SAPIENTI E PROFESSORI e all’esoterismo autentico. · religioni o del pensiero tradizionale in...

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SAPIENTI E PROFESSORI Pretese comparazioni tra il linguaggio metafisico di Ibn Arabi e di Renè Guénon: scusa per un attacco all’Opera di Guénon, alla metafisica tradizionale e all’esoterismo autentico. Argomento tratto dall’ultimo capitolo dello studio: “Tra Gnomi e Genomi: la Conoscenza metafisica di fronte alla scienza moderna”. Il capitolo successivo del presente studio, “Sapienti e professori”, avrebbe potuto costituire benissimo un lavoro a sé stante separato dal presente studio con il quale potrebbe sembrare non avere molta attinenza ma, invero, ne è collegato più di quanto inizialmente non sembri esserlo. Infatti, poichè nel trattare gli argomenti sulle scienze tradizionali, la scienza moderna, i “segni” della natura e la corrispondenza con i principi metafisici di cui sono traduzione cosmico-simbolica e più profondo significato, noi abbiamo usato anche un linguaggio che, se rispetta sempre l’esatta corrispondenza di principio con quello usato dai vari Maestri spirituali delle varie tradizioni ed epoche, può tuttavia a volte apparire “nuovo” o poco usuale almeno quanto a certe espressioni di linguaggio che sono tuttavia sempre corrette e rigorosamente adeguate al concetto ed alla verità che vogliono esprimere nell’occasione. Poichè, inoltre, questo riguarda soltanto l’apparenza e la forma espressiva non avendo infatti, noi, alcuna pretesa di “originalità” che peraltro non sarebbe affatto qualcosa di positivo quando si abbia a che fare con le dottrine tradizionali ed il mondo della Tradizione, riteniamo non solo utile ma anche necessario precisare alcune cose. La necessità di affrontare, nel contenuto di questo libro, un argomento come quello del presente capitolo nasce, oltre che da un’esigenza di rispondere a quella che consideriamo un’intollerabile provocazione nei confronti dell’Opera di Guénon da parte di alcuni detrattori, palesi od occulti, anche dal fatto che vogliamo prevenire la possibile, falsa conclusione verso la quale, alcuni “professori”, attuali o futuri, sui quali meglio chiariremo, potrebbero, più o meno malevolmente, pilotare chi ancora non sia giunto a possedere quella “bussola infallibile” che Guénon indicava nella corretta conoscenza dottrinale dei principi e delle dottrine metafisiche. Falsa conclusione consistente nell’affermare o nel voler far credere che, la differenza di linguaggio, l’uso di certe espressioni e di certi simboli, possa costituire una nostra originalità di linguaggio, un nostro “pensiero”, una nostra “concezione personale” se non addirittura una nostra dottrina o filosofia. Guénon ha spiegato più volte come, le dottrine tradizionali non sono una filosofia o un pensiero di questo o quell’autore; e

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SAPIENTI E PROFESSORI

Pretese comparazioni tra il linguaggio metafisico di Ibn Arabi e di Renè Guénon: scusa per un attacco all’Opera di Guénon, alla metafisica tradizionale

e all’esoterismo autentico.

Argomento tratto dall’ultimo capitolo dello studio: “Tra Gnomi e Genomi: la Conoscenza metafisica di fronte alla scienza moderna”.

Il capitolo successivo del presente studio, “Sapienti e professori”, avrebbe potuto costituire benissimo un lavoro a sé stante separato dal presente studio con il quale potrebbe sembrare non avere molta attinenza ma, invero, ne è collegato più di quanto inizialmente non sembri esserlo. Infatti, poichè nel trattare gli argomenti sulle scienze tradizionali, la scienza moderna, i “segni” della natura e la corrispondenza con i principi metafisici di cui sono traduzione cosmico-simbolica e più profondo significato, noi abbiamo usato anche un linguaggio che, se rispetta sempre l’esatta corrispondenza di principio con quello usato dai vari Maestri spirituali delle varie tradizioni ed epoche, può tuttavia a volte apparire “nuovo” o poco usuale almeno quanto a certe espressioni di linguaggio che sono tuttavia sempre corrette e rigorosamente adeguate al concetto ed alla verità che vogliono esprimere nell’occasione.

Poichè, inoltre, questo riguarda soltanto l’apparenza e la forma espressiva non avendo infatti, noi, alcuna pretesa di “originalità” che peraltro non sarebbe affatto qualcosa di positivo quando si abbia a che fare con le dottrine tradizionali ed il mondo della Tradizione, riteniamo non solo utile ma anche necessario precisare alcune cose.

La necessità di affrontare, nel contenuto di questo libro, un argomento come quello del presente capitolo nasce, oltre che da un’esigenza di rispondere a quella che consideriamo un’intollerabile provocazione nei confronti dell’Opera di Guénon da parte di alcuni detrattori, palesi od occulti, anche dal fatto che vogliamo prevenire la possibile, falsa conclusione verso la quale, alcuni “professori”, attuali o futuri, sui quali meglio chiariremo, potrebbero, più o meno malevolmente, pilotare chi ancora non sia giunto a possedere quella “bussola infallibile” che Guénon indicava nella corretta conoscenza dottrinale dei principi e delle dottrine metafisiche. Falsa conclusione consistente nell’affermare o nel voler far credere che, la differenza di linguaggio, l’uso di certe espressioni e di certi simboli, possa costituire una nostra originalità di linguaggio, un nostro “pensiero”, una nostra “concezione personale” se non addirittura una nostra dottrina o filosofia. Guénon ha spiegato più volte come, le dottrine tradizionali non sono una filosofia o un pensiero di questo o quell’autore; e

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se qualcosa di “personale” esistesse in una qualche esposizione delle “dottrine tradizionali” e metafisiche, quella è la parte meno importante e forse persino meno autentica e meno vera. Infatti, nell’esposizione delle dottrine tradizionali non deve esserci proprio nulla di personale, di soggettivo, e di “proprio” se non la forma espressiva nei limiti in cui fosse necessario e dove questo rendesse più facile la comprensione senza peraltro mai semplificare, o ridurre la dottrina stessa facendola scendere ai livelli più grossolani ma proprio, invece, per permettere di salire ad essa. Tutto ciò che è emanazione puramente individuale non interessa affatto costituendo, anzi, proprio il limite di un’esposizione e niente affatto qualcosa di interessante. Il miglior Maestro spirituale, allorchè sia sua funzione anche la trasmissione della dottrina e non soltanto la guida dei discepoli, è colui che riesce a trasmettere la Verità universale nella sua forma più pura, senza contaminazioni e limiti individuali e condizionamento emozionali. La conclusione è pertanto che la Verità è Una, come Una è la Conoscenza che la concerne. In diretta relazione a ciò è che la Conoscenza tradizionale della Realtà metafisica e dei principi che la concernono è universale e sempre identica, immutabile come lo è l’ordine di Realtà cui si riferisce. Ciò che cambia sono soltanto le forme espressive che si adattano sia pure con limiti precisi, ai crescenti limiti di comprensione degli uomini. E se la conoscenza è unica lo è anche il vero esoterismo, presente dietro ogni forma tradizionale come un Cuore, motore intellettuale, che rende viva e mantiene la stessa forma. I Maestri spirituali, i Saggi e i sapienti di loro non mettono semmai che i limiti ma, in ogni caso, ove siano veramente tali, il loro linguaggio quale che sia, non impedisce mai di risalire alla Fonte universale della Conoscenza pura anche quando, eccezionalmente, possa non essere perfettamente adeguato nella forma ad esprimere l’ordine di realtà superiore che, le dottrine tradizionali hanno funzione di trasmettere a chi sia ancora capace di comprenderle. Se il tentativo di tracciare inesistenti differenze dottrinali tra l’esposizione della Conoscenza metafisica fatta da Guénon con il suo rigoroso linguaggio e quello di altri Maestri spirituali è stato fatto già nei suoi confronti con l’evidente fine di screditare lui e la stessa dottrina, possiamo immaginare che cosa potrebbe essere fatto nei nostri confronti quando abbiamo adottato in questo studio, ritenendolo nell’occasione utile e opportuno, espressioni che non sempre sono, a primo impatto, riconoscibili o riconducibili al linguaggio generalmente usato dai vari Maestri e dallo stesso Guénon ma che, nondimeno, contribuiscono a comprendere i concetti tradizionali già esposti da loro, confermandoli e mai contraddicendoli; cosa che ci avrebbe posto fuori di ogni ortodossia. E’ evidente, del resto, che non ci preoccupa affatto l’attacco personale che potrebbe essere fatto quanto il danno alla dottrina che, essendo esattamente la stessa trasmessa da quei Maestri compresa ovviamente quella dell’impareggiabile Maestro della più recente epoca, Guénon, l’attacco stesso si risolverebbe in un ennesimo tentativo, consapevole o meno poco importa, di relativizzazione l’universalità della dottrina e svilire l’evidenza e la forza di questa consapevolezza.

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SAPIENTI E PROFESSORI

A Sapienti dello Spirito – Sapienti dell’esteriore –

Professori ed eruditi – Professori dell’esoterismo Non riteniamo inutile o superfluo concludere il presente lavoro con qualche

precisazione che, se avrebbe avuto soltanto una qualche ragione di porsi anche in una civiltà normale, cioè tradizionale, è diventato invece importante se non addirittura inevitabile farlo, soprattutto nelle attuali condizioni dell’umanità. Avrebbe avuto qualche ragione di porsi, dicevamo, anche in una civiltà normale perchè già da diversi secoli, ormai, la stessa distinzione nel mondo della Spiritualità tra “esoterismo” ed “exoterismo” stabilisce già in via naturale, nel primo caso, un’attitudine alla penetrazione e all’interiorizzazione degli argomenti in conformità, del resto, con la natura stessa della Spiritualità, e, nel secondo, un’esteriorizzazione che è collegata ai limiti di “qualificazione intellettuale” nel significato autentico di questo termine, della stragrande maggioranza degli uomini.

La differenza tra un’attitudine “dottorale” e quella sapienziale, si era già stabilita all’interno delle varie civiltà tradizionali dove, appunto, i sapienti si sono trovati a dover fronteggiare l’esteriorismo e gli attacchi dei cosiddetti “sapienti dell’esteriore” e dei “dottori della legge”, il cui esteriorismo e letteralismo giungeva a volte addirittura ad impedire l’accesso “allo spirito oltre la lettera”; un passaggio che, ovviamente, non implicava affatto che quest’ultima venisse contradetta ma che, al contrario, rivelava così i suoi aspetti più elevati e le sue ragioni più profonde che la illuminavano e la giustificavano, facendone comprendere pienamente la ragione.

Si tratta di una nota distinzione tra il “maestro” inteso come colui che ha accumulato in quantità i vari aspetti catechistici di una tradizione e colui che, “Vero Maestro”, è in grado di trasmettere lo spirito delle parole, di seguire, di guidare, di far progredire ed avanzare, perché ha operato innanzi tutto su sé stesso la comprensione profonda e l’applicazione degli insegnamenti appresi o ricevuti.

Questa prima distinzione, però, se aveva una sua legittimità e ben valide ragioni di porsi perché era ed è collegata alla funzione stessa delle varie Rivelazioni e alla natura delle dottrine tradizionali, non ha invece nulla a che vedere con la distinzione della quale ci occuperemo in questo capitolo. La distinzione tra esteriore ed interiore, tra fede ed evidenza, tra erudizione e Conoscenza, tra devozionismo, virtù morali e misticismo, da una parte, e Conoscenza, Sapienza e Saggezza dall’altra ma anche tra Conoscenza ed ignoranza pura e semplice, è qualcosa che attiene ancora alla naturale differenza tra gli uomini e ai loro diversi livelli di

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qualificazione intellettuale. Da qualche tempo, invece, si è creata una figura nuova di soggetti interessati alle dottrine tradizionali e agli scritti dei Maestri spirituali delle varie tradizioni e delle varie epoche. Non alludiamo neppure a quelli che sono generalmente noti come “gli orientalisti”, categoria di studiosi della storia delle religioni o del pensiero tradizionale in genere e già sufficientemente catalogati tra gli ignoranti di quello che è l’autentico spirito tradizionale.

Ignoranti, perchè, oltre a travisare il più delle volte il pensiero, la forma espressiva, il concetto e soprattutto i significati, rapportandoli alla loro mentalità e a quella della loro epoca, nonchè ai loro limiti di comprensione ed ai condizionamenti della loro traboccante sentimentalità e moralismo che sono estranei al contenuto delle dottrine tradizionali ma anche alla più vera attitudine tradizionale, pretendono di avvicinare e di commentare quegli insegnamenti il cui spirito e la cui verifica che deve tradursi in evidenza affinchè vi sia certezza che sono stati compresi, gli è assolutamente interdetta.

Intendiamo parlare invece di una nuova specie di esploratori del pensiero e dell’esperienza umana che è più esatto qualificare “studiosi” o “analisti” di quelle dottrine che sono in realtà state riservate sempre e soltanto a neofiti, i quali, appresi i principi ed in concetti in modo teorico, dovevano poi realizzarne i contenuti conseguendo la Conoscenza effettiva che coincide con il superamento dei limiti stessi della condizione umana. Un fine che, secondo altre espressioni tradizionali, viene anticipato da un’“Illuminazione” che è propedeutica alla “Liberazione” o, secondo un altro modo di esprimersi, è il “Vertice ultimo” di quella che viene definita la “Realizzazione spirituale” o il “Termine del Cammino”, la “Meta Suprema”.

Se i sapienti dell’esteriore e quelli dell’interiore appartengono entrambi, ognuno al loro legittimo livello e funzione, al mondo della Tradizione, gli “orientalisti” ed i vari “professori”, invece, non sono altro che una specie tutta moderna e relativamente recente: profani che curiosano in un mondo che non gli appartiene e dal quale restano esclusi.1 Il loro sapere è erudizione, cumulo di informazioni, estetismo, collezione di formule quasi sempre scorrette e collegate in sincretismi confusi e confusionari; imbevute di sentimentalismo e di pregiudizi di ogni sorta, anche quando non vogliano intenzionalmente screditare le dottrine alle quali si avvicinano. Il vizio di origine è attitudinale oltre che di metodo: per loro tutto quello che toccano non è altro che “pensiero”, “filosofia”; al massimo, dati di “fede” o credenze; deduzioni di questo o quel pensatore, per elevato che possa venir considerato sul piano del rigore logico e concettuale, del ragionamento, della morale, dell’acutezza, dello stile. Per paradossale che sia, questo “vizio” di origine accompagna anche quelli, tra i “professori”, che sono disposti ad ammettere che, in certe dottrine ed in certi Autori, può esserci qualcosa di più che il semplice

1 Sarà appena il caso di precisare che qui il termine “professori” non è usato per indicare

l’intera categoria di coloro che esercitano questa professione, nel suo ambito onorevole. E’ all’attitudine “professorale” abusivamente assunta e trasferita in campi nei quali per loro stessa natura la escludono, che noi ci riferiamo in questo capitolo.

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“pensiero” e magari si dispongono ad accettare una determinata disciplina tradizionale cui quegli Autori stessi fanno riferimento. La loro autorità e il loro livello di comprensione, soprattutto quando rimangono all’esterno di quelle discipline quasi in un preteso distaccato giudizio che tale non è affatto, sono spesso al di sotto persino dei più esterioristi tra i “sapienti dell’esteriore” che, quanto meno partecipano, sia pure ad un livello esteriore e per via di “fede”, di una Luce che è pur sempre presente in tutti i livelli dal più basso al più elevato dell’autentica Spiritualità, sotto qualunque forma tradizionale si sia espressa. Questa condizione permane, persino quando essi diano l’apparenza, rispetto all’ottusità e magari alla stessa ostilità nei confronti dell’esoterismo da parte dei “sapienti dell’esteriore”, di un maggior rispetto, perché, quella considerazione, derivando da un’attitudine e da una posizione di laicismo e di disinteresse per una qualsiasi condivisione o partecipazione ad una qualunque forma tradizionale o pratica rituale, vale a dire da un’attitudine profana, non partecipa di alcuna sacralità ed autentica comprensione.

Questo per quanto riguarda soprattutto gli “orientalisti” e gli studiosi in genere;

quando poi si passi all’ultima categoria, quella alla quale abbiamo ancora appena accennato, le cose diventano veramente significative della condizione quale si è ormai ridotto l’uomo moderno anche quello che, sia pure di poco, sembrava ancora potersi elevare al di sopra della squalificazione della stragrande maggioranza.

La nuova categoria, peraltro di recente formazione, è quella dei “professori dell’esoterismo” e non c’è nulla di più disdicevole ed anche di più antipatico e diremmo stomachevole, dover assistere alle loro performance. E’ facile capire il perché: l’ignoranza pura e semplice, l’incomprensione riscontrabile persino nell’esposizione letterale se non addirittura l’ostilità; il rigetto, la critica ed il rifiuto delle dottrine tradizionali è ancora qualcosa che permette di orientarsi, di capire, se non altro, chi si ha di fronte e di potersene difendere decidendo se spendere o meno il proprio tempo ad interloquire o a leggere quello con cui ci si viene ad imbattere. Nella nuova categoria, invece, avviene qualcosa che il passato ci aveva risparmiato: ai “professori” di filosofia, di storia o scienza delle religioni, di antropologia e sociologia si sono ora aggiunta la nuova categoria, appunto, quella dei “professori dell’esoterismo” e la ragione è probabilmente legata al fatto che, un tempo, certi testi e certi autori tradizionali erano veramente inaccessibili ed impenetrabili sicché: il ristrettissimo ambito di divulgazione, lo stesso stile e lo stesso linguaggio, facevano da schermo protettivo che non incoraggiava a procedere molto oltre la lettura. Avere invece appreso una serie di chiavi di lettura che hanno permesso e permettono sempre di più di aprire molti dei sigilli che racchiudevano certi testi e certi Autori, grazie soprattutto alla funzione che, ad esempio, ha svolto in Occidente René Guénon (lo Shaikh Abdel Wahid Yahya), ha messo in condizione certuni, oltre che per la sua chiarezza espositiva anche per il fatto che egli ha potuto esprimersi liberamente da costrizioni obbligatorie di linguaggio e da simboli necessariamente imposti da questa o quella determinata tradizione, da questo o quel dogmatismo e da un determinato specifico linguaggio o ambiente tradizionale, di poter accedere a certe tematiche.

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Aver potuto esprimersi in un contesto come l’Occidente moderno dove non è stata più necessaria alcuna cautela e alcuna prudenza se non l’obbligo interiore del rispetto della Verità e la serietà dell’espressione, ha permesso a Guénon di enunciare la dottrina metafisica nella più pura forma concettuale e con un pensiero il più libero da immagini ed esenti da sentimentalità non dovendo rendere conto ad alcun dogmatismo formale. Se egli ha usato, secondo i casi, espressioni e terminologie tratte dalla tradizione indù, taoista, islamica, massonica, cristiana, o ebraica, questo è perché egli espone una dottrina non sua; non un pensiero individuale o una filosofia personale ma l’insegnamento Unico ed Universale che appartiene alla metafisica pura e all’esoterismo tradizionale.

La dottrina metafisica e l’insegnamento esoterico sono perfettamente gli stessi dietro ogni più diversa forma tradizionale.2

2 Non esistono “esoterismi” al plurale; l’esoterismo è unico. Ciò che si presenta sotto

l’apparenza di una differenza formale di simboli e di espressioni o anche di applicazioni contingenti, appartiene alle varie espressioni dell’exoterismo non all’esoterismo. L’insegnamento esoterico è sempre identico in ogni epoca e tradizione per cui non ha veramente senso fare del termine “esoterico” qualcosa di misterioso come se ci fossero più esoterismi. Sono le “forme” a essere “rivestite” di veli non l’esoterismo. L‘esoterismo “svela”, chiarifica, dà significato a quello che è semmai nella forma che appare come qualcosa di non perfettamente riconoscibile e comprensibile proprio per il suo necessario letteralismo dogmatico di cui è necessariamente rivestito. Se c’è qualcosa che merita l’accusa di “occultismo” dovrebbe dunque paradossalmente applicarsi proprio all’exoterismo più estremista in ragione del fatto che è proprio il letteralismo ad ingenerare, non di rado e proprio per sua natura, le contraddizioni logiche più assurde nel campo dottrinale ed è del resto proprio su queste debolezze logiche che hanno buon gioco gli pseudofilosofi del materialismo scientifico e della critica dogmatico-religiosa. Ovviamente se l’insegnamento celato dietro le forme espressive, le immagini ed i simboli è uno e identico ovunque, anche la modalità di trasmissione di questo insegnamento può a volte doversi rivestire delle immagini stesse di cui è rivestita la forma tradizionale nella quale l’attività iniziatica ed esoterica si svolge proprio per non entrare in un conflitto che sarebbe comunque sempre e soltanto apparente, con essa; ed anche perchè è dall’esteriore che si parte per penetrare all’interiore cui si può pervenire e non viceversa. Quest’ultima ipotesi che sarebbe allora un procedimento “discendente” equivarrebbe infatti soltanto ad una funzione e pertanto non riguarda più personalmente colui che la svolge essendo presupposto logico che egli già possieda la Conoscenza ma riguarda invece coloro verso i quali l’Opera è compiuta. Soltanto questo può suscitare problemi di linguaggio e la necessità di un adattamento tale che trasferisca lentamente colui che vuole essere guidato, dall’esteriore all’interiore, dalla lettera allo Spirito, dall’immagine alla dottrina, dalla forma espressiva all’insegnamento unico ed universale. E’ esattamente questo il problema e la funzione degli autentici Maestri spirituali che svolgono questa funzione all’interno della loro rispettiva forma tradizionale nella quale si trovano ad operare. Soltanto chi non è strettamente obbligato per un vincolo sociale che può comportare l’accusa di “eresia” o il pericolo della stessa vita (come pur fu il caso di molti Maestri della Tradizione: da Socrate nel mondo greco a Gesù nell’ambito ebraico; da Al Hallaj nell’Islam a Giordano Bruno ed ai Templari nel Cristianesimo, ecc. ecc.) può permettersi di esprimere la pura dottrina completamente libera da ogni rivestimento e collegamento con la forma tradizionale dominante potendo, tuttavia, in ogni momento, dare prova ed evidenza che, quella dottrina non è altro che lo “spirito” di ciò che la forma stessa riveste in immagini i cui significati sono infinitamente più profondi, coerenti ed elevati di quelli che, non già la forma in sé stessa, ma solo il limite di coloro ai quali generalmente essa si rivolge, impedisce loro di penetrare.

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Questa straordinaria opportunità ha potuto verificarsi attraverso l’Opera di Guénon soltanto in quanto la forma tradizionale dell’Occidente ha perduto da qualche tempo quel potere che si era potuto esercitare sin nelle forme più estreme di persecuzione manifestatisi nell’inquisizione e nei roghi, contro coloro che, per una ragione o per l’altra, cadevano sotto il sospetto o l’accusa di eresia insieme ai veri o presunti praticanti di stregoneria, con ciò colpendo, invece, anche autentiche “vie iniziatiche” come l’Ordine dei Templari e giungendo minacciosamente vicino a quel che rimaneva dell’Ermetismo, dell’Alchimia e degli altri Ordini quali: la “Fede Santa” e i “Fedeli d’Amore” oltre che la stessa “iniziazione cavalleresca” e le “iniziazioni di mestiere” che ancora sopravvivevano in Occidente, nell’ultima fase del Medio Evo.

Questa possibilità ha potuto consentire a Guénon di esporre le dottrine tradizionali nel linguaggio della più pura metafisica ed attraverso i puri concetti dottrinali liberi da veli ed immagini che non fossero altro che quelli imposti dai limiti del linguaggio umano, della logica e del concetto mentale.3 Ha potuto permetterselo operando il miracolo di esporre in capitoli di quattro, cinque pagine ciascuno, concetti sepolti da secoli ed avvolti nella confusione più inestricabile. Si pensi alla puntualizzazione e alla chiarificazione dei concetti di “ infinito” ed “indefinito”, di “Principio supremo”, di “essere e non essere”, di “ io e Sé”, di “Principio e manifestazione”, di “Possibilità totale”, di “creazione e manifestazione”, di “Demiurgo”, di “ iniziazione e realizzazione spirituale”, di “salvezza e Liberazione”, di “Realizzazione ascendente e discendente”, di “ iniziazione e misticismo”, di “esoterismo ed exoterismo”, di “piccoli misteri e grandi

3 Cogliere i “segni” della “Volontà del Cielo” o di quella che in termini religiosi è definita la

“Provvidenza”, permette di comprendere sempre tutto quanto nella storia dell’umanità si è verificato anche di apparentemente “negativo” e “contraddittorio”. E’ evidente che allorchè l’exoterismo si allontana dalla sua Fonte originaria fino a poter diventare ostile ad essa trascinando con ciò sé stesso e la comunità nella quale deve svolgere la sua funzione “salvifica” e subendo una progressiva disfatta in favore delle forze oscure che caratterizzano la “civiltà moderna”, materiale e dissolvente, questo è “un segno dei tempi” che evidenzia lo scadimento intellettuale e spirituale non solo delle guide ma dell’intera umanità. Tuttavia, allorchè ciò consenta il manifestarsi del puro insegnamento dottrinale in tutta la sua potenza intellettuale, questo manifestarsi, se non deve far pensare ad un progresso o ad un miglioramento, deve vedersi tuttavia come il “bilanciamento provvidenziale” il cui scopo è arginare, con i mezzi più adeguati e dunque estremi ed efficaci, l’invadenza ormai dissolvente delle “orde di Gog e Magog”, secondo l’immagine tradizionale. E’ come se, nel massimo grado di caduta nel quale versa ormai l’intera Umanità, si rendesse infine necessario operare quella che è la scelta più estrema: scagliare la Verità, nella sua forma più libera e pura, contro l’errore, nel tentativo, ormai ultimo e finale di salvare i pochi che possono ancora essere salvati e di soccorrere gli ultimi ai quali può e deve ancora essere assicurato un risultato più elevato della semplice “salvezza” fornendo loro gli strumenti necessari. Ecco che l’una cosa non esclude e non contraddice l’altra: nel loro rispettivo piano le due prospettive sono entrambi vere. Vedere solo un aspetto della Verità è proprio quel limite che la Conoscenza, la Sapienza e la Saggezza hanno lo scopo di superare affinché l’essere possa compiere quella “realizzazione spirituale” che deve condurlo dall’ignoranza che lo paralizza nella visione relativa e contingente della realtà, all’Immutabile “Volto di Allah”, alla Realtà permanente ed effettiva, liberandolo dai limiti dell’esistenza condizionata verso l’incondizionato.

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Misteri”, di “salvezza e Liberazione”, di “psichico e spirituale”, di “molteplicità degli stati dell’essere e di stati superiori dell’essere”, di “Conoscenza teorica e Conoscenza effettiva”; di “ iniziazione virtuale e iniziazione effettiva”, di “punto di vista rituale e punto di vista morale”, di “ intellettualità e sentimentalità”, di “preghiera e incantazione”, di “Spirito ed intelletto”, di “ riti e simboli”, di “ influenza spirituale”, di “ realizzazione ascendente e discendente”, di “essenza e sostanza”, di “Centro del Mondo”, di “situazione cosmica attuale e civiltà moderna” di “solidificazione del mondo”, di “pseudo-iniziazione e di contro-iniziazione”, di “cicli cosmici, fine del mondo e fine di un mondo”, di “eternità, perennità e immortalità”, di “tempo e durata”, ecc. ecc. Concetti che grandi Maestri del passato a qualunque forma tradizionale siano appartenuti, hanno dovuto impiegare qualcosa come cento, duecento pagine per ogni singolo argomento e per ogni capitolo, ripetendosi spesso attraverso immagini e formule in numerosi attraverso una prudente operazione di “svelamento” e di nuovi “velamenti” ad un tempo. Operazione lenta e prudente, progressiva e saggia di suggerimenti e rassicurazioni, di affermazioni audaci e di “retrocessioni”, almeno apparenti, per non cadere nell’accusa di eresia e rischiare il rogo o la lapidazione quando non era per ubbidire all’ingiunzione tradizionale di non turbare la “fede del semplice credente”.

Sul piano operativo questo lavoro di meditazione, questo sforzo di passaggio dall’esteriore all’interiore che gli iniziati del passato dovevano compiere sopra le opere di quei grandi Maestri costituiva ovviamente un lavoro operativo, cioè, una meditazione che, attraverso la concentrazione dell’essere, favoriva il passaggio dalla “conoscenza teorica” e mentale a quella effettiva e realizzativa dove: “Conoscere” coincide esattamente con “essere”. Ciò implicava tuttavia anche un faticoso lavoro di discriminazione tra l’essenziale e il formale, tra l’accessorio e il necessariamente velato, tra ciò che apparteneva alla sfera della “purificazione” e della “devozione” e quello che apparteneva all’essenza della dottrina universale e alla Conoscenza pura.

