furgone Kaled, Carl e Dimitri. Io sarei andato in

macchina con Irina, sempre se riuscivo a convincerla. Ma prima di lasciare la scuola per sempre, si

doveva portare l’elicottero in Romania, non si poteva lasciare lì, quindi Mike si dovette fare una

bella passeggiata con andata veloce e ritorno lento, con i mezzi pubblici.

Andai a trovare Irina, era un giorno, che stava in hotel aspettando una mia chiamata. Subito mi

chiese come stava Carl e cosa gli sarebbe successo. Gli risposi che stava bene, e che l’affare con i

nazisti si faceva, mercoledì in Russia, e lei doveva venire con noi, in fondo era sempre lei quella

che c’aveva messo i soldi ed era un suo diritto, vedere come andava a finire. In realtà la portavo con

me, perché come io ero arrivato a lei, lo potevano fare i nostri nemici, quindi era escluso che

restasse a Leopoli, mi sentivo più al sicuro, se stava al mio fianco.

La partenza fu il martedì mattina, c’era molta strada e non stavamo portando propriamente

cioccolatini. Incredibilmente, il percorso fu lineare e senza problemi, passammo la dogana in

maniera tranquilla. Arrivammo a San Pietroburgo a notte fonda, era meglio così. Ci appoggiammo

per la notte in un Camping semideserto che conosceva Carl, nessuno fece domande, meglio così.

Controllammo il piano, mentre Carl rispiegava, come era strutturata la base e quanti uomini erano

presenti all’interno. Troppo per soli 6 operativi.

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CAPITOLO 32

La Venezia del Nord

San Pietroburgo è considerata uno dei più grandi centri economici, culturali e scientifici della

Russia, dell’Europa e di tutto il mondo. I complessi architettonici monumentali, le corti

meravigliose, i magnifici parchi, i musei unici nel loro genere, tutto questo suscita un grande

interesse. Si viene da ogni parte del nostro pianeta per capire e sentire la magica atmosfera della

Venezia del Nord, respirare l’aria di questa regione misteriosa pervasa dalla nebbia della Neva. La

città di San Pietroburgo fu costruita nel 1703 dall’Imperatore Pietro il Grande come un “finestra

sull’Occidente”. Oggi è una città che rappresenta un meraviglioso connubio tra culture e tradizioni

russe ed europee, il nome di “Capitale Culturale” è forse il nome più popolare di questa città.

Nonostante sia una città giovane, è riuscita in breve tempo a diventare un vero tesoro della cultura

mondiale. Per tre secoli, qui ebbero luogo avvenimenti importanti, come riforme e intrighi statali,

colpi di stato, saliscendi della fortuna del popolo, importantissime scoperte ed invenzioni

scientifiche. San Pietroburgo è senza dubbio una città unica, con il suo destino particolare, con la

sua atmosfera non replicabile, è impossibile rimanerci indifferente.

In questa atmosfera così particolare si aprì il Mercoledì 27 Maggio. Con la squadra alle sue

postazioni, pronte per agire. La base dei nazisti svedesi, si trovava poco fuori la città, comprendeva

un intero isolato, c’erano più ingressi, c’erano più edifici, c’erano molti soldati, almeno una ventina.

All’incontrò andarono solo Carl e Irina, nel furgone c’erano 100 mitra anziché 110, e solo 20

caricatori per testare le armi, il resto, in teoria ad affare ultimato. Fecero entrare il furgone

dall’ingresso principale e lo fecero parcheggiare a circa 5 metri da un edificio basso e rettangolare.

Io ero appostato sul palazzo più alto e vicino alla base operativa, in modalità cecchino, non potevo

andare a presentarmi lì senza alcun motivo e con la mia faccia da mezzo cinese.

Scesero dalla macchina e gli vennero incontro tre uomini, due energumeni pelati e tatuati, e un

biondo con il mento volitivo, volle vedere le armi, ne prese una e la caricò, poi andò in una zona un

po’ più isolata, premette il grilletto e ci furono due scariche di proiettili che si abbatterono un muro

di cemento armato, il muro era completamente spappolato dai colpi, il biondo sorrise e disse

qualcosa a uno dei due pelati, che andò a prendere una valigia, l’aprì davanti a Carl e Irina e gliela

diede. Poi l’altro pelato, chiamò altri uomini per lo scarico delle armi. In questo momento entravo

in gioco io, era il mio turno, nello spiazzale avevo il maggior numero di bersagli possibile, mentre

Carl e Irina dovevano rendere innocuo Zlatan e aprire il cancello principale in modo tale da fare

entrare la squadra Arges con i mitra d’assalto.

Primo colpo, primo centro alla tempia del pelato numero 1, il secondo colpo prese in fronte il

secondo pelato. Zlatan per istinto si abbassò e in quel moneto Carl si avvicinò da dietro e gli fece

una iniezione paralizzante. Una volta messi a tacere i membri più pericolosi, toccò ai soldati che

stavano scaricando le armi, non ebbero il tempo di caricarle e usarle, gli sparai ad uno ad uno, senza

che loro capissero da dove provenivano i colpi. Ne stesi cinque, e spianai la strada per Carl e Irina

per arrivare all’ingresso e aprire il cancello principale. Una volta aperto il cancello, Mike entrò con

il furgone, e subito dopo uscirono dal retro Kaled e le tre Guardie del Conte, che iniziarono a

sparare a raffica, falciando tutto quello che si muoveva, altri 8 soldati erano morti, in totale 15 più

Zlatan immobilizzato a terra. Mancavano circa altre 5 persone secondo la nostra stima, queste si

trovavano dentro gli edifici, e dalla mia postazione non li potevo aiutare. Allora lasciai il fucile di

precisione, imbracciai il mitra, inoltre avevo la Beretta all’ascella, e il coltello da sub allacciato alla

coscia. Scesi tutte le rampe delle scale del palazzo, uscii dal portone, attraversai la strada ed entrai

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dal cancello principale della base operativa. Il piazzale era libero, vidi che Carl e Irina, chiusero

l’ingresso per non fare scappare nessuno, poi trascinarono Zlatan all’interno del furgone e ci

restarono, il loro compito era finito. Io raggiunsi la Squadra Arges ed entrammo nel primo edificio,

quello basso, qui subito ci furono colpi di pistola, che arrivarono alla nostra posizione da due

angolazioni diverse. Kaled si mise a destra della porta e io a sinistra, mentre Mike sfondò la porta

con un calcio poderoso, e iniziammo a sparare a tempesta, i proiettili ebbero un effetto devastante,

ogni cosa si disintegrava, muri, finestre, armadi, tavoli, sedie, non veniva risparmiato niente. Niente

di umano poteva sopravvivere ad una simile potenza di fuoco, con prudenza avanzammo, e

trovammo due corpi squartati dai colpi, neanche le madri li avrebbero potuti riconoscere. Liberato il

primo ambiente, restava il secondo che era più grande e con più insidie.

Il secondo edificio era un grosso casermone, molto vecchio, con un sacco di macchinari che molti

decenni fa servivano per lavorazione del metallo, ma ora corrosi e impolverati. Prestai attenzione ai

rumori, si sentivano dei rumori provenienti dalla fine del corridoio, lì c’era una stanza verniciata di

fresco, probabilmente l’ultimo capannello di soldati. Al nostro avvicinarsi, ci lanciarono una

granata, noi facemmo appena in tempo a metterci al riparo dietro un grosso macchinario tutto fatto

di grasso bisunto. La detonazione in quel ambiente chiuso fu forte, ma non colpì nessuno di noi, che

uscimmo dal rifugio momentaneo e avanzammo lungo radente il finale del corridoio. Arrivati a

distanza di tiro, aprimmo il fuoco con raffiche poderose, pezzi di schegge volavano in cielo, l’aria si

riempì di fumo e di polvere da sparo, poi fermai il fuoco e gl’altri fecero lo stesso, gli dissi di stare

allerta, mentre io poggiavo l’AK-52 a terra e prendevo in mano la pistola.

Arrivai all’ingresso della stanza, diedi un rapido sguardo dentro, c’era un uomo a terra che teneva

ancora la sua pistola in mano, mi avvicinai a lui, e gli tastai il polso, era morto. C’era ancora una

stanzetta, più piccola, avvicinandomi notai che era un bagno, qui ancora qualcuno vivo ci poteva

essere. Sentii un urlo e mi fermai.

Soldato: < Non sparateci, non sparateci, ci arrendiamo, ci arrendiamo!!! Stiamo uscendo

disarmati!!!>

Lentamente due uomini, tutti ricoperti di polvere, uscirono dal bagno con le mani alzate, gli occhi

erano gonfi, e dalle orecchie usciva sangue, ma non fu quello a raccogliere la mia attenzione,

l’uomo a sinistra, quello che probabilmente aveva urlato poco prima, aveva un giubbotto troppo

grande per la sua forma fisica, aveva un giubbotto stile Kamikaze, dovevo essere scaltro, dovevo

agire prima che loro capissero che io avevo capito. In una frazione di secondo, sparai all’uomo di

destra con la mia pistola nella mano destra, lo presi al cuore, con la mano sinistra estrassi il coltello

e lo lanciai all’uomo di sinistra, lo colpii al collo, recidendogli la colonna vertebrale, cadde di

schianto e non si mosse più. Avevo agito in quel modo, perché se avessero azionato la bomba non ci

sarebbe stato scampo, inoltre avevo usato il coltello perché non sapevo l’esatta forma del giubbotto

armato, uno sparo poteva innescare una esplosione lo stesso.

Ripresi il mio coltello e lo andai a pulire nel bagno. Poi dissi alla squadra di fare un giro di

ricognizione, se c’eravamo scordati qualcuno nascosto. Fatto ciò, dividemmo nei mezzi, un paio nel

camion e il resto nel furgone, aprimmo il cancello principale e scappammo via, prima che la polizia

arrivasse e che le persone curiose si affollassero, a causa delle esplosioni.

Ritornati al camping, portammo tutto, uomini, armi e munizioni, dentro il bungalow. Ci demmo una

sistemata, e io preparai all’ennesimo interrogatorio.

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CAPITOLO 33

I frutti del lavoro

A pranzo non mangiò nessuno, l’adrenalina era ancora a mille, eravamo ancora intontiti dalle

raffiche di mitra e dalla bomba a mano che ci avevano lanciato. Feci un breve riepilogo a voce alta

per tutta la squadra.

Ryo: < Mi sembra che nessuno di voi sia ferito gravemente, solo qualche graffio. Abbiamo riportato

indietro tutte le armi, che si sono rivelate molto più che efficaci e sicure. La maggior parte dei

proiettili sono qui, mancano solo quelli sparati stamattina. Abbiamo sgominato una banda criminale

nazista in un operazione lampo, morti una ventina di soldati. Ho lasciato il fucile di precisione sul

tetto, non facevo in tempo ad andarlo a riprendere, e comunque non ho lasciato impronte ne oggetti

da cui si può prelevare il DNA. Abbiamo i soldi, 150000 €, che andranno ad Irina, cioè colei che ha

fatto l’investimento iniziale. Abbiamo Zlatan, ci faremo raccontare, le storie sulla setta Temhota e

dove si trova la Corona del Drago>

Irina: < Ma si può sapere di che parlate?...corone…sette…ma siete pazzi?>

Carl: < Jeremy, non è qui solo per i soldi dei mitra, per lui è solo un passaggio per arrivare ad altro.

Io faccio parte di questa setta e anche papà ne faceva parte. Crediamo che siano loro ad avere un

oggetto antico prezioso e potente, la Corona del Drago. È stata rubata, da questi nazisti e in cambio

gli avevano dato una base operativa, gli mancavano solo le armi, per fare danni ingenti>

Irina: < Me lo dici solo ora? Carl, sei la persona più inaffidabile che io conosca>

Ryo: < Bene, chiarita la cosa, io mi dedico al nostro ospite, voi siete liberi di riposare>

Andai nell’altra stanza, dove c’era Zlatan ancora paralizzato, era disteso su di un letto, era troppo

rigido per stare su una sedia. I suoi occhi erano vigili, e seguivano i miei movimenti. Preparai un

farmaco, per farlo sciogliere, se no, non mi avrebbe potuto rispondere neanche volendo. Aspettai

che il medicinale facesse effetto, poi vedendo la sua nuova mobilità, gli legai le mani dietro la

schiena e lo sedetti su una vecchia poltrona. Fatto questo recitai la mia Filastrocca della Morte.

Ryo: < “ Io sono Ryo Ungeziefer, sono l’Inquisitore, sono qui per giudicare il tuo passato e decidere

il tuo futuro ”. Ora ti porrò delle domande, ti prego di rispondermi con la massima sincerità e senza

farmi perdere tempo. 1) Ci sono altri gruppi come voi in giro? 2) Che rapporti avete con la setta

Temhota? 3) Dove si trova la Corona del Drago?>

Zlatan: < Noi siamo tanti, siamo dovunque, nessuno ci può fermare, noi siamo la razza

superiore!!!>

Ryo: < Nessuno vi può fermare? Ma se vi abbiamo sterminati in pochi minuti? Devi essere più

realista caro mio.>

Zlatan: < Non ho paura di morire, non ho paura della tua lama. Se uccidi me la setta ti verrà a

cercare, e ti toglieranno l’anima, ti renderanno uno zombi a loro servizio, che è peggio della

morte.>

Gli piantai il coltello nella coscia e iniziai a girarlo lentamente, senza togliergli gl’occhi di dosso.

Zlatan: < Aaaaaaaa, maledetto bastardo cinese!!! Devi morire!!! Non ti dico niente!!!>

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Ripresi il coltello estraendolo dalla gamba, girai dietro la poltrona, gli presi la mano sinistra, lui

cercò di divincolarsi, ma non poteva fare niente, gli tagliai il pollice sinistro, tutto in un colpo. Lui

urlò e urlò tantissimo, finche non ebbe più il fiato per fare il valoroso, diventò più mansueto. Aveva

capito che quella stanza era dove sarebbe morto, ma ora c’era la paura nei suoi occhi, la paura

dell’estrema sofferenza.

Zlatan: < Cazzo vuoi da me? Perché non mi uccidi e la fai finita? No tu sei un sadico, ne ho vista

gente come te, vive per questi momenti, sparare con un mitra non ti da alcun piacere, devi sentire il

dolore delle persone per sentirti vivo.>

Gli strappai la camicia, lasciandolo a torso nudo, dopo di che, incisi la sua pelle con il coltello,

partii dalla scapola sinistra in alto, e andai verso destra, fino all’altra spalla, poi andai a scendere,

creando due lati di un quadrato, presi il vertice di pelle in alto a destra, iniziai a tirare, iniziai a

scuoiarlo vivo.

Zlatan: < Basta!!!Basta ti supplico!!! Ti dirò tutto quello che vuoi, ma ti scongiuro, FERMATI!!!>

Ryo: < Tu rispondi a quello che ti ho chiesto e avrai una morte rapida, se non lo farai e lo spero,

continuerò a spellarti ogni singola parte del tuo corpo.>

Zlatan: < Io sono un pesce piccolo, la mia squadra faceva dei lavoretti, per la setta, e loro ci davano

delle ricompense. Tempo fa ci chiesero di portare degl’oggetti di valore, da un nascondiglio, alla

nostra base operativa. Non è mai arrivato niente. È arrivata solo quella maledettissima corona del

diavolo. Vennero a prenderla due uomini della setta, miei conterranei, doveva servire per un rito

pagano, o qualcosa di simile. Loro hanno il potere, loro hanno la magia.>

Ryo: < Ultima domanda e ti lascio andare …. per sempre. Come si chiamavano quelle due persone

e dove li trovo?>

Zlatan: < Evert Folke e Eskil Håkan, sono di Norrlångträsk, in Svezia.>

Detto questo, andai dietro di lui e continuai a strappargli la pelle, completai gli altri due lati del mio

quadrato di pelle e la tolsi dal corpo, lo portai in bagno e lo pulii dalle sbavature, poi presi un

attaccapanni e lo stesi come se fosse una maglietta uscita dalla lavatrice. Tornai da Zlatan ormai

incosciente, svenuto dall’immenso dolore, gli piantai una coltellata al cuore e la feci finita. Presi

una coperta e avvolsi il corpo, lo portai nella stanza principale e dissi a Kaled di sbarazzarsene, e

così lui fece. Io tornai nella mia stanza a conciare la mia nuova pelle.

Irina non aveva sentito le urla di Zlatan, Carl sapeva quello che avrei fatto e la portò via a fare una

passeggiata, gli spiegò a suo modo la situazione e come si doveva comportare. Tornati al bungalow,

la situazione sembrava tranquilla, eravamo intenti a mangiare e a guardare la tv, come un gruppo di

amici, a cui piace stare insieme e a ingurgitare porcherie e bere birra. Io vidi lo sguardo di Irina e gli

andai a parlare.

Ryo: < Come va? Lo so giornata tremenda, inutile dirlo, ancora non so come sono arrivato a fare

questo, non ci sono scuole che ti preparano. Operatore Sanitario, poi Esperto d’Arte, poi cacciatore

di tesori…>

Irina: < Jeremy, smettila di dirmi cazzate, mi bastano quelle dio mio fratello. Ti devo dire una cosa

e non so come la prenderai. Sono Incinta!!!>

Io non seppi dire niente, per me era una cosa non contemplata. Mi avvicinai e la strinsi forte.

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CAPITOLO 34

Comunicazione

Erano successe tante cose, belle, brutte e altre che non riuscivo a definire. Ormai ero andato troppo

avanti per tornare indietro, avevo sterminato una banda di nazisti, che erano servitori di una setta

oscura. Non potevamo più lavorare solo in attacco, utilizzando l’effetto sorpresa, ci conoscevano e

ci volevano eliminare, eravamo una minaccia in crescita costante, uccidevamo i loro uomini, gli

toglievamo i tesori, e minacciavamo il loro potere supremo, la Paura.

