Scienze - cipomo.it · I medici raccontano Storie di vita e di malattia a cura di Alberto Scanni e...

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Giovanni Fioriti Editore Scienze

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Titolo originale dell’operaI medici raccontano. Storie di vita e di malattia© 2016 Giovanni Fioriti Editore srl

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I medici raccontanoStorie di vita e di malattia

a cura di

Alberto Scanni e Luisa Fioretto

Giovanni Fioriti Editore Roma

I medici raccontanoStorie di vita e di malattia

a cura di

Alberto Scanni e Luisa Fioretto

Indice

Prefazione Maurizio Tomirotti XI

Introduzione Alberto Scanni XIII

Capitolo 1. La condivisione

Parole nel crepuscolo Gianfranco Porcile 3

La speranza restituita Gianfranco Porcile 5

Diversamente malatiUn infermiere 9

Carlo Fabrizio Artioli 10

I pioppi ondeggiavano lenti Enrico Aitini 12

Matilde Angela Righi 16

Il viaggio Dania Barbieri 18

Alchimia Greta Di Leonardo 20

Alberta Monica Muroni 22

I tre fagioli di Giulia e la capacità di godere del poco Lucia Montesi 24

Ne sarò capace? Cristina Oliani 26

VIII I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

“Grazie!” per procura – Le parole mai dette Salvatore Palazzo 29

Storia di Ti Guido Tuveri 32

Sinceramente umano Claudio Verusio 34

Capitolo 2. Il ricordo

Il sorriso di Ada Francesco Di Vito 39

Nonostante la conoscessi… Un medico 41

Ritorno in Zaire Cesare Bumma 42

Olimpiadi Cesare Bumma 43

Inquietudini leggere Enrico Aitini 45

Mio cugino: più di un ricordo Fabrizio Artioli 49

Il contributo. Lacrime silenziose, mano nella mano, lamento di agonia M. D’Aprile 52

Capitolo 3. L’ascolto

Mario Gianfranco Porcile 55

La Monaca di Montagnana Antonio Jirillo, Giorgio Bonciarelli 57

Imparare dallo stupore Monica Seminara 59

Ambra Luciano Isa 63

Il valore della preghiera Alberto Scanni 65

Indice IX

Sciagurata Guido Tuveri 68

La Storia di Ester Fabrizio Artioli 70

Capitolo 4. L’accompagnamento

Voglia di vivere Samuela Binato 75

Il desiderio della Mescoli Alberto Scanni 77

Una anziana professoressa Alberto Scanni 81

Una nuova prospettiva per la vita – La Storia M. D. Franco Testore 83

Capitolo 5. La narrazioneUna vita rubata Gianfranco Porcile 89

Lo scheletro nell’armadio Virginio Filipazzi 94

Un “ospite” in Oncologia Maria Teresa Cattaneo 96

Le avevo detto di presentarsi Un medico 98

Il silenzio di una voce Karen Borgonovo 100

Cercare la “giusta distanza” Luisa Fioretto 103

Un giorno... Angela S. Ribecco 106

Una storia… costruire insieme l’anamnesi “narrativa” Ferdinando Garetto 111

Capitolo 6. La comunicazione

Potere della TAC… Ugo Folco 117

X I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

Ore 6 Un infermiere 119

Il pullover blu Alice Aitini, Enrico Aitini 120

Con l’arma in pugno Alberto Desogus 124

Mai più Alberto Scanni 127

Consulenze Online M. D’Aprile 129

Capitolo 7. La verità e la malattia dell’oncologo

A’ siringa Gianfranco Porcile 137

Angelo era un paziente speciale Enrico Franceschi 143

S. è una collega Un medico 145

Punti di vista Un operatore 147

Capitolo 8. La malattia nella coppia

La coppia gay Alberto Scanni 151

Non me lo posso perdonare Un medico 153

Capitolo 9. Il viandante e la fragolaStorie, narratori e personaggi nei reparti di oncologiaSimone Cheli 157

Conclusioni Luisa Fioretto 171

Prefazione

Pysicians have stories that demand to be told

E. Avrahami

In un’epoca nella quale sembrano prevalere le regole dell’efficacia e dell’efficienza imposte dalle esigenze organizzative ed economiche dei sistemi sanitari, lo spazio del vissuto, del rapporto interpersonale, aperto all’empatia, tra il paziente e il proprio medico deve essere salvaguardato. La tentazione di considerare la malattia alla stregua di un guasto meccanico da riparare è il rovescio della medaglia di una medicina evidence based che ha potenziato il nostro sapere, creato nuove opportunità di diagnosi e cura, aperto nuovi orizzonti nella conoscenza dei fenomeni biologici ma che porta con sé il seme di un tecnicismo che rischia di oscurare la nostra vocazione a un approccio olistico al malato.

La nostra è una professione privilegiata: nessun’altra è più ricca e pregnante sul piano relazionale. Ma è un privilegio che comporta la responsabilità forte di sapere ascoltare e di imparare ad ascoltarsi, di mettersi in gioco nella relazione, di non aver timore dei nostri limiti, delle nostre paure e delle nostre ferite perché è con questo bagaglio che andiamo incontro ai nostri pazienti prima ancora che con il nostro presunto sapere.

Il volume nasce da questo, dalla volontà di condividere tra noi e con i nostri malati, il frutto del nostro sentire, cercando di raccontarci con le ragioni del cuore prima ancora che con quelle della ragione, ma con l’intento – anche attraverso l’impiego di moderni strumenti di analisi lessicale – di meglio capire e più adeguatamente gestire le dinamiche relazionali più frequentemente coinvolte.

Maurizio TomirottiPresidente CIPOMO

Introduzione

Essere uomo e raccontarsi, ecco un binomio che permea la nostra vita, che è alla base di relazioni e affetti, di scelte importanti e di sonnolenta quotidianità.

Ecco perché Umanità e Narrazione sono patrimonio individuale di ogni essere che ha nel rapporto medico-paziente una specifica sublimazione, visto il delicato campo d’azione. Qui il tempo diventa abitabile da parte di due soggetti e dentro quel tempo, mentre il malato si racconta, l’oncologo riflette non solo sul da farsi, ma sul senso del suo lavoro, delle motivazioni che lo devono guidare e, perché no, sul suo limite. Egli deve tentare una sintesi tra “medicina basata sull’evidenza” e “medicina narrativa”, viste non come scontro tra analisi statistiche e problematiche individuali, ma come integrazione delle due per realizzare percorsi che siano sempre più di qualità.

Se lo sforzo compiuto negli ultimi anni per costruire una “medicina basata sull’evidenza”, fosse anche stato fatto per sistematizzare le osservazioni provenienti dalla medicina narrativa, avremmo certamente più strumenti per prendere decisioni al letto del paziente e esercitare una assistenza di maggiore qualità.

Ognuno di noi tutti i giorni racconta quanto avviene nel quotidiano, racconta di esperienze del passato e del presente e qui la parola scritta ha un suo spazio. Lo scrivere a volte permette di esprimere concetti o situazioni che per soggezione o timidezza non saremmo in grado di descrivere. Può essere maggiormente meditata e soppesata, può essere riletta o corretta se non esaustiva, può in molti casi essere l’unico modo di dirsi e di raccontarsi.

In questo volume gli oncologi raccontano storie e accadimenti della loro professione. Li raccontano filtrandoli attraverso le loro individualità e il loro vissuto.

Leggere queste storie fa comprendere quanto la nostra professione sia sensibile ai bisogni e ai drammi dei nostri ammalati e quanto forte sia il desiderio di aiutarli a superare i momenti di difficoltà. Il raccontare permette momenti di introspezione, di rivisitazione della professione, fa riflettere anche su eventuali incrostazioni comportamentali, legate al tempo, alle abitudini e alla routine.

Agli uomini non è concesso di controllare gli accadimenti, ma di

XIV I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

viverli mantenendo la propria identità, approfondendone il senso, calandolo nella propria esperienza e nelle proprie relazioni. Il “guardarsi dentro” non è gesto di debolezza ma atto di grande maturità. Quindi i racconti non sono solo strumento individuale di crescita perché fonte di riflessione, ma anche elemento di didattica e di confronto per altri. Leggendo queste narrazioni emerge, l’importanza e la responsabilità del nostro lavoro assolutamente particolare: la malattia “spacca” e noi cerchiamo di offrire non solo tecnica, ma umanità e condivisione.

Alberto ScanniPresidente emerito CIPOMO

La condivisione

Parole nel crepuscolo

Gianfranco Porcile*

Quel sabato il dottor Pecorile, oncologo, aveva deciso che doveva assolutamente andare a trovare una sua “vecchia” paziente, Carla R., nell’orario di visita dell’intervallo di pranzo. E così fece. Due giorni prima lo aveva chiamato al telefono la figlia della “vecchia” paziente, avvisandolo che sua madre era stata ricoverata d’urgenza in ospedale e che i medici avevano detto che le restava ancora poco da vivere, pochi giorni secondo loro. Il dottor Pecorile aveva vinto anni prima un concorso e, per questo, aveva dovuto lasciare i pazienti che seguiva nel “vecchio” ospedale, scelta doverosa ma difficile, specie per quelli che egli seguiva ormai da molti anni. Con alcuni era rimasto in contatto, magari soltanto telefonico: questo era anche il caso di Carla. Quando fu in auto, essendo il viaggio lungo per almeno un paio di ore, il pensiero andò alla prima volta che si erano incontrati. Il dottore aveva convinto la paziente a fare la chemio e il suo reparto ad accoglierla, in via assolutamente eccezionale, senza troppo rispetto degli orari di prenotazione. E poi i controlli. E, dopo due anni, le prime metastasi e nuove cure. Dopo il primo contatto un po’ teso, quasi burrascoso, Pecorile e la sua paziente avevano raggiunto un rapporto medico-paziente molto efficace, con tanta stima reciproca e con un po’ di amicizia e simpatia. Rispondeva alle terapie ma era sempre un risultato temporaneo. La figlia intanto era cresciuta. Poi era arrivato il trasferimento di Pecorile con gli effetti collaterali di cui abbiamo già detto. Il dottore arrivò all’ospedale dove era ricoverata quella che era sempre la “sua” paziente; era emozionato: non la vedeva da anni. Si era fatto dare dalla figlia, che era oramai maggiorenne e fidanzata, tutti i dati per trovare la madre e arrivò in anticipo rispetto all’orario di visita, ma alla portineria lo fecero ugualmente entrare in quanto medico.

Trovò il reparto, la stanza e il letto, ma quando guardò la paziente adagiata mollemente su quel letto della corsia pensò di essersi sbagliato, “non è lei!” pensava: si avvicinò e si accorse che invece, per quanto irriconoscibile per la magrezza e le gravi condizioni generali, sì, era proprio lei! Quando le fu vicinissimo si qualificò cercando di farsi

* già Direttore di Struttura Complessa di Oncologia Medica Ospedali di Alba e Bra, Cuneo

4 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

riconoscere: era confusa, non poteva parlare, abbozzò qualcosa a metà tra un sorriso e una smorfia. Pecorile non riuscì a capire se ragionava e aveva capito lui chi era oppure no. In quel momento arrivò una infermiera trafelata che senza mezzi termini lo apostrofò più o meno così: “Oh bravo! Ecco qua: le dia da mangiare!”. E gli allungò un piatto di minestra: il cucchiaio era sul comodino. Non sapeva cosa dire, ma comunque non ne ebbe il tempo perché era già sparita dirigendosi con altri piatti verso altrettanti letti su cui giacevano altrettante pazienti, una in condizioni generali ancora peggio dell’altra. Avrebbe voluto dirle: “Guardi che io sono un medico! Un primario!”. Ma non lo fece: l’infermiera doveva aver pensato che fosse un parente oppure un membro di qualche associazione di volontariato… Si accinse quindi ad imboccare, tra l’imbarazzato e l’imbranato, la sua ex-paziente, che però rese tutto più semplice perché sembrava affamatissima e trangugiava ogni cucchiaiata, di cui una parte scorreva inesorabilmente sul suo collo, nonostante i ridicoli sforzi del medico. Era una scena grottesca, anche divertente, e soltanto Pecorile conosceva il motivo di quel suo divertimento e di quel suo imbarazzo. Ma tutto sommato era contento: poteva ancora essere utile alla sua cara Carla. Ogni tanto guardava l’infermiera che lo aveva assoldato in quella maniera così drastica e vide che cercava di dare da mangiare ad almeno 4 o 5 ricoverate contemporaneamente: faceva tutto da sola e provò un senso di simpatia e di solidarietà per quella lavoratrice, che cercava di fare il meglio che le era possibile. Al termine del frugale pasto, dopo aver cercato di dire qualche parola adatta alla situazione, se ne andò, non senza aver salutato la sua paziente con gli scarsi riscontri di cui sopra. La sera stessa gli telefonò la figlia per avvisarlo che la mamma era deceduta: il medico le disse che era passato a salutarla e sembrò averne un po’ di consolazione. Ma non le disse della sua piccola avventura/disavventura. Pensò che almeno Carla se ne era andata con la pancia piena e si chiese se questo poteva rendere meno difficile il momento del trapasso. Terminata la telefonata si chiese se in tutto ciò ci fosse una morale: pensò che quando fosse capitato a lui, avrebbe voluto avere un parente o un amico o un infermiere a dargli l’ultima minestra e a dirgli l’ultima parola.

La speranza restituita

Gianfranco Porcile*

Il dottor Carlo Pecorile, primario oncologo dell’ospedale, aspettava, quel giorno, un giovane che era prenotato per una visita. Gli aveva telefonato il suo collega Fabio F. chiedendo un appuntamento urgente: questo, insieme alla giovane età di quel paziente, lo preoccupava. Quando vide entrare quel giovane con aria sicura e lievemente innervosito dai venti minuti trascorsi in sala d’attesa, rimase sorpreso dal constatare che non era accompagnato: si chiamava Mario Tempestini. Alto, fisico da sportivo, 25 anni compiuti, fumatore (20 sigarette al giorno), sposato da poco senza figli, laureato e impiegato. Mentre palpava quella massa a livello della gamba destra, di consistenza aumentata, il dott. Carlo cercava in tutti i modi di farsi venire in mente un sospetto diagnostico diverso da quello cui aveva pensato sin dal primo momento: sembrava un sarcoma… Il colloquio fu difficile: Mario non era preparato ovviamente ma il medico voleva, doveva informarlo: il sospetto diagnostico propendeva per un tumore. Mario a quella parola impallidì nervosamente, ma mantenne il controllo: “era benigno o maligno?”. Il dott. Pecorile voleva che la presa di coscienza fosse graduale: “Benigno o maligno… intanto potremo saperlo soltanto dopo l’esame istologico; e poi dipende da come risponderà alle terapie…”.

Una risposta politica, ma avrebbe spostato la bandierina dell’informazione un po’ più in là nei giorni successivi. Dopo aver ottenuto un consenso di massima, chiamò la caposala: il suo nome era Barbara Bianchi.

Da quando era arrivata nel suo reparto, Carlo aveva imparato ad apprezzarla sempre di più, e non soltanto per le sue qualità professionali e umane…

Fuori dolcezza e tenerezza; dentro Barbara nascondeva il fuoco, riservato a pochi fortunati. Presentò paziente e operatrice sanitaria, e pregò quest’ultima di prenotare urgentemente Mario per tutta una serie di approfondimenti diagnostici. Subito dopo convocò la dott.ssa Milena Francucci: tra i suoi collaboratori era la sua preferita, anche perché lei

* già Direttore di Struttura Complessa di Oncologia Medica Ospedali di Alba e Bra, Cuneo

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era sua allieva e dimostrava molta stima per quello che considerava il suo mentore e amico, prima che superiore gerarchico. Ovviamente di questo Pecorile era lusingato: ma c’era un ulteriore elemento. Nonostante i suoi 40 anni compiuti, la dott.ssa Milena era veramente affascinante, lunghi capelli neri, un viso dolce e deciso, un corpo che non passava inosservato: infatti il dott. Carlo l’aveva notata fin dal primo momento. Anche Mario, quando le fu presentata, sembrò uscire dall’incubo in cui si sentiva piombato, ricambiando con un sorriso quello di lei. Il dott. Carlo le affidò il nuovo paziente, rassicurando Mario che lui, il dottore, rimaneva sempre il “suo” dottore, e che se ne sentiva responsabile. Quando Mario tornò a casa, prese sulle ginocchia Pillo e finalmente pianse. Il mondo sembrava crollare intorno a lui in mille calcinacci di disperazione. Quel cielo celeste che aveva tanto guardato con fede e con speranza, adesso si frantumava in mille piccoli frammenti, come mille piccole lacrime luccicanti di tragica solitudine. “Perché proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Quanto mi resta ancora da vivere? Cosa dirò a mia moglie?”. Avrebbe voluto uccidersi, anche uccidere. Nei mesi successivi avrebbe attraversato tutte le fasi psicologiche: dalla negazione alla rabbia, dalla disperazione alla speranza. La diagnosi istologica confermò il sospetto: “rabdomiosarcoma”, un sarcoma dei tessuti molli che di norma insorge in età pediatrica. Non fu facile convincere il primario di chirurgia, ma alla fine si fece come il dott. Carlo aveva deciso: nessun intervento mutilante, ma una chemioterapia, un intervento chirurgico conservativo ma allargato, la radioterapia esterna e successivamente ancora cicli di chemioterapia. L’iter terapeutico fu per Mario lungo e gravato da pesanti effetti collaterali, ma il dott. Carlo gli era sempre vicino, fisicamente, umanamente, professionalmente. Tra paziente e medico pian piano si consolidò un rapporto di fiducia, di alleanza contro quel mostro che doveva essere combattuto con competenza da una parte e coraggio dall’altra. Con il tempo la disperazione di Mario lasciò lo spazio a una “disperata speranza”. Per primo il dott. Pecorile pronunciò quest’ossimoro: Mario sentì che rappresentava la fotografia del suo stato d’animo.

Per quattro anni per Mario era stata dura. Era stata lunga, e difficile. Ma anche per il dott. Pecorile: aveva rischiato quando aveva insistito per salvargli quella gamba. Se le cose si fossero messe male, sarebbe stato veramente problematico: per i rapporti con i colleghi, con i suoi collaboratori, con se stesso. L’autostima non gli mancava, ma i sensi di colpa minacciavano sempre il suo equilibrio psichico e il rischio di “burn-out” era sempre presente. Le cose sembrava che non andassero male. Anzi. A distanza di quattro anni dalla diagnosi non vi erano segni di recidiva locale né di metastasi a distanza. Per scaramanzia né Mario né il dott. Carlo cantavano “vittoria”.

Mario Tempestini odiava quelle visite di follow-up: l’ansia degli esami, dei controlli, della visita, era tale da rovinargli le settimane prima dell’appuntamento. È vero che poi, una volta uscito con un risultato

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positivo, (che poi, con uno strano gioco di parole era negativo: “non segni di malattia neoplastica in atto”) gli sembrava di volare e non vedeva l’ora di correre a casa a riabbracciare la sua adorata mogliettina, compagna splendida, ma riservata e timida. La visita andò bene. Ma il dott. Pecorile andò su tutte le furie: Mario, nella sua sincerità, aveva ammesso di non aver mantenuto la promessa. Si era impegnato a smettere di fumare: e invece… “Insomma — sosteneva Pecorile — lei è un miracolato. Dovrebbe ringraziare Dio, la sua buona sorte, e invece, continuando questo maledetto vizio del fumo, si vuol prenotare per un bel cancro al polmone?!”. Certo il dott. Carlo era anche contento che a quell’ennesimo controllo di follow-up, Mario risultasse sempre senza malattia. Si davano del lei, ma sentiva di essersi affezionato a quel giovane, gli voleva bene quasi come a un figlio. E “quel figlio” lo aveva fatto proprio arrabbiare (il dott. Carlo avrebbe usato un altro termine)…

Era una bella giornata di Aprile. Il bel tempo rendeva di buon umore anche Mario: quel giorno aveva un altro dei controlli periodici. Erano passati complessivamente otto anni dall’inizio di quella storia: gli appuntamenti per fortuna erano sempre più diradati. Si sentiva bene, non vedeva l’ora di incontrare il dott. Pecorile. Quel giorno anche quest’ultimo era sereno: non sapeva che nella lista dei pazienti che erano prenotati c’era Mario Tempestini. Quando questi varcò la soglia dello studio, dopo un rapido saluto, prese subito la parola: “Dottore, ho una buona notizia per lei! Da un mese sono diventato papà di una bella bambina! E ho smesso di fumare! L’ho deciso, l’ho promesso a mia figlia e a me stesso, e giuro che manterrò il mio impegno! È contento?”. Sì, Pecorile era contento: per la paternità, per la decisione di Mario, di cui aveva nei momenti difficili apprezzato il coraggio e la costanza. E poi anche gli esami erano tutti nella norma. Entrambi pensavano che ormai Mario fosse guarito, ma nessuno dei due osava parlarne. Gli anni passarono. Mario continuava a stare bene: trascorsi i dieci anni dalla diagnosi, gli avevano detto che poteva considerarsi guarito e non erano più necessari controlli periodici. Erano passati 13 anni da quel giorno in cui il mondo gli era crollato addosso: ma lui era ancora qui, sano lui come per fortuna anche sua moglie e la bambina che cresceva vivace. Un giorno in cui era in ferie decise di andare a cercare in ospedale il suo vecchio medico e amico, il dott. Pecorile: era una vita che non lo vedeva. Agli ultimi controlli era stato visitato dalla dott.ssa Francucci. Aveva chiesto che gli salutassero tanto il “suo” dottore, ma chissà se davvero se ne erano ricordati…. Quella mattina pioveva a dirotto: gli sembrava di trovarsi nuovamente alle prese con la stagione delle piogge che aveva conosciuto tempo prima grazie ad un meraviglioso viaggio in Sud Africa. Quando arrivò in ospedale tutto il suo buon umore era andato a farsi benedire: era fradicio e arrabbiato con il mondo intero. Ma le brutte notizie non erano finite. Quando chiese se poteva essere ricevuto dal dottore, fu sorpreso di sentire dalla caposala Barbara, che il primario era assente dal lavoro da qualche mese

8 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

e non si sapeva quando avrebbe deciso di tornare. Cercò di saperne di più, ma invano: una evidente ritrosia circondava tutta la faccenda. Ma Mario riuscì presto a ricostruire la strana vicenda. Il dott. Pecorile tempo prima aveva accusato stanchezza, anemia, depressione, insonnia: era il classico quadro di “burn out”, “bruciato fuori” o ancor meglio “dentro”, una sindrome tipica delle relazioni di cura molto pesanti dal punto di vista del contatto con vissuti del malato tipo sofferenza, dolore, morte, che erano peculiari del paziente neoplastico. Ma poi la situazione era peggiorata: i bene informati sussurravano di una storia d’amore finita. Era vero: il dott. Carlo aveva finalmente conosciuto l’Amore, quello con la A maiuscola; erano stati giorni pieni di felicità terrena, pochi giorni per la verità. Su di questi non posso dire molto perché non farebbe piacere a Carlo, che aveva sempre voluto tutelare la riservatezza circa l’identità di lei. Perché lei non era libera: per questo, di comune accordo, si erano detti che non volevano una vita di menzogne e sotterfugi e avevano deciso di scrivere la parola fine a quella meravigliosa storia d’amore, breve, brevissima, ma indimenticabile. Carlo aveva condiviso quel taglio lacerante, ma non aveva previsto come avrebbe saputo reagire a quel sacrificio troppo grande per lui. Il cuore gli si spezzò, o meglio il suo cuore piangeva lacrime di sangue, ma quello che si spezzò fu il cervello: quest’ultimo adesso faceva i capricci, vedeva tutto nero. Fu così che, quasi senza accorgersene, entrò in pieno stato depressivo. Si appoggiò sempre di più a un amico che sapeva consolarlo e tirarlo su, anche se gli effetti positivi duravano letteralmente l’espace d’un matin; poi quell’amico si tirò dietro altri amici. Il primo amico si chiamava vino, gli altri amici si chiamavano cocktail, grappe e così via. Non aveva più voglia di far nulla, era quasi in uno stato catatonico. Poco tempo dopo il dottore veniva ricoverato in una clinica specializzata. Mario non perse tempo a prendere la sua decisione: non voleva certo trascurare il suo lavoro, o la sua adorata famiglia. Ma decise che avrebbe dedicato tutto il tempo libero a far uscire il dott. Pecorile da quello stato di infelicità. Quell’uomo tanti anni prima gli aveva dato la speranza, magari una disperata speranza. Adesso lui, Mario, doveva fare la stessa cosa nei suoi confronti: glielo doveva. Aveva ricevuto professionalità e amicizia: era il momento di ricambiare. Mario aveva tempo prima vinto la sua prima battaglia, quella contro il cancro. Ma vinse anche la seconda: ridonò al “suo” dottore, al suo amico la speranza. Magari una “disperata speranza”.

Diversamente malati

Un infermiere*

Ogni giorno lottiamo contro il cancro con i pazienti. Lottiamo soprattutto con un senso di impotenza che, al di là di molte dichiarazioni e proclami, proviamo tutti. Se penso a cosa scrivere rispetto alla mia esperienza come infermiere dell’Oncologia, penso a un paziente visto pochi giorni fa. O meglio penso a come mi sono sentita una volta che è uscito dalla mia stanza.

È un uomo minuto di circa 70 anni. È entrato a testa china nella stanza e sembrava quasi non respirare da quanto era immobile. Ho cercato con le mie frasi più rodate di motivarlo e sostenerlo nella cura. Ho cercato di portare il discorso sulle percentuali “positive” che gli ha dato l’oncologo. Ho cercato in tutti i modi di credere anch’io nel bicchiere mezzo pieno e mantenere il sorriso acceso per tutto il tempo che lui è stato nella stanza. Passo dopo passo si è allontanato dalla mia postazione e il mio sorriso è svanito pian piano.

Sono rimasta ad occhi sbarrati a fissare oltre la porta le gambe e i camici che passavano. Ho sentito tutto il peso della nostra professione e in particolare di quel sorriso. Ho pensato che noi operatori siamo ugualmente malati, anche se in maniera diversa. Viviamo anche noi col nostro senso di impotenza, col perdersi con gli occhi nel vuoto e non saper da dove “ri-iniziare” la nostra vita, dove ritrovare la voglia e la motivazione. Mi è rimasta quella sensazione e quello sguardo perso nel nulla anche tornando a casa, mentre guidavo e poi a cena in famiglia.

Il mattino successivo, forse per il sonno, guidando ero solo concentrata su una splendida luce che si rifletteva nel grigio delle foglie degli olivi toscani. E mi sono ricordata della banalissima espressione “una di quelle giornate”. Sì, ieri era una di quelle giornate, in cui non è semplice pensare a cosa viene prima e a cosa viene dopo. In cui è utile avere qualcuno accanto che tiene sul suo volto un sorriso acceso.

* SOC Oncologia medica – Dipartimento Oncologico – Azienda Sanitaria di Firenze. Direttore dott.ssa Luisa Fioretto

Carlo

Fabrizio Artioli*

Ricordare oggi il mio ex-primario è come parlare di un mondo che non c’è più, anzi di un mondo che si è fermato e che non è riuscito a ripartire. Carlo era mio amico, maestro, fratello maggiore; difficile spiegare a chi non l’ha provato, un rapporto così speciale e unico. All’Università e in Specialità ho imparato la Medicina e l’Oncologia, accanto a lui ho imparato a fare il medico, l’organizzatore, a capire i problemi dei propri collaboratori, a dare il giusto peso alle cose. Era quello che oggi chiameremmo un leader. Circondati come siamo da persone che vogliono imporsi, che si presentano autoritarie, perché va di moda “un uomo solo al comando”, lui ha avuto una dote rara: era autorevole; forse l’unica figura autorevole ed eticamente alta all’interno dell’ospedale in cui abbiamo lavorato insieme per 18 anni. Nel 2002 sono diventato primario oncologo e lui ha continuato a seguirmi, consigliarmi, aiutarmi nel suo ruolo di direttore di dipartimento. È morto all’età di 61 anni per un tumore polmonare, stadio VI° all’esordio. Ha voluto che lo seguissi io, anche se io avvertivo la difficoltà nel curare chi mi era stato così vicino. Pensavo che non sarei riuscito a mantenere la lucidità e quel distacco che è necessario avere, per curare al meglio i nostri pazienti. Balle! Non è distacco che ci vuole, ma empatia; lucidità sì, accompagnata da “scienza e coscienza” nelle scelte terapeutiche che si devono prendere; per quanto mi riguarda, sapevo, sentivo, senza alcun dubbio che qualsiasi decisione avessi preso, non solo sarebbe stata concordata con lui, ma soprattutto sarebbe stata presa esclusivamente per il suo bene, senza condizionamenti, come dovrebbe essere in ogni giorno della nostra professione. Aveva qualche problema di accomodazione visiva, un disturbo lieve, con due episodi transitori di diplopia. La TAC encefalo mostrò la presenza di una piccola metastasi a livello occipitale. Fui io ad accompagnarlo nel centro di neuroradiologia interventistica dove fece la gamma-knife; parlammo a lungo durante il viaggio, come facevamo spesso e mi confidò che non sapeva se quella era la scelta giusta, preferiva che la malattia facesse il suo corso a livello cerebrale, piuttosto * Direttore U. O. Medicina Oncologica Ospedali di Carpi e Mirandola (MO) – AUSL di Modena

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che a livello polmonare dove vi erano numerosi noduli. Lo convinsi che era la scelta giusta, e così fu, il disturbo visivo scomparve e lui tornò al suo lavoro, che per altro aveva abbandonato solo per pochi giorni. Iniziò la chemioterapia al termine della quale vi fu una stabilità di malattia. Io studiai tutte le strategie possibili, erano gli inizi delle terapie target per cui provammo Gefitinib, e una successiva linea in un protocollo sperimentale con un nuovo farmaco anti-TKI. Io guardavo il CEA, ogni volta che lo faceva, nella netta convinzione che sarebbe sceso, doveva scendere, perché Carlo non aveva mai fumato. E così fu, per un periodo di qualche mese, lui non si faceva nessuna illusione e affrontava con serenità sia i trattamenti sia il lento dimagramento e con questo il peggioramento delle sue condizioni. Era sostenuto da una grande fede e un giorno mi confidò che, fatto salvo per l’amore per la sua famiglia e per il dolore che gli procurava pensare di lasciarla, era sereno, e avrebbe firmato tutto di quanto accaduto nella sua vita, compreso la malattia (io confesso che non ne sarei capace); quasi che il senso del Destino che misurava lo scorrere della sua esistenza trovasse compimento in un dolore, per noi suoi amici pesante da sopportare, ma per lui senso esso stesso del miracolo della vita. Io lo ammiravo per questo, così come ho ammirato il suo coraggio nell’affrontare gli ultimi mesi e giorni di vita; “autorevole” anche in questo “passaggio”. I giorni passavano e il peggioramento delle sue condizioni, in particolare la dispnea, era lento, ma inesorabile. Io, così come altri colleghi e amici, lo andavo a trovare a casa; era tale la sua attenzione “all’altro” che chiedeva sempre come andava il lavoro e si finiva anche a parlare di casi clinici per i quali lui stesso offriva i suoi consigli. Uscivo da quella casa addolorato, ma non angosciato; ciò che gli accadeva mi toccava nel profondo, ma nello stesso tempo mi faceva riflettere sulla mia di vita e mi spingeva a fare i conti con quel “finire” che tutti ci toccherà affrontare e, come un impercettibile luce, trovavo conforto nelle sue parole. Si era messo a scrivere degli articoli per il giornale diocesano, articoli che sono stati raccolti, dopo la sua morte, in un libro, uno di questi è di un significato talmente profondo che spesso mi ritrovo a rileggerlo, o a portarlo a qualche convegno mescolato fra le varie diapositive. Per Carlo l’approdo, il porto coincidevano con il ritorno alla Casa del Padre; ma per ciascuno di noi vi è un approdo, qualunque esso sia, una domanda e forse qualche risposta. Io penso però che se il lavoro faticoso su se stessi per affrontare e accettare il “fatto” ineluttabile della nostra morte non c’è, ben difficilmente riusciremo a stare vicino e a curare i malati in fase avanzata di malattia. A meno che non alziamo una barriera impenetrabile e viviamo crogiolandoci in una onnipotenza che non esiste, o in una dimenticanza, fino a quando qualcuno ci farà la domanda, “ma perché dottore, da quando mia figlia sta peggio, lei non la va più a trovare e l’ha affidata a un altro medico?”. E noi risponderemo con aria professionale “l’abbiamo affidata al medico palliativista”.

I pioppi ondeggiavano lenti

Enrico Aitini*

I giovani rami dei pioppi ondeggiavano lenti, avvolti dall’azzurro di una primavera appena nata, accarezzati da una brezza tiepida e pigra. Quante volte, fermata l’auto su un piccolo rettangolo erboso, ero sceso dall’argine, incamminandomi per quel viottolo che, scorciatoia per le persone di casa, ti accompagnava fino al cortile retrostante l’abitazione. Camminavo fino a raggiungere l’aia e restavo silenzioso ad ammirare la scalinata che conduceva all’ingresso principale e la ringhiera in ferro battuto. Antonio era nato in una stanza al primo piano, quando ormai l’Europa si era scordata le promesse di pace sottoscritte nel novembre del ’18. Come le tre sorelle cresceva orgoglioso di questa sua origine: concluse le elementari all’inizio di quell’estate in cui l’Europa avrebbe scoperto la travolgente furia delle incontenibili armate hitleriane. Ma la guerra passò alta su quella corte antica. La zia paterna lo indusse e lo esortò poi costantemente a frequentare gli studi classici, alla fine dei quali si iscrisse a Giurisprudenza.

I rami alti dei pioppi ondeggiavano lenti il giorno della sua laurea: verso sera scese allegro il sentiero insieme alla sorella maggiore, l’unica presente alla discussione della tesi. Il padre, dal terrazzo, gli sventolò il tricolore che teneva in mano: quel giorno Fausto Coppi aveva concluso da vincitore il Tour de France. I familiari l’abbracciarono con la forza e il calore della gente abituata ad amare la terra. Lo conobbi molti anni dopo, quando il medico di famiglia, che frequentava abitualmente la casa, osservandolo da vicino mentre giocavano a carte, si accorse di un’irregolarità sul profilo del collo che tuttavia non creava alcun fastidio ad Antonio. Lo visitò e scoprì numerosi linfonodi ingrossati. Dopo i primi accertamenti gli consigliò una visita da uno specialista delle malattie del sangue (ematologia era ancora un termine poco utilizzato dai medici di famiglia, in genere sconosciuto ai pazienti) e gli fece il mio nome. Ero molto giovane allora, specializzato a Bologna da soli due anni. Il primo incontro occupò uno spazio di oltre un’ora trascorsa nel mio studio ad ascoltare,

* già Direttore S. C. Oncologia Medica ed Ematologia, Ospedale Carlo Poma, Mantova

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spiegare, comprendere e comprendersi, ad iniziare una comunicazione sincera che non sarebbe più venuta meno. Uscito dallo studio, provai un senso di riconoscenza verso i miei colleghi che, come molte altre volte, facendosi carico anche del mio lavoro, avevano consentito, una volta di più, l’instaurarsi di un rapporto costruttivo, intriso di reciproca fiducia fin dal primo momento. Dopo il completamento delle indagini atte a confermare la diagnosi e a definire l’estensione della malattia, iniziammo un breve ciclo di terapia, fortunatamente ben tollerata da Antonio che, quasi si meravigliava di come una malattia dal nome che incuteva terrore, leucemia, potesse essere curata con poche pastiglie al giorno. Scomparsi i linfonodi, ridotto il volume della milza, mi invitò per una cena in quella corte che, già lo sapeva, mi avrebbe riempito di sensazioni impreviste.

Cominciammo così a frequentarci: era una persona che possedeva la capacità di stupirti non solo la prima volta, la seconda o la terza. In un giorno qualsiasi dell’anno capitava nel mio studio d’ospedale e, vicino alla porta finestra, adagiava una dracena o una araucaria excelsa accompagnandole con un breve scritto ove, con parole sempre nuove, confidava le modalità per farle crescere e sopravvivere. Quando acquisii la specializzazione in Oncologia, a Genova, dopo pochi giorni si presentò a casa mia e, con l’intelligente umiltà delle persone sagge, con un sorriso amico mi disse: “Dottore, spero di farle cosa gradita in ricordo di questo nuovo traguardo raggiunto”.

Aprii quel pacchetto confezionato con una gentilezza garbata e mi ritrovai davanti a due piccoli, antichi e preziosi volumi: “Codice Civile del Regno d’Italia, libreria della Minerva Subalpina, Torino 1865” e a “Roberto Ardigò, L’uomo e l’umanista, di Giovanni Marchesini, Felice Le Monnier, Firenze 1922”.

Assaporava una silenziosa serenità quando poteva camminare in mia compagnia, raccontandomi di sensazioni appena trascorse o di sentimenti lontani. Le nostre passeggiate sull’argine, verso il tramonto o nelle tarde ore serali, si erano, col tempo, trasformate da momenti di condivisa contemplazione della natura che, sulle rive del Po, raccontava il divenire di ogni nuova stagione, a momenti in cui la rapida corsa dei pioppi si faceva teatro delle sue confidenze sugli aspetti più inaspettati e reconditi della vita. Quando gli prospettavo i giorni che mi sarei aspettato dalla vita, mi domandava perché tendevo a riempire di troppi sogni il futuro: nella mia ancor giovanile tensione a progettare continuamente il domani, rischiavo di lasciarmi sfuggire il significato esistenziale di un momento trascorso. Davvero la vita possedeva un grande valore in ogni suo minuto e non tanto, o non solo, per la consapevolezza che, prima o poi, ci sarebbe stata strappata. Poi tornavamo ad ascoltare il silenzioso respiro della notte.

Nell’autunno di ormai molti anni fa, le sue condizioni cominciarono a scadere rapidamente: tornarono ad ingrossarsi i linfonodi, una stanchezza sempre più impietosa lo prostrava nelle ore pomeridiane, una febbricola,

14 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

dapprima insignificante, cominciò a torturarlo, costringendolo in casa e innalzando, giorno dopo giorno, una barriera tra lui e l’ambiente rurale che lo circondava, i colori che avevano riempito i suoi occhi fin dall’infanzia, i rumori che gli raccontavano della vita invisibile che scorreva nella campagna. Accettò un primo ricovero in ospedale: l’utilizzo di nuovi farmaci consentì un vistoso ma fugace miglioramento e così, dopo quella breve ripresa, le condizioni tornarono a peggiorare. La malattia era cambiata, non era più quella di venti anni prima. Dopo un secondo ricovero e un nuovo tentativo senza un esito stabile, chiese di poter tornare definitivamente nella sua casa, protetta dai pioppi, dall’argine, dai cani che, spesso, avevano accompagnato le nostre interminabili passeggiate serali.

Avvolto dall’ombra di quegli alberi protesi verso il cielo, oltrepassai la soglia di casa, accompagnato dalla sommessa musicalità delle foglie inondate dai riflessi del cielo. Mi resi conto di come le sue condizioni di salute non mi consentissero di essere del tutto sincero sui giorni che stavano avvicinandosi: predisposi così l’animo ad affrontare un colloquio che, per la prima volta, mancava di quella trasparenza che, da tanti anni, caratterizzava il nostro rapporto. Avvertivo un disagio profondo, la sensazione di venir meno a un patto, di tradire la fiducia di una persona che, senza ribellione, senza porre condizioni, aveva sempre creduto in quello che gli avevo spiegato, proposto, suggerito. Lo vidi disteso sul letto che la sorella gli aveva da tempo sistemato al piano terra per evitargli la fatica di salire l’antico scalone. In un angolo della grande stanza una nipote stava allattando il bimbo nato da neanche due mesi. Percepii la dimensione di come la vita e la morte si alternino, si inseguano su questa terra con ritmo costante, monotono, senza che nulla possa modificare la cadenza degli eventi. Una profonda tristezza mi pervase, malinconia che cercai di mascherare con un sorriso insipido.

Antonio comprese. Leggendo sul mio volto sentimenti che io ero convinto di saper nascondere, mi invitò al silenzio con un esile e stanco cenno del capo. Allungò lentamente verso di me la mano, sussurrandomi semplicemente: “Grazie, amico… hai saputo illuminare questi ultimi venti anni di vita”.

Pronunciò queste poche parole con un tono confidenziale che mi era sconosciuto. Provai a guardarlo negli occhi, forse disorientato, forse spinto da un debole moto di ribellione verso una consapevolezza così profonda. Farfugliai qualcosa, senza rendermene conto del tutto.

Subito dopo, cercando di non tradire quell’ultima richiesta di sincerità, seguii l’invito che, lasciata la mano, mi aveva fatto, l’invito dolce e malinconico ad uscire dalla sua casa così come stavo uscendo dalla sua vita.

Mentre camminavo verso l’argine ripensavo ai colori, ai suoni delle stagioni che avevano inondato quella corte antica. Sarebbe tornata l’estate, il verde intenso dei prati, i riflessi dorati dei campi, le azzurre

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notti d’agosto e, dopo i temporali estivi, i rami alti dei pioppi avrebbero conosciuto l’autunnale addio di piccole foglie giallastre, si sarebbero poi piegati a invernali tormente di neve ma altre brezze leggere sarebbero alla fine tornate: e a quel nuovo invito avrebbero riscoperto un ondeggiare lento e discreto.

Molte stagioni sono trascorse sopra quei giorni. Ho conosciuto, in questo alternarsi di vita e di morte, momenti di

serenità e altri di angoscia; spesso le mie labbra si sono dischiuse a un sorriso, qualche volta gli occhi si sono inumiditi, per dolori pubblici o per altri più personali. A volte ripenso ad Antonio e mi rendo conto di non saper trovare la saggezza che guidò il suo cuore su quella strada, da lui tanto amata, che ricerca la giustizia nel seguire il linguaggio della natura. La violenza di ogni distacco subìto sarà la violenza di una ferita che solo i giorni, con inesorabile lentezza, riusciranno a rimarginare. Altro tempo passerà, altre stagioni racconteranno i loro colori, altre sere avvertirò la solitudine di chi si sente depredato dalla vita senza poter prepararsi a una difesa quando, oltre alle interminabili tragedie di questa terra, ti senti ferito nei sentimenti più personali, più nascosti e profondi.

Nel silenzio dello studio antico di casa mia, raggiunta l’età della pensione, ripenso a quel giovane ematologo, a quel giovane oncologo che, attraversati 40 anni di vita professionale, ora si chiede quanto ha potuto offrire ai pazienti incontrati nel corso dell’esistenza e quanto ha ricevuto da loro.

Ascolto la melodia che nasce da una “steel guitar” accarezzata con gentilezza, convinto che le note di una canzone siano state amate da altri, sperando che un filo comune riesca ad avvicinare i nostri destini e che altri giorni possano, chissà come, essere nuovamente condivisi.