Certamente anche quest’ultimo processo interiore aveva la sua valenza operativa ed era una costante verifica della qualificazione più profonda ma la chiarezza dottrinale e concettuale poteva persino non giungere se non dopo certi gradi della realizzazione effettiva.4

4 Potrà affermarsi che questo ha il suo vantaggio perché, in questo modo, non sorgono le

illusioni dell’”orgoglio intellettuale” ivi compreso lo stesso inganno rappresentato proprio dall’“orgoglio intellettuale” che fa ritenere il “viandante” di essere arrivato alla meta per il solo fatto di avere recepito mentalmente certi concetti di vertice della dottrina metafisica ancor prima di aver operato la “purificazione”, vale a dire, il distacco effettivo dagli attaccamenti, dalle passioni, dai limiti e dai vincoli dell’individualità che mantengono, confermano e rafforzano la condizione umana e che, soltanto la rimozione dei quali, può favorire quel più alto grado di Conoscenza, che sola, conduce colui che percorre la Via ad un diverso e superiore stato dell’“essere”. Quest’osservazione può essere vera ma se la “conoscenza teorica” porta in sé questo rischio non è una ragione per doverla ignorare o addirittura rifuggire visto che il suo scopo è proprio il passaggio alla “conoscenza effettiva”, cioè alla realizzazione dei suoi contenuti e di quelle che, se rimangono soltanto “enunciati concettuali” finché l’essere non realizza in sé quei contenuti stessi, restano tuttavia il mezzo più diretto e potente (e del resto forse proprio per questo più rischioso) per operare

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Che cosa è successo invece, allorché la categoria dei “professori dell’esoterismo” ha avuto l’occasione e la facile opportunità di accostarsi alle varie opere dei grandi Maestri successivamente all’opera di Guénon? Qualcosa che è inevitabile allorché si abbia a che fare, appunto, con “professori” e questo proprio perché certi argomenti ed insegnamenti non sono per professori ma per iniziati (neofiti, se non addirittura per adepti); e perché “iniziati” nel significato autentico del termine non significa essere stati facilmente ammessi a quel che oggi resta di una qualche Turuq (plurale di tariqa) cioè di una via iniziatica.5

B Subdoli attacchi all’Opera di Guénon

René Guénon (lo Shaikh Abdel Wahid Yahya) non ha alcun bisogno di essere

difeso da chicchessia; la sua Opera è la barriera difensiva più efficace ed imponente verso qualsiasi attacco e mistificazione diretta contro la Sua immagine, e soprattutto, contro la sua Opera quale espressione della Conoscenza metafisica e di un insegnamento universale che è poi ciò che, solo, realmente conta. Infatti, come lui stesso ha sempre precisato, non è la sua individualità che conta ma unicamente la dottrina universale, essendo, soltanto la Verità e i contenuti della Conoscenza tradizionale, le uniche cosa che contano visto che, l’individualità, non è altro che un occasionale supporto strumentale del tutto contingente rispetto alla perennità dei contenuti della dottrine tradizionali.

quel rivolgimento dall’esteriore all’interiore, dal virtuale all’effettivo. La “conoscenza teorica e mentale” contiene, infatti, virtualmente la “conoscenza effettiva” della quale è espressione simbolica. Guénon insiste più volte nel precisare che la “conoscenza teorica” con la meditazione sui suoi contenuti è l’unico presupposto e l’unica cosa quasi assolutamente indispensabile, più che soltanto necessaria, nella nostra condizione cosmica attuale, per poter proficuamente aderire e poi percorrere con frutto una Via iniziatica sempre dopo aver ovviamente ricevuto una valida iniziazione; ed essendo, tutto il resto: riti, formule, discipline, regole, obblighi e divieti tradizionali, supporti di ordine più esteriore per quanto importantissimi e necessari.

5 E’ inteso che noi non ce l’abbiamo affatto con i professori come categoria; è quando la loro competenza pretende di portarsi in campi dai quali essi sono esclusi per la natura stessa delle cose che si genera quella maschera grottesca che definiamo “professorini” o “professoroni” perche, cessando di essere autentici professori nel loro ambito, evidenziano allora, almeno a chi può ancora capire il senso reale delle cose, tutto il ridicolo di un atteggiamento che ha dietro di sé soltanto il niente. Ma perchè non si pensi neppure che ce l’abbiamo contro tutti quelli che, con attitudine di indagine seria e qualificata in senso tradizionale, commentano l’Opera di Guénon con il sincero fine di farla veramente conoscere ed apprezzare, diciamo subito che uno studio comparato su Guénon e Ibn Arabi è stato condotto anche nella rivista francese “Science Sacrée” da Max Giraud ma con uno spirito, un’attitudine ed una competenza ben diversa all’esito della cui lettura ne esce un quadro veramente chiarificatore ed eccellente.

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Questo preliminare è assolutamente vero nella consapevolezza che, gli unici soggetti interessanti, nella prospettiva dottrinale guénoniana sono quelli che possono essere in grado di capire la sua Opera; e che, quelli qualificati a tanto, possiedono, già per ciò stesso, i mezzi e le difese, traendoli dalla loro stessa qualificazione e dall’Opera stessa, per potersi difendere e per poter ad un tempo difendere quest’ultima, da ogni tentativo di confusione, di riduzione e di mistificazione.

In questo capitolo tralasceremo anche la serie dei detrattori accaniti, sia quelli interessati in quanto espressione cosciente di una funzione “contro-iniziatica” sia quelli più o meno stimolati da una presunzione che testimonia, secondo i casi, una sinistra deviazione intervenuta durante il percorso della Via o, più comunemente, soltanto un’invincibile ignoranza delle dottrine tradizionali ed una squalificazione assoluta di ordine intellettuale nel significato originario ed autentico del termine. Nel primo caso riteniamo di poter affermare che rientri F. Schuon mentre nel secondo rientrano senz’altro Umberto Eco, l’esimio professore di matematica Umberto Bottazini e qualcun altro. Quando parliamo di squalificazione per la comprensione di argomenti di autentica metafisica tradizionale e della Spiritualità non intendiamo che certi personaggi “non sono baciati dalla fede”, “non sono toccati nel cuoricino dalla grazia divina” o altre espressioni di una certa sentimentale religiosità che in fondo li rendono ancor più orgogliosamente felici; noi intendiamo che è presente in loro un insuperabile limite di intelligenza ed un’impossibilità naturale di attivazione dell’Intelletto universale (l’Intelligenza è la facoltà dell’Intelletto che è l’organo sottile che la consente) che impedisce loro di poter cogliere l’intuizione immediata di un certo ordine di realtà che anche di poco si discosti dalla mera grossolana percezione dei sensi corporei e dal ristretto uso della semplice ragione in tal modo condizionata dal sentimento capaci così di produrre un amplificato effetti di ignoranza delle cause. Ogni tentativo di penetrare oltre questa naturale barriera che costituisce un limite insuperabile è destinato a fallire. Ciò non di meno, trattandosi di soggetti nei quali una certa percezione fa loro presentire che, qualcosa che avvertono di non poter inquadrare in quel poco che è loro accessibile dell’idea di spiritualità, gli sfugge, si suscita in loro una incontenibile rabbia che mascherano dietro il sarcasmo o l’ironia.6 Quanto agli altri, quelli che non la comprendono affatto o che ritengono di

6 Dalle espressioni di scherno verso Guénon di Umberto Eco quando irride il suo rigore logico

ed argomentativo con parafrasi quali “il presupposto della supposta è che si prende per via anale...” o significativi “marchi di grottesco” in ciò analoghi, alle “dotte” critiche del matematico Umberto Bottazini secondo il quale “..Guénon ha scritto un libro dal titolo “i principi del calcolo infinitesimale” senza neppure conoscere la materia”, sono tutte significative dell’incomprensione profonda dell’intero campo della metafisica tradizionale e dell’autentica Spiritualità in genere. Quando poi si consideri che il titolo dell’articolo è “Guénon confusione infinita,” riferendosi a Guénon (!) evidentemente con la stessa “colta” sicurezza e superiorità con la quale sarebbe capace di attribuirla anche al Profeta, ai grandi Maestri, ai Sapienti e ai Saggi del Mondo Tradizionale, non resta, se la Misericordia non imponesse sobriamente il contrario, che un sorriso di commiserazione con i quale si giudicano i poveretti. Interessante la risposta in internet di Enzo Iurato all’esimio “professore”, titolata: “La beata ignoranza,” alla quale rimandiamo. Credere che Guénon abbia avuto intenzione di scrivere un libro di matematica infinitesimale è veramente risibile ed è sconcertante scoprire che esista chi ne è pateticamente convinto tanto da

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averla compresa proponendo questo o quel distinguo, la cosa non presenta alcun interesse per noi, non potendosi pretendere, proprio secondo la Saggezza tradizionale e la natura iniziatica di certi argomenti, che la comprensione di certi argomenti di natura prettamente intellettuale nel significato proprio e più elevato del termine, sia un fatto assodato, naturale ed obbligato. Al contrario: la “qualificazione intellettuale” ed iniziatica, prima ancora che la stessa iniziazione, valida e regolare, è il presupposto indispensabile per l’esatta comprensione di certe dottrine e di un certo grado di realtà di ordine universale.

Diverso invece il caso di quelli che, agendo addirittura più o meno apertamente

o subdolamente e disponendo di qualche mezzo dialettico di una certa apparente efficacia e suggestività, mirano ad un’operazione minatoria o riduttrice. In questo caso, infatti, pur essendo i meno interessanti di tutti sono tuttavia i più pericolosi ed obbligano ad una certa “messa a punto”.

Nel presente studio non ci preoccuperemo infatti di confutare o rispondere ai detrattori palesi dell’Opera di Guénon non soltanto perché questo lavoro è già stato fatto nel corso degli anni soprattutto dalla “Rivista di Studi Tradizionali di Torino” che ha cessato le pubblicazioni dopo cinquant’anni di intensa testimonianza, ormai da qualche anno; ma anche perché, i detrattori palesi, sono i meno pericolosi essendo scoperto il loro gioco. Infatti, ciò pone in condizione, chi conosce anche non approfonditamente la sua Opera, di potersi difendere. E’ invece a una categoria di “apparenti estimatori” che limiteremo qui l’esame rilevando però, sin d’ora, che se in passato tra questi estimatori che potrebbero essere considerati “apparenti” o

impegnarsi a cercare errori, peraltro inesistenti, come quando si corregge un compito in classe di matematica! Certo i “professori” si preoccupano molto di sapere se, qualcuno che critica le scienze moderne, la medicina moderna e la mentalità moderna, ha una laurea. Guénon non deve affatto dimostrare “matematicamente” a nessun “dotto ignorante” perchè “zero non è un numerp” o perchè “ l’indefinito matematico, corporeo e quantitativo non è l’infinito” ma può a ben diritto definire ignoranti i “dotti matematici” che, in buona o in mala fede o per squalificazione verso la metafisica, lo credono. Soprattutto li sconvolge constatare che chi possieda una conoscenza metafisica corretta sia pure ancora soltanto a livello teorico, sia in grado di poter scendere in tutti i campi delle applicazioni contingenti (dalla matematica, alla medicina, alla cosmologia, alla fisica alla chimica, all’Arte muratoria...) riuscendo immediatamente a scoprire, deviazioni, errori e frodi. Se già un autentico Maestro effettivo di un’Arte è “Maestro di tutte le scienze e le Arti”, a maggior ragione questo è possibile, anzi conseguente, per chi abbia raggiunto in modo effettivo anche soltanto il primo stato superiore dell’essere, cioè quello immediatamente precedente lo stato di centralità umano.

Per inciso: non si pensi che noi collochiamo personaggi come quelli appena citati nei ranghi della “contro-iniziazione”; è un “merito-demerito” al quale essi non possono aspirare perché, checché se ne pensi, anche l’”ambito dell’ignoranza” ha i suoi gradi i più bassi dei quali coincidono, paradossalmente e per un sinistro rovesciamento, con un potere più ampio che tuttavia non si concilia con la “stupidità” pura e semplice ma presuppone pur sempre una malizia che è comunque un riflesso invertito e deviato di quell’intelligenza che in sé stessa è preclusa totalmente a certuni, in via naturale. Se l’ignoranza e la malizia sono caratteristiche della “contro-iniziazione” che le possiede nel loro massimo grado, la stupidità pura e semplice appartiene invece soltanto agli strumenti d’elezione di essa; ai servitori inconsapevoli, quanto predisposti per natura o vocazione.

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“interessati” c’è stato qualcuno che tuttavia non ha mai rinnegato essenzialmente l’Opera e la funzione di Guénon ne’ ha mai osato ridurne la portata conoscitiva e dottrinale alla quale ha tuttavia continuato a riferirsi nonostante tutto, nella fase attuale, invece, le cose sono andate molto oltre: c’è una categoria ben più perniciosa e pericolosa costituita, appunto, da quelli che abbiamo definito con un termine pur paradossale, “professori dell’esoterismo”. Di loro qui ci occupiamo sia pure a malincuore preferendo, di gran lunga, dedicare il nostro tempo a cose più edificanti che non pensare a loro.

Se qui ci prospettiamo di sviluppare alcune considerazioni che potrebbero sembrare preoccuparsi di dissipare la confusione seminata da qualcuno che si è avvicinato a quell’Opera con la pretesa e la presunzione di averla capita o con lo scopo consapevole di screditarla, lo scopo non è affatto “accettare un contraddittorio” che è impossibile per noi anche soltanto presumere nell’ambito delle cose iniziatiche. Impossibile, fosse anche al solo scopo di cercare di far loro capire meglio, persuasi come siamo, dell’assoluta impossibilità, per certuni, di poter anche soltanto disporsi a capire un certo ordine di cose la cui portata sembrerebbe troppo sfuggirgli. L’unica preoccupazione che ci accompagna è uno scrupolo nei confronti di quei pochi che, all’inizio di un incontro con l’Opera di Guénon dotati di una qualificazione che non ha però ancora avuto modo di emergere completamente e tuttavia ben predisposti, possano essere paralizzati sul terreno di partenza che del resto è l’unico sul quale, è ancora possibile gettare una cortina fumogena di confusione che ostacoli i passi successivi. Dunque: polemiche, scambi di interpretazioni, sfoggi di miglior erudizione, confronti, incontri o scontri e sculettamenti analoghi, non ci attraggono ne’ c’interessano affatto non costituendo per noi la ragione di questa “scesa in campo” sull’argomento.

Ne’ il fatto che sono non pochi, anche in campo preteso esoterico, che hanno assunto da qualche tempo un atteggiamento più o meno velatamente ostile a certe esposizioni guénoniane, deve troppo preoccupare; qui non è la quantità che conta; al contrario: tutto ciò che confonde e che inquina è ben augurabile che prenda le distanze, che si palesi chiaramente e che, infine, vada in malora da qualche altra parte. Alla fine dei tempi, come affermano tutti i Testi sacri, la Verità deve rimanere riservata non già “a pochi” come è sempre stato... ma “..quasi più per nessuno” nonostante, dall’altro lato e per una sorta di compensazione, essa debba ormai essere espressa liberamente e senza più alcun limite o prudenza proprio perché le espressioni massime dell’errore, dell’ignoranza e della frode, non possono più trovare argine che nella Verità tutta intera e svelata.7

7 Abbiamo ritrovato un’espressione analoga a questa da noi usata, niente meno che in un

recente romanzo in quattro volumi della letteratura “New Age” che è uno degli strumenti d’elezione dell’attività “contro-iniziatica” e “contro-spirituale” in genere, nascosta dietro l’apparenza di un falso “universalismo” che non è affatto “sintesi” ma solo “sincretismo” ed una ancor più falsa apparenza “esoterica”. Con un subdolo rovesciamento di rapporti, di insegnamenti, di interpretazione dei simboli sacri e della dottrina dei “cicli cosmici e degli “ultimi tempi”, l’autore fa vivere al lettore l’avventura di un’opera di trasporto che alcuni personaggi del romanzo svolgerebbero verso alcune persone semplici appositamente avvicinate per far loro prendere

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Per tornare a quanto dicevamo nel paragrafo precedente sui “professori”, aggiungiamo che quel che è paradossale ed anche particolarmente fastidioso è che la caratteristica di questo genere di soggetti, è che hanno appreso nei minimi minuziosi particolari ogni punto ed ogni virgola dei capitoli dei libri di questo o quel Maestro e nel caso di Ibn Arabi sembra proprio che costoro si siano dilettati in modo particolare a sviscerare ogni singola sfumatura del linguaggio più che la dottrina. Ma, come era inevitabile, questo lavoro anzichè aprirli allo spirito delle espressioni e alla comprensione profonda della dottrina li ha irrigiditi nelle formule; potrebbe dirsi addirittura nello stile delle formule e non di rado nella loro a volte necessaria nebulosità. Nonostante le apparenze e a dispetto persino del fatto se, come possibile ma non necessariamente probabile, qualcuno di costoro sia anche aderente ad una forma tradizionale e ne pratichi i riti e le discipline, ci sono nel loro linguaggio una serie di marchi caratteristici che se non costituiscono propriamente marchi di grottesco sono tuttavia significativi di un’influenza facilmente riconducibile all’area degli studiosi disimpegnati che tengono ad avvertire o qualche volta a far soltanto presentire che il loro sapere non presuppone alcuna adesione, partecipazione o condivisione con i concetti dei vari Maestri che vanno via, via, commentando o evidenziando. Nonostante le apparenze, la ricchezza di nozioni e l’erudizione, è questo il solito sapere libresco, profano, esteriore, di superficie ma che, ad un tempo, presuntuosamente giudica “ex catedra”, dal di fuori gli uni e gli altri; il che, in una posizione simile e di fronte a questo genere di argomenti, significa, dalla posizione degli ignoranti; di chi non ha verificato nulla di quello che ha accumulato; di chi non può ne’ negare ne’ confermare ma unicamente esporre con la sufficienza di chi mostra tuttavia di aver perfettamente capito tutto quello che ha letto e di aver assimilato anche il pensiero espresso in quegli scritti. Il punto è che, per la natura di quegli scritti e dei loro argomenti, non è affatto il pensiero o il concetto che conta appartenendo, questo, alla forma espressiva, all’esteriore, all’ordine dei supporti più o meno idonei a suggerire lo spirito di quel che racchiudono e vogliono esprimere ma che non è altrimenti esprimibile che con le parole, le formule, i concetti e le immagini; il che poi sono la stessa cosa perché il concetto è un’immagine e viceversa e tutto il linguaggio umano è fatto di “formule”, di “immagini”, di “simboli” essendo formale mentre un certo ordine di realtà universale è per sua natura sovra-formale.

coscienza che i Testi sacri che parlano della “fine dei tempi” e dei segni oscuri che li precedono e li accompagnano non sono poi così “oscuri” ed appaiono in questo modo soltanto alle masse limitate che non possono conoscere la verità tutta intera ma non è così per gli eletti che, i fortunati avvicinati, debbono solo capire che deve solo mutare la loro attitudine verso gli altri ed il mondo: non più resistenze, ostilità, opposizioni ma un “consapevole” lasciarsi andare fiducioso che gli consentirà di mutare i destini; non più la fine ma un inizio d un nuovo mondo dove non ci sarà più ingiustizia, disuguaglianza ma un mondo di splendore dove la scienza vincerà ogni ostacolo, le malattie e la fame saranno sconfitte e la malvagità scomparirà per la loro semplice presenza così consapevole. E’ evidente l’appropriazione di aspetti dottrinali tradizionali autentici utilizzati proprio in chiave opposta ad ogni autentica consapevolezza e proprio per impedire che possano svolgere una qualsiasi azione sia pure residuale di difesa a qualunque grado.

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Come i Darshana indù, si tratta di “metodi” adatti ed adattati alle tipologie umane secondo le loro qualificazioni e secondo l’intensità dell’espirazione verso l’universale e verso la Liberazione dell’essere dalla condizioni limitative dei vari stati dell’essere che non coincidano ancora con lo “stato incondizionato” ed assoluto. 8 Ora: è un fatto che le forme espressive scelte da un Maestro o da un altro, da una tradizione o dall’altra, possono benissimo variare e sono tutte provvisorie per quanto possano essere adeguate oltre che precise e corrette concettualmente e nell’uso dell’analogia. Una verità metafisica fondamentale come la differenza tra il Principio, l’Essere e l’esistenza che, con immagini, formule concettuali, esempi o che altro, voglia rendere chiara ed evidente la conseguenza metafisicamente indiscutibile per la quale il Principio non può che essere illimitato e non può pertanto essere ne’ qualificato ne’ condizionato da alcuna limitazione esistenziale e manifestata e tale da non poter essere contenuto in nessun grado dell’esistenza, è di un’evidenza immediata per chi, dal pensiero, vale a dire dal semplice concetto o dall’”immagine”, che dir si voglia, sappia portarsi immediatamente, per un balzo dell’Intelletto, al significato interiore e realizzativo di questo concetto. Per altri può essere semplicemente espressione del pensiero di un determinato autore e di una filosofia. A chi invece ha realizzato con un guizzo dell’Intelligenza il significato dell’espressione, non importa affatto sapere che un Maestro ha espresso questa verità innegabile con un’immagine, con una frase o con un’altra. Quel che basta è che l’immagine, il linguaggio o la formulazione del concetto, non tradiscano la verità, non sbarrino l’accesso alla sua comprensione e siano invece adeguati a suggerire la verità stessa e a far assentire immediatamente al significato dell’espressione utilizzata in un’intuizione profonda che diventa quasi contemplazione e non ha più bisogno di sviluppi, di altre parole e di altre spiegazioni se non quando si voglia riportare

8 Basti pensare che certi metodi iniziatici consistono proprio nell’utilizzo del “paradosso” inteso come un improvviso apparente rovesciamento di prospettiva che viene riversato addosso al discepolo allorchè questo si sia troppo abituato ad uno schema o ad una forma di costruzione concettuale. Ogni punto di riferimento viene ad essere abbattuto; ogni equilibrio frantumato; ogni concetto messo in crisi in modo da provocare come una “frattura del mentale” affinchè, attraverso di essa guizzi l’intuizione della Verità che è dietro il concetto stesso, in una più contemplazione diretta di quella verità. Uno di questi metodi il “khoan” è in particolare uso nella tradizione estremo orientale. Immaginiamo che cosa succederebbe nei “razionalissimi” moderni o professori e ben capiamo perchè Guénon abbia fatto capire che nessuna delle “vie dirette”, intendendo il Vedanta, il Taoismo e lo Zen, è praticabile ed accessibile per l’Occidentale e per l’uomo moderno in genere e perché ben suggerisca, per l’Occidentale che non avesse aspirazioni iniziatiche più complete, la Massoneria oppure, per chi ne avesse le qualificazioni e l’esigenza autentica, l’Islam ed il Tasawwuf. Figuriamoci se i nostri “professori” non sanno anche queste precisazioni, analitici come sono nello sviscerare il capello; ma il fatto è che la “sintesi glossatrice” è qualcosa di diverso dalla sintesi nel significato intellettuale, cioè, spirituale del termine per cui non sempre la loro incapacità è espressione di una “mala fede” completa e consapevole. Nel linguaggio dell’esoterismo tradizionale, “Spirito” e “Intelletto” sono la stessa cosa e designano lo stesso stato e lo stesso ordine di Realtà.

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nuovamente all’esterno per spiegarla nuovamente ad altri o esprimerla al livello del pensiero e del concetto.9 Ovviamente se a qualcuno che sia anche un autentico conoscitore nel significato più tradizionale di Ibn Arabi viene taciuto che nelle lingue occidentali “esistenza” significa “ciò che dipende da qualcos’altro che è fuori, sopra, trascendente a quell’ordine di realtà”, “ ciò che non ha in sé la propria causa, il proprio principio e la propria ragion sufficiente” e che pertanto non può che averla in un Principio che lo trascende (nel senso che trascende i limiti di ciò che è manifestato e manifestabile); allora, se questo agire non è un’ignoranza pura e semplice, significa che è un tacere in mala fede, un mentire cercando di confondere le acque per una qualche sospetta e di certo sinistra ragione; significa insomma voler ingannare e voler suscitare equivoci e giudizi pregiudizievoli anche in chi ben avrebbe le capacità di comprendere, ove non venisse appositamente deviato o anche di poco, venisse correttamente informato. Questo perché colui che conosce correttamente l’insegnamento di Ibn Arabi e la lingua in cui egli si esprime (l’Arabo) sa che il termine “esistenza” non è usato nel significato di semplice “manifestazione” che implica già nell’espressione stessa un limite, una condizione, ma che nel significato di “pienezza”; anzi, vuole significare che, “Vera esistenza” è soltanto quella che esprime “pienezza”, cioè l’Essere. In questo senso è evidente, quindi, che “veramente esistente” può dirsi soltanto l’Essere, il Principio, mentre tutti gli altri esseri non sono che riflessi di esistenza, ombre, più o meno opache o più o meno luminose ma in ogni caso situate, nella periferia dell’Esistenza. Lo stato dell’Essere, dunque, è posto al “centro dell’esistenza” mentre tutto il resto è come un riflesso della Luce che emana dal “punto centrale” ed è una forma di “partecipazione” dell’esistenza anche se, al suo proprio piano, vera e reale. Però, Ibn Arabi conosce benissimo (mentre meno lo comprendono “i professori” o se lo sanno almeno per nozione e non siano in “mala fede”, sono comunque incapaci di vederne le conseguenze e penetrarne sino al Cuore il significato) che quel “Centro” è veramente trascendente dai riflessi e se può definirsi

9 Peggio ancora se l’incontro con l’Opera di Guénon avviene dopo l’incontro con quella di

Maestri tradizionali anche autentici perchè allora, mentre è molto probabile che si tratti di orientalisti e studiosi attratti appunto dallo studio e da necessità didattiche oltre che da una mentalità di “ricercatori” e di “storici”, il che vuol dire completamente profana, questo costituirà una sorta di ulteriore cortina di impermeabilità, di impenetrabilità e di preconcetto che, nella più felice delle ipotesi, farà considerare tutto alla stregua di “filosofie” o sfumature di pensieri, di “imprestiti” e di “scambi”, di correnti in concorrenza, antitesi o simpatia, secondo le impressioni dello studioso, le une con le altre. Ove invece si dovesse trattare (caso molto più raro) di autentici iniziati che hanno sufficientemente assimilato lo Spirito e gli insegnamenti di quei Maestri dall’interno di una Via effettiva, non avranno difficoltà a riscoprire lo spirito comune ed i medesimi insegnamenti ove abbiano l’opportunità di conoscere correttamente e non per riassunto o per riportato, ciò che Guénon veramente afferma e le ragioni di linguaggio di certe affermazioni e di certe scelte. Questo anche quando, in questioni di dettaglio, qualcuno possa dissentire su alcuni giudizi legati più all’opportunità e a questioni contingenti che non alla dottrina o all’attitudine iniziatica in genere.

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“Vera esistenza”, anzi “Unica esistenza” è solo perché vuole significare che è l’Essere in Sé stesso, libero da ogni condizione.10 Tutto questo è tanto più evidente se si pensa che nella lingua araba il verbo essere è “inespresso”; non è che non esista ma, semplicemente e molto significativamente e coerentemente, è “immanifestato” ed “immanifestabile” e, grammaticalmente si dice che è “sottinteso” proprio come è sottinteso che, quando si dice che la Vera esistenza e la pienezza di essa compete solo all’Essere e non agli esseri contingenti, si vuole significare, sottintendendolo, che è oltre quello che gli esseri manifestati e contingenti possono concepire come “esistenza”. Ed allora tanto vale mantenere la distinzione (ovviamente solo concettuale visto che la Realtà è Una) più immediatamente evidente tra l’“esistenza” coerentemente intesa come sinonimo di manifestazione e l’Essere come “centro” trascendente dell’esistenza stessa e Principio di essa.11 Dire che l’Essere è il “centro”, come tale “trascendente” dell’esistenza, significa in fondo dire che la Pienezza dell’esistenza è colta oltre ogni limite esperibile di essa; oltre ogni condizione ed esperienza degli esseri in essa manifestati ed è la stessa cosa che dire che è “fuori” di tutto quello che può essere immaginato come esistenza; inteso ciò, come “fuori dai limiti dell’esistenza” giacchè non c’è immagine senza “limite” che voglia, quest’immagine stessa, applicarsi a “descrivere” una realtà formale o a maggior ragione, sovra-formale.12 E’ dunque solo una questione di linguaggio e di radice delle parole ma diventa sospetto e strano rilevarlo come qualcosa che caratterizzerebbe questo o quel pensiero o la forma espressiva di Guénon, di Ibn Arabi o di questo o quel Maestro spirituale.

Insomma il problema sorge unicamente perchè il termine arabo “Wuyud” designa sia l’Essere che l’Esistenza e, in quest’ultima designazione, Ibn Arabi fa rientrare l’”Esistenza non manifestata” perchè non manifestabile e l’”esistenza manifestata”, che è appunto ciò che Guénon definisce “Manifestazione”.13 Tutto qui.

10 Il significativo paradosso che del resto distingue la vera qualificazione iniziatica ed

intellettuale dall’erudizione è che questo genere di “professori” può anche aver capito il concetto attraverso il quale un Maestro esprime un pensiero come questo ma ad essi non appare affatto “evidente”; non agisce come un suggerimento che è stato capace di destare un’evidenza intima ed immediata; per loro non è una verità assentita alla quale anche la mente aderisce per un riflesso immediato dell’Intelletto che ha colto la Verità enunciata.

11 Del resto persino quando si vuole intendere l’Essere come Soggetto, nella lingua araba non si trova un termine corrispondente immediato.

12 Del resto dove c’è “immagine” c’è necessariamente “forma” anche se non esclusivamente corporea; infatti anche quella mentale o concettuale è formale e nulla l’essere umano può concepire o anche sentire se non riconducendola ad una forma, ad un’immagine.