Iniziai a fare chiamate e a prendere contatti, avevo bisogno dell’aiuto di tutti, non potevo farcela da

solo, c’era troppa differenza tra gli Illuminati e la Temhota. La prima chiamata fu per il Commenda,

gli feci un riassunto di tutto quello che era successo, ovviamente a modo mio, tralasciando alcuni

particolari che era meglio lasciare segreti. Lui mi diede ampio appoggio alle mie idee, non si poteva

combattere il più grande Male a livello mondiale, solo con un mitra, ci volevano basi solide e armi

più potenti, lui mi disse che mi mandava 500000 $ e di utilizzarli al meglio. In fine gli chiesi se

potevo utilizzare Filippo e Kim a San Pietroburgo, e se poteva prorogare ancora le mie ferie

all’ospedale di Wuhan, mi disse di si, basta che le cose non degenerassero, gli Illuminati agivano

sottotraccia, non dovevano essere persone reali, ma entità astratte. Capii quello che voleva dirmi,

niente più assalti lampo con mitra spianati.

Seconda chiamata era per Kim, gli dissi che per il momento ero impegnato in Russia, non potevo

tornare a New York, volevo che lei venisse a San Pietroburgo, mi era più utile al mio fianco. Gli

dissi che poteva portare anche suo fratello, avrebbe lavorato per me, e loro potevano vedersi tutti i

giorni. Lei fu felicissima e mi disse di si, quasi in lacrime per la felicità.

Terza chiamata era per Filippo l’architetto. Gli dissi che avevo un nuovo progetto, di grandi

dimensioni, e avevo bisogno di un tecnico super specializzato come lui, per l’opera che volevo

realizzare. Lui prima rifiutò, aveva la sua vita negli U.S.A., la sua famiglia, il suo lavoro, le sue

abitudini, ed era soddisfatto di quello che guadagnava, era al top nel suo settore. Poi gli diedi una

bella frecciata, dicendogli che Kim sarebbe venuto a lavorare a San Pietroburgo e non l’avrebbe più

rivista, lui ci rimase malissimo, pur sapendo che non aveva nessuna possibilità di conquistarla, non

voleva che altri le facessero la corte. Si prese di coraggio e accettò l’offerta.

Quarta chiamata era per il Conte Bullent Poenari, gli dissi tutto quello che era successo, che ero

ancora dispiaciuto per la morte della sua Guardia, che avevamo ucciso chi aveva ucciso lui, che non

era vero, ma lui non lo poteva sapere. Inoltre gli feci la richiesta di mantenere al mio servizio

permanente le tre Guardie di Arges rimaste, ormai erano parte integrante della squadra e non ne

potevo fare a meno. In realtà sapevano troppe cose, ed era meglio averceli vicino, che al palazzo

Poenari dove potevano raccontare i nostri fatti a chiunque. Il Conte mi disse, che mi avrebbe donato

250000€ per continuare la mia ricerca della Corona del Drago, ormai per lui era una ragione di vita,

e io accettai di buon grado. In fine mi disse che Aya, la sua seconda moglie voleva parlarmi.

Quinta chiamata era per Aya, non sapevo cosa volesse da me, ma mi sembrava scortese non farmi

sentire. Mi rispose quasi subito, aveva una voce molto acuta, quasi sibilante.

Ryo: < Salve Aya, il Conte mi ha detto che mi cercavi e ti ho chiamato, cosa succede?>

Aya:< Ti ricordi la seconda serie di Rune, quelle trovate nella terza otre dentro la caverna del

Tesoro dei Poenari? Mi avevi chiesto di prestarci maggiore attenzione rispetto agl’altri reperti, e io

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così ho fatto. Grazie al codice del Re, ho tradotto le Rune, in gran parte parlano della storia del

nostro popolo come mi avevi detto tu. Ci sono sezioni molto interessanti, due in particolare, una

storica e una tecnica.>

Ryo: < Bravissima, quindi hai fatto delle scoperte interessanti, dai dimmi tutto.>

Aya: < La storia incisa in una Runa, riportava lo scontro in età medievale tra due ordini religiosi,

riferiti come l’Ordine della Luce e l’Ordine dell’Oscurità, questi si combattevano da sempre per la

supremazia del mondo. La Luce seguiva delle regole ferree, faceva da giudice dell’umanità.

L’Oscurità non aveva e non rispettava regole e traeva profitto dal caos che generava. Tutti i due

ordini, utilizzavano le arti occulte per sottomettere gli uomini, avevano strumenti e pozioni di

grande efficacia. Uno degli strumenti era la Corona del Drago, dava il potere assoluto, chiunque si

piegava al suo volere. Una delle pozioni più famose, anzi la più famosa l’ho tradotta “ il sangue di

Norrlångträsk”, capace di donare grande forza a chi ne beveva, rendendolo quasi immortale, dico

quasi perché, ho letto che hanno bisogno di riposare sottoterra almeno una notte per ogni ciclo

lunare, quindi in quel momento, sono immobili e senza la possibilità di nutrirsi. Questa è la parte

storica.

Ryo: < Aya, lo sai che esiste un posto sperduto in Svezia che si chiama Norrlångträsk? E che due

esponenti della setta sono originari di lì? Non ti sembra una strana coincidenza?>

Aya: < Mi sembra che ci sia più di una coincidenza, ma una vera e propria connessione. Poi ti

volevo parlare anche della parte tecnica. Nelle Rune si parla di questa pozione miracolosa, con

formule alchemiche, con dosi precise, e elementi da combinare, da cucinare nel fuoco, così è scritto.

Vi è una lunga preparazione di 36 ore, e l’esalazioni sono tossiche, chi faceva da cuoco moriva

presto, infatti il druido o l’alchimista, preparava il banco di lavoro, ma poi erano degli ignari

assistenti a fare la parte pratica. In fine il “Sangue di Norrlångträsk” veniva travasato in una bara

d’argento massiccio, e si donava al fortunato eroe in un calice mistico, sempre di argento.>

Ryo: < Quindi tu mi dici che questa setta, ha perso il suo vigore quando la Corona del Drago passò

all’Ordine della Luce, che invece diventò potentissima. Inoltre quindi ci potevano essere dei

cavalieri immortali che battagliavano ad oltranza immuni dalle ferite?>

Aya: < Indovina chi era l’ultimo cavaliere ad aver bevuto il sangue magico? Oleg Poenari!!! Ti

ricordi delle sue ferite? Le ho esaminate bene al microscopio, beh molte di esse erano

indubbiamente mortali, ma lui sopravviveva e continuava a combattere. Ho capito perché venne

tranciata la testa di tutti i componenti della famiglia, il sangue si mantiene utilizzabile nel corpo,

solo se è continuamente soggetto ad impulsi elettrici, queste persone non dormivano mai, tranne un

giorno ogni ciclo lunare sottoterra per far riposare il corpo esausto, poi si lavavano in un’acqua

ricca di sali, e ricominciavano il rituale.>

Ryo: < Incredibile, davvero incredibile, hai trovato dei residui di quel sangue nei loro corpi?

Potremmo sintetizzare la ricetta. Chi avesse e sapesse usare la corona e il sangue, diventerebbe il

padrone del mondo. Per questo il Conte è così ostinato nel suo intento. Comunque se riesci

nell’impresa, io sto costruendo un laboratorio nella mia nuova casa a San Pietroburgo, quando ti

senti sicura vienimi a trovare>.

Aya: < Sarai certamente informato dei miei progressi, e sarò felice di cambiare aria una volta ogni

tanto. Ci sentiamo, stammi vivo, almeno fino a quando non creo la pozione magica. Ciaooo!!!>

Ryo: < Grazie Aya, sei un genio, mi fido delle tue capacità, spero di sentirti presto. Ciao.>

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CAPITOLO 35

La tana d’Irina e il gruppo Arges

Arrivammo al 25 Giugno, ci volle un mese, per completare buona parte dei lavori. Comprai un

appezzamento di terreno su una collina a 5 minuti da San Pietroburgo, un terreno scheletrico, brullo,

c’era solo una casa in cima. Era la casa di un reduce della seconda guerra mondiale, fissato con le

distruzioni di massa stile apocalittico, era per questo motivo che l’avevo comprata. La casa aveva

una visuale a 360 gradi, chiunque arrivasse si vedeva a kilometri di distanza. La casa aveva

fondamenta solidissime, possedeva un bunker enorme, da poter ospitare almeno 10 persone, c’erano

cunicoli segreti, per eventuali fughe di emergenza. Un lato della casa, quello dietro, confinava con

un precipizio, c’erano circa 15 metri di distanza, lì costruì una piscina e un campo da tennis che

poteva fungere da base d’atterraggio per un elicottero.

La casa fu totalmente restaurata. Il tetto era piatto fatto da mezzo metro di cemento armato

solidissimo, aveva dei sfiatatoi per il camino e prese d’aria per il climatizzatore, c’erano delle

postazioni di piazzamento per eventuali cecchini, e poteva atterrare anche un piccolo elicottero. Il

terzo piano era la casa mia e di Irina, finestre con vetro antiproiettile e saracinesche in acciaio, il

balcone era una specie di torre di controllo, l’interno era stato arredato da Irina magnificamente,

avevamo recuperato alla scuola di Leopoli la scrivania vittoriana che ci aveva fatto incontrare. Al

secondo piano c’erano le abitazioni di Carl, Mike e Kaled. Al primo piano c’erano le abitazioni

delle tre Guardie del Conte e del personale, tra cui Kim e il fratello e Filippo. Il piano terra si

divideva in due parti, la parte anteriore dava sull’ingresso principale, salone, scale, ascensori. Al

fianco sinistro c’erano i garage, ampi e alti, per ospitare camion e furgoni. Al fianco destro c’erano

le cucine, dico “le” perché ce n’erano due. Una per gli abitanti della casa e una per gli operai e

adetti ai lavori che lavoravano su turni di 8 ore giorno e notte. La parte posteriore della casa era una

specie di museo, c’erano quadri di pregio alle pareti, statue di mirabile fattura, mobili antichi di

lusso, appartenuti alla nobiltà di mezzo mondo. Dietro come dicevo, c’era la piscina, il campo da

tennis, ma c’era anche un solarium, delle docce e una dependance per il giardiniere e i suoi arnesi.

Poi c’era la parte “sotto”. Il primo Underground era una vera e propria caserma militare, era meglio

del nostro vecchio Campo 1, aveva tutta la tecnologia moderna possibile, oltre a un deposito armi

da poter fronteggiare un esercito. Il secondo Underground, era il mio laboratorio, poco più piccolo

di quello di palazzo Poenari ma altrettanto completo ed efficiente, qui potevano entrare solo gli

autorizzati. Il terzo Underground, era il forziere del gruppo Arges, qui c’erano montagne di soldi in

contanti, sia dollari che euro. C’erano lingotti d’oro, armi e armature antiche, libri di occultismo,

medicina, storici, nuovi e antichi.

Sotto ancora c’erano le fondamenta, ma c’erano anche 4 botole, con 4 cunicoli, ognuno si diramava

in una direzione diversa, che portavano a diverse vie di fuga, in tutta sicurezza. Nel perimetro

esterno, al confine della proprietà, era stato eretto un muro alto 4 metri, largo mezzo metro,

sormontato da filo spinato e fili elettrici ad alto voltaggio. C’erano due ingressi, uno principale,

molto grande, con cancello elettrico a scorrimento, c’era una guardiola per una sentinella, con

postazione radio. Il secondo ingresso, era laterale, meno visibile, più piccolo, poteva uscire al

massimo un furgoncino.

Questa era la Tana d’Irina e del gruppo Arges, ma non ci eravamo fermati solo a quello. Dovevamo

giustificare tutta quella ricchezza e comprammo altri due locali, un negozio d’arte nel centro

storico, con tanto d’insegna dorata, che gestiva in prima persona Irina. Il secondo locale, si trovava

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nella zona industriale, un grosso deposito merce, con i furgoni per le consegne, e gli uffici

amministrativi, avevamo fatto tutto alla grande, la gente “doveva” sapere chi eravamo e cosa

facevamo, ovviamente la versione di copertura, non quella reale.

Altra cosa fondamentale, visto che Irina era incinta di mio figlio, ritenni cosa doverosa sposarla,

usai il mio Alias Jeremy Brown, in modo da dividere in due i diritti e doveri della famiglia e del

lavoro. Fu una cosa spartana, senza fronzoli, appena finiti i lavori in casa, si sarebbe festeggiato a

dovere. Ora non restava che aspettare che la setta facesse le sue mosse, noi avevamo fatto tutto, in

modo tale da farci trovare pronti, e questa volta giocavamo in casa.

Venerdì 26 Giugno, mi arrivò la chiamata di Aya, aveva sintetizzato il sangue di Norrlångträsk, e

mi disse che stava arrivando da me. Arrivò nel tardo pomeriggio, portava con se due valigie, un

trolley e un “case” rigido con le ruote. Non facemmo convenevoli, la borsa con i vestiti li diede ad

un cameriere, mentre l’altra la tenne stretta in mano. Andammo al laboratorio, e mi aprì il case, era

pieno di fiale, ampolle, reagenti e altre cose che non capivo. Uscì il suo portatile, e mi fece vedere

tutti i passaggi del suo lavoro svolto in quei mesi.

Aya: < Vedi Ryo, in realtà il sangue è solo un mezzo di trasporto, il protagonista è il virus. Un virus

preistorico o alieno, non ti so ancora dire, non è di questo luogo e non è di questo tempo, roba da

scienza di confine. Il virus viene rigenerato in una soluzione nutriente, con le sostanze che ho qui

elencate, queste sono sostanze più o meno reperibili sul pianeta terra e nel nostro presente. Agisce

come precursore delle cellule staminali, cioè viene portato in tutto il corpo dal sangue, attacca le

cellule e le stimola a duplicarsi, più impulsi nervosi arrivano alla cellula più questa si moltiplicherà.

Quindi se ti fai un taglio al dito, sentirai dolore, attraverso un impulso nervoso, che avrà una

reazione sulle cellule di quella zona del corpo, che verranno stimolate a riparare il taglio e a

prevenire potenziali infezioni. Pazzesco un virus che protegge il suo nemico, fantastico.>

Rio: < Hai scoperto un sacco di cose, sei bravissima, ma so che sta arrivando un grosso MA…>

Aya: < MA se ci sono già uomini che hanno completato il rituale non li possiamo battere, anche se

conosciamo tutta la storia. Dobbiamo avere anche noi dei soldati in grado di fronteggiarli. Non

credo che queste persone si mettano in ginocchio e si facciano mozzare la testa senza lottare.

Dobbiamo preparare tutto il rituale e avere i nostri super soldati, prima che siano loro a farci visita e

iniziare a staccare teste>

Rio: < Aya, il mio laboratorio e a tua disposizione, con me e tutti i miei uomini, devi solo ordinare,

anche perché il tuo rango te lo concede.>

Aya: < La prima cosa da fare e creare il nido, ti ricordi la terra in eccesso nella caverna del Drago?

Non era li per caso, è una terra ricca dei sali minerali, che servono per la rigenerazione. Sto facendo

arrivare qui un camion con quella terra. Dove la possiamo mettere?>

Ryo: < Nel terzo Underground, insieme alle cose più preziose.>

Aya: < Poi servirà tanto argento, per creare la bara di deprivazione, e il calice. Non ho capito bene

perché debbano essere d’argento. Suppongo che l’argento in qualche modo faccia da isolante e

inibitore del virus>

Ryo: < Abbiamo tutto l’argento che vuoi, e Kaled è un esperto con tutti i metalli, provvederà lui

secondo le tue istruzioni>

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CAPITOLO 36

Il virus

Era il 30 Giugno, un martedì caldo, per queste latitudini, ma a me non dispiaceva, stare a prendere il

sole nel solarium, mentre tutti gl’altri faticavano. Arrivò Aya e m’invitò a scendere in laboratorio,

aveva finito il rito, usando maschere e protezioni, aveva creato il liquido per fare attecchire il Virus,

senza fare morire l’uomo che l’ospitava. In laboratorio era pronta la bara piena del liquido madre,

Kaled si era superato, era magnifica, anche se stavamo parlando di una bara. Mancava una cavia, e

mi offrì volontario, ero uno dei pochi ad avere accesso al laboratorio e non volevo vedere estranei.

Fase 1: Bere dalla coppa d’argento, che conteneva una dose misurata, di liquido nutriente e Virus,

serviva come un vaccino, entrare nella bara senza questo accorgimento significava morte certa. Io

bevvi il liquido del calice. Aya mi monitorò per 24 ore, stavo bene, i miei parametri vitali erano

nella norma. Poi tutto cambiò rapidamente, i miei battiti salirono a 200 al minuto, la pressione era

300 su 150, la temperatura era di 41 gradi Celsius, la mia pelle stava andando a fuoco, gli occhi mi

lacrimavano, avevo una sete infinita, non ci vedevo più bene, e le orecchie si erano tappate, non

riuscivo a respirare bene, ansimavo come se stessi correndo. Era il corpo che combatteva contro il

virus, e stava vincendo il virus, stava distruggendo tutte le mie difese immunitarie. La tortura mi

dissero che durò 24 minuti, ma pensavo che fosse durata 24 anni. Poi mi ripresi, anche se mi sentivo

totalmente stordito.