Matilde

Angela Righi*

Matilde era una bellissima donna, vitale e vivace. Nella vita di tutti i giorni era una stilista di moda molto apprezzata nella nostra città. Aveva avuto una vita complicata, era separata e aveva una figlia adolescente contesa dal marito e ora aveva una nuova storia con un uomo più giovane di lei. La malattia l’ha sorpresa in un momento in cui la sua vita stava prendendo la giusta strada. Il rapporto con l’ex marito stava migliorando e addirittura avevano preso l’abitudine di pranzare insieme la domenica per ricreare un clima di normalità familiare per la figlia. Aveva incontrato un compagno più giovane che la faceva sentire leggera come una ragazzina. All’improvviso si presenta la “bestia” e Matilde si disorienta, si dispera. Inizia l’affannosa ricerca di un oncologo che le dia speranze di guarigione e che neghi la cattiveria della sua malattia. Poi un’amica comune mi chiede di incontrarla in veste di caposala, preoccupata di questo girovagare senza arrivare a nessuna conclusione. Al nostro primo incontro, dopo un momento di incertezza, è scattata l’empatia allo stato puro. Lei mi ha detto: “Ho bisogno di te perché ho paura di morire” e io le ho risposto “Io ci sarò sempre”. Da quel momento abbiamo condiviso il suo percorso sia di malattia che di vita. Ha tirato fuori tutta la forza che poteva uscire da uno scricciolo di donna quale era, per combattere questa malattia, alle volte chiedeva conforto alle sue “amiche infermiere”. Ogni tanto passava dal mio ufficio, chiudeva la porta, mi guardava fisso negli occhi e mi diceva: “Io e te sappiamo, ma adesso la mia vita continua”. Rendeva tutti partecipi degli accadimenti della sua vita: l’arrivo di un cagnolino, una vacanza al mare, la convivenza e poi il matrimonio con il suo nuovo compagno. Dopo vari mesi di terapie le cose sembravano andare bene e quando passava per i controlli mi abbracciava e diceva: “Dai che forse ce la facciamo”. Dopo qualche tempo la “bestia” si ripresenta a Matilde, arrabbiata ma sempre combattiva, che ricomincia la chemioterapia. Nel frattempo anch’io scopro di avere un cancro e per un po’ di tempo non ci vediamo. Quando si presenta in day hospital a fare la terapia chiede di me, ma nessuno le racconta cosa mi stia succedendo, le * Coordinatrice Infermieristica. Struttura Complessa Medicina Oncologica Ospedale di Carpi AUSL Modena. Direttore dott. Fabrizio Artioli

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parlano di un allontanamento temporaneo per motivi di famiglia. Il caso ha voluto che iniziassimo un ciclo di radioterapia lo stesso giorno. Io esco dallo spogliatoio e me la trovo davanti, lei sbarra gli occhi e comincia a piangere buttandomi le braccia al collo e iniziando a maledire il mondo perché non poteva esistere che chi l’aveva aiutata potesse ammalarsi come lei. La cosa mi colpì perché di solito la malattia porta a un sano egoismo, mentre Matilde accettava il suo stato ma non il mio. Ricordare questa scena ancora oggi mi fa riempire gli occhi di lacrime perché raramente ho vissuto con un paziente una partecipazione così forte. Purtroppo per Matilde la storia è finita dopo pochi mesi, ma fino all’ultimo ci siamo sentite e viste. Durante il suo ultimo ricovero in ospedale mi ha preso la mano e con un filo di voce mi ha detto che aveva paura di morire e che non sapeva come affrontarla, poi aggiunge: “Dai che tu ce la fai”. Per la prima volta nella mia vita professionale non sono riuscita a trovare le parole per consolarla o per dirle che le volevo bene. Siamo state in silenzio, ma nel silenzio ci siamo trasmesse quello che avevamo nel cuore.

Se ne è andata di notte, nel suo letto con intorno le persone che amava. Matilde mi manca moltissimo perché le nostre vite si sono incrociate

in un momento particolarmente difficile e ci siamo sostenute come solo alcune donne sanno fare. Nella mia vita professionale ho incontrato tante persone e ho vissuto tante storie che mi hanno coinvolta emotivamente, alle volte mi fanno odiare la mia professione, più spesso mi danno la motivazione per andare avanti e non mollare.

Il viaggio

Dania Barbieri*

All’università mi hanno insegnato che un bravo psicologo non dà del tu al paziente, lavora in un setting controllato, senza interferenze esterne e, soprattutto, non si coinvolge emotivamente con il paziente, non mostra i suoi sentimenti.

Oggi, se parto da questi presupposti, dichiaro senza ombra di dubbio di non essere una “brava” psicologa.

Lavoro presso i DHO degli ospedali di Carpi e Mirandola da parecchi anni ormai. Ora posso vantarmi di avere degli spazi tutti miei, dove vedere pazienti e fare gruppi di vario genere, ma quando iniziai a lavorare qui, la mia collega e io visitavamo i pazienti dove capitava, sperando di non essere interrotti dal titolare dell’ambulatorio che reclamava il suo spazio. E già qui, prima pecca.

Chi mi ha insegnato a lavorare, poi, ha sempre sostenuto che il lei non sia indispensabile, ma, anzi, che il tu faciliti il rapporto, e io ho sposato di buon grado questa idea. Seconda pecca.

C’è però la terza maggiore pecca: io mi faccio coinvolgere dai pazienti, rido e mi arrabbio con loro, piango anche con loro, a volte per loro.

Mi ricordo di S., una ragazza della mia età. Io allora avevo 32/33 anni, lei era alla recidiva di un bruttissimo cancro alle ovaie. La conobbi che aveva appena ricevuto la “notizia”, arrabbiata, spaventata, confusa. Bella e piena di forza. Siamo subito entrate in sintonia, mi ha raccontato la sua vita, il rapporto non facile con il convivente, i dubbi sul futuro. Mi ha raccontato quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio: un safari con le jeep, pericoloso ed eccitante. Lei già non stava bene, la malattia era piuttosto avanzata, ma l’oncologa non l’aveva fatta desistere, anzi. Qualche raccomandazione, i numeri di emergenza e via.

Al ritorno mi ha raccontato delle albe nel deserto, dei suoni e rumori che si sentivano, degli incontri fatti! Questo viaggio però l’aveva messa a dura prova, era tornata a casa fisicamente stremata.

Nel giro di qualche settimana S. faticava a venire in ospedale, andavo a casa sua, non mangiava più, era pelle e ossa, parlavamo dei suoi progetti * Psicologa-Psicoterapeuta, Centro di PsicoOncologia, Medicina Oncologica di Carpi e Mirandola AUSL di Modena. Direttore dott. Fabrizio Artioli

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pur sapendo entrambe che non ci sarebbe stato abbastanza tempo per realizzarli e allora S. piangeva e sì, ho pianto anche io con lei e per lei. E proprio lì, più di quanto fosse stato prima, lei mi ha sentita vicina, ha capito che non ero lì a darle false consolazioni, ma ero lì per lei e con lei. Non ho perso la mia lucidità, non sono uscita dal mio ruolo, non ero una sua amica, lo sapevamo tutte e due: ero la sua psicologa e lo ero con tutta me stessa, senza più paura di essere quella che sono, pienamente consapevole di quello che stavo facendo.

S. è morta due giorni dopo, c’era molto freddo pur essendo estate…Non sono forse una brava psicologa, ma va bene così… Ho scelto di essere prima di tutto una persona che fa la psicologa al suo meglio.

Alchimia

Greta Di Leonardo*

All’inizio è stata una data di nascita troppo vicino alla mia e a quella delle persone che amo. Poi è stata un’immagine in scala di grigi da interrogare al computer, cercando un appiglio che dicesse “non è niente, falso allarme”. Poi la prima visita e tutto è diventato concreto: gli occhi smarriti dietro le lenti, l’espressione del viso, un po’ tesa un po’ impietrita, il tono della voce, quelli di Luca, e di nessun altro.

Il tempo della visita per me è scivolato via veloce, per Luca probabilmente meno. C’era da prendere in mano la situazione, bisognava spiegare la necessità di fare la biopsia, la broncoscopia, l’esame istologico e che solo poi si sarebbe potuta impostare una chemioterapia. C’era da rispondere a molte domande, c’era da dare sicurezza. Sapevo quel che si doveva fare e l’ho fatto: ho fatto la mia parte, meglio che potevo. È stato naturale che io diventassi un punto di riferimento e che tra me e Luca si stringesse un patto di fiducia. Abbiamo tifato insieme per avere un certo esame istologico e condiviso la delusione per averne ottenuto un altro, abbiamo firmato insieme il consenso informato, abbiamo atteso insieme l’esito delle indagini biologiche e gioito per la desiderata mutazione, ognuno facendo la propria parte.

Fin qui tutto più o meno routinario… ma allora, mi sono chiesta, cos’è che oggi mi fa stare qui a scrivere di Luca, proprio di lui?

È proprio vero che quello che ci siamo scambiati sono state informazioni mediche, rassicurazioni umane, gentilezza e professionalità? Non ho forse sentito chiaramente le tante dolorose domande inespresse e inesprimibili: “Perché?… Perché questo?... Perché ora e perché a me?…”, senza potere né sapere rispondere?

Ma in una mattina di Gennaio, dopo aver letto con delusione e rabbia l’esame istologico di Luca, ho sentito che quell’impotenza mi sfidava a mettere mano alla mia vita e a non accettare più nulla che avessi il potere di cambiare. Questa era la lealtà più profonda, anche se non detta, che dovevo a Luca: cambiare quello che potevo.

* Medico SOC Oncologia medica – Azienda Sanitaria Firenze. Direttore dott.ssa Luisa Fioretto

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Credo che, su un certo piano, le storie non si incrocino mai a caso. Normalmente siamo troppo distratti per accorgercene, ma a volte succede, e allora siamo alla pari, ciascuno maestro nella vita dell’altro. E il piombo diventa oro.

Alberta

Monica Muroni*

Purtroppo Alberta ha subìto dalla vita il torto più grande che forse una donna si possa aspettare, ha scoperto infatti di avere il cancro appena dopo aver partorito la sua bambina. Quella brutta tosse, quei sintomi vaghi che l’avevano accompagnata per gran parte della gravidanza ora hanno un nome, si chiama cancro e ben presto, Alberta questo lo sa, la porterà via. Alberta è una bella ragazza nonostante la malattia l’abbia profondamente segnata, nella sua stanza abbiamo sempre avvertito profumo di freschezza, di pulito e di cura, indossa sempre cuffiette in tinta confezionate a mano e allegri pigiami trattati con cura da chi a casa, nonostante tutto, spera ancora. Alberta è una persona molto riservata, poco incline al dialogo e a noi rivolge sempre domande molto specifiche riguardo al suo decorso clinico, ai farmaci che le dobbiamo infondere e alle cure che deve affrontare. A parlare invece sono spesso i suoi occhi: due occhi grandi, scuri ed espressivi che trasmettono apprensione, ansia e tanta malinconia. Il nostro vero interlocutore è per tutta la durata della degenza il marito che si intrattiene spesso a chiacchierare con noi e ci racconta della loro vita insieme. Una mattina a ridosso di Pasqua Alberta chiede di parlarci, deve comunicarci qualcosa di importante e chiede di farlo di persona. Ci confida che vorrebbe essere dimessa per qualche giorno, nonostante la gravità della sua situazione clinica perché è giunto il momento di battezzare la sua bambina, e a quella festa vuole esserci anzi, afferma decisa, “deve” esserci. Questa richiesta ci lascia sbigottiti, le sue condizioni sono molto critiche: deve convivere con un drenaggio toracico, assume ossigeno per quasi tutte le 24 ore, e diversi farmaci, molti dei quali non facilmente somministrabili a domicilio.

La sua richiesta tuttavia, è apparsa come una decisione maturata dopo una tormentata e difficile riflessione e da subito abbiamo cercato di trovare un modo per realizzare il suo progetto.

Avremmo potuto semplicemente rifiutare, dicendo che organizzare la dimissione per una paziente con tante problematiche aperte non

* Coordinatore Infermieristico ASL Piacenza – Direttore Dipartimento Oncoematologia Piacenza. Dott. Luigi Cavanna

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sarebbe stato possibile, avremmo potuto nasconderci dietro qualche facile appiglio e declinare questa richiesta anomala, ma Alberta ha creato tra noi una sorta di alchimia, ha mosso in tutti noi sensibilità e emotività al punto che ha permesso di stabilire un’intesa e ci ha fatti sentire in dovere di accontentare questo suo immenso desiderio. Da lì è partita la corsa contro il tempo per organizzarle il ritorno a casa. Ricordo molto bene il giorno in cui contattammo il servizio infermieristico domiciliare, che avrebbe dovuto prenderla in carico una volta tornata al domicilio. Di fronte a quest’ipotesi, l’infermiera con cui parlammo rimase senza parole: “Volete dimettere una paziente terminale a ridosso delle festività Pasquali, quando il servizio è ridotto, non è disponibile il medico di base e i problemi da gestire sono così tanti?”. Spieghiamo la situazione, i problemi erano tanti, le complicazioni legate al periodo festivo pure, ma bisognava organizzare una festa e Alberta a quella festa doveva essere presente. E anche dall’altra parte scattò la stessa alchimia, la stessa consapevolezza che questa richiesta non si poteva declinare. Dovevamo provarci! Alberta vive in campagna in un’ampia casa colonica, dove la sua famiglia e quella del marito dividono una grande corte. Non so se a convincere le infermiere dell’assistenza domiciliare siano stati i requisiti specifici che il luogo deve possedere per accogliere il rientro di un paziente o più semplicemente le persone che hanno incontrato, i giochi della piccola sparsi per il cortile, l’attesa di un ritorno seppur breve da parte di tutta la famiglia. Sta di fatto che, dopo il sopraluogo, si concorda per avviare insieme questo piccolo grande sogno diventato il progetto di ognuno di noi: non esistono più difficoltà organizzative o barriere logistiche, ma solo persone che si stanno muovendo per realizzare un sogno! Si richiede quindi la fornitura di ossigeno a domicilio, si concordano le terapie, la tempistica, il numero di accessi quotidiani da eseguire, si istruisce il marito alla gestione del drenaggio e finalmente il Venerdì prima di Pasqua Alberta viene dimessa. Durante la sua permanenza a casa abbiamo stabilito un contatto quotidiano sia con le infermiere del domicilio che con il marito; abbiamo così potuto seguire e gestire scrupolosamente tutti i bisogni di Alberta. Il battesimo è stato celebrato il Lunedì in casa e Alberta ha seguito la cerimonia in abiti civili, ben truccata e con un meraviglioso ed elegante cappellino. Il marito, il Martedì successivo, ci ha mostrato le foto scattate durante la cerimonia e timidamente ci ha chiesto di poter prolungare ancora di qualche giorno la permanenza a casa. In quelle foto abbiamo visto una ragazza serena e sorridente. A quel battesimo, col cuore, ci siamo stati un po’ tutti!

I tre fagioli di Giulia e la capacità di godere del poco

Lucia Montesi*

Resto sempre colpita dal modo con cui le persone riescono ad adattarsi alle progressive restrizioni imposte dalla malattia, mantenendo la stessa tenacia per ottenere quello che di volta in volta diventa sempre più piccolo, flebile e precario, mantenendo la capacità di goderne lo stesso, a dispetto di tutto. Come Giulia coi suoi tre fagioli.

La signora Giulia era una delle mie pazienti preferite. Intanto perché si vestiva sempre tutta intonata sulle sfumature del viola, e poi perché condividevamo una spudorata passione per il cibo. In effetti, qualunque fosse il punto di partenza, prima o poi la seduta andava a finire lì: in cucina. Descriveva le sue pietanze preferite con un amore tale, che alla fine ne sentivi pure il profumo e il sapore. La sua passione poi erano i legumi, e in special modo i fagioli. Tutto questo nostro parlare di cibo e cucina potrebbe apparire un’inutile chiacchiera, se non fosse che il problema stava proprio lì: una recidiva della malattia di Giulia le imponeva all’improvviso grosse limitazioni nell’alimentazione, estremamente pesanti e frustranti per lei. Faceva tenerezza quando raccontava dei suoi sguardi languidi lanciati ai sacchetti di fagioli nel congelatore: non si dava pace a dover lasciar lì quel ben di dio, diventato improvvisamente veleno per lei. Ma non era una che si perdeva d’animo. Ogni volta faceva le prove con innovativi metodi di cottura o combinazioni alimentari astruse, decisa a trovare il modo di rendere digeribili anche pietanze non proprio leggere, come i gamberetti fritti.

Ricorderò sempre il giorno che arrivò tutta tronfia di soddisfazione, perché non vedeva l’ora di raccontarmi l’ultimo esperimento andato a segno. “Ho fatto il minestrone. Ci ho messo le solite cose sai, patate, carote, zucchine… ma stavolta…” – pausa di suspense e occhiata d’intesa – “tre fagioli ce li ho messi cara mia! Li ho pelati per bene tutti e tre, macinati fini fini, e dentro, vedrai che stavolta ti frego io! Tutta un’altra cosa con quei fagioli, sapessi che bontà, me lo sono gustato proprio!”.

Immagino cosa potesse essere rimasto dei tre fagioli dentro il calderone. Praticamente, fagioli omeopatici. Ma lei era riuscita a goderseli lo stesso. * Psicologa, Psicoterapeuta – U. O. Oncologia Area Vasta n. 3 – Macerata. Direttore dott. Luciano Latini

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Diceva sempre che il marito era un cuoco eccezionale, specialista del fritto, con cui deliziava tavolate di parenti e amici. Ora lei avrebbe potuto legittimamente irritarsi, davanti alle sontuose fritture che lui continuava incurante a scodellare, pretendere che almeno risparmiasse tanto supplizio alla sua vista e al suo olfatto, o disertare, come molti malati fanno, pranzi e cene con familiari e amici, per sottrarsi a tentazioni e frustrazioni. Lei invece era capace di andare al pranzo per la comunione del nipotino, stare tutto il tempo a tavola con gli altri senza lamentarsi, e tornare tutta soddisfatta per essere riuscita a gozzovigliare con un calamaro e una patatina fritta.

I tre fagioli di Giulia adesso li porto sempre con me. Ogni volta che rischio di scivolare nel “È troppo poco”, nel “Che me ne faccio?”, nel “Non ne vale la pena”, mi vengono in soccorso. Mi aiutano a mettere a fuoco, a stare nell’attimo, a goderlo appieno senza inquinarlo con la consapevolezza che durerà poco. Penso “Dai, prova a fare come faceva lei, in fondo cosa cambia? Tre fagioli o cento, un calamaro o venti: di quello che ci piace e che amiamo, è la quantità che conta? È la durata nel tempo? È la sicurezza di averne ancora?”. Fermarsi ad assaporare, sentire di esistere con pienezza, stare nel presente senza rimpiangere il passato o angustiarsi per il futuro. Quanti libri avrò letto cercando di capire come si fa: almeno tre ripiani della libreria. Grossi nomi di filosofi, psicologi, pensatori di tutte le epoche. Ma doveva arrivare Giulia la casalinga tutta vestita delle sfumature del viola, a insegnarmi come si fa.

I tre fagioli di Giulia mi confortano anche quando mi domando cosa resti di noi.

Le persone malate che ascolto hanno spesso bisogno di sentire di aver costruito qualcosa, di riuscire a lasciare dopo di sé una traccia, che non tutto della propria esistenza vada perduto. Alcune si disperano perché non hanno avuto figli, pensano che “chi riceve la vita deve generare vita” e sentono di aver mancato in un dovere sacro, oppure credono la loro esistenza mediocre e superflua perché non hanno eccelso in qualcosa, lasciato opere, fatto scoperte, inventato alcunché.

A me viene da sorridere. Per generare vita non è necessario far nascere un figlio. Basta così poco per generare vita, per cambiare un pensiero, per lasciare un segno. Il minestrone della signora Giulia ha cambiato per sempre la mia mente. Cinque euro scarsi di verdure, mezz’ora per prepararlo, cinque minuti per raccontarmelo: tutto qua. E ora è finito qui. E forse qualcun altro leggerà e penserà “Ma che è ‘sta storia dei fagioli?”, magari gli resteranno impressi nella mente e, quando sarà sconfortato, li pescherà come me dalla borsa, e proverà a fare come lei, per mantenere il gusto di vivere a dispetto di tutto. Dalla cucina della sua casetta sul mare, chissà che strade prenderanno i tre fagioli di Giulia, e in quali altre case andranno a finire, e se potranno dare coraggio a qualcun altro che soffriva come lei. Una frase, un gesto, un albero piantato, una ricetta che si tramanda, una musica fatta ascoltare, un modo di dire: basta così poco per incidere, trasformare, generare, continuare a esistere.

Ne sarò capace?

Cristina Oliani*

Quel Venerdì pomeriggio le infermiere vennero a chiedermi: “Dottoressa, ma quella giovane Signora che l’aspetta seduta in corridoio è incinta?”.

La mattina mi aveva chiamato il rappresentante di un’associazione di volontariato per chiedermi se potevo ricevere urgentemente una giovane donna che stava male. Al nostro primo incontro oltre a Gianna, la paziente, erano presenti il marito e la suocera. Gianna mi disse che da due mesi aveva tirato fuori dall’armadio i vestiti utilizzati durante la sua unica gravidanza cinque anni prima a causa di un’ascite importante, dovuta a una diagnosi terribile. A quarantatré anni, una vita piena del suo unico figlio e di una attività da libera professionista che svolgeva con dedizione e entusiasmo, aveva dovuto improvvisamente fermarsi. Non ho voluto approfondire troppo le motivazioni che l’avevano portata a non fare alcuna terapia, fino a diventare francamente sintomatica. Desiderio di non sentirsi o farsi vedere ammalata fino ad arrivare alla rimozione? Comunicazione e presa in carico non ottimale da parte delle due grandi strutture alle quali si era rivolta? Quel giorno parlammo soprattutto della terapia che era necessaria per alleviare la dispnea, i sintomi gastrointestinali, il dolore e la febbre. Dopo due giorni ci rivedemmo; era accompagnata anche da suo fratello. Era felice di stare molto meglio con così poco (anche se ben ricordo la sua ritrosia ad assumere il diuretico regolarmente…).

Mi chiese, insieme alla sua famiglia, una terapia che le permettesse di tenere sotto controllo il tumore al meglio e il più a lungo possibile. Rimasi turbata quando suo marito, scoppiando in lacrime, mi chiese balbettando: “Per quanto ne ha mia moglie?”. Feci fatica a nascondere la rabbia e, rivolgendomi alla paziente, le chiesi: “Gianna, vuole che risponda alla domanda di suo marito?”. Mi fece un dolce sorriso e, girandosi verso il suo fragile compagno, gli disse: “Dai, lo sai, ne abbiamo già parlato…”.

Iniziata la terapia, Gianna sembrò più serena e, con l’ulteriore miglioramento dei sintomi, riprese ad andare in ufficio, con nostra sorpresa.

* Direttore Dipartimento Funzionale di Oncologia, ULSS5 Ovest Vicentino

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Questo periodo “di grazia” durò troppo poco; l’alterazione della funzionalità epatica ci costrinse a rimandare la terapia. Gianna era delusa ma non si lamentava e intratteneva le amiche che, a turno, l’accompagnavano da noi. Un Venerdì fu finalmente possibile riprendere la chemioterapia. Gianna ne era felice ma si disse un po’ preoccupata dell’astenia che la terapia le avrebbe procurato nei successivi due-tre giorni. Ci raccontò che quella domenica si sarebbe svolta la recita di fine asilo del bambino e che lei era stata coinvolta da tempo in una piccola parte sul palcoscenico. Aveva sperato nella ripresa della terapia ma desiderava comprensibilmente essere al meglio la domenica. La rassicurammo: avremmo rimandato la terapia al Lunedì e cercammo di mettere a punto una strategia di supporto per il fine settimana. Il Lunedì una mia giovane collega e io ci confidammo che tutta la domenica avevamo pensato se Gianna ce l’avesse fatta. Ne avemmo la conferma quando arrivò radiosa e ci raccontò la felicità del figlio e di tutta la famiglia. Successivamente gli eventi precipitarono. Ripresero i dolori, comparve l’ittero, Gianna iniziava a camminare a fatica. Non ci volle molto per rendersi conto che non era possibile organizzare la terapia di supporto a domicilio, un po’ per la presenza del bambino ma soprattutto per la fragilità della famiglia.

Sapendo probabilmente di mentirle, le proponemmo un breve ricovero nella medicina di un presidio ospedaliero a 15 km di distanza dal nostro, dove il primario segue personalmente i nostri malati con una dedizione ammirevole. Lì le prepararono una stanza molto accogliente, tutta per lei e per i familiari che avessero voluto starle vicino, anche per tutto il giorno. La mamma, che l’aveva accompagnata solo una volta da noi per le terapie, si stabilì in ospedale senza mai lasciarla. Il marito andava la sera, portandole spesso il bambino con il quale restavano insieme al bar. Unico inconveniente la distanza, che mi rendeva difficile andare personalmente a trovarla. Veniva seguita dal nostro consulente e ci sentivamo al telefono regolarmente: sembrava serena e abbastanza fiduciosa che la funzionalità epatica potesse migliorare.

Un giorno espresse il desiderio di vedermi. Mi organizzai e, arrivata nel reparto di medicina Giorgio, il primario, dopo avermi presentato l’ulteriore aggravamento del quadro clinico-bioumorale, mi accompagnò in stanza e mi lasciò con la paziente. Era francamente itterica. Quando mi vide il suo viso scarno si illuminò. Mi invitò a sedere accanto al letto. La stanza era molto ampia e piena di luce. Mi spiegò che si era trovata benissimo in quel reparto, i medici e gli infermieri premurosi e con grande disponibilità per le esigenze sue e quelle della sua famiglia. Mi disse: “Qui di fianco a me si potrebbe preparare un letto, ma mio marito alla sera va a casa dal bambino”. E sospirando: “Come mi piacerebbe che mio marito dormisse qui, sarebbe come avere un po’ di normalità. Mentre parlava, seduta sul letto, il busto appoggiato ai cuscini, guardava davanti a sé. “So di avere un percorso che mi aspetta… ma non voglio sapere quando finirà. Volevo dirle che ho due preoccupazioni. Una è che

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non voglio morire contorcendomi dai dolori come successe a mio padre. Poi non vorrei perdere il controllo di me stessa. Ecco, non so cosa mi aspetta, ma sono pronta. Mi dispiace tanto per mia mamma e mio marito. Ci sono cose che non sono riuscita a dire loro. Avevo provato a scriverle, ma non ci sono riuscita. Quanto gli voglio bene e quanto mi dispiace farli soffrire perché me ne andrò!”. Ogni tanto le palpebre le si chiudevano. Io non parlavo; aspettavo le riaprisse e continuasse. Il primario di medicina ogni tanto si avvicinava alla stanza senza entrare, non mostrandosi alla paziente. Gianna continuò a raccontarmi le preoccupazioni per la sua famiglia con riferimenti a dinamiche e relazioni tra i vari componenti. Quando fu troppo stanca per continuare a parlare, le proposi di scrivere insieme ciò che non aveva detto alla mamma e al marito e, se voleva, anche al figlio. Rimanemmo d’accordo di rivederci dopo qualche giorno per scrivere quanto lei desiderava, le promisi inoltre che non avrebbe sofferto. Si girò verso di me e disse: “Grazie dottoressa, volevo proprio questo: che mi ascoltasse proprio così come ha fatto. Sono contenta”. E mi donò un sorriso.

Ci stringemmo le mani dandoci appuntamento per l’inizio della settimana successiva. Uscii da quella stanza senza forze, come non mi capitava da tempo. Giorgio si avvicinò, mi mise una mano sulla spalla, non parlammo. Non sono una psicologa né un prete: mi sentivo frustrata e arrabbiata con Dio. Quella sera a cena mio marito e i miei figli probabilmente pensarono che ero più distratta del solito verso il racconto dei loro accadimenti quotidiani, normalmente oggetto delle nostre conversazioni.

Gianna morì la settimana successiva. Scivolò velocemente nel coma epatico e non fu più possibile scrivere i suoi messaggi. Almeno una promessa venne mantenuta: non soffrì andandosene.

Sto aspettando che il marito e la mamma, con i quali sono rimasta in contatto, superino il profondo disorientamento che la sua perdita ha provocato, per riportare a loro la sua presenza con i messaggi d’amore che ha lasciato a me. Ne sarò capace?

“Grazie!” per procura – Le parole mai dette

Salvatore Palazzo*

Era d’estate. Un’aria stagnante e satura d’umidità da giorni gravava su Cosenza e sembrava aver abbassato, con la sua pesantezza, il cielo sopra la città. Quel Mercoledì mattina si preannunciava, per me, particolarmente ricco di impegni e denso di appuntamenti. Arrivai di buon mattino in ospedale.

Lei era lì, sulla scalinata, davanti all’entrata del “Mariano Santo”. Era fiera nel suo sguardo e aveva, disegnato in viso, un sorriso appena accennato, che stentava a nascondere dietro un paio di occhiali scuri di tendenza. Non mostrava segni d’impazienza e nemmeno l’afa soffocante sembrava infastidirla. Ma dava proprio l’idea di aspettare qualcuno.

Sistemò sulla spalla la tracolla della borsetta e mi venne incontro. Mi salutò. Quindi, d’un fiato, mi rovesciò addosso tutto il suo bisogno di ringraziarmi.

Mi prese le mani e iniziò a stringermele forte, parlandomi di lei, della sua “nuova” vita; di quanto essa fosse tornata piena e appagante, da quando la malattia le aveva concesso una tregua.

Brevemente si soffermò sui primi momenti, sul dramma che improvvisamente si era trovata a vivere quando, in reparto, le avevo comunicato la diagnosi e di come il cielo le sembrò, in quel momento, esplodere e frantumarsi in tanti piccoli pezzi azzurri.

Ma consumò il ricordo in pochi attimi, per tornare con prepotenza al racconto del suo quotidiano, pregno di soddisfazione e dipinto coi colori della vita. Flash di felicità le rimbalzavano negli occhi e, come palline in un flipper, tracciavano percorsi pazzi e imprevedibili. Confesso una mia antica difficoltà a rispondere a pazienti che, a volte, vogliono esprimermi emozioni o ringraziamenti. Eppure quella mattina con Alessia fu diverso. Le sue parole mi colpivano e mi incitavano a seguirla nelle sue traiettorie verbali.

Riprese riferendomi di essere tornata, dopo molto tempo, a dormire e addirittura a sognare; a incontrare con piacere le sue amiche, ma soprattutto a vedersi nuovamente “bella”.

* Direttore S. C. di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza

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E così dicendo, si levò il foulard che aveva in testa.“Guardi!” mi disse con palpabile orgoglio “...sono i miei!” e con

soddisfazione mi mostrò... i capelli, ora più folti e più chiari.“Lo sa! È tutto merito suo e dei suoi...” aggiunse convinta.E, senza che riuscissi ad abbozzare anche la più banale delle risposte,

proseguì con foga nei ringraziamenti...Mi ringraziò di cuore per averla sottoposta a visita, una mattina dello

scorso aprile, senza lunghi tempi di attesa e di aver fatto in modo che ricevesse prontamente le cure di cui aveva bisogno, quasi – mi rivelò con partecipazione – avessi più a cuore io il suo futuro, di quanto non avessero fatto, nello stesso momento, le persone che aveva attorno, che apparivano completamente disorientate.

Mi regalò un grazie immenso perché, dal giorno in cui aveva attraversato la porta scorrevole del day hospital, si era sentita più forte e coraggiosa di prima.

Continuò a ringraziarmi perché, durante il suo breve passaggio nel reparto di oncologia, venne affidata a “...persone meravigliose: medici, infermieri e soprattutto psiconcologhe...”, che si erano prese cura di lei, come avrebbero fatto con una parente o un’amica in difficoltà.

“Nessuno...” mi confidò “ mi ha mai chiamata col mio cognome. Per tutti sono sempre stata semplicemente Alessia!”

Ma mi ringraziò soprattutto per averle fatto capire quanto il cancro sia una brutta malattia, ma anche come sia possibile curarlo e vincerlo, qualora – come nel suo caso – si abbiano a disposizione le armi per affrontarlo.

E cominciò a raccontarmi, in maniera semplice – come qualche mese prima avevo provato a fare io con lei, nel tentativo di spiegarle la patologia – che, nell’universo sconfinato dell’oncologia “...esistono tumori di serie A e tumori di serie B: quelli che si possono affrontare e quelli che, senza un minimo senso, non danno scampo”. E proseguì asserendo con forza di considerarsi... una fortunata, perché s’era accorta in tempo del male, perché era stata visitata e avviata a trattamento in poche settimane, perché aveva incontrato me, il mio personale e una struttura adeguata...

Poi, con due lacrimoni che le giravano negli occhi, concluse i suoi ringraziamenti, sussurrandomi: “...più di ogni altra cosa al mondo, voglio però ringraziarla a nome di tutte quelle persone che a lei si sono affidate, ma che sono state meno fortunate. Perché, sono state seguite senza trascurare nulla o lasciare qualcosa di intentato. Senza false illusioni... Mai... ma che, purtroppo, non ce l’hanno fatta....”.

Di una in particolare, aveva memoria.Una persona che, probabilmente, non aveva avuto il modo o, di sicuro,

il tempo di ringraziarmi: “Tocca a me, quindi, farlo... Qui e ora. Per lei. Perché così avrebbe voluto...”.

Toccanti parole per un ruolo di mediazione, per nulla sciamanico, ma di civico e appassionato servizio, con il quale lei si offriva a dar voce a chi

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non gli era stato concesso di completare il proprio ciclo di azioni. E d’un tratto, tradendo la mia atavica ritrosia, preso da un’irrefrenabile

voglia, decisi di consegnare, tramite suo, una mia risposta. Volevo che sapesse che l’interesse circa la sofferenza non è, per il

medico, solo un fatto tecnico o scientifico o peggio, di morbosità perversa, né dura il tempo del suo orario lavorativo.

L’osservazione dell’“altro” malato è il vero “compenso” per il medico, paragonabile parzialmente alla catarsi che subisce lo spettatore delle tragedie greche.

Quando la medicina è anche umanizzazione del ruolo, il medico ottiene di espellere le proprie paure e gli ancestrali patimenti, grazie all’osservazione degli altrui drammi. A patto, però, che egli riconosca se stesso nell’“altro” che soffre, vedendo le proprie debolezze e paure, e la possibilità di comportamenti analoghi, in una sorta di pietas empatica, che è occasione di apprendimento, anche relativamente a originali espressioni emozionali, con cui purificarsi di quel “grande dolore” che si porta dentro.

E così, inserendomi nell’amorevole e improvvisato role-playing del nostro incontro, chiesi a mia volta ad Alessia di riferire, per mio conto, “a ogni altra” avesse incontrato nel corso della sua vita, che ora sì, finalmente, capivo come, soffrendo, qualunque malato lo avrebbe fatto, un poco, anche per me. Riuscendo a dare un qualche umano senso a una malattia, che di senso non ne ha.

“Questa la più grande ricompensa che il paziente può dare al clinico per il suo impegno quotidiano”. conclusi.

Alessia mi tirò a sé per un breve, ma intenso abbraccio. Un tuono, poi un improvviso scroscio. E le sue lacrime si confusero con la pioggia, colorandola di caldi

riflessi dorati...

Storia di Ti

Guido Tuveri*

Quella mattina ho perso il beneficio delle ferie in circa trenta secondi. “Vieni a fare una endovena alla ragazzina”, mi dice la caposala,

“da noi infermieri non si lascia nemmeno toccare, oggi ha una brutta giornata”. “Ragazzina? Che ragazzina?”. “Vieni con me”. E vado, non sono preoccupato, ogni tanto la “ragazzina” è qualche signora novantenne super-vivace…

Invece, questa è una ragazzina per davvero. 19 anni, magrissima, pallida, spettinata, ti butta addosso due occhi

feroci, ti studia in un attimo e decide che anche tu stai “con il nemico” e si volta dall’altra parte, verso il muro. Non parla, non risponde, il “nemico” è tutto il mondo, è profondamente arrabbiata con tutto il mondo; fa una smorfia quando l’ago della pelle buca il suo braccio, un braccio magro, pieno di lividi e di ematomi; nel tempo dell’endovena non ti guarda nemmeno per un attimo, sembra quasi che non respiri.

Lei è “Ti” e i suoi occhi rabbiosi mi hanno appena bruciato il beneficio delle ferie; cavolo, ha meno della metà dei miei anni, è già da qualche anno che incontro malati con meno anni dei miei, e questo dettaglio aggiunge sempre un tocco di ansia in più, come se non bastasse l’ansia standard.

Ti ha un coriocarcinoma, con metastasi ovunque, incluso l’encefalo; il tumore è arrivato qualche mese dopo un aborto spontaneo, che già di per sé l’aveva rattristata; il suo ragazzo, gentile, con un sorriso timido e un codino biondo, non si muove da lì; ti guarda e aspetta.

Inizia qui il viaggio di Ti; le prime chemioterapie, il marcatore che precipita, il mal di testa che se ne va, ma lei ancora è arrabbiata, dice solo “sì” o “no”, lascia fare perché si deve, ma non sembra crederci molto, o forse è solo che non si vuole illudere.

Passano i primi sei mesi, poi ne passano altri sei; Ti si è abituata all’ambiente, al “sì” e al “no” ora aggiunge qualche volta un “grazie”, e inizia a fare qualche smorfia che può essere scambiata per un timido sorriso; è un po’ meno magra, l’odio verso il mondo forse è in stand-by; il suo ragazzo è sempre lo stesso, gentile, sorridente, con l’imperterrito codino. * già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica, Azienda Ospedaliero-Uni-versitaria Ospedali Riuniti di Trieste

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Alla fine del primo anno di terapia, il tumore sembra quasi scomparso; il marcatore è a zero da mesi, la TAC è del tutto normale, ma la risonanza dice che c’è un piccolo focolaio nell’encefalo; sarà necrosi? Sarà un residuo? Il dubbio non si risolve; pure Ti è in dubbio, fra sorridere per le notizie buone, o disperarsi per questo giochino della chemioterapia che sembra non avere mai fine.

Ci consultiamo con mezzo mondo e alla fine Ti sale su un volo per Londra, l’aspettano per una consulenza in un ospedale che ha pubblicato una casistica impressionante; torna con l’indicazione di fare ancora un anno di terapia. Ti non parla inglese, quindi ancora non sa cosa dice la sua relazione; non è tanto contenta, diciamo così; sperava di avere finito, non ha proprio tanta voglia di vivere con noi ancora un anno.

Però, sarà che si è abituata all’ambiente, sarà che il suo ragazzo col codino è sempre là, gentile, sorridente, rassicurante, un bel giorno torna e dice che va bene, facciamolo, ma quando questa cosa sarà finita “non vi voglio più vedere”.

Questa terapia non è uno scherzo; sono dosi alte, serve la degenza, qualche domenica mattina venendo a lavorare le lascio sul comodino, mentre dorme, un ovetto Kinder; in fondo, per tutti noi è ancora una bambina. Ora è decisamente più socievole: dice “sì”, “no”, “grazie”, e anche qualche “ciao”, la “smorfia-sorriso” è un po’ meno smorfia e un po’ più sorriso.

E finalmente, passa questo anno; il marcatore è sempre muto, la TAC è sempre negativa, e incredibilmente anche la risonanza dell’encefalo tace. È finita!

E Ti mantiene la sua minaccia: dopo i primi controlli, svanisce nel nulla e nessuno la sente più nominare; ogni tanto, sistemando vecchie carte, riappare il suo nome, e noi: “chissà…”.

Sono passati quasi vent’anni, il ricordo di Ti è in un angolo del mio cuore, come altre storie e altre persone che ho portato con me quando ho smesso di lavorare; ricordi e persone che non sono rimasti confinati in ospedale, che sono usciti dal camice, appeso nell’armadietto, e mi hanno seguito.

Un giorno, girovagando fra gli strumenti del mondo virtuale, che quando hai tempo sono divertenti e istruttivi, si affaccia sul mio computer portatile un viso di donna, carino, sempre magro, sempre spettinato, con un nome che mi risveglia di colpo.

Scusa, tu sei “quel” Tuveri? Ma tu, non sarai mica “quella” Ti?E così, siamo seduti al tavolino di un caffè, con quasi vent’anni di vita

da raccontare; ce ne vorrebbe di tempo. Ti, dopo i due anni di “carezze” della chemio, è riuscita persino a diventare madre, orgogliosa e felice. Ce ne vorrebbe, di tempo, per raccontare.

“Prima di lasciarci, ti ho portato una cosina in ricordo dei vecchi tempi”, “Ma dai, non dovevi, davvero. Cos’è?” “Eccolo, guarda tu stessa”, “È un ovetto Kinder!”.

E così, vent’anni dopo, spunta una lacrimuccia…

Sinceramente umano

Claudio Verusio*

Paola, una cara amica di mia moglie, 56 anni, sposata, con una figlia, era una giornalista amatissima dal pubblico femminile per la sua arguzia. A ottobre 2014, a seguito di alcuni esami, il medico di famiglia le ha comunicato che, dagli esami diagnostici eseguiti, risultava la presenza di una neoplasia polmonare. Anche se sconvolta, Paola si è immediatamente rivolta a un rinomato centro ospedaliero della sua città. Alla stadiazione risultava un adenocarcinoma al IV stadio con metastasi ossee e cerebrali. Paola, molto combattiva, si è affidata completamente al team di oncologi e palliativisti. Tutti si sono concentrati sulle terapie. La gravità della situazione non è mai stata verbalizzata. Ovviamente non si è parlato di prognosi. Paola ha iniziato la cura investendo ogni energia nella lotta contro la malattia. Tra lei e i medici si è stabilito un rapporto di totale fiducia e affidamento, ma tutto concentrato solo su farmaci e dosaggi. Come se non ne provasse, Paola non ha mai verbalizzato né paura né angoscia. Tutti: paziente, medici, marito e figlia, sembravano vivere in una bolla di ottimismo. Per me, però, che seguivo la vicenda attraverso mia moglie, era molto difficile esserlo. A seguito di un aggravamento dei sintomi, a Gennaio la paziente è stata ricoverata. Si erano formate nuove metastasi cerebrali. Dopo 40 giorni di cure intensive Paola è spirata per una polmonite ab ingestis.

Nell’ultima settimana, parlando a fatica, si preoccupava della terapia molecolare che gli oncologi le avevano prospettato qualora avesse superato l’infezione. Gli oncologi però avevano diradato le visite e lasciato la paziente al palliativista. Lei a quel punto ha smesso di parlare. Ignorando tutti, anche il marito e la figlia, si è chiusa in un silenzio che non ha più rotto. Ed è morta sola con la sua angoscia. Questa vicenda mi ha costretto a riflettere molto su come mi sarei comportato se Paola fosse stata mia paziente.

Io mi sento di rispondere senza incertezze che nascondere la gravità della diagnosi e soprattutto continuare a dare false speranze non è il modo migliore di aiutare un paziente che (noi lo sappiamo) ha una prognosi infausta. La relazione medico-paziente è il cardine su cui gira tutta la cura.

* Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica; responsabile Dipartimento Oncologico Aziendale, Presidio Ospedaliero di Saronno – ASST della valle Olona

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Non può prescindere dalla sincerità. Certo, dobbiamo tenere conto della sensibilità del paziente e capire quanto è in grado di tollerare, ma nei nostri colloqui dobbiamo fin dalla prima volta dare al paziente il tempo per comprendere cosa gli sta capitando. La cura nasce dall’alleanza. Solo se il rapporto è umano e sincero, si potranno condividere tutti i passi successivi. È un percorso lungo e faticoso che va fatto insieme, condividendo gioie e dolori. E fino alla fine. Ma perché i colleghi oncologi che hanno curato Paola negli ultimi giorni hanno diradato le visite? Questo comportamento molto diffuso ha sostanzialmente due origini. Prima di tutto, anche noi medici siamo umani e la morte ci fa paura. Quando abbiamo scelto di diventare medici, immaginavamo di scendere in campo con i nostri bisturi e le nostre terapie per battere la malattia e sconfiggere la morte. Solo con la pratica cominciamo a capire che non sempre si vince.

Io aprii gli occhi a trent’anni. Facevo il tirocinio presso l’Istituto dei Tumori di Milano, con il professor Bonadonna. Mi aveva affidato un paziente con un linfoma di Hodgkin sul quale sperimentavamo lo schema di polichemioterapia ABVD. Il paziente aveva 20 anni ed era un simpaticissimo giocatore di basket. La prima risposta ai farmaci era stata così positiva che ero entusiasta. Ogni giorno arrivavo in ospedale pronto a festeggiare nuovi miglioramenti. Una mattina trovai il letto vuoto. Una infermiera mi informò che nella notte aveva avuto un’emorragia letale. Quel giorno capii che la morte avrebbe fatto parte del mio lavoro e che dovevo imparare a guardarla in faccia. Poco tempo dopo intrapresi un percorso psicoterapeutico che sarebbe durato molti anni e che mi ha portato a diventare io stesso uno psicoterapeuta. La morte fa paura, ma non possiamo evitarla. Negarla può tradursi in decisioni terapeutiche temerarie, più mirate alla battaglia contro la malattia, che all’impegno per la qualità della vita del paziente. Si arriva anche per questo all’accanimento terapeutico. Sono invece convinto che per un medico, a maggior ragione per un oncologo, l’elaborazione e l’accettazione dell’idea della propria morte sia fondamentale se vogliamo essere davvero gli alleati dei nostri pazienti. Non possiamo non avere paura, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo paura. Nell’emozione davanti a un paziente che lascia la vita è importante “sentire” che una parte del dolore che proviamo è per noi stessi. La seconda origine del comportamento dei colleghi va cercata nell’odierna Evidence-based medicine. Un tempo tutto veniva deciso dal medico. Oggi per fortuna la medicina è evidence-based: diagnosi e terapie comprovate determinano tutto. Questa è una grande conquista, ma non ci ha reso più umani. Siamo più forti nelle diagnosi ma rischiamo di indebolire l’empatia. La professione del medico, e quella dell’oncologo in particolare, è una professione molto particolare. È sicuramente una professione scientifica, tecnica, ma non è solo quello. Il contatto continuo con la sofferenza, la malattia, la paura della morte e le domande sul senso della vita che si porta dietri, richiedono sensibilità e cultura umanistica.