13 Da qui discende poi la formula dell’esoterismo islamico “Wahdatul-wujud” che significa “Unità dell’Essere e Unicità dell’Esistenza” giacchè questa “unicità dell’esistenza” si basa proprio sull’”Unità dell’Essere” e Guénon nella nota a pag 13 del suo “Simbolismo della Croce” rimanda al

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Quanto abbiamo sin qui esposto ci fornisce l’occasione per fare un’ulteriore

considerazione sui “professori” ai quali abbiamo dedicato a malavoglia queste nostre attenzioni. C’è un’altra differenza essenziale tra di loro e i “saggi”: i secondi sanno riconoscere immediatamente il fondo comune (meglio dire: il Vertice comune) dei vari insegnamenti oltre le più diverse apparenze espressive e formali e ricondurre tutto ad unità anche se la funzione esteriore, l’Adab tradizionale o una particolare prudenza può anche indurli a non manifestarlo o, se provocati, a non confermarlo ma sicuramente mai a negarlo con quel genere di animosità che appartiene solo agli esterioristi e che esclude la Saggezza oltre che la Conoscenza. I primi invece sanno immediatamente rilevare per un’altrettanta capacità sinistramente innata, le differenze anche quando ovviamente non vi sono e sanno svolgere un lavoro di divisione, di relativizzazione capace di suscitare in non pochi, il dubbio, l’incertezza o una forma di scrupolo che è soltanto paralisi, riconducendo tutto nuovamente alla dispersione. E’ una funzione che ha in qualche modo veramente del “satanico” e che non è necessariamente consapevole in loro tanto bastando che lo sia negli sfruttatori che operano per ispirazione su quest’attitudine passiva o di un attivismo deviante. E’ pur vero che qualcuno potrebbe essere tentato di sostenere che tra queste due attitudini può esserne considerata una terza: quella di chi, dopo aver risaltato presunte differenze si impegni poi a dimostrare che non sono veramente tali ma questa possibilità si dimostra sincera soltanto allorchè l’esame delle presunte differenze, inizialmente rilevate come tali per mera ipotesi, si esaurisce in poche battute che riconducano ad unità e non si dilunghi a sviscerare le presunte differenze per poi arrivare a sostenere, senza peraltro riuscire neppure a dimostrarlo con evidenza proprio per il vizio d’origine dal quale è partita l’occasione e per il limite stesso di chi si è impegnato in una simile impresa, che quelle differenze non sono essenziali o sono tali solo nel linguaggio, lasciando tuttavia il dubbio che possano esserlo anche nella prospettiva conoscitiva e nel grado stesso di Conoscenza. Agendo in questo modo resta forte il dubbio che, la prospettazione del lavoro che si è svolto come una risposta a veri o presunti “qualcuno” che avrebbe abbandonato l’Opera di Guénon una volta conosciuta quella di Ibn Arabi in quanto la prima sarebbe da costoro stata ritenuta incompleta e dunque di passaggio propedeutico finalizzato a confutarli, sia in realtà una scusa proprio per avere l’occasione di svolgere in prima persona quel lavoro di divisione e di risalto delle presunte differenze. Sarà il caso di ripetere che da qualche secolo non c’è stata neppure una persona in tutto l’Occidente che, prima di Guénon ridestasse da una secolare assopita coscienza dell’autentico esoterismo e delle dottrine metafisiche e che, prima che egli stesso non parlasse per primo di Ibn Arabi, lo conoscesse o si interessasse di quest’ultimo.

suo “L’Uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta” per illustrare la distinzione tra l’“unicità” dell’Esistenza, l’“unità” dell’Essere e la “non dualità” del Principio Supremo.

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Se qualche orientalista vi aveva fatto cenno, l’esito non era stato diverso da quello disastroso di Schopenhauer allorchè pretese di parlare di induismo e di buddismo: un moralismo sbrodoso senza alcuna comprensione del contenuto metafisico. Ma questo non è certamente un rilievo che vuole fermarsi al riconoscimento di “merito” di Guénon perchè si spinge a risaltarne la funzione niente affatto casuale o accidentale che gli è stata propria. Inoltre, il rilievo vuole sottolineare come, i nostri stessi “professori” non avrebbero avuto neppure la capacità minima per penetrare quello che pomposamente fanno mostra di conoscere in ordine alla dottrine esposte da Ibn Arabi; dottrine che non sono sue come non lo sono di Guénon e di nessun altro ma che questi Maestri semplicemente espongono nella forma da loro scelta più adatta all’epoca e all’ambiente. Se hanno potuto commentare Ibn Arabi e “criticare” o osare il tentativo di ridurre la portata dell’Opera di Guénon lo hanno potuto fare proprio grazie alla potenza sintetica di Guénon stesso che ha permesso loro anche di capire che cosa, Ibn Arabi dietro centinaia di pagine e centinaia di veli, infine, esprime o vuole esprimere. Veli a volte imposti dalla prudenza, dall’ambiente, dal rispetto della forza espressiva del Testo sacro e dall’Adab tradizionale; altre volte, facenti parte del metodo stesso di realizzazione mediante progressivo svelamento ed assimilazione profonda. Ma ancora una volta ci sovviene il dubbio che sia proprio da quello che Ibn Arabi non permette agevolmente di capire, soprattutto ai profani, che sorge maggiormente l’attrazione per il sottofondo esotista (si badi... non esoterista) dei nostri “professori” che, malgrado tutto sono e restano occidentali... quando non si tratti di qualche orientale occidentalizzato.

C Perennia Verba .- Speciale su Guénon. Gennaio 2012 Eccoci finalmente arrivati a quello che voleva essere il nocciolo di questo

articolo e della sua forse troppo lunga premessa: alla fastidiosa scoperta che abbiamo dovuto constatare proprio all’interno di una rivista che dedica un intero numero proprio alla celebrazione di René Guénon e della sua opera. Si tratta del numero 12 dell’anno 2010 della Rivista “Perennia Verba” dedicato “Speciale René Guénon” per le edizioni “Il leone verde”. Mentre non vogliamo negare o tacere che nella collana sono usciti nel corso degli anno articoli sicuramente interessanti e qualificati sull’Opera di Guénon e che nello stesso numero in questione le prime centodieci pagine che occupano articoli di Alberto Grigio, Paolo Urizzi, Franco Galletti ed anche di Nuccio d’Anna nonostante quest’ultimo non abbia dato spesso adito, almeno in altri scritti, di poterlo considerare un estimatore di Guénon, sono in gran parte condivisibili e dottrinalmente corretti, l’ultimo articolo che occupa le rimanenti cento pagine firmato da Marco Marino, è la quasi esatta testimonianza di quanto siamo andati dicendo finora sui “professori”,

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sempre limitando l’aspetto riduttivo di questo termine non alla corrispondente funzione o categoria ma al tipo di attitudine che abbiamo prima evidenziato; anche altri collaboratori della Rivista sono infatti professori di cattedra ma non abbiamo pensato di considerare questa loro qualità come limitativa della capacità di comprensione di certi argomenti tradizionali; quest’articolo invece ci ha costretti a viva forza ad intervenire con decisione considerato che nessuno della Rivista lo ha fatto ed è stato lasciato all’articolista così tanto spazio. Si dovrà subito osservare per onestà intellettuale che lo stesso autore nei propositi sembra manifestare l’intenzione di voler dissipare equivoci e di voler addirittura difendere l’Opera di Guénon dalle critiche che alcuni gli rivolgono allorchè si arrogano la pretesa di porsi dal punto di vista di Ibn Arabi. Egli infatti precisa che ... “Tutti coloro che hanno modo di formarsi sull’opera di René Guénon prima o poi si imbattono immancabilmente nel nome di Muhyiddin Ibn Arabi, celebre Maestro Sufi (...) da molti riconosciuto come “il più grande dei Maestri spirituali”. Tale incontro tuttavia, per quanto inevitabile, non sempre viene vissuto con la dovuta attenzione, e anche laddove si riconosca non solo una matrice comune alla dottrina akbariana ed a quella guénoniana per quel che concerne l’esposizione della realizzazione spirituale, della cosmologia e dell’escatologia tradizionale, ma anche l’operatività tradizionale (ed in primis iniziatica) che secondo alcuni sarebbe insita nei riferimenti akbariani (...) molto di rado ci si sofferma invece ad affrontare le conseguenze di tali accostamenti sul piano ontologico e metafisico, piano che poi non è altro che il dominio di quei principi dei quali ogni realtà dottrinale è un’applicazione particolare a livello di un singolo essere o di un singolo Mondo”. Riferendosi poi alle presunte differenze che oltre esaminerà, l’articolista ribatte il suo scopo conciliativo precisando molto chiaramente in modo rassicurante che.. “...tale frattura (solo apparente, ci teniamo a precisarlo fin dall’inizio) tra le visuali dei due Autori non ha potuto non scoraggiare molti dal cercare una possibile mediazione (e perché no, se possibile, anche un’integrazione) che permettesse loro di passare agevolmente dalla prospettiva dell’uno a quella dell’alto sugli indefiniti aspetti della metafisica tradizionale. Tuttavia se molti hanno preferito rinunciare prediligendo una lettura unilaterale di quest’ultima (vale a dire pienamente akbariana o pienamente guénoniana) pregiudicandosi così la possibilità di giungere ad una più esaustiva conoscenza della stessa, altri sono invece andati ben più in là, arrivando ad attribuire senza mezzi termini a Guénon inusuali limitazioni prospettiche se non addirittura veri e propri errori dottrinali”.

Osserviamo subito che, per quanto ci consta non abbiamo trovato nessuno tra coloro che hanno avvicinato correttamente le opere dei due metafisici comprendendole nel loro significato profondo al di la delle espressioni formali ed avendo cura dell’essenziale in chiave di “realizzazione spirituale” e di Conoscenza il cui vertice rimane pur sempre la consapevolezza dell’“Identità Suprema”, della Liberazione e della “non dualità”, che sia rimasto scoraggiato dalle differenze di linguaggio e di espressione delle Verità di Vertice. Ci consta invece che quelli che sono più che scoraggiati alcuni (e niente affatto molti) non sono stati altri che istrionici chiacchieroni infine incapaci di cogliere persino i significati più immediati e

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pur già per loro troppo interiori delle espressioni akbariane con le quali si riempivano la bocca. E la ragione, più che una più completa soddisfazione dottrinale, derivante da una presunta maggior elevatezza della dottrina akbariana, derivava loro soltanto dal fatto che trovavano nell’esposizione di quest’ultimo, l’occasione per ammantarsi di mistero e della suggestione di una sapienza nascosta che, la sintesi ed il rigore guénoniano, non gli consentiva di simulare. Anzi, la chiarezza esaustiva di Guénon non lasciava spazio alla loro voglia di mistero e non consentiva loro di far credere agli altri che essi sapevano qualcosa in più che gli altri non avevano ancora conosciuto. Inoltre, chi aveva conosciuto correttamente l’Opera di Guénon assimilandola veramente, non era soggetto ad alcuna suggestione e a nessuna fascinazione che potesse derivare dalle stupefacenti espressioni in lingua araba con le quali si presentavano facendo di tutto per riportare nell’oscuro quello che Guénon era riuscito a riportare nell’evidenza di una luce intellettuale che si era provvidenzialmente riversata in un tipo umano da secoli chiuso a un ordine di verità che era diventato veramente inaccessibile. Non di rado, ci ha colto la sensazione che certuni stessero svolgendo un’operazione, sicuramente inconsapevole ma non per questo meno sinistra, di confusione attraverso la quale riportare nell’ombra certe consapevolezze faticosamente acquisite proprio grazie all’Opera ed alla funzione di Guénon. Abbiamo avuto modo di conoscere esempi eclatanti di personaggi simili franati nelle miserie di un individualismo e in una palude di meschinità e di piccolezze impressionanti che rivelavano tutto il vuoto che si nascondeva dietro certi atteggiamenti più “professorali” che testimonianze sapienziali.14

14 Se dovessimo esprimere un giudizio tutto personale ci sentiamo di affermare che, infine,

sono di gran lunga preferibili alle lezioni di questi soggetti, le prediche, fossero anche intessute del più asfissiante moralismo e delle solite immagini per banali che possano essere, perchè non può almeno dubitarsi che siano sincere, dei Maestri dell’esteriore. Ma non è affatto escluso che un certo rivestimento può a volte essere adottate anche dai Maestri dell’interiore, consapevoli di trovarsi di fronte ad un auditorium che non potrebbe comprendere altro che quello o che non potrebbe risultargli utile nient’altro; non foss’altro... per “..non gettare le perle ai porci affinchè dopo averle calpestate non vi sbranino”, come dice Gesù nel Vangelo. Certo, quel che sarebbe utile per questi personaggi, ammesso che fossero capaci e disposti ad accettare un saggio consiglio, sarebbe di invitarli a scendere dalle nuvole delle loro elucubrazioni ed impegnarsi nell’applicazione pratica delle dottrine che, infine, si riassumono tutte in una sintesi molto semplice che è all’opposto della loro attitudine: il distacco. Infatti, il distacco in senso iniziatico non è altri che l’opposto dell’identificazione con il proprio io, con la propria nafs, con le passioni, con i propri attaccamenti e con le illusioni. Qualcuno dovrebbe infine gridare loro: “Ehi tu, scendi di lassù e applicati ad abbassare il tuo orgoglio e la tua presunzione; la tua voglia di apparire. Impegnati ad applicare la Legge sacra (Shari’a) sopra le tue tendenze, le tue debolezze, le tue passioni, le tue tendenze, i tuoi orgogli e la tua presunzione. Riconosciti quel niente che sei; smetti di lamentarti, di arrabbiarti, di chiedere, di attendere, di volere, di sperare; rimettiti a ciò che ti è stato riservato... e avrai realizzato tutta la dottrina; sarai sfuggito all’apparenza della tua natura umana, ai tuoi limiti, ai vincoli della natura umana e alla tirannia delle passioni. Avrai ridestato il tuo angelo e oltre ancora. Sarai “attratto” dal tuo Signore e invitato, secondo un’immagine dell’esoterismo cristiano ed ebraico, ad assiderti “...alla Sua Destra” o condotto “...a due archi e forse meno... dal tuo Signore”... secondo l’espressione coranica, propria del linguaggio dell’esoterismo islamico”.

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Non vogliamo nascondere che l’autore del quale ci stiamo occupando precisa più volte il suo intento di evidenziare che Guénon non è affatto superato dall’incontro con l’Opera di Ibn Arabi e che la scelta di una prospettiva da parte del primo non può essere frutto di un suo limite. Afferma infatti: “Ma può davvero Guénon essersi ingannato a tal punto da chiamare in causa la dottrina di Ibn Arabi proprio laddove quest’ultima sembra integrarsi meno con la sua? E’ davvero possibile che colui che ha avuto il merito du restituire all’Occidente tutti gli elementi essenziali della Scienza sacra e le chiavi di un metodo dottrinale di per sé infallibile e inattaccabile sotto ogni punto di vista possa essere scivolato proprio sulla dottrina principe di ogni sapere iniziatico? Il nostro studio si propone di rispondere a tali domande cogliendo l’occasione per fornire al lettore una disamina comparata e (speriamo) esauriente della dottrina metafisica esposta dai due Autori confidando che questo sia d’aiuto ai molti che, proprio nell’Opera di Guénon e in quella di Ibn Arabi (non a caso penetrata negli ambienti iniziatici occidentali grazie ai più importanti e rinomati commentatori dell’opus guénoniano (es. Valsan), hanno trovato un faro inestinguibile e una guida sicura nell’affrontare quest’oscura fine di un ciclo storico e cosmico”. (pag. 127).

Lodevole manifestazione d’intento; ma l’articolista è poi coerente con esso? Sarà intanto appena il caso di rilevare una curiosa serie di piccoli segnali

indicativi e significativi di una certa attitudine mentalità, espressione di un forte persistere dell’influsso e del peggior atteggiamento accademico. Innanzi tutto la domanda iniziale se “...può Guénon essersi ingannato al punto di chiamare in causa la dottrina di Ibn Arabi proprio laddove sembra integrarsi meno con la sua..”. Ecco una palese confessione di incomprensione tipica di chi ritiene, appunto, che esista una dottrina di Ibn Arabi ed una di Guénon; di chi ritiene che i Maestri dell’esoterismo e della metafisica abbiano un loro “pensiero” e non invece che semplicemente esprimono, con termini semmai “personali” più o meno adatti al tempo e al luogo, una stessa dottrina e Verità che non sono affatto “la loro dottrina”.

Troppo ricorrente, inoltre, nello scritto, la parola “autore” o “autori” riferita sia a Guénon che ad Ibn Arabi. E’ vero che questo viene fatto usando la lettera maiuscola ad indicare che non si tratta di un uso del termine prettamente profano come quando ci si riferisce ad uno scrittore qualunque ma ha un valore “majestatis” che del resto viene applicato persino a Dio quando si dice che è “Egli è l’Autore di tutto”, ma la cosa si ripete troppe volte; e quando alla parola segue ripetutamente l’aggettivo “ francese” riferito a Guénon ed “andaluso” riferito ad Ibn Arabi, l’uso diventa addirittura fastidioso visto che a loro si applicano più correttamente termini come: “Metafisici”, ”Maestri”, “Sapienti”; e se proprio vuole usarsi la parola “Autori” ben varrebbe non farli seguire da “francese” o “andaluso” che sono limitativi di un’area geografica e quasi maliziosamente riduttivi della loro universalità e sovraterritorialità. Quando poi, sia pure una o due volte l’articolista, riferendosi a Guénon, si lascia sfuggire l’evoliana15 espressione “il Guénon” la cosa si ammanta proprio di una

15 Com’è noto Julius Evola è stato un contemporaneo di Guénon che se non ha nascosto di aver avuto moltissimo da lui quanto a rettificazione intellettuale, non ha però saputo ne’ voluto mai staccarsi da certe posizioni politicamente compromesse con il fascismo e più ancora con il nazismo e con una certa politica in

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innegabile veste di distanza o di approccio che è tipica di uno stile “professorale” ed accademico della più antipatica e peraltro obsoleta forma ed abitudine. Se poi ci fosse qualche dubbio, è l’articolista stesso a dissiparlo quando, per più volte, tra cui in nota alla pag. 208, usa finalmente la parola “scrittore” peraltro con la lettera minuscola come del resto implica un “sostantivo-attributo” così banale, riferendosi a Guénon e questo comincia già ad essere un “segno” quale che sia la consapevolezza dell’articolista nell’averlo usato.

Inoltre: è poi vero quello che afferma l’articolista in altri punti? E cioè che: “Se da un punto di vista iniziatico e cosmologico infatti non sussistono divergenze inattenuabili tra la visuale di Ibn Arabi e quella dell’Autore francese (ed anzi molto spesso tali visuali si integrano in maniera perfetta completandosi vicendevolmente) per quel che concerne le loro reciproche prospettive ontologiche non è così, poichè a parità di risultato finale, come vedremo tra poco, (entrambi gli autori considerano al Manifestazione universale come l’affermazione ab extra di tutte quelle possibilità d’Essere passibili di esistenziazione) essi partono da considerazioni preliminari a dir poco antitetiche. Per il Maestro andaluso infatti l’Essere (Al Wujud), Principio di ogni cosa, coincide con la prima ed immediata affermazione in divinis dell’Essenza suprema e l’Esistenza (in arabo sempre Al Wujud) sia che si manifesti “ab intra” della realtà divina, sia che concretizzi “ab extra” di quest’ultima, va attribuita in ultima istanza solamente a Lui. Per Guénon invece l’Essere non è altro che il Principio della sola Manifestazione universale, ed essendo perciò Colui che pone in atto l’esistenza non può essere considerato a Sua volta come Esistente, pena l’immediato decadere della propria principialità. Inoltre a complicare ulteriormente tale accostamento già problematico di suo, vi è il fatto che ogni volta che Guénon entra nel merito della teoria metafisica dell’Esistenza e della sua Unicità non perde occasione di consolidare la propria trattazione invocando la dottrina ibnarabiana del “wahdad al wuyud” (letteralmente “Unicità dell’Essere” o “Unicità dell’Esistenza”.

A questo punto l’articolista aggiunge una nota: “Guénon cita espressamente la “wahdad al-wujud” nel “Simbolismo della Croce”. Tale dottrina, la cui definizione non è dello stesso Ibn Arabi ma di Sadr al din Qunawi (suo discepolo nonchè figlio adottivo) è stata sicuramente una delle più studiate e meditate (ma anche osteggiate,

genere. Un atteggiamento che lo portato ad inquinare la dottrine tradizionali con pregiudizi gravi quali l’idea che l’uomo in quanto “individuo assoluto” (!) non ha bisogno di un’iniziazione potendosi iniziare da solo per evocazione diretta delle potenze spirituali; che l’”Azione” è superiore alla “Conoscenza” e alla “Contemplazione”; che l’uomo moderno proprio per la sua estrema degenerazione non ha ormai più bisogno di un ricollegamento ad una forma tradizionale e di praticare riti potendo più efficacemente “provocare l’irruzione del divino nell’umano” e realizzarsi spiritualmente “vivendo pericolosamente”, percorrendo la vita “come un rinoceronte sull’asfalto che tutto travolge” e “cavalcando la tigre” rappresentata dalle aberrazioni e dalle follie della civiltà moderna e della vita come in essa si è ridotta ad essere; il tutto, animati soltanto all’interno da un virile senso delle cose, di un senso assoluto ed eroico dell’onore e da una dignità aristocratica di “uomini in piedi tra le rovine che non si lasciano trascinare tra le macerie di un mondo in disfatta”. Immagini senz’altro ideali e suggestive proprie di un romanticismo drammatico da “crepuscolo degli dei” ma assolutamente pericolose per le inevitabili derive che aggiungono solo confusione alla confusione del mondo.

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si pensi agli attacchi di Ibn Taymiyya e dei suoi epigoni) negli ultimi otto secoli di storia dottrinale islamica, insieme alla “wahdad al shuhud” di Ahmed Sirhindi e, in misura più locale ma non meno incisiva, alla “wahdad a mutaqla” di Ibn Sab’in. Dal momento che Guénon non cita esplicitamente queste ultime dottrine, ai fini di una maggiore chiarezza espositiva abbiamo preferito non prenderle in considerazione ma il lettore che fosse interessato ad approfondirle – magari in relazione all’ontologia più puramente akbariana può fare riferimento all’articolo di Paolo Urizzi) Fine nota, riprende il testo: “... dottrina che però, almeno nella sua esposizione originale, non coincide che in maniera assai parziale con il senso attribuitole dallo scrittore francese”.16

Rileviamo subito come, quell’inciso “invece” che vuole evidentemente evidenziare una differenza, ripetuto più volte, non contraddice la proclamazione iniziale di intenti a voler dimostrare che non ci sono punti veramente in contrasto e soprattutto inconciliabili; eppure subito dopo l’articolista aggiunge ciò che abbiamo già riportato: “...tale frattura (solo apparente, ci teniamo a precisarlo fin dall’inizio) tra le visuali dei due Autori non ha potuto non scoraggiare molti dal cercare una possibile mediazione (e perché no, se possibile, anche un’integrazione) che permettesse loro di passare agevolmente dalla prospettiva dell’uno a quella dell’alto sugli indefiniti aspetti della metafisica tradizionale”. (Pag. 126).

Ma allora che si deve pensare? Da qui in poi, l’articolista inizia una serie di considerazioni che si protraggono per oltre cento pagine il cui contenuto precisa in questo prologo: “Al fine di poter cogliere tutta l’universalità di cui la dottrina dell’Unicità dell’Esistenza è caratterizzata presso tali autori (questa volta con la lettera minuscola), abbiamo ritenuto di dover far precedere il nostro lavoro da una breve introduzione da un lato sui concetti tradizionali di Essere, Esistenza e Conoscenza di Dio (che seppur qui espressi separatamente costituiscono nella propria essenza una sola ed unica realtà), dall’altro sulla indefinite nuance tradizionali ascrivibili al succitato termine arabo

16 Ecco di nuovo risaltare la stessa attitudine come se si trattasse di dottrine antitetiche o del

“pensiero” di vari Maestri o autori anzichè di formule espressive apparentemente diverse per suggerire uno stesso Vertice di Realtà e di Verità. Sarà invece appena il caso di osservare come, proprio la meditazione (e non già lo “studio” o la “lettura” accademica ed “estetica” dei vari testi dei Maestri spirituali) costituisce il lavoro di approfondimento, di meditazione e di “provocazione e rottura della rigidità del mentale e delle abitudini” atto a favorire il passaggio “dalla mente al Cuore”, “ dalla conoscenza teorica a quella effettiva”; “ dalla teoria alla Contemplazione delle Verità contenute nelle formule espressive e nei concetti limitati e provvisori”. In questo lavoro, colui che è veramente qualificato per la Via, saprà non solo riconoscere dietro le diverse forme espressive la stessa dottrina (esattamente come saprà farlo allorchè si imbatterà nelle diverse forme espressive dei vari exoterismi) ma questo costituirà proprio quello sforzo di assestamento; di presenza costante, di scavo, di riconduzione ad unità, che costituisce propriamente il lavoro interiore. Allora sarà pienamente compreso il significato dell’espressione coranica e tradizionale... “è come Luce su Luce”, o “di stupore in stupore” perchè ogni diversa espressione incontrata, dopo il primo momento di apparente perplessità, sarà come un costante svelamento ed una sconvolgente conferma sempre più profonda della stessa Verità in un crescente alternarsi di “anticipazioni” e di assentimento.

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“wujud” (che sulla scorta di Guénon viene spesso tradotto con “Esistenza”, sebbene come già detto possa indicare al contempo anche l’Essere o specifiche modalità realizzative – e quindi conoscitive, quando utilizzato nell’ambito della dottrina iniziatica pratica); cappello introduttivo senza il quale sarebbe stato impossibile mitigare l’apparente discrepanza tra le visuali dottrinali in questione o anche solo restituire alla metafisica e all’ontologia (assunte nella loro rarefatta universalità) la veste originale strappatagli a torto dalle derive filosofiche contemporanee”.

A questo punto l’articolista inizia una niente affatto breve introduzione ma che continua per le successive cento pagine sui concetti tradizionali di Essere, Esistenza e Conoscenza di Dio; ed è proprio qui che si evidenzia nel modo più clamoroso tutta la differenza tra una comprensione ed un’attitudine tradizionale ed iniziatica e quella che abbiamo definito “professorale”, filosofica, scolastica e speculativa perchè, inevitabilmente, concetti arditamente metafisici e prettamente dottrinali frammistandosi necessariamente, nel caso di Ibn Arabi e di altri Maestri del Tassawwuf, con immagini teologiche e devozionali, evocazioni e termini prettamente religiosi richiedono un attento lavoro interiore di “separazione” tra i vari piani e di “nuova riunione” di essi ad un livello superiore e “trans-formato” (cioè al di sopra dei limiti della forma espressiva) che può protrarsi per anni e con battute di arresto determinate da ingiustificati scrupoli, da paure, da ostacoli ambientali e da resistenze sentimentali. Se questo vale per chi percorre in modo effettivo una Via iniziatica e spirituale a maggior ragione vale per chi si accosti dall’esterno in modo didattico e accademico a certi insegnamenti quale che possa persino essere la più buona volontà.

Un atteggiamento quale quello evidenziato sul punto dall’articolista Marino pone in ombra la sua pur proclamata intenzione conciliativa di voler risolvere la presunto divergenze.