Fase 2: Entrare nella bara non mi spaventava, ma respirare nel liquido nutriente, come i

sommozzatori alle grandi profondità era angosciante. La fame d’aria ti spingeva a volere uscire, ma

non potevi, dovevo ritornare a quando ero solo un feto nel liquido amniotico. Dovevo rinascere una

seconda volta. Entrai nella bara dopo aver fatto degl’esercizi respiratori e dei movimenti yoga per la

concentrazione. Trattenni il respiro e mi chiusero dentro. I primi secondi avevo tutto sotto controllo,

poi l’ossigeno gassoso finì ed entrò nei polmoni quello liquido, avevo la sensazione di voler

vomitare la mia stessa aria ma non ci riuscivo, lentamente la mia coscienza svanì e sprofondai nel

buio e nel silenzio. Per me passarono pochi secondi, invece erano passati 12 giorni in quella bara. Il

mio ricordo del risveglio fu una grande luce intensa, che veniva dall’alto, ero rinato.

Fase 3: La pulizia del corpo. Il mio corpo puzzava di marcio, di cadavere, di rancido, la mia pelle

era squamosa come quella di un serpente mentre fa la muta. Kaled e Mike mi presero dal lettino

medico e mi immersero in un’altra vasca, questa era piena di sali minerali, la pelle si stacco dal mio

corpo, e quella sotto prese il suo posto, bella liscia e pulita, era una bella sensazione, non sarei mai

voluto uscire da lì, ma mi fecero uscire dalla vasca a forza e mi rimisero nel lettino per controllarmi.

Aya, Kaled e Mike, mi guardavano e mi riguardavano, ma non capivo il perché, ero nudo, ma non

pensavo di essere cambiato così tanto.

Fase 4: Riabilitazione. Mi guardai allo specchio, ma non vidi me, vidi un’altra persona, quello era

un gigante di 2 metri, con i muscoli enormi e definiti, i capelli biondo rossicci, gli occhi verdi erano

i miei, pensai almeno una cosa era rimasta, ma poi vidi che la luce rifletteva stranamente nei miei

occhi sembravano quelli di un felino. Ero sempre stato molto peloso, ora ero quasi glabro, solo i

capelli e le sopracciglia erano al loro posto, anche se di colore diverso. Mi diedero dei vestiti nuovi,

in quelli vecchi non ci sarei mai entrato, troppo piccoli. In tutto la procedura era durata 15 giorni.

Finito il rito, volli tornare in superficie, volevo vedere la luce, volevo vedere Irina. All’inizio

nessuno mi riconobbe, Kim mi passò davanti, pensando che fossi un operaio e mi disse di andare al

lavoro invece di stare seduto il poltrona.

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Ryo: < Kim, sono io Unge, non mi riconosci?> la mia voce era diversa, non la riconoscevo.

Kim: < A chi vuoi prendere per il culo? Tu non sei il mio boss!!!>

Ryo: < Mi dispiace, non mi riconosci perché ho mangiato troppi panini da Nathan’s, ah ah ah.>

Lei capì che ero veramente io, e si mise a piangere a dirotto, mi si avvicinò e mi strinse forte e mi

tenne la mano, aveva capito che qualcosa era cambiato e che avevo sofferto tanto.

Poi rincasarono Irina e Carl. Carl appena mi vide rimase pietrificato perché sapeva della

trasformazione, ma non sapeva della mutazione. Irina invece non sapeva niente e non capiva perché

c’erano tutte quelle persone in salotto, vide Kim che teneva la mano a un gigante con dei capelli

dritti e sparati in aria. Kim gli disse di avvicinarsi, lei si alzò e si allontanò. Non capiva chi fosse

quella persona, solo quando mi fu di fronte, guardandomi negl’occhi capì chi ero. Non disse niente,

si alzò e se ne andò senza dire niente, era troppo per lei, il suo cervello si rifiutò di capire. Io fui

molto triste, ma gli dovevo dare il suo tempo, era incinta di un uomo che non era più lui.

Era la sera di martedì 14 luglio, mi misero al corrente di tutto quello che era successo in mia

assenza, mi dissero che qualcosa si stava muovendo. In città si vedevano facce nuove, gente che

passava davanti al negozio, più volte al giorno, ma senza entrare mai. Alcuni tentativi di

pedinamento di alcune persone vestite in borghese. Credo che stessero prendendo informazioni

prima di passare in azione. Non gli interessava di essere scoperti, loro erano i leoni, e pensavano

che noi fossimo le gazzelle, ma si sbagliavano di grosso.

Giorno 15 dissi ad Aya che ero, molto molto stanco, ma non riuscivo a dormire. Lei mi disse che

era ora di andare sotto terra, dovevo completare il mio primo ciclo, la Fase 6, essere sepolto vivo.

Andai al terzo underground, insieme ad Aya, Kaled e Mike. Sentii l’odore di quella terra, era

l’odore più dolce che avevo mai annusato. Mi ci coricai, era comoda, morbida come un materasso

ortopedico. Kaled e Mike, presero altra terra e mi seppellirono, poi non mi ricordo più niente,

finalmente dormivo, di un sonno profondo e ristoratore. Mi svegliai, perché sentivo che la terra

sopra di me veniva tolta. Mi sentivo bene, mi alzai rapidamente, e mi diedi una scrollata. Salii in

laboratorio e vidi che era passato un altro giorno intero. Mi immersi nella vasca salina e la mia pelle

si reidratò come una spugna. Il rito funzionava, ed era stato eseguito correttamente.

Risalito in casa, volli mettere alla prova le mie capacità. I ragazzi avevano creato una palestra,

allungando la metratura dei garage, di altri 10 metri. Dentro c’erano tutte le attrezzature per fare

sollevamento pesi e esercizi aerobici. Non fu cosa semplice adattarmi al mio nuovo corpo, tutto era

così piccolo rispetto a prima e io così grande. I pesi che prima mi sognavo di sollevare ora

sembravano fatti di gomma piuma. Potevo correre ore al tapis roulant, non ero mai stanco, il mio

corpo si adattava alla velocità e proseguiva senza affaticarsi.

Finito di allenarmi, il mio pensiero tornò ad Irina, lo sapevo che era in casa, lo percepivo, i miei

sensi erano più sviluppati, sentivo il suo odore, sentivo il battito del suo cuore e il battito di quella

creaturina che portava in grembo. Era al sicuro, e per ora era quello che contava.

Ora c’era solo l’attesa, la casa era completata, non c’era più via vai di gente, c’era solo gente

addestrata e ben armata, che aspettava il momento per scatenare l’inferno, e l’inferno arrivò sul

serio.

Il 16 Luglio il cielo era scuro, carico di pioggia. Dalla valle si sollevò un gran polverone, rumore di

camion che salivano la collina. Poi si sentivano i rumori degli elicotteri che si avvicinavano.

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PARTE VII

Stoccolma

Capitolo 37

La battaglia sulla collina

Era uno di quei Giovedì carichi di umidità, io andai subito al primo underground, al posto di

combattimento, accanto a me Kim e Carl, gli altri indossarono gli auricolari e indossarono i

giubbotti antiproiettile. Tutti si misero in posizione da combattimento, Kaled sul tetto in modalità

cecchino e Mike al piano terra comandante della squadra d’assalto. Tutte le saracinesche furono

chiuse e blindate. Solo il cancello d’ingresso principale era stato volutamente lasciato aperto dalla

guardia, che si allontanò per rientrare nella casa, sotto mio preciso ordine. Kaled iniziò a sparare i

suoi colpi al primo elicottero, fu colpito diverse volte, ma era blindato, doveva essere più vicino

perché i colpi fossero efficienti, arrivato a 250 metri Kaled riprovò e questa volta i proiettili speciali

penetrarono la corazza dell’elicottero, che prima ebbe una specie di sussulto, poi s’inclinò

lateralmente, iniziò a perdere quota e acquistare velocità, si schiantò all’interno della proprietà quasi

al confine con il muro perimetrale, ci fu una esplosione, poi solo lo scoppiettare delle macerie.

Kaled voleva riprovare con il secondo elicottero, ma questo rimase a distanza di sicurezza, aveva

capito il pericolo. L’elicottero preparò i suoi missili a lunga gittata, Kaled scese rapidamente dentro

la botola e sparì dentro la casa. I due missili colpirono il tetto della casa, si sentì vibrare tutto, ma la

struttura aveva retto i colpi, poi ne arrivarono altri 2 e poi altri 2 ancora. Cadevano pezzi di cemento

e ferro, ma la casa si ergeva ancora a baluardo, era solo un po’ più brutta da vedere. L’elicottero

capì che quelle erano mura antibombardamento, era inutile continuare a colpire, era solo uno spreco

di munizioni, e si mise in posizione di guardia e di vedetta per i camion che stavano avanzando.

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L’ingresso era aperto, e non c’era nessuno a difenderlo, entrarono a tutta potenza, salivano veloci

verso la casa. Quando furono inquadrati dalle telecamere, nel punto esatto dove volevo che

fossero,chiusi il cancello automatico e attivai le mine a pressione, le ruote ci passarono sopra e i

primi due camion saltarono in aria, con tutto quello che portavano dentro, un vero massacro.

Rimanevano altri 3 camion, rimasti fermi e incolumi dall’esplosioni. Scesero gli uomini dell’Ordine

Temhota, avevano tutti una divisa militare scura, con elmetti, giubbotti antiproiettile, impugnavano

mitragliatrici d’assalto. Iniziarono a sparare alla casa, che rimaneva chiusa e immobile ai colpi

sferrati, ma era solo un fuoco di copertura, dalle retrovie si preparavano a lanciare le granate, con

obiettivo di aprire un varco, colpirono porte e finestre, ma erano blindate, alcune erano immacolate,

altre leggermente piegate, alte ancora si aprivano piccoli buchi, niente che permettesse di entrare

nella casa.

Il nostro contrattacco erano 10 mitra AK-52 modificati, automatizzati, controllati da me, che stavo

dietro i monitor. Questi uscirono dal muro perimetrale e colpirono alle spalle i soldati, sferzandoli

con raffiche micidiali, devastandoli all’impatto, altri 20 uomini erano morti. I 45 che erano ancora

vivi, si disposero a cerchio tra il secondo camion andato in fiamme e il terzo camion che era il più

distante dalle raffiche dei mitra. Riprovarono con le granate, questa volta all’indirizzo dei mitra, e

una alla volta, distrussero quelle armi, ma così facendo indebolirono in fronte verso la casa. Dalla

casa uscirono altri 10 mitra, che buttarono fuoco a ripetizione e uccisero altri 10 soldati. Ne

rimanevano 35, ancora troppi per decidere un attacco diretto.

Decisi di andare io sul tetto e lasciare il comando a Kaled, gli chiesi il fucile di precisione, lui mi

disse che l’elicottero era troppo distante per essere abbattuto, ma glielo presi ugualmente e salì sul

tetto. C’erano macerie da per tutto, ma non c’erano rischi di crolli. Mi affacciai da quello che una

volta era il parapetto. Guardai sotto e vidi i soldati a una distanza di 180 metri, poi guardai in alto e

calcolai la distanza dall’elicottero, erano circa 400 metri, c’era vento e iniziava a piovere, sistemai il

fucile e mirai, sparai un colpo, il proiettile sfiorò la parte bassa e proseguì la sua corsa provocando

scintille, ma nessun danno. Ricalcolai l’alzo del tiro, e puntai mezzo centimetro sopra rispetto a

prima, sparai un secondo colpo, e il proiettile questa volta andò alto colpendo le pale dell’elicottero.

Poi mi venne l’idea, da quella distanza non potevo colpire un punto specifico, dovevo colpire alla

parte grossa. Abbassai il tiro solo di qualche millimetro, puntai al tronco del rotore, sparai il terzo

colpo, questa volta feci centro, le pale, ora sembravano muoversi a scatti, come se fossero

inceppate, l’elicottero diede la sensazione di diventare più pesante, ma restava affannosamente in

aria. Tentai un quarto colpo, ora era più difficile perché l’elicottero non era stabile, vibrava e

falsava la mira, provai comunque un quarto colpo, prese la punta di un ala che si spezzò.

L’elicottero, cercò di allontanarsi, ma non ci riuscì, perse il controllo e si schiantò alla base della

collina, esplodendo all’impatto.

Presi un altro caricatore e mirai in basso, i soldati ancora stavano cercando una soluzione, alle

mitragliatrici che li colpivano dai due lati, fronte e retroguardia. Iniziai a puntare quelli più vicini, in

modalità tiro al bersaglio, a quella distanza erano facili da colpire. Fuori uno, fuori due, fuori tre,

fuori quattro e fuori cinque, la prima linea era stata annientata in pochi secondi. Ne riuscì a colpire

altri tre prima che capissero da dove sparavo. Erano rimasti circa 27 soldati, sempre troppi, e ora

sparavano alla mia posizione. Rientrai nella botola e scesi al posto di comando, andai in armeria e

presi un bazooka e quattro proiettili di grosso calibro adatti a quell’arma. Tornai sul tetto e sparai il

primo colpo, colpì il terzo camion e i soldati che si erano riparati nelle vicinanze, altri 10 morti.

Sparai al quarto camion colpì la fiancata, ma non esplose. Provai il terzo proiettile e questa volta

feci centro, il camion si ribaltò come una tartaruga, schiacciando altri cinque soldati. Ne

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rimanevano una dozzina ed erano sull’ultimo camion. Provai il quarto proiettile, che fece

parzialmente centro, altri 2 soldati erano morti. Ora erano solo in 10, potevamo attivare la squadra

d’assalto, chiamai Mike tramite l’auricolare e diedi il segnale. Uscirono dalla porta principale,

sparando a qualunque cosa si muovesse, si avvicinarono ai primi camion in fiamme, e iniziò una

guerra di trincea. Io guardavo tutto dall’alto, in speranza di colpire ancora qualcuno con il fucile,

ma c’era troppo fumo che copriva la visuale.

Qualcosa attirò la mia attenzione, un riflesso in lontananza dalla base della collina. Guardai

attraverso il mirino e misi a fuoco. Era un uomo in tuta nera aderente, con il casco, sopra una moto

da cross, stava risalendo la collina. Non sembrava avere armi, era molto muscoloso, il casco non era

proprio un casco, ma una specie di corazza/elmo, continuava ad avanzare. Poi l’istinto prevalse

sulla ragione e chiamai Mike all’auricolare, gli dissi di ripiegare, perché stavano arrivando altri

nemici, Mike ubbidì, andò a ritroso verso la porta principale, fece entrare tutti e poi chiuse la porta

blindata.

Scesi al piano alla sala comando, da sopra non potevo fare più niente, presi il mio coltello da sub e

me lo legai alla coscia, poi presi due pistole Beretta calibro 9 e li misi nelle fondine ascellari. Presi

anche una cartucciera di proiettili e infine presi un cinturone con delle bombe a mano. Diedi

l’ordine di non uscire per nessun motivo, imbracciai due mitra e salii al piano terra, aprii la porta

blindata e me la chiusi alle spalle. Scesi le scale a passo lento, per visualizzare tutto l’ambiente, da

una prospettiva differente da quella del tetto. Trovai i miei bersagli e li puntai. Iniziai a sparare

contemporaneamente con i due mitra, colpirono i soldati della setta, ne feci fuori due, poi altri due,

mi avvicinai ancora e ne uccisi un altro. Ricaricai le armi e ricominciai ad avvicinarmi e sparare, ne

uccisi altri due, e poi altri due ancora. Ne rimaneva solo uno imboscato sotto il quinto camion,

buttai una granata e mi allontanai, ci fu l’esplosione con relativo morto.

Ora il campo di battaglia era sgombro, chiesi a Kim se le telecamere inquadravano qualche soldato

che ci era sfuggito. Prima mi disse di no, poi esitò, poi mi disse che ce n’era uno, ma che era

diverso, non aveva una divisa. Avevo capito a chi si riferiva, era il motociclista che avevo

individuato dal tetto della casa. Cosa sperava di fare da solo, senza armi, quando oltre sessanta

persone avevano perso la vita miseramente?

Chiesi la posizione da dove stava entrando. Kim mi rispose dal fianco dei garage, dove c’è la sala

pesi. Allora andai in quella direzione, volevo capire, chi era quel pazzo. Il pazzo non si nascondeva,

era in bella vista, si avvicinava a passo lento verso la casa. Lui girò la testa verso di me e mi vide,

cambiò direzione, stava venendo nella mia direzione. Quando fummo a circa 8 metri di distanza

parlò.

Evert Folke: < Ungeziefer du är en död man, Temhota kommer att leva för evigt!!!> parlò in

svedese e non capivo niente, a parte che aveva pronunciato il mio Cognome, il tono era

indubbiamente minaccioso.

Ryo: < Chi sei ? Cosa vuoi? Vattene!!!>

Non rispose e inizio ad avanzare. Era una minaccia, decisi di aprire il fuoco. Sparai in simultanea

con entrambi i mitra. Lo colpirono in pieno. Io proiettili lo dovevano passare da parte a quella breve

distanza anche se portava un giubbotto antiproiettile. Incredibilmente, continuò a camminare nella

mia direzione, ne lui ne il suo bizzarro abbigliamento avevano subito danni. Decisi di scaricargli

tutto il caricatore addosso, e sparai fino ad esaurimento proiettili. Davanti c’era un grande nuvolone

di polvere da sparo, e dietro c’era l’uomo ancora integro.