36 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

Le nostre scuole però, eccellenti nella preparazione tecnica dei futuri medici, non hanno molto tempo e spazio da dedicare a questo aspetto della nostra professione. Ecco perché bisogna lavorare nella formazione dei giovani medici, rendendo obbligatoria una preparazione umanistica. Mi piacerebbe veramente che si arrivasse a una human value medicine. La tecnica dovrebbe essere uno strumento e non essere lei a disporre delle nostre decisioni. È in nome della tecnica che l’oncologo, non avendo più terapie, lascia il paziente al palliativista. Ed è proprio questo abbandono la più frequente e implicita comunicazione del fine vita. Se siamo alleati dei nostri pazienti non possiamo lasciarli soli. In tanti anni di lavoro ho purtroppo visto molti pazienti morire, e ogni volta è stata un’esperienza diversa. C’è stato chi non ha mai voluto sentirsi dire che eravamo alla fine e chi al contrario mi ha anticipato, chiedendomi magari di lasciarlo andare a morire serenamente a casa. Sempre, anche quando lo nega, il paziente “avverte” che sta per morire. Non è necessario “informare”. Ma è cruciale esserci.

Perché la nostra presenza di oncologi rappresenta essa stessa una speranza. E non si può mai fare a meno della speranza. Guardare in faccia la morte è insopportabile come guardare continuamente in faccia il sole. Bisogna poter distogliere lo sguardo. Quella è la speranza. Non illusiorie terapie, né parole speciali. È solo presenza, umana vicinanza. Anche il silenzio di un paziente può essere ascoltato, capirà che siamo umani come lui e si sentirà meno solo.

La settimana scorsa ho conosciuto Cecilia, 22 anni, la figlia di Paola. Durante tutta l’ultima fase della malattia è stata con sua madre giorno e notte. Mi ha detto “Sa, ogni momento speravo che la mamma mi dicesse qualcosa, anche solo: ‘è un brutto momento, ma ti voglio bene’, invece mi chiedeva solo quanto era la “saturazione” (di ossigeno nel sangue).

Il ricordo

Il sorriso di Ada

Francesco Di Vito*

Si chiamava Alda D. ed era sempre sorridente. Aveva quel sorriso semplice e un po’ mesto della gente di montagna, di chi vive una vita dura ma serena, isolata dal mondo ma ricca “dentro”.

La prima volta la incontrai al pronto soccorso dell’Ospedale di Aosta, dove il curante l’aveva inviata per un “tumore infiltrante e localmente avanzato della mammella”. Il chirurgo aveva detto che “Non ci avrebbe messo le mani”, e così “o tornava a casa come era venuta o la prendevamo noi in Medicina”.

Era la fine degli anni ’70, era il secolo scorso e l’oncologia medica era solo agli inizi. “Mandiamola a Torino o a Milano o almeno a Ivrea a fare i raggi!” aveva sentenziato il primario medico. Ma Lei non ne voleva sapere di andarsene dalle montagne: “Me vou pà, me resto inkie! Non voglio, resto qui”, diceva nella sua lingua, il francoprovenzale, il patois della Valle d’Aosta. D’altro canto, la formazione che avevo ricevuto all’università, fino alla mia laurea nel 1974, era disarmante riguardo alla terapia medica dei tumori; ogni capitolo su ciascuna forma tumorale concludeva monotono: la terapia è chirurgica, la prognosi infausta.

Con molto timore, con tanti dubbi e senza alcuna esperienza cominciammo a trattarla con un medicinale ormonale dal nome lungo, medrossiprogesterone-acetato, sul cui uso ad alte dosi avevo sentito relazionare, a un congresso a Brescia nel 1975, da un certo Pannuti di Bologna, anche se ricordavo che la sua relazione era stata molto criticata da un aiuto del professor Bucalossi dell’Istituto Tumori di Milano, un certo Veronesi. Dopo qualche settimana, avvennero fatti sorprendenti per noi giovani medici e per il vecchio primario. L’ulcerazione cutanea cicatrizzava, la massa diminuiva e Alda stava meglio: il tumore regrediva! Il suo sorriso era più luminoso ma Lei non era sorpresa: si era affidata a noi e a Sant’Antonio, patrono del paese, e quindi nessuna meraviglia che la situazione migliorasse!

Non la vedemmo più per molti mesi: lei continuava irregolarmente la cura a casa, le sue condizioni erano buone, e considerava troppi anche i

* già Direttore SC Oncologia Medica, AUSL Regione Valle d’Aosta

40 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

venti chilometri necessari per venire alle visite di controllo. Poi il tumore riprese la sua corsa locale, comparvero dolori alle ossa e Lei accusava tanta stanchezza, così che fu costretta a tornare. Con molto timore, con tanti dubbi e senza alcuna esperienza iniziammo a trattarla con qualche farmaco sintomatico e con un altro medicinale ormonale, l’aminoglutetimide e migliorò ancora. Alla ricaduta successiva, provammo quella nuova terapia, il CMF, la chemio che un certo dottor Gianni Bonadonna aveva dimostrato essere utile contro i tumori della mammella. Anche questa volta rifiorì, noi medici pensammo di nuovo al miracolo ma lei, sempre sorridendo, ci ringraziò di averla semplicemente curata, di aver svolto a suo favore il nostro normale compito.

La storia si ripeté per molte volte: non la vedevamo per alcuni mesi, poi ritornava in fase di malattia sempre più avanzata, il suo sorriso sempre più spento. Ma per molte volte il miracolo si ripeté.

Penso che sia stato proprio questo caso ad avere dato a me e a Fulvia Grasso, due giovani medici di un piccolo ospedale di montagna, l’entusiasmo e la determinazione per iniziare, in modo preparato e strutturato, a curare i malati di tumore. Adesso ad Aosta ci sono due associazioni di volontariato oncologico, sono avviati gli screening oncologici, sono possibili adeguati trattamenti antitumorali (chirurgici, medici e radiologici) realmente integrati, è attiva una efficace rete di cure palliative.

Penso che tutto ciò sia dovuto anche ad Alda, alla sua fiducia, al suo sorriso.

Nonostante la conoscessi…

Un medico*

Nonostante la conoscessi molto bene, quando le abbiamo fatto la diagnosi di un tumore particolarmente raro e aggressivo, non ci siamo disperati e lei l’ha accettato da persona “semplice e pura di cuore” quale era.

L’aveva pensato un evento come tanti nella vita e aveva una fede incrollabile che le faceva dire: “Quando il signore chiama, bisogna andare!”. Lo diceva con una serenità che, oltre a spiazzarmi, mi faceva quasi arrabbiare perché io ovviamente in controcanto speravo e pregavo che questa chiamata avvenisse il più tardi possibile o, meglio ancora, non arrivasse mai. Aveva un rapporto particolare con gli altri pazienti, praticamente si faceva adorare perché era impossibile non adorarla. Con noi era sempre in attesa di capire se la situazione clinica potesse migliorare, ma quando gli esami non davano risposte positive, l’accoglieva sempre con tranquillità. Parlava con gli altri pazienti sempre con il massimo del rispetto possibile, infondendo anche in loro il piacere e la forza propria delle belle persone; con diversi di loro si è scambiata il numero di telefono e passavano ore a dirsi non so cosa, ma ridevano sempre. Addirittura con alcuni di loro era riuscita a organizzare il modo di venire insieme in automobile e ogni volta che arrivavano lo facevano canticchiando.

Il Natale con lei era una festa che cominciava 40 giorni prima. F. iniziava a telefonare a metà novembre per organizzare un pranzo, poi avveniva la contrattazione riguardo i regali per i bambini: io le dicevo di non fare niente, lei si arrabbiava e diceva che non dovevo metterci bocca e infine si arrivava al compromesso, cioè che lei faceva come aveva già deciso.

La sua malattia l’ha sempre affrontata con l’entusiasmo e la passione che la contraddistinguevano, sorrideva sempre, anche nei momenti più vicini alla sua morte.

Adesso ogni giorno del periodo natalizio me la ricorda, tanto da stringermi il cuore. Cerco di convincermi di quello che dico anche ai bambini e cioè che F. adesso è il nostro angelo che ci guarda e ci protegge, ma in realtà non riesco ancora ad accettare che la chiamata del Signore sia arrivata nonostante le mie speranze. * Oncologia di San Benedetto del Tronto. Direttore dott. Giorgio De Signoribus

Ritorno in Zaire

Cesare Bumma*

Il mio ricordo è nitido. Il missionario mi attende e mi saluta con calore. Noto uno splendido mazzo di rose rosse. Il paziente previene la domanda: “Questi fiori provengono dallo Zaire, la mia terra di missione e sono stati portati per mostrarmi come l’attività continui. Spero di tornarvi presto, appena starò meglio e lei giudicherà le mie condizioni idonee”. Sul diario del missionario si legge dell’attività in un lebbrosario dell’Africa: “Fui accolto festosamente dai lebbrosi. Iniziai la più lunga serie di strette di mano. Non ebbi la minima esitazione a stringere quei moncherini che si protendevano verso di me. Inizio un’intensa attività di catechesi, di scuola di canto, di rapporti con i gruppi etnici imparandone lingua, usanze, cercando di stabilire rapporti cordiali”. L’opera è bruscamente interrotta da inappetenza con vomito e dimagrimento. Si consiglia al missionario di ritornare a Torino, dove è sottoposto a un intervento di gastectomia e linfoadenectomia per carcinoma gastrico e chemioterapia adiuvante. Dopo un anno di lavoro in Africa, ricompaiono l’impossibilità all’alimentazione e il dimagrimento e si esorta il ritorno a Torino per accertamenti. La diffusione metastatica consente chemioterapia palliativa e alimentazione parentale. Svolgo visite periodiche all’Istituto dove abita il religioso, che provvede da lontano ai bisogni della missione. Illustro al paziente la necessità di praticare le cure, senza le quali avrei compiuto “un abbandono terapeutico”; il paziente accetta con dolore e io decido che sarebbe morto lontano dallo Zaire, dove non c’era assistenza. Un giorno, il Padre, non ebbe più bisogno della mia opera. La notizia giunge alle missioni e il gudu-gudu (tam-tam che sotto il tocco africano comunica gioia e dolore, vita e morte) rimbomba annunciando la morte. Al villaggio i lebbrosi piangono come chi ha perso il padre.

In seguito, chiesi notizie. Il centro di attività missionaria in Zaire porta il nome del missionario.

* già Direttore Oncologia, Ospedale S. Giovanni, Torino

Olimpiadi

Cesare Bumma*

Nel corso delle Olimpiadi Invernali di Torino, sono stato designato direttore della Commissione Antidoping a Pinerolo sede delle competizioni “Curling”. É uno sport simile al gioco delle bocce in cui, invece delle consuete palle, vengono lanciate piastre di pietra che scorrono su un pavimento gelato. Dopo la competizione con gli atleti, vi era quella con i “diversamente abili”, le Paraolimpiadi. Questi atleti invece che in piedi, lanciano le piastre stando sdraiati su una tavola che scivola sul ghiaccio. Un giorno, nel corso di una gara, vengo chiamato da una signora seduta su una sedia a rotelle, nella tribuna a loro riservata. Dopo qualche frase, riconobbi una vecchia paziente, operata al seno presso il mio ospedale che avevo perso di vista. La signora raccontò il seguito della sua storia: colpita da metastasi ossee vertebrali aveva attuato terapie mediche e ultraspiecialistiche, la vertebroplastica, con ottimi risultati, poteva camminare anche se lentamente, la carrozzella era un supporto per lunghi percorsi. Si alzò dimostrando l’ottimo risultato conseguito. Mi congratulai per le sue condizioni e anche per l’aspetto elegante che dimostrava: “Vede dottore un bel vestito è come una nevicata, nelle nostre montagne copre tutte le protuberanze e le cose brutte, nel mio caso nasconde busti ortopedici e così via. Io mi vergogno molto delle mie condizioni, non esco quasi mai, e la carrozzella la subisco come una umiliazione. Pensi che all’inizio con mio marito ero andata a prendere la mia bambina all’uscita di scuola, ma suscitai la curiosità delle sue compagne e anche commiserazione: sa i bambini sono spontanei e talora crudeli. Qualche volta vado in centro camminando piano, ma la gente affrettata inavvertitamente mi urta, mi spinge quasi a terra e rimango terrorizzata”. Fui sorpreso di questa versione dei fatti, delle condizioni di disagio vissute dalla signora. Chiesi allora come mai fosse interessata alle Olimpiadi. Intervenne il marito che, dopo avermi salutato calorosamente, spiegò la loro presenza: “Vede, dottore, io sono un vecchio giocatore di bocce ed ero incuriosito di vedere questo gioco sul ghiaccio, ma mia moglie voleva vedere le modalità con cui queste sfortunate persone

* già Direttore Oncologia, Ospedale S. Giovanni, Torino

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riuscissero ad attuare un’attività sportiva”. Nel frattempo comunicai a un atleta della squadra del Canada che era stato sorteggiato per il controllo antidoping e da quel momento un mio collaboratore lo avrebbe affiancato fino alla consegna di un importante prodotto: una boccetta di urina. Il canadese fece un commento spiritoso e la mia paziente, professoressa di francese, replicò con altrettanta ironia. Il loquace atleta confortato dal discorso in francese, disse di ricordare l’episodio della “maschera di ferro” avvenuta a Pinerolo. Io dovetti allontanarmi ma il discorso fra loro continuò. Il giorno dopo rividi la signora con un elegante vestito celeste e nel salutarla commentai: “Vi è stata una nuova nevicata?”. Ricevetti un radioso sorriso di compiacimento e un’informazione sul proseguimento dell’amicizia con l’atleta, mi informò che i consigli tecnici sulle strategie del Curling forniti dal marito erano stati molto graditi e avevano costituito, con l’allenatore della squadra, un comitato “strategico”. Seppi, inoltre, che avevano fatto colazione al famoso Caffè Galup e il marito ci tenne a precisare che le loro due figlie avevano spinto la carrozzina della madre e del canadese fin dentro le sale. La signora mi confidò: “Vede dottore questa esperienza con i così detti Paraplegici alle Olimpiadi mi ha dato la forza di affrontare la mia condizione con maggior coraggio, non preoccupandomi di quello che possono dire tutti i conoscenti”. Le gare continuarono con un tifo caloroso di molti spettatori di Pinerolo, amici della professoressa. Alcune gare furono vinte, altre perse, ma la squadra del Canada si piazzò benissimo.

L’ultimo giorno volli offrire un brindisi nel bar del palazzetto del Curling e comunicai che ero stato invitato dalle Autorità dello Sport a svolgere la stessa attività durante le successive Olimpiadi che si sarebbero tenute in Canada. Tutti promisero che il prossimo appuntamento sarebbe stato a Vancouver, la signora promise che con o senza carrozzella lei ci sarebbe stata, “Meglio con la carrozzella” disse il canadese, “così faremo una coppia da far invidia ai miei concittadini. Non andai in Canada, non ebbi ulteriori notizie della signora. Voglio immaginarla serena come il giorno della promessa, non so se sia peggiorata o se sia ancora in vita. Certamente non ho letto annunci di morte sul giornale, e soprattutto non ricevetti quei terribili “ricordini” con volti dei pazienti e ringraziamenti. Ciascuno di essi mi ricorda l’insuccesso. Un colonnello degli Alpini mi riferiva che i giovani iscritti facevano calorose amicizie fra di loro ma in seguito si disperavano quando in guerra apprendevano la morte dei commilitoni. Puntualizzava che col passare del tempo non si legavano molto ai nuovi arrivati, temevano di perderli e quindi di soffrire: sto diventando come il vecchio Alpino ?

Inquietudini leggere

Enrico Aitini*

Tornando verso casa assaporavo il grigiore di una nebbia sottile che sentivo intima amica, impalpabile foschia, camminando sull’acciottolato di un’isola pedonale su cui era piacevole il lento susseguirsi dei passi. Sull’angolo di un vicolo, ormai giunto a casa, mi ritrovai improvvisamente a terra, travolto dalla rapida corsa di una persona che, in tuta, aveva scelto quelle vie per allenarsi, sconsideratamente, pensai stizzito. Mi rialzai lentamente mentre chi mi aveva urtato, subito in piedi dopo l’imprevista caduta, se ne stava in silenzio, come rispettoso dei miei brontolii. Mi trovai a guardare l’investitore: era una bella ragazza, mora, capelli a caschetto, con uno sguardo un po’ impaurito che subito si dischiuse in un dolce sorriso in risposta al mio, nel quale si era disciolto ogni residuo disappunto. Tornato medico, come ogni giorno, le chiesi come stava, se aveva sbattuto la testa…

“No, tutto a posto, neanche un graffio… ma Lei, dottore?”“Ci conosciamo?”Qualche volta aveva accompagnato in reparto la zia che portava il suo

stesso nome, Cecilia. “Bene, se davvero non ti sei fatta niente, riprendi pure la tua corsa…

ma per cosa ti alleni?”“I millecinque… arrivederci e grazie…”Un attimo e la corsa era già ripresa. In un pomeriggio che sapeva di rinnovati entusiasmi d’inizio Aprile

entrai nel mio studio. Oltre la finestra, spalancata su ispirati desideri di luce, la primavera arricchiva il giardino di antiche emozioni: sotto le eterne conifere che separavano il nostro reparto da quello di pneumologia, i colori delle ginestre e di un’azalea rispondevano gentilmente agli sguardi di chi, per malattia o per lavoro, trascorreva ore in quella e nelle stanze vicine.

Guardai le tre persone sedute oltre la scrivania, sulle poltroncine rosse, accompagnate poco prima da Cinzia, l’affabile segretaria. Non tradivano, all’aspetto, segni evidenti di sofferenza, eppure, soprattutto

* già Direttore S. C. Oncologia Medica ed Ematologia, Ospedal Carlo Poma, Mantova

46 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

in due di loro, si leggeva facilmente negli occhi un disagio, un’agitazione faticosamente quanto inutilmente nascosta. Mi fermai a osservare la persona seduta nel mezzo: la più giovane, forse la figlia, capelli neri che abbracciavano un volto impaurito ma sorridente, simpatico, in armonia con la vita e la voglia di vivere. Alla sorpresa raccontata dai miei occhi rispose semplicemente:

“Sono arrivata anch’io! Ha visto, professore, dove mi hanno portato tutte le corse e gli allenamenti?”

Davanti a Cecilia la mia prima, incredibile impressione, fu quella di gioia nel rivederla. Eppure la paziente era proprio lei che, assieme ai genitori, veniva a parlarmi del suo problema e a cercare con me una soluzione.

“E adesso potrà aiutarmi come ha fatto con la zia... ?”“Certo, Cecilia… ma adesso raccontami tutto con calma, ti ascolto…

a proposito, non sono professore ma lo stesso dottore di quella nostra caduta”.

I genitori si guardarono e poi mi rivolsero lo sguardo in modo interrogativo: li tranquillizzai affermando che quello era solo un piccolo, piccolo segreto che univa me a Cecilia. Mi sembrarono sollevati dal tono confidenziale che il discorso prendeva ma io ero stupito di come lei, non avesse, al contrario di me, raccontato quella banale disavventura.

Cecilia mi mostrò una serie di incartamenti: alla fine l’esito di una biopsia linfonodale che aveva consentito ai colleghi patologi di porre la diagnosi di linfoma non Hodgkin. Tra tante sigle, classificazioni, lettere e numeri enigmatici, c’erano due parole, in lingua inglese, che Cecilia mi ripeté chiedendo una convincente e leale spiegazione:

“High grade, alto grado… di cosa? Di malignità, di aggressività?”La domanda, così appropriata, mise alla luce quanto io non sapevo

di lei: studiava, lavorava, quali progetti coltivava? In genere erano le prime informazioni che cercavo, non fosse altro per adeguare le modalità d’informazione al grado di cultura e di conoscenza del problema. Cecilia mi confidò che stava frequentando il penultimo anno di liceo e che, oltre a una positiva conclusione dell’anno scolastico, si aspettava da me una soluzione rapida al suo problema per non interrompere troppo a lungo gli allenamenti e poter disputare i campionati regionali.

“Per quest’anno non ce la faccio, mancano solo due mesi, ma per l’anno prossimo prometto di rimetterti in forma e chissà che tu... se sei così forte...”

Ad una smorfia di fastidio, di irritazione, di improvvisa paura, seguirono responsabilmente segnali di pace e la disponibilità ad accettare le cure.

Quella ragazza, dal sorriso leale e sincero, mi “inquietava”: aveva compiuto il primo passo, il più difficile, accettare l’evidenza della malattia, a diciott’anni, sentirsi d’improvviso sospesa, come nel vuoto, schiacciata al tempo stesso dal peso della realtà e pronta, tuttavia, a raccogliere la

Il ricordo 47

sfida. Avevo fatto una promessa, avevo cercato un’alleanza. Ora che lei era uscita dalla stanza a me rimanevano le domande di sempre, quelle che venano d’ansia ogni itinerario terapeutico. Un altro viaggio era cominciato. Cecilia, l’atleta, avrebbe imparato a misurare i suoi sforzi con un diverso cronometro; la giovane studentessa avrebbe cercato e trovato, da sé, parole riparatrici. Conoscevo le tappe di quel viaggio: ad ogni stazione uno stato d’animo; disagio, sofferenza, frustrazione, rabbia si sarebbero mescolati a gioia, attese, speranza. Guardai, oltre la finestra, di nuovo le larghe piante dalle solide radici e, per contrasto, la delicatezza delle ginestre.

Trascorse la primavera, con qualche lacrima, con silenziose speranze, con diverse, leggere inquietudini; trascorse anche l’estate con i capelli che ricrescevano e giunsero, infine, i mattini autunnali che videro Cecilia iniziare l’ultimo anno di liceo.

Era il mattino di un grigio Gennaio: irritato per la pioggia incessante ma soprattutto per gli schizzi di un’auto che, senza pudore, mi era sfrecciata vicina, appesi il cappotto e controllai le condizioni dei miei vestiti: non celavo però il fastidio di dovermi presentare, in quello stato, ai colloqui con gli insegnanti di mio figlio in un liceo che era stato anche il mio. In fila, annoiato per un’attesa che non consentiva previsioni, percepii un sollievo incipiente generato dal suono della campanella su in alto, come al tempo di greco e latino. E un sollievo… molto più di un sollievo profondo giunse subito dopo: tra il vociare dei ragazzi usciti dalle aule per la ricreazione, mi venne incontro Cecilia, abbracciandomi senza timore, senza paura che quel gesto potesse in qualche modo ricordare ai compagni la sua malattia di primavera, i suoi capelli caduti, le sue assenze un po’ misteriose, le notizie sottovoce tra gli insegnanti. Mentre la stringevo a me, emozionato, mi sentivo ripieno di quella sua candida libertà, di come non le importasse di apparire ma semplicemente di essere, dentro la sua esistenza, quello che voleva davvero essere.

Cecilia aveva vinto, forse senza saperlo del tutto, una vittoria particolarmente preziosa. Era riuscita a controllare pericolose insicurezze, qualcosa che, con la malattia, le era scivolato dentro, silenziosamente, nell’ombra, qualcosa che umilia, ferisce, qualcosa che ti obbliga a rivedere completamente il tuo rapporto con la debolezza, con la vulnerabilità. La malattia è un dramma che si prova ma è anche un evento che mette alla prova e Cecilia aveva colto quell’occasione per dare un senso più profondo alla propria esistenza. Quella ragazza aveva superato, inoltre, decenni di vergogna, di silenzio, di presunte colpe, di lontananza, di estraneità parlando senza problemi di quanto aveva vissuto, provato. Ora sentivo l’animo grato e leggero: Cecilia, non so come, mi aveva restituito qualcosa perduto chissà in quale tempo.

Avvertivo di nuovo il sentimento vago, dolce, dello scorrere del tempo che, con leggerezza impalpabile, chiamiamo nostalgia.

Sono trascorsi quattro anni da quella caduta che raccolse il nostro

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primo incontro. Cecilia, iscritta al terzo anno di Giurisprudenza, si allena tre giorni la settimana nella città dei suoi studi.

Nelle sere di nebbia, a volte, dopo cena, mi ritrovo nuovamente a passeggiare avvolto da quel clima umido quanto protettivo e accogliente se incontrato dentro vie conosciute. Passeggio e mi capita di ripensare a un paziente oppure a un altro o a un terzo, alle loro storie private, alle storie nascoste dentro l’interiorità di ognuno di noi, alle nostre sicurezze e ai nostri dubbi. Mi pongo spesso domande destinate inevitabilmente a restare senza risposta soprattutto per chi, come noi oncologi, dovrebbe saper coniugare il benessere fisico e mentale dei nostri pazienti in un difficile equilibrio che perdura per molto tempo anche dopo una malattia risolta. Cammino in compagnia della mia vecchia Ginger, dei suoi occhi dolci che sanno parlare anche nel buio, del suo scodinzolare allegro, del suo fermarsi ad annusare la nebbia. Allora mi fermo, le parlo e lei sa rispondermi con quei grandi occhi dolci come a dirmi che, forse, quelle risposte non sono poi così determinanti e che per molti eventi la spiegazione è talmente ardua da considerare questa nostra professione davvero un’arte nobile che usa nel migliore dei modi quanto scienza e umanesimo le mettono a disposizione. E allora, dimenticando i quesiti, nella nebbia, percorriamo gli ultimi metri che ci separano dal giocherellare assonnato del fuoco nel grande camino di casa.

Mio cugino: più di un ricordo

Fabrizio Artioli*

Non dimenticherò mai il giorno del funerale di mio cugino Mario1. Il piccolo paese di montagna che accomunava le nostre due famiglie era strapieno di gente. Era la testimonianza per un uomo generoso, per una morte assurda, per la sua famiglia che, come in tutti i piccoli paesi di montagna, faceva parte della storia di ogni altra famiglia.

Entrammo io e mia moglie nella piccola sala da pranzo della sua casa, ci sedemmo intorno a un tavolo, al lato del quale stava l’anziano padre di Mario. Era di una lucidità disarmante, magro, con la piccola testa fra le mani e i suoi baffi bianchi che contribuivano a dargli una dignità che aveva sempre avuto in tutta la sua vita. Non l’avevo mai visto piangere e anche in quella occasione faceva di tutto per nascondere le lacrime che gli facevano luccicare gli occhi. Come si fa ancora nelle piccole comunità, le persone presenti lo consolavano, con parole che solo la gente di montagna sa tirare fuori nei momenti drammatici della vita, quasi che il corso naturale delle cose venisse a compimento fra quei monti che io e Mario conoscevamo a memoria.

Nonostante tutto questo mio zio non si dava pace; ovvio penserà ciascuno di noi, cosa ci può essere di peggio della morte di un figlio. No, non si dava pace perché si sentiva colpevole della morte di quel figlio tanto amato. Colpevole è una parola difficile da digerire di fronte a una morte; ma quando a sentirsi tale è il padre, non c’è consolazione che tenga. Io, medico, cercavo di alternare parole consolatorie a spiegazioni scientifiche, che i presenti volevano ascoltare, anche perché mi sembravano le uniche capaci, forse, di riportare un minimo di serenità nel cuore spezzato di quest’uomo, ma sentivo che ogni parola era inadeguata.

Era stato dirigente di una famosa fabbrica di una cittadina del Piemonte e, privilegio dei dirigenti, viveva in una casa all’interno del recinto della struttura, sulle cui finestre si depositava spesso un piccolo strato di “polvere bianca che sembrava neve”, che mia zia provvedeva a

1 Mario è un nome di fantasia. * Direttore U. O. Medicina Oncologica – Ospedali di Carpi e Mirandola – AUSL di Modena

50 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

togliere con cura. Andava orgoglioso di quel lavoro nell’Italia del boom economico. Continuava a ripeterci, come un mantra, intorno a quel tavolo di quella piccola stanza, che nessuno immaginava il disastro che l’amianto avrebbe portato in tante famiglie, battendo il pugno sul tavolo ci ripeteva che la direzione della fabbrica faceva venire ogni tanto “dei professori dalla Università di Torino”, che spiegavano agli operai che la polvere che respiravano era innocua, anzi “dilatava i bronchi”. Cosa ne sapeva lui? Cosa ne poteva sapere? Se solo avesse immaginato… Sembrava una storia sentita tante volte per televisione, con inchieste e denunce e quant’altro, ma questa televisione io ce l’avevo lì, in carne e ossa, davanti a me; quella storia, volente o nolente, in piccola parte apparteneva anche a me.

Ho chiaro e nitido nella mia mente quando, intorno ai 14 anni di età i miei genitori mi portarono a casa di Mario in Piemonte, ricordo il giro della fabbrica, noi ragazzi che correvamo fra lastre di amianto, il pranzo in questa casa arredata nel sobrio e dignitoso stile “piemontese”. Vi era orgoglio in quella gita, si vedeva una Italia che rinasceva, ricordo mio padre che non amava parlare della sua prigionia in Germania in tempo di guerra, raccontarla come una sfida al futuro, perché noi figli non provassimo mai più ciò che loro avevano vissuto. Mai, in quel momento di incontro fra parenti in un ottimismo palpabile, mi sarei immaginato di trovarmi un giorno in una piccola stanza di una casa di montagna a sentire mio zio darsi la colpa di una colpa che non aveva, a tenersi quella piccola testa fra le mani, a scoprire che i sogni di un Paese che fa crescere i suoi figli nella sicurezza e nella prosperità erano solo un’illusione.

Mario era l’invidia di noi tutti adolescenti, giocava nella giovanile di una grande squadra di Torino, ci raccontava di trasferte e tornei internazionali e noi, rimanevamo lì ad ascoltarlo con occhi sognanti. Passavamo le estati nel nostro piccolo paese di montagna e partecipavamo entrambi al torneo di calcio fra le varie squadre di paese, io in porta e lui con il numero 10. Era veloce come il vento (il suo tempo sui 100 m era sotto gli 11 sec.), quando aveva il pallone fra i piedi nessuno riusciva a toglierglielo e aveva una potenza di tiro che si impara solo giocando in grandi team; era l’orgoglio della nostra piccola, ma affiatata squadra.

Non so perché si iscrisse a Medicina, ma so perché fece il cardiologo, voleva seguire la Medicina dello Sport, prevenire nei sani le malattie e si dedicò con tanta passione al suo lavoro,che lo cercavano, per essere visitati, da tutta la montagna. Si impegnò nel volontariato per i malati di cuore e continuava a correre, correva ogni giorno come se volesse fermare il tempo a quegli 11 secondi della sua gioventù; diceva che dopo si sentiva meglio e poi “non posso parlare di prevenzione e non applicarla per primo”, mi ripeteva sempre.

Fu durante una corsa fra i sentieri di montagna che si accorse che il fiato faceva fatica ad arrivargli; pensò a un fatto virale, aspettò qualche settimana prima di fare una lastra, ma quando la fece, iniziò tutta una serie di esami: TAC, scintigrafie, biopsie, ma più che altro cambiò la sua

Il ricordo 51

vita, la sua e quella della sua famiglia. Quando i pneumologi gli comunicarono che aveva un mesotelioma

pleurico, mi dissero che rimase di sasso e fu solo allora che ripensò alla sua gioventù, a quei 18 anni trascorsi fra la polvere bianca “che dilatava i bronchi”, ai giorni sereni e felici delle partite di calcio, a un killer silenzioso che veniva a trovarlo dopo 30 anni; a un appuntamento scritto in una storia assurda, per lui, che aveva fatto della prevenzione una ragione di vita. Venni consultato dalla famiglia in qualità di oncologo. Lo andai a trovare in ospedale, era attaccato a un drenaggio pleurico che gli iniettava in infusione continua interferone. Mi sorrise, non era angosciato (o almeno non lo faceva apparire), lui un atleta, un passato da calciatore in grandi squadre, riusciva ancora a non provare la dispnea, il sintomo che gli avrebbe devastato gli ultimi mesi di vita.

Parlammo non di presente, ma di futuro, lui medico, voleva essere informato di tutto e gli promisi che mi sarei dato da fare. Contattai le Molinette, per sentirmi dire quello che già sapevo, nessun intervento chirurgico; contattai Siena dove si stava utilizzando una terapia sperimentale, e ogni parola in più che riuscivo a dire, o ogni farmaco che riuscivo a scovare nei meandri della ricerca, era una goccia di speranza per la sorella; mentre, ne sono certo, lui aveva già capito tutto e lasciava fare, e suo padre sembrava essere entrato in un mutismo, dove vi era spazio solo per l’affetto, la scienza non c’entrava, riguardava altri. Mi consegnarono tutta la documentazione, lastre comprese, e io guardavo questo plico di documenti, con attenzione, ne discutevo con colleghi, ma poi rimaneva tutto sul mio tavolo, dove è rimasto per sempre; nessuno ha più voluto nulla indietro e ora sono nella mia cantina, a testimonianza di una morte probabilmente evitabile, ma sicuramente di una vita spesa con generosità e coraggio, quanto coraggio.

Suo padre è sopravvissuto a Mario per 10 lunghi anni, lo vedevo camminare sempre più curvo nelle strade del paesino di montagna, fermandosi a parlare con la gente che incontrava, la comunità assorbe ogni dolore, attutisce le angosce ma, io penso, nessuno è riuscito ad attenuare quel “vuoto disperato” che si è portato dentro fino alla morte.

Quando lo vedevo da lontano camminare o leggere il giornale nella piazzetta del paese, non potevo fare a meno di pensare alle parole di Ungaretti “figlio, sconto vivendo, gli anni che ti usurpo”.

Ora, padre e figlio riposano in pace nel piccolo cimitero di montagna. Che strano, nella foto di Mario sulla lapide lo si vede con il fonendoscopio al collo, quasi un messaggio di speranza nella scienza che non ha saputo proteggerlo e salvarlo, ma in cui lui credeva fortemente, con umanità e passione. Ogni tanto intravvedo suo figlio correre fra i sentieri di montagna; sembra voler sfidare il destino, sembra avere preso in mano, in una ideale staffetta con suo padre, il testimone di una storia, che non dovrà più ripetersi; chissà se il suo Paese lo saprà difendere dalle tante “polveri bianche che sembrano neve”.

Il contributo. Lacrime silenziose, mano nella mano, lamento di agonia

M. D’Aprile*

Ero un giovane assistente dell’Istituto dei Tumori di Napoli e una notte d’estate, durante il giro in un reparto non mio, ho chiesto agli infermieri chi ci fosse da controllare. Mi dissero di andare in una stanza al centro del reparto: era completamente illuminata. Nel letto c’era un bambino di una decina di anni con i due genitori accanto, che stava morendo per un tumore cerebrale. Chiari i segni delle terapie: cicatrice temporoparietale, alopecia, pallore, facies cortisonica.

Le vetrate spalancate per il caldo afoso, il silenzio della città, il buio esterno.

Tre cose mi colpirono:aveva un respiro ritmico, intervallato da pause anomale, accompagnato

da un lamento, indescrivibile, che a me sembrava un estremo atto di protesta… lacrimava, ma a me sembrava che piangesse… aveva una mano sul lenzuolo libera dalla flebo, semiaperta, in attesa di qualcuno che la prendesse e la stringesse…

Sono rimasto, in assoluto silenzio, a un lato del letto, prendendo in mano la sua mano, mentre i genitori lo sostenevano, abbracciandolo.

Non ho avuto vergogna delle lacrime… Non ho potuto proseguire il giro, fino a quando non ha cessato…

* Consulente Aziendale Policlinico Campus Biomedico di Roma, già Direttore Struttura Complessa di Oncologia Medica Ospedale S. Maria Goretti di Latina

L’ascolto

Mario

Gianfranco Porcile*

Gianfranco entrò nella stanza di Mario: nella sua vita professionale di oncologo medico non lo aveva mai fatto, ma questa volta sì, era capitato, era entrato in confidenza con quel ventenne che aveva curato per anni e ora era in fase terminale. Il rapporto medico-paziente per metà era diventato una relazione di amicizia: il tu ne era il sintomo inequivocabile.

“Ciao Mario, ti hanno detto qualcosa i miei collaboratori?” “Nulla o quasi. Ma quando sei vicino all’arrivo c’è qualcosa dentro che

te lo dice, anzi tutto ti dice “Stai per arrivare, preparati!”. Lo sento da me”. Mario parlava lentamente, a fatica, ma era lucido.

“Mario, in queste situazioni non si sa mai cosa dire: ma forse è meglio stare in silenzio. Io ti voglio bene…”

“Non è mai troppo tardi, lo sai. Anche io ti voglio bene”. Improvvisamente un groppo di commozione fece inciampare il suo

discorso. Gianfranco cercò di cambiare argomento. “Come ti senti? Voglio dire,

cosa si prova in questi momenti? Paura? Preoccupazione? Rimpianto? Rimorsi? Forse sono domande che non hanno risposta”.

“Per metà sono abbastanza sereno, – rispose Mario – e per l’altra metà il timore, quasi il terrore di trovarsi davanti a una porta e non sapere assolutamente cosa si troverà dall’altra parte. Come sai io non sono credente e credo che dopo questa nostra vita ci sia il nulla, ma è anche vero che adesso sono sgomento: da una parte vorrei sapere cosa mi aspetta, dall’altra ho paura di varcare quella soglia buia e misteriosa…”

“Io credo che ci sia una vita dopo questa: mi serve pensarlo, mi sembra che dia un senso anche a questa nostra vita terrena. Credere in un Dio dà un significato all’esistenza dell’uomo. Comunque l’importante è aver vissuto bene e poter fare un bilancio abbastanza positivo di questo nostro viaggio verso l’ignoto. Penso che in questi frangenti sia meglio pensare ai momenti belli che la vita ci ha regalato”.

Mario fece di sì con la testa e parve risollevarsi ricordando qualcosa di piacevole del suo passato. Aveva un debole sorriso: sembrava grato al

* già Direttore di Struttura Complessa di Oncologia Medica Ospedali di Alba e Bra, Cuneo

56 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

medico-amico di quelle parole di serenità. Gianfranco doveva andare via e lo salutò con un abbraccio maschio,

vigoroso ma delicato per non far male a quell’organismo debilitato dalla malattia. Mario ricambiò a sua volta con un sommesso sorriso e le labbra parvero muoversi per pronunciare “Addio” ma nessun suono uscì.

Entrambi sapevano che non si sarebbero mai più visti.

La Monaca di Montagnana

Antonio Jirillo*, Giorgio Bonciarelli**

Tra i tanti episodi clinici che ci sono capitati durante gli anni di permanenza presso l’ospedale di Legnago, divisione radioterapia e servizio di oncologia, vogliamo raccontare il nostro incontro con la badessa del monastero di clausura delle Clarisse di Montagnana.

In questo contesto arrivò nel nostro reparto una suora di clausura dell’ordine delle Clarisse, dopo essere stata operata per un sarcoma ad una coscia, per essere sottoposta a un trattamento radiante complementare.

Noi, sinceramente, fummo incuriositi e attratti da questa figura di origine sarda, di forte carisma e di rilevante umanità nel contempo, e una cosa che ci fece specie furono le sue ginocchia divenute callose dal tanto pregare.

Capimmo immediatamente che la clausura, che a noi pareva anacronistica e fuori dal mondo, era in realtà una fucina di idee, di serenità d’animo ma anche di onestà e modernità di pensiero.

La madre badessa ogni giorno, durante la permanenza in ospedale per sottoporsi al trattamento radiante, ci sorprendeva con la sua attualità: ad esempio un giorno ci disse in modo ironico che quando entrò novizia in un convento toscano non poteva guardarsi allo specchio perché “dovevano fare mortificazione” e accompagnò questa frase con un dolce sorriso che sostituiva le cose non dette.

Un giorno, entrati in stanza, ci rivolgemmo alla sua vicina di letto dicendo: le infermiere ci hanno riferito che lei ha vomitato tanto, che “ha vomitato fin anche l’anima”. La monaca ci guardò e abbozzando un sorriso, ci disse: “miei cari dottori, se fosse così facile vomitare l’anima”! Noi, a questa frase, restammo totalmente in rispettoso silenzio.

Finita la radioterapia la suora ritornò in convento ma dopo qualche mese, rientrò in reparto per una recidiva di malattia a livello polmonare. Iniziammo allora dei cicli di chemioterapia con lo schema CYVADIC (magari i giovani colleghi nemmeno lo conoscono), i risultati

* già Direttore Struttura Dipartimentale di Oncologia, IOV, Padova** Direttore Dipartimento di Oncologia Medica, Azienda ULSS 17, Ospedale Madre Teresa di Calcutta, Monselice (PD)

58 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

furono modesti e dopo qualche mese la malattia andò ulteriormente in progressione. La monaca ci sbalordì ancora chiedendoci espressamente, dopo aver saputo l’esito della rivalutazione, se c’erano possibilità di ulteriori cure valide; rispondemmo... “si potrebbe provare con...” Allora, guardandoci negli occhi in modo diretto ma buono, disse serenamente: “non eseguite nessun accanimento terapeutico e lasciatemi rientrare nel mio amato convento dove rimarrò in attesa di congiungermi a Gesù da me tanto amato in vita”. Che modernità in queste parole: stiamo parlando di oltre 35 anni fa e a quel tempo appena si iniziava a parlare di questi argomenti. Forse questa frase così solenne, ha influito positivamente su di noi e sul modo di proporre le terapie oncologiche nella fase irreversibile della malattia. Abbiamo sempre rifiutato e magari combattuto le troppe chemioterapie elargite talora con disinvoltura a poche settimane dall’evento conclusivo, e ciò forse è dovuto alla madre badessa del Monastero di Montagnana.

Imparare dallo stupore

Monica Seminara*

Raccontare dei nostri pazienti è anche raccontare un po’ di noi, operatori sanitari in Oncologia, professionisti “di soglia”.

E quando la parola gira, muovendosi spazia, costruisce mondi e traccia i percorsi della storia, umana e professionale, di chi, in un dato tempo e in un certo contesto particolare, cammina insieme, durante un delicato tratto di percorso, nel viaggio della vita.

Ho conosciuto il sorriso di V. durante il suo ricovero presso il reparto di Oncologia, sottoposto a trattamento chemioterapico per la cura del sarcoma che lo aveva colpito alla coscia. Aveva 21 anni.

“Dottoressa, speriamo bene! Sa, non è facile avere una malattia come questa… e poi alla mia età! Visto che c’è dobbiamo gestirla… ma la cosa che ora più mi preoccupa è la malattia di papà… e sono in pena per la mamma, non so come farà a sopportare tutto questo?!...”

Proprio così: padre e figlio malati contemporaneamente, di un tumore polmonare e di un sarcoma, entrambi molto aggressivi.

Il dipanarsi della narrazione ha messo immediatamente in evidenza la necessità di costruire strategie di protezione multiple e multidimensionali, perché diversificati si sono evidenziati i soggetti fragili da sostenere: V. e la sua giovane età, le sue giovani speranze di juventino pieno di entusiasmo per la vita, suo fratello M. più grande di lui di sei anni, in preda all’ansia poi sfociata in panico per l’evidenza traumatica dei fatti accaduti in poco tempo in famiglia, R. la loro mamma e A. il loro papà.

La narrazione di V. prosegue, tracciando, col suo racconto, i dettagli della preziosissima mappa che ci avrebbe guidato nel nostro cammino di accompagnamento e di cura.