Sappiamo già che i nostri “professori” potrebbero obiettarci che certe differenze vengono messe in risalto dagli stessi Maestri allorché capita che richiamino la dottrina di un precedente Maestro come nel caso, ad esempio, di Ahmed Faruki Sirhindi nei riguardi di Ibn Arabi. Egli stesso precisa, rivolgendosi ad alcuni suoi discepoli che lo interrogavano, che intende in modo diverso alcune posizioni di Ibn Arabi soprattutto in relazione alla distinzione che egli (Sirhindi) fa sulla “Via dell’ebrezza” e la “Via della Sobrietà”. Ma, mentre occorrerà subito precisare che Sirhindi non perde occasione per rinnovare la sua stima e la sua venerazione per Ibn Arabi e la sua Opera curando spesso proprio di attenuare le differenze con la sua dottrina, che altri, soprattutto, gli facevano rilevare , sarà appena il caso di dire che certe precisazioni e distinguo sono dovuti proprio all’esigenza di “chiarire” ciò che, non già Ibn Arabi ma certi suoi estimatori, cominciavano a non comprendere più in modo corretto e dunque di adattare a nuove formule espressive l’insegnamento allorchè cominciava ad apparire “equivoco” a causa di certe esagerate esternazioni che nell’ambiente esteriorista erano diventati soliti fare alcuni estimatori di Ibn Arabi contraddicendo con ciò stesso “il segreto” inteso come l’”inesprimibile spirituale” proprio degli ambienti iniziatici e turbando con ciò la fede dei semplici. In certe condizioni, un adattamento formale diventa necessario, una vera e propria

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“funzione” addirittura necessaria per difendere e proteggere la dottrina e gli ambienti riservati.17

Nello sforzo riassuntivo dei concetti di Essere, Esistenza e Conoscenza di Dio, protrattosi in oltre cento pagine, inevitabilmente l’articolista, riportando in ombra la chiarezza sintetica di Guénon con inevitabili “riassunti” o estratti di poche righe, riconduce gli argomenti metafisici a quel linguaggio necessariamente intessuto di sfumature teologiche, religiose, devozionali, che sono imposte ad Ibn Arabi ed a chiunque debba prendere a base il linguaggio formale della tradizione sulla quale fa supporto, facendo il lavoro inverso che faticosamente aveva fatto Guénon. Anzichè portare a comprensione immagini, simboli, formule espressive, liberandole dall’accessorio (un accessorio che, ovviamente, quando ci si riferisce ad una specifica forma tradizionale è comunque necessariamente essenziale) riconduce il sobrio linguaggio e la sintesi operata da Guénon, nuovamente a quel vasto mare nel quale sono stati invece costretti, non di rado loro malgrado, a navigare i Maestri che si dovevano appoggiare alla tradizione islamica come del resto è stato necessario per

17 Per un altro verso Guénon, il cui nome islamico è proprio “Il servitore dell’Unità – Abdel Wahid” aveva propriamente lo scopo di ricondurre a Unità le cose e, dovendo semplificare al massimo in un linguaggio libero da ogni rivestimento che non fosse altro che quello legato ai limiti del linguaggio umano, la dottrina metafisica, ha usato i termini più immediatamente evidenti anche al fine di rendere più evidente lo stesso Ibn Arabi oltre le complicazioni del linguaggio e della stessa lingua. Questa “semplificazione” però, contrariamente a quanto sembra credere l’articolista Marino, non è affatto “un minus”, una necessità adottata per facilitare ai sottosviluppati occidentali (ai quali Guénon ha sempre detto di non volersi affatto rivolgere interessandogli, come egli precisa, solo i pochi che nonostante tutto non sono ne’ “uomini moderni” ne’ “occidentali” nel senso limitativo) la comprensione di qualcosa che, altrimenti, non avrebbero potuto capire in modo diretto dalle Opere dei Maestri spirituali; bensì: “un più”; perchè egli spoglia i contenuti ed i messaggi da tutti i fronzoli della poesia, del sentimento, della devozione, dell’immagine simbolica, dell’obbligo fedele al Testo sacro di riferimento (salvo poi, ovviamente, una volta fatta comprendere la pura dottrina universale, ricondurre ad Esso per farne verificare la perfetta rispondenza e la conferma) per ridurre a sintesi il puro dato dottrinale evidenziandolo senza equivoci in tutta la sua potenza. Qualcosa che solo lui ha potuto fare per funzione e per le ragioni cicliche che abbiamo già evidenziato e che gli guadagnò le più aspre critiche di chi, non comprendendo il benchè minimo iota di esoterismo e di metafisica, privo di ogni qualificazione intellettuale ed iniziatica, lamentava che Guénon “..è scandalosamente antimistico; così lontano dalla poesia dei mistici e dei cantori tradizionali; così terribilmente razionale nelle cose dello Spirito” (!?). Certo in chi è abituato a considerare le cose dello Spirito, anzichè nell’ordine di quelle più Reali e rigorose possibili, nell’alveo dei sentimenti e delle illusioni umane, delle speranze o, al massimo, del “pensiero”, l’idea che l’argomento possa in realtà appartenere all’evidenza e alla Conoscenza, è qualcosa di inconcepibile e di sconvolgente... appunto, di “scandaloso”! Queste funzioni non sono casi isolati nel Mondo Tradizionale, per ragioni opposte, nell’Induismo Shankaracharya riportò la pura dottrina metafisica contenta nel Testo sacro del Veda, rilevando i limiti di prospettiva (ma non gli errori) cui erano giunti gli altri sei Darsaha indù (le Vie regolari ed ortodosse) e dello stesso Ramajuna che pur apparteneva al Vedanta (il settimo darshana prettamente metafisico) che, arrestandosi allo stato dell’Essere, non avevano più l’evidenza e la comprensione del Supremo Brahman che costituisce la fonte più elevata e profonda dell’insegnamento del Veda.. D’altra parte: cos’altro c’è di più apparentemente diverso e a tratti persino “opposto” delle diverse Rivelazioni? Eppure può affermarsi, anche soltanto ponendosi dal punto di vista exoterico, che l’una rivela una Verità diversa dall’altra?

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ogni altro autentico Maestro metafisico all’interno di qualunque altra forma tradizionale presa a supporto.18 Del resto proprio la funzione di “Maestro” impone che, alla qualità di metafisico, si accompagni e a volta prevalga sia pure provvisoriamente e visibilmente, quella di indicare sul piano pratico ciò che può essere definita la giusta attitudine, i processi di purificazione, la disposizione interiore ed esteriore con i mezzi ed i metodi di realizzazione effettiva di quella stessa conoscenza esplicata attraverso i concetti ed assimilata dal “mentale” ma non ancora resa effettiva nel neofita.

La maggior parte delle cento pagine nelle quali l’articolista tratta gli argomenti dell’Essere, dell’Esistenza e della Conoscenza si concentrano soprattutto nell’argomento che noi abbiamo affrontato ed esaurito nelle brevi considerazioni del paragrafo precedente in cui abbiamo rilevato il problema linguistico legato alla parola “esistenza” ed “verbo essere” nella lingua araba e alla diversa radice dello stesso termine “esistere” proprio delle lingue occidentali.19

18 Sia ben chiaro che non si tratta affatto di un limite dottrinale dei Maestri delle varie

tradizioni, nel caso in questione di Ibn Arabi; non abbiamo certo la pretesa e l’audacia di dare un giudizio su un Maestro spirituale di tale elevatezza vorrebbe dire trovarsi veramente fuori da ogni “Grazia di Dio” per usare un’espressione religiosa ma in fondo trasponibile su piani anche più elevati. Un’attitudine critica del genere con tutta la sua audacia e responsabilità la lasciamo ai “sapienti dottori della legge”, “maestri dell’esteriore” e ai gruppi politicizzati che ritengono di rifarsi all’originario spirito dell’Islam: da Ibn Taimiyya ai Wahabbiti, ai Gruppi Salafiti e di varia altra ispirazione sulle cui rivendicazioni di ordine politico e sociale così come sulla loro intenzione di applicare la Shari’a nei Paesi islamici non ci pronunciamo essendo fuori dal contesto nel quale noi ci poniamo. Pretese che, liberate dalle deviazioni dottrinali, possono anche avere un margine di legittimità quando mantengano “buona fede” ed equilibrio e non divengano aggressive nei confronti del Tasawwuf autentico. Il paradosso è il preteso “antimodernismo” del quale vistosamente si rivestono proprio nel momento in cui celano in realtà un “modernismo” ben più micidiale e corrosivo di ogni più autentica Spiritualità. Del loro preteso “antimodernismo” si fanno arma i politici dei loro Paesi e di quelli Occidentali per attaccare l’Islam in generale e colpire quello che non è semplicemente “antimodernismo” ma “sacralità”, “attitudine tradizionale” in genere e soprattutto quella spesso innata “quiete spirituale” che respingeva istintivamente l’agitazione modernista e la frenesia insoddisfatta e febbrile dell’Occidente che si vuole imporre all’intera Umanità attraverso tutti quei metodi subdoli che, guarda caso, sfuggono proprio a quei vari gruppi considerati “fondamentalisti” o “integralisti”, per primi.

19 Proprio a questo proposito, perchè fingere di ignorare che è lo stesso Guénon nel suo “Il simbolismo della croce” a precisare perchè non può correttamente parlarsi di “esistenza di Dio”, sia che lo si consideri come l’Essere, principio dell’esistenza sia a maggior ragione come il Supremo, ponendo ciò, egli per primo, l’impossibilità di fare ciò, in relazione al fatto stesso che la parola “esistere” è contrapposta all’altra latina “ex-stare” (“uscire da”, “ apparire da,” nel senso anche di “dipendere da qualcos’altro che è fuori” e di “fuori dall’essere”...) cioè qualcosa che ha fuori di se il suo Principio. Ne’ l’Essere ne’ il Non essere hanno fuori di sé la loro ragion sufficiente e la loro “causa”. Ed allora perché spendere tante chiacchiere a cercare di sviscerare tante diverse formule espressive quando basta dare delle indicazioni che debbono servire da “chiavi” di un lavoro interiore a chi può capire, disinteressandosi completamente degli altri e tanto più dei detrattori consapevoli?

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Sarà forse un nostro pregiudizio se nel presunto equivoco sul quale ci siamo soffermati e sul quale l’articolista ha aperto tutta la problematica, noi non riusciamo a non vedere anche una buona dose di “mala fede” nel voler equivocare? Il dubbio ci sorge perché, quando Guénon afferma che “l’Esistenza universale non è nient’altro che la manifestazione integrale dell’Essere o, per parlare più esattamente, la realizzazione in modo manifestato, di tutte le possibilità che l’Essere comporta e contiene, in tal modo principiale, nella sua stessa unità”, non è forse già evidente che l’Essere soltanto è veramente la “Pienezza dell’Esistenza” ma che, nello stesso tempo, non può non trascenderla in tutte le sue condizioni e nei suoi indefiniti stati di manifestazione tanto da esserne il “centro immutabile, trascendente ed eterno” e da non potersi così, rigorosamente e propriamente parlando, sostenere che “esiste” neppure dando alla parola “esistenza” quel significato estensivo che possiede nella lingua araba e prescindendo dunque anche da tutte le considerazioni linguistiche che abbiamo fin qui fatte. Ne sarà dunque il “Centro” ma il centro non è mai manifestato; e se è “Centro dell’Esistenza” non sarà l’Esistenza a nessun grado, pur potendosi dire che è “Esistenza” per eccellenza, come quando si dice che solo l’Eternità è la “Vera vita” essendo però qui, il termine “vita”, del tutto inadeguato, inappropriato e puramente analogico e figurato. Disporsi ad equivocare su simili cose, costantemente chiarite da Guénon quanto ai limiti del linguaggio, è molto inquietante e... significativo di che cosa si vuole realmente raggiungere.

D La funzione universale di Guénon nel campo della pura intellettualità Ciò che essenzialmente sfugge a chi, pur avendo avvertito l’importanza

dell’Opera di Guénon e la sua funzione universale non è stato tuttavia in grado di comprenderne l’intera portata veramente rivoluzionaria da “fine dei tempi”, è proprio il fatto che egli ha ricondotto ad un linguaggio che può definirsi “primordiale” per quanto possa esserci di comune misura con le condizioni della nostra epoca almeno per analogia, la pura dottrina, la conoscenza metafisica liberata da ogni supporto e rivestimento che non sia altro che quello necessario perché legato allo stesso linguaggio umano, del pensiero e della logica senza altra ingerenza suggestiva ed emozionale. Se, secondo i casi e le occasioni, egli ha utilizzato un linguaggio indù o taoista, islamico o cristiano ciò è stato sempre o soltanto per evidenziare che, nell’esposizione di quegli insegnamenti e di quelle verità egli non trasmetteva nulla di suo; niente che fosse il suo pensiero o una sua filosofia più o meno originale ma che si trattava di un insegnamento veramente universale, comune a tutte le civiltà tradizionali complete e risalente all’Umanità ed alla Tradizione primordiali. L’occasionale utilizzo di questo o quel rivestimento tradizionale, di questa o quella tradizione, era proprio a mo’ di conferma, di riscontro di questo presupposto fondamentale. E’ questa “primordialità” del linguaggio che precede tutte le Rivelazioni resesi necessarie nell’età successive del ciclo, che ha potuto consentire a

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Guénon la libertà di un’esposizione della dottrina pura utilizzando formule, parole, espressioni libere da condizionamenti. Il Principio e l’Essere nel suo linguaggio sono esattamente il Principio e l’Essere prima ancora che “Dio”; termine che porta in se il rischio di quell’equivoco che riduce il concetto a “un essere” per quanto supervalutato e superdotato ma pur sempre ambiguamente immaginato in termini antropomorfi.20

Allah non è “Dio” nel significato limitato e limitante che la prospettiva devozionale gli assegna.21 Il Nome, infatti, contiene tutti i significati e gli Attributi

20 In certe tradizioni più antiche, si ritenne di scongiurare il pericolo di una limitazione

“antropomorfa” attraverso una raffigurazione preferibilmente “zoomorfa” del Principio significando con ciò non già, come si è lasciato o fatto credere interessatamente, che questo fosse un errore ancor maggiore nel quale sarebbero cadute certe civiltà rispetto ad altre che invece avevano una raffigurazione “antropomorfa” ma volendo invece proprio scongiurare che al Principio venisse attribuita una forma specifica ed un limite proprio a quella forma; infatti, nel momento di normalità di quella determinata civiltà chi mai avrebbe potute essere così sciocco o ingenuo da ritenere che il Principio che pone e regge l’universo non ha una figurazione umana... perché ne ha... una animale? Si assicurava così che il simbolo non venisse confuso con il simboleggiato. Altre tradizioni ancore più vicine alla primordialità, raffiguravano il Principio addirittura con una pietra, prima ancora che fosse adottata la figura del “Fuoco” o del “Sole” che soltanto successivamente diventavano da simboli a quasi identificazioni superstiziose con i corrispondenti elementi fisici; qualcosa però che avveniva soltanto nella fase di decadenza e di tramonto di quelle tradizioni, rendendosi allora necessarie le successive, provvidenziali Rivelazioni restauratrici dell’insegnamento primordiale.

Sarà ancora appena il caso di rilevare come, nonostante il rigore e le ripetute raccomandazioni bibliche e coraniche di non limitare il Principio e di non immaginarlo o raffigurarlo in alcun modo, la tendenza a dargli un’immagine “antropomorfa e necessariamente contenuta nelle stesse raffigurazioni che i Testi sacri stessi sono costretti ad usare per rendersi intellegibili a tutti gli esseri cui sono destinati riemerge di tanto in tanto. Soprattutto allorchè sono gli stessi Testi sacri ad esprimersi con espressioni e raffigurazioni sul genere: “Egli è Colui che Vede, Ode, Giudica, Parla, Afferra, Agisce” o a far riferimento alle “Sue mani”, al suo assidersi nel Trono, ai “suoi piedi”, ecc.”. E’ evidente che è al limite dell’uomo e non a queste necessarie espressioni che bisogna attribuire l’incapacità di andare oltre e di comprendere la provvisorietà dell’immagine. Proprio in relazione a questo nel Corano (come del resto in altri Testi come il Veda) al Principio è riferito, a volte il Pronome “Io”, altre volte “Noi”, altre volte direttamente “Allah” o ancora: “Lui” (o Egli). Ciò è in relazione ai diversi “momenti” dell’utilizzo secondo che sia in questione il Principio inteso come l’Essere, cioè nel Suo “aspetto” Personale, di Creatore, Ordinatore e Sostenitore o a quello sovra-personale, considerato in Sé stesso. Nel Veda si alternano più soventemente il pronome “Egli” “o, preferendo la forma neutra meno suscettibile di una raffigurazione mentale individualizzata ed antropomorfizzata, “Quello”. Quanto alle immagini, necessarie affinché anche i meno intellettualmente dotati possano capire (essendo la Rivelazione diretta indistintamente a tutti) sarebbe sufficiente riflettere sul fatto che le Rivelazioni non vengono descritte come comunicate direttamente dal Principio ad un Profeta ma sempre attraverso un “intermediario angelico” (che peraltro simboleggia appunto l’Intelletto universale) per capire che le espressioni che attribuiscono al Principio “mani”, “bocca”, “orecchi”, “vista”, ecc. non sono che analogie cui corrisponde qualcosa che con gli organi e neppure con i sensi non ha nulla a che vedere diversamente i Testi sacri mostrerebbero una relazione “diretta”, del resto metafisicamente impossibile, tra il Principio e l’uomo, fondata su quelle stesse facoltà.

21 Lui è ben oltre quello che gli attribuiscono...” (Cor.) : “Io sono come il mio servo mi vede” che sembrerebbe contraddire il precedente versetto, in realtà ne rafforza il significato che invita a

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che si riferiscono al Principio di ogni cosa e ad un tempo li supera. Il Nome “Allah” racchiude il concetto di Infinito, di Assoluto, di Supremo, di Incondizionato, di Perfezione Attiva e Passiva, di Unità Suprema e di Zero assoluto, di “Primo ed Ultimo”, di “Palese e Nascosto”. Allo stesso modo, Termini come Tao o Brahman, contengono tutti i Nomi e gli Attributi pur essendo in Sé Immutabili ed oltre ogni Attributo.22 Se l’idea, il concetto formale di “Dio”, sembra facilitare la comprensione dell’ordine di Realtà che trascende l’esistenza limitata, in realtà, quando essa sia fortemente radicata nell’immagine esteriore e in un sentimento fortemente aderente ad essa, limita in modo quasi invincibile il passaggio ad una prospettiva più elevata ostacolando in grande misura non soltanto la comprensione esatta di termini come “Essere”, “Esistenza”, “Principio”, “Infinito” e “Perfezione” imponendo quasi automaticamente l’identificazione di questi concetti ad “un essere” rendendone problematica la comprensione e la stessa meditazione su di essi, anzichè considerali come già espressivi di un ordine di Realtà prima ancora che attributi di “un essere”, comune o speciale, comunque voglia intendersi.

Volendo tradurre Allah, il Brahman, il Tao, Yahwe, Watan (lo Spirito Supremo) con “Dio” senza limitare quest’ultima espressione all’immagine più esteriore che l’exoterismo ma soprattutto l’esteriorismo più letterale ed ottuso gli attribuiscono, dovrà dirsi che non è “un essere” per perfetto che voglia immaginarsi; anzi, l’identificazione di Nomi ed Attributi come “Infinito”, “Perfezione”, “Assoluto”, “Supremo”, “Unico”, “Incondizionato”, con “un essere” è un’impossibilità metafisica ed un assurdo concettuale per sé stesso. Potrebbe aggiungersi che costituisce propriamente quello che lo stesso exoterismo definiscono un’”associazione”; un’”idolatria”, la negazione del “Monoteismo” inteso nel suo significato più elevato. Il concetto di “Dio” inteso in questo aspetto più elevato che è poi quello normale e non equivoco non desina dunque “un essere” ma l’”Essere” vale a dire, “uno stato”, esattamente: “lo stato dell’Essere”. Così come il “Supremo”, designa lo “stato incondizionato” libero da ogni limite e condizione. E poichè questo stato designa propriamente l’Incondizionato, è l’unico che può definirsi la Realtà, Una, Unica ed Assoluta.

In termini islamici questa Verità metafisica è espressa con il Nome “Allah” inteso come “creatore-sorrettore” quando si considera la manifestazione (l’esistenza manifestata, secondo la terminologia Ibn Arabiana) mentre è designata “Allah ammayasifun” (in sé stesso) quando è concepita oltre ogni Velo, cioè, oltre ogni limite e condizione esistenziale. 23

trascendere ogni limite; infatti questo secondo versetto uol dire.. “Io assumo i limiti che il mio servo di assegna ed egli mi conosce soltanto così come mi limita ma Io sono in realtà ben oltre essi.

22 “Questo Tao!... Il Tao che ha un nome e può nominarsi non è il Tao. Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao. Il nome che può essere nominato non è l’eterno Nome”. (Tao te King I). Egli è il Brahman, il Neutro, assolutamente sovrapersonale.” (Veda-Upanishad).

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Abbiamo detto che le immagini con le quali i Testi sacri raffigurano Dio e gli angeli (così come in altre tradizioni venivano raffigurati “gli dei”) sono “stati dell’essere” ognuno dei quali soggetto a determinate condizioni più o meno libere o limitative che caratterizzano quello stato stesso. Questo non vuol dire che non designassero anche “esseri” e difatti è proprio in questo modo. Infatti, uno stato con le sue condizioni, diventa tutt’uno con gli esseri che occupano quello stato stesso come è il caso dello “stato umano” o degli “stati angelici” così come di qualunque altro stato dell’esistenza individuale o universale. Però, dal punto di vista iniziatico, per colui che si prospetta la “realizzazione spirituale” ed il Viaggio verso la Liberazione (nell’Islam designato come il conseguimento della Visione del “Volto di Allah che solo permane”, “Il Suo Paradiso”, “Il Permanente” (Baqa) cui deve necessariamente precedere “fana” e poi “fana el fanai”, cioè l’estinzione dell’individualità, prima, e di tutte le altre condizioni degli altri stati sovraindividuali poi) non contano tanto gli esseri che occupano quegli stati, quanto lo stato stesso che l’iniziato è chiamato a realizzare. In parole semplici: per l’iniziato sapere che esistono gli angeli conta nella misura in cui egli stesso è chiamato ed aspira a raggiungere e realizzare quello stato dell’esistenza meno condizionato e più libero del suo ma unicamente in quanto esso costituisce una tappa “verso il Suo Signore” dicono i Sufi, cioè, che lo avvicina alla Liberazione, allo “stato incondizionato, Suprema Conoscenza. 24 Questa è la ragione per la quale nella prospettiva prettamente metafisica al termine “Dio” inteso in modo generico è preferito quello di: “Principio e di Essere che liberano il concetto dall’immagine devozionale e quasi antropomorfa, collegata all’idea di “un essere” cui deve venir attribuito un culto, per designare la Realtà di cui si tratta.25 Questa Realtà, poi, nel puro linguaggio metafisico non viene neppure

23 Nell’induismo questa distinzione è espressa con i nomi “Brahma” (creatore) distinta da

“Brahman”, “Neutro”, che è il Principio non considerato in relazione alla manifestazione ma in sé stesso. Nel primo caso è chiamato Iswara (l’Essere). Questi nomi designano gradi della Realtà Unica, dove soltanto quello incondizionato è la Realtà Vera e libera da ogni velo..

24 Quanto alle modalità di questo processo di ascesa questo vuol dire che egli sale verso quegli stati universali non perchè viene manifestato in esso come per una nascita ma per un processo interiore di ascesa lungo “l’Asse verticale” (Il Raggio, lo Spirito, l’Intelletto universale, il Verbo) che passa per il centro di tutti gli stati dell’esistenza e ne costituisce il “centro” trascendente del quale troverà il punto centrale che passa per lo stato umano allorchè sarà reintegrato nello “stato primordiale”, nel “Paradiso terrestre”, nel “centro del suo stato” che comporta la reintegrazione nella pienezza delle possibilità dell’individualità umana propria dell’età primordiale e dell’Uomo primordiale.

25 Ovviamente è ben diverso il caso di un Nome Divino Rivelato il quale allora non vuole mai significare soltanto “Dio” inteso come “un essere” e come qualcuno cui dover tributare un culto; infatti nel Nome Divino Rivelato sono contenuti tutti i Nomi e gli Attributi che concernono il Principio stesso ed è un equivalente esatto del concetto di Principio Supremo come considerato nella pura metafisica. Questo vale per il Nome “Allah”, per altri Nomi propri di altre tradizioni come “Jahwe” (o ciò che vi corrisponde essendo andata perduta l’esatta pronuncia), “Brahman”,

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qualificata con l’ulteriore termine “divina” perché la Realtà in sé stessa, essendo Una ed Unica non deve compararsi con null’altro che con sé stessa. La Realtà Suprema è la Realtà, niente più e niente meno. Soltanto quando essa venga considerata in relazione a qualcosa di meno, cioè, ad un suo velo o ad un suo sgaro di “minor realtà”, può essere definita “umana”, “angelica” o “divina”.

Questa conoscenza metafisica delgi “stati molteplici dell’essere” con tutte le sue prospettive ed implicazioni, viene espressa da Ibn Arabi attraverso altre immagini che significano esattamente la stessa cosa ma che è rivestita di una serie di immagini e con una terminologia che la rende meno immediata e meno sintetica sul piano concettuale ma non per questo meno efficace. Egli infatti rileva ripetutamente che “...tutti i mondi e tutta l’esistenza non sono altro che l’automanifestazione dell’Assoluto”; ovviamente non in Sé stesso che come tale è immanifestabile (infatti manifestazione significa rivestimento di un limite che caratterizza e circoscrive il che è impossibile per l’Assoluto che è infinito; anzi, l’infinito stesso) ma nelle sue “possibilità”, nei Suoi Nomi ed Attributi. Rileva poi che quando l’Assoluto nella sua “Unicità” si pone come “Signore”, non è più l’Assoluto in sé stesso ma “in relazione” agli esseri contingenti (le “creature”) ed allora esiste come tale soltanto quando venga considerato “di fronte” al Mondo (cioè ai mondi manifestati, al Cosmo inteso come tutta la manifestazione individuale ed universale) sicché soltanto l’Assoluto in sé stesso è veramente Permanente. Questa è già una conferma evidente, resa con un’immagine e con una terminologia differente, della stessa dottrina che viene espressa nella differenza tra i due diversi stati dell’Essere puro e del Supremo, secondo la terminologia di Guénon ed anche della metafisica indù nel Vedanta.

Inoltre, allorchè Ibn Arabi precisa che l’essenza suprema, cioè, secondo la sua terminologia, l’Assoluto, è propriamente “Uno”, intende più precisamente che è “Unico” (infatti in arabo per distinguere l’Unità, l’Uno e l’Unico, si usano i termini “Wahid”, “Wahd”, Ahd o Ahad); il che è perfettamente corretto visto che questo significa che “la Realtà è Una sola ed Unica in tutti i suoi stati” (Ibn Arabi dice infatti che l’Essenza è sempre la stessa, unica, dietro ogni manifestazione e rivestimento” che è “svelamento” ma che in realtà è “velamento”, dell’Assoluto. E questo non

“Tao”, Wothan”, ecc. Nessuno di questi Nomi vuole significare soltanto “Dio” secondo l’immagine comune ed exoterica. Persino nella tradizione Greca e Romana (classica) dalla quale è stato tratto il termine “Dio” per derivazione da “Zeus”, la divinità suprema “padre di tutti gli dei”, quel Nome non designava, almeno prima della degenerazione di quelle tradizioni, una realtà così ristretta come ha finito per designare. Infatti “se “Zues” ha poi significato soltanto il nostro derivato “Deus-Dio”, il vero nome completo era “Zeus-Iuppiter” che significava “Dio-Padre di ogni cosa e di tutti gli dei” (intesi prima della degenerazione politeista, come gli angeli, le potenze cosmiche) ma anche molto di più. Quanto al termine “culto”, inconcepibile in una prospettiva metafisica ma pur usato in certi Testi, il suo significato esoterico e prettamente spirituale non designa mai una “reverenza”, un’”obbligazione” verso “un essere” esteriore da incensare e temere, quasi pretendesse un doveroso servizio da sudditi (quale finisce col ridursi in certe prospettive exoteriche estreme) ma una comunicazione con la realtà più profonda di Sé stessi, con il Cuore; con il proprio Sé; un “Ricongiungersi con il Proprio Signore”, come si esprimono gli stessi Testi sacri.

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contraddice affatto la terminologia che qualifica l’Uno come attribuzione del solo Essere puro preferendo piuttosto attribuire all’Assoluto lo Zero in quanto esprime meglio l’essenza, assolutamente non qualificata ed inqualificabile (in quanto al di sopra di ogni qualificazione). L’Uno è, infatti, il principio di tutta la serie dei numeri, e per analogia, di tutti gli stati e gradi di manifestazione, pur essendo, Esso, non manifestabile e trascendente; ma lo Zero è il Principio stesso dal quale lo stesso Uno può prendere origine come la Parola, intesa cioè il “Suono primordiale” dal quale si originano tutti i suoni, procede e scaturisce dal Silenzio che la precede e la rende possibile. In questo senso l’”Uno” è l’Essere mentre l’”Unico” è il Supremo, l’Assoluto.26

E’ proprio questa libertà di linguaggio e di espressione di cui ha potuto fare uso

Guénon, che rivela il carattere veramente universale della sua funzione e della sua Opera nell’ambito dell’intellettualità pura; ed è proprio questo il significato più elevato dell’affermazione, resa per primo proprio da Guénon stesso, per la quale egli non ha avuto la funzione di Maestro. Si intende che non ha una funzione di guida, specificatamente all’interno di una determinata tradizione. Si tratta di “un più”... non di “un meno” come qualcuno ha creduto... ma che non implica, ovviamente, lo stato e il grado personale di realizzazione bensì la funzione nello specifico momento cosmico da “fine di ciclo” nel quale si è manifestata. La situazione cosmica da “ultimi tempi”, la collocazione geografica e la funzione, hanno potuto consentire a Guénon, di poter creare ed usare un linguaggio estremamente immediato, chiaro e sintetico rivestito del solo limite del linguaggio umano e non invece di immagini troppo legate ad una specifica forma tradizionale peraltro a rivestimento “religioso” e devozionale; un linguaggio “tecnico” preoccupato soltanto di far capire la pura dottrina metafisica e i relativi concetti, in modo immediato e sintetico tale da ridurre al minimo la possibilità di interferenze sentimentali ed equivoci.

Compreso quanto abbiamo appena detto, a questo punto le disquisizioni professorali sul Verbo “ad intra” o “ad extra” , proprie più ad una certa teologia che alla metafisica, nella Via iniziativa e nell’ambito della Conoscenza metafisica pura perdono allora gran parte della loro importanza; negli autentici Maestri dell’Islam si tratta, il più delle volte, di scrupoli, di attenuazioni, di prudenti espedienti di

26 Nel Corano questa Conoscenza viene espressa con i diversi termini con cui il Principio si

pone: “Allahu = Allah-Lui” (ammayasifun, in Sé stesso); “Allah = Allah (come Rabb - Signore); oppure “Hu= Lui” (l’Essenza); ed infine: “Nahnu = Noi” (plurale majestatis)”. Tutte le altre designazioni sono i “Nomi” intesi come gli “Attributi”. La Sura Ihlas specifica: Di: Allahu Ahad (Unico).

C’è un altro particolare che sottolinea questa differenza tra un concetto di semplice “singolarità” e quello di “Unità totalizzante” ed è il fatto che non si dice mai che Allah è “l’Uno” o “l’Unico” bensì che è “Uno” ed “Unico”, cioè, più propriamente nel senso che è l’”Unica Realtà” designante un concetto di “Realtà Unica” e non già quello di un “dio singolare” o di “un essere” che esclude ogni altro concorrente.