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CAPITOLO 38

Il mostro

Avevo finito le cartucce dei mitra e lasciai cadere a terra le armi pesanti. Presi le pistole e puntai a

quello strano mascherone, che si trovava a meno di 4 metri da me. Scaricai 4 caricatori, senza

ottenere nessun risultato, non era possibile, non ci stavo credendo, iniziai ad arretrare e chiesi a

Kim, tramite auricolare, di aprirmi la palestra e il garage e mantenere la porta interna chiusa, lei

eseguì i miei ordini. Entrai nella palestra e afferrai un bilanciere da 20 kili in acciaio, e l’utilizzai

come una spranga. Lo colpì e lo feci decollare e si andò a scagliare contro la fiancata del furgone

Arges, la carrozzeria prese la sua forma, segno che avevo colpito duro. Lui si tolse dal furgone e si

rimise a camminare nella mia direzione, io cercai di colpirlo una seconda volta, ma questa volta

schivò il colpo, mi colpi con un pugno allo stomaco, dal basso verso l’alto, sbattei nel soffitto, poi

crollai a terra, stomaco e schiena facevano malissimo. Dovevo togliermi da lì, scivolai dietro un

pilastro, cercavo un’altra arma. Trovai i dischi di ghisa, presi tutti quelli che riuscii a trovare e glieli

scagliai addosso uno ad uno, più forte che potevo. Lui fu scaraventato fuori dalla palestra,

scivolando sul prato all’inglese appena finito. Lanciai gli ultimi dischi, lui si parò con le braccia,

che gli fecero da scudo.

Si rialzò per l’ennesima volta e tornava alla carica. Chiesi a Kim di aprire porta interna garage,

corridoio laterale, ingresso posteriore al solarium. Lei eseguì correttamente. Le porte si aprirono e

io entrai dentro, lui fece lo stesso, era chiaro che io ero il suo obiettivo. Corsi verso l’ingresso

posteriore, qui avevo un baule chiuso dove tenevo le armi di scorta, l’aprii e ci tirai fuori altri due

mitra e altre due pistole. Sapevo che non avevano effetto su di lui, ma volevo farlo rallentare, così

pensavo ad un piano più concreto. Chiesi a Kim di chiudere la porta posteriore una volta che il

mostro fosse uscito fuori. E le porte si chiusero. Iniziai a sparare cercando magari qualche punto

debole dove colpire, ma ogni colpo risultava inutile. Finiti i caricatori, passai alle pistole, nel

frattempo scendevo dalla zona solarium, per arrivare alla zona piscina.

Io ero un esperto nuotatore, vediamo come se la cavava in acqua. Finiti i caricatori, mi misi a bordo

vasca, presi una granata e gliela lanciai volutamente lunga alle sue spalle. La detonazione, spinse il

mostro verso di me, lo presi al volo e insieme andammo in acqua. Lo afferrai ancora meglio e lo

trascinai sottacqua, vediamo se aveva anche le branchie oppure affogava come i comuni mortali.

Lui cercava di dimenarsi, ma la mia presa era tenace, sapevo che potevo tenerlo sottacqua almeno

sei minuti, se non l’annegavo, almeno l’avrei indebolito. Unico lato negativo, che entrando in acqua

avevo perso l’auricolare, la mia squadra non mi poteva sentire e io non potevo impartire ordini.

Passarono i minuti, e il mostro con la maschera incominciò a perdere colpi, ancora reagiva, ma in

maniera attenuata. Io resistetti un altro minuto e mezzo, poi dovetti risalire in superficie e prendere

aria. Stavo per uscire dalla piscina, ma mi afferrò dai piedi e mi voleva lui ora trascinarmi a fondo,

io mi attaccai alla scaletta con le braccia, scalciai e mi liberai. Ora ero a bordo vasca e il mostro

stava risalendo dal fondo della piscina. Uscì dall’acqua come un delfino, piroettando e cadendo a

terra con tutti i quattro gli arti, come un felino. Iniziò un’altra volta a camminare verso di me,

pensavo di averlo stancato, ma non era così. Presi un tavolino da giardino in ferro battuto e

l’utilizzai come ariete, lo spinsi con tutte le mie forze verso il muro perimetrale posteriore, dietro

c’era lo strapiombo, magari il mostro non sapeva volare.

Spinsi e spinsi ancora, arrivammo al muro, continuai a spingere, e il muro incominciò a cedere, si

videro prima delle lineature, poi delle fessurazioni e poi cedette, crollando nel fossato, ma il mostro

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si tenne al tavolino e non cadde. Allora presi le mie ultime due granate, levai le spolette, le incastrai

tra lui e il tavolino, poi spinsi, lo buttai appena in tempo fuori nella scarpata, e si sentì la doppia

detonazione.

Non mi illudevo, era ancora vivo, qualunque cosa fosse, sarebbe ritornata a cacciarmi. Rientrai

dentro la casa. Feci chiudere la porta. Andai alla postazione di controllo, tutti avevano visto lo

scontro dalle telecamere ed erano tutti impauriti a morte. Feci una chiamata in Romania.

Ryo: < Aya sono Ryo, ho un mostro alle calcagna, non si riesce ad uccidere in nessuna maniera, ha

una forza sovraumana, fra poco tornerà a darmi la caccia, cosa posso fare?>

Aya: < Cazzo!!! Ti hanno scagliato un signore della guerra, loro li chiamano “ i cavalieri oscuri”,

possono essere comandati solo dal possessore della corona del drago. Armi che puoi usare? Una

spada di argento penso, arresta momentaneamente il processo di guarigione, gli devi tagliare la

testa.>

Ryo: < Ha una tuta e un elmo protettivo, non so che materiale sia, ma sembra indistruttibile, non

potrò tagliargli la testa fino a quando indosserà quelle protezioni.>

Aya: < Bene, allora cerca i punti dove si tolgono quei due oggetti, non starà sempre così, dovrà pur

mangiare o andare in bagno, ci devono essere. Tienimi informato.>

Ryo: < Ok, se sarò vivo lo farò senz’altro.>

Finita la chiamata tornai a guardare i monitor. Quella figura era ricomparsa e non si sarebbe

fermata. Dissi a tutti di seguirmi al terzo underground, scendemmo e cercammo un arma

appropriata. Kaled trovò un’ascia bipenne, ma era in acciaio, non di argento. Pensai, facciamo una

laccatura in argento e l’affiliamo, Kaled approvò. Chiesi a tutti di andare via dalle botole e sparire il

più lontano possibile. Lasciai Kaled in laboratorio, per sistemare l’arma. Intanto i muri tremavano,

il mostro era tornato, sapeva dove mi trovavo, e si faceva strada dentro la casa. Ci vollero 10

lunghissimi minuti, per sistemare l’arma, mentre il mostro scassava tutta la casa, in quei minuti

guardavo attentamente il suo abito e il suo casco. Alla base del collo c’era una specie di bottone

rialzato, e il casco aveva delle sfaccettature all’altezza delle tempie.

Una volta fatta l’arma, dissi a Kaled che poteva andare anche lui, non aveva senso farlo rimanere,

restando rischiava la sua vita inutilmente, mentre io grazie alla trasformazione qualche minima

speranza l’avevo. Lo salutai e poi aprii tutte le stanze della casa. Salivo le scale con una doppia

ascia in mano, per affrontare un mostro, poi pensai che anch’io ero un mostro, e la cosa fu

metabolizzata dal mio cervello. Arrivato al piano sentì il fracasso, proveniva dal salone, tutti gli

oggetti di valore distrutti, quando vidi la scrivania vittoriana in frantumi, la mia rabbia inondò il mio

corpo, non ero più Ryo Ungeziefer, ero un altro mostro.

Nascosi l’ascia sotto la metà ancora sana del divano, poi attaccai a testa bassa, lo colsi di sorpresa,

lo spinsi verso il muro, all’impatto ci fu come un tuono, l’avevo stordito. Cercai le fessure nella

maschera e li trovai, spinsi in tutte le direzioni, finche la maschera si scompose in due pezzi e

caddero a terra, finalmente vidi la faccia del mio assalitore, aveva gli occhi azzurri con il mio stesso

strano riflesso felino, i capelli erano rosso biondicci come i miei, la carnagione era chiara come si

confaceva ad uno scandinavo. Poi mi concentrai sulla muta aderente, premetti il bottoncino e

comparve una finissima cintura lampo, presi la linguetta e la scesi fino ai suoi glutei. Avevo un

corpo da autentico vichingo, con tatuaggi totem della sua razza. Poi non ebbi più il tempo di

pensare, il mostro si ridestò dal suo stordimento e tornò alla carica.

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CAPITOLO 39

Il costume e la maschera

Iniziammo a lottare, pugni, calci, testate, senza più difenderci, ci colpivamo, presi da una frenesia

animalesca, probabilmente dettati dal virus, eravamo due leader, due maschi Alpha, due cavalieri

che combattevano per la propria fazione. Ci arrotolammo a terra, sbattendo su ogni cosa, che

inevitabilmente andava in frantumi, decisi di avvicinarmi al mezzo divano, ma il mostro mi tirò dai

piedi e mi fece allontanare dalla mia arma. Scalciai e lo spinsi via, ma lui mi riprese un’altra volta,

esasperato, presi il mio coltello da sub e glielo piantai nel petto, ma si ruppe la lama, gli avevo fatto

solo un graffio. Mi guardò e mi fece un sorriso soddisfatto, del tipo “non mi hai fatto niente”. Io gli

caricai un pugno con tutta la forza che avevo in corpo e la sua testa andò indietro con un movimento

innaturale, forse gli avevo spezzato qualche vertebra, cadde a terra immobile, ma la cosa era solo

momentanea, sapevo che il virus avrebbe sistemato l’ossatura in breve tempo. Presi l’ascia e

scagliai un colpo sul collo del mostro, questo cedette in parte, aveva una ferita profonda e scorreva

il sangue, ma non bastava. Continuai a dargli colpi d’ascia fino a quando il tronco non si staccò

completamente dalla testa. Ero stanco fino all’inverosimile. Mi accasciai accanto quel corpo

mutilato e fu buio.

Mi svegliai, ma non sapevo dove mi trovavo e quanto tempo era passato dal mio svenimento. Il

primo volto che vidi era quello di Aya, ma che ci faceva lì? Non era in Romania? In realtà scoprì

che dalla battaglia erano passati due giorni e che nel frattempo erano accadute un sacco di cose.

Quando riuscii ad alzarmi, mi trovavo nel mio laboratorio, chiesi ad Aya di aggiornarmi sugli

avvenimenti.

Aya: < Ti hanno trovato disteso nel salone, privo di conoscenza, il mostro eri riuscito ad ucciderlo

per fortuna. La casa e il terreno attorno erano in condizioni pessime. Prima di tutto hanno tolto i

rottami dell’elicottero fuori dalla proprietà, poi quello, all’interno. Hanno tolto i rottami dei 5

camion. Hanno raccolto i corpi o quello che ne restava di 60 soldati della setta. Riparazioni al tetto,

alle porte e alle finestre. Ripristinati i collegamenti audio e video, internet, ecc. Ripristinate armi nei

punti strategici in casa e fuori. Ripulita della casa. Gli oggetti del salone sono tutti distrutti, quelli

non si possono sistemare. Irina sta cercando di sistemare una scrivania in frantumi tipo puzzle.

Sistemato solarium, piscina e muro perimetrale posteriore. I ragazzi ti aspettano al posto di

comando per fare il punto della situazione. Prima che sali ti devo fare vedere alcune cose.>

Ryo: < Cosa?>

Aya: < Nel tempo che tu eri privo di sensi ho esaminato il corpo di quel uomo, sono riuscito a

risalire al suo nome, si chiamava Evert Folke, Svedese, un cavaliere oscuro. Il suo corpo aveva

subito il tuo stesso rito, i suoi muscoli e ossa hanno una densità impressionate, in parte è questo il

motivo perché i proiettili non lo avevano ucciso, e in parte è colpa di questa speciale tuta, è fatto

con un materiale organico simile alla placenta, durissimo ed elastico allo stesso tempo, non faceva

penetrare il proiettile e distribuiva la potenza in tutta l’armatura, dissipandola, sto pensando di

replicarla in laboratorio. L’elmo/maschera, è un concentrato di tecnologia, non so che metallo sia,

ancora lo devo studiare, unica cosa certa è che era un trasmettitore/ricevitore potentissimo. Il suo

padrone lo comandava a distanza, come un robot, il suo padrone aveva solo un obiettivo, la tua

morte.>

Ryo: < Beh questa volta gli è andata male. Mi vesto e vado a salutare la squadra.>

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Era il Sabato sera del 18 Luglio. Eravamo in quello che era una volta il salone della casa Arges.

Eravamo tutti seduti a terra, mangiavamo e bevevamo, e ci raccontavamo quello che era successo

due giorni fa, ognuno con la sua versione, ognuno veniva ascoltato. Solo Irina era messa da parte

nella continua frenesia di sistemare quella scrivania, io non osai neanche avvicinarmi, con il nuovo

me, non aveva mai parlato.

Ryo: < Ragazzi, c’è andata di culo, siamo tutti vivi, sani e salvi, non penso che quei bastardi si

facciano rivedere da queste parti. Hanno inviato anche il loro uomo migliore, se uomo lo vogliamo

considerare. Le nostre difese sono forti, la squadra Arges è solida ed unita. Ora dobbiamo attaccare.

Andiamo a stanarli a casa loro, rompiamoci il culo e riprendiamoci la Corona del Drago, fino a

quando sarà in mano loro, e per loro intendo L’ordine dell’Oscurità, noi dell’Ordine della Luce non

avremo mai pace e non saremo mai al sicuro. Certo qui abbiamo come difenderci, ma saremo

confinati, saremo prigionieri delle nostre paure, per sempre.>

Kim: < Cosa vuoi fare?>

Ryo: < Tu, Carl, Irina, Filippo, Aya. Starete qui al sicuro a coordinare le cose. Io, Mike, Kaled e le

guardie andremo in Svezia, creeremo una base operativa di appoggio a Stoccolma e poi andremo

nella tana del Bianconiglio, e vedremo quanto sia profonda>

Kim: < Ma non sarete troppo pochi? Se qui ne sono arrivati 61, li ce ne saranno a centinaia di

soldati.>

Ryo: < Kim la quantità e le armi, in questi casi contano poco, quel mostro da solo e senza armi

poteva uccidere all’infinito senza fermarsi un attimo. Bisogna utilizzare la strategia, la logica, la

conoscenza, questo è quello che ha fatto la differenza due giorni fa. Le telecamere piazzate al punto

giusto, per vedere e rivedere i punti deboli e capire come attaccare. Sapere modificare un’arma in

pochi minuti, e renderla mortale anche per chi non muore mai.>

Kaled: < La gente si fissa con il semplice pensiero che una spada possa essere una spada e che una

pietra sia solo un oggetto inanimato, invece no, una spada può diventare il pilastro di una tenda e

una pietra una statua. Basta avere una mente aperta, e le capacità di realizzare ciò che si è progettato

nella testa.>

Ryo: < A questo proposito, chiedo il favore ad Aya di rimanere ancora un pò tra noi. Per poter

modificare il costume e l’elmo, in modo che io lo possa indossare. Poi vorrei completare un altro

ciclo prima di ripartire, per la prossima avventura>

Aya: < Non c’è problema Unge, già ci stavo lavorando>

Ryo: < Ok, allora, tutti sapete quello che dobbiamo fare, domani mattina si ricomincia>

Tutti si alzarono e si allontanarono, chi andava nelle proprie camere e chi aveva ancora fame e

andava in cucina perché aveva ancora fame. Rimanemmo solo io ed Irina nel salone. Eravamo i

padroni di casa, marito e moglie, ma eravamo distanti anni luce. Irina cercava ancora di sistemare

quella scrivania, forse pensava che se riusciva ad aggiustare quel oggetto, poteva sistemare tutta la

sua vita, che nel giro di qualche settimana era cambiata totalmente, stravolta all’inverosimile, e chi

gli poteva dare torto. Quello che riteneva l’amore della sua vita si era rivelato un mostro, un serial

killer, un invasato di un ordine religioso antichissimo. Cosa poteva fare lei, incinta, in un paese

straniero, in una casa bombardata dai missili?

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CAPITOLO 40

La città vecchia

Una suggestiva Città Vecchia, parchi, canali, design e architettura son i segni distintivi di

Stoccolma, città dalla forte indole marittima e dalle atmosfere internazionali. Prendere i battelli per

andare da un punto all’altro della città e visitare i parchi, musei e palazzi antichi, erano le cose che

più mi piacevano, era un luogo dove le 19 ore di sole di luce solare di luglio, consentivano di stare

all’aria aperta fino a tardi, senza neanche accorgersi del tempo che passava. Stoccolma fu fondata

nel 1252, fu uno dei centri medievali più estesi, ed ora uno dei meglio preservati in Europa.

Passeggiando per la caratteristica e pittoresca zona di Gamla Stan, si trovavano ristoranti,

monumenti, negozi e molti altri posti che stuzzicavano la mia fantasia e curiosità. Le particolari

stradine acciottolate su cui fanno capolino le case gialle, sono il biglietto da visita di una zona unica

nel suo genere.

Fu qui che creammo la nostra base operativa in Svezia, era una scelta azzeccata, sia come punto

logistico e sia per la bellezza del luogo. Qui eravamo per lavorare, prima di dedicarci hai nostri

affari, dovevamo creare la nostra immagine di copertura. Ci fu una chiamata tra me e il Commenda,

per metterci d’accordo, perché era lui il fissato, che ogni cosa doveva essere un segreto, e ogni cosa

era più importante se veniva bisbigliata all’orecchio. Mi affidò un altro incarico “artistico” al

Museo Moderno d’Arte Moderna di Stoccolma, dovevo essere il supervisore e relatore delle opere.

Era stato l’architetto spagnolo Rafael Moneo a progettare il museo nel meraviglioso scenario

naturale di Skeppsholmen, l’incantevole isoletta situata tra Gamla Stan, la città vecchia, e l’isola di

Djurgården, che è collegata alla terraferma da un ponte suggestivo.

Il Museo d’Arte Moderna offriva una delle più grandi e belle collezioni artistiche dal Novecento

fino ai nostri giorni, con i capolavori di grandi maestri come Dalì, Picasso, Matisse e Dekert.