Narra del suo papà, A., che è immigrato per lavoro in Argentina in giovane età e che in quel Paese ha conosciuto R., la sua mamma. Si sono trasferiti in Italia, si sono sposati e hanno avuto due figli. Ascoltando le parole di V. mi faccio l’idea di una famiglia sorridente alla vita, fatta di legami solidi e affettivamente ben strutturati. Una vita semplice e dignitosa, guidata da valori forti e sguardo altruistico. Molto uniti: tutti * Psiconcologa – GITR/Progetto Protezione Famiglia – S.C. Oncologia Medica Ospedale Gradenigo – Torino. Direttore dott. Alessandro Comandone

60 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

per uno, uno per tutti. Una famiglia felice, fino all’arrivo dell’evento inatteso, la malattia. Molto aggressiva e severa, per ben due dei suoi membri. “In due è troppo, dottoressa…! Come si fa?”.

Quattro persone, quattro punti di vista, mondi vissuti, raccontati, accolti, incontrati e sostenuti.

L’ascolto delle loro voci narranti, alla luce di sguardi carichi di richiesta di aiuto, ha tracciato la trama di una storia davvero particolare.

Il figlio preoccupato per il padre e per la sua famiglia tutta. Il padre affranto per il figlio e per il peso della sua impotenza, indotta dalla malattia, ricaduta sull’intera famiglia.

Il giovane M. era terrorizzato tanto da non poterne parlare. Per lui è stato avviato un percorso psicologico di supporto volto a favorire accettazione e adattamento.

Ne racconto di R. non c’era soltanto il dolore per la doppia sciagura. Lei sapeva anche dire che la malattia che accomunava i suoi cari era anche da guardare positivamente: rappresentava un modo condiviso, per suo figlio e suo marito, di portare in comunione un’esperienza difficile, per non essere completamente soli dentro una salita così ripida e scura. “Siamo divisi a metà, due sono più fragili e due sono più forti per aiutarli; possiamo farcela”, diceva.

Raccoglievo il suo pensiero con un certo innegabile stupore… riflessioni di una certa rarità, le sue. La comunione dell’esperienza dolorosa come strumento di condivisione e di sostegno vicendevole e reciproco: a conferma che non è tanto ciò che succede nella vita, ma come lo si guarda, a fare la differenza. La percezione soggettiva delle cose è certamente alla base della strategia di coping messa in atto per fronteggiarle.

Una donna semplice R, molto concreta, emotiva al punto giusto, con ottimi strumenti di elaborazione. Non dimostrava un particolare bisogno di conforto.

Ascoltarla serviva in realtà più a noi, anche per disporre del quadro informativo ed emozionale complessivo, utile per poter essere di aiuto a chi invece in ambito familiare, M. soprattutto, dimostrava di avere decisamente bisogno di supporto. I colloqui, in ogni caso, sembravano aiutare anche R. a consolidare il suo percorso, facilitandola a proseguire il suo cammino, indubbiamente faticoso.

E serviva a noi anche per imparare che, una sorte così avversa poteva anche non essere vissuta come una tragedia ma affrontata con forza, sorriso e dignità sorprendenti.

Sempre più si infittiva la trama di una storia sempre più difficile ma, allo stesso tempo, ancora più speciale.

La malattia ha imposto, inesorabile, un avvio di sorti congiunte anche nella fase dell’aggravamento delle condizioni cliniche di V. e di quelle del suo papà.

Ricoverati per l’ultimo trattamento chemioterapico, in reparto, nello

L'ascolto 61

stesso periodo, lottavano entrambi con forza encomiabile, sostenuti dagli affetti e dalla loro voglia di vivere; uniti contro una malattia che avanzava imperturbabile e imperante.

L’ascolto delle loro narrazioni, discrete ma puntuali, ci ha indicato, ad un certo punto, una nuova via da seguire. Anche noi, nei nostri diversi ruoli professionali, benché sempre lucidi e attenti sui percorsi da continuare a costruire, non eravamo esenti talvolta colti dall’imbarazzo sulle domande di senso… in certi momenti…. era troppo anche per noi.

Narrare e narrarci, ci aiutava a gestire la nostra fatica emotiva, quella derivante dall’essere testimoni e protagonisti attivi di una storia che andava via via rivelando il suo, purtroppo atteso, difficile e delicato, epilogo. Dovevamo prepararci per preparare. Sostenerci per sostenere. Di tappa in tappa, tutti a supporto di tutti. La malattia stava andando male, per entrambi.

Durante la chemioterapia padre e figlio hanno occupato la stessa stanza, uniti nella lotta e nella sofferenza. Veniva impostato quindi, a fronte di nuove necessità terapeutiche di controllo di particolari sintomi, un tratto di percorso in regime di assistenza domiciliare, per permettere a R. caregiver di figlio e marito, di assisterli insieme, a casa, in famiglia.

E infine, il ritorno in reparto, per la protezione di tutti e l’avvio alla gestione della terminalità, anch’essa iniziata e vissuta insieme.

M. non accettava, rifiutava con rabbia l’impietoso progredire degli eventi.

R. sapeva, era preparata. Sempre presente, silenziosa e discreta. Riusciva a sorriderci nonostante il suo dolore fosse totalizzante per l’incombenza e per l’intuibile complessità della situazione.

È morto prima V., mentre il suo papà era anch’esso ricoverato. Informato della perdita del figlio dalla moglie, A. ha chiesto di essere

accompagnato, ormai sfinito dalla malattia, in carrozzina, presso la camera ardente, a salutare per l’ultima volta il suo giovane figliolo.

Davanti alla bara del figlio, A. ha emesso un urlo istintuale, forte, immenso, partito dal profondo del suo animo e dei suoi visceri. Un urlo potentemente narrante, nel silenzio sordo della fine. Pieno di dolore, di impotenza, di disperazione profonda.

L’inferenza silenziosa si è fatta strada, nell’intimità dei pensieri di ciascuno di noi testimoni; lo squarcio del dolore puro ha preso un posto imperativo nei nostri cuori, raccolti intorno a una famiglia così provata dalla morte. Un attimo che sarà impossibile dimenticare.

Una settimana dopo, la morte ha chiamato anche lui. R. un mese dopo è venuta a salutarci, a ringraziarci e a… raccontarci.

È venuta a dirci come stavano loro “che erano rimasti”, dentro il grande vuoto del lutto.

Un vuoto innegabile, che sapeva parlare sorprendentemente anche di pensieri pieni, orientati verso l’elaborazione, dolorosa ma efficacemente in atto. Una grande lezione di vita per noi tutti.

62 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

Noi operatori, per la verità, eravamo timorosi di vedere confermata la nostra aspettativa, quella dello stereotipo della madre inconsolabile… (e ne avrebbe avuto tutto il diritto!).

E invece no. Forse per le sue doti psicologiche precedentemente citate, o per l’impronta culturale del suo paese d’origine, forse per la sua fede forte e salda, o per il sostegno ricevuto durante il percorso di cura e per la sua preparazione alla perdita, avvenuta e sostenuta in modo graduale, chissà.

Non importa la ragione, ciò che conta è stato il risultato. Un lutto narrabile, una vita che poteva continuare, nonostante la

dolorosissima esperienza vissuta. Ha saputo ringraziare Dio per averle donato una splendida famiglia,

anche se per un tempo breve. Ci ha detto di pensarli insieme lassù, confortata dall’idea che possano occuparsi l’uno dell’altro.

Ci ha raccontato, con serena rassegnazione, di aver accettato una volontà più alta e più grande.

Ci ha detto profondamente della sua gratitudine, per averli accompagnati tutti e per averli sostenuti, in modo attento e diverso per ciascuno, camminando loro accanto.

La loro narrazione ci ha reso diversi e migliori.

Ambra

Luciano Isa*

Conobbi Ambra parecchi anni fa. Assisteva in ospedale, alternandosi con le sue sorelle, sua madre, affetta da un carcinoma mammario plurimetastatico, destinata a soccombervi dopo poco tempo, ma al quale ella faceva fronte con una dignità esemplare. Ambra, donna bellissima, piena d’iniziativa e con un raro talento per la comunicazione, dovette confrontarsi una seconda volta con una realtà familiare impegnativa a causa della nascita di una bimba con handicap grave e infine, nel 1982, ella stessa dovette fare i conti con la malattia per l’insorgenza di un carcinoma mammario capitato nel pieno sviluppo della sua attività professionale. Le prime cure comprendenti l’asportazione del seno ammalato e il passare degli anni. I controlli scrupolosi, secondo i dettami dei medici che si occuparono di lei, e la speranza che la malattia fosse stata definitivamente debellata ma, dopo 15 anni, eccola ripresentarsi: difficoltà nel respiro, alterazioni della voce, astenia. La sua voce, strumento fondamentale per il suo lavoro, Ambra gestiva una società che si occupava di pubbliche relazioni e selezioni del personale, irrimediabilmente compromessa.

Cosa caratterizza questa storia, non comune, ma neanche rarissima tra le pazienti che sfortunatamente sperimentano un carcinoma del seno in giovane età? Ambra sta ancora combattendo la sua malattia dopo 27 anni! Lentamente il tumore ha compromesso numerosi organi ed apparati, vi sono stati tentativi infruttuosi di protesi tracheali poi di una tracheotomia, la nutrizione si è resa alquanto problematica, la radioterapia è stata erogata su diversi segmenti scheletrici, le chemioterapie e le terapie ormonali si sono succedute negli anni con alternanza tra momenti di speranza, per le risposte ai trattamenti, e di delusione, per la ripresa della malattia. La tossicità di alcuni trattamenti talvolta è stata così consistente da annullare la qualità della vita che Ambra si sforzava di mantenere. Più volte i curanti si sono interrogati se astenersi dalle cure antitumorali ma, ogni volta, il desiderio di Ambra di combattere comunque la malattia ha fatto mutare la strategia di cura dando ragione, seppur per brevi periodi, ad Ambra. La somma di questi brevi periodi ha condotto alla durata più * già Direttore Struttura Complessa Oncologia AO Melegnano, PO Gorgonzola, Milano

64 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

sopra riportata, 27 anni!La personalità di Ambra, la sua determinazione lucida, fondata su

una completa conoscenza della malattia, ha dato un esempio all’èquipe di cura di come sia possibile convivere con la malattia senza cadere nell’abisso della depressione o meglio di come sia possibile riemergere da quell’abisso in cui frequentemente si precipita alla notizia delle tante riprese di malattia. Il suo caso clinico e umano, che la porterà a conoscere un’altra malattia, il mieloma multiplo, responsabile della morte di una sua giovane sorella, è stato molte volte oggetto di discussione tra il personale medico e infermieristico nel corso degli anni e ha contribuito a rendere vivo e concreto il concetto di alleanza terapeutica indissolubilmente legata, prima di tutto, alla conoscenza e ricchezza dei rapporti umani con il paziente. Ambra vive ancora, è attualmente in uno stato che gli oncologici definiscono ECOG-4 che corrisponde a un paziente che ha perso la sua abilità di provvedere a se stesso e che è confinato a letto o in poltrona. Ambra ancora ci insegnerà qualcosa, come fa pensare l’e-mail che ho appena ricevuto: “Buongiorno dottore. So di essere una paziente problematica e La disturbo spesso, ma devo informarLa che da una decina di giorni...”

Il valore della preghiera

Alberto Scanni*

Si sottoponeva ai controlli con grande docilità, mai una parola di troppo, mai atteggiamenti di impazienza anche se a volte le attese in day hospital erano lunghe. Quando gli veniva proposto qualche esame impegnativo e anche cruento, non un atteggiamento di diniego, sempre disponibile a mettersi nelle mani di chi lo curava. Nel trambusto di un reparto di Oncologia a volte capitava di non essere sempre visti dallo stesso medico, ma lui niente, accettava tutto. Lo conoscevo da tempo, ero stato il primo a vederlo e a prenderlo in cura quando delle brutte ghiandole lo avevano fatto preoccupare e un nipote medico me lo aveva indirizzato per gli accertamenti. Era diventato di casa, l’èquipe l’aveva conosciuta tutta e aveva capito che tutti lavoravano all’unisono e se non lo vedevo sempre io, si fidava ugualmente di chi in quel momento lo visitava.

La diagnosi era stata di linfoma, la forma era avanzata ed era stato necessario un programma di chemioterapia che aveva in corso.

Di lui colpiva la dolcezza e la gentilezza dei modi. Lui una persona famosa, grande scrittore e drammaturgo non pretendeva niente, faceva il paziente in tutto e per tutto. Quello che lasciava incantato l’interlocutore, erano i suoi occhi azzurri, profondi e penetranti, velati di malinconia. La parlata era lenta e raschiante; parlava poco ma i silenzi e gli sguardi comunicavano molto di più delle parole. Era un convertito, alla conversione era approdato dopo turbamenti interiori e grandi sofferenze morali.

Era nato tra noi un rapporto profondo, sincero; quel malato, così riservato e taciturno, durante la visita, riusciva ad aprirsi, a parlare della sua attività,del suo stato e del senso della vita, però poche domande sulla prognosi o dettagli sulla sua malattia. Pareva averla accettata con grande semplicità, quasi rappresentasse un percorso obbligato e precostituito.

I giorni passavano, e anche se la malattia sembrava trarre qualche giovamento dalle cure, spesso i dolori lombari, dovuti alla malattia, lo disturbavano pesantemente. Era stata impostata sì una terapia * già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica A. O. Fatebenefratelli e Oftalmico, Milano

66 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

antidolorifica, ma non pareva dare grandi vantaggi, al punto che qualcuno aveva avuto il sospetto che non assumesse i farmaci con regolarità.

Quella mattina era arrivato in reparto con anticipo, il viso era teso, sofferente, aveva chiesto di me e voleva parlarmi. Mentre attendeva in quella sala d’aspetto un po’ angusta e spoglia, incrociava gli sguardi degli altri, di chi era in attesa come lui di una visita, o di un esame, di chi stava aspettando un responso che ti poteva cambiare la vita. I malati di tumore hanno paura di tutto, quando aspettano cercano di esorcizzare l’angoscia come possono, questo non era il suo caso, parlano col vicino, leggono, cercano di pensare ad altro, sempre con dentro il tarlo di cosa sarà di loro quando una risposta, un referto, un esame potrà dire se dovranno continuare a vivere o dovranno morire. Lui queste sensazioni le conosceva bene, le aveva provate, conosceva angoscia e smarrimento di fronte all’imponderabile: drammi che aveva avuto anche modo di trattare nelle sue opere. Una di queste “Dialogo con la morte” aveva avuto grandi attenzioni dalla critica.

“Come mai qui?” chiesi quando lo vidi. Lo trattavo con confidenza, non per mancanza di rispetto verso un grande della cultura, ma perché la frequentazione aveva sburocratizzato i nostri rapporti. Lui continuava a chiamarmi professore in modo quasi amicale.

“Non va bene, secondo me sto peggiorando, ho avuto dolori tutta la notte. Mi dia qualcosa. Forse sono agli sgoccioli”. “Perché è così pessimista? Vedrà che ci mettiamo ancora una pezza” replicai. “Caro professore” soggiunse “voi pensate che i malati non capiscano quando si è a fine corsa. Cercate di consolarli, a volte mentendo, a volte sorvolando sul reale stato delle cose, ma noi che ci siamo dentro, ci rendiamo conto di come andrà a finire. A un certo punto la speranza di farcela si affievolisce e guardare la situazione con realismo è la cosa migliore. Bisogna sforzarsi di accettare con docilità anche questi momenti difficili; nella vita tutto ha un senso anche il dolore, soprattutto per chi, come me, è credente”.

Io lo ascoltavo. Di questa visone della vita ne avevamo parlato in più occasioni, ma ogni volta che mi faceva discorsi sul trascendente, sul dolore umano, sulla speranza cristiana, sull’accettare tutto, avevo qualche difficoltà. Mi occupavo di tumori da un secolo e di malati gravi ne avevo visti tanti, a tutti avevo riservato attenzione, avevo cercato di mostrare comprensione, ma forse ci avevo fatto un po’ il “callo”. Invece, ogni volta che mi incontravo con quell’uomo, la sua fede granitica, l’accettazione della sofferenza, la serenità verso il suo tragico destino, mi buttavano per aria, quasi che quelle riflessioni, quelle argomentazioni avessero la capacità di insinuarmi dubbi, mettendomi in crisi su problemi ai quali non ero ancora riuscito a dare una risposta. Lo guardavo e pensavo a come mi sarei comportato al suo posto. Avrei accettato? Avrei imprecato? Chissà! Cosa avrei fatto? Mi sarei disperato? A cosa mi sarei aggrappato? Forse avrei anticipato la fine, forse, forse, forse…

”Veniamo a noi” soggiunsi troncando di botto quei “pensieri” e

L'ascolto 67

recuperando il “pallino della situazione”. Ha preso gli antidolorifici che le avevamo prescritto?”. “Sì ma mi

hanno fatto poco” rispose, “i dolori sono andati avanti per ore, ho cercato di sopportarli. Poi mi sono messo a pregare e questo mi ha fatto bene”. “Bene in che senso?” domandai. “Nel senso che mi sembrava di stare meglio” replicò.

“Come può una preghiera far stare meglio?” pensai. Rafforzai la terapia antidolorifica, dissi qualche parola di circostanza e

mi accomiatai rapidamente, quasi volessi sfuggire da una situazione che mi costringeva a “pensare”.

Dopo poco tempo quel paziente morì. A distanza di qualche mese, una importante rivista scientifica pubblicò

un lavoro sulla utilità della preghiera in pazienti affetti da gravi patologie. Il lavoro era ben fatto e statisticamente corretto. Lo lessi con attenzione e ripensai a quel paziente. Il metodo scientifico era stato utilizzato per analizzare una cosa poco scientifica come la preghiera!

Andai alla finestra, tirai un lungo sospiro, guardai il cielo, il sole stava tramontando.

Mi misi a pensare.

Sciagurata

Guido Tuveri*

C’era una certa animazione, quella mattina di inizio autunno, in una delle camerette singole del nostro reparto destinate ad accogliere le persone in isolamento per fare radioterapia. Mi avvicino, con discrezione; in quegli ambienti, dopotutto, non sono “il padrone di casa”. Nel piccolo corridoio, davanti alla porta della cameretta, due persone sulla sessantina, marito e moglie, si guardano attorno con aria angosciata; gli infermieri, più silenziosi del solito, un silenzio che sa di preoccupazione e non solo di quella, vanno avanti e indietro.

Mi presento alla coppia, mi spiegano che là dentro c’è la loro figlia, 28 anni a Novembre; ha partorito una settimana prima e durante il parto ha espulso, oltre a un bellissimo bimbo perfettamente sano, un pezzettino di tessuto; no, non era placenta, purtroppo; mandato a esaminare, si è rivelato un frammento di tumore del retto; sanguinava da Aprile, “saranno emorroidi”, aveva detto sorridente il suo ginecologo, una cosa perfettamente normale.

La gioia della maternità è stata sepolta immediatamente dalla incredulità e dall’angoscia; visite mediche, consultazioni, conferme, terrore. E adesso?

Adesso, si inizia il percorso: la cura, la speranza, il panico per gli effetti collaterali, la radio, la chemio, mamma mia; “ma soprattutto”, concludono i genitori prima che io entri nella cameretta, “non deve sapere nulla”.

E così, cercando di assumere un’aria neutra, entro. Sul cuscino, una testa bionda con due occhi azzurri incredibili; è

carina, sorride triste ma ha l’aria battagliera. “Qualunque cosa sia, devo guarire, il mio bimbo mi aspetta”. “Cosa ho? Che si fa? Come funziona? Quando posso andare a casa?”

Inizia così, il viaggio di questa ragazza. Inizio spiegandole, con tutta la delicatezza del mondo, che ha un

tumore; che il tumore è piccolo, che la terapia combinata lo renderà ancora più piccolo e che poi si potrà operare, salvando l’intestino; che da questi tumori si guarisce, costa solo il sacrificio di vivere, per un * già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica, Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Trieste

L'ascolto 69

certo tempo, in un ambiente “ostile” anziché nella propria bella casetta, circondati da gente indaffarata e da gente preoccupata, da compagni di viaggio con le loro ansie, da medici e infermieri, e da pazienti con le loro paure; ma bisogna essere forti, determinati, fiduciosi, ostinati, e per chi ha la fortuna di averla, avere “fede”.

Certo, i genitori non sono affatto contenti, ma comunicare era indispensabile; trasmettere, non solo informazioni, ma anche fiducia, forza d’animo, coraggio.

Passano questi primi mesi, la malattia sembra scomparsa, gli esami radiologici non mostrano più niente, si va all’intervento, con un certo ottimismo.

E infatti, è del tutto inattesa la doccia fredda che arriva per telefono: “Ho asportato e ricostruito”, dice il chirurgo, “e l’esame istologico estemporaneo è negativo; ma tutta la parte è avvolta da un tessuto fibroso, brutto da vedere; io sono sicuro, a dispetto degli esami istologici, che la malattia ci sia ancora”.

Merda. E ora, che si fa? Come si fa a non “considerare” le parole del chirurgo?

Chi glielo dice, che bisogna fare ancora della terapia?Ma la ragazza è forte, sono già sei mesi che combatte, fra una cosa e

l’altra; il bimbo cresce bene, con lui recupera la serenità che la malattia le ha tolto; e così accetta e si riparte.

Come Dio vuole, passano anche questi altri tre mesetti; i nuovi esami radiologici sono a posto, tutto sembra a posto, tutto è a posto, tutto deve essere a posto!

Il seguito, è un classico; i controlli perdono quella componente di preoccupazione e di fastidio, diventano più rari, più allegri, quasi amichevoli; la ribattezzo “sciagurata”, perché “mi hai fatto prendere una delle paure più grandi della mia vita; non provare a rifarlo…”

Quindici anni dopo, quando la comunicazione è finalmente una realtà, assieme alla consapevolezza che ammalati, famiglie e personale sono per davvero compagni di viaggio, organizziamo uno dei tanti convegni su questi tempi, assieme ai pazienti; “sciagurata” non poteva mancare, è sul palco per parlare; sempre bella, la sfiora solo un’ombra di preoccupazione per dover parlare in pubblico e raccontare la sua esperienza.

“Buongiorno a tutti. Io sono una di quelle persone che non sapevano. Ho fatto la terapia, senza che mi sia stato detto di avere un tumore…”

Ascolto un po’ incredulo, qualcuno mi osserva ma io non muovo un muscolo; ascolto, e basta.

Mi basta che sia qua, viva, sana, felice, in perfetta forma; ha rimosso tutto, ma è la sua vita e la deve vivere come meglio crede. Io sto bene, forse un poco perplesso, ma in fondo manca solo un anno alla pensione, andiamo avanti, coraggio.

La Storia di Ester

Fabrizio Artioli*

Era la vigilia di Natale del 2003, in un inverno particolarmente freddo. Ester stava preparando i regali per la festa del giorno dopo, per il marito e i familiari. Aveva 29 anni, la vita era una promessa e un progetto pieno di speranze, dopo tutte le difficoltà che aveva incontrato.

Si sarebbero ritrovati tutti insieme per la veglia di Natale e lei era sotto la doccia che si stava preparando. Nel lavarsi avverte una “pallina” sotto l’ascella destra, non le faceva male, ma era dura, e riusciva a farla scorrere sotto le sue dita affusolate. Non capiva bene se preoccuparsi o no, poi si disse che era impossibile che proprio alla vigilia di Natale dovesse avere qualcosa di serio, no non ci stava con i tanti progetti che aveva in mente.

Si vestì e, insieme al marito, andarono a cena, era spensierata, solo in alcuni momenti quella “pallina” emergeva nelle sue fantasie, ma ci avrebbe pensato dopo Natale.

Il primo medico che la vide, la tranquillizzò, ma nello stesso tempo le fece fare tutti gli esami necessari, fra cui la biopsia. Intanto era arrivato Gennaio e con l’anno nuovo, la notizia che lei più di tutte desiderava, il test di gravidanza mostrava che era incinta. I sogni si avveravano, cosa poteva influire una “pallina” in una ascella, su ciò che il destino le stava preparando. Il destino, non era che l’inizio. L’esito della biopsia fu di “metastasi linfonodale di carcinoma di possibile origine mammaria”.

Ester venne inviata in Oncologia, dove la incontrai in un freddo pomeriggio di fine Gennaio. Più che spaventata, era confusa, non capiva cosa le stesse succedendo, lei doveva pensare al suo bambino, cosa ci faceva in un reparto dove si curano i tumori?

Fu un lungo colloquio e una altrettanto lunga visita, vennero fatti ulteriori accertamenti, compatibili con il suo stato di gravidanza, ma al seno non si trovò nulla.

Fu quando incontrò la caposala, che incominciò a piangere e, come racconta lei, da allora non ha più smesso. Andò ad altri consulti, e tutti quelli che incontrava le consigliavano di abortire perché nel primo

* Direttore U. O. Medicina Oncologica Ospedali di Carpi e Mirandola (MO) – AUSL di Modena

L'ascolto 71

trimestre di gravidanza, non si poteva fare pressoché nulla e lei non ce l’avrebbe fatta ad aspettare, anche perché nel frattempo, nell’ascella si sentivano due nuovi linfonodi.

La sera del 18 Marzo di quell’anno, non la dimenticherò mai, mi trovavo in Germania per un congresso, faceva freddo, ma il tramonto che si vedeva dalla stanza di albergo era splendido e restai diverso tempo ad ammirarlo, nell’attesa di andare a cena. Squillò il cellulare, era Ester, piangeva, anzi singhiozzava, non riusciva nemmeno a parlare, dovetti dirle più volte di calmarsi e incominciai a farle un mucchio di domande e piano piano, il pianto si trasformò in un fiume di parole, inarrestabile; la telefonata, anzi le telefonate, durarono più di 2 ore. Vi era in quelle parole un senso di “fine”, qualcosa veniva “troncato per sempre” e il futuro era tutto un’incognita, ma più che altro vi era una totale indecisione, il lasciarsi abbandonare, come se volesse ritrovare la mamma, che aveva perso in giovane età per un tumore al seno, e farsi cullare da lei; non c’erano parole che la potessero aiutare, solo l’ascolto poteva raggiungere il suo cuore, l’ascolto di una persona a 2000 km di distanza.

Poche volte ho provato nella mia vita una sensazione così, non potevo decidere per lei, anche se avrei voluto, le potevo solo essere vicino e volerle bene, qualsiasi fosse la decisione che avrebbe preso. La mattina del 19 Marzo, accompagnata dal marito entrò in ginecologia per l’aborto. Il destino si era spezzato, anzi non esisteva più, forse non era mai esistito.

Dopo l’aborto gli esami divennero più approfonditi: TAC, CT-PET, mammografie, dopo poche settimane venne sottoposta all’intervento chirurgico di svuotamento del cavo ascellare, in cui altri linfonodi metastatici erano presenti.

Seguì la chemioterapia, quella che fa perdere i capelli, poi la radioterapia sull’ascella e sulla mammella dx, poi la sequela dei controlli, mentre la vita riprendeva il suo corso e lei riaffiorava da quella “brutta storia”.

Il fatto di scoprire che era portatrice della mutazione BRCA-1, non la sconvolse più di tanto, sembrava che lei lo sapesse già e comunque il suo prezzo di dolore lo aveva già pagato.

Fu nel 2008 che rincontrò nuovamente “la brutta storia”, comparve un nodulo alla mammella dx, era un carcinoma dello tesso tipo delle metastasi linfonodali asportate, un “triplo negativo”. La vita si spezzava nuovamente, ma lei non era più la stessa di 5 anni prima, il dolore l’aveva rinforzata, avvertiva la sua fragilità, ma nello stesso tempo era determinata sul da farsi: si sottopose a un intervento di mastectomia bilaterale + protesi a cui seguì una nuova chemioterapia.

Nel 2011 entrò nel mio studio sorridente, come sapeva essere lei nei momenti in cui si riapriva alla vita, era di nuovo incinta, era contenta, ma non si lasciava andare alla felicità di cui sentiva di avere bisogno, troppe le delusioni che il destino le aveva riservato; all’ottava settimana ebbe un aborto spontaneo, è stato un bene non lasciarsi andare, ora soffriva

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meno. Continuano i controlli, la rassicuro, ormai sono passati tanti anni e può

considerarsi guarita, lei mi chiede un incontro, ha preso una decisione, non aveva dubbi, non voleva più conoscere la paura, si sarebbe sottoposta ad un intervento di istero annessiectomia profilattica, ne avevamo parlato tante volte, lei ormai da un anno era in menopausa, era giunto il momento per farlo. Ma il destino aveva deciso diversamente per lei.

Ancora una volta di sera, improvvisamente, viene colta da un pianto a dirotto, la mattina dopo me la trovo davanti al mio studio e mi dice che ha annullato l’intervento chirurgico, ci ha pensato tutta notte, ne ha parlato con il marito e ha deciso di recarsi in Spagna per una fecondazione eterologa. Rimango spiazzato, anche se ormai conosco bene Ester, pensa e pondera bene ciò che fa, ascolta i consigli, fa un mucchio di domande, ma poi è il cuore che la guida nei momenti difficili.

Non ci sono studi sulla fecondazione eterologa in chi avuto una storia come la sua, cerchiamo ogni più piccola notizia in letteratura, ma troviamo ben poco, probabilmente ha ragione lei, si può provare, le probabilità sono basse che lei possa restare incinta, ma forse anche i rischi sono bassi, se pensiamo alle esperienze più numerose fatte con la fecondazione autologa.

Le prometto che la seguirò passo dopo passo con controlli molto ravvicinati.

Torna dalla Spagna, è il momento dell’attesa. Ester è cambiata da quel pomeriggio del 2003 quando la conobbi,

non si fa illusioni, prende la vita con quello che le può offrire, è meno ingenua, e questo è un peccato, ma sicuramente è più forte, e questo è un bene. Gli esami sono inequivocabili: è incinta. Ha paura, e se fosse come nel 2011? Se lo perdesse? Questa volta il suo cuore non lo sopporterebbe.

Ora è alla 24° settimana, è un maschio, ha visto l’eco e il suo cuore battere, questa mattina ha voluto che le mettessi una mano sulla pancia, per sentire la vita che portava dentro. È felice. Sì, Ester è felice, il destino esiste.

L’accompagnamento

Voglia di vivere

Samuela Binato*

Rimasi sorpresa quando venne in ambulatorio Fabio, un bel ragazzo di 29 anni, alto, fisico atletico e apparentemente in completo benessere. Dalla documentazione della Pneumologia risultava portatore di un adenocarcinoma polmonare ALK+, EGFR non mutato, non operabile, con multiple formazioni nodulari polmonari bilaterali.

Fabio, impaurito, mi riferiva di lavorare come perito tecnico in un’industria chimica. Viveva con una compagna che aspettava un figlio al nono mese di gravidanza. Cercai di superare il mio sconforto spiegandogli le possibilità terapeutiche, arricchite recentemente da nuovi farmaci target adatti al profilo molecolare del suo tumore. Gli dissi che il tumore non era guaribile, ma si poteva fermarne l’evoluzione per qualche anno. A questo punto il paziente chiese, comprensibilmente, di poter iniziare i trattamenti chemioterapici dopo la nascita della figlia. Espresse inoltre di desiderio di poter crio-preservare il seme perché era a conoscenza del fatto che la chemioterapia avrebbe potuto indurre sterilità. Rimasi sorpresa da questa richiesta, comune nei giovani pazienti con tumori curabili, ma spiazzante in una situazione di quel tipo. In quel momento, come medico, avrei dovuto meglio spiegare la prognosi perché tale domanda metteva in luce una scarsa consapevolezza della malattia, ma umanamente come potevo infierire e parlare di prognosi infausta in quella circostanza così difficile? Una diagnosi di quel tipo avveniva proprio a ridosso di un momento così bello per l’essere umano: quello di diventare padre, e forse proprio l’aspettativa imminente della nascita di un figlio poneva nel paziente una visione diversa del “tempo” della vita che io non potevo alterare. In quella situazione ho pensato che sarebbe stato meglio entrare in sintonia con il paziente, senza menzogne, ma complice di un percorso che sarebbe stato duro e ricco di sorprese per una malattia aggressiva e priva di speranze a lungo termine. Lo riferii al Centro di Criopresevazione dei Gameti.

Mi rendevo conto che le sue priorità erano diverse dalle mie come * Dirigente Medico di Oncologia, UOC Oncologia, ULSS5 Ovest Vicentino. Direttore dott.ssa Cristina Oliani

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curante. Le sue, quella di diventare padre, di ridefinire il suo rapporto di coppia, di uomo e di compagno; la mia, quella di offrirgli la miglior cura possibile.

La nascita della figlia, qualche giorno prima dell’inizio del trattamento, rinforzò la sua motivazione di voler affrontare la malattia e le sue conseguenze in famiglia e al lavoro... in poche parole: affrontare il “futuro” dopo la diagnosi. Iniziò così l’avventura della malattia oncologica con soddisfazioni mediche per la risposta ai trattamenti fin qui affrontati e per il mantenimento di un’ottima qualità di vita. Ma il tempo passa e lo si vorrebbe fermare perché consapevoli che prima o poi la situazione peggiorerà, quel tempo scandito dalla crescita di un figlio che raggiunge tappe importanti come il compimento del primo anno d’età e che il paziente ricorda come tappa dell’inizio di una nuova “vita”!!

A volte è meglio affrontare le paure con più innocenza e meno razionalità!

“Se i bambini hanno l’abilità di ignorare tutte le probabilità e le percentuali, allora io – tutti noi – possiamo imparare qualcosa da loro. Se ci pensi, quale altra opzione abbiamo a disposizione se non sperare. In quella situazione, tutti abbiamo due opzioni, dal punto di vista medico ed emotivo: mollare o combattere forte” come ha testimoniato in una delle sue autobiografie Lance Armstrong.

Stare accanto a Fabio in questo periodo mi sta facendo intuire come ammalarsi di cancro vuol dire anche cambiare, lottare, amare e vedere cose che altri non vedono.

Il desiderio della Mescoli

Alberto Scanni*

Da qualche giorno non si sentiva tanto per la quale. Quella notte aveva dormito poco: un po’ di febbre, dolori alle ossa e poi quelle macchioline rosse sulla pelle che la preoccupavano. Era da tempo che si curava per una brutta leucemia ma qualche ciclo di chemio, qualche pastiglia di cortisone e qualche antidolorifico le avevano permesso, anche se con alti e bassi, di tirare avanti discretamente. Seduta nella sala d’aspetto del reparto di Oncologia, la Mescoli, così si chiamava, aspettava di incrociare qualche medico per farsi vedere e raccontare come si sentiva.

Nel reparto era di casa, tutti la conoscevano da quando, circa venti anni prima, si era presentata, per la prima volta, piena di paure e timorosa di dover abbandonare il lavoro.

Era domestica di una ricca famiglia milanese: i padroni le volevano bene, anche per quel suo modo di fare educato ma risoluto, generoso ma rigido di fronte a richieste assurde, come quella volta che il vecchio padrone, rimasto vedovo e divenuto un po’ “balzano”, le aveva chiesto di comprare dei giornaletti osé. “Queste schifezze io non gliele compero” aveva detto all’anziano padrone. I figli dei padroni le volevano bene, si fidavano di lei e da quando la loro mamma se ne era andata, le avevano praticamente affidato la gestione della casa e del vecchio padre.

Mentre aspettava, qualche brutto pensiero le passava per la mente: se la malattia fosse peggiorata avrebbe dovuto abbandonare lavoro e affetti, sì perche tutti gli affetti erano in quella casa. E poi la paura della morte non fa bene a nessuno e lei ne aveva tanta!

Della sua vita non amava parlare: era sola al mondo, la sua giovinezza era stata travagliata; da piccola in collegio dalle suore, un legame naufragato con un uomo violento, poi sempre a servire, prima nel mantovano, suo luogo di origine, poi qui dai signori Giaroni.

“Mescoli come mai qui?” le chiese passando una giovane infermiera. Di solito si veniva su appuntamento ma la Mescoli, che era di casa, non se ne preoccupava granché e anche quella volta, se ne era fatta un

* già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica A. O. Fatebenefratelli e Oftalmico, Milano

78 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

baffo. L’ospedale poi, era così vicino a casa! Spesso, quando andava a fare la spesa, faceva su un salto per dare un saluto o per portare qualche regalino a questo o a quell’infermiere. Con lei erano sempre gentili e lei contraccambiava.

“Non sono tanto in forma. Non vorrei che ci fosse una ricaduta”. “Ma nooo!” le rispose l’infermiera, “Vedrà che tutto si sistema. Vado a dire al primario che lei è qui. È dentro con una persona, ma vedrà che appena si libera la viene a cercare”.

Sì, mi conosceva bene, si può dire che mi aveva accompagnato nella carriera. Venti anni di leucemia linfatica le avevano permesso di vedere l’evoluzione del reparto: prima piccolino, poi sempre più grande e importante. Conosceva infermieri, medici, locali, muri e piastrelle e anche lei, nel suo piccolo, aveva collaborato a renderlo più bello: aveva regalato dei quadri e anche quelle seggiole così scomode in sala d’attesa, le aveva sostituite a sue spese.

Negli anni aveva incontrato tanti ammalati, di alcuni, come capita in questi reparti, era diventa amica, molti altri li aveva persi per strada, ma con quelli che stavano bene si vedeva ogni tanto a chiacchierare fuori dall’ospedale o a prendere un caffè nei bar lì vicino.

Aspettava e guardava alle pareti i quadri che aveva regalato: mai nature morte o soggetti tristi, solo paesaggi pieni di luce, di campi verdi e di cieli azzurri. Diceva spesso: “Quando uno si siede qui non deve pensare al male, deve vedere cose rasserenanti e, davanti a un bel paesaggio, farsi venire la voglia di fare e di vivere!”. E lei, anche da malata, di cose ne aveva fatte. Lavorava tanto, ma sapeva anche gustare il bello della vita: una volta in bicicletta era discesa lungo i sentieri che costeggiano l’Adda da Peschiera Borromeo a Trezzo. Per poi mettersi a letto con un febbrone dovuto allo strapazzo e non per colpa della malattia.

Pensava a quanto avrebbe potuto ancora fare per quel reparto se le cose fossero andate per il verso giusto, ma il tarlo del dubbio la agitava e poi, quella mattina, i malati in attesa che le stavano accanto, la rattristavano. Si sentiva in una squadra di “sfigati”, di gente che senza colpa e senza aspettarselo, si erano ritrovati una tegola sulla testa. Di gente piena di paura che doveva lottare, giorno e notte, per accettare la malattia e, soprattutto, per riuscire a dare un senso di continuità alla propria vita. Era seduta e pensava: “Hanno un bel dire che si guarisce, ma la paura è tua e la paura di ricadute c’è sempre. Mi fanno ridere quelli che vanno in televisione a pontificare, a dire che è un male come tutti gli altri. Balle! Provino loro ad avere un cancro e poi vedano come ci si sente”.

“Mescoli allora?” chiesi. “Capo, non vado bene, ho paura che ci risiamo”.“Dai venga dentro che parliamo un po’”. Mi aveva sempre chiamato

capo, soprattutto quando parlava col personale del reparto. Per lei era il modo più giusto per riconoscermi autorità, anche se eravamo in confidenza.

L'accompagnamento 79

Mi voleva bene, un bene profondo, frutto di quella riconoscenza che i malati hanno verso chi li ha tirati fuori da brutte situazioni. Affetto che contraccambiavo e che mi rendeva sempre disponibile.

Avevo creato quel reparto dal nulla, lo sentivo come una mia creatura e volevo che lì i malati non solo venissero curati bene, ma respirassero un’aria di accoglienza e di serenità, dove non sentissero l’angoscia del luogo e percepissero un senso di amicale condivisione della loro storia. Dicevo sempre ai miei “Non bisogna solo curare ma prendersi cura dei malati”. Questo modo di fare alla Mescoli piaceva molto, lo percepiva e quando aveva bisogno veniva, sicura di essere ascoltata. In quel posto si trovava bene, non le dava angoscia nonostante fosse malata.

“Mi racconti, cosa c’è che non va?” domandai, mentre cercavo di farmi un’idea delle condizioni generali, evitando che lei percepisse qualcosa dai miei atteggiamenti. Dopo tanti anni di esperienza sapevo che i malati ti scrutano, osservano tutti i tuoi movimenti e atteggiamenti per capire se sei preoccupato, per cogliere, dai tuoi sguardi o dal tuo modo di fare, se dici la verità o stai mentendo, se fingi ottimismo o sei preoccupato. Pare che la malattia li abbia fatti diventare dei sensitivi e basta un nonnulla per far rizzare loro le antenne. Quelle cose le sapevo bene e, anche se qualche volta mi era andata buca, in genere mi controllavo bene.

Era pallida e sul dorso delle mani aveva qualche petecchia. Gli occhi, azzurri e sempre vivaci, erano infossati e lo sguardo spento.

“Dottore mi sento fiacca, di una fiacchezza che non mi lascia fare niente, devo sedermi ogni momento, ho sempre un po’ di febbre e poi mi sono uscite delle macchioline rosse. Non saranno le piastrine?”. La Mescoli, negli anni, era diventa un mezzo dottore e sapeva che quando le piastrine si abbassano, la malattia va male e le petecchie sono un brutto segno.

“Da quando sono comparse?” chiesi. “Da qualche giorno, ma mi pare che stiano aumentando”. “Si sdrai lì che la visito”. L’esame obiettivo non era dei migliori, petecchie diffuse all’addome, alle gambe e qualcuna alle braccia, milza molto aumentata, ghiandole alle ascelle.

“Bisogna fare qualche esame, ma stia tranquilla. Di già che è qui, facciamo quelli del sangue e diamo un’occhiata con l’ecografo alla pancia. Le và?”. “Come fa a non andarmi? Sono venuta apposta!”. Rispondeva sempre per le rime, ma non era scortesia, avevamo imparato a conoscerla: generosa ma ruvida! Era arrivata a 58 anni, aveva avuto una vita piena e benché la sua gioventù fosse stata dura, non si lamentava. Nei momenti difficili la fede l’aveva sempre sostenuta: era diventata valdese perché lo sfarzo della chiesa di Roma, diceva che le “stava sullo stomaco”.

Gli accertamenti non erano buoni, mi sedetti sul lettino di fianco a lei, le presi la mano e dissi “Siamo in un momento critico, devo ricoverarla; anche gli esami non vanno bene”.

“Okay! Mi faccio ricoverare, ma voglio una stanza luminosa che mi faccia vedere il cielo dalla finestra”. Era una vecchia paziente e

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riteneva che un trattamento di favore le fosse dovuto. Il reparto aveva solo due stanzette per i casi più gravi, il resto erano camere a più letti; fortunatamente una si era appena liberata. La camera non era lussuosa, ma essenziale, abbastanza grande, al terzo piano della palazzina, con dei finestroni che guardavano su un ampio parcheggio e in lontananza si vedeva una via trafficata. Dal letto poteva guardare il cielo, vedere qualche uccello volteggiare e percepire, come lei diceva, un senso di serenità affondando lo sguardo nel vuoto. Sembrava quasi si stesse preparando a spiccare il volo! Arrivata in camera la informai dei programmi.

“Dottore ne vengo fuori? Non mi racconti balle. Ci conosciamo da troppo tempo perché lei mi imbrogli. E poi voglio dirlo ai miei padroni. A loro devo molto. In questi anni mi sono stati vicini, mi hanno trattato come una di famiglia”. Per esperienza sapevo che tradire gli ammalati mentendo non va mai bene e se se ne accorgono aumenta in loro il senso di solitudine e fa perdere la fiducia verso chi ti deve continuare a curare.

Decisi di dire la verità, ma in modo dolce, sottolineando che non tutto era perduto, che si sarebbe fatto tutto il possibile e che le saremmo stati sempre vicini.

Questo era il mio modo di fare. Molte volte avevo dovuto affrontare situazioni simili e sempre avevo cercato di non far mai mancare al malato la speranza e soprattutto la vicinanza di chi ti ha seguito per tanti anni. La Mescoli ascoltava attentamente le mie parole e mi guardava negli occhi, quasi che lì potesse ancor meglio cogliere il senso di quanto le stavo dicendo. Finito di parlare vi fu un attimo di silenzio, un silenzio pesante, breve e lungo allo stesso tempo, in cui i pensieri dell’uno e dell’altro si ricorrevano, dove chi cura avverte la sua impotenza e chi è malato intravede con rabbia il capolinea. “Dottore ho capito tutto, anche quello che lei non mi vuole dire. Mi fido, sono nelle sue mani e mi stia vicino”. La voce era calma, quasi che la dolce verità l’avesse rasserenata.