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linguaggio se non addirittura di timori, a volte anche “reverenziali”, verso un’immagine del Principio che, nonostante tutto, si continua ad avvertire, per un’interferenza del sentimento e dell’emozione prevalente sull’intuizione pura, come “Soggetto-Oggetto” verso cui è d’obbligo una devozione e ad un doveroso culto. Nell’ambito di una forma tradizionale a rivestimento religioso, il rigore dottrinale e l’evidenza che accompagna, ad esempio, l’esposizione della dottrina dell’Essere si alterna a volte a “ricadute”, spesso necessarie sia per il sentimento sia per il rispetto della forma usata nel Testo sacro di riferimento; ricadute che, all’immediata e fuggevole evidenza di ciò di cui effettivamente si tratta, subentra nuovamente il ritorno all’immagine dove, l’Essere, viene nuovamente percepito come “un essere”; non importa del resto, pur se “infinitamente” inteso, giacchè questo non recupera affatto l’aberrazione dottrinale visto che è proprio questa falsa percezione che qualifica l’impossibilità e la contraddizione stessa dell’associazione di “un essere” all’infinito ma anche soltanto limitatamente allo stesso grado dell’Essere Puro. Il Principio dell’esistenza, cioè l’Essere, come abbiamo già rilevato non può mai concepirsi come “un essere”.27

Sono scrupoli e timori a volte giustificati proprio perchè l’io (l’individualità umana e la nafs che è appunto l’anima individuale), non si facciano illusioni, non credano di potersi ritenere il Sé finché rimanga anche soltanto un minimo di quell’apparenza costituita dall’individualità umana; finché non sia cioè conseguito “ fanà”, l’estinzione di tutti i limiti individuali, e dunque, della stessa anima individuale; finchè il servo non sia completamente estinto, con tutti i limiti della sua volontà individuale, “...nella Volontà del Suo Signore”.

27 Questo tanto meno se, all’Esistenza si da il significato non soltanto di “manifestazione” ma

dell’Intera Realtà secondo il linguaggio Ibn arabiano e la radice araba del termine; infatti in questo caso l’Essere si trova a svolgere la doppia funzione di “Principio” “in relazione all’Esistenza” e “Principio in Sé stesso” ed in entrambi i casi non potrebbe mai considerarsi come “un essere”. Che cos’è allora, potrebbe chiedersi? Ma non è forse detto che “Allah sfida con la Sua Maestà i vostri intelletti?” Che cosa sia è oggetto non di speculazione ma soltanto di Contemplazione unitiva. Potrà dirsi che è l’Oceano nel quale la goccia ritorna e Ri-Conosce. E si scopre Oceano? Ma si tratta di immagini. Questo è il senso dell’invito del Profeta a non meditare sull’essenza ma solo sugli attributi perchè la “Conoscenza del Vero non è raggiunta ma sopravviene dall’Alto”; “E’ Allah che si fa Conoscere e Ri-conoscere”; “..Che attrae il giusto ricercatore sincero e chi vuole”; “Solo Allah Conosce Allah”, “ Conoscere Allah per mezzo di Allah”, come si esprimono i testi islamici. E secondo il Veda, del Brahman non può dirsi “E’ questo o è quello”... ma soltanto “non è questo, non è questo, non è quello.” (neti-neti). Non è attraverso le facoltà individuali umane, attraverso gli sforzi dell’azione o delle virtù che “Quello”, (Allah, La Realtà Divina... o anche semplicemente, la Realtà) è Conosciuta, ma in forza di una facoltà trascendente che è l’Intelletto Universale il quale, giunto poi all’Essere, non è più il “Raggio” ma, per un rovesciamento che dev’essere Ri-Conoscimento, è il “Sole” stesso dal quale emana. Solo allora è Intelletto Divino che può Conoscere Sé stesso in un’Identità tra Conoscenza-Conoscente e Conosciuto”. E’ appena il caso di osservare che espressioni come “giunto all’Essere” ed “emana” sono provvisorie ed imperfette, finalizzati soltanto a suggerire qualcosa che è ben oltre queste stesse parole ma che non può essere diversamente espresso.

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Scrupoli, dicevamo, altre volte giustificati dalla necessità di non oltrepassare le forme espressive imposte dalla Rivelazione specifica all’interno della quale il Maestro sta svolgendo la sua funzione e vive la sua stessa vita. Quei limiti, d’altra parte, sono imposti dalla funzione generale che compete ad una Rivelazione la quale deve abbracciare la comprensione, almeno minima, da parte della totalità degli esseri umani nella consapevolezza che, quei limiti, non saranno affatto di ostacolo all’azione dell’Intelletto, all’apertura di un “Cuore puro e sincero”, come si esprimono i Testi tradizionali; alla Via di coloro che ricercano sinceramente la “Vicinanza del loro Signore”, vale a dire, la Verità nella sua forma più pura ed intellettivamente elevata. L’Intelligenza, che non è la limitata e critica ragione umana, sa come guidare oltre le immagini, dalla lettera alla Spirito.

Il termine “nafs” che abbiamo poco sopra usato, ci fornisce subito l’occasione per rilevare un altro esempio dell’attitudine e del modo di approcciare quest’ordine di conoscenze da parte dei professorali personaggi di cui ci stiamo accidentalmente occupando. Ecco infatti un’altra pretesa “differenza”, secondo il criterio esteriorista, tra Guénon e il linguaggio di alcuni Maestri del Tasawwuf. Infatti, nel linguaggio Guénoniano, improntato alla vetta della più coerente metafisica, l’anima è l’aspetto sottile dell’essere umano ed appartiene tutta intera alla sfera psichica, vale a dire, al grado della realtà di ordine individuale e non universale. L’anima non è lo Spirito che appartiene al grado universale della realtà. Finché l’essere si caratterizza come “anima” è un individuo ed è avvolto ancora nell’ordine della realtà formale ed individuale; è ancora racchiuso nei limiti della condizione formale che nel corporeo si caratterizza oltre che nella forma grossolana, nello spazio e nel tempo che, nel “sottile” (cioè nella modalità psichica), si caratterizza come “durata” (il tempo è infatti soltanto la modalità grossolana della durata). La sua esistenza si caratterizza in quella modalità che si definisce “vita” (in senso biologico) che a sua volta è incentrata nella modalità corporea o grossolana propria dello stato in cui si manifestano gli esseri umani, gli animali, i vegetali e il regno minerale. Quanto alla modalità sottile, nell’uomo si caratterizza come “forma mentale” oltre che nella “coscienza individuale” cui si associano la sfera della sensazione, della percezione e del sentimento di cui la forma corporea non è che la traduzione grossolana, più esteriore e periferica nonostante all’essere corporeo quest’ultima modalità appaia come “centrale”. In questa condizione l’essere è ancora “dormiente” nella sua condizione individuale, corporea e animica, e non partecipa ancora coscientemente della realtà degli stati superiori ed universali del suo essere; non ha consapevolezza attiva dell’aspetto trascendente che tuttavia gli appartiene (o meglio, del quale è parte e manifestazione), dello Spirito-Intelletto, del suo Sé. Questo è già un dato dottrinale fondamentale ma gli “esterioristi dell’interiore” (con quest’espressione paradossale possono definirsi quei personaggi che evidenziano la singolare capacità di saper ricondurre nuovamente all’esteriore ciò che i Maestri hanno fatto tanta fatica a suggerire e a trasporre nell’interiore) non perdono tuttavia l’occasione per rilevare come, con il termine “nafs” che equivale comunemente al nostro comune termine “anima”, nel linguaggio dei Maestri del Tasawwuf e anche in un’accezione della radice araba, si intenda invece anche un aspetto superiore e che

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non rappresenta pertanto soltanto l’”anima individuale inferiore”. La cosa è fin troppo evidente visto che anche nel più esteriore catechismo cristiano con il termine “anima” si intendono livelli molto differenti: dall’anima peccatrice, passionale, inferiore ed ignorante, all’anima “penitente” sino a quella “purifica e pacificata”, vale a dire, l’Anima superiore ed immortale. Ma questi sono adattamenti di una parola che, dovendo tener conto anche dal linguaggio exoterico, impone necessariamente ai Maestri che debbono rivelare aspetti più elevato dell’essere e contenuti di una conoscenza metafisica all’interno del linguaggio proprio alla forma tradizionale alla quale appartengono, di usare quel termine anche quando si tratta di ordini di realtà superiori all’anima individuale, per non discostarsi dalla forma espressiva e religiosa, necessariamente semplificata, alla quale sono aderenti e della quale spesso sono autorità sia esteriori che interiori. Diventa perciò necessario, per quei Maestri, continuare a usare ma anche dover sempre precisare, che non si intende l’anima come comunemente concepita ma livelli ben diversi di essa che, infine, non corrispondono più neppure all’anima come l’uomo la conosce o al solo aspetto sottile che si identifica con l’individualità umana; si fa allora ricorso all’analogia, esattamente come quando si continua ad usare il termine “essere” anche quando si parla di stati che sono oltre l’Essere o quando ci si riferisce agli esseri contingenti che sono al di qua dello stato dell’Essere puro. Si tratta insomma del solito problema di linguaggio e dell’analogia ma si dimentica o si finge di dimenticarlo.28

28 Lo stesso problema del resto si ripete per una serie di altri termini che il Tassawwuf ed Ibn Arabi adottano mutuandoli dal linguaggio religioso ma attribuendo ad essi un significato indiscutibilmente superiore ed infine diverso dal senso comune. Si pensi al termine “Fede” e “Fedele” o anche “Credente”. Poichè queste parole vengono applicate sia ai semplici fedeli che per designare gradi di realizzazione e di approssimazione divina, è evidente che esse non conservano più quasi nulla del termine che hanno nell’exoterismo e del resto anche qui molto limitatamente se si pensa che la formula e l’atto stesso di “fede” islamico con il quale si diventa tali è una “Testimonianza” non un’attestazione di fede. “Testimonio che non c’è altra Divinità se non Akllah e testimonio che Muhammad è il Suo Profeta”. Lo stesso uso del termine, del resto, è stato fatto anche in Occidente nelle Confraternite iniziatiche dei “Fedeli d’Amore” e della “Fede Santa” ma anche dai Templari e dai Rosacroce. La “Fede” non è il banale sentimento che qualifica colui che appena è disponibile ad accettare l’idea dell’esistenza di Dio o che, anche che sinceramente, ci crede. Il termine “Fede” assume molteplici significati: “Fiducia incrollabile”; “forte disposizione d’animo”; “ardore bruciante” e, soprattutto, “Evidenza”. Non si tratta di un sentimento più o meno irrazionale o di una sensazione che porta più o meno ad assentire e a credere ai contenuti della fede stessa come l’origine del Testo sacro, le Parole in esso contenute, i dati di fede. Nella realtà esoterica la “fede” in questi termini è estranea giacché mentre quando se ne utilizza il termine è questione di “evidenza”, di “presentimento degli stati superiori dell’essere”, di “aspirazione verso l’universale”, di “distacco innato dalle cose contingenti”, di “anticipazione della Conoscenza” attraverso stati che sono come lampi di luce, squarci sulla realtà universale, riflessi della realtà superiore almeno finchè non subentra la Conoscenza effettiva che è “Contemplazione diretta ed attiva”, “ Visione interiore”, “ apertura dell’Occhio del Cuore” o “Terzo Occhio di Shiva”, come si esprimono gli Indù.. E’poi evidente che Guénon, per parlare della Realtà metafisica e della Spiritualità pura e riferendosi all’esperienza spirituale nel suo aspetto iniziatico, non dovendo adottare necessariamente un linguaggio che appartiene all’exoterismo dal quale necessariamente partire e sopra il quale elevare il linguaggio o dal quale penetrare dall’esteriore all’interiore, parla mai di “fede”, di “devozione”, di

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D’altra parte: che soddisfazione può mai dare a certi personaggi il parlare di conoscenze elevatissime allorché, liberate del manto suggestivo di un linguaggio “misteriosofico”, difficile e a volte pomposo, diventano eccessivamente comprensibili a troppi e li privano dunque di quella soddisfazione di fare mostra della propria eloquenza, della loro straordinaria erudizione e della stupìta ammirazione dell’auditorium? Che cos’altro possono aggiungere essi quando è tutto chiaro? E che cosa possono far mostra di sapere e di lasciar credere di “celare”, allorché tutto è troppo chiaro? Sembra quasi che di Guénon certuni abbiano in odio proprio la troppa chiarezza che sottrae ad essi la soddisfazione di dover aggiungere qualcosa di loro e che non gli consenta di far presumere negli altri di quale vastità è il loro sapere. In fondo, la possibilità di poter giudicare l’Opera di Guénon e di Ibn Arabi, come quella di qualunque altro, potendosi permettere quella disinvoltura di linguaggio tipicamente professorale che consente di citare gli Autori via, via, richiamati, con termini come: “lo scrittore francese”, “l’autore andaluso”, “il Guénon”, “ il Maestro andaluso”, hanno l’effetto di evidenziare una “familiarità” con gli argomenti insieme ad una specie di confidenza riduttrice con i loro Autori che diventano così quasi dei “colleghi” che possono essere trattati alla pari. Non guasta poi, se a ciò si accompagna anche l’ostentazione di un certo rispetto che del resto da un lustro maggiore alla propria materia ed al proprio stesso sapere, quell’attitudine di sufficienza e di distacco di chi sa bene e ben può giudicare. Certo non sempre tutto questo è perfettamente consapevole ma, checchè se ne pensi, si tratta di “segni” che emergono quando si allenti anche di poco l’atteggiamento e possa emergere l’attitudine reale.

E’ evidente che dal punto di vista di un linguaggio prettamente metafisico, libero da precostituite immagini concettuali e non di rado sentimentali ai quali l’espositore debba appoggiarsi per rendere comprensibile la dottrina metafisica, risulta più facile, più chiaro, più evidente e dunque più adesivo, usare uno schema che descriva la Realtà nei suoi gradi individuale ed universale con tutti gli stati (ed i corrispondenti esseri all’interno di questi gradi stessi) nei termini del sintetico linguaggio guénoniano che ha cura di dare ad ogni parola il suo esatto significato che non invece dover usare una stessa parola per gradi e livelli incomparabilmente differenti della Realtà, dovendo sempre ricorrere a precisare, le trasposizioni di livello da dover fare. Tanto più se queste precisazioni si trascura poi di farle come quasi sempre accade in quei casi! Si dovrà allora concludere che solo il linguaggio guénoniano offre l’esempio della più pura espressione di Conoscenza metafisica? Niente di tutto questo; è un altro il senso della nostra severa precisazione. Non è in questione la più o meno elevata

“lode”, di “preghiera”, di “sottomissione”, di “sacrificio”, di “timore” o di “amore” , di “venerazione”, ecc. ma usa invece termini più intellettuali ed iniziatici quali: “Rito”, “Evidenza”, “Conoscenza”, “Concentrazione”, “Meditazione”, “Contemplazione”, “Dikr”, Liberazione, Purificazione, Distacco, Sapienza, Saggezza, Beatitudine, Principio Supremo, Essere, Assoluto, Supremo, Attività e Passività, Conformità all’Ordine cosmico e Divino”, Adesione alla Volontà del Cielo, ecc.

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espressione della Conoscenza della Realtà metafisica; infatti, la dottrina e la conoscenza è sempre la stessa; identica ovunque quando è completa; parliamo invece di linguaggio, di forma espressiva più o meno libera, più o meno adatta ed adeguata a trasmettere quello stesso, immutabile insegnamento che, nel caso degli autentici Maestri della Tradizione, non ha alcun motivo di essere corretto o censurato... tanto meno criticato o... comparato.

E’ con questa premessa che riteniamo di poter affermare senza ombra di dubbio che, per un uomo nato in Occidente che pur vivendo nella realtà moderna magari subendone anche condizionamenti ai quali non riesce o non può sottrarsi interamente non è tuttavia ne’ un “occidentale moderno” ne’ un “uomo moderno” nel significato squalificante del termine, il linguaggio guénoniano si rivela, ed effettivamente è, immensamente più idoneo a trasmettere certe consapevolezze e certi insegnamenti tradizionali, di qualunque altro linguaggio, sia esso tratto dalla tradizione Indù, Taoista, Islamica, Zen, Cristiana, Ebraico-Cabalista, Massonica o che dir si voglia. E questo, tuttavia permettendo di riconoscere, in ognuna di queste forme e proprio attraverso il loro peculiare linguaggio, lo stesso insegnamento. Guénon consegna, insomma, una chiave che permette di aprire tutte le porte.

Premessa anche questa precisazione, possiamo tranquillamente aggiungere, senza essere a questo punto equivocati (speriamo), che nonostante questa minor idoneità di linguaggio rispetto a quello guénoniano nel trasferire concetti ed insegnamenti di ordine metafisico, quegli scritti ed il linguaggio di quei Maestri che si appoggiano ad una determinata tradizione, ha un valore “operativo” nel senso che, partendo dal grado della comprensione comune di un discepolo tuttavia qualificato al più, esso impone quel “lavoro” interiore di penetrazione, di meditazione e di maturazione che agisce come un passaggio all’interiore, una purificazione su tutti i piani, una verifica costante che è sforzo di superamento. Anzi, per un lavoro operativo all’interno di una determinata tradizione, l’uso “tecnico”, realizzativo oltre che dottrinale di quegli scritti è fondamentale se non addirittura indispensabile. Questo perché, la pur esatta comprensione dottrinale, teorica, cioè mentale, della dottrina metafisica, per quanto indispensabile soprattutto nelle attuali condizioni cosmiche e di fronte alla confusione imperante della nostra epoca, è un presupposto ma come tale non è sufficiente a far passare l’essere dalla virtualità all’effettività della Conoscenza; cioè per condurlo alla “realizzazione effettiva”. Gli scritti di quei Maestri, con il loro linguaggio sono infatti gli strumenti di supporto dell’”influenza spirituale” (baraka) della quale sono veicoli ed anche modalità del “lavoro interiore”. Anche gli scritti di Guénon sono ovviamente un veicolo intellettuale e spirituale ma lo sono in senso generale e, senza mai perderli di vista o ritenerli superati ma, al contrario, attenendosi ad essi come una bussola infallibile ed una chiave di riferimento, con essi si deve, necessariamente, addentrarsi nel lavoro operativo rappresentato dal dikr e dagli scritti dei Maestri della silsila della tariqa alla quale si è ricollegati.29 Tutto ciò, senza neppure considerare l’altro aspetto importantissimo

29 Ovviamente accanto a questo “lavoro interiore” si accompagna il lavoro esteriore costituito dalla pratica dei riti e dei doveri indicati dalla Legge sacra nonchè l’attenzione verso ciò che è proibito e ciò che è obbligatorio o consigliato perchè tutto questo rappresenta il necessario supporto d “purificazione” senza il

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che, Ibn Arabi, anche quando sembra parlare di aspetti devozionali o addirittura morali, allude in realtà ad un ordine di realtà che attiene agli “stati superiori dell’essere” ed adotta un linguaggio che può dirsi degli “uccelli”, degli “angeli”, presupposta ovviamente l’analogia, e non si rivolge soltanto a possibili discepoli ma anche a Maestri spirituali avendo per questo meritato i titoli di “Maestro del Maestri spirituali” e ..”il più grande dei Maestri spirituali”. Di fronte a questo fatto, che dire della pretesa dei nostri “professori” di credere do averlo capito e assorbito a scuola e nei loro ambienti accademici più o meno accreditati in questa o quella tariqa esteriorizzata, tanto da poterlo comparare se non addirittura giudicare? E’ lo stesso Guénon ad affermare questa funzione e questo potere dell’Opera di Ibn Arabi, allorchè in “Iniziazione e realizzazione spirituale” precisa che l’iniziato potrà vedere negli scritti di Shankara o di Ibn Arabi, una dimensione molto più profonda di quanto non possa fare il lettore, anche più attento e ben disposto, verso quelle opere. Ma c’è di più: se per i neofiti gli scritti di Ibn Arabi sono più complicati quanto alla capacità di veicolare i concetti della pura dottrina metafisica liberi da sia pure provvisori rivestimenti prudenziali che hanno peraltro anche lo scopo di diluire in suggerimenti propedeutici i dati più arditi che appartengono al vertice della conoscenza metafisica, quali la “dottrina della “non dualità” o “identità suprema”, per gli adepti che non sono come si crede soltanto dei neofiti di vecchia data ma coloro che hanno già realizzato in modo effettivo alcuni gradi della realizzazione (gradi peraltro che già presuppongono l’avvenuto superamento dell’integralità dello stato umano e l’apertura verso gli stati superiori ed universali dell’essere) il linguaggio di Ibn Arabi si traduce in forme di comunicazione non più mentale ma interiore relative agli stati superiori dell’essere per cui non si tratta più di semplice dottrina o di prospettive dottrinali ma di “passaggi” che riguardano stati dell’essere. Niente che abbia a che fare con problemi di “rettificazione” o di precisazione dottrinale. Ed anche quando altri Maestri come Sirhindi sembrano rettificare Ibn Arabi su certi punti dottrinali in realtà si tratta della “rettificazione” di espressioni che hanno rivelato il rischio di rimanere incomprese o di generare equivoci a causa della loro elevatezza e dei limiti del... lettore ma anche del neofita. Quest’attitudine si comprende benissimo quando nelle sue lettere (Maktubat) lo stesso Sirhindi precisa ai perplessi destinatari che la sua non è mai una critica ad Ibn Arabi. Può anche aggiungersi che, per chi ha avuto accesso alla conoscenza metafisica (ovviamente teorica e non effettivamente realizzata) attraverso l’Opera di Guénon, il

quale è molto improbabile che l’essere iesca ad aderire e ad assentire a quel distacco dalla realtà contingente che facilita e favorisce la Conoscenza e l’assentimento di tutto l’essere ai suoi contenuti. Varà precisare che questo processo di purificazione assicura all’essere la “salvezza” che è la conservazione del beneficio della forma umana privata soltanto del corpo nella condizione favorevole e positiva di uno di quelli che sono definiti “paradisi formali” dai quali l’essere potrà sperare di continuare il suo viaggio verso la “Liberazione”. La Liberazione ovvero la Conoscenza è invece possibile soltanto “attraverso la Conoscenza” perchè non sono le azioni contingenti a poter produrre un risultato che è trascendente alle azioni stesse. Questo vale anche sia le azioni meritorie che per quelle malvage giacchè è l’ignoranza che muove le azioni malvage a condurre l’essere verso la condizione miserevole della perdita dei benefici della nascita umana e quelle condizioni che vengono defiite “infernali”. E’ la Conoscenza che conduce alla Liberazione o, per usare un’altra espressione: “è’ solo Allah che guida al Suo Volto, ad Allah”.. “E’ solo Allah che Conosce Allah”.

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lavoro iniziatico interiore, oltre che con gli altri strumenti rituali (Corano, Riti e Dikr) può a maggior ragione risultare più “penetrante” rispetto a chi ha avuto acceso attraverso l’Opera di Ibn Arabi stesso, operando dentro di se quello sforzo di “riconoscimento” e di trasposizione dall’uno all’altro Autore della stessa Verità enunciata. Ovviamente la comparazione non sarà allora a livello “professorale” e “critico”, quasi per trovare, le divergenze ma per riconoscere e ricondurre ad Unità e questo lavoro potrà allora essere veramente “iniziatico” e “realizzativo”.

La mentalità professorale che per sua natura e nonostante le apparenze rimane in fondo sempre all’esteriore delle cose, mira sempre all’analisi e quasi mai alla sintesi e si risolve soprattutto nel cercare le differenze, vere o presunte, più che a cercare di capire se per caso le varie espressioni vogliano poi significare in fondo la stessa cosa. Si tratta di svisceratori del linguaggio ma soprattutto della forma espressiva del linguaggio che imbrigliano la loro mente e quella degli altri nelle parole mentre sfugge loro il guizzo dell’intelletto che comprende, supera gli ostacoli ed infine Ri-conosce. I “professori dell’esoterismo” si comportano sempre come dovessero sostenere o far sostenere un esame e del resto non di rado, molti studi su Ibn Arabi, Guénon ed altri sono “tesi di dottorato”. E’ pur vero che anche Guénon esordì la sua prima esternazione sulle dottrine orientali con una tesi di dottorato ma la sua fu una “provocazione” finalizzata allo svolgimento di quella funzione esemplare ed intellettuale che si è poi manifestata in tutta la sua potenza in tutto l’Occidente e si è riverberata anche in Oriente con la traduzione dei suoi libri persino in Tibetano oltre che in Sanscrito, in Farsi, in Turco, per non parlare di tutte le lingue europee. Fatto straordinario se si considera che le sue Opere non sono romanzi di divulgazione ma pura dottrina metafisica con funzione di Luce intellettuale e di presenza spirituale. I “professori” di cui parliamo operano in funzione di dispersione, di divagazione orizzontale laddove le dottrine tradizionali operano in verticale. D’altra parte l’attitudine stessa ad approcciare certi ordine di realtà come “studi”, come “analisi comparate”, come “ricerca” o “analisi del pensiero” è esattamente l’opposto della natura e dello scopo di certe dottrine e degli ambienti cui da sempre sono destinate. Il paradosso è che per quanto sforzo facciano, anche i meglio intenzionati quando appartengono a questa nefasta categoria non riescono ad uscirne. E’ superfluo aggiungere che questo tanto più vale quando questa mentalità è presente in taluni che non sono neppure professori nel senso ufficiale ed accademico e provavo come una frustrazione che smaniano di coprire rivelando ancor più quella smania di apparire quello che non sono neppure sul piano almeno legale e formale. Non di rado il meno acculturato tra autentici fukarà (lett. “poveri” ma per estensione... iniziati) ha una capacità di penetrazione al di là del difetto dialettico e dei limite espositivo che i nostri professori neppure sospettano nella loro superficialità e pretesa. L’articolista riprende l’argomento della pretesa difesa di Guénon che si presenta di fatto come una necessità di “soccorrerlo”, precisarlo ed integrarlo, alla pag. 145. “ In incipit di trattazione abbiamo sostenuto che secondo noi non è possibile giungere a una completa padronanza dell’wujud (modesta pretesa..!) se non integrando in

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maniera esaustiva l’esposizione datane da Guénon con quella di Ibn Arabi (...); ciononostante, nel tentativo di tracciare fino a qui le basi della nostra disanima ci siamo avvalsi quasi esclusivamente di referenze ibnarabiane o comunque principalmente islamiche derivando dall’opera dello scrittore francese solo alcune informazioni di carattere metodologico e comunque senza mai riferirci alla sua esposizione della teoria tradizionale dell’Essere e della manifestazione universale. (...) tale evidente citazione sproporzionale, che sulle prime sembrerebbe attribuire alla dottrina akbariana un ruolo prioritario relegando l’opera di Guénon a una funzione di mero apparato sinottico o commento di bordone, ci permettiamo di chiamare in causa un ultimo elemento critico ai fini della corretta comprensione delle pagine che seguiranno. Dopo un primo periodo in cui diversi occidentali venuti a contatto con l’opera dello scrittore francese si sono sforzati (soprattutto dalle pagine di “Etudes traditionelle” parigine e della “Rivista di Studi Tradizionali” di Torino) di ottemperare a una sintesi efficace tra quest’ultima e l’opera akbariana, nell’ultimi trentennio si è assistito ad una preoccupante inversione di tendenza che in breve tempo ha portato molti studiosi dapprima ad affrontare tali opere in maniera nuovamente (ma questa volta volutamente) separata, e infine, per lo meno nella maggior parte dei casi, a sbarazzarsi dell’opera di Guénon, considerandola disueta non solo perchè a loro dire tale opera non sarebbe in grado di sceverare da sola gli aspetti più profondi della dottrina ibnarabiana o (più generalmente) islamica, ma anche (e soprattutto) perchè risulterebbe inutile far riferimento a fonti estranee a Ibn Arabi e all’Islam, dal momento che in questi ultimi... c’e tutto! Orbene, è assolutamente impossibile non notare come anche nell’Islam, al pari di ogni altra espressione autentica della Tradizione unica, la Verità si manifesti integralmente, e anzi diremmo nel più evidente e inappellabile fulgore nella sua universalità (data la funzione ricapitolativa e conclusiva della Rivelazione islamica nei confronti delle precedenti forme tradizionali) tuttavia, visto il carattere estremamente sintetico della forma simbolica con cui essa si presenta, a differenza di altre forme più permeabili alla mente occidentale (per sua natura iper-analitica e ben poco intuitiva) quali quella greco-romana e quella indù, la dottrina iniziatica islamica può risultare molto spesso difficile da penetrare nei suoi significati profondi senza cadere in interpretazioni grossolanamente letteraliste o esageratamente allegoriche, lasciandosi ingannare dalle indefinite nuance di cui è capace la sua terminologia tecnica (assai eterogenea da autore ad autore) o arenarsi dinnanzi a quegli escamotage linguistici e simbolici che i suoi esponenti hanno talvolta adottato affinchè solo l’élite spirituale potesse cogliere lo spirito al di sotto della forma (...) Anzichè cercare di fare luce sugli aspetti più oscuri della metafisica ibnarabiana ricorrendo alla trattazione super partes fornita dallo scrittore francese dove i più diversi aspetti del simbolismo tradizionale di ogni tempo sono sintetizzati e ricondotti a quella Tradizione unica di cui non sono che forme particolari di espressione (espressione che sotto la penna di Guénon non diveine altro che l’immagine più autorevole che l’Occidente abbia avuto della Sophia Perennis et Universalis, si sminuisce la sua opera tacciandola di scarsa £scientificità” (e quindi “inattendibilità”) proprio a causa dell’estrema universalità con cui essa si presenta

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al lettore. Così si preferisce affrontare direttamente il Maestro andaluso prescindendo da qualsiasi riferimento extra-islamico, quando invece è stato proprio Ibn Arabi ad affermare (settecento anni prima di Guénon) che “”chi esorta se stesso al bene dovrebbe investigare durante il tempo in cui si trova in questo mondo tutte le dottrine riguardanti Dio. Dovrebbe imparare i punti da cui ciascun sostenitore d’una dottrina trae la validità della medesima. Poi una volta che la validità si è affermata in lui secondo le specifiche modalità che rendono corretta per coloro che la professano, egli dovrebbe sostenerla nei confronti di coloro che non vi credono”. E ancora: “Guardati dall’essere condizionato da un credo particolare rinnegando tutto il resto perchè perderesti un bene immenso”. Ed è proprio il non riuscire a passare liberamente dall’ontologia guénoniana a quella ibnarabiana a spingere molti studiosi ad occuparsi esclusivamente (ma non esaustivamente) della dottrina metafisica islamica e di Ibn Arabi prescindendo in maniera completa, e purtroppo spesso definitiva, da Guénon”. Pag. 148 L’articolista rinnova a questo punto il proposito che è così espresso: “Nella speranza da un lato di arginare il più possibile errori di questo genere e d’altro tipo, dall’altro di fornire al lettore uno strumento di agevole consultazione che possa essergli d’aiuto nel proprio lavoro di chiarificazione dottrinale, andremo ora a definire meglio l’oggetto del presente studio”. Ma tra la proclamazione di intenzione, il metodo, il risultato e gli effetti c’è coerenza?