Accanto alle prestigiose collezioni di questi illustri geni dell’arte e alle mostre temporanee, il museo

disponeva opere d’arte contemporanea e di moderni classici, di cui ero l’esperto. Per me che adoro

mangiare è bello sostare al ristorante, da cui si può ammirare il bellissimo panorama di

Strandvägen, una delle strade più belle della capitale svedese.

Era sabato 25 Luglio, la Squadra Arges era formata come sempre da me, Kaled, Mike e le tre

guardie del Conte, finalmente imparai i loro nomi rumeni, e subito dopo me li dimenticai, così li

soprannominai, Tizio Caio e Sempronio, dei nomi classici senza tempo. Oltre ai soliti, si

aggiunsero Navy, la terza moglie del Conte Poenari, e Kim che doveva rimanere a San Pietroburgo,

ma quando seppe che la copertura era un lavoro da museo, ci pensò un minuto per preparare cartella

per il portatile e la borsa con i vestiti. La casetta gialla s’intonava con il mio colore della pelle,

pensai che fosse utile per mimetizzarmi, poi scoppiai a ridere, senza che gli altri capissero il mio

stato d’animo, ero strano, ero sempre stato strano, anche prima della trasformazione.

Al museo mi conoscevano con il mio alias, Dottor Jeremy Brown, non potevo andarci con il mio

vero nome, dopo il MoMA di New York ero diventato abbastanza famoso nel settore dell’arte, e

l’attuale mia condizione fisica post trasformazione, differiva parecchio dal vecchio Ryo Ungeziefer.

Comunque non passavo inosservato, mi passava a prendere una limosine con Mike l’autista nero di

2 metri super palestrato, con me venivano la mia segretaria di origine tailandese, e Navy la contessa

rumena come accompagnatrice. Io stesso ero un fenomeno da baraccone, con i miei muscoli

straripanti, i miei occhi da felino, i capelli sparati in aria, e le movenze di un serpente. Nel tempo

libero correvo, facevo kilometri, senza mai stancarmi, con Kaled andavamo nei fiordi, dove il mar

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baltico si scontrava con la roccia, era uno spettacolo magnifico, uno dei più bei posti in cui ero

stato. Questo durò comunque poco, perché già i primi di agosto, ci preparavamo per l’attacco finale

alla setta Temhota, e al recupero della Corona del Drago.

La partenza da Stoccolma fu il lunedì 3 agosto. Avevamo caricato tutto il materiale necessario in un

camion noleggiato, uno militare sarebbe stato troppo strano in un posto del genere, o comunque

notato da chi ci incrociava. Arrivammo a Norrlångträsk, nella contea di Västerbotten, un posto

delizioso, con i laghetti, con le case di legno colorate, la temperatura era mite, le strade erano in

perfette condizioni e non c’era mai traffico. Niente di quello che vedevo, mostrava le mostruosità

che avevo nella mia testa, se Evert Folke era nato qui, qui ci doveva essere qualche indizio per

iniziare le indagini.

Prendemmo una casa di legno, con il tetto a punta, e dipinta color mattone. C’era un capanno che

fungeva da garage per il furgone. Il paese era piccolo e non c’era bisogno di auto per spostarsi. La

prima impressione era che erano tutti appassionati dalle moto da cross, e capivo il perché, c’erano

tanti posti sterrati per fare i sali e scendi e acrobazie varie, inoltre permettevano di fare percorsi

stretti e ripidi, che erano impossibili con le normali auto. Mentre eravamo nella casetta a sistemare

il nostro equipaggiamento, avvertì una sensazione, una specie di presenza, accompagnata ad un

sibilo quasi impercettibile, non capivo da dove venisse. Aspettai la notte, tanto io non dormivo e al

buio ci vedevo meglio che di giorno.

Mi misi una tuta e un paio di scarpe da ginnastica e l’auricolare per rimanere in contatto con la

squadra. Iniziai la mia corsa, il sibilo proveniva da sud, quella era la mia unica certezza, cercai di

mantenermi il più possibile nelle strade principali, senza sconfinare in proprietà private, o farmi

inseguire dai cani da guardia. Feci dei kilometri e chiesi a Kim dove mi trovavo, lei con voce

assonnata mi disse, che ero a nord di una cava d’estrazione che si chiava Björkdalsgruvan AB, una

specie di scioglilingua. Procedendo verso sud avevo un laghetto alla mia destra, che prendeva

l’acqua da un fiumiciattolo sempre alla mia destra, a sinistra c’era questo enorme cantiere, il sibilo

veniva da lì. Non c’erano particolari recinzioni, qui nessuno rubava, non c’erano telecamere visibili,

c’era solo una quantità infinita di terra smossa. Mi colpì come un pugno al naso, l’odore della terra,

non so come fosse possibile, era la stessa terra in cui mi seppellivo per riposarmi, quella prelevata

dalla Caverna del Drago, questo posto era il luogo di origine.

Risalii la collina di terra e arrivai in cima, per avere una visuale migliore. Sotto c’erano dei

macchinari da cantiere come ruspe ed escavatrici, poi c’era una piccola baracca di legno non

verniciato. Complessivamente il posto sembrava un cratere lunare, come se ci fosse caduto un

meteorite in qualche era preistorica. Scesi fino alla baracchetta, ed entrai, c’era un tavolo e 6 sedie

di legno, c’era un deposito che odorava di carburante e accanto un tavolaccio con degl’attrezzi da

lavoro, l’unica cosa d’interessante era una bacheca di legno, metà era occupata dalla cartina della

zona e l’altra metà era una vecchia carta ingiallita di un ritrovamento di un meteorite. Quindi questo

poteva essere realmente un cratere, e le persone che scavavano erano in cerca di pezzi di quel

oggetto. Ma a che scopo? E cosa centrava con il sibilo nelle mie orecchie? Non avevo risposte.

L’unica cosa che sapevo era il nome della ditta “AB” che poteva significare qualunque cosa, forse

le iniziali del titolare dell’azienda, ma era solo un’ipotesi.

Feci marcia in dietro e ripercorsi la strada accanto al fiume, questa volta accanto la riva, c’erano dei

pesci in acqua, mi tolsi l’auricolare, mi tuffai e catturai un pesce enorme a mani nude. Ripresi

l’auricolare e con in braccio il pescione ritornai alla base. Quando videro tutto bagnato e con quel

pesce gigante, scoppiarono a ridere fino alle lacrime.

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CAPITOLO 41

Il meteorite

Scattammo tante foto a quel pesce, era innaturale un gigante così, in un fiume così piccolo. Pensai

che era dovuto ai minerali disciolti in acqua, che si trovavano in quel terreno vicino alla cava. Quei

minerali erano super nutrienti era questo che stavano raccogliendo. L’indomani mattina, spedimmo

in una vasca con ghiaccio il pesce, per farlo analizzare da Aya nel suo laboratorio, sperando che non

si rovinasse durante il percorso. Kim invece fece delle ricerche sulla ditta “AB”, ne risultò

proprietario un certo Alberto Braccianti, nato nel 1975 a Firenze, la ditta ha sede a Stoccolma, e ha

cantieri in tutte le parti del mondo. Come era possibile che una ditta così importante non la

conosceva nessuno, tranne nei registri ufficiali? Che interesse aveva questo signore a scavare pietre

in questo paese sperduto scandinavo?

Kim, mi diede un dato interessante, il signor Braccianti abitava ad Aivak in Svezia, ad ovest della

nostra posizione. Guardammo le immagini satellitari della zona e non c’era niente, si vedeva

boscaglia e un lago, non c’era segno di costruzioni o di strade asfaltate. Un ricco che faceva

l’eremita? Io pensavo un ricco che si nascondeva e bramava nell’oscurità. Quella era la mia idea, e

se la mia idea era giusta, lì c’era la sua base suprema, dove la setta tesseva le sue ragnatele e le

spargeva nel mondo. A quel punto avvertimmo tutti che l’attacco sarebbe stato nelle prossime ore,

che il punto d’azione era in quelle coordinate e che non saremmo tornati indietro senza la Corona

del Drago.

Era giovedì 6 Agosto, la data stabilita per l’attacco, avevamo viaggiato in camion la notte prima e ci

eravamo accampati a 5 Km di distanza dall’obiettivo. Un piccolo Campo 1 funzionale. Alle ore

08:00 iniziò la missione. Io indossai solo il gonnellino con la pelle di Zlatan, con enorme

raccapriccio di tutti. Poi indossai il costume di Evert Folke, non c’era stato bisogno di fare

modifiche perché aderiva perfettamente alla pelle e si modifica in base a gl’impulsi che riceveva.

Indossai il casco/elmo modificato da Aya, aveva inserito degli auricolari impermeabili e aveva tolto

il trasmettitore/ricevitore che comandava il mostro. In fine allacciai alla schiena la mia ascia

bipenne placcata in argento,e affilata da Kaled per l’occasione. Feci una prova radio per vedere se

funzionava correttamente, e si sentiva bene. Salutai tutti con un cenno della mano e sparii nella

boscaglia.

5 Km per il nuovo fisico non erano assolutamente niente, le mie falcate erano ampie, mi sembrava

quasi di volare rasoterra anziché correre. Arrivai al lago, mi immersi, e nuotai a pelo d’acqua, senza

creare onde o schizzi. Avvicinandomi all’obiettivo, sentivo l’acqua più calda, sentivo delle leggere

vibrazioni, guardai sott’acqua e non vidi pesci e ne piante acquatiche, solo rocce di diversa

dimensione, questo era preoccupante. Ora stavo affrontando una specie di corrente contraria, che

non veniva da un’affluente, ma dalle rocce di fronte a me. Potevo pensare ad una sorgente

sotterranea, ma l’acqua era calda e non fredda, come doveva essere a queste latitudini, anche se

eravamo ad agosto, l’acqua doveva essere solo qualche grado sopra lo zero, qui eravamo sopra i 20

gradi.

Arrivai alla roccia, e mi aggrappai, la vibrazione era più forte, e la corrente proveniva da sotto.

Decisi d’ispezionare il fondale, m’immersi e nuotai verso il fondo, poi andai controcorrente, come

un salmone che risale il fiume. C’era un’enorme caverna subacquea, come quelle che avevo visto in

Romania, ma di dimensioni gigantesche, l’arco era largo almeno 10 metri e alto dalla base del lago

15 metri circa, ci poteva passare un sottomarino intero e ci sarebbe rimasto spazio. Entrai nella

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grotta, e vidi che ai lati c’erano delle specie di luci segnalatrici, per indicare i confini di quel antro.

Spinsi più forte con le gambe e vidi una specie di molo d’ormeggio, con dei respingenti di gomma,

mi aggrappai ad uno di essi, poi lentamente, con estrema prudenza, mi issai e salii in superficie per

prendere aria e per vedere dove ero finito. Come sospettavo, era la base principale della setta, non

c’erano dubbi, per creare un posto del genere c’erano voluti sicuramente anni e svariati milioni di

euro, non era una costruzione banale, era stata progettata abilmente, non c’era niente

d’improvvisato.

Uscii dall’acqua e mi nascosi dietro un silos, dovevo fare molta attenzione, c’erano molte

telecamere attaccate all’alto soffitto, che sicuramente scrutavano ogni movimento. Sentii dei

rumori, poi vidi delle persone vestite tutte di nero, avevano un berretto con una B stilizzata.

Provenivano da un tunnel dal lato opposto di dove mi trovavo, feci il giro radente il bordo del muro,

basso e lento. Quando arrivai all’imbocco del tunnel, partì una sirena assordante e delle luci

lampeggianti gialle, mi avevano scoperto. Gli uomini in divisa furono avvisati della mia presenza e

mi andarono a cercare, io corsi per il tunnel cercando un nascondiglio, ma mi trovai un muro di

soldati, armi spianate e scudi rinforzati infrangi folla. Presi una rincorsa e caricai come un bisonte,

al contatto con quei uomini sentii come il rumore della palla da bowling quando fa strike e butta giù

tutti birilli, avevo solo rallentato la corsa e non mi ero fermato, i soldati che avevo colpito erano

sparpagliati per 10 metri, nessuno dava segni di vita.

Quelli non colpiti dalla mia furia, reagirono e si misero a sparare, mi colpirono ripetutamente, ma

sentivo come delle piccole punture d’insetto niente di più, era fastidioso, tornai indietro, ne presi

uno e gli staccai la testa dal corpo, ne presi un altro, gli diedi un calcio ad un fianco e volò su un

muro laterale privo di vita, e così ad uno ad uno li uccisi tutti, fino a ritornare all’imboccatura del

tunnel, non ne lasciai vivo nessuno. Liberato il campo da quel fastidio, ripresi la mia marcia alla

ricerca del Super Cattivo, la nemesi del bene, colui che generava il male e si nutriva del caos. Finito

il tunnel mi trovai davanti ad un ingresso blindato, le telecamere mi guardavano, sentivo dei rumori,

provenire dall’alto, c’erano due corridoi attaccati al tetto del tunnel, si affacciarono dei soldati e

iniziarono a sparare. Decisi che per andare avanti dovevo passare da li sopra.

Presi una lunga rincorsa e corsi talmente veloce che miei piedi aderirono alle pareti, permettendomi

la scalata verso i corridoi soprastanti, mi aggrappai al corrimano di metallo e balzai sopra. I soldati,

non si aspettavano una mossa del genere, continuarono a sparare e andare all’indietro, io ero più

veloce di loro e li scaraventai fuori dal corridoio, facendoli precipitare nel tunnel, urlavano e

strillavano, ma a me non interessavano, ero solo degli ostacoli che si frapponevano tra me e il mio

obiettivo. Superai l’ingresso superiore e mi trovai dentro la tana del diavolo. Una costruzione

nuova, non c’era polvere, non c’era ruggine, non c’erano graffi alle pareti. Continuai a camminare,

c’erano dei laboratori, entrai in uno di essi e trovai quello che non volevo trovare, circa 100 corpi

umani, che venivano trattati con il Rito del Sangue, se riuscivano a completare la trasformazione,

niente e nessuno li avrebbe più fermati.

Vidi il generatore di corrente e lo spensi, tutti i macchinari si fermarono, i corpi si muovevano

convulsamente in agonia, poi non si mossero più. Una minaccia in meno pensai, ma pensai che

c’erano altri 5 laboratori pieni di cavie. Uscii e andai a spegnere gli altri generatori. Quando arrivai

all’ultimo sentii delle urla, e dei soldati diversi, questi erano sempre vestiti di nero, ma erano

corazzati, avevano una specie di esoscheletro che li proteggeva. Io andai a dargli il benvenuto, ma

questa volta la loro forza congiunta sopravvisse al mio attacco e mi respinsero indietro. Capii che

facevano parte di una squadra di elit, dovevo cambiare strategia, avrei perso troppo tempo a

combatterli uno ad uno.

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CAPITOLO 42

Il Re Oscuro

Vidi il silos da 1000 litri di acqua deionizzata e lo spaccai con un pugno, l’acqua si sparse in tutto il

laboratorio, presi il cavo elettrico e lo buttai a terra, poi saltai, mi aggrappai ad una traversa in

cemento e mi tirai su. Le guardie corazzate erano pesanti, non potevano saltare allo stesso modo,

vennero bagnate dall’acqua, e poi gli arrivò la scarica elettrica continua, furono folgorati tutti, e così

risolsi il problema, senza neanche lottare. Io camminai sulla traversa come un equilibrista, arrivato

al muro, caricai pugni e calci, fino a quando non si aprì un varco abbastanza grande per poterci

passare. Mi tuffai dal buco e atterrai su una porzione di terreno asciutto, e da li andai in un altro

corridoio, lo percorsi tutto, alla fine c’era una grande porta d’argento, con tanti bassorilievo, spinsi

quella porta ed entrai in quella che sembrava la sala del trono. In effetti c’era un trono in fondo alle

navate, ma non vedevo nessuno.

Si sentì scricchiolare una porta laterale, che non avevo notato, da lì uscirono due guardie corazzate,

dietro di loro due persone, una era un altro mostro, doveva essere Eskil Håkan, anche se era coperto

dall’elmo/maschera e indossava il costume/placenta, capii che era lui. Il quarto uomo, era basso

rispetto alle altre persone che aveva accanto, circa 165 centimetri, magrissimo, capelli corti e radi di

colore nero, carnagione mediterranea, naso aquilino, occhi da pesce lesso, in testa aveva la Corona

del Drago, in tutto il suo splendore, era la prima volta che la vedevo, il rubino centrale era quanto il

pugno di una mano e di un colore rosso sangue intenso, era l’occhio del drago. La corona era fatta

di un materiale opaco privo di luce, con altre pietre preziose incastonate, aldilà dei poteri

sovrannaturali era un capolavoro assoluto.

Il Re Oscuro si mosse e si sedette sul suo trono, con gli alfieri ai lati, ed Eskil che era rimasto vicino

alla porta. Il Re parlò.