Nei giorni che seguirono le cose peggiorarono e una brutta broncopolmonite impedì di farle una chemioterapia di salvataggio, solo cure di supporto. Tutti la andavano a trovare e anche i figli dei vecchi padroni spesso passavano di lì. In quella stanza si respirava amicizia, affetto, voglia di starle vicino: chi le portava un giornale, chi faceva per lei qualche commissione, chi le offriva compagnia in quelle giornate invernali con un cielo che non era quello che lei avrebbe voluto. Non più una domanda sulle sue condizioni o su come sarebbe andata. Verso la fine i malati non vogliono più sapere e sembrano abbandonarsi, rassegnati, all’andare delle cose. Da parte sua solo qualche battuta, anche spiritosa, sulla schifezza del vitto, ma nulla di più. I suoi silenzi si fecero sempre più frequenti. La andavo a trovare tutte le mattine, mi sedevo sul letto, poche parole, mano nella mano e reciproci intensi sguardi: insieme di fronte all’impossibile.

Una mattina mi disse: “Guardi che cielo scuro, mi piacerebbe nevicasse”.

Se ne andò il giorno dopo. Stava nevicando.

Una anziana professoressa

Alberto Scanni*

Ero stato chiamato, dalla figlia, a visitare una anziana professoressa. La signora aveva un tumore al polmone, ed era consapevole di essere alla fine. La figlia mi disse che era stata la mamma a volere uno specialista per approfondire con lui la sua faccenda. Era una bella signora, atteggiamento aristocratico, parlata forbita e toscaneggiante. Aveva insegnato per anni in un liceo di Milano, Italiano a Latino erano le sua materie.

Volle restare sola con me; la figlia e un nipote sui 17 anni rimasero fuori. Quello che mi aveva colpito del nipote era la tenerezza nei riguardi della nonna, peraltro ricambiata. Era sicuramente un nipote unico o, se non altro, il prediletto.

Mi disse che sapeva tutto, che non voleva essere di peso a nessuno: al momento stava discretamente ma, peggiorando le cose, i suoi avrebbero dovuto sacrificarsi per lei ed era proprio perché voleva loro un gran bene, voleva anticipare la morte. Era la prima volta che mi veniva richiesta la eutanasia! Avevo sempre pensato che all’origine di questa richiesta, vi fosse prevalentemente la solitudine, la paura del dolore incontrollabile, la paura di non essere assistito, ma non v’era nulla di tutto ciò, le condizioni generali erano ancora buone e nulla faceva presagire una fine imminente. Qui, all’origine della richiesta, vi era un atto d’amore verso i parenti che non avrebbero dovuto patire per colpa sua quando lei peggiorava.

Restammo a parlare a lungo, dissi che avevo difficoltà a comprendere la sua posizione e che quella per me era una richiesta inaspettata che personalmente non avrei potuto assecondare. Avevo ragioni personali, etiche che supportavano questa mia posizione e mi impedivano di aderire a programmi di eutanasia. Ritenevo tra l’altro che lei aveva davanti ancora giorni che sarebbero stati momenti unici e irripetibili per i suoi cari, giorni di vita in cui avrebbe potuto ancora dare molto. Una morte anticipata avrebbe privato figlia e nipote di un qualcosa di unico, che solo lei poteva dare. Parlammo molto: parole, silenzi, riflessioni si susseguivano in un clima che via via si scioglieva, aprendoci reciprocamente l’uno all’altro. Io

* già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica A. O. Fatebenefratelli e Oftalmico, Milano

82 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

come medico ero per la vita e se avesse scelto di non interrompere la sua esistenza avrei garantito la mia presenza e tutta la concreta vicinanza nel momento più difficile, compresa l’assistenza continuativa infermieristica. Ci sarei sempre stato! Accettò questo percorso.

Nei giorni che seguirono aiutò il nipote a preparare l’esame di maturità. Non ebbe mai dolore: avevamo impostato una terapia antidolorifica perfetta, insegnammo anche alla figlia a fare le punture. La assistemmo a casa fino alla fine. Si spense serenamente tra l’affetto dei parenti.

Ero riuscito a fare con lei un progetto di vita più come uomo che come medico riscoprendo il valore e il senso della “parola”!

Una nuova prospettiva per la vita – La Storia M. D.

Franco Testore*

M. D. è un uomo di 55 anni che, in Giugno 2014, si è rivolto al nostro Centro di Accoglienza e Servizi (C.A.S.), dopo la diagnosi di adenocarcinoma della prostata con multiple metastasi ossee, epatiche e polmonari sincrone all’esordio. Al momento della nostra prima visita le condizioni del paziente erano estremamente precarie, a causa della notevole estensione della neoplasia; M. D. era costretto a letto e poteva muoversi, accompagnato, solo su una sedia a rotelle, a causa di deficit motorio degli arti inferiori da compressione del midollo spinale nel tratto dorsale, e inoltre accusava dolore intenso, che richiedeva infusione continua di oppiacei, e insufficienza respiratoria che richiedeva ossigenoterapia domiciliare; le condizioni generali stavano rapidamente peggiorando e il paziente avrebbe avuto una prospettiva di vita inferiore a due mesi, in assenza di terapie efficaci.

Circa due settimane prima, nel corso del meeting annuale dell’A.S.C. O. di Chicago, erano stati comunicati, in sessione plenaria, i risultati del Trial Clinico CHAARTED, che dimostrava come, in pazienti giovani affetti da adenocarcinoma prostatico con notevole tumor burden e interessamento viscerale, l’associazione simultanea, fin dall’inizio, di ormonoterapia e chemioterapia potesse portare a un effetto terapeutico molto superiore, rispetto a quello dei due trattamenti utilizzati in sequenza, come avviene tuttora nella pratica clinica.

Trattato così, il paziente, nei mesi successivi, ha presentato un progressivo miglioramento della sintomatologia e delle condizioni generali, a cui ha corrisposto la remissione completa radiologica (TAC) delle metastasi viscerali, e il progressivo notevolissimo calo del PSA, per cui da Dicembre 2014 il trattamento chemioterapico è stato sospeso; è tuttora in corso l’ormonoterapia associata a Denosumab.

A un anno e due mesi di distanza dalla prima diagnosi, il valore del PSA è passato da 204.7 (prima del trattamento) a 5.4 alla conclusione della chemioterapia, quindi al valore attuale di 3.7, e attualmente M. D. sta in piedi, cammina autonomamente senza appoggio, con un corsetto

* Direttore SOC Oncologia Ospedale Cardinal Massaia Asti

84 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

ortopedico e ha ripreso la propria attività lavorativa. Considerando la drammaticità del quadro clinico, inizialmente era

indispensabile concentrarsi sulla malattia e su come far fronte a una sintomatologia che stava pesantemente compromettendo la vita del paziente; ma poi, poco per volta, l’assidua frequentazione con il paziente, con la sua famiglia e l’evidenza di un miglioramento progressivo dei sintomi e della malattia, hanno concesso a tutti uno spazio maggiore per approfondire la conoscenza umana reciproca, per parlare, ascoltare e condividere il percorso che si era potuto intraprendere con la cura.

E allora, ovviamente, è emerso ciò che M. D., come persona, ha fatto nella vita prima di ammalarsi e che ha potuto adesso riprendere a fare, grazie allo straordinario risultato delle cure.

Rumeno,aveva studiato arte e restauro all’Accademia delle Belle Arti di Bucarest, dove aveva conseguito il diploma di laurea di Maestro d’Arte.

Grande appassionato di pittura e scultura, aveva iniziato fin da giovane la sua attività creativa con l’intento di superare la tecnica eccessivamente rigorosa della pittura e della scultura tradizionale. Varie erano state le mostre e i riconoscimenti.

Oltre all’attività artistica convenzionale, si dedicava anche, come lavoro più remunerativo per la vita quotidiana, alla realizzazione di trompe l’oeil, e sue decorazioni sono presenti in decine di case del Piemonte.

Quando è arrivato aveva la speranza di una prospettiva di vita migliore; non riusciva a camminare né a stare in piedi, era molto sofferente e non poteva dedicarsi alla sua passione per l’arte; pensava che sarebbe morto in poco tempo.

La prima immagine che aveva avuto del nostro reparto, era il muro del corridoio d’ingresso, di un colore gradevole, ma piatto e inespressivo, quasi l’immagine del “muro” che si crea, spesso, tra il malato e il resto delle persone che proseguono regolarmente, almeno in apparenza, la propria vita quotidiana.

Quando, qualche mese dopo, gli abbiamo comunicato che si poteva interrompere la chemioterapia perché c’era stato un miglioramento progressivo, documentato dagli accertamenti strumentali e dal netto calo del PSA, M. D. ci ha regalato uno dei suoi quadri, che è esposto ora nel nostro day hospital; con soddisfazione, ha fatto una piccola passeggiata nel corridoio e ha scelto il muro sul quale appendere il suo quadro.

Adesso che riesce a stare in piedi e ha potuto riprendere a dipingere, e anche a lavorare ai suoi trompe l’oeil, ha accettato la nostra proposta di un progetto ancora più significativo; ha realizzato una decorazione murale, per “dare vita” a quel muro del corridoio, e trasformarlo, con un trompe l’oeil, in una balconata su un paesaggio, un panorama della natura e della vita, che è poi ciò che idealmente ogni paziente vorrebbe, quando si rivolge a chi spera possa curarlo: una nuova prospettiva di vita durante e oltre la malattia.

M. D. sa benissimo che non può guarire, e su questo punto non ci sono

L'accompagnamento 85

mai stati equivoci nella comunicazione; ma sa anche che adesso ha la possibilità di rendere visibile il suo pensiero, con un’opera che in questo momento è in grado di realizzare, e che un anno fa pensava di non poter realizzare mai più.

Spesso la nostra pratica clinica ci pone di fronte alla necessità di decidere se proporre una terapia basata su dati ancora preliminari, anche se già presentati in un contesto molto autorevole, e dunque accreditati di una buona attendibilità.

D’altra parte, esistono casi in cui la decisione su una possibile terapia deve essere presa in tempo utile per il paziente, e l’attesa della definitiva pubblicazione dei dati può risultare eccessivamente lunga, soprattutto quando l’efficacia della terapia standard attuale è chiaramente insufficiente.

Il caso di M. D. rappresenta bene questa situazione. La sua vita ha sicuramente avuto una svolta positiva grazie alla terapia; per tutti noi che lo stiamo curando, il giorno in cui lo abbiamo visto in piedi, con in mano il suo quadro che ci stava regalando, è stato un momento molto emozionante e ci ha fatto capire che stavamo davvero facendo un lavoro utile per lui e per la sua famiglia.

Per lui si è aperta, grazie alla terapia, una nuova prospettiva di vita, di durata ancora incerta, ma di significato, per lui, molto importante, che gli ha consentito di realizzare nuovamente le opere della sua fantasia e del suo ingegno, e di lasciare un segno indelebile del suo passaggio anche nel nostro reparto.

Tutte le persone che, d’ora in avanti, si troveranno di fronte a quel muro, che adesso è diventato un panorama luminoso e sereno, potranno intuire, anche se spesso non realizzare consapevolmente, che la vita può avere una prospettiva diversa e migliore, se si riesce a reagire positivamente a una diagnosi di tumore, anche grazie alla disponibilità di trattamenti efficaci, e di operatori sanitari capaci di considerare la propria professione, in primo luogo, come una straordinaria esperienza umana.

La narrazione

Una vita rubata

Gianfranco Porcile*

Nevicata. Si era messo a nevicare: fiocchi grossi e leggeri volteggiavano pigramente nell’aria incuranti del freddo e poi si depositavano delicatamente al suolo, componendo un bianchissimo strato illuminato a mala pena dalle prime luci del crepuscolo: sulla strada un tappeto soffice e candido si stendeva sotto passi malfermi e gomme slittanti.

Il dottor Paolo stava preparandosi a chiudere l’ambulatorio ospedaliero dedicato alle malattie del sangue: erano andati via tutti, colleghi, infermieri, pazienti. Era rimasto solo, e la nevicata appena iniziata lo convinceva sempre più ad affrettarsi: bastava un dito di neve e il traffico cittadino si sarebbe bloccato immediatamente. Sentì suonare il campanello: chi mai potrà essere a quest’ora? Qualcuno avrà dimenticato l’ombrello o qualcos’altro… Andò ad aprire un po’ contrariato.

Fuori, per strada, sotto la neve, c’erano due persone, una giovane e una di mezz’età, vestite in maniera abbastanza elegante ma sicuramente non adeguata alle condizioni meteorologiche: l’adulto teneva in mano una valigia. Il dottore li squadrò chiedendo in che cosa potesse essere utile.

“Siamo venuti a ricoverare mio figlio!” disse quello che ovviamente doveva essere il padre. Quando il dottore seppe che non avevano prenotato e neppure telefonato al reparto di ricovero, si lasciò andare a una sfuriata di tutto rispetto: “Ma cosa si credevano? Non sapevano che esisteva una lista d’attesa? Non era corretto presentarsi così in quel modo!” E via dicendo. Mentre parlava, o meglio inveiva, si accorse che il più giovane, che non diceva una parola, aveva un’aria molto sofferente, anche se gestita con composta dignità. Subito dopo la lavata di testa, li fece accomodare nella sala d’attesa e, dopo aver dato un’occhiata alla documentazione, li lasciò dicendo che avrebbe cercato di capire cosa si poteva fare. Telefonò a mezzo mondo e alla fine tornò con aria soddisfatta: il posto letto si era liberato e il ragazzo poteva essere accettato nel reparto di ricovero. A quel punto il dottor Paolo aveva capito che non poteva ancora andare a casa: dopo le formalità di tipo amministrativo,

* già Direttore di Struttura Complessa di Oncologia Medica Ospedali di Alba e Bra, Cuneo

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accompagnò il giovane in una camera a due letti, di cui uno occupato da un ricoverato anch’esso altrettanto giovane. I due che erano appena arrivati pretesero subito una camera singola sostenendo che loro potevano permetterselo! Il dottore li riaccompagnò fuori della stanza e, con calma e fermezza, disse al più giovane dei due. “Ricordati bene! Questo che ora ti sembra un estraneo, tra un’ora sarà tuo amico di una amicizia che durerà per sempre! Te lo garantisco”. Il giovane si convinse immediatamente. In effetti diventarono presto amicissimi. In seguito, dopo aver pregato il padre di restare fuori della camera, il dottore si mise a parlare con il nuovo paziente per avere tutte le informazioni sulla sua malattia, ma anche sull’individuo, sulla persona che aveva davanti. Il colloquio non fu breve: alla fine il giovane pensò che di quel dottore si doveva fidare, ma anche che si poteva fidare. Il dottore invece, dopo essere uscito, pensava che quel nuovo paziente era ignorante, forse non aveva mai letto un libro, ma la sua impressione era che fosse dotato di un cervello e di un cuore grandi così. “Di solito noi laureati – rifletteva – pensiamo che cultura e intelligenza vadano di pari passo: ma non è assolutamente vero”. Il ragazzo si chiamava Generoso, e veniva dal sud italia, da quella zona che di recente era diventata tristemente famosa come “Terra dei Fuochi”: ettari ed ettari di terreno erano stati usati come discariche abusive di rifiuti tossici e nocivi, con grande tornaconto finanziario per le cosche mafiose che organizzavano quel lucroso trasporto e un danno ancora più grande al territorio, all’ambiente, ai cittadini residenti in quelle zone. Un territorio cupo, sfruttato, martoriato nel nome dell’effimero benessere di pochi e in arrogante dispregio a qualsiasi concezione di bene comune. Generoso si era ammalato da poco e, non appena era giunta la diagnosi di linfoma, un tumore che colpisce i linfonodi, un medico amico di quelle parti aveva consigliato di portarlo immediatamente al Nord, dove avrebbe dovuto forse essere sottoposto al trapianto di midollo osseo. Generoso era giovane, giovanissimo.

Era solo, in quella camera, da molti giorni: si trovava in camera sterile, resa necessaria dal trapianto di midollo che aveva da poco ricevuto. Un ragazzo intelligente e simpatico, bello, anche se i segni della malattia avevano già da tempo iniziato a comparire sul suo volto e la chemioterapia prima e il trapianto poi avevano fatto il resto. Ma gli occhi erano profondi e vivi, una finestra aperta sul mondo esterno e sul suo intenso mondo interiore. Era arrivato dal Sud e tutti i suoi parenti vedevano in quel trapianto la panacea che lo avrebbe sicuramente guarito dal linfoma maligno. Il donatore era stato suo fratello e questo aveva ancora maggiormente rinsaldato il loro legame. I suoi genitori non si nascondevano che la pratica del trapianto era molto delicata e rischiosa, ma Generoso avrebbe sicuramente superato le fasi difficili.

Solo in quella stanza bianca e asettica: soltanto personale selezionato, medici e infermieri, potevano accedere per il tempo strettamente indispensabile, nascosti dietro una divisa che li faceva assomigliare più

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a strani scienziati di qualche ancor più strana base nucleare o spaziale. Sopra la mascherina, soltanto gli occhi lasciavano trapelare un essere umano. Era solo e si sentiva solo: unica compagnia un pettirosso che lo veniva a trovare sull’esterno della finestra. La mente tornava ai ricordi. E gli veniva in mente il campetto che era tutta la sua vita. Non aveva mai avuto voglia di studiare: il calcio era la sua grande passione. Ed era veramente bravo, un campione: per tutti era “‘nate Maradona” (“un altro Maradona”) e una società calcistica di nome “Victoria” aveva già chiesto e ottenuto la sua firma sul cartellino: era destinato a una brillante carriera. Non avrebbe fatto né il medico né l’avvocato: nel calcio era tutto il suo futuro. Era bravo e velocissimo nella corsa con il pallone ai piedi: ma era stato proprio durante una partitella di allenamento che l’allenatore gli aveva fatto notare che non aveva il solito scatto, la solita velocità nella corsa. Forse aveva bisogno di un po’ di riposo, o di un po’ di ferro, o chissà. Era iniziata così la trafila degli accertamenti con quella diagnosi dal nome strano, che non aveva mai sentito nominare. Era solo e aveva paura, una maledetta paura. Ed era avvilito: era il suo compleanno, il suo diciottesimo compleanno: nessuno con cui festeggiare. Forse non sarebbe mai guarito da quella malattia di cui già il nome gli ispirava terrore. Era disperato. Ma non piangeva: gli avevano insegnato che un vero uomo non piange mai. In quella stanza avrebbe potuto piangere senza essere visto, ma non una lacrima solcò la sua guancia. Generoso piangeva ma piangeva dentro. Poco tempo dopo arrivò da lui un infermiere, anzi, dagli occhi, si accorse subito che si trattava di una infermiera: occhi blu profondi come il mare, che sorridevano in maniera aperta e trasparente. Forse sorridevano anche le labbra, ma Generoso non poteva vederle: le immaginava. “Ciao, sono Serena”: una voce dolce e calda, chiara nonostante la mascherina. Non era alta, anzi, qualche capello biondo si intravedeva attraverso la cuffia d’ordinanza. Non si poteva vedere granchè, ma era bellissima e Generoso se ne accorse subito. “Oggi è il tuo compleanno! Auguri!”. Lei rimase un po’ a parlare con lui: erano entrambi giovanissimi e l’intesa si creò immediatamente.

Dopo qualche giorno finalmente Generoso poté uscire dalla camera sterile: era come uscire di prigione. Giusto in tempo: ancora qualche giorno e il suo cervello non avrebbe più retto a quella assurda solitudine con contatti umani rarefatti e artificiali. Immaginarsi la consolazione di lui ad avere vicino Serena per molte ore quasi tutti i giorni. Successe quel che non si aspettavano: si innamorarono. Adesso Generoso aveva riacquistato la speranza. Anzi quasi gli veniva da ringraziare quel maledetto linfoma: senza la sua malattia non avrebbe mai conosciuto Serena. Superato il trapianto, tutto sembrava più facile. Ma non fu così. La situazione clinica di lui, invece che migliorare, peggiorava lentamente e progressivamente: immunodepressione, infezioni, febbre, trasfusioni, fu un calvario. Passarono quattro mesi: i medici erano preoccupati, molto preoccupati. Generoso non ce l’avrebbe fatta. Infatti aumentarono le

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infezioni e le emorragie: era vicino alla fine. Una mattina, saranno state circa le sei, nella stanza del reparto erano tutti già svegli: c’era uno strano andirivieni, un’ agitazione nel medico di guardia, una strana espressione negli occhi delle infermiere, tra cui era presente anche la “sua”. Ad un certo punto Generoso, senza parlare perché non ne aveva più la forza da giorni, sollevò dritto, esteso, non senza fatica, un braccio in direzione del dottor Paolo, poi delle infermiere (ovviamente guardando la “sua”), e poi nella direzione del nuovo amico nel letto a fianco: ad ognuno fece con la mano il gesto di “Ciao”. Un gesto lentissimo, silenzioso e tragico. Sentiva arrivare la morte e impegnava tutte le sue forze per salutare per l’ultima volta, per dare l’addio al mondo. Tutti erano impietriti dalla scena del suo braccio levato: sembrava un compianto di Cristo morto. Anche la “sua” fidanzata era in silenzio: piangeva, le lacrime rigavano le giovani guance, ma in silenzio. Il sangue le si raggelò nelle vene e non riuscì a rispondere nulla: avrebbe voluto dire “Ciao, Generoso, addio!”, ma la voce le si strozzò in gola, e allora alzò anche lei il braccio destro e con la mano rispose al suo saluto, quell’ultimo dignitoso straziante saluto. Nella camera un unico grande silenzio di impotenza e di rispetto. Pochi minuti dopo il decesso arrivarono i suoi genitori: altro dolore, altra scena. Questa volta il silenzio lasciò il posto a grida disumane di incredulità, di rabbia, di strazio, di odio verso tutto e verso tutti.

Passarono gli anni. Serena, pur continuando a svolgere la funzione infermieristica, si dedicò sempre di più alla prevenzione. Collaborando con un’associazione di volontariato, svolse attività di informazione e formazione sanitaria promuovendo la salute nelle scuole per diffondere corretti stili di vita, prima di tutto la battaglia contro il fumo di tabacco. Ma ben presto la sua azione si spostò anche, e maggiormente, sull’inquinamento dell’ambiente di lavoro e di vita, che si rivelava un determinante di salute sempre più importante: per questo rischio non era più sufficiente il comportamento individuale, ma era necessario un intervento a livello sindacale, sociale, politico.

I genitori di Generoso costituirono una fondazione intitolata a suo nome, la chiamarono “GenerosAmbiente”: il padre era l’instancabile coordinatore organizzativo, mentre lo sponsor principale, il mecenate, era il presidente della “Victoria Calcio”. La fondazione riuscì a individuare le aree inquinate nella Terra dei Fuochi, la maggior parte furono bonificate, i responsabili dei traffici illeciti furono in gran parte consegnati alla giustizia. Forse di lassù Generoso sorride: tutto questo forse è stato anche merito suo. Ci sono dei sacrifici che soltanto a distanza di tempo si capisce non essere stati inutili. Se vi capita di passare vicino al paese di Generoso fate un salto veloce al cimitero, semplice e suggestivo come tutti i cimiteri di campagna. Tra le tante, anche di esistenze giovani e giovanissime, troverete una piccola tomba bianca intitolata a “Generoso C. Generoso, intelligente, sensibile e coraggioso. Una vita rubata (troppo presto). Una vita sofferta e offerta per salvarne tante altre”. Per un misterioso accordo

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mai stipulato, ogni giorno vi troverete un fiore fresco posato lì da un parente, da un amico, da un concittadino. In quel luogo raccolto non troverete tristezza ma serenità, e vi sembrerà di sentirvi circondati dal dolce sorriso di un giovane che ha vissuto troppo poco, ma non ha ancora cessato di vivere.

Lo scheletro nell’armadio

Virginio Filipazzi*

Drin… Drin... Squilla il telefono. Sono le 4:10 e sono a letto solo da un paio d’ore.

Alzo il ricevitore e una voce calma e formale recita “Dottore... ? Non troviamo il certificato di morte che lei avrebbe redatto ieri sera! Se non si materializza entro domattina il sostituto procuratore potrebbe mettere sotto sequestro l’intero ospedale!”.

Lo stordimento della sveglia inattesa si dilegua in pochi secondi, con il cuore in gola riesco a pronunciare una sola parola: “Arrivo”. Nella notte la strada mi sembra una lunga pista di decollo deserta, le luci amiche dei lampioni mi guidano su un percorso conosciuto ma oggi sgradito; per fortuna non ci sono autovelox in questo tratto di autostrada.

Dopo circa un’ora, sopportando anche le maledizioni dell’addetto alla camera mortuaria, scovo la cartella clinica e il relativo certificato. Tremante per il timore di ritrovarmi in tribunale da lì a pochi giorni, vengo fatto accomodare sul sedile posteriore della “volante” proprio come un “fermato”. La stessa voce, ora più calda e familiare, mi rincuora: “Dotto’ voi avete l’obbligo di mezzi, ma non di risultati!”. Dopo 10 anni di quella giornata, che è stata un po’ come il mio “11 Settembre”, ricordo ogni dettaglio. Donna di 50 anni, bionda, faccia affilata, modi gentili e dimessi, separata con una figlia adolescente, che viene ricoverata nel mio reparto per “Enterite post chemioterapia” dopo aver stazionato a lungo in pronto soccorso. Ma qualcosa non torna: la pressione è ancora troppo bassa, il polso flebile, la febbre e i persistenti dolori addominali non mi convincono. Dopo una TAC urgente la paziente viene riammessa in sala emergenza del pronto soccorso e affidata alle cure dell’anestesista e del chirurgo che suggeriscono anche un intervento esplorativo per drenare una raccolta retro peritoneale. Gli impegni della guardia attiva mi sottraggono alla sequenza tumultuosa degli eventi successivi e in tarda serata raggiungo il dipartimento di emergenza per sincerarmi della situazione. Sull’ascensore molte ipotesi diagnostiche mi frullano in testa,

* U. O. C. Oncologia Medica Azienda ospedaliera – Polo Universitario “Luigi Sacco“, Milano. Direttore dott.ssa Elena Piazza

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ma quando intravedo due sanitari che stanno praticando il massaggio cardiaco esterno, ne rimane una sola: quella donna sta morendo. Seguo le operazioni con trepidazione e per la prima volta tutte quelle varie tonalità di verde dei camici, dei rivestimenti del muro e dei pavimenti non riescono a infondermi nessun barlume di speranza. Gli anestesisti, dopo oltre 40 minuti di attività frenetica, proclamano l’ora del decesso: 23:10. Ora comincia la parte peggiore: informare i familiari, compilare la cartella, redigere i certificati e richiedere l’autopsia. Mi sento vuoto, inutile, come una lattina di birra abbandonata sul marciapiede e per riuscire ad addormentarmi devo anche assumere qualche “goccina”. Poi alle 4:10 drin, drin… Il pubblico ministero, dopo le lunghe perizie del caso, conferma il non luogo a procedere. Nessuna colpa. Obbligo di mezzi evaso! Pensavo che questo scheletro se ne stesse chiuso nell’armadio dei brutti ricordi ma, pochi giorni fa, giusto un mese prima della caduta in prescrizione, la richiesta di risarcimento danni in sede civile ne ha scardinato la serratura.

Un “ospite” in Oncologia

Maria Teresa Cattaneo*

Anche quest’anno sta per arrivare il Natale, ma il Natale in Oncologia – intendo la festa del reparto – è diverso.

Gli occhi dei pazienti che si soffermano un momento a osservare il piccolo presepe, spuntato quasi magicamente dalla sera alla mattina, non sono gli stessi che l’hanno guardato lo scorso anno. In molti non ci sono più e questi occhi non vivono la certezza di poter rivedere la neve di cotone sulla capanna, anche il prossimo Natale: in Oncologia è diverso. La data è fissata, la festa si farà in day hospital! Un cartellone rosso attira l’attenzione: ognuno segna il proprio nome e accanto indica il “piatto” che intende offrire: Rossi il salame, Brambilla l’affettato ecc. Che simpatici i nostri pazienti che non si preoccupano minimamente della privacy e, ogni giorno, l’elenco diventa lunghissimo.

Il giorno della festa, chissà come, le terapie finiscono presto. In pochi minuti, i lettini delle sale vengono disposti nel corridoio,

uno accanto all’altro, e coperti con fogli di carta rossa. È impressionante: una lunghissima vistosa tavolata si estende a destra dell’ingresso e lo sguardo corre sui piatti, sulle belle decorazioni composte con i pini del parco dell’ospedale, fino in fondo, dove la porta spalancata lascia vedere l’altare della nostra piccola cappella, giusto a capotavola!

I medici si sono tolti il camice, i pazienti hanno servito le loro specialità calabresi, siciliane, toscane ecc. Tutti hanno riso, mangiato, chiacchierato, scherzato e bevuto.

Qualcuno ha solo assaggiato, ma certamente ogni cibo sapeva di buono, perché tutti avevano capito che nei grandi pranzi “l’Ospite” più importante viene sempre messo a capotavola! E noi Lo avevamo lì.

Vorrei che si capisse quale miracolo è avvenuto in quelle poche ore: giovani e anziani, vecchi e nuovi pazienti, alcuni per la prima volta accompagnati dai figli, dalle mogli o dai mariti, sono arrivati con cibi preparati da casa e tenuti al caldo con vari espedienti, durante il breve viaggio in tram, pur di esserci.

Un vero palpitante presepe vivente a Milano, Quarto Oggiaro, * U. O. C. Oncologia Medica Azienda ospedaliera – Polo Universitario “Luigi Sacco”, Milano. Direttore dott.ssa Elena Piazza

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Oncologia. Nella allegra confusione non me ne ero accorta, pare siano arrivati

anche alcuni informatori scientifici che, avendo visto, sono andati poi per il mondo oncologico raccontando ciò che avevano veduto.

Le avevo detto di presentarsi

Un medico*

Le avevo detto di presentarsi la mattina di buon ora ed era entrata timidamente nella sala d’attesa dove le altre persone aspettavano il turno per la visita. G. era salita con un ascensore poiché faceva fatica a camminare, procedeva lentamente per evitare movimenti bruschi che avrebbero svegliato nuovi dolori addominali.

L’aspettavo nel mio studio dove il tavolo era stracolmo di fascicoli e di carte; entrando nella stanza, G. si avvicinava con circospezione e curiosità mista a paura per ciò di cui dovevamo parlare; sembrava stesse esaminando la stanza nel tentativo di trovare quei frammenti della mia vita che mi permettono di lavorare qui tutti i giorni.

Dopo le prime formalità e il controllo della documentazione portata dal caposala, chiesi a G. di raccontarmi di come si era accorta di star male e da quando.

Notai che G. aveva delle difficoltà nel riassumere come si fosse accorta di essere malata; nominava il suo tumore la cosa, e per lei questa cosa aveva avuto una lunga gestazione, anche se si era manifestata in modo improvviso e aveva dovuto essere operata d’urgenza. Era sicura che i problemi nascono prima nell’anima e poi nel corpo e decise di partire dal suo disagio che provò a raccontare.

G. era rientrata da qualche anno dall’estero: aveva lavorato all’università e nel consolato italiano e, mentre parlava, la vedevo afflitta che tentava di organizzare il racconto affannosamente. Sembrava stanca ma era piena di entusiasmo nel descrivere ciò che avrebbe voluto continuare a fare, ad insegnare francese nelle scuole, incontrando nuovi studenti che le avrebbero donato nuovi interessi e gioie. Aveva invece un opinione opposta nei confronti dei suoi colleghi perché li descriveva come corrotti e fastidiosi.

Durante il racconto sono stata chiamata d’urgenza da una delle infermiere del reparto e, al mio ritorno, G. sembrava rammaricata nel dover chiudere la visita. Quando le ho detto che avrebbe potuto continuare il racconto la visita successiva, è sembrata soddisfatta di quanto detto e

* Oncologia di San Benedetto del Tronto. Direttore dott. Giorgio De Signoribus

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anche più alleggerita. Nel corso delle settimane però questo entusiasmo si è affievolito giorno

dopo giorno, come se la cosa si stesse mangiando l’anima prima che il corpo. La stanchezza aveva preso piede e non c’era altro. Vederla arrendersi fu molto difficile perché mi sembrava impossibile che l’entusiasmo mostrato poche settimane prima si spegnesse così rapidamente non dandole la forza di combattere.

Il silenzio di una voce

Karen Borgonovo*

Lo sappiamo che le giornate non sono tutte uguali, che i nostri compagni di viaggio ogni giorno ci propongono spunti di riflessione nuovi, siano essi colleghi o pazienti.

Spesso ci pongono domande che mettono in crisi prima di tutto la nostra preparazione medico-scientifica e poi noi stessi. O meglio, è il non avere una risposta che genera forse disagio in noi operatori, quando non riusciamo ad aggrapparci a numeri o statistiche che siano in grado di “difenderci”, quando non sappiamo dare una spiegazione a una vita che finisce prima di aver compiuto il suo corso.

Con Giovanni senza dubbio il cammino è stato lungo, tortuoso, ma non ancora terminato.

Quando nel Gennaio del 2011 gli venne diagnosticata una neoplasia intestinale a basso rischio di recidiva – tanto che non gli venne proposta nemmeno la chemioterapia adiuvante – aveva pensato di averla scampata; riteneva di aver più o meno chiuso la faccenda con l’intervento chirurgico. Ma nell’agosto dello stesso anno la certezza di essere guarito lasciava il posto non tanto alla disperazione ma a uno stato di incredulità verso un referto di TAC e PET e persino a fronte a un esame istologico, che documentava senza alcun dubbio che la malattia si era ripresentata a livello epatico.

Da medici sappiamo che le statistiche sono numeri, parliamo di rischio relativo, di riduzione di rischio, di prolungamento di sopravvivenza, di tempi alla progressione… ma un paziente vuole sapere se è guarito o malato, se vivrà (e lui intende... vivrò a lungo?) o se morirà (e lui intende... morirò a breve?).

Quando Giovanni è passato dal sentirsi un “sopravissuto” a una malattia, e quindi guarito, al sentirsi dire di essere “malato” si è chiuso in un suo mondo di pensieri ed emozioni da cui per anni non è mai trapelato nulla.

In primo luogo lui non si sentiva malato, erano senza dubbio le cure aggressive che lo rendevano impresentabile, che gli impedivano

* Oncologia Treviglio, ASST Bergamo OVEST. Direttore dott. Sandro Barni

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di condurre una vita sociale soddisfacente. Sì perché il mondo non è quello del day hospital, dove c’è solidarietà e comprensione, il mondo vero è quello che c’è fuori di li, dove i sani lavorano e vanno in vacanza mentre i malati si devono preoccupare di lottare per allungare la loro sopravvivenza.

Giovanni non parla quasi mai, non fa molte domande. Si presenta alle visite in day hospital sempre in tenuta sportiva, non tradendo mai la sua natura e la sua passione. E proprio come durante le sue passeggiate in montagna, lascia che sia il silenzio a parlare al suo posto, a trasmettere le sue emozioni a chi lo ascolta.

Non ho mai forzato un dialogo che non arrivava. Nei primi tempi, in cui come in tutte le relazioni interpersonali, bisogna rompere il ghiaccio per conoscersi un po’ meglio… non sapevo proprio cosa dire! Perché quest’uomo non parlava? Rispondeva a monosillabi, mai nessuna domanda non strettamente necessaria a comprendere quel poco che gli bastava su come destreggiarsi con gli effetti collaterali. Spesso provavo imbarazzo per un silenzio troppo lungo: ma chi doveva parlare dei due? E andavo a casa chiedendomi cosa non andava in quella relazione e perché quell’uomo con il suo silenzio mi metteva in difficoltà.

Non vorrei fare una citazione banale... ma avete presente il Piccolo Principe e la volpe? Il concetto di addomesticare? Ogni giorno cercavo di fare un passo avanti, di sedermi un poco più vicino a lui, ma con molta delicatezza e soprattutto con rispetto dei suoi tempi e dei suoi spazi, senza invasioni o intrusioni.

Pensavo che quello che stavo facendo servisse per arrivare a instaurare una relazione medico-paziente di fiducia… come se il silenzio venisse da una mia mancanza nei suoi confronti, da una mia incapacità nel creare una classica relazione basata su uno scambio verbale.

Ci sono voluti anni per capire che nel silenzio non eravamo seduti distanti, che anche quella era una relazione vera.

E un bel giorno Giovanni ha deciso di raccontarmi la sua vita di malato come se io in quella vita non ci fossi mai stata.

Quello che sembrava un uomo che non stava accettando l’evidenza della malattia, che non si mischiava con gli altri pazienti, che non parlava con nessuno quasi fosse contagioso parlare e confrontarsi sulla propria esperienza, è diventato un’eruzione di riflessioni, emozioni e stati d’animo.

Giovanni in questi anni di malattia ha semplicemente e profondamente preso coscienza della morte che arriverà, o forse meglio della sua vita. Non possiamo forse elaborare e accettare quello che ancora non è avvenuto, ma possiamo guardarci indietro. Giovanni ha fatto questo. A un certo punto, specie durante le lunghe giornate di terapia in day hospital si è guardato indietro, ha esaminato il suo passato, ma solo perché accettando quel che è stato e vivendo pienamente il presente, si sente pronto per quel che verrà. E la relazione che all’inizio era costituita solo

102 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

da un silenzio, poi divenuto nel corso degli anni un lento e lungo dialogo, ora parla di morte.

E lui si chiede e mi chiede cosa si prova quando si muore... proprio in quell’istante di passaggio fra ciò che siamo e ciò che eravamo. Io non lo so. Ma lui non vuole nemmeno una risposta. Vuole solo dirmi che della sua morte lui non vuole essere la vittima.

E allora vai a casa con la testa frastornata, sapendo che è stata una giornata faticosa ma speciale, perché ti è stato regalato un sassolino, di quelli che, gettati sulla strada della vita, saranno un segnale del tuo passaggio se ti volti indietro a guardarli, ma che arricchiscono la tua esistenza anche se gettati perché saranno una guida per chi verrà dopo.

Cercare la “giusta distanza”

Luisa Fioretto*

Dilemmi e dubbi ci spingono sempre a interrogarci, a definire, valutare, assumere rischi legati alle nostre scelte terapeutiche. E fino a quando fronteggeremo questi dubbi e ci sentiremo morsi da essi, potremo sapere che la nostra professione, i nostri pazienti e il senso delle nostre esperienze non sono poi così scontati…

Anna, 34 anni, maestra di scuola elementare, di aspetto gentile, sposata da poco e desiderosa di avere dei bambini, senza genitori, determinata a vivere, a combattere, ad uscire dal suo cancro: carcinoma mammario con metastasi alle ossa e ai polmoni.

Era la prima visita di un giorno qualunque in ambulatorio, era l’inizio di una storia di malattia che sarebbe durata oltre sette anni.

Tante le linee di terapia e le scelte condivise: via via che la posta in gioco si abbassava, aumentava l’incertezza del risultato atteso. Più difficile era il bilancio e maggiore era il timore di fare troppo o troppo poco.

Era stato sì l’inizio di una storia di malattia ma anche, come solitamente accade, l’inizio di una relazione terapeutica.

Ma non è vero che i pazienti sono tutti uguali. Quando studiavo oncologia mi ero fatta delle idee chiare sulla malattia e come affrontarla. Nel corso degli anni mi sono sempre più resa conto che incontravo persone, esperienze uniche, irripetibili, nell’affrontare la malattia e un’esistenza nel suo insieme, un incontro tra una persona che vive e si confronta con il problema cancro e un’altra persona che ha scelto per professione di prendersene cura.

Rivedevo ogni volta in Anna il volto giovane, battagliero, leggevo nello sguardo la paura e il coraggio, gli occhi che ti scrutano alla ricerca di speranza, che chiedono qualche certezza per il futuro, per i propri progetti di vita. E ogni volta tutto era più difficile, una situazione che richiedeva un gioco di equilibrio tra umanizzazione ed efficacia della cura. E in più, quel volto di coraggio e paura non era certo l’unico della nostra giornata.

Dopo una fase di buona risposta alla terapia, Anna non si ripresenta * Direttore SOC Oncologia medica – Dipartimento Oncologico – Azienda Sanitaria di Firenze

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al controllo. Trascorrono diversi mesi e Anna ritorna all’ambulatorio insieme al marito, raggiante di felicità: sono stati in India e hanno preso in adozione due bambine, due sorelline di cui, orgogliosi, mi mostrano una foto. Me la donano ed esprimono il desiderio che io conosca le nuove arrivate nelle loro vite.

Non hanno parenti, sono soli, e io mi sono sentita custode e testimone di una loro ricerca di felicità, del loro diritto a ritornare alla vita al di fuori del nostro reparto…

Il controllo successivo rileva progressione di malattia, cui segue un’ulteriore linea di trattamento. L’atteggiamento di Anna, a fronte della progressiva riduzione di prospettive, è oltremodo interventista: l’idea di guadagno di anche pochi mesi o poche settimane la vive come l’ampliarsi del tempo di vita e di relazione con le sue bambine e suo marito.

Non ricordo quante altre linee di trattamento ha affrontato Anna. Ricordo invece molto bene che nel corso di una di queste ho chiesto

che mi sostituisse una collega, una mia collaboratrice, per illustrare e concordare con Anna la scelta terapeutica…

Avevo riconosciuto di avere dei dubbi e mi sono concessa di rimanerci. Dubbi personali e professionali nel cercare di fare ciò che era più utile per Anna. Perché forse un’etica profondamente vera, una vera deontologia di cui possiamo disporre come medici è quella di assumerci la responsabilità del dubbio, delle incertezze nelle quali operiamo costantemente.

Sentivo il bisogno di stabilire un giusto equilibrio tra lo sforzo di prolungare la vita di Anna e il peso impegnativo e crescente degli interventi terapeutici proposti. Sentivo troppo scarto tra la pesantezza delle cure e i risultati desiderati.

E mi si era rivelato un coinvolgimento troppo grande nei confronti degli obiettivi di Anna. Ho avvertito il bisogno di verificare le scelte terapeutiche con la collega, passare la mano medica a una collaboratrice con uno sguardo più limpido.

Con Anna il costo è stato un iniziale senso di abbandono che lei ha provato da parte mia.

Dopo un certo periodo, durante il quale mi è stato difficile reggere il sentimento di tradimento negli occhi di Anna, siamo riuscite nei nostri colloqui, che comunque continuavano, a dare un nuovo significato alle cure scelte e ai nostri rapporti. Un po’ come se in Anna, al senso di abbandono, fosse subentrata progressivamente la comprensione degli sforzi per mantenere un equilibrio tra le mie scelte mediche e il mio desiderio di appoggio a un’altra esistenza.

E siamo riuscite in questo, forse grazie al mantenimento di un’idea segreta e implicita: la possibilità del dialogo pur nelle avversità e nel guado tra i dilemmi.

Sono seguite ancora nuove scelte, ancora altre linee di terapia che abbiamo affrontato insieme, fino al graduale passaggio a cure palliative esclusive e alla morte di Anna, avvenuta dopo oltre sette anni da quel

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primo, apparentemente banale incontro in quel giorno qualunque di ambulatorio.

Sono trascorsi tanti anni, ma ancora ricordo gli occhi battaglieri di Anna e i dilemmi che mi si presentavano, mentre sono nel mio studio e rivolgo gli occhi alle sue bambine che dalla foto sempre mi guardano serene…

Un giorno...

Angela S. Ribecco*

Un giorno un anziano paziente mi disse: “Dottoressa, quando in televisione si parla di tumori si parla quasi solo di donne e di donne con tumore al seno… ma gli uomini, che come vede si ammalano anche loro, sembrano quasi una categoria inferiore, sono più soli…”.

I miei racconti, frammenti della mia vita lavorativa e personale, sono un omaggio a tante sofferenze pudiche, riservate, dignitose dei pazienti che ho incontrato e che incontrerò nel mio cammino. Eccoli.