Cominciamo subito col rilevare già la significativa abnormità della pretesa iniziale di poter “..giungere a una completa padronanza teorica del wujud..” integrando “..l’esposizione datane da Guénon con quella di Ibn Arabi. Pretesa già rivelatrice di un equivoco “professorale” di base che è l’opposto di ogni attitudine e consapevolezza veramente iniziatica ben conscia che certe Verità non sono accessibili “con la mente” ne’ tanto meno realizzabili con essa e che, la stessa “conoscenza teorica” fosse pure correttamente acquisita con tutti i suoi concetti, non è altro che una base, pur assolutamente necessaria soprattutto nelle condizioni della nostra epoca tuttavia provvisoria, per la meditazione e non coincide neppure, e niente affatto, con quella “perfezione della conoscenza teorica” di cui parla la tradizione indù e che fa coincidere con la realizzazione di un grado spirituale già superiore addirittura alla restaurazione dello stato primordiale che è la totalizzazione e la perfezione dello stato individuale umano, reintegrato nella sua “centralità” e, secondo l’immagine simbolica: “nel paradiso terrestre”. Già questo equivoco è indicativo perchè segna tutta la differenza tra un’attitudine effettivamente iniziatica ed una esteriore quale che sia l’apparenza e l’estensione delle nozioni acquisite e delle quali si è venuti in possesso. Quanto poi al fatto che la sproporzione delle citazioni fatte fino a quel punto dell’articolo di frasi dottrinali di Ibn Arabi senza quelle di Guénon potrebbe far ritenere al lettore che si consideri il ruolo di Guénon “...come un mero apparato sinottico o commento di bordone..” non si vede come sarebbe possibile per chi conoscere l’Opera di Guénon direttamente, senza presentazioni e senza riassunti per

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cui viene spontaneo ritenere che è l’articolista stesso, malgrado tenda a celarlo forse persino a se stesso, ad avere questa sensazione. Se “nell’ultimo trentennio si è assistito ad una preoccupante inversione di tendenza che in breve tempo ha portato molti studiosi (...) a sbarazzarsi dell’opera di Guénon...” per un esoterista serio che lo ha compreso e che è comunque animato da la volontà non già di “sapere” ma di Conoscere e di realizzare i contenuti di quell’Opera questa evenienza dell’abbandono dell’opera di Guénon non preoccupa affatto; al contrario, la considera una vera fortuna. Questo perchè, l’autentico iniziato che ha le giuste qualificazioni ed ha compreso il senso “sacrale” degli insegnamenti metafisici, è ben consapevole che quegli insegnamenti di Guénon mirano, come tutti quelli autenticamente esoterici e metafisici in senso completo, non all’apprendimento di “un pensiero” o di una “filosofia” giusta o sbagliata che sia ma alla “Liberazione” (senza ovviamente mettere in poco conto la semplice “salvezza”) dell’essere dalle condizioni limitative dello stato in cui si trova attualmente manifestato e che, nel caso dello stato umano, lo fanno appunto apparire un “individuo umano”. Liberazione dalla condizione umana, prima, e poi da tutte le condizioni della manifestazione, individuale e universale, che mantengono nell’essere manifestato (sia esso animale, jin, uomo, angelo, arcangelo ma anche per colui che fosse addirittura già “centrato nell’Essere”), l’apparenza separativa dalla Realtà Unica, infinita, incondizionata e permanente. Sbarazzarsi di una zavorra che non farebbe altro che creare ed alimentare confusioni micidiali in un ambito iniziatico è quanto di più augurabile possa avvenire. Scoraggiare i “profani” di qualunque natura e livello è stato sempre lo scopo di ogni autentico esoterismo, per il loro stesso bene oltre che per il bene dell’ambito nel quale opera la realtà iniziatica. La via iniziatica è quanto di meno proselitistico possa concepirsi e se alcune “Vie iniziatiche” esteriorizzate oggi hanno dovuto adattarsi ed aprirsi non è che un “segno dei tempi” e forse anche una necessità che non è disgiunta da una funzione di Misericordia e di provvidenzialità che non fa che confermare il grado di riduzione umana. L’ulteriore espressione secondo alcuni avrebbero ritenuto che l’opera di Guénon da sola non sarebbe in grado di sceverare tutti gli aspetti dell’opera ibnarabiana e più generalmente islamica è poi veramente stupefacente ma nuovamente significativa. Quando mai l’Opera di Guénon avrebbe avuto lo scopo di sceverare tutti gli aspetti dell’Opera di Ibn Arabi! Forse l’articolista si è lasciato sfuggire quel che intimamente pensa e cioè che lo scopo sia in fondo assimilare al massimo l’opera o il pensiero o il linguaggio di un Autore proprio come un “professore”. Il fatto è che Guénon non aveva affatto lo scopo di sviscerare l’Opera di Ibn Arabi ne’ quella di nessun altro. Non è ne’ uno studioso ne’ un cattedratico ne’ un “professore”. Egli insegna quello che Conosce e che sa da ben altra provenienza e se capita che faccia riferimenti o occasionalmente collegamenti e riscontri, è per dare evidenza dell’universalità della verità e del fatto che ciò che espone non è una sua creazione, un suo pensiero che, come afferma più volte, come tale non avrebbe alcun valore bensì la trasmissione di un insegnamento unico, primordiale ed universale che è di derivazione intellettiva, cioè, di origine “non umana”. Se poi, sempre quel

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“qualcuno”, in buona o mala fede che sia, ritiene di dover affermare che è inutile fare riferimenti a fonti estranee all’Islam o all’Opera di Ibn Arabi “..perchè nell’Islam c’è tutto..” padronissimo di farlo e di pensarlo; il fatto è però che se è assolutamente vero che nell’Islam c’è tutto è invece in lui stesso che c’è molto poco di quel tutto che è nell’Islam e il lavoro di approfondimento interiore che arricchisce, non già l’Islam, ma la capacità di comprensione sia dell’Islam che di ogni altra forma o simbolo, dovendosi realizzare nell’essere proprio quell’universalizzazione che consente di “vedere in ogni cosa il Principio”, di “ riconoscere in ogni cosa lo stesso linguaggio dello Spirito”; di realizzare, appunto, “l’uomo vero” che è l’”uomo primordiale” capace di riconoscere tutte le espressioni dello Spirito essendo, proprio “il dono delle lingue” uno de segni della realizzazione dello “stato primordiale” e della centralità dello stato umano. Quello dei personaggi in questione è dunque in fondo soltanto uno scrupolo di natura “confessionale” e di un exoterismo quasi al limite dell’esteriorismo vero e proprio. ed è allora paradossale, quasi un oltraggio alla “Benevolenza Divina” se così ci si può esprimere, non saper riconoscere che è stato un dono sapere e conoscere “di più”, intendendo: avere avuto l’opportunità di verificare per un’esperienza e una conoscenza diretta di altre tradizioni quanto vi sia di pregiudizi e di ignoranza ma anche di interessate falsità, nei confronti di esse ed aver potuto verificare lo stesso insegnamento dietro simboli e veli diversi. Se questo è inutile o superfluo saperlo o conoscerlo forse lo è per quelli che la pensano così e che non hanno esigenza di “accrescere il loro stupore” (semmai lo hanno provato) nella loro mente e nella loro anima, con le evidenze dello Spirito, allorché rivela ed accresce al Cuore e alla mente l’evidenza che, come dice il vangelo, “...soffia dove vuole”.

Se sapere che le cose sono in questo modo; se vedere dietro le apparenze la stessa Luce che splende; se riconoscere non è una conquista ed una “grazia” ma un superfluo diletto o una divagazione, allora è bene che chi la pensa in questo modo continui a pensarlo e si tenga lontano da ogni esoterismo e... dalla metafisica. Infatti: non sapere non è una colpa e sapere non è in fondo necessario alla “salvezza”; basta molto meno anche se l’obbedienza alla Shari’a e l’esecuzione dei riti non è impegno da poco e non è un “molto meno” sul piano dell’impegno; ma, se dopo aver saputo, limitatamente che sia, si afferma che è meglio sapere di meno... questo è veramente inquietante.

Quando poi l’articolista, come annunciato, passa ad esaminare i dati dottrinali, si coglie tutta l’insufficienza di una comprensione “dall’interno”, di quei dati stessi. Non abbiamo alcuna remora nell’affermare che Ibn Arabi, l’esplicatore per eccellenza della dottrina metafisica nell’Islam, debba a sua volta essere “esplicato” per poter essere correttamente capito e soprattutto per cogliere il messaggio più profondo.

Non abbiamo incertezze nel rilevare che la lettura dell’Opera di questo Maestro ha, essa stessa, almeno due “letture”; e non intendiamo che le possieda allo stesso titolo di come le possiede un qualunque altro scritto di carattere esoterico o metafisico. Se intendessimo soltanto quest’ultimo significato dovremmo dire che di “letture” e di significati ogni Testo sacro, ogni commentario esoterico ed ogni

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esposizione di un qualsiasi autentico maestro tradizionale ne ha per sua natura e funzione, non già “due”, ma tantissimi quanti sono i livelli di comprensione e le capacità di penetrazione del lettore. E’ invece già nel significato più esteriore che intendiamo, nel caso di Ibn Arabi, questo doppio livello di lettura senza accedere al quale diventa improduttivo ed impossibile approdare agli altri significati più elevati. Non a caso Al Qashani ed Abd el Kader fanno proprio questo lavoro di chiarificazione su diversi punti dell’Opera di Ibn Arabi senza permettersi alcuna modificazione ma solo rendendo comprensibili alcune espressioni di linguaggio. Orbene, i lettori dell’esteriore, che lo rigettino per incomprensione pura e semplice come “eresia”, come abusiva estensione soggettiva di opinioni filosofiche o come apporti abusivamente presi in prestito da altre tradizioni e dal pensiero di alcuni filosofi classici, oppure che lo accettino nella pura espressione letterale, cioè nella sua “prima lettura” più accessibile ed apparente, si fermano, appunto, alla lettera e, per quanto Ibn Arabi sia il Maestro per eccellenza che disdegna la lettera intesa come “letteralismo” (ed anzi proprio per questo), non è lui stesso suscettibile di essere preso alla lettera neppure quando sembri esporre una dottrina che voglia rendere il più possibile comprensibile ed evidente. Diciamo anzi che non è propriamente questa la sua funzione (come invece è stato possibile nel caso di Guénon) proprio in forza della sua (di Ibn Arabi) funzione “operativa all’interno di una specifica forma tradizionale” mentre l’”operatività” di Guénon non si lega specificatamente ad una forma e resta libera acquistando, proprio per questo, da un lato: “il limite” che non gli consente di essere considerato come uno “Shaikh (Maestro) tariqa” o una guida di una specifica Via iniziatica, qualunque essa sia; dall’altro lato, l’”assenza di limite” o “maggior libertà”, che gli permette di spaziare dottrinalmente ed intellettivamente, in tutte le forme e, occasionalmente, di operare, agire e vivere, in una qualsiasi di esse. Una funzione ne’ inferiore ne’ superiore, dunque, ma diversa. Una funzione che rientra in quella condizione che lo stesso Islam definisce “la Via degli Afrad”, dei “Solitari” che non sono soggetti ne’ necessariamente conosciuto al Polo dell’epoca ed il cui “Sovrano” non è uno specifico Profeta ma il Khidr che, come insegna una Sura del Corano, è indipendente e persino “incomprensibile” agli stessi Profeti.30 E’ dunque questa funzione di “Maestro dei Maestri” ma all’interno dell’Islam (anche se ben consapevole dell’universalità della Verità e persino della necessità a volte di conoscerne aspetti apparentemente esterni all’Islam come più volte egli stesso

30 E’ ovviamente un’”incomprensione” non per “ignoranza” ma di “funzione” nel senso che il

Khidr sfugge alla giurisdizione di un qualsivoglia Profeta, traendo la Sua Scienza e la Sua funzione, “direttamente da Dio” come si esprimono i Testi. Altrettanto ovvio che, allorchè i “Solitari” vivono all’interno di una determinata forma tradizionale e contesto sociale sono comunque tenuti ad assumere tutti gli obblighi rituali e di Legge sacra, inerenti a quella Via e ciò proprio in forza della loro funzione “esemplare” anche ove non ufficializzata in una precisa veste o incarico; ma anche in forza del fatto che, per loro, l’adesione alla Legge sacra non è che la naturale esternazione della loro stessa natura e del loro elevato grado di purificazione e di Conoscenza non potendo essere per loro essere possibile una trasgressione reale quali che possano essere le apparenze. Su ciò, significativa la Sura coranica che tratta dell’incontro di Mosè con il Khidr nella Sura della Roccia.

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afferma) che impone ad Ibn Arabi, passaggi continui dalle vette metafisiche più ardite alla ridiscesa verso l’immagine devozionale che sembrerebbe a volte ricondurre nuovamente ad un dualismo, senza che, ovviamente, questo mai avvenga realmente.31

Questa necessità appartiene a tutti i Maestri di tutte le tradizioni anche quelle che adottano il linguaggio più apertamente metafisico ed infatti, nell’Induismo è lo stesso Maestro che dedica centinaia di pagine alla dottrina della “non dualità” e che ripete incessantemente... “Tu sei Quello”, cioè Shankaracharya, ad impegnarsi in altri scritti con iniziali sublimi lodi “al Signore” nella Sua veste di Shiva o in altre occasioni, nella sua veste di “Visnù”, cioè sotto una Funzione o sotto l’altra (di Creatore, di Formatore-Sostenitore o di Annientatore-Trasformatore), sotto un “Attributo” o l’altro, invocandone l’aiuto, l’assistenza, l’illuminazione, la compassione e persino il perdono. La stessa identica cosa avviene in Ibn Arabi e negli altri Maestri nell’Islam o, nel Taoismo, in Lao Tze e negli altri autentici grandi Maestri.32

In definitiva, dal punto di vista dottrinale, i principi fondamentali della metafisica e dell’insegnamento esoterico universale si riassumono in pochi dati mentre tutto il resto non è che un contorno il cui scopo è quello di insistere sul fatto che non si tratta di una filosofia di questo o quell’autore ma del contenuto universale ed intimo di tutti i Messaggi spirituali autentici e di tutti i Testi sacri. La stragrande maggioranza delle pagine dei Maestri tradizionali soprattutto dell’Islam ma anche nell’Induismo questo scrupolo è considerato d’obbligo, è costituito proprio da questo lavoro di “riscontro”, di “dimostrazione”, di “accostamento”, di “verifica”, di

31 Beninteso, i riferimenti universalistizi non significano che l’Islam debba essere integrato,

completato, capito o spiegato alla luce di elementi esterni ed estranei ad esso; bensì, valgono soltanto perché, colui che percorre la Via volendo pervenire alla Conoscenza, al Vertice, possa disporre di tutti gli elementi che possano facilitargli la comprensione più profonda della sua stessa Via; nel caso: dell’Islam. E’ dunque evidente che, il limite non è mai dell’una o dell’altra forma tradizionale ma sempre e soltanto degli individui e sono loro che hanno bisogno di supporti. Supporti da trovare ovviamente innanzi tutto all’interno della propria forma ma anche all’esterno, se utile e necessario e non si riveli solo fonte di alibi, di confusione e di sincretismo (che è l’opposto della sintesi); ma ciò, proprio al solo fine di riscoprirli nella propria Via e di ricondurli a ciò che, in essa, non aveva saputo penetrare e riconoscere. Solo allora scoprirà il senso ed il significato più pieno dell’espressione dei Sapienti.. che “tutto è Islam” e “..nell’Islam c’è tutto”. 32 E’ Ibn Arabi, rigoroso Maestro e scrupoloso osservante della Shari’a che rivolge invocazioni e suppliche ad Allah, quello stesso che afferma: “Giuro per Dio che non vi è altro che Allah, poichè da Lui e “..verso di Lui l’Affare tutto intero ritorna” (Cor. II,123). L’Islam letterale così come il Corano nella Sua prima lettura esteriore, non è prodigo di espressioni metafisiche pur essendovene centinaia di velate; ma se ce n’è una che da sola impone la sintesi di tutto quanto la dottrina metafisica espone, è la frase coranica: “Da Allah veniamo e a Lui saremo fatti ritornare”. Questa è una sintesi che non ammette equivoco e rappresenta da sola la chiave di apertutra di tutto. E se qualcuno volesse ridimensionare in termini minori l’espressione nel senso che si è venuti perchè “creati” e si torna per il giudizio, varrà osservare che, la radice più profnda di quel “ritorno” in arabo designa un’intimità che impone la più elevata interpretazione perchè esprime come “un tornare a casa”... alla propria casa.

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“accordo scritturale”, di “conferma” e di riconduzione di tutte le immagini usate nel Testo sacro ai principi fondamentali e sintetici della pura dottrina metafisica. E quanto alla pura dottrina metafisica, al di la delle espressioni utilizzate, delle immagini provvisorie, dei concetti più o meno sintetici, più o meno adeguati e capaci di suggerire ciò che altrimenti sarebbe inesprimibile, si riassumono in pochi enunciati sui quali c’è poco da girare intorno e da divergere.33

E’ la dottrina pura che Guénon aveva intenzione e funzione di trasmettere non la forma espressiva di questa o quella tradizione specifica della quale doveva preoccuparsi scrupolosamente di dover trovare un accordo con essa sol perché si trovava a vivere e ad agire nell’area geografica propria di quella forma tradizionale. Se un accordo doveva venire dimostrato era, semmai, con tutte le forme tradizionali data la sua funzione universale ed il momento cosmico ma non necessariamente con una in particolare o con un linguaggio peculiare di una forma specifica.

33 E’ ovviamente inevitabile che, anche la più adeguata traduzione in concetti della dottrina

metafisica o dell’esoterismo che pur riescano a rivelare e ad evidenziare il significato superiore e profondo contenuto oltre il simbolo, l’espressione e le immagini usate dai Testi sacri, sia essa stessa un’immagine. Certamente un’immagine più intellettuale, più elevata, più profonda e in definitiva più soddisfacente dal punto di vista dell’intelligenza e della logica ma pur sempre un’immagine come tale limitata essa stessa. Questo perché è lo stesso linguaggio umano ad essere limitato e la stessa mente con il suo prodotto: il pensiero, ad essere formale, cioè, a doversi tradurre in concetti che altro non sono che “immagini”. Però vi sono livelli di “immagine” ben diversi e più o meno condizionati: dall’immagine emotiva carica di sentimentalità, di emozione, di soggettività, di desideri e di illusioni, cui soggiacciono i più e l’immagine più intellettuale possibile che riflette più direttamente l’intuizione dell’Intelletto ed è capace di afferrare e di accettare una Verità anche quando sia sgradita al sentimento.

Una precisazione più volte fatta ma che varrà sempre ripetere: i contenuti profondi presenti nei simboli, nelle espressioni e nelle immagini dei Testi sacri non lo sono in quanto vogliano intenzionalmente celare un insegnamento “diverso” da quello più immediato e letterale o perchè quello più profondo non deve essere conosciuto dalla stragrande maggioranza degli uomini. Non è assolutamente questo il senso dell’esoterismo e tutti gli Autentici Maestri lo ripetono costantemente. Il fatto è che l’insegnamento più profondo che è contenuto oltre le immagini ed il significato più evidente (che generalmente è quello morale) è ciò che gli uomini comuni non possono comprendere nella sua purezza intellettuale per difetto di intelletto o lo equivocherebbero; però tutti gli uomini debbono partecipare almeno del minimo, di ciò che è immediatamente evidente e comprensibile a tutti, cioè, almeno “la lettera” se non “lo spirito”. Dice Gesù nel Vangelo: “parlo in parabole perchè quelli che sono fuori udendo non comprendano...”. Che cosa? Ovviamente, “il senso profondo” che farebbe scandalo o resterebbe incomprensibile. Ma se qualche dubbio dovesse rimanere intorno al senso vero di quelle parole varrà allora riportare l’altra frase del Vangelo che, detta da Gesù, il Campione dell’Amore, è ben significativa: “Non date le perle ai porci e le cose sante ai cani affinchè questi dopo averle profanate non vi si scaglino addosso e vi sbranino”. Anche Dante, trattando dei molteplici significati dei Testi sacri precisa che in essi sono contenuti più significati, esattamente quattro sensi, via, via, più profondi: poetico, politico e sociale, filosofico (filosofico-teologico) che richiedono un passaggio analogico per giungere al quarto senso che non può essere che “..iniziatico e metafisico nella sua essenza”, come afferma Guénon. Avverte Dante in apertura della sua Opera “La Vita nova”: “O voi che avete gli intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde dietro il velame de li versi strani”.

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Questi principi cardine si riassumono, in fondo, in pochi concetti: Il primo è più fondamentale è che “la Realtà è Una ed Unica” ed anche quando si è compreso dottrinalmente che la manifestazione è l’irraggiamento di quella Realtà Unica che si gradua e dispiega in molteplici stati, questa stessa evidenza cui tuttavia si accompagnano le inevitabili identificazioni con lo stato nel quale l’essere contingente si trova collocato, è una realtà provvisoria, un’apparenza essa stessa che costituisce ancora una serie di Veli. Un’apparenza che tuttavia non è un’illusione ma una “minor grado di realtà” come gli indefiniti punti situati nel “raggio” che perviene dal sole, sono soltanto “virtualità” dell’unico raggio.34 Gli indefiniti stati e modalità nei quali la Realtà Unica “appare” consentendo alle indefinite possibilità di manifestazione e agli esseri che appartengono a questi stati di avere esistenza, se sono un’illusione quando si voglia considerarli reali in sé stessi, non sono tuttavia affatto un’irrealtà al loro proprio grado. Si dice che uno stato è illusorico quando si vuole dargli una realtà sua propria, autonoma ed autosufficiente ma sarebbe più corretto dire, in questo caso, che è la falsa conoscenza che avanza questa pretesa ad essere un’illusione, un’ignoranza... ed allora, può dirsi che quello stato o grado della realtà è in verità soltanto “apparente” ed illosoria; ma anche qui, è più esatto dire che è in verità la deduzione, la falsa impressione che suscita l’attaccamento a questo infimo grado di realtà che suggerisce l’illusione e l’apparenza di una realtà stabile, assoluta e permanente; autonoma ed autosufficiente; comunque “causa e ragion sufficiente di sé stessa”, che può definirsi ignoranza ed illusione. Un’apparenza peraltro persino contraria ad un corretto modo di osservare le cose che pur non sia ancora un’evidenza superiore se si considera che tutto nella realtà corporea dimostra la caducità, la contingenza, la relatività e l’insufficienza di ciò che esiste. La Realtà è Una ed Unica mentre i molteplici modi di apparire della realtà manifestata sono in relazione ali esseri condizionati che si manifestano, si

34 E’ evidente che da questa sintetica immagine che “illustra” un principio metafisico

fondamentale e lo rende immediato possono essere fare scaturire moltissime derivazioni e deduzioni ma anche conseguenze che tuttavia non saranno mai una diversa dottrina ne’, tanto meno, dottrine l’una diversa dall’altra finché il principio ed il relativo concetto espresso restano il presupposto di base. Così potrà dirsi che il “Raggio” e i suoi “punti” simboleggiano le indefinite “possibilità di manifestazione” oppure “Le Qualità divine manifestabili” o i loro riflessi più immediati. E potrà anche precisarsi che lo stesso “raggio” in realtà non “esce” affatto dal Sole bensì “illumina” o “incendia” le potenzialità dell’ambiente stesso che si genera, del resto in modo “coestensivo”, nel momento stesso in cui un “punto” del raggio viene considerato; sicchè potrà estendersi il concetto sintetico fondamentale iniziale fino a considerare che cosa sia la virtualità dell’espansione di un determinato “punto” rispetto a punto “stesso” o al “raggio” complessivamente considerato e farne derivare altri concetti dottrinali ed altre conseguenze più profonde e complete ma non tratterà mai di qualcosa di “diverso” dall’enunciazione principale. I “professori” scambiano invece i supporti della meditazione e la meditazione stessa per ulteriori prolungamenti del pensiero o addirittura per “punti di vista” diversi “sulla dottrina” e non già “della stessa dottrina” vale a dire, angoli di osservazione complementari e mai opposti, della stessa Verità. In fondo partecipano in questo, e non potrebbe essere altrimenti, della stesso limite della prospettiva “profana” propria dei moderni ma anche degli ignoranti, nel significato metafisico del termini, di ogni civiltà dal momento in cui si rese necessaria la distinzione tra “esoterismo” ed “exoterismo”.

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identificano e realizzano quegli stati. Usando un’espressione, anch’essa provvisoria come del resto tutte le altre ma mirata a suggerire, può dirsi anche che è il modo “grossolano”, “sottile”, “angelico” ecc. a far apparire la Realtà Unica in quelle apparenze, cioè, “materiale”, “animica”, “angelica”. Il modo di vedere “copre” o “scopre” una data modalità o un dato stato o grado della Realtà Unica che permane immutabile ed infinita dietro la molteplicità dei veli dell’apparenza che aspettano di essere tolti (tajalli) in virtù della Vera Visione e della Vera Conoscenza. Nel linguaggio coranico ed islamico, questo insegnamento è celato ma del resto anche Rivelato, nell’espressione che Allah usa nel Corano: “Io sono come il mio servitore mi vede”.35 Quei “modi di vedere” sono ovviamente in perfetta relazione con la condizione degli esseri che si manifestano in quello stato e non si tratta certo di atteggiamenti o attitudini soggettive. La realtà quale appare agli uomini è ovviamente il “modo umano” di conoscere la Realtà anche se, nell’uomo, è presente virtuamente, quell’elemento trascendente costituito dall’Intelletto (identificato anche allo Spirito

35 Ecco un altro dei significati duplici (anzi molteplici) del termine Rivelazione che, nella

radice latina e derivati ha il duplice senso di “svelare” e “velare nuovamente”, cioè, svelare e velare ad un tempo. Una Rivelazione, infatti, “svela” ed il suo compito è proprio questo; ma per fare ciò deve usare il linguaggio più accessibile e semplice, comprensibile a tutti ma, ad un tempo, proprio perchè deve fare ciò non può per ciò stesso che velare (certo non intenzionalmente ma come effetto della scelta necessaria del linguaggio) anche i significati più elevati che attendono di essere penetrati a gradi soltanto da chi poi percorre effettivamente la Via spirituale indicata dal testo sacro. Soltanto per questi la Rivelazione è allora continua fonte di tajalli, di sempre più elevati svelamenti ed è vera Rivelazione; per gli altri resta sempre uno svelamento che è anche un velamento.

In fondo una Rivelazione è, tra gli altri aspetti normativi, morali, ecc, uno svelamento di principi, conoscenze e verità profonde di ordine metafisico rese in un rivestimento formale ma, per un paradosso apparente, lo “svelamento” operato nella Rivelazione, presuppone poi a sua volta un altro svelamento che è quello di dover liberare dalla “forma” e dal rivestimento, onde pervenire all’essenziale. In altre parole: se gli uomini in generale hanno bisogno prima di una “traduzione riduttiva” (in termini di semplificazione, di sentimento e di emozione), di certe verità e principi metafisici, senza la quale, la stessa concezione del Principio, dell’infinito e dell’eternità oltre la realtà transitoria che lo circonda e caratterizza, rimarrebbe interdetta alla stragrande maggioranza degli uomini, a colui che aspira al contenuto reale della Rivelazione, allo “svelamento” e dunque a ciò che è l’essenziale sovra-formale della Rivelazione stessa, è invece fatto onere di tornare allo Spirito dietro la lettera della Rivelazione; sicchè, per lui, diventa questa la Vera Rivelazione. Se il primo aspetto più esteriore della Rivelazione è una “discesa” della Verità al livello umano più comune, quest’ultimo è invece un passaggio, una “ri-salita” verso gli aspetti via, via, meno formali della Realtà Divina. Quando alla mente comune si parla di un ordine di realtà sovra-formale ed universale diventa necessario rivestire i concetti di contenuti formali, di immagini, di sentimenti e di contenuti emozionali, cioè di una forma espressiva idonea ai più; ed anche di una “Volontà” che esprime una Legge oltre che di una serie di Attributi autoreferenti che avvicinino gli uomini a ciò che altrimenti non riuscirebbero a vedere e a concepire. Questo è il senso di una Rivelazione generale che entra nel mondo da un certo momento in poi mentre nell’età primordiale fino alla fine almeno dell’età dell’argento (la seconda età del ciclo) era questione di “Rivelazioni personali e particolari”.