Alberto Braccianti: < Io sono il Signore dell’Ordine Oscuro, padrone del mondo intero, tu sei una

minaccia per noi, devi morire. Prima di mettere fine alla tua insignificante esistenza, ti voglio

raccontare una breve storia. La corona che hai cercato con tanta insistenza è una parte di un

meteorite caduto sulla terra milioni di anni fa, i miei antenati capirono le capacità di quel materiale

e ne forgiarono una corona e poi lo abbellirono con le pietre preziose che vedi. Il terreno dove

cadde il meteorite è ricco di minerali preziosi, che rendono forti e invincibili i miei uomini, che

prendono ordini solo da me, sono i Cavalieri Oscuri, potenti macchine da guerra.>

Ryo: < Questo lo so già, io stesso ho praticato il rito, e io stesso ho ucciso un Cavaliere Oscuro,

quanto all’immortalità ci andrei piano con le parole, visto che la testa di Evert era a 6 metri dal

corpo l’ultima volta che l’ho vista. Raccontami la vera storia se la sai, e non mi raccontare frottole

per i bambini.>

Alberto: < Bene, d’arroganza e presunzione ne sei pieno, ci sarà spazio per della conoscenza? Non

saprei dire. La storia la so e la so bene, visto che la tramandiamo da oltre due secoli. Il Re Bullent

Primo Poenari, rubò come un vile ladro la Corona del Drago, da millenni in nostro possesso, aveva

scoperto il rito e lui e altre persone diventarono esseri superiori. Il Cavaliere della Luce Olaf

Poenari, cugino del Re fu lui l’umano che tradì il nostro ordine e per questo motivo gli fu recisa la

mano. Ma tradimento chiama tradimento, e la bella figlia di nome Navlata, tradì la sua famiglia, che

fu condotta alla grotta del Drago , qui uccise i genitori e li seppellì insieme al cavaliere e a Bacaloff

il Saggio. Tagliò a tutti la testa, li avvolse in un sudario, li coprì con la terra, poi completò il lavoro

con le lapidi. Poi fece un atto di pentimento, lasciando lì anche la corona, perché nessuno la potesse

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ritrovare, e sfruttare il suo potere sugli umani. Chiuse la grotta e scappò lontano. Ma fu trovata

dall’ordine è condotta alla presenza del Re Oscuro dell’epoca. Lei raccontò la storia che ti ho

raccontato, ma non rivelò mai il luoghi delle tre caverne. Morì al rogo come una strega.>

Ryo: < Grazie, ora il cerchio è chiuso. Mi darai la Corona del Drago e io la riporterò al suo

legittimo erede e ne disporrà a suo piacimento, come hai fatto tu fino ad adesso!!!>

Alberto: < Stolto, quello che è mio rimarrà mio, tu morirai qui, non vedrai più la luce, morirai

nell’oscurità di questa caverna!!!>

Detto questo, si alzò e se ne andò verso la porta insieme ai due alfieri. Io feci per avvicinarmi, mai

fui bloccato immediatamente da Eskil il Mostro. Il Re Oscuro uscì dalla stanza e non potevo

inseguirlo. Chiamai a Kim, gli dissi che il Re Oscuro stava scappando e che io non lo potevo

inseguire. Probabilmente aveva un sottomarino per la fuga. Gli chiesi di mettergli un localizzatore

nello scafo per poi inseguirlo successivamente. Detto questo, non potei dire altro, perché mi arrivò

un pugno in faccia che mi tramortì e mi fece fare tre navate strisciando sul pavimento. Quello era il

gong d’inizio combattimento, ma non volevo sfinirmi come avevo fatto a San Pietroburgo, erano

inutili i proiettili e scosse elettriche, lo potevano solo rallentare. Qui ci voleva la mia ascia speciale

per uccidere mostri, ma prima lo dovevo riuscire a bloccare e lì non c’era niente che potessi

utilizzare.

Allora invece di andare in direzione del mio avversario, continuai ad andare indietro ed uscii dalla

porta d’argento, certo che mi avrebbe inseguito in capo al mondo, e infatti sentivo i suoi pesanti

passi che seguivano i miei. Passati un paio di corridoi, mi trovai un manipolo di soldati, che si erano

piazzati in modalità posto di blocco. Io non rallentai, anzi accelerai, poi all’ultima frazione di

secondo, scartai sul muro laterale destro, e camminai come una lucertola, superando alla grande

l’ostacolo, mentre Eskil aveva tirato dritto fracassando ogni cosa al suo passaggio, fregandosene dei

suoi compagni soldati. Arrivai al tunnel, qui non c’era nessuno, c’erano solo i corpi di quelli che

avevo ucciso prima, mentre quelli ancora vivi sicuramente erano saliti sul sottomarino insieme al

Re, per tentare la fuga.

Mi tuffai in acqua, questa volta ero a favore di corrente, ma qualcosa mi afferrò un piede e mi

lanciò sulla banchisa. Era una brutta situazione, perche il Re scappava e il Mostro numero 2 mi

sbarrava la strada, per passare l’avrei dovuto uccidere. Sciolsi il laccio che teneva stretta l’ascia alla

mia schiena e presi l’elsa dell’arma primitiva. Mi misi in posizione di difesa e attesi che Eskil

uscisse dall’acqua. Invece mi arrivò addosso un masso da mezza tonnellata, mi lanciai a sinistra

verso il silos, che coprì parzialmente il colpo facendolo carambolare dalla parte opposta dove si

arrestò. Io per mia risposta appena Eskil salì nella banchisa gli scaraventai addosso il silos. Lui

cercò di ripararsi, ma fu schiacciato. Mi avvicinai e vidi che era ancora vivo, ma bloccato dalla vita

in giù, era questione di momenti prima che si liberasse. Gli andai alle spalle, senza che lui se ne

potesse accorgere, strinsi bene l’ascia e colpii con tutta la mia forza, il colpo gli sconquasso tutte le

ossa, ma era rimasto tutto unito a causa del vestito, premetti il bottoncino nero e glielo sfilai, poi gli

tolsi il casco, e ritornai a colpire fino a che la testa non rotolò via dal corpo.

Libero da quel fardello, decisi di fare esplodere tutta la grotta, nessuno doveva vedere quei corpi,

ma soprattutto i laboratori, che potevano essere usati in futuro per creare altri mostri. Presi un fucile

di un soldato morto e sparai prima alle condutture del gas e poi ai serbatoi di carburante. Fui

investito dalle fiamme e dalle esplosioni, ma non sentivo dolore, niente mi faceva male. Entrai in

acqua e presi il viaggio per tornare dai miei compagni. Dietro di me l’inferno stava bruciando.

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PARTE VIII

Isola di Deception

CAPITOLO 43

Batterie scariche

La nuotata dalla caverna all’altra sponda del lago fu più lunga del previsto, avevo in una mano

l’ascia bipenne, e poi mi sentivo profondamente stanco, avevo di nuovo raschiato il fondo del barile

delle mie energie. Arrivato alla sponda, dovevo fare 5 Km per ritornare al Campo, questa volta non

correvo come il vento, ma arrancavo, usavo l’ascia come appoggio. Chiamai Kim, gli dissi di

venirmi a recuperare, poi mi spensi.

Ripresi conoscenza, dopo un tempo che non riuscivo a definire, il sole stava calando, quindi erano

passate almeno 5 ore, ero sdraiato su un lettino da campo che non riusciva a contenermi

completamente, ero al campo, mi misi seduto e chiesi aggiornamenti.

Kim: < Unge, ti abbiamo recuperato a 2 Km dal campo, eri svenuto, ti abbiamo portato qui, ti

abbiamo tolto casco e muta, abbiamo controllato che non avessi riportato ferite gravi, hai la pelle

arrossata come una grossa scottatura solare, ti abbiamo spalmato della crema idratante, e ti abbiamo

attaccato una soluzione fisiologica al braccio. La tua ascia è nel deposito armi. Noi siamo riusciti ad

intercettare il sottomarino che usciva dalla grotta subacquea e Kaled ha sparato con il fucile un

localizzatore satellitare. Sicuramente c’è un percorso sottomarino che porta al mare aperto. Il

sottomarino ha continuato a muoversi, prima lentamente, ora mantiene una velocità di crociera,

prima ha puntato a sud ora ad ovest, non sappiamo la sua destinazione. Tu cosa ci dici? Cosa è

successo la dentro?>

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Ryo: < L’inferno, stavano creando un esercito di soldato/mostro, ce n’erano a centinaia. Inoltre

c’erano un sacco di soldati regolari e specializzati, li ho uccisi quasi tutti. Ho ucciso anche Eskil

Håkan il secondo mostro. Ho conosciuto il Re Oscuro, un vero pezzo di merda, prima ha fatto

sfoggio dei suoi poteri, della sua indiscussa superiorità, poi al momento di combattere, se n’è

scappato come un topo, lasciando il suo cavaliere oscuro ad occuparsi delle faccende sporche>

Mike: < Non possiamo restare a lungo qui, preferirei tornare alla casetta del paesino>

Ryo: < Si Mike, non possiamo restare qui, più tempo passa e più il Re si allontana. A me dovete

lasciarmi stanotte al cantiere, non riuscirei a tornare a San Pietroburgo per ricaricarmi, lì è lo stesso

terreno della grotta del drago, per un giorno solo andrà più che bene. Quando sarò ritornato in

forma, inseguiremo quel bastardo, ormai è alle strette, ha perso due tesori, ha perso i suoi uomini

migliori, ha perso quelli di medio e scarso livello, ha perso il suo castello e i suoi laboratori, non gli

resta che scappare il più lontano possibile e fare perdere le sue tracce, ma noi non molleremo fin

quando lui non sarà morto e la corona tornerà in Romania>

Detto questo, mentre gli altri fecero i bagagli, io tornai a riposarmi. Dovevo imparare a dosare le

mie energie, sono stato fortunato due volte, non poteva andarmi sempre bene. Mi svegliai che mi

trovavo nel camion, Mike e Kaled, mi stavano facendo scendere con tutto il lettino. Era già buio, il

cantiere era deserto, mi seppellirono in un punto tranquillo, nella terra soffice, lontano dalle rocce,

addosso avevo solo il gonnellino di Zlatan. Mi addormentai.

Qualcuno stava scavando, mi stava riportando alla luce della notte, era passato un giorno. Mi

aiutarono a sollevarmi e a salire nel camion. Il camion camminò fino ad arrivare alla casetta, mi feci

una doccia lunghissima ero totalmente disidratato, avevo bisogno del mio bagno con i sali. A

malincuore dissi ai ragazzi che dovevamo comunque passare da Casa Arges. Mi vestii, feci la

valigia, caricammo tutto e tornammo a Stoccolma. Passai brevemente dal museo, per salutare e per

controllare che almeno lì era tutto a posto. Lasciammo la casetta gialla, per ritornare a San

Pietroburgo. Stavamo perdendo un sacco di tempo, ma non avevamo alternative. Arrivati a Casa

Arges, ritrovammo Carl e Irina, ma soprattutto c’era Aya, che aveva fatto l’ennesimo viaggio, per

andarmi in aiuto.

Mi portò in laboratorio, m’immerse nella vasca con i sali disciolti, e mi sentii rinascere, la mia pelle

non squamava più, e i miei muscoli tornavano tonici. Finito il trattamento, Aya mi parlò.

Aya: < Ryo, devi stare più attento, specialmente quando sei lontano dalla tua tana, hai dei cicli da

rispettare, se no morirai in maniera atroce, ti decomporrai senza che il tuo spirito lasci il corpo,

saresti una specie di zombi. Sto preparando un Kit Salva Vita da viaggio, ovunque tu sarai, i tuoi

uomini potranno ripararti. Poi ti devo parlare di una cosa molto importante, “il pesce gigante”, l’ho

analizzato, è in pratica una versione ittica di un rituale completo, evidentemente i minerali disciolti

nell’acqua sono penetrati nel corpo del pesce, e il lago gli ha fatto da incubatrice. Questo non l’ho

riferito al Conte e a nessun altro, questo significa che si potrebbero creare schiere di uomini e

animali super potenziati, comandati da un solo uomo. Il Conte non è una cattiva persona, ma la sua

inesauribile voglia di dominio, lo potrebbe portare a scelte sbagliate, meglio tacere e lasciare il

mondo come lo conosciamo adesso.>

Ryo: < Aya, ti ringrazio di tutto, sei la mia salvezza, sei sempre un passo avanti a tutti. Oltretutto, la

pensiamo allo stesso modo, il virus deve essere uno strumento per pochi, ed usato solo a fin di bene,

per ripristinare l’equilibrio naturale, stravolto da qualcosa di alieno.>

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CAPITOLO 44

L’isola

Ci volle una settimana, per capire dove si era rintanato Il Re Oscuro, si trovava in culo al mondo, in

un isola chiamata Deception, vicino al polo sud. Di una cosa ero certo, gli avevamo messo una

grossa paura e che quello sarebbe stato il luogo dove sarebbe morto, il resto contava poco.

Acquistammo attrezzatura tecnica, per il freddo più rigido che esistesse, qui era il 14 agosto ed

eravamo in piena estate, ma lì era pieno inverno, sarebbe stato un inferno di ghiaccio. Difficile

arrivarci, difficile restarci, difficile trovare tracce. Fu il viaggio più lungo della mia vita, perché

avevamo materiale che non poteva essere imbarcato sui voli di linea. Avevamo un aereo cargo,

guidava Mark e come copilota c’era Kaled. In stiva, c’eravamo io, le tre guardie, Navy e Kim. Carl

e Irina erano rimasti a San Pietroburgo, Irina per la gravidanza che avanzava, e Carl per mantenere

in attivo i nostri affari.

Ci vollero 8 ore per arrivare a Madrid, per fare rifornimento carburante e verifiche di controllo.

Altre 7 ore per attraversare l’oceano Atlantico e fare scalo a Miami. Altra ripartenza e altre 7 ore

per arrivare a Buenos Aires. Altre ore per arrivare a Capo Horn, il punto più meridionale del sud

America. Da lì non era possibile proseguire con l’aereo, le condizioni atmosferiche non lo

permettevano. Facemmo il trasbordo del materiale dall’aereo, ad una nave rompighiaccio,

decisamente più adatta alle temperature antartiche. Da Capo Horn all’isola Deception, ci volle un

altro giorno intero, passammo l’isola Linvinstone e finalmente vedevamo il nostro traguardo.

Entrammo nella Whalers Bay e facemmo rotta verso il molo della base Antartica Spagnola Gabriel

de Castilla. Al nostro arrivo non c’era nessuno, in questo periodo era raro vedere ricercatori, meglio

così. Scaricammo il materiale e lo portammo all’interno della base, non era chiusa a chiave, era raro

di trovare ladri in queste zone chissà perché. Sistemammo l’attrezzatura e poi andammo in

perlustrazione, eravamo stati per troppo tempo seduti, avevamo bisogno di sgranchirci, anche se

c’erano -30 gradi centigradi di temperatura.

L’isola di Deception è un isola situata in Antartide, nelle isole Shetland Meridionali. Si Trova a 120

Km a nord-est della penisola antartica. I soli luoghi abitati dell’isola sono costituiti da basi di

ricerca scientifica dipendenti dalle Forze Armate argentine e spagnole. Il primo avvistamento

accertato dell’isola fu eseguito dai cacciatori di foche britannici William Smith e Edward Bransfield

con il brigantino Williams nel gennaio 1820. Fu poi visitata ed esplorata per la prima volta

dall’esploratore americano Nathaniel Palmer sulla nave Hero nell’estate australe seguente, il 15

novembre 1820. Palmer la chiamò “Deception Island” che tradotto significava “Isola del’Inganno”

per via del suo ingannevole aspetto di isola normale, mentre la stretta entrata attraverso il Neptune’s

Bellows permise di scoprire che in realtà ha la forma di un anello attorno ad una caldera allagata.

La perlustrazione si rivelò faticosa, il terreno vulcanico nero contrastava con la neve bianca, c’erano

pochi punti di riferimento, solo qualche relitto di barche baleniere e attrezzature per ricavare il

grasso, completamente corrosi dall’incuria e dal tempo implacabile. Poi sentii un ronzio, un ronzio

che sentivo solo io, sentivo che la Corona del Drago era qui, avevo la conferma che non c’eravamo

sbagliati. Cercai ancora una volta di orientarmi in mezzo a quel niente assoluto. Pensai, che

l’ingresso doveva essere una grotta subacquea, abbastanza ampia per farci entrare un sottomarino,

non poteva essere nella costa esterna dell’isola perché il mare era sempre troppo agitato per fare

manovre in tutta sicurezza. Pensai anche che doveva essere in punto distante dalle basi dei

ricercatori, perché quelli della setta non amavano avere compagnia. Ci dovevano comunque essere

dei segni visibili, dei comignoli per le prese d’aria ad esempio.

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Alla fine trovai quello che stavo cercando, nella estrema parte nord della baia delle balene, c’era un

golfo di acqua marina con un ingresso stretto, dall’alto assomigliava ad un fungo atomico. Lì

l’acqua era ulteriormente calma, ed era il punto più distante dalla base di ricerca. In prossimità della

superficie dell’acqua, c’era una grande quantità di vapore acqueo, che non usciva a disperdersi

perché il freddo l’appesantiva subito, riconvertendolo in ghiaccio. L’acqua era calda, 2 motivi

potevano spiegare quel calore, un motivo poteva essere che eravamo dentro la caldera di un vulcano

attivo e dell’acqua di mare era penetrata in profondità e andava a toccare le rocce incandescenti

vicino al magma, oppure poteva essere l’effetto di un reattore nucleare all’interno del sommergibile

che produceva tantissimo calore e veniva raffreddato con l’acqua di mare. Mi avvicinai ancora e

vidi dei cilindri metallici dipinti di bianco per essere meno visibili ad un occhio distratto, ma non ad

un occhio attento come il mio. Ora toccava capire come entrare e fare piazza pulita. Per ora decisi di

fare dietro front e tornare alla base, la squadra era tutta intirizzita dal freddo, e non volevo che si

ammalassero in quel luogo sperduto.

Una volta tornati alla base, chiesi di preparare il Kit di Sopravvivenza per mostri creato da Aya.

Dovevo essere al massimo della forma psicofisica per affrontare questa battaglia, non volevo

svenire più, volevo essere cosciente sempre, e questo dettaglio fondamentale, faceva pendere la

bilancia fra la vita e la morte. La terra fu deposta per il sonno e la vasca preparata per il risveglio.