Paolo è un musicista, un direttore d’orchestra. Quando si è scontrato con il suo tumore, ha affrontato la chirurgia e la chemioterapia con la determinazione di chi vuol lasciarsi modificare la vita il meno possibile. Negli intervalli tra un ciclo e l’altro di chemioterapia, riusciva a inserire i suoi concerti, non senza difficoltà, anche da parte mia, che cercavo di garantirgli una certa sicurezza anche in quei frangenti. Aiutarlo a gestire alcuni effetti collaterali, a riempire la sua agenda professionale nei momenti meno “rischiosi”, talora insistere perché rimandasse un viaggio all’estero, non era facile, ma lo abbiamo fatto comunque insieme, con reciproca fiducia. Non parlava molto, ma il suo volto era quasi sempre sorridente. Non lo vedevo dal giorno dell’ultima visita di follow-up, terminato da circa 2-3 anni. Si era di nuovo rivolto a noi per un vago sospetto diagnostico, fortunatamente rivelatosi poi infondato. Ha offerto la sua musica il giorno dell’inaugurazione dei nuovi locali della nostra struttura e, con non poca emozione, ci siamo salutati.

Luca ha poco più di 40 anni e si trova in un DH oncologico nel 2003, con una diagnosi di metastasi da neoplasia del colon. Il medico oncologo di riferimento sono io, che mi occupo prevalentemente di neoplasie gastrointestinali e che all’epoca ero quasi sua coetanea. Gli ho comunicato la diagnosi e la prognosi, nonché i limiti e le possibilità terapeutiche.

È insofferente nei confronti della sua malattia, dei trattamenti chemioterapici che si susseguono, dell’ansia precedente le rivalutazioni. A differenza di altri, non trova il suo equilibrio e mostra un lato di sé che non attira la simpatia, né il maternage delle infermiere. Quando * Direttore SOS Dipartimentale Oncologia Medica, Ospedale S. Giovanni di Dio Firenze

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arriva, c’è sempre da protestare per l’orario, il fastidio della terapia, la difficoltà di conciliare il lavoro e, generalmente, vengo subito chiamata perché me ne occupi direttamente; con le infermiere cerco di mediare, cercando di spiegare loro alcune sfumature che emergono durante i colloqui con il paziente. Il lavoro in Oncologia è pressante, i pazienti sono tanti, le oncologhe due, occasionalmente tre. Risento ancora della mia teorizzazione difensiva del “non coinvolgimento emotivo”, ma non riesco a provare alcun moto di allontanamento nei suoi confronti; c’è qualcosa dentro di lui, che la baldanza e, talora, l’arroganza, coprono accuratamente. Nel 2003 eravamo ancora all’era dei nuovi chemioterapici oxaliplatino e irinotecan, le sopravvivenze cominciavano a prolungarsi, ma l’attesa di vita non era certo compatibile con le progettualità di un giovane uomo: Luca ne è consapevole e, durante le visite, scruta e cerca di interpretare le espressioni del volto, chiede, cerca, è felice quando le notizie sono buone, si dispera al minimo segno di insuccesso, rimuove, ma talora si confida più razionalmente. Il tempo passa tra speranze, buoni risultati alternati a fallimenti e delusioni. L’ultima linea di terapia non ha dato risultati, le condizioni cliniche stanno peggiorando. Un giorno, nel corso di un trattamento di supporto somministrato in DH, Luca mi confida che, pur sapendo come sta andando la malattia, è felice: nei prossimi giorni non verrà perché si sposerà con la sua compagna. Me lo dice come se avesse una lunga vita davanti e ci tiene che io lo sappia. Non molti comprendono la mia soddisfazione e la partecipazione alla sua felicità. Morirà sereno un mese dopo a casa sua. Ancor oggi, nonostante il progredire incessante delle possibilità diagnostiche e terapeutiche e il prolungarsi della vita, quasi la metà di chi ne è affetto muore a causa del cancro: noi oncologi abbiamo imparato, accanto ai nostri pazienti, a valorizzare anche i piccoli successi, le piccole grandi gioie che in altre occasioni appaiono poco significative, perché la vita è tale fino all’ultimo istante.

Nicola e Luigi sono due ex compagni di scuola e di banco, che si sono persi di vista nella loro vita adulta. Hanno circa 55 anni, si ritrovano un giorno, con un certo imbarazzo, in Oncologia, assistiti dalla stessa oncologa, io. Sono due uomini profondamente diversi. Nicola parla della sua malattia in maniera precisa, fa domande, sembra gestire in prima persona il suo percorso. È spesso accompagnato dalla moglie, una donna dai tratti somatici spigolosi ma belli, silenziosa, seria e triste; scopro più tardi che, in passato, ho assistito sua madre, che lei non accompagnava mai. Hanno una figlia poco più che adolescente, hanno drammaticamente perso un figlio di 20 anni. Qualcuno della sua cerchia di conoscenze si è preoccupato di trovare una spiegazione causale alla malattia di Nicola nella perdita del figlio: Nicola non lo accetta, è arrabbiato, mi chiede se è vero, perché gli sembra “cattivo” e “colpevolizzante” ciò che gli è stato detto. Concordo con lui che spesso le parole dette senza troppo riflettere, possono essere poco credibili e fare molto male; lo tranquillizzo. Mi dichiara

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la sua fiducia nell’iter oncologico che gli indicherò: sa che comunque non guarirà, perché la sua malattia è metastatica, inoperabile e i farmaci a disposizione non sono molti in quel periodo. Mi chiede fin da subito di definire con lui, passo dopo passo, le modificazioni prognostiche, senza remore e con estrema sincerità: è un patto. In DH Nicola riscuote la stima e la simpatia di tutti, anzi è dotato di un certo carisma, del quale l’èquipe spesso mi parla, ha le sue idee riguardo ai farmaci antidolorifici, che teme e allontana, per cui adotta una tecnica respiratoria e di concentrazione che lo aiuta. A ogni rivalutazione o nuovo sintomo è solito chiedermi: “… Che dice dottoressa, mi faccio cucire le camicie nuove o solo i colletti?”; in questa sorta di codice, dopo varie e successive assicurazioni che può ordinare le camicie intere, un giorno, durante l’ultima visita di rivalutazione, devo rispondergli che questa volta bastano i colletti: il suo sguardo è diretto, ma è sereno e sorride, facendo anche una battuta sul colore dei miei capelli. La sua attesa di vita si è ormai molto accorciata, ha sospeso i trattamenti specifici ed esegue solo terapia sintomatica e di supporto. Un giorno, dal lettino su cui è sdraiato mi guarda, mi chiama in disparte e, quasi sottovoce, mi confida che i suoi familiari hanno chiesto un consulto esterno per un secondo parere. Per la prima volta i suoi occhi si riempiono di lacrime perché, mi confida, lui non vuole: mi è grato per come è stato seguito, è consapevole della sua situazione e del fatto che i pareri saranno concordi con quello della sua oncologa di riferimento della quale si fida. Non so dire cosa provo nel vedere un uomo piangere così, sicuramente mi fa molto male, non me lo aspettavo. Lo tranquillizzo riguardo al fatto che chiedere un secondo parere non mi offende affatto, e lo esorto ad accettare questa iniziativa dei familiari, per consentire loro di sentirsi utili e sereni nell’avere tentato il possibile. Glielo chiedo, quasi come un favore nei miei confronti, ma soprattutto come un regalo a sua moglie e a sua figlia. Mi sembra tranquillizzato e i giorni si susseguono in un lento ma continuo declino. Quando la sua vita si spegne, tutto il reparto ne resta scosso, le infermiere lo ricordano ancora con emozione. Gli anni sono passati, ma non dimentico il volto di un uomo riservato, che non teme di lasciare scorrere le sue lacrime davanti a me. Luigi è un paziente la cui prognosi fin dall’inizio è infausta: è consapevole ma molto chiuso, quasi scostante con l’ambiente circostante. Ha chiaro nella sua mente, e me lo esplicita, che non intende eseguire chemioterapie palliative. Negli ultimi mesi della sua vita si ricovera più volte in reparti medici per complicanze della malattia, talora con dimissioni volontarie. Un giorno vengo chiamata in consulenza e il responsabile del reparto mi dice: “Tu sai che questo paziente ha creato al reparto diversi problemi, pertanto non è gradito…”. D’improvviso mi rendo conto della differenza delle relazioni medico-paziente che si instaurano in percorsi cronici rispetto ai brevi intermezzi acuti, gestiti in sedi diverse; non nego che, pur conoscendo il carattere del paziente e comprendendo le difficoltà del collega, sono fortemente infastidita da queste parole, ma per favorire

La narrazione 109

la permanenza serena in reparto di Luigi, cerco di essere gentile e mi “limito” a sottolineare al collega che, nonostante comprenda la sua affermazione, tutti noi siamo medici per chiunque, simpatico o meno. Luigi, stabilizzato e dimesso, morirà dopo poco tempo a casa sua, come ha sempre voluto. Nicola e Luigi hanno cercato di incontrarsi il meno possibile.

Federico non se ne è mai andato, fa parte integrante delle mie giornate di lavoro, è l’unico paziente la cui sofferenza sia entrata nei miei sogni anche a distanza di anni. Il percorso di Federico non è cominciato con me, ma un giorno, in turno in DH, lo conosco e si avvia un dialogo che mi porterà alla presa in carico come oncologo di riferimento. Federico è un uomo che non raggiunge i 40 anni, ha una neoplasia addominale metastatica, scarsamente chemiosensibile; mi spiega che vuole esplorare qualsiasi possibilità terapeutica, perché ha perso sua moglie un anno prima per un melanoma ed è rimasto solo con una bambina di 3 anni. Federico è una persona molto seria, ma affronta con sorrisi e speranza tutte le vicissitudini che si susseguono. Quando entra in DH tutti lo accolgono con gioia, tutti i medici sono coinvolti profondamente. Quando, per una metastasi vertebrale con compressione midollare, dobbiamo decidere se farlo operare o no, data la diffusione di malattia, le opinioni sono difformi. Ci consultiamo con il radioterapista e il neurochirurgo: siamo perplessi riguardo ai trattamenti invasivi, ma Federico chiede il massimo e ci ha abituato a risultati che, sulla carta, non avremmo mai immaginato. Non accetta il rischio di rimanere legato a una carrozzina, vuol essere il più possibile autonomo per poter accudire la bambina; viene quindi inviato in neurochirurgia e viene effettuata una decompressione chirurgica. Riesce a rimettersi in piedi e a affrontare ulteriori cure. Dopo alcuni mesi le cure perdono la loro efficacia. Negli ultimi due mesi, gli edemi degli arti inferiori sono imponenti, ma lui viene comunque in DH con un cuscino colorato con le immagini di Paperino. Un giorno in cui non sono di turno, lo incrocio mentre una collega si sta occupando di lui; la collega lo conosce e, per sdrammatizzare la situazione, dice frasi spiritose e ride: Federico mi guarda sorridendo, ma dice a mo’ di battuta: “Ma pensi un po’ questa sua collega: io sto male e lei ride” e poi cerca di ridere anche lui, in una sorta di complicità. Non ce la fa più, ma chiede trattamenti. È difficile, ma è un mio compito parlargli, cercando di fargli capire che non è più possibile continuare; per me, che ai colleghi dò l’impressione di un minor coinvolgimento emotivo, non è mai stato così difficile… Durante un lungo colloquio, gli comunico che le cure già effettuate, le condizioni cliniche, l’estensione e l’evoluzione della malattia, non consentono più trattamenti antitumorali sicuri e efficaci, gli assicuro che non sarà abbandonato, organizzo l’assistenza a domicilio, ma un solo colloquio non è sufficiente. Ci vuol pensare, non riesco a essere rigida e concordo di aggiornare la situazione risentendoci telefonicamente, perché lui non ce la fa più a venire in ospedale. L’ultima telefonata in cui, con un filo

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di voce, mi chiede ancora: “Dottoressa che dice, va sempre peggio, ma io sono forte, ce la metto tutta… Certo mi sento male, ma allora non si fa più niente? Non devo più tornare?”. Mi risuona ancora nella mente e ogni tanto riecheggia nei miei sogni. Forse dentro di sé aveva ormai capito e accettato, se ne è andato con una certa serenità dopo qualche giorno, come ci ha raccontato personalmente una sua amica di famiglia che, dopo la morte della moglie, lo aveva seguito fino all’ultimo e alla quale aveva affidato la bambina.

Una storia... costruire insieme l’anamnesi “narrativa”

Ferdinando Garetto*

Ho conosciuto il sig. Paolo B. in modo molto “ordinario”: forse gli ho comunicato che il CVC era ben posizionato e che poteva andare a casa; successivamente ho avuto modo di sapere che non aveva iniziato la chemioterapia “adiuvante” per il tumore gastrico operato, per un imprevisto incremento delle transaminasi. È stato in quella fase di terapia di supporto che ci siamo incontrati con maggiore frequenza (la sua cortesia all’inizio mi faceva temere che nascondesse una profonda sofferenza interiore e una scarsa consapevolezza della problematica complessiva... Si sa che i pazienti un po’ fuori dagli “schemi” richiedono da parte nostra innanzitutto una saggia “astensione dal giudizio”!). Fino a quando, perdurando l’incremento dei valori e non avendo una chiara evidenza (ecografia e esami del sangue) di patologia in atto, sono stato io a comunicargli la decisione presa in èquipe di sospendere la prevista chemioterapia adiuvante e iniziare un programma di controlli, che prevedeva innanzitutto una TC e una successiva visita ambulatoriale. È stato lì che mi ha preso in contropiede: “Dottore, a naso, lei che cosa si aspetta? Che ci sia malattia o no?”. So bene che “a naso” non bisognerebbe mai rispondere, ma quel dialogo svoltosi guardandosi profondamente negli occhi, da cui traspariva una reale consapevolezza della serietà della sua malattia anche in prospettiva futura, mi ha fatto fare una cosa assai inconsueta: gli ho risposto francamente che “a naso” secondo me la TC sarebbe stata negativa, anche se non avrei potuto dire che cosa sarebbe accaduto nei successivi controlli. Inutile dire che mi sbagliavo. Mi rendo conto – ripensandoci – che quell’impressione “a naso” era l’impressione di una “salute complessiva” più interiore che fondata su un ragionamento clinico, di per sè impossibile a farsi. Comunque mi sbagliavo: pochi giorni dopo il sig. P. B. mi dice che ha fatto la TC e, per la fiducia che mi ha dimostrato nel precedente colloquio, mi sembra doveroso valutare il referto con lui prima della prevista visita ambulatoriale. E la TC “vede che c’è qualcosa”: una lesione secondaria al fegato e alcuni linfonodi

* Medico Cure Palliative (Fondazione FARO onlus) – S. C. Oncologia Medica Presidio Gradenigo, Torino. Direttore dott. Alessandro Comandone

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mediastinici. Anche questo colloquio è molto intenso. Mi sembra che lui comprenda molto bene che per me non è semplice comunicare l’esito (tanto più durante la frenetica attività mattutina del DH) e che faccia di tutto per rendere più agevole la mia parte. Soprattutto mi sembra che apprezzi il fatto che mi ricordi del parere “a naso” di qualche giorno prima e che gliene parli. La presenza della moglie mi sembra la garanzia di un supporto solido e di un clima di “verità” su cui si potrà davvero costruire un percorso nel tempo. Organizziamo una PET in modo che possa arrivare alla visita in ambulatorio con tutti i dati necessari per iniziare una chemioterapia, che, a questo punto, diventa non più “precauzionale” ma “terapeutica” (tecnicamente “di prima linea”). Viene scelto il regime terapeutico con schema secondo Folfox, che il sig. P. B. inizia e tollera molto bene, seguito dai colleghi oncologi del DH. Ci incrociamo e salutiamo piacevolmente in diverse occasioni, ma le buone condizioni e gli esami ematologici normalizzati fanno sì che non abbia in questa fase necessità di “incrociare il suo cammino con le mie terapie di supporto”. Poco prima di eseguire la TC di controllo dopo tre mesi di terapia mi ferma nel corridoio: “So che lei si interessa di medicina narrativa... Da parte mia c’è la massima disponibilità a collaborare... se le serve una cavia!”. Mi sembra uno spunto da non lasciar cadere: è evidente che dietro questa proposta c’è un fondamento non improvvisato. Così ci diamo un appuntamento. Il giorno previsto – riguardando la sua cartella clinica – vedo che ha appena fatto la TC, non ancora refertata: mi sembra giusto comunicargli per prima cosa che non ho ancora il referto, ma dal grande sorriso con cui mi dice che “non importa” mi pare di capire che la sua esigenza sia davvero un’altra. Ci mettiamo seduti e comincia un dialogo autentico, profondo: io gli racconto qualcosa delle nostre artigianali esperienze di medicina narrativa; lui ripercorre con me la sua storia ben antecedente la malattia, di studio, riflessione, interiorizzazione autentica dei temi psicologici e spirituali. Su tutto questo, la malattia... imprevista, imprevedibile. Mi fa vedere uno schema (di cui mi colpisce, innanzitutto, il fatto che il suo modo di schematizzare e di prendere appunti è molto simile al mio... credo che ci capiremo!). La mia proposta sarebbe quella di lavorare su una sorta di cartella narrativa, attraverso la quale percorrere insieme questo pezzo di cammino che ci ha fatto incontrare in ruoli diversi; per lui sarebbe più forte il desiderio di lavorare su gruppi di narrazione. Mi rendo conto, tra l’altro, che il suo background culturale è infinitamente superiore al mio. Tra i tanti punti di incontro, soprattutto una riflessione sul rapporto (e sulla differenza abissale) tra illusione e speranza... Non so dove ci porterà questa “avventura”: ci lasciamo con l’impegno di scrivere. Resta l’impressione di un momento molto profondo vissuto tra le mura della routine ospedaliera. Mi sembra che a lui abbia fatto bene: certamente ne ha fatto a me! Ci rivediamo qualche giorno dopo: ancora una volta, il referto di una TC da leggere in mezzo al corridoio. Ancora una volta riusciamo a ritagliare uno spazio (e

La narrazione 113

un tempo) di riservatezza... e ancora una volta, purtroppo, non ho buone notizie riguardo alla TC: la lesione epatica è peggiorata e sembra più evidente un interessamento del peritoneo. Oggi si parla di TC e della malattia, ma mi colpisce la sintonia con i temi del dialogo di qualche giorno prima. Dopo un certo sforzo, da parte mia, di ricostruire il trattamento oncologico fin qui svolto, ipotizzo qualche opzione di terapia (che poi sarà confermata nella discussione in èquipe: continueremo la chemioterapia con l’aggiunta del Bevacizumab, ora proponibile visto il miglioramento degli esami). Ci rivediamo a brevissimo per la conferma del programma terapeutico. Mi ha portato il suo “lavoro” di anamnesi narrativa, che custodisco come un “regalo” prezioso. Mi dice che lo hanno fatto molto riflettere le mie pagine su “medicina narrativa” e “cure palliative” (ancora una volta segno di una “presenza” che ci fa incontrare non per caso? Lo capiremo...). In questo clima, la domanda diretta: “Quanto mi resta da vivere?”. Un’altra porta che si apre, un’altra conferma che in un clima di verità si può condividere tutto, anche e soprattutto le nostre incertezze e la nostra impossibilità a rispondere (un conto sono le statistiche, un conto è il signore “vivo” e “olisticamente sano” con cui sto parlando in questo momento...). L’avventura continua, con la certezza (l’unica) che dove ci sono rapporti veri “da qualche parte si arriva sempre”. Domani si inizia la nuova chemioterapia. Ci troviamo “in corso d’opera” (la nuova chemioterapia prosegue bene e si è osservata una diminuzione dei marcatori), e proseguono anche i nostri incontri “narrativi” a cui si è aggiunta la dr.ssa S. (psiconcologa). L’orizzonte si amplia, i temi si approfondiscono. Ora il progetto è quello di esportare a beneficio di altri questa esperienza. Gli incontri del Giovedì mattina sono un’occasione per fare di volta in volta il punto, per “sognare” temi alti e per ritornare con i piedi per terra nella prospettiva della “gradualità” dei contenuti. P. B. ci sorprende ogni volta con le sue intuizioni che condivide con noi. Fiducia, speranza, amore... con “ubris” che aleggia! La giornata formativa del 22 Maggio per operatori sarà il prossimo passo. Non è la solita “testimonianza di paziente”: P. B. si prepara a lungo, elaborando una riflessione articolata e ragionata come “dono” agli operatori (medici, infermieri, OSS) che stanno lavorando con noi sul tema “Proteggere… e Proteggersi”. Due ore intense, in cui ripercorre il suo vissuto di malato, iniziando dall’impatto imprevisto con la malattia: “... Alle 9 del 15 Giugno dell’anno scorso, mentre stavo aspettando un camioncino che mi porti via gli sfalci del giardino, faccio per alzarmi dalla panchina su cui ero seduto, ma le gambe non mi reggono. Cado a terra come un sacco di patate. Non capisco cosa mi stia succedendo; non è un collasso, non è uno svenimento. Cos’è?! (...) Esco dall’ospedale 30 giorni dopo. Ciò che segue è la testimonianza di come ho vissuto quegli eventi e i mesi che sono seguiti per giungere all’oggi (...). Questa malattia mi ha insegnato ad apprezzare e saper vivere il ‘qui e ora’, con pregnante Fiducia, Speranza e Amore (...)”. La “storia” con noi prosegue sul filo della narrazioni attraverso

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risultati positivi e rapidi peggioramenti. Nel clima di verità si può percorrere tutto il cammino. I documenti che abbiamo raccolto in questo anno e mezzo sono preziosi per trasmettere un’“anamnesi narrativa” ai colleghi delle cure palliative domiciliari che lo prendono in carico. Altrimenti non potrebbero, di fronte alla sua fragilità nell’ultimo tratto, cogliere nell’interezza tutte le dimensioni della sua personalità e dei suoi percorsi. Quante volte, con tutta la buona volontà e desiderio di empatia, ci “mancano dei pezzi”, delle storie delle persone che incontriamo nell’ultima fase della vita? Quanto sarebbe importante raccogliere i racconti, le narrazioni appunto, per restituire l’interezza? L’ultima volta che lo vedo apre gli occhi per un breve istante: il suo sguardo è limpido e acuto come nei nostri primi incontri. Mi sorride e sussurra: “Sono pronto…”.

La comunicazione

Potere della TAC...

Ugo Folco*

Siamo alla fine degli anni ’90 (del secolo scorso). La TAC aveva ancora un certo fascino come esame riservato alle patologie più serie e dal cui risultato dipendevano decisioni importanti per l’oncologo e ancor più per il paziente.

Da anni seguivo un paziente per un NHL che, come tutti, aveva momenti di remissione e momenti di ripresa della malattia a livello linfonodale.

Il paziente, di nome e di fatto, era un uomo sulla sessantina di quelli, razza ormai estinta, che ti faceva piacere seguire: massima fiducia nel medico, grande rispetto per le scelte diagnostico-terapeutiche, e soprattutto (situazione ormai desueta) nessuna contestazione o rivalsa legale in caso di ricaduta o fallimento della terapia. Anzi da buon contadino che si affidava al sole, quando c’è, e alla pioggia, quando scende, mi incoraggiava nel seguire nuovi tentativi terapeutici sicuro, come sempre diceva, che quell’ultimo trattamento sarebbe stato quello giusto. E poi era lui a consolare la mia sconfitta con una frase che in dialetto ligure suonava all’incirca così: “Eppoi, sciu meghu, de quarcosa u se deive mui…” (e poi, signor dottore, di qualcosa si deve morire).

In quella frase era racchiusa una vera enciclopedia di filosofia di vita oltre che di rispetto. Infatti “Sciu” sta per signor, ma in Liguria non era dato a tutti, quasi fosse un epiteto costoso (e per un ligure…). Era riservato (come pure il termine “scignuria” [vostra signoria]) a pochi importanti personaggi tra i quali, purtroppo ormai è storia, il medico. Al primario poi si associava nel saluto “scignuria, sciu meghu”, che era il massimo.

Al nostro uomo-paziente propongo dunque una TAC di controllo (di PET non si sapeva ancora quasi nulla a quell’epoca) per valutare il risultato dell’ennesima terapia “di salvataggio”.

La TAC viene eseguita e al successivo controllo clinico posso garantire al nostro sereno paziente che i risultati c’erano ed erano tutti positivi, per fortuna.

Lui mi lascia parlare, educato come sempre ma sta sorridendo, me lo * già Drettore della S. C. di Oncologia Medica, Ospedale Santa Corona di Pietra Ligure – ASL2 Savonese – Savona

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ricordo come fosse oggi. Poi mi dice con fiera certezza, quasi mi mettesse a parte di una

confidenza molto riservata: “Io lo sapevo già, mentre facevo la TAC, ad ogni scatto del lettino sentivo, dentro, le ghiandole che si scioglievano. Grazie, sciu meghu, quella che mi ha scritto è stata proprio una bella cura. Potremmo farla una volta alla settimana?”

Non ricordo con esattezza cosa ho balbettato per risposta ma ricordo di aver imbastito qualcosa e di non aver deluso tanta sincerità e fiducia. Ricordo invece molto lucidamente che se ne andò sollevato e felice, fortemente convinto del successo terapeutico della TAC.

Ore 6

Un infermiere*

Ore 6:00. Il suono assordante della sveglia mi dice che inizia un nuovo giorno, sono molti i pensieri che affollano la mia mente, ma il “dlin dlin” del marcatempo, mi dà la possibilità di accantonare quello che è il quotidiano e cominciare una giornata piena di lavoro. Ogni giorno in mezzo alle medicine, alle flebo, ai letti e alle diagnosi che prevedono trattamenti non sempre semplici. Con le mie colleghe ho un rapporto stretto che riscalda e aiuta; in quelle giornate molto difficili che non so come affrontare e in cui non so come poter reagire e penso di non avere la forza sufficiente per offrire al meglio il mio aiuto, loro riescono a darmi il sorriso e l’energia per arrivare a fine giornata.

A volte sono molte le persone che entrano nella mia vita tutti i giorni: le trovo sedute in piccole poltroncine gialle ogni volta che apro la vetrata; tra un sorriso mesto e un buongiorno contenuto sento avvicinarsi diverse voci, ma un giorno di Aprile mi colpisce la voce di una paziente molto anziana che si presenta qui ormai da diversi anni e che oggi non mi aspettavo di vedere.

M. è una donna posata e sensibile, con un comportamento molto riservato, tipico delle persone anziane e molto religiose; con una voce un po’ tremolante mi chiede se può avere un appuntamento con il medico il prima possibile. Mi preoccupo perché M. è sempre stata attenta a non presentarsi fuori dagli orari prefissati, come se avesse sempre avuto il bisogno di sentire lontana la malattia nei giorni in cui non era obbligata; per questo motivo chiedo al medico che vedo in reparto se la può visitare appena possibile. Lui si avvicina subito alla paziente, aiutando lei e placando la mia preoccupazione.

Il giorno dopo, con mio grande sollievo, M. mi dirà, sempre con la voce un po’ tremolante, che le è stato prescritto un medicinale nuovo, utile a contenere alcuni sintomi fastidiosi. Non mi permetto di chiederle altro, anche se quel “fastidiosi” mi avrebbe incuriosito e mi avrebbe spinto a parlare un po’ di più con lei.

Sono davvero tante le persone che entrano nelle nostre vite e alcune di loro lasciano solchi profondi nei nostri cuori, non sempre colmabili, capaci di trasformare il senso delle cose e il verso delle giornate. * Oncologia di San Benedetto del Tronto. Direttore dott. Giorgio De Signoribus

Il pullover blu

Alice Aitini*, Enrico Aitini1

Sento bussare alla porta. Si affaccia Cinzia, la segretaria di reparto. La voce è gentile, garbata. Come quella di chi lavora con me, sapendo bene che “il capo” usa con tutti un tono pacato, affabile, amico… e lo pretende da tutti. Cinzia accompagna un paziente che aveva richiesto una mia visita. Mi alzo e allungo la mano stringendo la sua. Di lui mi colpiscono il pullover blu che indossa e, sulla spalla destra, uno zainetto del medesimo colore molto simile a quello che da anni mi è inseparabile amico. Questi due particolari generano in me un’irrazionale quanto piacevole sensazione. Due che si vestono nello stesso modo si capiscono al volo. Il colloquio sarà senz’altro tranquillo. Mi accorgo subito dopo che lo sguardo è tagliente, i lineamenti del volto tesi. Inizia a parlare con una voce istintivamente aggressiva faticosamente controllata: “Non c’è stato uno straccio di colloquio, non mi è stato mai comunicato nulla in quei giorni. Sono venuto a conoscenza della diagnosi attraverso la lettera di dimissioni dal reparto dove ero stato sottoposto a un intervento che, oltre ai polmoni, mi aveva toccato anche il cuore. Una cosa da niente, Le pare? Il chirurgo ha chiamato mia moglie e mia figlia e, senza mezzi termini, ha sentenziato che si trattava di una situazione gravissima e che probabilmente avrei avuto sì e no un mese di vita. E poi venite a raccontarmi tutte quelle belle favole sulla comunicazione ai pazienti… ma per piacere…”. Seduto di fronte a me, solo, la moglie e la figlia in sala d’attesa, allampanato, il volto scuro, nessuna voglia di arrendersi nonostante quello che sa, anche se un po’ vagamente. “Fino ad una settimana fa non avevo ancora capito, meglio, nessuno si era ancora degnato di spiegarmi cos’è esattamente la mia malattia… non mi bastava sapere che si tratta di un tumore e la situazione è molto grave, non mi bastava per niente…”. Mi sento molto a disagio, comprendo di avere difficoltà perfino a scegliere la postura, a delineare i tratti del volto. Questa giustificata aggressività non facilita l’avvio di una comunicazione utile e mi accorgo che l’esperienza pluridecennale nell’annunciare e rielaborare cattive notizie può venirmi solo parzialmente in aiuto. Cerco * Sociologia della Comunicazione1 già Direttore S. C. Oncologia Medica ed Ematologia, Ospedale Carlo Poma, Mantova

La comunicazione 121

di comprendere se si aspetti che inizi a completare le informazioni che gli sono state fornite alcuni giorni fa da un collega chirurgo circa le caratteristiche della malattia e, soprattutto, a prospettargli le proposte di cura o se preferisca manifestare ulteriormente la sua delusione, la sua irritazione. Accompagnando le parole con un cenno della mano e degli occhi gli assicuro che abbiamo tutto il tempo per parlarne e che sono disponibile ad ascoltarlo finché vuole. Questo sembra tranquillizzare un po’ Pietro: il tono della voce diviene meno duro. “Naturalmente, Lei comprende, questo mi ha molto ferito. Tornato a casa ne ho parlato con il mio medico di famiglia, che è venuto subito a trovarmi. In quel momento non sapevo ancora che mia moglie fosse a conoscenza del mio stato di salute e quindi mi ponevo il problema di come comunicarglielo. Cominciando a parlare con il mio medico in sua presenza mi sono accorto che lei sapeva già tutto, meglio, conosceva quelle drammatiche notizie sulla mia sopravvivenza. Il dottore mi ha consigliato di recarmi dal primario di chirurgia toracica, anzi mi ha fissato lui l’appuntamento. E questo è stato finalmente un colloquio vero: il primario, anzi il direttore, come sta scritto anche davanti alla Sua porta, mi ha spiegato con calma la mia situazione, è stato esauriente e anche molto più possibilista, più ottimista. E ha avuto ragione. Adesso sono qui da Lei: cosa possiamo e dobbiamo fare?”. Percepisco un clima più disteso: almeno questo risultato è stato raggiunto, considerando che parlare delle prospettive terapeutiche a un paziente affetto da un tumore al polmone in stadio avanzato non è entusiasmante, considerati i risultati che in genere si ottengono. Inizio comunque a rielaborare la cattiva notizia legata alla diagnosi e illustro le sperimentazioni cliniche che stiamo conducendo in quel periodo. La persona è colta e capisce perfettamente i concetti di terapia standard, di protocollo terapeutico, di ricerca clinica. Parliamo a lungo dei vari aspetti delle cure, dei possibili disagi che provocheranno, di come potranno modificare la sua vita di lavoro, quella relazionale, quella familiare. Mi chiede se può far entrare la figlia e la moglie. Acconsento senza problemi. Il colloquio si protrae ancora per venti minuti, alla fine dei quali Pietro accetta di entrare in una sperimentazione clinica controllata. Molto tempo dopo mi avrebbe rivelato che gli era stato necessario un certo tempo per comprendere che persona fossi dal momento che, fin dai primi incontri, tendenzialmente manifestavo un cauto ottimismo, ero insomma possibilista e anche molto confidenziale. E Pietro sentiva la necessità di stabilire con certezza che non fossi eccessivamente ottimista e che le cose da dire gliele dicessi fino in fondo. Aveva avuto parecchi dubbi in questo senso per un lungo periodo di tempo e anche alcune difficoltà a fare certi tipi di domanda, quali ad esempio le probabilità di sopravvivenza, la percentuale di risposta alla terapia. Ammetto di aver sempre cercato di spostare la visione su altri aspetti, anche perché ho sempre pensato che prospettando percentuali non puoi comunque comunicare certezze, per cui ho cercato di coinvolgere i pazienti molto più sul programma

122 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

terapeutico e su tutto ciò che ne poteva conseguirne, vantaggi e svantaggi. Forse Pietro percepì che il dato percentuale non mi sembrava così importante in una malattia metastatica o che semplicemente non amavo parlarne. Concluso il colloquio, alzandoci per accomiatarci, fissata la visita per l’inizio della cura, Pietro si avvicinò alla finestra e per alcuni secondi sembrò abbandonare lo sguardo, fino ad allora sempre attento e vivace, sulle conifere e sulle betulle che costeggiavano il mio studio e gli ambulatori del day hospital.

Erano gli ultimi giorni di un Settembre ancora caldo. “Si ricorda dottore quando le scuole iniziavano il primo di ottobre?”. Naturalmente ricordavo quella data che aveva segnato l’inizio di ogni mio anno scolastico, dall’asilo al liceo. Ma non fu quello il pensiero che mi tornò alla mente: l’emozione fu sentire Pietro che si era staccato per la prima volta, da quando era entrato nello studio, dalle immagini della malattia riprendendo possesso di un ricordo, forse anche banale, ma che faceva parte della sua vita. “Sono stato un po’ ribelle nei miei anni scolastici, tanto che, a sedici anni, i miei dovettero rinchiudermi in un collegio. Gli anni dell’università mi furono invece molto più congeniali: 110 e lode nella prima sessione del quarto anno”. Un sorriso stupito comparve sui volti di moglie e figlia. Uscirono dalla stanza ringraziandomi. Fu molto preciso nell’aderire a tutte le procedure burocratiche previste dallo studio clinico controllato. Quando ci restituì il consenso informato, chiese a me e a Francesca, che lo aveva preso direttamente in cura, se poteva scambiare due parole su quell’argomento. “Un insegnante di filosofia non può che formulare alcuni quesiti, forse solo osservazioni, su un argomento così delicato. Ho letto con attenzione tutti i fogli e credo di aver capito ogni cosa, anche se a volte certi termini potrebbero essere sostituiti da sinonimi di più facile comprensione. Mi sono chiesto: ma in questo reparto curano solo laureati? A parte la validità della firma apposta alla fine dei fogli contestualmente alla vostra, come fate a essere certi che la comprensione sia stata completa? E se l’informazione non è completa viene vanificato il concetto stesso di consenso informato”. Guardandoci negli occhi, Francesca e io annuimmo: era oggettivamente un problema. Mi tornarono alla mente i numerosi incontri cui avevo partecipato dove ognuno cercava di portare il suo contributo al problema. Ricordo la soluzione proposta da Sandro: far scrivere al paziente su un nuovo foglio quanto aveva compreso dalla lettura delle informazioni fornite per poi riparlarne insieme. Da anni cercavamo di far nostro un impegno specifico, oltre a quello di essere oncologi preparati e aggiornati: affrontare la soggettività del paziente, comprendere il suo mondo interiore, confrontarsi con il suo sentire, interessarsi a come percepisce e elabora le informazioni, esplorare il suo universo simbolico attraverso un rapporto comunicativo fatto di parole ma anche di ascolto, convinti che tutto questo faccia parte del processo terapeutico e assistenziale. Il tempo, tuttavia, rapportato al numero crescente dei pazienti, diveniva sempre più esiguo

La comunicazione 123

nonostante le ore eccedenti che ogni medico si ritrovava a fine mese e questo era un ostacolo pesante per la realizzazione di quanto ci eravamo prefissi. La terapia fu affrontata da Pietro con molta determinazione, gli effetti collaterali molto contenuti. Alla fine di tutto il programma potemmo constatare una regressione molto importante della malattia. Con i colleghi delle varie discipline discutemmo quale opzione poteva essere la migliore da offrire in quel momento al paziente, in particolare chirurgia o radioterapia. Optammo per la terapia radiante. Non fece commenti. Alzatosi si accostò alla finestra ad osservare gli alberi: era l’inizio di Febbraio e la giornata umida aveva ricoperto di gocce ancora fredde i bianchi tronchi delle betulle. “Finirò la terapia radiante quando compariranno le prime foglie… per quei giorni vorrei riprendere la mia vita di prima. Vorrei anche sperare di trovare un ambiente accogliente e soprattutto un po’ più tranquillo del vostro. Certi giorni, durante la terapia, ho avuto la sensazione di essere in una piazza più che in un day hospital, tanti erano i pazienti e il personale tutto che, va dato atto, si prodiga senza risparmiarsi un solo secondo”. Passò quella primavera e ne sono trascorse altre tre: Pietro ha riacquistato la sua vita. Durante una recente visita di controllo mi ha confidato che nei giorni della malattia aveva avuto spesso reazioni d’allarme, di ansia e paura e questo aveva prodotto un senso di diffidenza nei confronti di chi lo stava curando. Aveva reagito cercando di controllare tutto, occuparsi di tutto, saperne di tutto, ponendo infinite domande sui più svariati aspetti della sua malattia, accorgendosi però in tempo che quello era un atteggiamento che non lo avrebbe portato da nessuna parte se non a una sorta di schizofrenia. Da quel momento aveva deciso di fidarsi, partendo dall’assioma che chi lo stava seguendo sapesse perfettamente qual’era la scelta migliore per risolvere i suoi problemi. Eppure ogni volta, da allora, in tutti gli incontri, a ogni controllo, manifestò, con sfumature diverse, il suo disappunto sulle informazioni fornite a moglie e figlia prima che lui ne fosse a conoscenza. Legalmente, oggettivamente, nessuno può negare, confutare questo diritto di una persona malata. Tuttavia tenere ben presente questi concetti non mi ha mai portato certezze, rinnovando, se mai ce ne fosse stato bisogno, la consapevolezza che nessuna vita è ripetibile così come nessun paziente è paragonabile a un altro, mantenendo ognuno il diritto d una comunicazione personalizzata con tutte le possibili, infinite variabili che rendono diversa una persona dall’altra.

Sono le ore del primo pomeriggio di un giorno di Maggio. Tornerò verso sera in reparto per i colloqui con i familiari (dopo quelli con i pazienti, naturalmente). Salgo sulla bicicletta, zaino Napapijri blu scuro, gli stessi Ray-Ban di quando ero giovane pronto a percorrere i viali che mi separano da casa.

Con l’arma in pugno

Alberto Desogus*

Entra nel mio studio una persona già avanti negli anni, di età non facilmente definibile, circa 75-80 anni. Portamento fiero, fisico asciutto, faccia scavata, severa, senza occhiali, abbigliamento austero di buona qualità, giacca grigia doppiopetto di buon taglio, mani ossute ben curate; la prima impressione è quella di una persona di altri tempi. Resta sull’uscio sino a quando non lo invito a entrare e accomodarsi. Stringe tra le mani un’elegante borsa di cuoio dalla quale estrae la fotocopia di una cartella clinica che mi porge. “Chiedo scusa per non essermi fatto annunciare con maggiore anticipo e per l’insistenza con la segretaria, non è mia abitudine cercare di impormi, ma spero che mi capisca: ho problemi importanti e mi hanno indirizzato a lei”, con tono deciso ma non arrogante, soggetto abituato a dare ordini piuttosto che riceverli. “Dottore, in primo luogo le chiedo formalmente di informarmi chiaramente su quanto contenuto nella documentazione che vedrà; qualunque, ribadisco, qualunque sia la sua opinione in merito la invito a esprimerla senza nascondere alcunché. Voglio la verità qualunque essa sia. Ho rivolto identica richiesta al suo collega chirurgo che, devo riconoscerlo, è stato chiarissimo ed esaustivo”. Capisco che si tratta di un soggetto cui è stata posta una diagnosi di tumore e che freme per sapere qualcosa sulla sua sorte. Infatti: qualche settimana prima ha subìto un intervento chirurgico per neoplasia addominale. La stadiazione patologica evidenzia un tumore aggressivo con fattori di rischio per recidiva locale o per diffusione a distanza. Il chirurgo ha compiuto un buon lavoro e ha effettuato un intervento con intento radicale. Durante la lettura dei dati cerco di non esprimere alcuna emozione con i tratti del viso e mi rendo conto che sono scrutato attentamente dal mio interlocutore. “Le hanno asportato una neoplasia; il chirurgo è stato professionalmente ineccepibile e dunque in questo momento lei è libero clinicamente da malattia, ma... il rischio che la neoplasia si ripresenti, localmente o a distanza, è relativamente elevato, da un punto di vista statistico, si intende”. “C’è qualche modo per ridurre o annullare il rischio? Mi sembra di avere letto qualcosa…?” * già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica I Ospedale Oncologico Regionale “A. Businco”, Cagliari

La comunicazione 125

Dico: “In effetti qualcosa ci sarebbe… la chemioterapia, dopo l’intervento chirurgico, può ridurre di qualche punto percentuale il rischio di ripresa della neoplasia; i dati in letteratura sono controversi e il vantaggio, rispetto ai rischi connessi agli effetti collaterali della chemioterapia, non è valutato conveniente da tutti; ci sarebbero in corso dei trials per meglio definire quale sia la chemioterapia più efficace e quali i gruppi di pazienti che potrebbero avere i maggiori vantaggi, ma… ci sarebbe l’ostacolo della sua età che non lo rende eleggibile per i trials, almeno per quelli a me noti”. Per quanto riguarda le terapie standard in uso, spiego le percentuali possibili, i metodi del follow-up, gli effetti della chemioterapia soprattutto in rapporto all’età avanzata; il soggetto ha una buona cultura di base e sembra capire, le domande sono pertinenti. “Dovrei dunque attendere la mia sorte confidando solo sulle probabilità, non elevate, che il cancro non si ripresenti, senza potere fare nulla per influenzare gli eventi?”. Soggiunge. “Praticamente è così – dico – ma un corretto programma di controlli, scrupolosamente seguito, può permetterci di intervenire tempestivamente”. Momento di pausa, silenzio, spero che il telefono sulla mia scrivania non suoni. Il mio interlocutore è una statua. Infine, guardandomi negli occhi: “Dottore, ho capito, lei è stato chiarissimo. Mi creda, non è la prima volta nella mia vita che mi trovo in situazioni che comportano il rischio concreto di morire; so benissimo che con la morte io potrò vincere tante battaglie ma infine perderò la guerra; pertanto la mia decisione è la seguente: le chiedo di sottopormi alla chemioterapia. Accetto tutti i rischi connessi e firmerò tutti i consensi necessari, se è destino che perda questa battaglia voglio morire lottando, con l’arma in pugno, anche se la mia arma è inferiore a quelle del nemico; voglio morire sulle barricate, dottore, affrontando il nemico in faccia, senza attendere passivamente i verdetti periodici scaturiti dai vostri controlli”. L’ultima parte della sua risposta è detta con tono che non prevede repliche, occhi gelidi, voce ferma con un lieve ma ben percepibile incremento del tono della voce e leggera enfasi. Per un attimo rimango immobile, un po’ sorpreso; poi mi riprendo e indico il percorso che da quel momento avrà inizio. Le successive indagini mostrano un fisico integro biologicamente, assai più giovane dell’età anagrafica. Il caso è portato e discusso nella riunione periodica sui casi clinici e infine il soggetto è sottoposto a chemioterapia che è ben tollerata, con modesti effetti collaterali. Ho cercato nei mesi successivi al primo colloquio di capire meglio quella persona che presentava dei lati di personalità inusuali. Il dialogo verbale, quando possibile, è stato sempre caratterizzato dalla massima cortesia e comportamento formale. Credo di avere intuito che fosse arrivato in Sardegna a seguito di una serie di esperienze di vita piuttosto intense, probabilmente dopo aver partecipato a tragici avvenimenti verificatisi in Italia durante e subito dopo la guerra. Ho anche intuito che aveva dovuto prendere delle decisioni molto difficili e che, infine, si sia allontanato da quel teatro di avvenimenti scegliendo la mia isola alla ricerca di un luogo

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dove trovare più agevolmente la pace dello spirito. Ma non ho avuto da lui mai il racconto completo di un episodio, mai un dettaglio, mai un giudizio su persone. Mi sono sempre chiesto quanto la mia fantasia abbia contribuito a tracciare i suoi contorni. Ho discusso con lui passo per passo l’evoluzione della situazione clinica e si è sempre mostrato interessato a conoscerne tutti i particolari con la richiesta costante che non gli fossero nascosti o edulcorati tutti i dati, anche quelli meno piacevoli. È sempre rimasta una persona enigmatica che ha affrontato la situazione con orgoglio, quasi distacco, talvolta con una punta appena dissimulata di rabbia e comunque con quell’alterigia di chi “tiene la barra in mano”, sfidando persino gli dei. Ho avuto poi notizia che il paziente è deceduto improvvisamente, per un evento cerebrale vascolare acuto, diversi anni dopo senza segni di ripresa di tumore.