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ed infine al Sé) che gli può consentire la comunicazione cosciente con gli stati superiori dell’essere ed il passaggio a modalità superiori di conoscenza della Realtà Unica.36

La conclusione di questo principio dottrinale fondamentale è che “Reale” nel significato proprio del termine è soltanto il “Principio Primo”, che proprio per distinguerlo da tutti gli altri principi che sostituiscono la catena delle “Cause” seconde e successive, è detto “Supremo”, “Causa Prima”. Tale grado incondizionato di Realtà non può essere altro che la Realtà eterna immutabile e permanete.

A questo grado supremo della Realtà non si applica più, “a rigore”, neppure il termine “eterno” che appartiene più propriamente al grado dell’Essere puro. Alla realtà suprema ed incondizionata si applica coerentemente soltanto il termine “Permanenza” o “Permanente” (Baqa).

Per un riassunto schematico dei termini ricordiamo che la “perennità” o “perpetuità” è un’”indefinità temporale” con tutte le condizioni ed i limiti propri di uno stato di manifestazione mentre l’Eternità è una Qualità, uno stato senza condizioni e limiti esistenziali (cioè di nessun grado e stato della manifestazione individuale o universale che sia) ed infine la Permanenza è lo stato senza condizioni

36 Diversamente non ci sarebbe alcuna possibilità di sfuggire alla condizione di limite e di apparenza che caratterizza questo o quello stato o grado di esistenza e di passare da un ordine di realtà all’altro o di pervenire (o tornare secondo altre espressioni) addirittura al Principio. In realtà, rigorosamente parlando in senso metafisico, non si tratta ne’ di un “pervenire” ne’ di un “tornare” giacchè mai nulla può uscire o entrare o rientrare in una Realtà Superiore dalla quale si fosse stati prima separati. Si tratta invece di un “risveglio” che attualizza ciò che è già “da sempre e per sempre”; di una presa di consapevolezza nel significato più elevato del termine; un “Conoscere” o un “Riconoscere” ciò che già è. Lo stesso ammonimento coranico per il quale l’uomo “...non è riconoscente al Suo Signore” evidenzia, nel più profondo significato, questo mancato Ri-conoscimento “del Signore” che contraddice del resto (giacchè “il problema dell’uomo è che dimentica...” , dice ancora il Corano), il riconoscimento che l’uomo ha reso prima della nascita allorchè, ancora secondo il Corano, Allah ha chiesto agli uomini:... “non sono forse io il Vostro Signore” ed essi hanno testimoniato: “Si”) E’ esattamente questo il significato delle espressioni che, in un crescendo di arditezza intellettuale, Maestri come Al Balyani, Abdel Kadir, ecc. usano allorchè superano una per una tutte le posizioni degli “immanentisti”, degli “emanazionisti”, degli “unionisti”, degli “estinzionisti”, ecc. ecc. Non c’è alcuna “Unione” o “Riunione”; alcuna “Entrata” o “uscita”, alcun “ritorno”; infine, alcuna “realizzazione”, alcuna “ascesa”, visto che la “Realtà è Una ed Unica”, immutabile e permanente. Ecco come, in un’apparenza di negazione di tutto quello che nel linguaggio esoterico ed iniziatico, viene definito come “Realizzazione”, “Ritorno ad Allah”, “Unione”, “estinzione”, c’è l’affermazione più alta, più metafisicamente ardita, più intellettuale e più coerente di quello che è la “Dottrina dell’Unità” e della “Non Dualità”. Ciò non di meno, rivolgendosi all’essere che deve conoscere ed ancora partire nella Via, è ovvio che certe espressioni per provvisorie che siano nella più coerente metafisica, sono necessarie proprio per sapere ciò di cui si parla, ciò che deve essere conosciuto e raggiunto e ciò che costituisce il proprio stesso punto di partenza. Però, fare di queste diverse prospettive di linguaggio che sono anche “tecniche” di meditazione, differenti “pensieri” di questo o quel Maestro... è veramente inquietante, specie se questo viene compiuto da chi ha comunque avuto qualche nozione corretta delle Opere di certi Maestri e dell’Opera di Guénon.

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di sorta, senza inizio ne’ fine, senza relazione alcuna ed in Sé stesso, immutabile e perfetto. Se si deve continuare a definire tale Realtà con termini come “stato”, “grado” cui si accompagnano termini come “incondizionato”, “supremo” e così via ciò non deve far pensare che si tratta di “uno stato” tra altri sia pure considerato come il più elevato ma l’Unico mentre ogni altro grado è un’apparenza, un velo, un rivestimento di quest’Unica Realtà che, sola, è la Realtà nella quale ogni cosa è essenzialmente “contenuta” (o “posseduta” come meglio si possa suggerire) come possibilità dell’Unica, infinita Realtà.

Abbiamo visto quello che abbiamo considerato il primo, fondamentale dato della Conoscenza metafisica sicché possiamo ora considerarne un altro che è in diretta relazione e conseguenza del primo; si tratta dell’enunciazione della dottrina della “Non dualità” o “ Identità suprema” seguito dal terzo dato dottrinale che è il complemento degli altri due, cioè: la consapevolezza che lo scopo ultimo di ogni essere, quale che sia la difficoltà, gli arresti, le deviazioni e la lunghezza del Viaggio, è la realizzazione di questa Suprema Realtà che è la Liberazione totale dell’essere da ogni condizione prendendo come base uno degli indefiniti stati dell’essere.

Questa è la base e il vertice ad un tempo di ogni metafisica completa; ciò che viene considerato “il Segreto” iniziatico ed esoterico per eccellenza; quasi sempre incomunicabile a parole perché suscettibile di essere equivocato dai profani; suscettibile di suscitare turbamento e scandalo nei semplici e comuni fedeli; insuscettibile, infine, di poter essere veramente compreso e realizzare da chiunque, anche da coloro che, concettualmente e dottrinalmente lo comprendono in modo esatto. Questa è la ragione della prudenza, della delicatezza, della pluralità di concetti-immagini e della progressione con la quale si approssimano a questo concetto i vari Maestri spirituali. Questa è però anche la ragione per la quale questo “segreto” non potrà mai essere profanato in quanto la sua comunicazione concettuale non è altro che l’ombra del vero Segreto che è incomunicabile e inesprimibile.

Anche nelle prospettive che, pur improntate alla Conoscenza metafisica non si spingono sino all’”Identità Suprema” tra l’intera manifestazione ed il Supremo (l’Assoluto) ma si arrestano all’Essere quale principio della manifestazione, la dottrina della “non dualità” pur limitata appunto allo stato dell’Essere è presente come base fondamentale della dottrina. Il simbolismo del Santo Graal e tutta la tradizione ermetica si fondano proprio sulla risposta che l’unico Cavaliere il quale, partito con tanti altri alla ricerca del Graal giunge da solo dinnanzi alla “Sacra Coppa” posto di fronte alla “Domanda” che gli viene posta prima che la Luce scenda su di lui... “Che cosa è il Graal e qual’è il Segreto del Graal?” La risposta realizzatrice che il prescelto, giunto alla meta dopo immani fatiche nelle quale gli altri si sono dispersi o perduti dà, è questa: “Sei Tu Signore e il Cielo e la Terra sono una Cosa Unica”. La dualità transitoria ed apparente tra “Cielo” e “Terra”, “essenza” e “sostanza” che sono i due poli nei quali l’Essere si polarizza in Sè affinché possa avere origine la manifestazione, si risolve nella Conoscenza diretta ed immediata del loro principio

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comune. Il dualismo assoluto appartiene soltanto alla prospettiva exoterica più esteriorista e più estremista.37

37 Quando i Maestri del Tassawwuf, sulle orme di Ibn Arabi e in obbedienza all’Hadith del

Profeta di non meditare sull’Essenza del Principio ma solo sui Suoi Attributi, affermano che l’Essenza (Dhat) dell’Assoluto, dunque l’Assoluto in Sé stesso è inconoscibile questa verità dottrinale non costituisce un limite alla Conoscenza intendendo che non è possibile la Liberazione cioè l’”Identità Suprema” quale realizzazione dello “stato incondizionato”. E’ anche vero che Ibn Arabi non intende soltanto affermare che la Conoscenza dell’Essenza è preclusa alla “ragione” ed al semplice “mentale” il che è fin troppo evidente ma intende che è interdetta anche all’Intelletto e persino all’Essere nella Sua funzione di “creatore” cioè in relazione all’esistenza manifestata. Solo “Allah in Sè stesso” conosce l’Essenza, cioè, “Sé stesso in sé stesso”. Iniziaticamente ed esotericamente, questo vuol dire che da un certo momento in poi dell’approssimazione al Principio, non è più non è più l’essere che “sale” per mezzo dell’azione del suo Intelletto ma infine è come se fosse “attratto” ed “avvicinato” secondo l’espressione “Conoscere Allah attraverso Allah” e “con la Conoscenza di Allah” come del resto suggerisce anche l’immagine coranica di Allah che istruisce Adamo sui “Nomi” che gli angeli non conoscono e che segna la superiorità di Adamo su di loro. Se l’Essenza non può essere ne’ compresa, ne’ meditata, ne’ raggiunta, è perchè non c’è assolutamente nulla da “conoscere” ma unicamente da “esserne avvolti” come in un’Eterna e permanente Beatitudine, Pienezza e Libertà. C’è forse qualcosa da “conoscere” nella condizione incondizionata della “Pienezza assoluta” o qualcosa da dire della Beatitudine libera ed assoluta? Varrà infine riflettere su un punto che è in stretta relazione a queste ultime considerazioni: Ibn Arabi sembrerebbe affermare che la conoscenza dell’Essenza dell’Assoluto è inaccessibile e che la Conoscenza si arresta al livello del “Signore” secondo lo hadith “..chi conosce sé stesso conosce il Suo Signore” ma questo significa che è inconoscibile nel significato di irraggiungibile perchè appartiene all’Abisso insondabile della Divinità? Ma se si chiedesse ad Ibn Arabi se l’essenza dell’uomo stesso è conoscibile, non risponderebbe in fondo la stessa cosa, cioè che è inconoscibile perchè l’essenza è sempre la stessa, Una? Osserva giustamente Toshihiko Izutsu commentando un passo di Affifi sulla dottrina espressa da Ibn Arabi circa l’Essenza... :”Indipendentemente dallo sforzo intrapreso, quantunque profonda sia la propria esperienza di “svelamento”, siamo costretti ad arrestarsi al livello di “Signore”. Questo è il punto limite della cognizione umana. Tuttavia, quest’ultima è in grado di coprire un campo sorprendentemente vasto nel suo sforzo di conoscere l’Assoluto. Poichè, dopotutto, l’Assoluto in quanto manifestato (ovviamente nelle sue possibilità di manifestazione) è, all’ultimo e più estremo grado della sua attività, il mondo in cui viviamo ed ogni parte del Mondo è simbolo della sua radice ontologica, cioè del suo Signore. Inoltre l’uomo costituisce la più perfetta tra tutte le arti che costituiscono il mondo. Se questo essere perviene alla conoscenza del suo proprio Sé, sarà naturalmente in grado di conoscere l’Assoluto al più estremo limite di possibilità, in quanto quest’ultimo manifesta Se stesso nel mondo. Ma l’uomo è realmente in grado di conoscere sé stesso fino questi limiti estremi? Se si prende la frase “conoscere sé stesso” nel senso più rigoroso, la risposta non può essere che negativa, ma se viene intesa in senso ampio, la risposta può essere affermativa. Come dice Ibn Arabi: “tu hai ragione se rispondi affermativamente, tu hai ragione se rispondi negativamente” Izutsu: “Sufismo e Taoismo” pag. 69.

Ecco che può affermarsi che, per paradossale che possa apparire a qualcuno, c’è un aspetto esoterico ed iniziatico nella stessa dottrina anche allorchè essa venga esposta nei suoi dati di base in termini metafisici perchè quei dati dottrinali vanno poi effettivamente realizzati nella Via. E questo tanto più vale quanto più una metafisica debba tenere conto della terminologia “religiosa” alla quale si appoggia.

Varrà osservare che Izutsu, pur rimanendo, almeno all’apparenza, al di fuori di una partecipazione attiva a una precisa forma tradizionale, è uno dei più qualificati e onesti intellettuali che hanno affrontato l’argomento del Tasawwuf e del Taoismo con una competenza e

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“Non dualità” e/o “Identità Suprema” che sono i due termini che esprimono la stessa Conoscenza, l’uno nella tradizione indù, l’altro in quella islamica, significano fondamentalmente che non esistono più realtà, parallele o anche gerarchicamente sovrapposte che vogliano considerarsi, bensì, una Realtà Unica; e che i vari gradi, stati e modalità di Conoscenza di essa non sono che “possibilità”, “veli”, “gradazioni”, “modi di apparire”, ma non illusioni o apparenze nel senso assolutistico che il termine potrebbe evocare, di quella Realtà Unica. Si tratta di “minor gradi di realtà” della Realtà Unica.38 E’ questo del resto il significato metafisico, esoterico, più elevato e coerente, del termine e del concetto stesso di Monoteismo allorché si passi dalla prospettiva exoterica a quella esoterica e coerentemente spirituale. I gradi della Realtà Unica sono indefiniti e vengono rappresentati come “veli” che “attenuano”, “coprono”, “rivestono” di condizioni la Realtà Unica che, in Sé stessa è assolutamente incondizionata, infinita ed illimitata non identificandosi con nessuno dei suoi stati che sono altrettante possibilità di essere.39 Ma quelle condizioni sono viste e subite dagli esseri che sono collocati in quel determinato grado e stato della Realtà non dalla Realtà Pura in Sé Stessa che non è mai manifestabile ne’ soggetta a diminuzione ne’, d’altra parte, ad “aumento” essendo la Pienezza Immutabile.

partecipazione che lascia trasparire una comprensione che sembrerebbe contenere anche una “condivisione” oltre una mera conoscenza di ordine puramente accademico. Se è uno studioso, non possiamo certo farlo rientrare nella categoria dei “professori” dei quali ci siamo con tono di severa censura occupati.

38 Nel Taoismo è detto: “Questo Tao è unico, onnipervadente”; niente senza di Lui e fuori di Lui”, Il Tao è inafferrabile, principio ed essenza di ogni cosa non è nelle cose.

39 Anche i termini “attenuano”, “velano”, “rivestono”, “nascondono”, come tanti altri, non sono altrettante diverse dottrine, come i “professori” potrebbero essere portati a ritenere o essere comunque stimolati a commentarli come se si trattasse di cose diverse; sono invece tutti provvisori e una tradizione o diversi Maestri spirituali potrebbero benissimo preferire ed adottare l’uno anziché l’altro per designare esattamente la stessa cosa. Le formulazioni concettuali e le immagini servono solo a “suggerire”, a far capire meglio, a favorire l’intuizione di ciò che si tratta. Non sono differenze o preferenze dottrinali sulle quali si dividono realmente questa o quella scuola o Maestro. La stessa cosa vale per altri termini come “apparenza” ed “illusione” sui quali indugia maggiormente l’Induismo ma non perchè assuma una diversa prospettiva bensì soltanto perché si mira a far recepire, a coloro che si incamminano nella Via della ricerca e della Conoscenza, che non bisogna farsi ingannare dai “veli” della Realtà che, rispetto al grado assoluto ed incondizionato di quest’ultima, sono rigorosamente un nulla, una vera e propria apparenza e, ostinarsi a ritenere un grado di essa come “la Realtà” o anche soltanto “una realtà” distinta, è una vera illusione ovvero un’ignoranza. Non dovrebbe esserci neppure bisogno di precisare certe cose e di ripeterle così tante volte ma, a quanto pare, non è mai troppo ripetersi; se non per cercare di farlo capire ai “professori” quanto meno per cercare di evitare confusioni nei pochi che sinceramente si avvicinano ad un certo ordine di cose che sono i soli che a noi interessano. Disquisire sui diversi modi formali e concettuali e sulle differenti immagini attraverso le quali una scuola o un Maestro vogliono dare evidenza dei contenuti della Conoscenza metafisica, è soltanto un modo di fare confusione, una speculazione dispersiva, un allontanamento dal fine, un estetismo dialettico o squallido sfoggio di erudizione..

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Da questo presupposto della “Realtà Unica” discende la conseguenza, che è un cardine della “Via iniziatica”, che non esiste una dualità assoluta tra “Essere” ed esistenza; tra Creatore e creatura, tra “Signore” e “servitore”, tra Principio e manifestazione, tra gli esseri ed il Principio e che queste distinzioni sono transitorie, accidentali e provvisorie.40 Non sono “false” o “irreali”, sono una realtà apparente ma al suo grado “reale”; sono una “minor grado di realtà”; una realtà transitoria collegata ad un certo grado della realtà: al grado nel quale l’essere contingente in quel determinato “momento” si sta manifestando.41 Considerato che la “Realtà Unica” della quale ogni cosa: Attributi e irraggiamenti degli Attributi, Essere compreso, non sono che “possibilità” comprese nella “Possibilità Totale” Infinita del Principio Assoluto, che è infinito ma che è anche l’Infinito stesso, è conseguente che “... Non c’è altra realtà se non Allah” e che “L’Unica Realtà è il Brahman Supremo”.42

41 Anche qui l’espressione “attualmente o in un determinato momento” ci è resa obbligata dalla condizione umana e dai limiti del linguaggio ma è “inesatta” e provvisoria perché il tempo è una modalità che appartiene soltanto ad una condizione, cioè, ad uno stato particolare dell’essere, quello individuale nel quale quell’essere si manifesta come uomo. “Attualmente” deve intendersi dunque in riferimento al nostro stato, alla condizione di osservazione e di manifestazione del nostro mondo umano. Nella Realtà Unica” e “Totale” (intendendo quest’ultimo termine non nel significato di una somma di parti ma come integralità) non è questione di “attualmente” o di un prima ed un poi poichè nella Realtà Unica ogni cosa è nell’assoluta simultaneità dell’Eterno Presente. Per avere un’idea di quest’ordine di realtà, richiamiamo a mente l’esempio già riportato nelle pagine di questo studio sul rapporto di “causa” ed “effetto” di un fenomeno fisico dove le due cose sono separate soltanto perchè nel nostro mondo esiste uno “spazio-tempo” che determina e presuppone anche un’azione ma l’effetto non potrebbe prodursi se la “causa” non fosse “possibile” e non trovasse proprio nella “possibilità di essere” la sua realtà. In tal senso “causa ed effetto” nel mondo delle possibilità sono una realtà unica ed indivisibile. Allorchè l’effetto si produce non è distinto dalla causa e la causa non può che portare in sé anche l’effetto” tanto che, nell’Unità, l’una non avrebbe senso senza l’altro.

42 Vorremmo risparmiarci la pena di riferire un esempio della patetica condizione intellettuale cui possono giungere alcuni exoteristi più esterioristi ed ottusi rintracciabili sia nel Cristianesimo che nell’Islam perché qui si tratta di limiti intellettivi e di condizionamenti emozionali che appartengono all’uomo come tale e non di questione di fede o religione; ma poiché non è raro il caso ed è anche espressivo, varrà riferirlo. Abbiamo trovato la stessa reazione e la stessa resistenza in alcuni cristiano ed in altri musulmani quando si sono trovati davanti a quest’espressione indù, cioè, alla frase “L’Unica Realtà è il Brahman Supremo”. Immediata la risentita risposta...: ”No è Allah”; e nel caso di alcuni Cristiani: “No è Gesù-Dio”, quasi a dover difendere “nazionalisticamente” un nome e non una Verità, una Conoscenza ed un concetto di principio. Fastidioso, a quel punto, persino cercare di far capire a certa gente che “Brahman” non è “un dio” che appartiene ad una certa civiltà in concorrenza con altre o “un altro dio” rispetto ad “Allah” ma un termine che appartiene ad un’altra lingua e che designa lo stesso concetto esattamente come, la parola “Dio”, si dice “God” in inglese, “Got” in tedesco”, “Dieu” in francese, Khodà in iraniano, ecc. ecc. Eppure questa è una consapevolezza minima che non presuppone affatto una maturità di carattere universalista o esoterico e di fronte a tanta abissale ignoranza potrà mai farsi il minimo accenno alla metafisica e all’esoterismo con certa gente che non capisce neppure queste cose elementari che non appartengono neppure al più basso grado dell’exoterismo?

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Ma se le cose sono in questo modo, ogni essere non è altro che una manifestazione contingente della Realtà Unica e il fine è il “Ritorno volente o nolente ad Essa”. Il “Ritorno”, “Cosciente” e Conoscente, è la Liberazione da ogni condizione, dai veli dell’apparenza e dell’ignoranza separativa ed identificativa con ogni stato e grado che non sia Quello, che non sia Lui e non è forse vero che, proprio la “dimenticanza” di questa Origine e la causa della condanna dell’uomo a vagare ancora nel limiti delle condizioni esistenziali sempre più anguste?43 Tutti i gradi e gli stati dell’Esistenza e dell’Essere e quelli che sono al di la dell’Essere stesso (anche se per designare tali stati non si può fare a meno che continuare ad usare il termine “essere” non potendo designare in altro modo l’ordine di realtà che è oltre l’Essere, superiore a tale stato) sono dunque possibilità, manifestate alcune e non manifestate altre, manifestabili alcune ma non ancora manifestate e mai manifestabili altre, della medesima Unica Realtà; sono gradi di essa. Espresso con un altri termini e con una differente immagine, può dirsi che sono gradi e stati dell’Essere, Uno ed Unico. Tutta la Realtà, insomma, può essere considerata sia come la totalizzazione della Realtà in un’”Essere Totale” purchè non si limiti questo termine al solo Essere puro cioè alla sola Personalità divina oppure considerata in sé stessa come Possibilità Pura Infinita. La prima rappresentazione della Realtà Totale come realizzata in un Essere totale e perfetto è quella che generalmente viene preferita dall’esoterismo e nell’esposizione della dottrina metafisica delle Tradizioni che hanno come rivestimento exoterico l’immagine del

Eppure, paradosso dei paradossi, (ma poi in fondo non tanto paradossale visto che,

l’esteriorismo estremo può diventare a volte proprio il presupposto di certi epiloghi) certa gente, se è pronta ad ogni forma di aggressione e di ostilità verso il vero esoterismo, resta aperta poi alle più infime contraffazioni di esso e alle lusinghe della “New Age”, dell’occultismo, dello spiritismo, del neo-spiritualismo e del neo-messianismo ufologico o meno che sia, cioè, alle deviazioni e alle contraffazioni dell’autentica Spiritualità tradizionale.

43 Nuovamente: anche qui il termine “cosciente” è provvisorio e sta per “attivo e consapevole” perché la “coscienza” è una modalità prettamente individuale ed umana limitata alla sfera psichica che non si eleva agli stati universali, cioè, superiori dell’essere dove non è questione di “coscienza” ma di Presenza. Usando un’immagine la più appropriata possibile possiamo dire che la “coscienza” è la somma delle esperienze storiche dell’individuo, i ricordi, l’io storico formato dall’ambiente, dal tempo e dalle esperienze e può identificarsi in un certo senso con quello che siamo abituati a chiamare “anima” mentre ciò che è oltre questa coscienza individuale, cioè ciò che viene definito Spirito, è l’”identità profonda”, il “principio d’identità” che fa si che un essere non sia un altro essere ma sia “unico” e che tale permanga lungo tutti gli stati nei quali si “desterà” la sua Conoscenza; in altri termini, lungo gli stati che percorrerà. Un esempio accessibile: quando l’uomo sogna può non ricordare nulla del suo “io” di veglia tanto da non avere continuità di coscienza tra i due stati eppure egli è sempre lo stesso, unico essere con la stessa unica identità profonda che non lo confonde con nessun altro quale che sia il suo grado di “assenza”, di ignoranza o di lontananza dal “risveglio spirituale” e dalla Liberazione.

Per completezza: anche la “coscienza storica”, formata dall’accumulo delle esperienze che nell’essere si accumulano e si sovrappongono alla “presenza” e all’identità tanto da dare l’apparenza di identificarvisi totalmente, è possibile proprio in virtù del “principio di identità” profonda di cui la coscienza storica non è in fondo che un riflesso limitato ed ingannevole.

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Dio Personale (che ovviamente non ha nulla a che vedere con la limitazione antropomorfa ed individualizzata della divinità propria degli esterioristi o degli esoteristi più estremi al limite dell’esteriorismo e dell’eterodossia mentre la seconda richiama di più l’attenzione sulla Realtà Suprema come Fine da realizzare.44

Ovviamente entrambi le prospettive sono non solo legittime ma Vere. La Realtà Personale e quella Sovrapersonale, sono sia stati, possibilità, che Realtà realizzata da “esseri” ma in una modalità tale che “la molteplicità e risolta in Unità” e questo è un altro principio fondamentale della dottrina metafisica. Nell’Essere, tutti gli esseri che hanno realizzato quello stato sono “Uno” secondo l’espressione usata dai Maestri di tutte le forme tradizionali “fusi ma non confusi”. L’attrazione, la realizzazione dell’Unità nell’Unità, cancella le individualità e qualunque altro genere di distinzione o di qualità separativa. Per questo, tra altro, nei Testi sacri “Dio” si “nomina” e si definisce ora con il termine “Io”, ora con il termine “Noi”, ora con il termine “Lui”.

44 Anche qui tutta la speculazione akbariana sulla “trascendenza” e l’Immanenza” che

conduce alla conclusione per la quale il Principio non è ne’ “assolutamente trascendente” ne’ “assolutamente immanente” nel senso di “esclusivamente” l’uno o l’altro, non ha altro scopo che di rendere evidente mediante uno svelamento progressivo che segue ad una meditazione profonda e ad una penetrazione “dalla mente al Cuore”, “ dal concetto all’evidenza”, che il Principio è immanente in alcuni suoi stati e trascendente in altri il che vuol dire che vi sono possibilità di manifestazione e possibilità di non manifestazione. Tuttavia il termine trascendenza implica anche altri significati; infatti, uno stato pur potendo essere uno stato di manifestazione, è trascendente rispetto ad uno stato che gli è sottostante come è il caso degli stati universali rispetto alla realtà umana mentre è manifestato al suo proprio grado di esistenza mentre soltanto l’Essere puro può considerarsi completamente trascendente (il che vuol dire che non soggiace a nessuno dei limiti degli stati manifestati ma ne è il Principio che li pone). Tuttavia, poichè la Realtà è “Una ed Unica”; e poichè ogni stato e grado è una possibilità, un’”automanifestazione”, l’effetto di un Attributo o dell’altro, dell’Assoluto, come si esprime Ibn Arabi, e poichè nessuna realtà può considerarsi al di fuori dell’Assoluto nella sua infinità, è evidente che anche ciò che si manifesta, ciò che appare, non è altro che un “rivestimento” dell’Assoluto stesso, non in Sé stesso che non può mai limitarsi ma in una delle sue indefinite possibilità di manifestazione.

Questa Verità metafisica può essere espressa con l’immagine tratta dalla tradizione indù secondo la quale Maya, l’esistenza, i mondi e tutte le possibilità di manifestazione che coprono e velano l’essenza del Sé, non è altro che l’”Arte” del Principio, dell’Artista Supremo o con l’immagine dei Nomi e degli Attributi Divini propria alla tradizione islamica.

Questo dato della Conoscenza metafisica può esporsi in svariati modi e sotto differenti immagini ma queste formule espressive non sono mai differenti “pensieri” o differenti filosofie ma soltanto differenti supporti di meditazione offerti alla mente ed al Cuore del Viandante che percorre la Via. Solo i “professori” sbrodano e sguazzano “felici”, nelle differenti forme espressive, riportando alla dispersione ciò che appartiene all’Unità.

Ecco dunque che le speculazioni dei vari Maestri, nel caso: di Ibn Arabi, intorno alla “trascendenza” e all’”immanenza” su cui si sofferma soprattutto nel libro “Fusus al hikam” oltre che a rivelare questo dato fondamentale della dottrina metafisica, vogliono indicare la giusta attitudine da assumere rispetto alla dottrina metafisica e all’esoterismo in genere (ma anche all’exoterismo) ma anche evitare che si rimanga imprigionati in un errore cui conduce la prospettiva di un exoterismo, infine, etremisticamente esteriorista, di un “dualismo assoluto” e di una “separatività” tra Principio e manifestazione, irriducibile.