Era passato un altro giorno al mio risveglio, mi immersi nella vasca per un paio d’ore. Poi mi misi il

gonnellino di Zlatan, il costume e il casco di Evert, legai l’ascia bipenne alla mia schiena, feci una

prova radio e sentii Kim all’orecchio. Unico ordine era quello di evitare un’altra fuga, la squadra

doveva mettere delle cariche esplosive all’ingresso della baia, a costo che anche noi saremmo

rimasti prigionieri li, la fuga non era contemplata.

Uscii dalla base e puntai a nord verso il piccolo golfo a forma di fungo. L’acqua al contrario

dell’oceano che aveva una temperatura poco al disopra dei 0 gradi, lì era non dico calda, ma

abbastanza tiepida da non rischiare l’ipotermia dopo qualche secondo. Mi immersi, l’acqua era

cristallina, trasparente, si vedeva tutto, si vedevano delle bollicine d’acqua che provenivano da un

anfratto di fronte a me. Era la classica grotta con la B stilizzata all’ingresso, ampia per fare passare

il sottomarino, ma che non si vedeva dalla superficie. Entrai nella grotta senza indugio, anche qui

c’erano le luminarie per indirizzare i mezzi subacquei, poi trovai la banchina, emersi dall’acqua e

osservai l’ambiente circostante, era simile in tutto alla caverna in Svezia, ma dimensioni ridotte,

questo era solo un luogo secondario, probabilmente si utilizzava quando c’erano missioni nel

l’emisfero australe. C’erano soldati in divisa nera, niente soldati corazzati, almeno in quella zona,

quindi non indugiai più di tanto e partii alla carica.

Colpii due soldati ancora prima che si accorgessero della mia presenza, poi ne colpii un altro mentre

stava per sfilarsi la pistola dalla fondina. Iniziò a suonare l’allarme e lampeggiare le luci gialle, mi

sembrava di rivivere la stessa scena di quando ero in Svezia. Mi guardai attorno e vidi il tunnel,

anche quello era al suo posto, ma di dimensioni inferiori, qui trovai le squadre specializzate e

caricai testa bassa, ero ancora al pieno delle forze e potevo prendere una bella rincorsa, il muro di

uomini si era aperto al mio passaggio. Recuperai da terra un paio di mitra e iniziai a sparare in tutte

le direzioni, i soldati semplici furono rasi al suolo, quelli corazzati si ripararono e risposero al

fuoco, mi colpirono decine di volte, ma non sentivo dolore, solo fastidio. Continuai a sparare colpi

fino a quando non si svuotarono i caricatori, poi decisi di fare la mia corsa tipo lucertola, camminai

su un muro laterale del tunnel e oltrepassai le linee nemiche, li presi alle spalle e non ebbero il

tempo di reagire, solo il tempo di morire, con un mio pugno o con una mia gomitata, che gli

frantumava le ossa e gli spappolava la carne.

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CAPITOLO 45

Il Cavaliere della Luce contro il Re dell’Oscurità

Decimati i soldati della setta Temhota in quella zona, percorsi tutto il tunnel, come l’altra volta la

porta era blindata, guardai in alto, non c’erano due corridoi, ma solo uno, quanto basta per

arrampicarmi ed affrontare una nuova schiera di soldati, che immancabilmente venivano gettati nel

tunnel sfracellandosi. Superato l’ingresso dall’alto, riscesi dall’altra parte, qui non c’erano

laboratori, c’erano dei depositi, entrai e non potevo credere ai miei occhi, qui c’era il tesoro della

setta, era la banca da dove prelevavano il denaro per mettere in pratica gl’atti criminali, questa volta

non avrei fatto esplodere niente, almeno ci avrei provato. Uscito dai depositi, presi un corridoio, che

mi portò ad una porta d’argento, uguale a quella in Svezia, ma più piccola, spinsi la porta e mi

trovai in una grotta vulcanica, da qui, in tempi remoti scorreva la lava, si vedevano le pareti con

delle linee ad onda che segnavano il passaggio del magma.

Quella stanza era vuota, non c’erano colonne, non c’erano troni, c’erano solo dei ceri che

illuminavano fiocamente l’ambiente. Poi sentii quel rumore, quel rumore di porta di legno con

rinforzi in ferro, l’avevo ascoltato 5 o 6 volte nell’ultimo anno, dietro quelle porte avevo trovato

tesori e nemici agguerriti. Si palesò davanti a me un uomo, poi vidi che aveva le sembianze di un

cavaliere oscuro, mi fece vedere un oggetto che aveva in mano, era la Corona del Drago, la portò in

un angolo e la poggiò su uno spuntone di roccia, poi prese da terra una lunga spada d’argento e si

avvicinò a me e mi parlò.

Alberto: < L’altra volta, mi hai colto impreparato, ero ancora un uomo, ora sono un Dio, siamo soli

io e te, chi vince si prende la corona, chi muore marcirà in eterno. Ora sfodera la tua arma che è

tempo di fare scorrere il sangue!!!>

Ryo: < Hai effettuato il rito anche tu, bravo, ti facevo più vigliacco, ma ugualmente oggi morirai.>

Slacciai l’ascia bipenne e mi preparai a combattere. Sentii quel ronzio, quello vicino al cantiere in

Svezia, era più forte, più intenso, m’intontiva, mentre il Re era fermo davanti a me e non sembrava

avere il mio stesso problema.

Attaccò con la spada, un fendente mi passò pochi centimetri dalla testa, rotolai a terra e mi rialzai di

scatto, poi alzai l’ascia per colpire, ma il sibilo mi trafisse i timpani e persi l’equilibrio. Capì che

quel suono era voluto, e che danneggiava solo me, se volevo sconfiggerlo dovevo trovare la fonte di

quel suono. Scivolai lungo il perimetro della porta e cercai di uscire da lì, ma era chiusa. Allora

colpii con tutta la forza, uno due tre colpi, la porta cedette, ma non potei attraversarla, perché il Re,

mi prese di peso e mi scaraventò dall’altra parte e si frappose tra me e la porta aperta. Caricai a testa

bassa e lo colpii allo stomaco e lo scagliai sulla roccia basaltica, riuscii ad entrare dalla porta, c’era

un piccolo corridoio stretto, lo percorsi tutto, alla fine c’era un’altra delle porte di legno, ma questa

volta era aperta. Dentro trovai due soldati davanti a dei computer e monitor, erano loro, che

amplificavano il segnale che proveniva da un’altra sala, gli staccai la testa senza farli parlare, vidi

nel monitor la scritta Struttura Zero, era lì che dovevo andare.

Uscito dalla stanzetta ritrovai il Re nel corridoio che correva nella mia direzione, poggiai l’ascia a

terra, non mi serviva in quello spazio stretto, mentre il Re mi puntava con l’enorme spadone

d’argento, mi volle colpire con un colpo frontale troppo prevedibile, io saltai sopra di lui e feci una

capriola atterrando alle sue spalle, l’afferrai da dietro e incominciai a stringerlo, lui iniziò a

scalciare e scalciare l’aria, poi trovò il muro e spinse contro di me, io sbattei fortissimo contro il

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muro che crollò, e volammo in un crepaccio sotterraneo, persi la presa e ci dividemmo, sbattemmo

su tutte le rocce, fino a schiantarci su uno spuntone di roccia. Era tutto buio, in alto si vedeva un

raggio di luce provenire dal buco che avevamo creato, cercai di orientarmi, l’unico suono era lo

scorrere dell’acqua e il Re che cercava di sollevarsi, io l’afferrai e cercai di toglierci il casco, ma lui

prese le mie braccia e me le allontanò. Io mi liberai dal suo abbraccio e gli afferrai un piede, lo

sollevai da terra con la testa sotto e piedi all’aria, iniziai a farlo sbattere contro le rocce, tante volte,

lui colpiva con la testa, con le mani, con il corpo, poi lo feci roteare e lo feci schiantare sulla parete

verticale.

Ora era davvero tramortito, corsi a togliergli il casco e a sfilarci il costume, e ci riuscì, ma ora si

presentava un problema, la mia ascia era almeno 30 metri sopra di me e non avevo il tempo di salire

e scendere. Poi finalmente la fortuna mi assistette, vidi la spada d’argento, incagliata tra due

spuntoni di roccia, il Re l’aveva fatta cadere con se nel baratro. La presi e colpii con tutta la forza

che avevo, la lama era affilatissima e bastò un colpo ben assestato, la testa si staccò dal tronco e

rotolò via, andando a finire nelle correnti del fiume sotterraneo. Era finita, avevo sconfitto il male,

ora dovevo solamente cercare di sopravvivere, che non era semplicissimo, se finivo nel fiume

sotterraneo, rischiavo di finire in qualche gorgo da dove non c’era ritorno. Guardai in alto, verso

quella flebile luce, tastai la parete, era dura e gelida, qui non potevo prendere rincorse per salire, ero

bloccato.

Provai a chiamare Kim con l’auricolare, ma ero troppo in profondità e le pareti erano troppo spesse,

era inutile. Guardai ancora una volta la parete, vidi che non era proprio liscia, c’erano delle linee

curve che sporgevano di circa mezzo centimetro, che percorrevano metà della salita, puntai le dita e

mi sollevai da terra, puntellai anche i piedi, e iniziai una lenta scalata obliqua fino a raggiungere la

metà del dislivello. Ora dovevo cercare di risalire i restanti 15 metri, vidi una piccola sporgenza

abbastanza ampia per poggiare i piedi e ci saltai sopra, mi riposai un paio di minuti per recuperare

dalla fatica, nel frattempo guardavo le possibili strade per risalire. Vidi una roccia dall’altra parte

dello strapiombo, un pò più in basso, mi lanciai e mi aggrappai e salii sulla roccia, da qui la

pendenza non era verticale, c’era angolo per poter risalire, e risalii altri 12 metri e mezzo, ne

mancavano 2 e mezzo, ma erano i più difficili, perché ero stanco e il buco si trovava dall’altra parte

del burrone, qui se cadevo, non mi sarei più rialzato come prima. Cercai di salire ancora un po’,

recuperai quasi un metro, poi mi misi con le spalle al muro, puntai bene i piedi sulla roccia, mi diedi

lo slancio e saltai nel vuoto, percorsi quei metri in volo, e con le punta delle dita riuscii ad

aggrapparmi al bordo del foro del muro, m’issai con i muscoli delle spalle e mi spinsi dentro al

corridoio.

Ce l’avevo fatta, avevo risalito quell’abisso, ora ero sfinito, restai 5 minuti fermo per recuperare

l’energie. Mi alzai e mi misi a girare tutta la caverna, trovai la caserma dei soldati con le brande e

gl’armadietti. Non c’era più nessuno. Poi mi venne un dubbio, il Re Oscuro oltre ad essere un

vigliacco, non credo fosse capace di guidare un intero sommergibile da solo, lì doveva essere

rimasto l’equipaggio ad aspettarlo. Mentre giravo, trovai una porta con la scritta “Struttura Zero”,

entrai, era un laboratorio non grandissimo, ma al centro c’era una pietra nera, di forma quasi

rotonda, più simile ad un uovo, Attorno c’erano apparecchiature tecnologiche, che probabilmente

erano state la causa e la sorgente del sibilo stordente. Non lo toccai, preferivo che lo toccassero

mani più esperte di me, uscii dal laboratorio e tornai indietro, ripresi l’ascia bipenne nel corridoio

stretto, poi superai la porta di legno distrutta, ed ero tornato alla grotta principale, lì in uno spuntone

c’era la Corona del Drago, la presi e l’indossai.

La mia testa era partita in un viaggio psichedelico, la mia mente vagava nell’infinito.

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CAPITOLO 46

Rivelazioni

Ora capivo perché il Re Oscuro si definiva il Re del mondo, quella Corona era un tesoro di

conoscenza, era la memoria di chi l’aveva indossata in precedenza, tutta la storia, tutta la geografia,

tutta la scienza, ma soprattutto tutte le sensazioni che avevano provato quei uomini. Il più grande

tesoro era la conoscenza, che varcava i limiti del tempo e dello spazio, era questo il valore supremo.

Tornai in me, dopo un tempo indefinito, ero sotto terra, non c’erano riferimenti, mi alzai da terra e

andai verso l’ingresso della caverna, li cercai un interfono, che permetteva di comunicare tra la

banchisa di cemento e il sommergibile, io non lo sapevo ma c’era nella memoria del Re Oscuro, che

adesso era mia. Trovai l’apparecchiatura e pigiai un paio di bottoni e misi a parlare.

Ryo: < Sono il Cavaliere della Luce, mi chiamo Ryo Ungeziefer, ho ucciso il vostro Re, ho io in

testa la Corona del Drago, ora sono io il vostro nuovo padrone, salite in superficie, vi aspetto.>

Da una botola nascosta, uscirono una decina di soldati impauriti con le braccia alzate, si

avvicinarono intimoriti. Dovevo essere spaventoso, con la maschera/elmo, con il costume di

membrana, con la corona in testa e in mano un ascia da vichingo.

Ryo: < Non abbiate paura, avvicinatevi, la guerra è finita, non voglio uccidere più nessuno, vi do

due possibilità, volete passare all’Ordine della Luce e vivere, oppure morire come fedeli servitori

dell’Ordine dell’Oscurità? A voi la scelta.>

I soldati si consultarono fra di loro e si avvicinò di un passo il portavoce che disse “siamo con il

nuovo Re” e questo mi bastò. Risposi che sarebbero arrivati i miei uomini, che avrebbero impartito i

nuovi ordini, io sarei andato via, e che non potevano scappare perché l’ingresso della grotta era stata

riempita di esplosivo. Loro capirono e si rassegnarono.

Presi un laccio e legai alla schiena ascia e corona. Mi tuffai in acqua e percorsi il tunnel subacqueo

fino all’uscita. Riemersi ed uscii dall’acqua. Camminai lungo la costa della baia delle balene, fino a

tornare alla base operativa. Entrai, slacciai la corda, e alzai le braccia al cielo, in una mano tenevo la

mia fedele ascia bipenne e nell’altra mostrai la Corona del Drago in segno di vittoria. Li poggiai

delicatamente sul tavolo e poi crollai a terra privo dei sensi.

Era Lunedì 17 Agosto, mi svegliai in una branda, con tutta la squadra che mi guardava, io guardai

loro, e feci un sorriso, che contagiò tutti, e tutti si misero a ridere. Mi alzai e mi vestii, poi parlai.

Ryo: < Ho ucciso il Re Nero, si era trasformato in un mostro anche lui. Ho ucciso il 95% dei soldati

presenti nella base, è rimasto vivo solo l’equipaggio del sottomarino, ci servono per poterlo guidare

fuori da questo posto, ma non mi fiderei di loro, anche se chiedessero aiuto via radio, nessuno li

aiuterebbe, ma comunque non mi fido di loro. Dentro la caverna ci sono due cose molto importanti,

la prima è il nucleo del meteorite caduto in Svezia, quello che creava il sibilo per intenderci,

bisogna trasportarlo con la massima cura e poi analizzarlo approfonditamente. La seconda cosa è

che abbiamo fatto Jackpot, c’è l’intero tesoro della setta, milioni di dollari, in oro e pietre preziose,

una ricchezza infinita. Dobbiamo fare venire Sophina e Carl per organizzare la catalogazione e il

trasporto del materiale. Si deve chiamare anche la Vogan per gl’imballaggi. Intanto ci vogliono due

squadre a turno che vadano a fare la guardia alla grotta, non ho voglia di altre sorprese. Penso che

mi coricherò nella mia terra. Avete domande?>

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Kaled: < Tutto chiaro, ma se i soldati dovessero fare i furbi li dobbiamo uccidere?>

Ryo: < Se fanno i furbi, li prendete e li fate ragionare, usate i miei metodi se servono.>

Mike: < Ci vorranno settimane per completare il lavoro qua, non abbiamo abbastanza provviste.>

Ryo: < Li potete prelevare dalla grotta, c’e il mangiare per un reggimento di soldati, non temete>

Kim: < Io inizio a fare le chiamate, ci sono almeno 3 persone che ti hanno cercato, l’informerò>

Navy: < Bullent sarà felicissimo, quando tornerai in Romania sarai ufficialmente eroe nazionale>

Ryo: < Mi basta essere vivo, vorrei tornare al mio vecchio corpo, avverti Aya delle mie intenzioni.

La Corona del Drago riposerà con me.> Con queste parole fui seppellito.

Dopo il risveglio, lasciai tutto in mano alla squadra, passavo le giornate a fare lunghe passeggiate

nella baia e qualche escursione tra la costa esterna, quando le condizioni non erano proibitive,

amavo quel luogo, il fuoco del vulcano che scorreva sottoterra e il ghiaccio perenne in superficie,

c’era silenzio, si sentiva solo il fischiare del vento, ogni tanto giungeva qualche verso dei pinguini o

delle foche, i veri abitanti di quest’isola.

La squadra del Conte Bullent, arrivò solo il 25 agosto e ci volle un’altra settimana, per catalogare,

impacchettare e immagazzinare il tesoro e trovare una sistemazione “tranquilla” per il sottomarino e

i soldati ex setta. La squadra Arges partì i 5 settembre per fare il viaggio di ritorno, fu se era

possibile ancora più lungo e pesante dell’andata. Arrivammo in Romania direttamente senza passare

dalla Russia, il Conte era impaziente di vederci. Entrammo a palazzo Poenari il lunedì 7 settembre,

era pomeriggio fatto, il camion parcheggiò, davanti l’ingresso principale, il Conte era li ad

aspettarci.