Non so se questa fine sia stata il “morire sulle barricate con l’arma in pugno”, come auspicato dal personaggio; stranamente l’evento vascolare somigliava a una pallottola che colpisce improvvisamente nel pieno del combattimento. Tante, tante volte in casi simili ho ricevuto le risposte più varie: la serena constatazione che la vita ha un termine, l’angoscia di “sistemare le cose”, “come farà la mia famiglia”, “perché proprio a me?”, “quanto tempo mi rimane?”. Tante volte le persone, in situazioni simili, mi hanno manifestato la volontà di vivere questa parte della vita, forse finale, vicino ai loro familiari, magari cercando di colmare un debito di “tempo dedicato” accumulatosi negli anni, accettando la sorte. Ma questo episodio mi ha riproposto, ancora una volta, la stessa domanda, ripresentandomi l’amletico quesito: se sia più nobile nella mente subire gli strali dell’oltraggiosa fortuna o invece armarsi, affrontare un mare di triboli e, combattendo, porre loro fine. Ma, in fondo, soprattutto come oncologi, anche se sospettiamo quale sia il finale più probabile, tuttavia non sempre certo, della storia.

Ma questo episodio mi ha riproposto, ancora una volta, la stessa domanda, ripresentandomi l’amletico quesito se sia più nobile subire gli strali dell’avversa fortuna o invece armarsi, affrontare un mare di triboli e combattendo disperderli; anche se, in fondo, soprattutto come oncologi, sospettiamo quale sia il finale più probabile, tuttavia non sempre certo, della storia .

In altri termini, prima della chiusura del sipario, come interpretare le probabili ultime scene?

Mai più

Alberto Scanni*

Ci eravamo resi conto, col passare degli anni, che dovevamo affrontare anche i problemi psicologici dei nostri malati. Avevamo cominciato con i gruppi Balint dove, con un lavoro collettivo e sotto la guida di uno psicologo, approfondivamo i vari problemi; successivamente avevamo anche trovato i soldi per dare una borsa di studio a una psicologa che ci avrebbe aiutato nella quotidianità. L’oncologo era comunque sempre il referente del paziente e solo in casi particolari faceva intervenire lo specialista e/o chiedeva consigli su come doveva comportarsi. Avevamo ricoverato una giovane insegnante di ginnastica, colpita nella sua fisicità da un osteosarcoma al bacino. La forma, già operata, era recidivata con metastasi diffuse. Era una bellissima ragazza, piena di vita, conscia, sì e no, della gravità della sua situazione. I dolori erano controllati, si era inserita bene e aveva con tutti noi un buon rapporto. In una delle riunioni periodiche di reparto, nacque una discussione, sollecitata dalla psicologa, sul comunicare o meno la gravità della situazione e della imminente fine. La discussione, sofferta, fu animata, il gruppo era in crisi: il togliere speranza poteva essere deleterio; ero molto perplesso. La psicologa però insisteva, citava gli anglosassoni che dicono sempre comunque la verità “secca” e documentava il tutto con lavori scientifici. Scegliemmo questa strada. Il compito di parlare con l’ammalata toccava a me. Non mi ero mai sottratto alle mie responsabilità: nello specifico era una incombenza, troppo importante, per essere demandata. Chiamai la ragazza, con me c’era la psicologa. Parlai pacatamente, con dolcezza, misurando le parole, ma con chiarezza. Il messaggio che doveva passare era: “Siamo in una situazione critica, ma noi siamo qui per aiutarti e starti vicino fino alla fine”. La ragazza mi abbracciò e si accomiatò con le lacrime agli occhi. Mi dissero che in reparto aveva pianto molto. Anche se le avevo dichiarato la nostra amicizia e di non lasciarla mai sola, mi resi conto che le avevo tolto ogni speranza! Quando facevo il giro, faticavo a guardarla negli occhi, mi pentivo di aver dato retta alla psicologa e mi vergognavo di aver scelto la

* già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica A. O. Fatebenefratelli e Oftalmico, Milano

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strada della cruda verità. Dopo alcuni giorni morì. Anche se gli anglosassoni dicono di fare come avevo fatto, non mi

comporterò mai più in questo modo: bisogna sempre offrire speranza, un miracolo può sempre accadere. A distanza di anni, quando penso a questo episodio avverto ancora un senso di colpa.

Consulenze Online

M. D’Aprile

A partire dal 2002, per qualche anno, ho curato personalmente un servizio di consulenza gratuita oncologica online, nell’ambito delle offerte di un sito (www.oncologialatina.it), ormai non più attivo.

È stata un’esperienza unica che mi ha permesso, in centinaia di occasioni, di entrare in contatto diretto e intimo con persone – uomini e donne, sempre sconosciute, appartenenti alle più varie condizioni economiche, sociali, culturali e spirituali – che, però, sperimentando l’evento cancro sulla propria pelle o su quella dei propri cari, erano tutte assolutamente bisognose e alla ricerca di un punto di riferimento, della possibilità di uno sfogo, di un’autentica comunicazione.

Svolgendo questo servizio ho avuto la chiara sensazione che, nella malattia, quello che nel medico si cerca praticamente sempre, è, oltre la soluzione tecnica più appropriata, il riferimento umano di chi sa attrarre la fiducia del paziente e che riesce a porsi accanto a lui in atteggiamento di disponibilità e di vero ascolto.

Spesso è stato evidente che chi ricorreva al sito per una consulenza – pur essendo seguito da strutture e colleghi di chiara e riconosciuta competenza tecnico-professionale – aveva essenzialmente bisogno di conforto, comprensione o, anche, di una spiegazione di situazioni cliniche critiche implementata e adattata sulle proprie effettive capacità recettive di quel momento.

La stessa “verità” era sì richiesta talvolta con veemenza e apparente spudoratezza, ma sempre accompagnata dal desiderio implicito di non vedersi mai negata la speranza, speranza come segno di appartenenza, ancora, al “mondo dei vivi”.

Molte sono state, inoltre, le occasioni in cui è emerso chiaramente il contrasto, vissuto in maniera dolorosa e, a mio giudizio, gratuita, tra una medicina intesa come professione responsabile e integrale, capace di assumere anche il peso di comunicazioni e decisioni difficili, e la cosiddetta medicina difensiva in senso lato, fatta di esami diagnostici invasivi, di

* Consulente Aziendale Policlinico Campus Biomedico di Roma, già Direttore Struttura Complessa di Oncologia Medica Ospedale S. Maria Goretti di Latina

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terapie antineoplastiche in condizioni preterminali di malattia.Concludo segnalando che questa esperienza mi ha dimostrato che

anche nel mondo della rete – quindi senza il contatto diretto e personale – è possibile vivere la professione del medico in piena aderenza a quanto i pazienti si attendono da noi.

Riporto, senza correzioni di alcun tipo, solo tre conversazioni avvenute via e-mail.

Mariagrazia

Domanda. Carissimo dottor D’Aprile vorrei tanto chiederle una cortesia. Sono una ragazza di 23 anni e a 12 anni mi è stata diagnosticata la leucemia linfoblastica acuta. Ora sono anni che sono perfettamente guarita e sto bene. La cosa che però mi preoccupa è: un domani che avrò dei bambini, per loro c’è una maggiore predisposizione a contrarre la mia stessa malattia o è irrilevante? La prego mi aiuti, non so più dove cercare informazioni e su internet danno sempre risposte mai coerenti, a volte dicono che è ereditario, a volte che invece non centra assolutamente. Vorrei tanto sapere il suo parere. La ringrazio infinitamente. Aspetto con ansia una sua risposta. Saluti... Mariagrazia.

Risposta. Gent. ma Sig. na Mariagraziastia tranquillauna cosa è l’acquisizione che alcune alterazioni genetiche possono sottintendere varie forme di leucemia, un’altra cosa è la possibilità che tali alterazioni si trasmettano ereditariamente. La leucemia linfoblastica acuta non è tra le neoplasie oncoematologiche con conosciute possibilità di trasmissione ereditaria della malattia. Auguri per un felice matrimonioe auguri di figli....... maschi e femmineModesto D’Aprile

Domenico

Domanda. Spett. le sono uno zio di un bambina oramai in fin di vita.la leucemia può essere una predisposizione genetica?... Gli è stato detto che questa bambina se non oggi, fra qualche anno l’avrebbe presa...Altra cosa, han detto, che la leucemia e la meningite è dipeso dalla monucleosi.Vi sembra che sia possibile ?salutiNico

La comunicazione 131

Risposta. le domande non sono corredate da dati precisisi affidi ai curanti, che hanno le informazioni completeauguriModesto D’Aprile

Domanda. la bambina è stata ricoverata per leucemia lla... poi è sopraggiunta una meningite e un arresto respiratorio che l’ha portato al coma da dove versa da 4/5giorni. . Le condizioni cerebrali sono disperate, passa solo un filo di elettricità e i polmoni non funzionanti senza macchina... Mi chiedo, devo stare con le mani in mano e aspettare che muoia questa bambina visto che i medici non hanno dato speranza... o posso rivolgermi a qualcuno per fare un estremo tentativo?... Se si può ancora salvare cosa posso fare?... Dati non ne ho... Posso dire che la leucemia per ora è controllata, la meningite sembra passata... il danno è che la bambina è andata in arresto respiratorio e non arrivando ossigeno per qualche secondo al cervello... oggi è in fin di vita. Dalla Vostra esperienza come ci si deve comportare?... é mai uscito qualcuno da situazione disperata tipo questa?saluti

Risposta. la situazione è veramente gravema non conviene spostare la paziente dall’ambiente rianimatorio in cui è ricoveratase è una persona che crede, affidi sua nipote alla Misericordia di Dio PadreModesto D’Aprile

Domanda. Gentile Dottore,non avendo né la cartella clinica né la diagnosi precisa... vi posso dire quanto mi raccontano... ieri hanno rifatto l’encefalogramma con risultato identico a quello del 1 gennaio... quasi piatto... c’è solo un filo di corrente. la meningite sembra ormai guarita... il fatto è che almeno a quanto mi è stato detto non per voce medica ma dagli interessati (che non riesco a capire perché non si fanno avere 3 righe di diagnosi) che la menigite ha attaccato i neuroni... questi non rispondono e pertanto come otturati non riescono a far funzionare il cervello e a dare gli impulsi hai polmoni per poter respirare da sola... I medici lo hanno fatto morire dal 3 Gennaio... dicono che non ce speranza...La bimba ha 2 anni. Non si può intervenire... ?Se questa sfortuna bambina continua a lottare.. visto che ha

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la leucemia. . si potrebbe curarla anche se sta in coma?.. cioè si potrebbe fare la chemio?. . Ad oggi i dati del sangue e degli altri organismi sono normali. . non allarmanti. . Il problema è il cervello dovuto all’arresto respiratoriosaluti

Risposta. il problema neurologico è il predominantenon si può trattare in queste condizioni la leucemia, peraltro non in fase attivai colleghi stanno facendo tutto il possibile... auguriModesto D’Aprile

Domanda. Gentile dottore, non si puo fare + niente secondo voi?Non ce neanche possibilità che si risveglia la bambina?. . . Attualmente è sempre in coma, per i medici sarebbe morta 10giorni fa. . Purtroppo non so, se dove si trova è un centro adatto per lei, perché non è in una rianimazione di un ospedale pediatrico. . La leucemia per ora è ferma. . ma se avanza, si potrebbe fare la chemio, anche se è in coma?. . è entrata in coma in seguito a un arresto respiratorio. La bimba sfortunata è ricoverata da 1 mese per leucemia. . ma in seguito è stata colpita da meningite e successivamente un fatale arresto respiratorio. Da alcune ricerche su internet, ho avuto notizie di un centro iperbarico americano Ocean Therapy Center. . vi riporto di cosa si tratta:L’Ossigeno Terapia Iperbarica (OTI) è una terapia non invasiva, incruenta, non locale, basata sulla respirazione di ossigeno puro al 100% a pressioni superiori a quella atmosferica attuata con l’utilizzo di camere iperbariche pressurizzate ad aria…. Potrebbe essere utile per la bambina per farla uscire dal coma, per almeno aiutarla?A questo indirizzo internet ci sono informazioni + precisehttp://www. studio-pinaffo. it/ossigenoterapia-iperbarica. htmlsaluti

Risposta. Sig. Nicose il coma, come pare, è irreversibile non vedo alcuna possibilità, anche in considerazione della malattia leucemica di fondo, di applicare la OTI, che presuppone tessuti di fatto non lesionati in maniera, appunto, irreversibileun abbraccio alla piccolaModesto D’Aprile

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Domanda. Professore, il coma è grave ma non irreversibile. . l’elettroencefalogramma non è completamente piatto. . rispetto all’inizio del ricovero, 2 giorni fa ha iniziato (non so come dirvi in termini corretti) a fare i bisogni, non so se è qualcosa di buono o utile

Risposta. monitorizziamo la situazione e mi tenga informatoModesto D’Aprile

Domanda. Gentile Professore,purtroppo la bambina dopo 25 giorni di rianimazione è volata in cielo. Spero che in cielo, tra gli angeli sia più fortunata. Vi ringrazio per avermi risposto alle emailsalutiDomenico

Risposta. è certo... Modesto D’Aprile

Alberto

Domanda. Gentile DottoreLe scrivo per tranquillizzare mia madre, l’otorino le ha diagnosticato: Quadro endoscopico da reflusso gastroesofageo, micronodulo 1|2 anteriore della corda vocale non poliposo nasale. La parola micronodulo la fatta andare in agitazione, é una cosa Grave? Stiamo parlando di un eventuale tumore?In attesa di una sua gentile risposta la ringrazio anticipatamente per la sua gentilezza: Cordiali saluti alberto

Risposta. gent. mo Sig. Albertola dizione riportata non è precisa in quanto alla sede (corda vocale o naso?)non vedo, comunque, ragioni di preoccupazione viste le dimensionila cosa va solo seguita nel tempoModesto D’Aprile

Domanda. Gentilissimo dott. d’Aprileci tenevo a ringraziarla per la solerzia con cui ha risposto, e mi scuso per la mia inesattezza il micronodulo è sulla corda vocale, ho fatto un pò di pasticcio nel decifrare la scrittura del suo collega. Mi ha stupito la sua gentilezza verso un estraneo che chiedeva una consulenza, per di più gratuita e francamente non mi aspettavo una risposta.

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Siamo bombardati quotidianamente da televisione e giornali con cattive notizie, che abbiamo perso la fiducia verso il prossimo, ma se questa società continua ad andar avanti è perché ci sono ancora persone per bene e di alto livello morale come lei mi ha dimostrato, la sua non è stata semplicemente una risposta ma un gesto di fiducia in questa società. Con tutta la stima e cordialità che mi sono concesse Alberto

La verità e la malattia dell’oncologo

A’ siringa

Gianfranco Porcile*

Tutti gli volevano bene: era simpatico, intelligente e molto educato con chiunque gli rivolgesse la parola. Era un bambino di 12 anni: sicuramente andava bene a scuola, lo si evinceva da come si esprimeva, anche se il dialetto napoletano stretto, che contraddistingueva la sua parlata, non era molto comprensibile per il personale dell’ospedale in cui era ricoverato. Il suo nome era Pellegrino.

Tutti lo odiavano e lo detestavano: questo succedeva soltanto quando lui, Pellegrino, era in crisi di astinenza e urlava per tutto il reparto chiedendo (si fa per dire) la sua nuova dose di morfina. I dolori ossei che aveva, si sommavano alla sofferenza per la mancanza di oppiacei; a quel punto gridava in continuazione e senza alcun ritegno: “‘A Siringa!”. La siringa richiesta in napoletano era l’iniezione di morfina, unico antidoto ai suoi dolori. Al giorno d’oggi la somministrazione di derivati dell’oppio a scopo antidolorifico può giovarsi della forma per bocca, che calma il dolore senza creare dipendenza e assuefazione. Tanti anni fa non era così: esisteva solo la morfina in iniezioni, che non poteva essere somministrata per più di un certo numero di volte al giorno. Quando Pellegrino urlava quella sua richiesta, la sua voce assumeva un connotato di feroce belluinità. Quell’urlo attraversava le orecchie di tutti, ricoverati e operatori sanitari, e rimbombava nel cervello: sembrava di impazzire. Non si poteva fare altro che aspettare: aspettare che passasse il tempo necessario tra una dose e l’altra. Di solito l’intervallo necessario era di almeno 4 ore: talvolta le urla con quell’unica parola strozzata (“‘ASiringa!”) potevano durare un’ora, qualche volta anche di più. Poi, una volta eseguita la terapia, Pellegrino ritornava il bambino (“‘o guaglione” visti i 12 anni) affabile e incantevole che tutti conoscevano. Una specie di Dott. Jeckill e Mr. Hide: una situazione di cui nessuno, ovviamente, aveva la responsabilità morale. Il problema era acuito dal fatto che Pellegrino, nonostante la sua giovane età, era ricoverato in un reparto per adulti. Doveva essere sottoposto a trapianto di midollo osseo; la diagnosi era di quelle che fanno tremare: leucemia acuta (“fulminante” secondo la definizione della

* già Direttore di Struttura Complessa di Oncologia Medica Ospedali di Alba e Bra, Cuneo

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gente comune). Il ricovero d’urgenza non aveva consentito di trovargli, almeno per il momento, una sistemazione degna di una persona, bambino per di più: il suo letto era stato aggiunto urgentemente, in più rispetto alla dotazione standard, e posizionato, provvisoriamente, in corridoio. Anche per questo motivo le sue urla erano sentite così distintamente e violentemente da tutti quelli dell’Ematologia.

C’era una stanzetta che, di norma, era stata adibita a sala d’aspetto per i familiari dei ricoverati: quando un ricoverato era moribondo, questa era la camera in cui veniva trasferito per consentirgli una maggior riservatezza in quel momento difficile e per evitare agli altri degenti uno spettacolo poco edificante, nel quale avrebbero potuto facilmente riconoscersi. Quando era libera, cioè quando era possibile, Pellegrino veniva trasferito in quella stanzetta: per fortuna lui non sapeva per quale funzione venisse impiegata negli altri momenti.

Sentire le sue lancinanti grida di dolore era, come abbiamo detto, una sofferenza tremenda per tutti quelli che erano costretti ad ascoltare. Quel grido trapanava i timpani, lacerava i cervelli. Ma la cosa ancor più insopportabile era sentire i lamenti di un bambino che letteralmente “moriva” di dolore, e non poter far nulla: sentirsi assolutamente impotenti di fronte a quello strazio. E quelli che soffrivano di più erano gli infermieri e i medici, che si colpevolizzavano per una situazione di cui erano innocenti.

Pellegrino era arrivato in quell’ospedale del Nord da poco tempo: viveva in un paese vicino a Napoli, studiava e prendeva ottimi voti, faceva sport, insomma le cose di tutti i ragazzi della sua età. Poi un giorno, all’improvviso, il sangue dal naso, l’anemia, le analisi, la diagnosi di leucemia, l’urgenza di una chemioterapia e di un trapianto, il ricovero in tempi brevissimi (“Non c’è tempo da perdere!” dicevano i medici). E adesso era lì, da solo, preoccupato, impaurito, terrorizzato, per quello che gli avevano detto, e, ancor più, per quello che… non gli avevano detto!

Per fortuna la mamma lo aveva accompagnato in quella nuova città e veniva a trovarlo due volte al giorno, praticamente per tutto il tempo che le era consentito dai regolamenti dell’ospedale: ma il personale era molto indulgente con lei e le chiedevano di andare via soltanto quando proprio iniziavano le attività medico-infermieristiche. Quella compagnia era per Pellegrino la panacea di tutti i mali: la mamma lo confortava e gli dava coraggio. Ne aveva veramente bisogno, anche se dobbiamo riconoscere che in reparto lo trattavano tutti molto bene e tutti, come abbiamo detto, gli volevano ancora più bene. Certo Pellegrino continuava a non capire perché gli facessero aspettare così a lungo quella benedetta-maledetta iniezione …

Una sera in cui era da solo nella camera, gli infermieri lo avevano fatto momentaneamente alzare dal letto per sistemare le coltri prima del riposo notturno e avevano aperto la finestra per cambiare l’aria della stanza. All’improvviso entrò nella camera un pipistrello, creando il panico tra le

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infermiere e terrore misto a repulsione in Pellegrino. Fortunatamente era subito intervenuto un intrepido infermiere che, con destrezza, era riuscito a catturarlo dentro un lenzuolo e, subito dopo, a liberarlo all’esterno della finestra accompagnato da un coro di “Bravo! Finalmente! Ci volevi tu!” ed espressioni del genere pregne di soddisfazione e apprezzamento per quell’intervento pronto e risolutore. Strano destino di alcuni animali, assolutamente innocui, che suscitano odio e paura pienamente immotivati negli esseri umani. Pellegrino era ancora tutto scombussolato per quell’incidente quando arrivò don Guido. In realtà lo chiamavano tutti padre Guido perché era il frate dell’ospedale: tutti i giorni faceva un giro nel reparto a salutare i ricoverati, riservando a ognuno una parola buona e di conforto. Con Pellegrino si fermava un po’ di tempo in più: quando gli era possibile si sedeva sul letto (cosa vietatissima a tutti, anche ai medici, ma a lui concessa) e parlava con il suo giovane amico. Sì, questa è la parola esatta: erano diventati amici. A Pellegrino la mamma aveva insegnato ad amare, il padre gli aveva insegnato il valore dell’onestà, padre Guido gli aveva insegnato il valore, la dignità, la bellezza della vita. Era un bell’uomo, anche se non più giovanissimo: si diceva che gli piacessero le donne e che lui non dispiacesse a loro. Si sa che questo genere di cose è sempre molto interessante per gli adulti, figuriamoci quando queste voci riguardano dei religiosi come preti o suore! A Pellegrino queste cose non interessavano e si augurava che la sua indifferenza potesse perpetuarsi anche quando fosse diventato “grande”. Era un bambino, ma non era uno stupido: aveva notato gli ammiccamenti, le strizzatine d’occhio, i sorrisetti, i sarcasmi del personale sanitario. Anche se poi tutti erano d’accordo nel concludere che padre Guido era una persona eccezionale, sempre pronta e dedita al sollievo di tutti i ricoverati: “Ce ne fossero preti come lui!”, era la frase di rito che tutti ripetevano, e lo dicevano con piena convinzione. Quella sera padre Guido era in ritardo ma non aveva voluto saltare il suo “giro”: aveva fatto bene, perché, dopo la sua visita e le sue brevi parole, Pellegrino poté addormentarsi sereno.

Le rondini volavano nel cielo, talvolta con il loro garrulo verso, più spesso silenziose; al mattino e al tramonto si scatenavano: sembravano sfogare tutta la loro energia con voli sempre più ampi e veloci, ritornando ripetutamente al nido che avevano costruito sotto il tetto, per nutrire i piccoli rondinotti. Il volo delle rondini: la gioia di volare, la gioia di vivere. Pellegrino le guardava attraverso la finestra al di là della quale ammirava un paesaggio di prati verdi e di montagne lontane: pensava con nostalgia al suo lontano mare di Napoli, ma nello stesso tempo apprezzava la bellezza della natura con le sue mille sfumature di verde sotto un tetto azzurro, con qualche nuvoletta bianca a fare da dolce contrasto.

Il trapianto e tutte le cure sembravano aver avuto successo, forse avrebbe potuto essere addirittura guarito; i medici gli avevano prescritto antibiotici e altri farmaci, che non conosceva, e gli avevano detto che avrebbe dovuto fare ancora dei controlli clinici. Viveva in un appartamento

140 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

vicino all’ospedale insieme ad altri tre bambini che, a giudicare dalle teste tutte assolutamente prive di capelli come la sua, dovevano essere nelle sue stesse condizioni. Pensava al papà lontano, che, a causa del lavoro, veniva a trovarlo raramente. E pensava a suo fratello, più vecchio, o meglio, meno giovane di lui, di due anni: anche lui frequentava la scuola laggiù al Sud e si faceva vedere solo quando il babbo poteva accompagnarlo. Pellegrino non vedeva l’ora di ritornare alla sua casa, ai suoi compagni di scuola, al suo ambiente. Le cose andarono bene: dopo un mesetto poté tornare dalla sua famiglia; lui si sentiva meglio e riprese la scuola e tutte le sue cose quotidiane. Era ritornato a essere il bambino sereno e felice che era prima.

Ma non andarono bene a lungo: dopo 4 mesi, di nuovo stanchezza, febbre, sangue dal naso, controlli medici urgenti. La malattia era ritornata: adesso era necessario un nuovo trapianto. Ma non poteva più essere impiegato il suo midollo osseo come la prima volta, dato che aveva fallito lo scopo di guarirlo: ci voleva un donatore esterno, un’altra persona che avesse delle caratteristiche genetiche simili alle sue. A scuola aveva studiato qualcosa del genere, per cui aveva capito abbastanza di quel discorso complicato. Questa volta era ancora più preoccupato e timoroso della prima volta: se la malattia era ritornata una volta, forse non sarebbe guarito mai più, e prima o poi sarebbe… non riusciva neppure a pensarci. Aveva terrore della malattia, aveva terrore della morte, aveva terrore della vita.

Anche la mamma era strana: certo anche lei era preoccupatissima e piangeva spesso, pur cercando di nasconderlo agli occhi di Pellegrino. Ma c’era qualcosa in più, qualcosa che sfuggiva al bambino: come se ci fosse stata una seconda preoccupazione, un secondo problema, di cui lui doveva essere tenuto all’oscuro… Pellegrino era solo e si sentiva solo; l’ospedale era lo stesso ma il reparto era cambiato: adesso era ricoverato in un dipartimento dove c’erano altri bambini, stessa malattia, stessa attesa di un trapianto. Era disperato: non ce la faceva più, non aveva la forza di ricominciare quel calvario di chemioterapia, camera sterile, trapianto, isolamento. Si lasciò andare a un pianto irrefrenabile. Una mano si posò sulla sua spalla: una mano ferma e al tempo stesso delicata. Era fratello Guido: cercò di tranquillizzare come poteva il bambino, e si fece raccontare la sua duplice disperazione per la paura di morire e il comportamento misterioso della mamma. “Pellegrino, hai ragione a essere disperato. Una volta è capitato anche a me, anche se per un motivo completamente diverso dal tuo. Pensare a Gesù ti potrebbe aiutare. Ma, in ogni caso, ricorda, te l’ho già detto altre volte, non dimenticarlo mai: la vita è strana, ma è bella. Devi resistere. Devi vivere, devi lottare per tuo fratello, per tua mamma, per tuo padre, per te stesso, e anche per me. Siamo o no amici? E allora guarisci! Guarisci per la nostra amicizia!”. E concluse dicendo che, per l’altro problema, doveva chiedere alla mamma, con semplicità, con naturalezza.

La verità e la malattia dell’oncologo 141

Messa alle strette, la mamma dové confessare che sì, effettivamente aveva ragione: c’era qualcosa che lei non aveva avuto il coraggio di dirgli. Il motivo per cui suo padre da un po’ di tempo non si faceva più vedere, era sì la distanza, il lavoro, ma anche che lei e il papà ultimamente non andavano più tanto d’accordo e avevano deciso di separarsi. La notizia buona era che avevano trovato un donatore per lui: si trattava di Salvatore, suo fratello. E anche su questo c’erano state diversità di opinione con il babbo. Pellegrino, motivato dalle parole di padre Guido, accettò tutte le cure con coraggio e determinazione: voleva guarire. Ma adesso, mentre era in isolamento nella camera sterile, aveva un altro tremendo problema: un senso di colpa lo attanagliava fino a soffocarlo. Era tutta colpa sua! Era lui il responsabile della crisi coniugale dei suoi genitori! Se non si fosse ammalato, la loro unione avrebbe continuato a essere felice e salda come una volta! Per colpa sua la mamma aveva abbandonato la casa a Napoli, il marito, Salvatore! E per costringere Salvatore a donare il suo midollo osseo, sua madre aveva dovuto litigare ulteriormente con il suo papà! Adesso capiva perché da mesi non veniva più a trovarlo…

Una mattina presto Pellegrino era già sveglio. Guardava fuori della finestra. Sul terrazzino si era fermato a riposare un enorme, maestoso gabbiano: il giallo del becco risaltava sul bianco candido del piumaggio. In un batter d’occhio l’uccello volò via dispiegando un’apertura alare di tutto rispetto. Pellegrino lo guardò ammirato per la sua bellezza e la sua possanza. In quel momento, per la prima volta in vita sua, desiderò intensamente di poter volare: volare via, uscire da quella camera, vedere il mare, ammirare dall’alto il mondo in tutta la sua grandezza e ricchezza di scorci e di vita. Per fortuna quello era un giorno importante: potevano finalmente entrare nella sua stanza anche i visitatori. Dopo poco tempo in effetti la porta si aprì e si affacciò la mamma: si abbracciarono intensamente, senza dire una parola. Dopo un tempo breve e infinito, Pellegrino scorse sulla porta suo fratello Salvatore: erano sempre stati molto uniti, ma adesso il loro legame sembrava rinsaldato. Una parte di Salvatore adesso viveva in Pellegrino. L’abbraccio fu intenso ma scherzoso, con sorrisi e lacrime trattenute a stento. Ma mentre Pellegrino era ancora stretto a Salvatore, vide sullo stipite un’altra figura. “Papà!!” urlò, mentre questo si faceva avanti felice ma titubante. Pellegrino si strinse alla vita del babbo, mentre questi accarezzava quella testolina senza capelli. Piano piano, in silenzio, gli altri uscirono: nella stanza erano rimasti solo loro due. Dopo un po’, o forse dopo tanto tempo, il padre prese una sedia, si sedette vicino al letto e con voce commossa, che cercava di essere ferma, disse: “Pellegrino, dobbiamo parlare. Tu sai che io ti ho sempre detto la verità: lo farò anche adesso. Tra poco avrai tredici anni, sei ancora un bambino, ma la vita ti ha fatto maturare alla svelta. I medici mi hanno detto che tutto è andato bene e che, se le cose continuano così, tu guarirai. Per sempre. Loro non possono esserne sicuri, io sì, lo sono. E devi fidarti del tuo papà. Per molto tempo non sono venuto a trovarti: ti

142 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

devo delle spiegazioni. Io ti voglio bene e continuerò a volertene. Come a Salvatore e anche alla mamma. Sì, voglio bene anche alla mamma, ma da troppo tempo ormai non riusciamo più a condividere le opinioni e i sentimenti della vita. Quello che anni fa era così spontaneo, adesso non si realizza più, nonostante i nostri sforzi. Abbiamo deciso di separarci: è meglio così”. Quando Pellegrino gli confidò la sua intima convinzione di essere lui il responsabile del fallimento del loro matrimonio, scoppiò in una risata. “Ma cosa dici? Come ti è venuta in testa una idea così?! I problemi erano già cominciati prima dell’inizio della tua malattia. E poi io ho soltanto cercato di tutelare Salvatore, perché nell’ansia di trovare un donatore per te, temevo che nessuno si ricordasse che anche lui non è che un bambino: avevo paura che lo vedessero solo come un donatore e non come una persona, anche lei con i suoi diritti e la sua volontà. No, no: sei completamente fuori strada. Anzi, ti devo confidare una cosa: spesso in queste situazioni viene fuori che esiste un altro affetto, un altro legame. Il mio si chiama Africa: ma non è una donna, è il posto dove andrò a vivere. Sono stufo di fare l’ingegnere per imprenditori affamati di soldi: adesso voglio andare a costruire acquedotti contro la siccità di quelle zone. Ho messo da parte abbastanza denaro per mantenere mamma, Salvatore e te. Aspetterò soltanto di avere la conferma che tu stai davvero bene e poi partirò. Ma tutte le volte che potrò, ti verrò a trovare. Adesso tu sei ancora piccolo e hai ancora una vita per decidere la tua strada. Ma non mi dispiacerebbe per nulla se tu diventassi un medico e curassi un giorno i bambini con la leucemia: questo nome adesso mi fa meno paura”.

Passarono gli anni, tanti anni. Pellegrino era guarito. Si era effettivamente laureato in Medicina; ma non aveva voluto diventare ematologo: si era specializzato in infettivologia, per curare le malattie da microbi, virus e così via. Quando scoppiò l’epidemia di virus Ebola in Africa partì come medico volontario di un’associazione di volontariato. Con la prevenzione, con le precauzioni igieniche, con l’educazione sanitaria, con i pochi farmaci a disposizione, vinse molte partite contro il virus. Ma poi Ebola decise di sfidare direttamente lui. Pellegrino, che aveva vinto la partita contro la leucemia, perse quella contro il virus africano. Erano anni che non si rivedevano più, ma sembra che, prima di morire, lo abbiano sentito mormorare tra i denti con l’ultimo filo di voce: “… papà …”.

Angelo era un paziente speciale

Enrico Franceschi*

Spesso si riescono a dire piccole “bugie” ai pazienti, ma con lui no, non era possibile. Era un musicista, suonava la batteria, e aveva una sensibilità incredibile. Ti guardava negli occhi e dovevi dirgli la verità. Aveva un tumore polmonare, non microcitoma, una lunga storia di malattia metastatica, di quelle malattie che non sai come e perché ma si prolungano nel tempo, si stabilizzano o rispondono sorprendendo tutti…. Tante linee di terapia, sempre ben tollerate, sempre spiegando ad Angelo i pro e i contro, discutendone con lui e condividendo le scelte. Aveva superato anche una leishmaniosi, contratta chissà come. Scherzavamo quando entrava in ambulatorio, parlavamo di attualità, di sciocchezze, con leggerezza. Poi era venuto quel giorno, quello che odiamo con tutte le forze, quello che ribalta l’anima ogni volta. Quando un paziente va in progressione all’ultima terapia che hai a disposizione. Quando sai che nessun farmaco che hai a disposizione può più fargli del bene. E glielo devi dire. Lo ricordo perfettamente quel giorno. Lo avevo tenuto come ultimo appuntamento della giornata. Avevo chiesto che ci fosse anche Cinzia, l’infermiera a cui più si era affezionato. È entrato con le lacrime. Lo sapevo, lui sapeva. E voleva che io glielo dicessi. Me l’ha chiesto.

Gliel’ho detto, lentamente, soffrendo per ogni parola che pronunciavo, sperando di fargli capire che dove non poteva arrivare la medicina, ci sarebbe stata la nostra presenza, mia, di Cinzia, di tutti. Che noi c’eravamo per lui. E che avremmo camminato assieme. Ma come si fa a vivere la morte di un uomo? Certo, lo so bene, è il destino comune. L’unica certezza. Quanto di più umano esista. Ma pensare che quella persona scomparirà ti lacera. Perché ci sono persone a cui non riesci a non legarti. E in loro vedi la vita. E poi una mattina ho ricevuto una lettera.

Caro Enrico e fantastica “Equipe”immagino la vostra sorpresa nel ricevere questa lettera dal momento che quando la leggerete io avrò intrapreso quello che siamo soliti definire

* Dirigente Medico UOC di Oncologia Medica, Ospedale Bellaria, AUSL. IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche, Bologna. Direttore dott. Alba Brandes

144 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

come “ultimo viaggio”.Già, siamo tutti viaggiatori, passeggeri a volte distratti nei tempi e

nei luoghi che la vita ci regala.Ma è solo imparando a guardare con occhi sinceri tra le pieghe del

mondo e toccarlo con mani leggere e come fate voi, giorno dopo giorno, ad ascoltarne le voci più sole fatte di mille dolori che potremo crescere ed amare veramente.

E solo così non renderemo vano questo unico, incredibile, meraviglioso viaggio.

E poi… torneremo a casa, con immensa gratitudine per le cure e l’affetto che mi avete regalato.

Un forte abbraccio a Cinzia, Federica, Rosalba, e a tutto lo “Staff”.Vostro Angelo

Leggevo quelle parole che mi ubriacavano: “siamo tutti viaggiatori”, “passeggeri a volte distratti”, “toccarle con mani leggere”, “ascoltarne le voci più sole”, “mille dolori”, “amare veramente”, “torneremo a casa”, “ultimo viaggio”. Ancora oggi quando rileggo queste parole mi emoziono. La più bella poesia che avessi mai letto. Il più bel regalo. L’inno alla vita di chi stava per andarsene. E che aveva pensato a me e a noi pensando al futuro in cui non ci sarebbe stato più. Tanta tristezza e un immenso senso di gratitudine. Ancora oggi lo porto con me.

S. è una collega

Un medico*

S. è una collega, un medico come me, che, in modo inconsapevole, come spesso capita, un giorno ha chiesto al chirurgo di asportarle un’escrescenza che aveva in testa e che le dava fastidio. Dopo pochi giorni scoprimmo essere un melanoma e che da medico sarebbe diventata paziente. In un anno si è dovuta sottoporre sia a diversi interventi chirurgici che alla chemioterapia.

Molto spesso l’ho vista chiudersi, spaventata dal non sapere cosa le sarebbe aspettato. Più di altri pazienti mi ha fatto sentire esposta, proprio perché anche lei medico. Mi ha fatto capire che, semmai mi trovassi dall’altra parte, dovrei comunque affrontare quel lungo cammino di accettazione delle domande senza risposte certe, poiché la medicina non ha risposte assolute al cento per cento; la materia dell’uomo è complessa e varia nelle sue espressioni. Tanto abbiamo di conoscenza, ma non dobbiamo mai dimenticare la nostra realtà: ecco perché la medicina è da usare come un’amica che ci accompagna, che ci solleva ma che non ci può rendere immortali nell’umano, e questo delle volte sembra difficile da tenere a mente.

Abbiamo lavorato molto su questo aspetto di accettazione e consapevolezza insieme perché all’inizio aveva una grossa difficoltà ad affidarsi alle cure, e a credere che quello che le stava succedendo era sulla sua pelle e non nella sua essenza. Abbiamo aperto un tempo di riflessione, di lenta considerazione degli eventi e abbiamo visto come le esperienze emotive influenzano questi eventi.

In seguito, con il passare del tempo, tutta la famiglia si è stretta intorno a lei. Con l’aiuto degli amici, dei colleghi e soprattutto della famiglia, è riuscita a trovare la forza di affrontare questo cambiamento. Per lei il rapporto più difficile da trattare era quello con suo flglio F. che era ancora molto piccolo e non riusciva a capire bene cosa stesse succedendo di tanto particolare alla sua mamma. Le abbiamo consigliato di fare in modo che lui potesse capire meglio la situazione in modo da non renderla troppo traumatica; portandolo, in seguito a questo, a fare alcuni viaggi insieme

* Oncologia di San Benedetto del Tronto. Direttore dott. Giorgio De Signoribus

146 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

a Milano. È stato, per lei, un allenamento continuo all’accettazione e alla consapevolezza propria e di chi gli è intorno. Lo è stato per lei ma anche per me; arduo tentare di accettare qualcosa che non riesce ad avere un significato chiaro, ma che può diventare un pretesto per conoscere e per riscoprire dei sentimenti intensi.

Punti di vista

Un operatore*

Ero alla fine del sentiero, l’aria fresca del crinale non mi faceva sentire il caldo e la fatica della corsa. Pochi passi e avrei potuto bere e cambiarmi. Come ogni volta, correre mi aveva permesso di pensare a tutto e non pensare a niente, una condizione invidiabile e assai fugace. Per un caso decisi di riaccendere subito il cellulare e venir inondato di chiamate perse. Di lì a poco sarei tornato brutalmente alla realtà. Avrei iniziato un sentiero assai accidentato in cui si sarebbero intrecciate due diagnosi oncologiche. Il sospetto che già da alcuni giorni mi affliggeva di un “mio” possibile tumore, e il sospetto appena sorto in quelle ore che mio padre avesse un “suo” tumore. Non sappiamo cosa noi non sappiamo. Sembra una banalità, ma è “la” condizione umana nella quale fingiamo di non vivere. Quando indossiamo i nostri panni di “operatore” ci illudiamo di sapere e di poter mantenere la giusta (e la medesima) prospettiva in tutto quello che facciamo. Poi, con pochi tiri di dadi, ci ritroviamo privi di punti di riferimento e di coordinate. Nel corso di poche settimane mi sono ritrovato a interpretare tutti i ruoli che ho osservato e visto scorrere davanti ai miei occhi e oltre la mia scrivania: l’operatore, il paziente, il familiare. Questo scivolare di posizioni lascia storditi, senza parole. Come in un quadro di Escher la strada che sembra salire sta scendendo e il soffitto è in realtà il pavimento della stanza. Se fu paradossalmente non facile gestire il mio sospetto di tumore, poi risolto, fu assai difficile gestire il sospetto confermato di mio padre. Molte corse sono state necessarie per poter uscire dal dubbio continuo e irrisolvibile che ogni mattina mi ponevo entrando in ospedale: oggi sono l’operatore, sono un familiare, sono cosa? Raymond Carver una volta ha scritto: “Non c’è risposta, ok. Ma anche se non fosse ok, cosa potrei fare?”

* Dipartimento Oncologico Azienda Sanitaria di Firenze. Direttore dott.ssa Luisa Fioretto

La malattia nella coppia

La coppia gay

Alberto Scanni*

Era una coppia gay di mezza età. Lui un medico, il compagno un antiquario. Quando l’uno parlava dell’altro lo definiva cugino. Ai quei tempi le coppie omosessuali non si dichiaravano pubblicamente, cercavano di tenere nascosto il loro rapporto e la migliore soluzione era presentare l’altro come un parente. Nessuno dei due aveva modi effeminati e dai comportamenti non traspariva il loro vero rapporto. Dell’antiquario mi colpiva la tintura dei capelli: era un biondo rossiccio su un viso tendente all’abbronzatura, dell’altro le cravatte sempre sull’azzurro e con grossi disegni, variabili nelle geometrie. Il medico che aveva un tumore polmonare era stato messo in trattamento chemioterapico con finalità puramente palliative, vista l’estensione della neoplasia. L’unica possibilità era di poter rallentar l’andamento del male. Veniva sempre accompagnato dal compagno che aveva per lui una grande attenzione.

Lo accudiva con grande amore. Traspariva un affetto veramente profondo: raramente ho visto un rapporto così intenso nelle coppie eterosessuali. Tra loro vi era un sentimento dolce, puro, limpido, privo di malizia. L’antiquario lo accompagnava in sala d’attesa sostenendolo con dolcezza, cercava di evitargli fatiche e, finita la terapia, lo rifocillava con succhi di frutta e merendine che aveva portato da casa. Aveva una pazienza infinita. Prima di lasciare l’ambulatorio chiedeva consigli a medici e infermieri per poterlo accudire al meglio a casa. L’altro, silenzioso e sofferente, esprimeva con lo sguardo gratitudine e riconoscenza. Erano soli al mondo e noi eravamo diventati quasi una seconda famiglia. Quando arrivavano riservavamo loro angoli tranquilli e, come era consuetudine del day hospital, offrivamo piccoli generi di conforto. Loro sempre educati, visibilmente grati delle nostre attenzioni. Una volta l’antiquario mi aveva invitato a visitare il suo negozio. Era un locale ampio al fondo di un cortile, in centro a Milano. Dopo avermi mostrato alcuni oggetti esposti in vetrina volle avere notizie esatte sullo stato di salute del compagno. Fui franco e gli prospettai l’imminenza

* già Direttore Struttura Complessa Oncologia Medica A. O. Fatebenefratelli e Oftalmico, Milano

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della fine. Si mise a piangere sconsolato: capii che quando c’è vero amore le differenze o le uguaglianze di sesso non vogliono dire niente!