Bullent: < Caro carissimo il mio Illuminato, non vedevo l’ora di rivederti e di rivedere la tua

squadra sana e salva, avanti entrate>

Ci fece accomodare nel salone principale, ci fu offerto ogni tipo di cibo e bevanda, ma gl’occhi del

conte si posavano sempre sulla mia valigia che conteneva la Corona del Drago. Gliela misi davanti

e l’aprii, gliela feci vedere per qualche secondo e poi la richiusi.

Bullent: < Perché la richiudi? Per fare questo gesto penso tua abbia un motivo più che valido>

Ryo: < Certamente, volevo confermare che il patto tra noi stipulato è stato portato a termine>

Bullent: < Sicuro, ho già contattato il Commendatore Platania, il bonifico da 1000000 di Dollari sta

viaggiando verso New York, e gli ho confermato la mia disponibilità di associare il nome della mia

casata alla sua società>

Ryo: < Io le consegno ufficialmente la Corona del Drago, perché è sua di diritto, il potere supremo

è nelle sue mani, anzi nella sua testa. Però le sconsiglio fortemente, di non indossarla mai, è fatta di

una pietra aliena ricavata da un meteorite, emette delle radiazioni molto forti, che solo chi ha

eseguito il rito può percepire, per questo ho chiuso la valigia, io preferisco un Conte senza corona

vivo che un Conte con la corona in testa morto, la scelta spetta a lei.>

Bullent: < Ci penserò, ci penserò domani. Oggi è giorno di festa, non voglio morti in casa,

specialmente quando quel morto potrei essere io, sarebbe una cosa disdicevole.>

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CAPITOLO 47

Ritorno alla normalità

Il Conte Poenari nominò tutti i componenti della squadra Arges, cavalieri dell’Ordine della Luce,

diede una medaglia d’oro a ciascuno, era incisa nella parte anteriore un’ascia bipenne con al centro

un occhio da cui partivano raggi di luce, nella parte posteriore c’era l’incisione in rumeno che si

traduceva in “ onore al merito al cavaliere della luce”. Il Conte mi fece primo cavaliere del regno, e

cosa più importante seguì il mio consiglio di non indossare la Corona del Drago, con mio enorme

sollievo, perché avrebbe scoperto tutto quello che avevo fatto compresi i miei segreti. Ora mi

trovavo in laboratorio al Palazzo Poenari, in compagnia di Aya. Erano arrivati tutti i reperti dal polo

sud. Ogni angolo del laboratorio luccicava e scintillava con il tesoro di Deception, ma l’interesse

era tutto rivolto sul meteorite.

Era un oggetto alieno, non era un semplice meteorite, aveva una vita propria, con opportuni

strumenti, si riuscivano a carpire suoni, non assomigliava ad un sibilo che rompeva i timpani, quella

era una sua arma di difesa, mi disse Aya, il suo parlare assomigliava al canto delle balene, con suoni

ad una frequenza molto bassa e una lunghezza d’onda ampia, si potevano sentire qualche schiocco e

scoppiettio. Si doveva interpretare, ma qui non c’erano delle rune per poter decifrare.

Passammo a me e al mio caso, volevo tornare normale, non volevo più i super poteri, volevo che

quando ritornavo a San Pietroburgo, Irina mi guardasse e mi riconoscesse. Aya mi disse che il

processo era lungo, doloroso, e che comunque il Virus sarebbe rimasto silente nel mio corpo, non

era possibile toglierlo definitivamente. Passammo dalla teoria alla pratica.

Il processo era l’inverso del rito del sangue. Fase 1: fu quella d’immergermi nella vasca con la

soluzione salina per ammorbidire il corpo. Fase 2: era seppellirmi con la terra della caverna del

Drago, questa inversione, fu un tormento, perché la pelle morbida al contatto con il minerale, la

scomponeva, strappava, incideva, scarnificava, così facendo il virus si concentrava in quelle zone,

che lentamente venivano rimosse. Quindi il corpo si andava depurando dal virus, ma non

completamente. La Fase 3: era l’immersione dentro la bara d’argento per la trasformazione inversa,

dodici giorni in quella camera di deprivazione era qualcosa di allucinante, ma non potevo tornare

indietro. La Fase 4: al mio risveglio ero una massa di gelatinosa, sembravo più ad una medusa, che

ad una persona, mi dovettero portare con una barella di plexiglass fino alla vasca con i sali minerali,

che questa volta anziché ammorbidire il corpo lo fece indurire, il corpo prese forma, i muscoli si

contrassero, la pelle si riformò e tornai ad essere un essere umano a tutti gli effetti. La Fase 5: era

bere dal calice d’argento, ma non c’era il sangue, c’erano antibiotici ad ampio spettro, per rendere

inoffensivo la restante parte del Virus.

Mi guardai allo specchio, ero di nuovo io, certo mancavano tutti i peli del corpo e della testa, ma

sarebbero ricresciuti, ero felice di essere me stesso, una sensazione strana, ma tra le migliori. Era

fine settembre ed ero stato tanto tempo lontano dalla mia casa in Russia e da Irina. Lunedì 28

settembre la Squadra Arges fece ritorno a casa, era bello vedere un posto creato da te che si ergeva

in cima alla collina. Era quello per cui avevo lavorato tanto, ora avevo solo voglia di tornare alle

origini.

Trovai Irina nel salone rinnovato, lei stava distesa sul divano, con il pancione all’insù, guardava la

tv, andava in onda il telegiornale russo. Si accorse della mia presenza e mi guardò, poi parlò.

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Irina: < Ciao Jeremy, ben tornato a casa, sei stato molto tempo fuori, la pancia è cresciuta, dove

sono finiti i tuoi capelli?>

Ryo: < Ciao Irina, ho fatto un lungo viaggio dall’altra parte del mondo, i capelli mi sono caduti, ma

a breve ricresceranno. Tu come stai?>

Irina: < Mangio molto e mi muovo solo per andare in bagno. Ho sistemato la scrivania vittoriana.>

Guardai nella direzione che lei mi indicava, all’angolo del salone, c’era la scrivania completamente

ristrutturata, i segni di rottura, ero appena percettibili, anche per un esperto come me. Mi girai verso

di lei e gli feci il gesto del pollice verso l’alto, in segno di approvazione. Mi avvicinai a lei. Lei alzò

la schiena per farmi sedere alle sue spalle, e diventai il suo nuovo cuscino. Con una mano gli cinsi il

collo e con l’altra toccavo il pancione, era enorme, incredibilmente cresciuto, da quando ero partito

per l’isola di Deception.

Ryo: < Sai se è un maschio o una femmina? Così iniziamo a preparare la sua cameretta.>

Irina: < É una femminuccia, sono indecisa sul nome da dargli, pensavo a Mab, come mia nonna, che

ne dici?>

Ryo: < Dico che è perfetto, odio i nomi lunghi, mi bastano quelli delle guardie del conte Poenari,

che a proposito sarà il padrino della bambina, se a te stava bene ovviamente. Avere come padrino

l’uomo più ricco e potente del mondo non è male, gli potrebbe aprire tante porte nel futuro

prossimo>

Irina: < Si per me va bene, meglio di quel mafioso siciliano del tuo boss, il Commendatore

Calogero Platania, massimo esponente degl’imprenditori internazionali, e appassionato di arte.>

Ryo: < In effetti, c’è un po’ di differenza tra i due, ma comunque anche il Commenda è una persona

molto influente, e l’associazione del gruppo Printer con la Famiglia Poenari, diventerà il numero nel

mondo nel suo settore, garantito.>

Irina: < E tu in che settore andrai? Esperto d’arte, Serial Killer, Scienziato pazzo o cos’altro?>

Ryo: < Vedi Irina, la mia prima passione, che tu mi possa credere o no, è sempre stata quella di

aiutare la mia gente, usando il mio lavoro di operatore socio sanitario, nell’ospedale della mia città

di origine, cioè Wuhan. Ho chiamato il Commenda e gli ho comunicato che la prossima settimana

sarei ritornato in Cina per riprendere servizio>

Irina: < E a noi non ci hai pensato? Ci abbandoni qui, mentre tu vai ad espiare le tue colpe dall’altra

parte del mondo?>

Ryo: < Io dovevo lasciarvi, il mondo non era sicuro, con quella setta in circolazione, gli ho tagliato

la testa, letteralmente, non potrà più nuocere. No che non vi abbandono, ma è più facile che sia io a

fare avanti e indietro dalla Cina, che tu seguirmi nel tuo stato interessante. Inoltre qui sei nel posto

più sicuro del mondo, c’è tutta la squadra Arges a proteggerti, vieni tratta meglio di una regina.

Quando finirò gl’impegni a Wuhan, ritornerò qui a San Pietroburgo, per godere a veder crescere la

nostra famiglia. Lo desidero fortemente.>

Irina: < Spero che le tue parole siano sincere, che tu non mi stia mentendo, che non abbia già altri

progetti in mente, come quando ci siamo conosciuti>

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CAPITOLO 48

Ritorno a Wuhan

Lunedì 5 ottobre, sancì il mio rientro all’Ospedale di Wuhan, avevano inaugurato un reparto di

Chirurgia Pediatrica con il mio nome, merito di tutte le donazioni della Printer per farmi stare in

ferie illimitate. Il reparto era all’avanguardia, c’erano le strumentazioni migliori per qualità, le

stanze erano singole, lungo i due lati di un ampio corridoio del quarto piano del plesso principale.

Era quasi tutto pieno, e miei colleghi mi salutavano e mi stringevano la mano, qualcuno un po’ più

in confidenza mi diceva “ potevi stare altri due mesi in vacanza così pagavo l’università ai miei

figli” oppure “ ma chi te lo fa fare a stare qua? Torna in Italia a fare la bella vita!!!”. Io sorridevo e

ringraziavo sentitamente dei consigli.

Iniziai a fare il mio giro lavorativo, dopo tutto quello che avevo passato, dopo tutto quello che ero

stato costretto a fare, stare con i bambini, giocarci, aiutarli a mangiare, aiutarli a pulirsi, ascoltare le

loro storie, era per me il paradiso. La semplicità che mi era mancata, il tempo scandito dai turni di

lavoro, il tempo dedicato al prossimo, senza più la brutta minaccia del coronavirus, che aveva

devastato il mondo intero, a quasi un anno di distanza ora c’era il vaccino, pronto all’uso. Vedevo la

gente che camminava per le strade, ancora con guanti e mascherina, non vi era un pericolo reale, ma

la gente si era abituata alla prudenza, quei presidi facevano parte oramai della cultura locale.

Tornai alla mia vecchia casa in affitto da scapolo, abbandonata mesi prima, per un viaggio di una

settimana, che invece durò una vita. Le piante nel balcone erano morte, le due stanze e il bagno

erano sporche e piene di polvere. Mi misi a pulire tutto di persona, anche se ero ricco e potevo

comprarmi una ditta intera di pulizie, ma non volevo estranei in casa, avevo visto troppe facce,

volevo stare in santa pace, sistemare le mie cose e al momento giusto tornare a casa a San

Pietroburgo dalla mia famiglia.

Quel momento fu spezzato dal suono del cellulare che squillava, non mi ricordavo neanche di

averlo acceso, guardai il display e vidi il nome, era Reika Miyazaki. Premetti il tasto verde per

aprire la conversazione.

Reika: < Ho saputo che sei tornato in città e non ti sei fatto sentire, ti sei scordato dei veri amici?>

Ryo: < Ciao Reika!!! È un piacere risentirti. Sono a casa a fare le pulizie, ero partito per una

settimana e invece… Colpa di tua sorella maggiore che mi ha portato a mala strada. Ho

ricominciato a lavorare in ospedale, oggi era il mio primo giorno di rientro. Ci sono novità?>

Reika: < Beh, la novità è che anche Selene è tornata a casa, e il suo primo pensiero era per te, ma

non aveva il coraggio di chiamarti personalmente, sempre la sua solita Paura, che prevale sulla

ragione. Ufficialmente ti sto contattando per una partita a badminton a casa mia, domani

pomeriggio, sempre che il tempo regga, fa un po’ fresco. Comunque ti ho avvisato, la mia parte l’ho

fatta, ora cerca di fare la tua e non scappare al tuo solito.>

Ryo: < Non ti preoccupare ci sarò, con Selene avevamo in sospeso una discussione molto

importante, che abbiamo rimandato al nostro ritorno. Ci vediamo domani pomeriggio confermo.

Ciao!!!>

Reika: < Ok, benissimo, allora ci vediamo domani, porta da bere. Ciao Ryo!!!>

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Martedì pomeriggio del 6 ottobre ero a casa Miyazaki, avevo portato 6 bottiglie da 66 Cl di birra

bionda d’importazione. Salutai Reika, poi Cafumi la sorella minore e Jackie Qiang il fidanzato di

Reika. Iniziammo subito a giocare noi quattro, io con Cafumi contro i due fidanzati. Il tempo

reggeva, non faceva particolarmente freddo, e i set si susseguirono senza sosta e in maniera

agguerrita. Lo stop dei giochi, arrivò quando fece il suo ingresso in giardino Selene, bella come non

mai, con i raggi del sole alle sue spalle che gli irradiavano la testa di un colore dorato. Aveva un

gonna da tennis e un top coordinato di colore bianco.

Si avvicinò e salutò tutti, io ero l’ultimo della fila, ma invece di salutarmi, mi prese la mano e mi

portò in disparte, dove gli altri non ci potevano vedere. Non gli uscì dalla bocca neanche una parola,

forse perché in passato avevamo parlato tanto e agito poco. Mi mise spalle a muro e iniziò a

baciarmi, era dolce il suo sapore, ero stato colto alla sprovvista, e alla fine ricambiai il suo bacio.

Aveva ripreso il discorso esattamente come l’avevamo lasciato, con un bacio rubato in una stradina

di Firenze, dove per la foga ci eravamo persi.

Selene: < Allora tutto chiaro? Ho ancora hai ancora Paura?>

Ryo: < No Selene, ormai non ho più Paura di niente, in questi mesi ho affrontato l’inferno e ne sono

uscito vincitore, no voglio mantenere la promessa che ci siamo fatti mesi fa e la manterrò.>

Selene, non sapeva cosa mi era successo dopo Firenze, e non avevo nessuna voglia di raccontarlo, e

rompere quel momento perfetto che desideravo da anni. Le presi la mano e tornammo in giardino, i

ragazzi ci videro assieme e scattarono gli applausi e i “finalmente era ora”. Aprimmo le bottiglie di

birra, mentre Reika preparava il suo mitico riso al curry e alette di pollo alla cinese, sempre un po’

troppo cotto, ma era tradizione mangiarla così. Quella era vita vera, cantare le canzoni dei cartoni

animati di tanti anni fa, perché le nuove erano troppo mosce. Cantare a squarciagola sbagliando

tutte le note, ma chi se ne fregava, l’importante era stare insieme ed essere felci. Perché conta solo il

qui e ora, il resto poteva attendere fuori da quella casa.

L’indomani pomeriggio io e Selene eravamo sulla riva del Fiume Azzurro, a fare finta di pescare, in

realtà eravamo sotto un albero, sdraiati e sudati, in quel posto pieno di quiete, avevamo fatto e

c’eravamo detti, tutto quello che era rimasto in sospeso per anni, che si traduceva con Paura

sconfitta e Felicità vittoriosa. Stavamo lì ad ammirare quel paesaggio, poi ci guardavamo negl’occhi

e il mondo spariva.

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INDICE

Sezione Titolo Pagina Copertina Paura di Ungeziefer 1

Parte I Wuhan 2

Capitolo 1 Contagio 2

Capitolo 2 Wenliang 3

Capitolo 3 La Paura 4

Capitolo 4 Badminton 5

Capitolo 5 Ginseng 7

Capitolo 6 Ritorno al museo 9

Parte II Firenze 11

Capitolo 7 L’otto 11

Capitolo 8 Il nove 13

Capitolo 9 La galleria 15

Capitolo 10 Uffizi 17

Capitolo 11 Mister Young 20

Capitolo 12 Lezioni d’inglese 22

Parte III New York City 25

Capitolo 13 Primo allenamento 25

Capitolo 14 La cena 28

Capitolo 15 Kim e le scarpe del nonno 30

Capitolo 16 Rambo 32

Capitolo 17 Il pontile 34

Capitolo 18 Il Conte Poenari 36

Parte IV Braşov 38

Capitolo 19 La leggenda 38

Capitolo 20 La Fortezza 41

Capitolo 21 Caccia al tesoro 43

Capitolo 22 Inquisizione 45

Capitolo 23 Barajul Vidraru 47

Capitolo 24 Arges 50

Parte V Leopoli 53

Capitolo 25 La Parigi dell’est 53

Capitolo 26 Vynnykivskyi Park 56

Capitolo 27 La scrivania 58

Capitolo 28 L’amore all’improvviso 60

Capitolo 29 Khreschatyk Kiev 62

Capitolo 30 Cattura la Talpa 64

Parte VI San Pietroburgo 66

Capitolo 31 Labirinti mentali 66

Capitolo 32 La Venezia del nord 69

Capitolo 33 I frutti del lavoro 71

Capitolo 34 Comunicazione 73

Capitolo 35 La tana d’Irina e il gruppo Arges 75

Capitolo 36 Il virus 77

Parte VII Stoccolma 79

Capitolo 37 La battaglia sulla collina 79

Capitolo 38 Il mostro 82

Capitolo 39 Il costume e la maschera 84

Capitolo 40 La città vecchia 86

Capitolo 41 Il meteorite 88

Capitolo 42 Il Re Oscuro 90

Parte VIII Isola di Deception 92

Capitolo 43 Batterie scariche 92

Capitolo 44 L’isola 94

Capitolo 45 Il Cavaliere della Luce contro il Re dell’Oscurità 96

Capitolo 46 Rivelazioni 98

Capitolo 47 Ritorno alla normalità 100

Capitolo 48 Ritorno a Wuhan 102

Indice 104

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