Giunti agli sgoccioli avrebbe voluto continuare ad assisterlo a casa, ma fummo noi a consigliare di ricoverarlo: era troppo impegnativo e non ce l’avrebbe fatta da solo.

Ricordo la sua disperazione quando mancò. Una disperazione composta, non gridata, ma con tante lacrime.

Andammo al funerale. Sulla bara che stava affondando nella terra gettò tra il pianto una rosa. Fummo commossi da quel gesto, per nulla teatrale, ma intimo, anche se in pubblico.

Per qualche tempo continuò a venirci a trovare, eravamo entrati in confidenza e l’ambulatorio di oncologia era un luogo di amici. Poi sparì.

Dopo molto tempo ricomparve a salutarci con un nuovo compagno. Era troppo fragile e indifeso per restare solo.

Non me lo posso perdonare

Un medico*

“Bene signora. Si tratta di un piccolo tumore mammario, meno di un centimetro; i parametri che ci dà l’anatomo patologo, però, ci dicono che non sono presenti recettori ormonali, che le cellule sono scarsamente differenziate e con un alto indice proliferativo e che presentano un antigene per il recettore Her 2. … per fortuna, visto che oggi è possibile la guarigione in oltre il 90% dei casi come il suo… certo dovrà essere trattata con chemioterapici per sei mesi, poi con un immunoterapico per circa un altro anno… quali farmaci?... se cadranno i capelli?… se ci saranno altri effetti spiacevoli?... beh sì, ma il guadagno sarà di gran lunga superiore agli aspetti negativi… vedrà che tra un paio d’anni sarà solo un brutto ricordo…”.

Questo è il nostro comunicare, con un ottimismo che rasenta il cinismo, una diagnosi “favorevole” e la necessità di un trattamento di circa 1 anno e mezzo. Lo abbiamo fatto un numero di volte che non riesco a quantificare e lo farò ancora e ancora.

In un uggioso pomeriggio di Febbraio di due anni fa mi chiama la compagna della mia vita: nel corso di una mammografia di screening sono presenti microcalcificazioni; ma come, se nella precedente non vi era nulla? Quanto tempo fa? Un anno e 10 mesi. “E perché questo ritardo? Ah sì la tua amica si è operata. Va bene, vengo a vedere. Non sarà nulla”.

Invece le microcalcificazioni c’erano. Sarà tutto intraduttale. E in effetti le biopsie col mammotome lo confermano. Un piccolo intervento e poi guarigione chirurgica.

Non pensavo di comunicare, proprio a Lei, la stessa cosa. Non mi perdonerò mai il taglio di capelli preventivo di una chioma così

fitta da resistere alle forbici. Il costringerla a una parrucca e alle solite frasi di circostanza: “Come stai bene col nuovo taglio di capelli… quanto ti sta bene il nuovo colore…”. L’alopecia completa. L’astenia e il riacutizzarsi di una colite post-chemioterapia. La flogosi dopo la radioterapia. I globuli bianchi sempre al limite e la maledetta emoglobina che non voleva salire sopra agli 11 mg/dl. Poi, l’herpes zoster e le numerose ecocardiografie,

* Oncologia di San Benedetto del Tronto. Direttore dott. Giorgio De Signoribus

154 I medici raccontano. Storie di vita e di malattia

tutti i farmaci che le ho prescritto, tutta l’ansia che non potevo non comunicargli.

Soprattutto non mi perdonerò mai il riscontro alla TAC di controllo dopo l’anno e mezzo di terapia di vari micronoduli (“... 5-6 subcentrimetrici e sub-pleurici… di cui non si esclude la natura ripetitiva” – aggiunta quest’ultima per mio conforto), l’averglielo dovuto dire, fingendo un ottimismo che si capiva palesemente falso: “… ma ti ricordi che ad ogni somministrazione di herceptin comparivano piccoli noduli flogosati alla mammella operata che sparivano dopo qualche giorno? Sarà la stessa cosa: sarà un piccolo deposito di immunocomplessi”. Ma non ci credevo io e soprattutto non ci credevano tutti i colleghi ai quali mostravo la TAC; le loro parole di speranza suonavano anch’esse di circostanza.

Mi perdono appena di non aver ceduto alla tentazione di una chemioterapia di seconda linea, in un barlume di lucidità che avevo altrimenti perso.

Non posso, però, perdonarmi di averti fatto vivere tre mesi in un limbo che pareva davvero l’anticamera della dannazione; il non riuscire a dominare le mie emozioni e di trasmettertele comunque; di averti costretto alla successiva TAC di controllo ma di non essere stato presente, non avendo la capacità di resistere a una cattiva notizia.

La notizia, invece, mi giunge via telefono: “… non c’è più niente, tutto sparito”. Si trattava quindi verosimilmente di deposito di immunocomplessi. Nuova vita e nuove prospettive.

Non mi posso, però, perdonare che questo sia stato l’unico attimo di vera felicità che ti ho fatto vivere in questi due anni e mezzo, subito mitigato dalla previsione dei prossimi controlli. Si vive insieme, ci si ama, si litiga, si progetta, si crea e si distrugge, si lavora e si protesta…perdonami se alla prossima TAC non sarò presente, se ancora per me, e di conseguenza per te, questo ancora non è un brutto ricordo.

Io invece ti perdono...(La moglie)

Ti perdono il non aver riposto fiducia nella misericordia di Dio, di non aver creduto mai in quello che mi dicevi e di non aver percepito che il mio più grande dolore non era la mia malattia, ma il tuo non accettarla.

Ti perdono la tua disperazione, il tuo senso di impotenza, le tue reazioni che al momento mi sembravano incomprensibili, ma che ho imparato a capire.

Ti perdono il non aver compreso quanto mi sentissi fortunata di averti accanto e la mia certezza di essere in ogni caso al sicuro con l’aiuto del Signore e soprattutto col tuo, che ho sempre considerato indispensabile.

Ti perdono la sofferenza che mi è derivata da un comportamento che non riuscivo a codificare, come al solito con la presunzione che mi contraddistingue, con i miei rigidi parametri.

La malattia nella coppia 155

Ti perdono di non aver mai capito che la sofferenza più grande è stata solo quella di arrecare dolore a te e ai nostri figli e non quello che è derivato dalla mia malattia.

In tutti questi mesi mi sono sentita una privilegiata, una persona molto amata e ho sempre ringraziato il Signore per tutto quello che ho potuto affrontare sorretta dalla sicurezza di averti accanto.

Ti ringrazio perché durante questo periodo ero talmente presa ad avercela con te per il tuo (comprensibile) sgomento che non mi sono resa conto appieno di quello che ci stava succedendo, ma certamente ero sollevata dall’idea che il fardello era sulle tue spalle e ogni cosa si sarebbe certamente risolta perché c’eri tu.

Quest’esperienza ha cambiato solo il mio modo di vedere le cose e le persone, mi ha resa più disponibile verso chi ha bisogno di aiuto e più rigida verso chi vive solo per se stesso.

La nostra esperienza non sarà mai un brutto ricordo, ma un momento della vita che abbiamo vissuto, come sempre, insieme.

Il viandante e la fragolaStorie, narratori e personaggi nei reparti di oncologia

Simone Cheli*

“Let us imagine that the aboriginal-original human specimen was one of two brother apes, A and B; they were alike in every respect; both were animal space-binders; but something strange happened to B; he became the first time-binder, a human. No matter how, this ‘something’ made the change in him that lifted him to a higher dimension; it is enough that in some-wise, over and above his animal capacity for binding space, there were superadded the marvelous capacity for binding-time” (Korzybski, 1921, pp. 67-68).

Il bisogno umano di raccontare

Nel suo primo libro pubblicato in lingua inglese, Alfred Korzybski (1921), coniò la definizione di esseri umani come time-binders (letteralmente rilegatori, intessitori di tempo) in contrapposizione a quella di animali come space-binders (letteralmente rilegatori, intessitori di spazio). Questa definizione apparentemente esoterica ha fortemente influenzato tutta la cultura americana del ’900. Korzybski voleva evidenziare con questa espressione come l’uomo si caratterizzi per la sua capacità di intessere legami, storie che giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, generazione dopo generazione interconnettono passato e presente, la nostra e l’altrui esperienza. La nostra capacità conoscitiva, o meglio esperienziale, nasce dal formulare progressivamente un’ipotesi per noi significativa di quanto ci accade e dal bisogno di condividere questo significato con le persone che ci circondano.

In termini evoluzionistici il time-binding è ormai un concetto centrale nello studio di come gli essere umani siano divenuti realmente esseri umani. I due passaggi evolutivi fondamentali che hanno caratterizzato la storia di Homo Sapiens spiegano in termini antropologici ciò che Korzybski aveva intuito un secolo fa. Da un lato, il fattore che si correla maggiormente allo sviluppo della corteccia frontale negli ominidi è l’estensione e la complessità delle interazioni nel gruppo sociale di appartenenza (Shultz

* Scuola di Scienze della Salute Umana, Università di Firenze

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& Dunbar 2014). Dall’altro, l’evoluzione del linguaggio e della cultura umana ha subìto un’accelerazione nel momento in cui pressioni esterne (per es. le glaciazioni) hanno costretto gli uomini a sviluppare un sistema simbolico in grado di rappresentare ciò che non fosse in quel momento davanti ai loro occhi (Lewis-Williams 2002).

Questo bisogno umano, fortemente umano, di raccontare, di formulare e interconnettere significati, definisce la nostra esperienza in termini inequivocabilmente relazionali e verbali: “Il senso umano di sé è definito dalla partecipazione del nostro comportamento in frame relazionali e in network relazionali” (Barnes-Holmes & Hayes 2001, p. 130). Conosciamo noi stessi costruendo delle reti di significato che ci permettono di discriminare eventi, simboli e relazioni. Ed apparentemente senza soluzione di continuità, sia noi stessi che gli altri, fungiamo da contenuto, processo e contesto delle nostre narrazioni e quindi delle nostre esperienze. Questa non apparente complessità è ciò che in ogni istante della nostra vita noi pratichiamo a diversi livelli di consapevolezza. Se nell’interagire con il barista stamani gli automatismi hanno sicuramente preso il sopravvento, adesso che mi interrogo sul mio formulare un personale time-binding e scrivere queste frasi, cerco di definire attentamente le relazioni tra i miei significati e quelli di chi mi leggerà.

Narrazioni e competenze narrative in oncologia

I racconti qui presentati rappresentano il tentativo di alcuni di dare senso e continuità alle mille storie che si incontrano nei reparti di Oncologia. Oltre 50 operatori hanno scelto di condividere la loro esperienza, il loro bisogno di raccontarsi e raccontare, di non soccombere di fronte al silenzio, al timore e al pudore che spesso ci allontanano dalle nostre e altrui sofferenze. Lavorare in Oncologia (come in qualsiasi relazione d’aiuto) significa trovare un modo personale di stare dentro queste storie e dentro tutte le emozioni che queste suscitano e che solo in parte corrispondono alla sofferenza che umanamente rifuggiamo.

Sono ormai oltre 20 anni che la medicina sta sempre più evidenziando l’importanza della dimensione narrativa e quindi al contempo personale e relazionale del suo operato. In particolare Rita Charon (1993) ha costantemente promosso gli approcci narrativi nella concettualizzazione della relazione medico-paziente facendo delle narrazioni uno strumento formativo e non solo espressivo. Se infatti in diverse forme le Medical Humanities, ovvero l’uso della letteratura e delle arti in genere nella formazione medica (Evans & Greaves 2010) sono diffuse sin dagli anni ’70, la cosiddetta Narrative Medicine trova una sua classificazione in tempi più recenti. Solitamente la Narrative Medicine viene definita come l’applicazione e la promozione nella pratica medica delle “competenze narrative di riconoscere, assorbire, interpretare e farsi coinvolgere dalle

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storie di malattia” (Charon 2006, p. 226). Competenze che dovrebbero appunto richiedere una formazione e un pratica specifica che esca sempre più dalla dimensione ingenua e spontanea ed esplori i meccanismi linguistici, psicologici e relazionali sottesi alla comunicazione medico-paziente.

La scelta di intraprendere un percorso di evocazione, integrazione e ri-costruzione degli eventi vissuti in ambito professionale e personale è infatti definita da numerosi meccanismi. Meccanismi che, a diversi livelli di consapevolezza, agiscono sul nostro modo di dare senso al passato e soprattutto di posizionarci all’interno delle relazioni presenti e future. Discipline come la psicologia clinica, la psichiatra e le neuroscienze in genere, hanno sempre più approfondito tali meccanismi al fine di comprendere il nostro funzionamento cognitivo e favorire un’efficace elaborazione degli eventi vissuti come stressanti se non traumatici. Agli uomini non è concesso di controllare il fluire degli eventi, ma solo la capacità di mantenere la propria identità formulando e interconnettendo dei significati personali e scegliendo di testarli nella loro esperienza e nelle loro relazioni. Così il nostro bisogno di raccontare diviene l’unico contesto percorribile da cui è virtualmente impossibile distaccarci: “Non appena una persona inizia a utilizzare il linguaggio, parole e simboli divengono parti ubique e integrali della sua esperienza” (Efrans, Lukens & Lukens 1990, p. 30). È quindi necessaria un’operazione altamente consapevole e auspicabilmente ricorsiva per far sì che questo bisogno narrativo sia uno strumento utile a quelle professioni che mai possono prescindere dalla dimensione relazionale. Ai fini generali di questa discussione possiamo identificare almeno 5 meccanismi o capacità umane utili a comprendere criticamente i processi narrativi e al contempo da promuovere tramite questi. Tali meccanismi sono infatti gli stessi su cui i clinici della parola fanno affidamento per aiutare le persone nel ritrovare o ridefinire il senso della propria esperienza, anche e soprattutto, quando questa è sconvolta o lacerata. In misura diversa, racconto per racconto, autore per autore, possiamo ritrovare queste capacità in opera nel libro che avete davanti agli occhi:

1. Capacità Espressiva. Narrative Medicine e Medical Humanities sono accumunate dall’assunto per cui il fornire degli specifici contesti espressivi favorisca di per sé lo sviluppo delle competenze narrative utili alla professione medica. In termini di meccanismi psicologici, gli studi di Expressive Writing hanno evidenziato come l’utilizzo dell’espressione scritta libera possa ridurre l’inibizione emotiva individuale e sociale, nonché favorire l’attivazione dei processi comunicativi che altrimenti rischierebbero di operare in maniera incontrollata e acritica (Pennebaker & Chaung 2011). Numerose sono le applicazioni in ambito oncologico, sia su pazienti che operatori, in particolare focalizzate sulla ricerca di senso e sull’espressione emotiva (Watson & Kissane 2011).

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2. Capacità Anticipatoria. Il nostro “cervello può essere definito una macchina anticipatoria, che scansiona costantemente l’ambiente e cerca di determinare cosa verrà dopo” (Siegel 1999, p. 30). Secondo questa lente di osservazione le tecniche narrative permettono di esercitare tale capacità interconnettendo progressivamente (lungo il tempo narrativo) i significati che noi attribuiamo agli eventi vissuti. Lo Storytelling permette di coniugare la sua dimensione concreta nella fase di (ri-)costruzione della storia stessa, con la sua dimensione astratta, nell’anticipare l’uso comportamentale che possiamo farne (Stewart et al. 2001, p. 84). In contesti altamente stressanti come quello oncologico, l’incapacità di anticipare un futuro ingenera sempre maggiore frustrazione e senso di helplessness con effetti pervasivi sia per i pazienti (per es. riduzione della compliance) che per gli operatori (per es. aumento del burnout).

3. Capacità Riflessiva. Se assumiamo che “sia virtualmente impossibile per una persona comportarsi diversamente mentre racconta esattamente lo stesso racconto” (Efrans et al. 1990, p. 85), allora dobbiamo ricercare nel processo narrativo quei meccanismi che ci permettono di operare una possibile ricostruzione di senso. I più recenti sviluppi della psicologia in genere (Mindfulness-Based Cognitive Therapy, Metacognitive Therapy, Acceptance and Commitment Therapy) ed della psico-oncologia mirano a promuovere nelle persone un aumento della consapevolezza rispetto ai propri processi e alle proprie credenze. Le difficoltà personali, relazionali (e professionali) che possiamo sperimentare, emergono spesso dalla “difficoltà nell’accedere alla propria esperienza interiore, riconoscendo propriamente gli stati mentali altrui, integrando osservazioni diverse sul comportamento proprio ed altrui all’interno di narrazioni coerenti” (Dimaggio et al. 2007, p. 14).

4. Capacità Integrativa. La perdita di un paziente (o di un familiare) e qualunque evento noi possiamo vivere come traumatico “può sopraffare i nostri meccanismi di regolazione delle emozioni e divengono necessarie varie forme di adattamento per mantenere un equilibrio” (Siegel 1999, p. 294). Un vissuto altamente stressante o traumatico può caratterizzarsi per la tendenza a rivivere la situazione originaria e, parallelamente, a mettere in atto delle strategie di evitamento e soppressione di determinati ricordi. “La credenza che queste strategie siano efficaci sembra derivare dal loro effetto immediato, ma quando si prenda in considerazione un lasso temporale più ampio, il sopprimere deliberatamente i pensieri diviene una strategia di coping sorprendentemente controproducente” (Wilson et al. 2001, p. 216). Per tale motivi gli interventi psicologici rivolti ai vissuti traumatici prevedono come tecnica d’elezione l’esposizione controllata all’evento stesso. Ed in particolare nell’utilizzo della scrittura si persegue un

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principio di esposizione narrativa (Schauer et al. 2011) che è comune a vari approcci psico-oncologici (Watson & Kissane 2011).

5. Capacità Interpersonale. Nelle nostre narrazioni (orali o scritte che siano) tendiamo a riproporre delle modalità, degli schemi interpersonali solitamente stabili nel tempo. Questo perché tali schemi “modellano la percezione del mondo interpersonale e portano a piani, strategie e comportamenti che, a loro volta, modellano l’ambiente al punto da confermare i nostri pattern di funzionamento” (Safran 1990, p. 97). Questo processo ciclico spontaneo richiede la capacità di monitorare le nostre modalità relazionali e identificare gli automatismi disfunzionali (Dimaggio et al. 2007). L’atto di narrare in forma scritta le complesse interazioni professionali può facilitare questo monitoraggio aumentando la consapevolezza sui nostri schemi e cicli interpersonali e sul modo in cui questi canalizzano le nostre relazioni con colleghi e pazienti. Attraverso il processo creativo della scrittura si attua, inoltre, un parallelo processo di role-playing che rappresenta per lo scrittore un doppio esercizio di impersonificazione dell’esperienza altrui e di sperimentazione di nuove strategie relazionali (Efrans et al. 1990, pp. 85-88).

Idealmente queste e simili capacità dovrebbero essere sia sperimentate autonomamente dagli operatori con tecniche come quelle narrative, sia implementate e verificate in setting formativi specifici per favorire il loro consolidamento. La capacità di rispondere proattivamente piuttosto che reagire istintivamente allo stress e a eventi traumatici come una diagnosi oncologica, definisce come scegliamo di fronteggiare le nostre sfide personali e professionali: “Io posso interpretare tutto questo come una catastrofe, oppure posso decidere che questo è qualcosa che io posso gestire” (Carlson & Speca 2010, p. 59).

Analisi dei cluster e delle dimensioni tematiche dei racconti

Le metodologie di analisi delle narrazioni prendono le loro origini dai tentativi, da parte di psicologi e psichiatri, di trasformare gli assunti della linguistica in un sapere pratico e facilmente ripetibile in ambito clinico. Alla fine degli anni ’60 due psichiatri americani, Louis Gottschalk e Goldine Gleser (1969), concludono uno studio decennale sull’analisi del contenuto verbale dei colloqui clinici identificando quattro dimensioni diagnostiche. Nascono così le prime scale di contenuto e un modello di analisi facilmente ripetibile e in grado di permettere al clinico di creare proprie specifiche scale. Negli anni successivi ricercatori di orientamenti e discipline diverse si cimentano nello sviluppare metodi di elicitazione e analisi dell’espressione verbale. A partire da gli anni ’80 iniziano infine a comparire i primi software specificamente dedicati (Computer Aided Qualitative Data Analysis Softwares – CAQDAS), basati

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su modelli matematici sempre più rigorosi e analitici (Krippendorff 2004). I CAQDAS permettono di conteggiare ricorrenze e co-occorrenze di parole e temi su ampli campioni e di utilizzare tali valori numerici (per es. frequenze e probabilità) per applicare poi usuali analisi statistiche.

I racconti qui presentati sono stati analizzati tramite alcune procedure standard dei CAQDAS, utilizzando il software statistico R (2015) e i suoi pacchetti dedicati all’analisi del contenuto. In particolare si è effettuato: (i) conteggio delle parole più ricorrenti; (ii) analisi delle co-occorrenze e delle sequenze di parole in termini probabilistici; (iii) cluster analysis al fine di identificare i cluster più ricorrenti e le dimensioni ad essi sottese. Data la procedura standardizzata dei CAQDAS, i risultati di queste analisi risultano ripetibili e quindi estendibili al di là della soggettività del ricercatore. Solo le interpretazioni dei risultati e la seguente definizione di label e categorizzazione dei cluster riflettono l’opinione soggettiva, per quanto professionale, del ricercatore. I CAQDAS permettono infatti di realizzare delle ricerche che seguono gli standard di evidence-based delle ricerche quantitative. Ciò che distingue tali analisi è un approccio bottom-up in cui piuttosto che formulare e poi testare un’ipotesi, si tende a formulare delle ipotesi successivamente a una prima analisi dei dati. Un testo non può prescindere dalla dimensione interpretativa del lettore e dal contesto in cui il lettore (e il ricercatore) può ipotizzare che sia stato realizzato (Krippendorf 2004, pp. 21-25). Ciò che rende un’analisi rigorosa è l’applicazione di una procedura analitica standardizzata e l’elicitazione dell’interpretazione fornita.

Si riportano di seguito le analisi più significative condotte su tutti i racconti del presente volume.

Cluster Analysis: temi e dimensioni dei racconti

Al fine di indagare la struttura tematica dei dati riportiamo per prima l’analisi dei cluster, anche se logicamente successiva all’analisi delle corrispondenze (ovvero della probabilità di ricorrenza e co-occorrenza di sequenze di parole), sui cui valori si basa la cluster analysis stessa. Questo per rendere più fruibile la comprensione dei risultati e offrire un’analisi scevra da interpretazioni a priori. Il metodo di clusterizzazione utilizzato è quello gerarchico, i cui algoritmi permettono di definire appunto una gerarchia o albero degli oggetti in analisi, in questo caso le unità lessicali. In figura 1 è possibile apprezzare graficamente la distribuzione dei 5 cluster tematici risultati significativi (e numerati progressivamente) lungo le due dimensioni ovvero lungo i fattori sottesi (corrispondenti alle due assi cartesiane x e y). Possiamo vedere come tre cluster (2, 4, 5) si distribuiscano lungo l’asse delle x (fattore/dimensione 1), mentre il cluster 3 si collochi nell’estremo superiore dell’asse y (fattore/dimensione 2) ed il cluster 1 nel quadrante inferiore destro del piano cartesiano.

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Figura 1. Custer analysis delle unità lessicali

Indagando le unità lessicali (ovvero parole e sequenze di parole) all’interno del loro contesto testuale (ovvero i racconti a cui si riferiscono) è stato possibile identificare dei temi trasversali comuni (i cluster) e attribuire delle etichette che permettessero una più semplice comprensione degli stessi:

• Stato Salute. Il cluster si riferisce a narrazioni (spesso impersonali nei termini di voce narrante esterna) del narratore/operatore relativamente alle condizione mediche e alle fasi specifiche del Percorso-Diagnostico-Terapeutico-Assistenziale (PDTA) oncologico.

• Ruolo Professionale. Il secondo cluster riporta riflessioni relative alle caratteristiche che definiscono il ruolo professionale dell’operatore (ovviamente nello specifico setting oncologico), con alcuni riferimenti all’aspetto etico-deontologico.

• Dialoghi Narrati. Questo cluster riporta descrizioni e interpretazioni delle narrazioni del paziente e del dialogo che l’operatore ha instaurato con questi. I tempi verbali utilizzati collocano questo cluster nella dimensione tipicamente narrativa che ci pone dentro la storia (Weinrich 1978).

• Dialoghi Commentati. Il quarto cluster descrive i dialoghi e le narrazioni condivise col paziente nella prospettiva dell’operatore. I tempi verbali utilizzati collocano questo cluster nella dimensione tipicamente commentativa in cui il narratore si pone al di fuori di quanto accade (Weinrich 1978).

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• Ruolo Personale. Nell’ultimo cluster si riportano aspetti personali dell’operatore che questi descrive ed elabora all’interno della storia. In termine di ricorrenze delle unità lessicali rappresenta sicuramente il cluster più frammentato e quindi meno facilmente specificabile.

La distinzione tra mondo commentato e mondo narrato che Weinrich (1978) ha formulato e che qui riproponiamo analizzando l’uso dei tempi verbali, è stata scelta perché sembra travalicare il senso di alcuni specifici cluster. Questa distinzione evidenzia da un lato un posizionamento espressivo (narratore o commentatore), dall’altro un diverso atteggiamento linguistico dell’autore che “usando i tempi commentativi, dà a capire che per lui è opportuno che l’ascoltatore nel recepire quel tal testo assuma un atteggiamento di tensione, mentre coi temi narrativi dà ad intendere, per opposizione, che il testo in questione può essere recepito in stato di distensione” (Weinrich 1978, p. 44).

Anche ad una prima lettura dei racconti è facilmente identificabile la presenza di due dimensioni sottese che probabilmente corrispondono al posizionamento personale che gli autori hanno fatto nello scegliere di scrivere e nello sviluppare una propria modalità espressiva. Questa matrice interpretativa e la distribuzione dei 5 cluster lungo gli assi cartesiani ha portato a definire i due fattori (o dimensioni) seguenti:

• Stile Narrativo. Da un lato (fattore 1; asse x) si distinguono le narrazioni dell’operatore su un continuum che procede da una narrazione impersonale-tecnica (cluster 1 – Stato di Salute) ad una narrazione personale-intima (cluster 5 – Ruolo Personale), per quanto concerne l’utilizzo delle parole e dei temi. È infatti comune nella relazione medico-paziente questa alternanza linguistica che sembra riproporsi al di là del variare del mezzo espressivo e del setting (dal colloquio clinico alla scrittura privata).

• Livello di Immedesimazione. Dall’altro emerge (fattore 2; asse y) una distinzione nel livello di immedesimazione della “voce” del paziente. In alcuni casi questi assume una propria personale voce (cluster 3 - Dialoghi Narrati), in altri viene narrato in maniera più impersonale e mediata dall’operatore. Questa seconda dimensione che evidenzia in particolare la peculiarità delle narrazioni riconducibili al cluster 1 (Stato di Salute), definisce una scelta comunicativa specifica del narratore.

Quello che sembra emergere da questa prima analisi dei dati è una polarità espressiva, ben rappresentata dalla distinzione tra mondo narrato e mondo commentato (Weinrich 1978) secondo la prospettiva dell’autore e dal livello di coinvolgimento secondo la prospettiva del lettore (Eco 1990).

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Analisi delle parole chiave

Nel condurre le analisi possono emergere delle parole chiave che vengono scelte per la rilevanza in termini di occorrenze e co-occorrenze e per l’utilità, agli occhi del ricercatore, nel rappresentare il contesto di appartenenza degli autori e dei testi. Escludendo le parole comuni e i nessi grammaticali che per quanto ricorrenti non servivano a specificare le analisi condotte, sono state selezionate tre parole chiave. Si è poi proceduto ad accomunare a queste parole chiave i sinonimi e le interlocuzioni affini sino a definire tre contesti elementari ricorrenti e coerenti con i precedenti risultati. In questo tipo di analisi l’interpolazione del ricercatore interviene nella codifica dei dati aggregando come spiegato parole e contesti linguistici affini.

• Lo Sguardo. Possiamo ipotizzare un tema in cui far confluire tutte quelle parole relative all’osservazione, al guardare che definisce una ricerca, una richiesta non-verbale da parte del paziente.

• Narrazioni. Il costrutto di racconto/are si intreccia o può costituire un tema comune con la dimensione dell’incontro tra paziente e operatore. La narrazione diviene il ponte, il tramite dell’incontro.

• La Prova. L’emergere un tema relativo a una costruzione “romantica” del paziente, in cui attraverso scelte linguistiche e interpretative si utilizzano costruzioni comuni alla narrativa tradizionale.

Analisi delle sequenze di parole

Concludiamo l’analisi dei risultati riportando le tre sequenze di parole risultate più significative, anche in questo caso nei termini di frequenza e probabilità statistica, nonché di coerenza interpretativa, secondo quanto emerso finora. L’analisi delle sequenze corrisponde a una catena markoviana, ovvero una sequenza di eventi corrispondenti alle relazioni tra unità lessicali (lemmi e parole chiave). I valori di probabilità ottenuti hanno permesso di indentificare e provare a interpretare tre sequenze che possono essere categorizzate come segue:

• Malattia. Questa parola evidenzia una successione narrativa in cui vi è prima la descrizione di un background personale e terapeutico e poi la descrizione delle difficoltà (per es. “paura”) nell’affrontare il PDTA condiviso coll’operatore.

• Vita. Nel parlare di vita sembra emergere una frattura (confermata dalla sequenza relativa a “tempo”) nella narrazione che l’operatore fa della vita del paziente. In questa frattura colpisce come la novità più ricorrente sia nella narrazione condivisa e nel dialogo con l’operatore.

• Parlare. Quello che colpisce è come il lemma “parlare” sia in qualche modo il ponte, il veicolo tra i due poli di costrutti tanto pregnanti come “affrontare vs comunicare” e “vita vs morte”. Il parlare è spesso

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vissuto come un condurre all’inevitabilità della diagnosi e della prognosi.

Tutte le sequenze, come forse era prevedibile, si collocano lungo il tempo terapeutico e sembrano sottostare a una cesura, una dicotomia che è quella della prognosi e del destino, fausto o infausto, a cui pazienti e operatori sembrano far sempre riferimento.

Discussione ed interpretazione dei risultati

Le analisi sopra riportate hanno evidenziato alcuni risultati particolarmente significativi che sembrano offrire una matrice interpretativa che, per quanto parziale, può rappresentare tutti i racconti nel loro insieme. Provando a integrare le diverse tipologie di analisi, possiamo ipotizzare almeno quattro livelli o meglio quattro prospettive attraverso le quali, ex post, si ricerchi una coerenza nei risultati.

Innanzitutto la distinzione di atteggiamento linguistico tra mondo commentato e mondo narrato (Weinrich 1978) permette sicuramente una sovraordinazione dei cluster e delle dimensioni a essi sottese. I due mondi legati rispettivamente a una posizione commentativa, caratterizzata da tensione comunicativa, e a una posizione narrativa, caratterizzata da distensione, non sono in ogni caso mondi fissi e immutabili. Gli autori evidenziano una notevole versatilità che permette loro di cambiare nel corso della narrazione il loro atteggiamento linguistico, rendendo la narrazione vivida e complessa. Quello che preme però sottolineare è che questi atteggiamenti assumono un valore pratico per l’operatore nel momento in cui possiamo confrontarli con le 5 competenze narrative precedentemente descritte. Non esiste infatti un atteggiamento linguistico giusto o sbagliato, o tantomeno un tempo verbale o uno stile narrativo. Esistono piuttosto delle scelte comunicative che possono evidenziare capacità diverse. Un mondo narrato vivido e approfondito (e anche una Capacità Espressiva) per sé può, ad esempio, portare paradossalmente a un riduzione delle possibilità di comprensione e interazione sociale. Io posso usare le mie competenze espressive e linguistiche per bypassare i necessari processi riflessivi rispetto al mio vissuto e a quello di chi mi sta davanti. Parallelamente una posizione commentativa, apparentemente distante, può risultare una scelta consapevole e fortemente voluta di esplorare i propri schemi e cicli interpersonali (vedi Capacità Interpersonale) attivatisi in un determinato contesto rievocato dalla narrazione. L’impegno comunicativo che gli autori hanno scelto di mettere in pratica attraverso la scrittura dovrebbe infatti essere un abitudine condivisa nei reparti di Oncologia. Le competenze narrative e relazionali sono infatti abilità che devono essere esercitate, monitorate e implementate come qualsiasi altra competenza. Per abitudini culturali e/o personali siamo abituati invece a perseguire percorsi (auto-)formativi

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rigorosi solo negli ambiti tecnico-scientifici, rilegando le cosiddette soft skills a una comprensione ingenua e non modificabile.

La narrazione è invece un atto creativo spesso condiviso, sicuramente condivisibile, che possiamo sperimentare e esercitare teoricamente e pragmaticamente. Il narrare, più genericamente l’espressione, rappresenta un processo che modella la nostra esperienza e il nostro modo di relazionarsi al mondo e agli altri, rappresenta “una relazione dialogica intenzionale con il mondo” (Bakhtin 1981, p. 352). Le nostre esperienze, le mille voci che ci rappresentano, intessono e permettono un’immaginazione dialogica che definisce il nostro personale modo di stare al mondo. Così, ad esempio, nei racconti qui analizzati il linguaggio tecnico-scientifico rappresenta un veicolo immaginativo tra la dimensione personale (prima che professionale) degli autori e i loro interlocutori, siano essi i pazienti delle storie, siano invece i lettori del testo. Poiché tale linguaggio rappresenta l’esperienza, il mondo comune degli autori e il ponte tra sé e gli altri. “Da un punto di vista operativo, qualunque cosa ti trovi a fare è ciò che sei” (Efran et al.1990, p. 51). La parola chiave Narrazione emerge infatti come un contenitore linguistico dell’incontro con l’altro.

Possiamo però riconoscere anche un altro livello interpretativo. Un livello che contrappone a una continuità linguistica e narrativa tra dimensione tecnico-scientifica e dimensione narrativa, una rottura totale di questo apparente vincolo linguistico. Gli autori hanno infatti mostrato in molti casi un gusto e dei cliché stilistici tipici della letteratura fantastica e della dimensione di incertezza e rottura che la caratterizza. Nei racconti ritroviamo elementi tipici della letteratura fantastica come (i) il tema dello sguardo che travalica la dimensione verbale (Lo Sguardo) e (ii) una dimensione romantica nella costruzione della storia (La Prova) dei loro veri protagonisti, ovvero i pazienti (Todorov 2000, pp. 34-43). Il fantastico è in ogni caso una scelta che l’autore e il lettore operano nel dare senso alle loro storie e alle loro vite. E ovviamente alla relazione che scelgono di stabilire tra di loro.

Qualsiasi narrazione non prescinde infatti dal senso e dalle finalità relazionali e comunicative che l’autore in primis sceglie (di nuovo a diversi livelli di consapevolezza) di instaurare con il lettore. È quindi importante riflettere sull’intentio auctoris (Eco 1990) che non può prescindere da un primo livello di audiance di pari ed una finalità che immaginiamo essere se non educativa, quanto meno divulgativa, rivolta a un secondo livello più ampio di audiance di lettori diversi. Esiste inoltre una circolarità più volte evidenziata da Umberto Eco (1990) tra l’internazionalità dell’opera e dell’autore, che il lettore può solo in parte comprendere. Se vogliamo esercitare le competenze narrative sopra riportate, dobbiamo presupporre una distinzione tra questi due piani (il desiderio di scrivere ciò che l’autore ha scritto può essere scisso dalla scelta di pubblicare il testo) e la finalità che noi stessi ci diamo nel leggere

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i racconti. Probabilmente ciò che possiamo condividere (autori, lettori, interpreti) è la convinzione che narrare le storie dell’oncologia ci aiuti a dare senso alla nostra esperienza personale e professionale.

Conclusioni

La scelta di esemplificare e ridurre a poche frasi le storie di così tante vite è ovviamente arbitraria e necessariamente parziale. Immagino che per chi si confronta ogni giorno con l’oncologia la dimensione del tempo che emerge dai risultati non stupisca. Le analisi sulle sequenze di parole e temi hanno evidenziato una sovrapposizione tra tempo narrativo e tempo terapeutico. Ed in particolare le parole chiave più significative mostrano tutte una scansione (se non una frattura) tra un prima e un dopo in cui la comunicazione, la narrazione del e con l’operatore corrisponde appunto a una frattura. L’incontro con chi lavora in Oncologia rappresenta per i pazienti l’inizio di un nuovo mondo, di una visione di sé e della loro storia totalmente diversa. Questa dimensione temporale ci permette forse di cogliere tutto il carico personale e professionale con cui gli operatori devono fare i conti ogni giorno.

Al contempo, questa cesura narrativa data dall’incontro è anche l’inizio di una nuova prospettiva: l’inizio della relazione e della co-costruzione di senso tra paziente e operatore. Qui emerge tutta la forza espressiva e tutto l’investimento umano che i nostri autori mettono ogni giorno nel loro lavoro. Ognuno con le proprie storie, col proprio linguaggio, con le proprio debolezze, ma sempre cercando senza requie un modo di esser-ci e di stare nella relazione sia con i propri pazienti dentro la storia, che con i propri colleghi e lettori attraverso la storia. Viene quindi da chiedersi perché le strutture universitarie e ospedaliere raramente favoriscano simili esperienze, offrendo anche a chi non si riconosca nella narrazione scritta una dimensione formativa verbale per esercitare le competenze di cui abbiamo parlato. La relazione è infatti un’arte per la quale si può avere inclinazioni, ma che richiede sempre un percorso assiduo di sperimentazione e crescita.

Se riflettiamo sull’atto, sull’intenzione di fermarsi nel turbine delle vite personali e professionali e scegliere di scrivere, di distrarsi dalle pressioni lavorative e scegliere di ascoltare, incontrare la persona che chiamiamo paziente allora, forse, possiamo cogliere il senso di questi racconti. Possiamo riconoscere nella scelta consapevole di vedere nell’incontro con l’altro, anche se breve, improvviso e inatteso, un’occasione di dare senso a noi stessi e al nostro mondo.

“Un uomo che camminava per un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo. La tigre lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo guardò giù,

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dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva. Due topi, uno bianco ed uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola. Com’era dolce!”

Senzaki & Reps 1978, p. 34

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Conclusioni

La vita e la professione dell’oncologo si collocano al crocevia di molte storie. In primis le storie dei pazienti attorno alle quali ruotano molte scelte e molti dubbi, molte speranze e molti timori. Quel che il paziente racconta è ciò da cui tutto nasce, al di là delle capacità e delle possibilità dell’oncologo.

E così le storie qui raccolte situano quasi sempre il proprio “tutto ebbe inizio” in quel primo incontro: quando la storia di colui, che per semplicità chiamiamo paziente, dà origine nel dialogo all’ennesima storia di un operatore e dischiude a numerose altre storie. Le storie non sono infatti mai storie e basta, storie a se stanti. Sono sempre una parte, un lembo di un ben più vasto macramè di ricordi, emozioni, pensieri più o meno ordinati a cui molti contribuiscono.

Le persone che incontriamo nei nostri reparti sono infatti sempre circondate da molti attori, più o meno assidui e presenti. Vi sono i familiari, che possono svolgere il ruolo di coprotagonisti o comparse nelle scene a cui partecipiamo. Vi è poi l’ospedale, il territorio, la comunità, l’ambiente che da colore, che forma la scenografia delle nostre storie condivise con i pazienti. Così che scrivere, pensare, parlare di oncologia è ormai un tema con cui in molti si confrontano e che popola molte narrazioni sociali nelle quali siamo immersi.

Vi è infine, la nostra storia. O meglio, ciò che noi scegliamo di vivere e raccontare a partire dal momento in cui imbocchiamo, professionalmente, la via dell’oncologia. Ogni capitolo del nostro racconto è scandito dagli incontri con i nostri pazienti e con i nostri colleghi. Il più delle volte possiamo dare un nome, un senso, un ricordo ben specifico al capitolo a partire da una singola persona, una singola storia nella quale ci siamo imbattuti. Così i racconti che abbiamo qui raccolto sono in qualche modo delle piccole galassie che ruotano attorno a “quel caso”, a “quel giorno” in cui ho incontrato il signor o la signora….

Marcel Proust diceva che il vero libro non deve essere inventato, poiché esiste già dentro di noi. Ciò che spetta allo scrittore è l’impegno, il rigore nel tradurre a se stessi e agli altri ciò che abbiamo in noi, ciò che abbiamo già vissuto. Così scrivere, raccontare le storie dell’oncologia, rappresenta, a mio avviso, uno strumento per riflettere, ponderare e revisionare il

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nostro modo di incontrare gli altri. Se al paziente è concesso il diritto di non vincolare la sua esperienza, a noi è invece richiesto l’obbligo di affrontare professionalmente gli “incontri”, le “storie” e, interrogarsi, riflessivamente, sulle modalità comunicative e relazionali da noi messe in gioco.

Non dobbiamo infatti pensare allo scrivere e al ripensare le nostre storie come ad una forma di evasione, un ozio da vivere in contrasto e in alternativa alla quotidianità professionale. La competenza narrativa rappresenta una componente imprescindibile del nostro lavoro e come ogni competenza deve essere monitorata ed implementata. Il pensare che rappresenti solo una “fuga romantica” ha come effetto il validare implicitamente competenze, apparentemente opposte, in cui della narrazione, delle storie personali non vi è traccia.

La sfida di fronte alla quale ci pone un libro come questo è proprio quella di non considerarlo e non presentarlo come una parentesi dal “vero lavoro”. Simili esperienze devono invece fungere da catalizzatore di approcci e metodologie a cui tributare lo stesso impegno e lo stesso rigore che mettiamo negli altri ambiti della nostra professione. I numerosi studi esistenti su costrutti come qualità della vita, compliance, supporto sociale, percezione del dolore, fatigue, etc. assumono e confermano la centralità della dimensione personale e comunicativa nel percorso di cura. A noi la scelta se accettare questa “sfida” e non tirarsi indietro, oppure rinforzare una “vecchia” costruzione elitaria del ruolo del medico che nel tempo libero si affida a calamaio e penna.

LuisaFioretto Vice Presidente CIPOMO

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Dal catalogo

Luisa Fioretto e Gianpiero FasolaIl Sistema Oncologia. Strutture, Dipartimenti e Processi di

Dipartimentalizzazione

Fabrizio Benedetti Effetti placebo e nocebo. Dalla fisiologia alla clinica

Peter Gluckman, Alan Beedle, Mark Hanson Principi di medicina evoluzionistica

Fabrizio Benedetti Il cervello del paziente

Peter C. GøtzscheMedicine letali e crimine organizzato. Come le grandi aziende farmaceutiche

hanno corrotto il sistema sanitario

Giovanni Fioriti Editore - Roma

Medicinadiretta da Gilberto Corbellini

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2002, pp. 240, € 17,00Medicina genetica. Una logica della malattia di Barton Childs, 2004, pp. 365, €

32,00 Darwin contro il cancro. In che modo l’evoluzionismo può aiutare la prevenzione e il tratta-

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2011, pp. 480, € 42,00L’estasi farmacologica. Uso magico-religioso delle droghe nel mondo antico di Paolo Nenci-

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pp. 364, € 35,12 Evoluzione umana. Una prospettiva neuropsicologica di John Bradshaw, 2001, pp. 310,

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2001, pp. 526, € 36,00Sempre da Adamo ed Eva. L’evoluzione della sessualità umana di Malcolm Potts e Roger

Short, 2002, pp. 316, 94 foto, € 40,00L’evoluzione esplosiva. Come gli esseri umani provocano rapidi cambiamenti evolutivi di

Stephen R. Palumbi, 2003, pp. 242, € 17,00La cattedrale di Darwin di David Sloan Wilson, 2009, pp. 266 La mente dipinta. La scienza del comportamento nascosta nei capolavori della pittura di

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