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Il “Noi” plurale majestatis, equivale a “Ben Heloim” della Bibbia ove è detto che, come prima cosa “Ben Helohim creò il Cielo e la Terra”. In ebraico “Ben Helohim” significa per estensione, tra altro: “Lui, gli dei” o “Noi, le Potenze celesti in Dio”.45

Quando si parla di “Personalità Divina” riferendosi all’Essere, nella mente dei più, quest’espressione evoca in realtà l’”individualità”; e poichè essendo in questione Dio comunque inteso, è d’obbligo non limitare questa attribuzione all’individualità umana con tutti i suoi limiti e condizioni, per l’exoterista diventa conseguenza inevitabile dover immaginare quest’individualità, quando appunto la riferisca, più o meno inconsapevolmente ed automaticamente, all’Essere, una sorta di “super-individualità” dove vengono semplicemente ampliate a dismisura le facoltà umane sicchè, l’Essere (Dio), in quella prospettiva, diventa una sorta di “superman” con l’aggiunta di lodi e attributi super-morali. E’ evidente che anche la teologia più vincolata allo stretto exoterismo non può accettare questa semplificazione grossolana ne’ qualunque forma antropomorfa del divino che pur, alcune sette adottano tenacemente. E’ pur vero che i Testi sacri riferendosi a Dio, usano espressioni come “le mani di Dio”, “Dio ode e vede”; “Gli occhi di Dio” e via dicendo ed anche nel Corano è Dio stesso ad attribuirsi queste espressioni e queste facoltà allorchè dice che “Lui vede ciò che voi fate” e “li afferrerà per il ciuffo ribelle” ma non ci sarebbe neppure bisogno di precisare che si tratta di espressioni necessarie per rendere comprensibile il modo di agire, di conoscere e di fare giustizia di Dio ma è evidente che il “vedere” di Dio, come quello degli esseri che non hanno occhi corporei in quanto presenti in condizioni di esistenza (o di “oltre esistenza” come l’Essere) dove queste condizioni e modalità non sono presenti e tanto meno lo è la modalità corporea.

E tuttavia potremmo persino dire anche qualche cosa in più: quelle espressioni, pur grossolane, non sono soltanto simbolo o auto-attribuzioni da parte di Dio di limiti come udire, parlare, vedere, afferrare; e non sono neppure soltanto una referenza legittimata dal fatto che il più contiene il meno senza avere i limiti e le condizioni del meno ma, per quanto possa sembrare strano che si sia proprio noi ad affermarlo,

45 Non si tratta ovviamente del pianeta “terra” che viene considerata creata insieme a tutti gli

astri, il sesto giorno, mentre questa “Terra” di cui qui si parla, creato il primo giorno, “era una massa informe e vuota” come precisa la Bibbia. Si tratta invece della prima “polarizzazione” che l’Essere “ordina” in Sé stesso in “essenza” e “sostanza” su cui si esercita il “comando” (l’amr, il fiat lux) senza che realmente nulla si separi, si divida o si modifichi dell’Unità immodificabile ed inalterabile. Dall’unione dei due complementari (che solo apparentemente possono considerarsi opposti) ha origine tutta la manifestazione con tutti i suoi gradi, stati ed esseri all’interno di questi. La manifestazione tutta sia nei suoi stati individuali che universali, è caratterizzata pertanto da questa “dualità” fondamentale derivata da questa “diade” che non caratterizza ovviamente due esseri ma semplicemente due principi complementari allo stato puro di possibilità e che, in sé stessi, non sono mai manifestati ne’ manifestabili giacchè ogni stato e grado della manifestazione è già il prodotto, l’effetto della combinazione di queste due qualità, l’essenza e la sostanza, il principio essenziale (che è “formatore” soltanto da un certo grado in poi dell’esistenza cioè dove vige la forma come condizione formatore

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esiste anche una corrispondenza effettiva con gli stessi organi corporei ma per una ragione diversa da quella comprensibile alla prospettiva exoterica o degli esterioristi. Questa corrispondenza è infatti in relazione al principio secondo il quale, come ripete più volte Ibn Arabi, ogni stato e grado dell’esistenza ed ogni essere manifestato in quegli stati, è un’automanifestazione dell’Assoluto il quale “realizza”, ovvero manifesta in tal modo, i suoi stati di manifestazione che, nella sua infinità, pur gli appartengono come gli appartengono quelli di non manifestazione e lo stato incondizionato. In questo senso, usando ovviamente un’espressione figurata, l’Assoluto “conosce” il relativo, essendo “in sovrappiù” anche il relativo stesso; e lo conosce nel modo più perfetto e diretto essendo, appunto, anche quello nel modo reale e non già contemplandolo dall’alto di una realtà distinta, duale e più elevata. Questa verità, come rileva Ibn Arabi, è contenuta e celata ad un tempo in quei versetti coranici o in quegli hadith che così esprimono:... “io sono con voi ovunque voi siate”; “io sono la loro mano... il loro piede..”. “Andate, (rivolto a Mosè ed Aronne che si recano da Faraone) con voi io vedo” ecc. ecc. Infine può ben dirsi che, il vedere dell’Essere, non è un nostro vedere amplificato o qualcosa di equivalente ma esattamente il contrario: è il nostro vedere che è un riflesso, una traduzione analogica del Vedere dell’Essere; in sintesi: la luce fisica esiste in quanto esiste la Luce spirituale di cui quella fisica è una traduzione cosmico-simbolica del corrispondente principio metafisico al piano di esistenza considerato; sicchè, quella fisica, deve considerarsi soltanto un’analogia di quella Vera Luce... ma un’analogia reale e non già fondata sulla pura immaginazione o come il prodotto di una poetica emozione.

Le espressioni attestanti la “non dualità” e l’”identità Suprema” che abbiamo

riportate lungo il paragrafo traendole da tutte le forme tradizionali, sono la sintesi di tutta l’”Opera alchemica”, di tutte le Vie iniziatiche, di tutto l’esoterismo e della metafisica ma, se anzichè ricercare e ritrovare nei testi dei vari Maestri, questa comune dottrina e la conferma della sua universalità riconducendo dunque tutte le cose ad unità in un’evidenza illuminante ci si impegna a segnalare le presunte differenze anche al solo dichiarato scopo di volerle dissipare, si svolge un lavoro che ha invece effetto contrario e che disperde anziché concentrare. Il lavoro utile è ribadire sempre la dottrina e confermarla con le parole dei vari Maestri anche quando sembrano all’apparenza divergere nell’espressione e, proprio in quell’occasione, evidenziare che esse esprimono invece esattamente la stessa cosa. E questo è già un lavoro di sintesi iniziatica ce ha un valore operativo. Soltanto allora, proprio quelle apparenti differenze di linguaggio, apriranno orizzonti di illuminazione maggiore, saranno veramente un lavoro iniziatico, un’apertura inattesa ed ulteriore, integrandosi in una sintesi superiore veramente illuminante. Diventa in questo modo chiaro e vero supporto di meditazione tutto quanto l’uno e l’altro Maestro insegnano perchè, come raggi di una ruota che convergono verso l’unico centro, quegli insegnamenti riveleranno l’essenziale. Del resto, quanto alle presunte “differenze” non è forse una cosa naturale e riscontrabile da secoli, ad esempio in India, la coesistenza di ben sette livelli di approfondimento che sono anche metodi di realizzazione oltre che di approccio, al

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Testo sacro del Veda? Metodi che sono noti come “i sette Darshana” (che significa, appunto, Metodi, Vie) considerati tutti legittimi ed ortodossi ma l’ultimo soltanto dei quali tratta di metafisica pura, cioè, il Vedanta. Eppure, anche all’interno di esso le due prospettive più elevate espresse da Shankaracyarya e Ramanjuna presentano un linguaggio e a volte anche prospettive un po’ diverse tanto che, soltanto il primo viene considerato, nell’ottica di una “Via diretta di realizzazione e di Liberazione per mezzo della Conoscenza”, veramente il più completo, coerente all’interpretazione più profonda del Veda ed elevato; ma, in ogni caso, nessuno osa dubitare che Ramanjuna non abbia conseguito stati di realizzazione universali e non comprenda che cosa sia la Vera Liberazione. Soprattutto: le apparenti disquisizioni che nell’ambito di una scuola o dell’altra (“scuole” ovviamente nel senso iniziatico e non di istruzione profana) non sono mai “diatribe”, “critiche, conflitti (qualcosa questa che appartiene solo all’exoterismo) ma vere e proprie “tecniche” di concentrazione, occasioni di meditazione, di “picchettatura” sul mentale affinché si aprano i canali di comunicazione con l’Intelletto che solo può conoscere in modo diretto, immediato e sintetico l’ordine di Realtà universale. Ed allora, che senso hanno tutte le disquisizioni sulle differenze Distinzioni tra “ad intra” o “ad extra”, tra “Intelletto” e “Principio”; “Esistenza ed Essere”, ecc. fatte sulla base delle diverse etimologie delle parole usate o su inesistenti differenze dottrinali e/o presunte essenziali tra questo o quel Maestro, di fronte al vertice della Dottrina pura quando il vertice di ogni conoscenza metafisica è che non c’è che Una Realtà Unica e che tutti gli stati, le condizioni, le modalità, i gradi, non sono che modi di apparire, “veli”, gradazioni di Luce, attenuazioni. Le disquisizioni dei “professori” non sono altro che vacue distinzioni tra formule espressive; è come se ci si mettesse a disquisire su ognuna delle parole che abbiamo or ora usate per designare i molteplici stati della Realtà Una. E’ come se ci si mettesse a dire che “velo”, contraddice “apparenza”, oppure che “apparenza” non è un’espressione akbariana o che gradazione di Luce” è piuttosto di un Maestro che di un altro o che non rende il concetto meglio di un’altra espressione. Forse che, ogni modo di esprimere non è per ciò stesso provvisorio e limitato? Più o meno adeguato a suggerire all’interno ciò di cui essenzialmente si tratta? Forse che, ognuna di queste affermazioni è una dottrina? L’importante è non affermare qualcosa che contraddica i principi fondamentali della metafisica o generi confusione. La metafisica è quanto di più rigoroso possa concepirsi ma sfugge ad ogni sistematizzazione. Forse che, affermare che il modo di apparire di quella che tuttavia è una Realtà Unica sono “gradazioni della Luce”, “ Attenuazioni”, “Veli” che coprono la Realtà che voglia definirsi “essenziale” o con altro termine più o meno appropriato, significa negare che quei “modi” non sono altro che l’effetto, e precisamente, un “effetto provvidenziale”, del dispiegarsi nell’esistenza degli “Attributi divini” secondo il linguaggio islamico o dell’”Arte del Principio”, secondo il linguaggio Indù?46. L’una

46 Nell’Induismo, Maya è la potenza oscurante che impedisce di riconoscere l’Identità tra il

Sé, l’Atma ed il Brahman e che incatena l’uomo nell’apparenza illusorica del suo stato di “separatività” dal Principio inchiodandolo all’identificazione con la sua condizione; ma è anche

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cosa posta in risalto da questa o quella prospettiva che altro non è se non l’angolo di osservazione di una medesima realtà, non esclude l’altra; anzi la spiega e la completa.47

Conclusione fondamentale di quanto siamo andati finora chiarendo è, dunque,

che non esiste un “pensiero” o una “dottrina” di Ibn Arabi, e ciò è vero anche quando, per comodità e praticità, possa accadere occasionalmente di esprimersi in questo modo. Può invece correttamente dirsi che esiste un “modo di esprimersi” di Ibn Arabi o di qualcun altro, per riportare una dottrina che non è di Ibn Arabi più o meno di quanto non lo è di Guénon o di qualunque altro autentico Maestro della Tradizione. Un modo di esprimere quella che è la “dottrina metafisica” universale ed immutabile come la Realtà di cui tratta. I “professori” sono riusciti a fare di questa dottrina non soltanto “un pensiero”, ma “un pensiero” diverso di questo o di quel Maestro. Il fatto che sfugga loro non di rado l’espressione “il pensiero di Ibn Arabi” su questo o quel punto... è significativo al proposito. Manca che si lascino infine sfuggire l’espressione.. “l’opinione” e il quadro è chiaro e completo.

Una deduzione che ci appare obbligata, quale che sia la reazione che possa suscitare e nonostante una possibile apparenza contraria, è che, i nostri “professori” nonostante l’erudizione e l’estensione delle nozioni apprese, non hanno compreso il Cuore non solo dell’Opera di Guénon ma neppure di quella di Ibn Arabi; e riguardo

l’”Arte del Principio”, L’”Arte del Brahman”, grazie alla quale i mondi con gli esseri contingenti “in attesa” di Liberazione, possono esistere. E’ evidente che, anche qui, l’espressione “in attesa” è qualcosa di figurato e provvisorio ed allude alle possibilità degli esseri contenuti nella Possibilità Totale Infinita e che debbono ancora manifestarsi onde conseguire la Consapevolezza dell’essere e la radice del loro essere, cioè, la Conoscenza suprema, Liberazione.

47 Se ci si volesse fermare a giochini di parole e dedicarsi alla ricerca dei limiti delle espressioni usate da questo quel Maestro in relazione ad un altro, si dovrebbe affermare, ad esempio, che, quanto al termine “Essenza” che pur Ibn Arabi ed altri adoperano riferendosi all’Assoluto anche se solo per affermare che non è possibile meditare o comprendere la Sua Essenza, ha più ragione Guénon ad evitare di usarlo per designare la Realtà Assoluta; infatti, il termine “essenza” presuppone pur sempre un correlativo, cioè la “sostanza” mentre la Realtà assoluta è oltre ogni possibile distinzione e privazione. E’ invece più esatto definire quella Realtà con il termine “stato incondizionato”, “infinito” e, volendo aggiungere ad ogni costo qualcosa sulla sua natura è corretto dire “oltre ogni qualificazione e determinazione”. E questo non soltanto perchè gli Attributi che potrebbero essere riferiti a questo grado di Realtà sarebbero così eccelsi da perdere ogni riferimento con l’Attributo stesso che ha pur sempre un suo riferimento umano (Bellezza, Bontà, Grandezza, Forza, ecc.) - infatti questo sarebbe ancora un modo di mantenere un riferimento con il senso umano degli Attributi per eccelso che sia il livello al quale li si voglia applicare - bensì perchè la Realtà Suprema è proprio oltre gli Attributi in sé stessi e non soltanto oltre il limite umano di concepire quegli Attributi. Tuttavia, nella lingua araba poichè il termine “essenza” può più facilmente prestarsi ad un’estensione che è oltre la “complementarità” si può più agevolmente usare quando si vuole intendere la realtà profonda, oltre ogni forma, aspetto, qualificazione, determinazione, fenomeno ed apparenza, cioè, appunto nella sua “essenzialità”.

Questo evidenzia ancora una volta quanto i termini siano precari e provvisori e quanto la più adeguata forma espressiva implica necessariamente una qualificazione interiore.

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quest’ultimo, se può dirsi che neppure tutti quelli che pur lo seguono come Maestro dei Maestri con la più perfetta reverenza, ne comprendono fino in fondo lo spirito, i professori sono, inevitabilmente del resto, quelli che ne capiscono di meno.

L’Opera di Ibn Arabi presenta del resto paradossi tali che, non di rado, volutamente sviano e forse non casualmente “smarriscono” o quanto meno “disorientano” quelli che non sono veramente qualificati e animati da una sincerità di natura talmente profonda e da un amore per il Vero come quando, dietro l’apparenza di un’improvvisa attenuazione delle più ardite affermazioni metafisiche che poche righe prima egli aveva sostenute, afferma i limiti insuperabili della Conoscenza divina in ordine all’Essenza, cioè, all’Assoluto in Sè stesso. Subito certuni si sentono come rassicurati di quest’apparente attenuazione della “vertigine metafisica” e si cimentano in indefiniti giri di parole sul presunto ”pensiero” di Ibn Arabi. Se certe affermazioni sembrerebbero porre un limite alla possibilità dell’Intelletto Universale di condurre alla Liberazione totale e all’”Identità Suprema”, ne sono, in realtà, dietro una paradossale quanto apparente attenuazione, l’affermazione più ardita e la conseguenza più coerente. Infatti, se la Realtà è Una ed Unica; se infine non c’è altro che l’Assoluto; allorché l’essere manifestato sia infine giunto al limite estremo degli stati universali manifestati oltre il quale infine non c’è altro che l’Essere ed oltre ancora l’Assoluto (cioè il Principio in funzione di Essere e lo stesso Principio in Sé stesso) “chi” può affermare di procedere oltre fino alla Conoscenza dell’Assoluto o anche soltanto dell’Essere puro? Non è forse detto ciò che in fondo è ovvio, è cioè che “soltanto Allah conosce Allah” e che “la Conoscenza di Allah non è raggiunta altrimenti che per mezzo della Conoscenza di Allah”?48

E se è così, non è questo il modo più coerente ed estremo di confermare che non c’è che una sola Realtà nella quale non c’è più ne “Signore” ne “servitore”, ne’ “Dio” ne’ il Mondo ma una “Realtà Unica ed Assoluta?

E Un atteggiamento niente affatto “ neutro”.

48 Molti versetti contengono racchiusi in sé e quasi “nascostamente” (intendendo il

significato superiore del termine), questa Verità metafisica inerente l’”Identità Suprema”; tra questi oltre l’adith secondo il quale Allah è lo stesso braccio, lo stesso piede e tutte le membra con cui il perfetto servitore si muove, conosce ed agisce quando è da Lui amato, i versetti che evidenziano la “reciprocità essenziale”, quali: “Si sono dimenticati di Allah e Allah si è dimenticato di loro”. “Noi li dimenticheremo come loro hanno dimenticato l’incontro”, “Gustate il castigo per aver dimenticato l’incontro, in Verità anche noi vi dimentichiamo”, ”Noi li dimentichiamo come loro hanno dimenticato, “Dimenticano Allah ed Egli li dimenticherà”. (Sure: Al A’raf 51 – Assajda 14 – Tauba 67). Il dimenticarsi di Allah di qualcuno ha un doppio significato: è una ulteriore testimonianza di identità ma è anche l’anticipazione di un effetto conseguente nel senso che colui che ha dimenticato Allah si dimenticherà anche di sè stesso ed è questa una delle conseguenze che colui che non ha conseguito neppure la “salvezza” subisce come condizione infernale causa ed effetto ad un tempo della “dimenticanza” giacché in quella condizione “ne’ vivranno ne’ morranno” lontani dal ricordo non solo del Sé ma anche dello stesso io.

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Tornando all’articolo che ha fornito l’occasione per queste precisazioni dobbiamo ammettere che se l’articolista esprime certi lati ombrosi del suo pensare quasi subito tuttavia attenua il dubbio sollevato con un successivo passo; ma ripara con questo? Non è forse vero che fare un processo a qualcuno per arrivare poi ad assolverlo è comunque quanto meno curioso? Non sarà forse che si voglia intanto evidenziarne presunti punti deboli di Guénon per arrivare poi a far concludere che siamo stati noi stessi a fornire gli strumenti per attenuarli? Ma se anche così fosse, questo non sarebbe comunque già un po’ strano? E’ vero che in conclusione l’articolista tutto sommato riesce a dare almeno l’impressione di essere riuscito a fare questo recupero ma è il fatto stesso di essere sceso a questo piano che insospettisce, soprattutto se si pensa che i presunti detrattori di Guénon che lo avrebbero infine abbandonato per concentrarsi su Ibn Arabi e dei quali l’articolista sembra fare una certa critica che tuttavia sembra all’apparenza abbastanza comprensiva e benevola, non ci sembrano poi ne’ molti ne’ affatto qualificati ne’ in senso guénoniano ne’ akbariano, per quel che ci è dato di conoscere anche direttamente, di alcuni di loro. D’altra parte quel che egli sembrerebbe attribuire a quei tardivi detrattori come affermazioni di critica a Guénon sembrerebbe in realtà provenire più dalla sua penna, che è quanto meno più precisa nell’esprimere quel che vuole esprimere, che non da quella dei personaggi alcuni dei quali noi stessi abbiamo avuto modo di conoscere e che, a quel che ricordiamo, non sono mai riusciti così bene ad esprimere quello che pensavano allorché facevano sfoggio di aver superato Guénon attraverso Ibn Arabi. Di loro ricordiamo, quanto ad attitudine e a preparazione, soltanto grandi sbavature di sentimentalismo ed una gran profusione di esclamazioni e di lodi in arabo, frammiste ad atteggiamenti pseudo-intellettuali e professorali; sviolinature misticheggianti miste ad atteggiamenti misteriosofici paralleli ad uno sfoggio di devozionismo e accompagnato però da una gran voglia di cariche ed incarichi... iniziatici! Una voglia che spingeva alcuni di loro al punto di mettere persino nei citofoni dei palazzi dove abitavano (nelle città ovviamente italiane) la loro qualità di moqaddem o khalifa di questo o quel Maestro, di questa o quella tariqa! Ma questo, soltanto dopo aver abbandonato, dopo una innumerevole sequela di insulti e derisioni ricevuti negli anni passati, la precedente abitudine di stendere compiaciuti i tappetini della preghiera per le vie centrali delle città italiane e di fare la Salat sotto gli occhi attoniti dei passanti che non capivano cosa stessero facendo!

A questa luce può ben capirsi perchè la sobrietà di linguaggio e il rigore logico di Guénon finisca ad un certo punto per dare loro un certo fastidio e si comprende come preferiscano una certa lirica del linguaggio. Se Guénon ha spogliato e liberato i concetti puri dai rivestimenti devozionali, dalle immagini, dalle implicazioni morali e moraleggianti, i personaggi in questione provano una sorta di godimento ogni volta che possono imbattersi in un nuovo rivestimento che, ai maestri del Sufismo è obbligato dalla loro funzione “territoriale”; e a dirla tutta: non è forse vero che quando la dottrina dell’Essere deve necessariamente essere esposta restando l’obbligo di dover rispettare le immagini che i Testi sacri che si rivolgono a tutti

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indistintamente e non soltanto a chi è capace di penetrarne i significati più elevati debbono pur usare e quando si deve partire dall’immagine di “Dio Creatore e Legiferatore” e la “Personalità Divina”, resta pur sempre il pericolo del limite di una comprensione di livello più basso? Resta cioè l’immagine di “un essere”, per eccelso che possa essere immaginato, che pone in ombra la Verità principale per la quale l’Essere è, innanzi tutto, ”lo stato dell’Essere”, “lo stato di Centralità e di Pienezza dell’Esistenza”, “lo stato trascendente i limiti dell’esistenza manifestata e manifestabile” nel quale “Tutti gli esseri che realizzano realmente questa consapevolezza, sono Uno, Unificati, fusi ma non confusi”.49 Più che la “completezza esaustiva” di Ibn Arabi, noi abbiamo la netta impressione che a personaggi del genere piaccia immensamente l’occasione che ritengono di poter afferrare, di avere qualcosa in più di dire su qualcosa che altri non conoscono. In particolare quel fascino un po’ esotico che Ibn Arabi indubbiamente suscita anche se in lui non c’è veramente nulla di esotico; però certamente il linguaggio che in lui oscilla tra il sapienziale e il devozionale, (anche se quest’ultimo è pura apparenza) tra il fascinoso ed il complicato, in gente che, diventata per una ragione o per l’altra ormai inadatta per la semplice religione, sia perché più o meno accidentalmente si è imbattuta in qualcosa di più elevato del semplice exoterismo, sia perché una gran parte di loro stessi nonostante le apparenze è fortemente imbevuta di modernismo, non può non esercitare una certa attrazione verso ciò per il quale tuttavia non hanno le qualificazioni. In questo modo, inadatti ormai per la semplice religione, tanto più lo sono per qualcosa di più profondo. Però neppure li soddisfa in fondo ciò che nell’esoterismo può infine ridursi a qualcosa di troppo chiaro e, almeno apparentemente, di troppo semplice e comprensibile: meglio, allora, un linguaggio che tra simboli e velature, tra svelamenti e progressioni, tra lodi ed immagini a volte emozionanti, rivela in cinquanta, cento pagine, un concetto ed una verità metafisica

49 E’ poi evidente e conseguente che, questo stato, centro di tutti gli stati della

manifestazione, sia poi Quello dal quale promana ogni Ordine e Legge intesi in tutti i loro significati, cioè: un Ordine ed una Legge che sono innanzi tutto la radice dell’Ordine cosmico e delle Leggi della natura e dell’esistenza tutta, ma che sono anche “ll Comando, la Volontà Divina” nel loro aspetto più esteriore anch’esso del resto esattamente contenuto proprio nel significato dei due termini (Ordine e Legge).

A questo proposito varrà ricordare che dal punto di vista iniziatico e realizzativo che ha in vista la Liberazione dell’essere da tutte le condizioni manifestate e non il Fine ultimo e supremo non è tanto “comunicare con gli angeli” cioè con gli esseri che occupano stati superiori a quello umano o con lo stesso Essere ma attuare ed attualizzare in Sé stessi ciò che già appartiene ed è “ab aeterno”; vale a dire: riconoscersi in quegli stati superiori, nell’Essere ed infine nel Supremo.

Questo è il significato più elevato delle espressioni dei Wali e dei Profeti: “Non per paura dell’inferno o per le delizie dei paradisi ma solo per il Volto di Allah” oppure: “Non per timore ma per Amore (unitivo) di Allah”. E per Colui che, infine, Conosce, non c’è più ne’ ubbidienza ne’ disubbidienza alla Legge delle cose perché egli aderisce all’Ordine cosmico, come la più naturale delle cose e gli sarebbe impossibile non aderirvi per il fatto stesso che quell’Ordine si è rivelato come la sua stessa natura profonda.

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che Guénon il quale svela quasi “scandalosamente”, la stessa cosa, in tre, quattro pagine!50

A questo punto dovremo comunque rilevare che, l’articolista del quale ci stiamo occupando non è sicuramente mai passato per tappe sul genere di quelle che stiamo descrivendo riferendoci ai personaggi di cui ci siamo appena occupati; ne siamo quasi sicuri e non lo paragoniamo affatto a loro. Gli riconosciamo invece sicuramente un’erudizione che, almeno, non tradisce la lettera di Guénon e neppure di Ibn Arabi ma, forse senza volerlo fino in fondo, non fa comunque buon servizio ai due Autori ed alla Causa in generale, nonostante le proclamate intenzioni. E a proposito di queste, non ci pare che, anche laddove egli invochi a difesa di Guénon il fatto che alcune imprecisioni di riferimento (come quando ad esempio attribuirebbe ad Ibn Arabi un’espressione che è in realtà di Balyani) deriverebbero “solo” dal fatto che la conoscenza di Guénon non era libresca, egli voglia veramente significare che essendo di natura diretta e direttamente intuitiva poteva benissimo essere impreciso in punti di dettaglio; ci sembra invece che voglia quasi suggerire che Guénon ignorava le fonti dirette dei testi autentici e dunque riferisse anche “per sentito dire”, senza peraltro verificare.

Forse siamo un po’ duri ma la sensazione è troppo sgradevolmente evidente (anche se l’articolista riferisce lo stesso difetto allo stesso Ibn Arabi) come quando, ad esempio, dice che quest’ultimo attribuisce a Ibn Arabi un trattato e alcune frasi che invece sono di Balyani e di Abd Al Salam Maqdisi, tuttavia riconoscendo che, questo fatto, non contraddicendo nei punti citati, la dottrina di Ibn Arabi, “.. la referenza dottrinale resta invariata nella sua essenza, e pertanto non scorretta”. Nota 5 e 57 alle pagg. 124 e 143.

50 Abbiamo usato l’espressione “scandalosamente” in positivo prendendola da un detrattore

di Guénon che aveva voluto rilevare come egli affronti gli argomenti della Spiritualità con freddezza e senza trasporvi quell’emozione, quel sentimento e quella commozione che è propria dei mistici e dei rapiti nella spiritualità (!). E’ evidente il limite di questa ristretta prospettiva effettivamente appartenente ad una certa mistica religiosa che addirittura identifica la Spiritualità e la Verità con i sentimenti, le aspettative, le speranze, le emozioni, e perchè no, persino le illusioni umane. Qualcosa che in Occidente ha fatto buon gioco al materialismo scientifico, alle teorie di una certa psicologia, antropologia e sociologia. Come se la Conoscenza non fosse qualcosa di prettamente intellettuale, attivo e lucido, nel significato più puro del termine e prescindesse da ogni desiderio, emozione e aspettativa prettamente umana. Le reazioni emotive che possono peraltro essere molto differenti tra uomo e uomo, razza e razza, tempi e tempi o che possono persino mancare, di fronte al disvelarsi di certe Verità, sono puramente soggettive e non anno a che vedere con i contenuti della Conoscenza del mondo della Cause Prime e delle Verità universali. Anzi, la presenza di troppi elementi emozionali fa da ostacolo e condiziona la pura intuizione ed ogni autentica Contemplazione attiva. Niente è più “antimistico” (nel senso moderno del termine, cioè, “anti-viscerale” e piagnucoloso) della Vera Conoscenza e della Realizzazione spirituale. Ovviamente non includiamo in questo termine, “piagnucoloso”, l’autentica manifestazione dello Stupore o le prime espressioni che testimoniano una partecipazione del Cuore ai primi svelamenti della Realtà superiore e dei Segni che l’accompagnano e che ben possono coinvolgere la sfera sentimentale ed emotiva dell’uomo nei suoi primi, effettivi passi di reale avanzamento nella Via.

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Bisogna insomma proprio dedurre che soltanto i “professori” e gli accademici di oggi, avendo a disposizione facilmente i testi originali di quasi tutti gli autori, non sbagliano e conoscono veramente “il pensiero” autentico e completo di questo o quell’Autore? Ma questa conclusione avrebbe proprio ben poco di... iniziatico. Se si pensa che persino il Profeta in un hadith precisa che su alcune conoscenze relative a casi particolari e contingenti, la sua esperienza e conoscenza può benissimo essere inferiore persino a quella di un qualunque uomo (si pensi all’esperienza e alla conoscenza del contadino sui tempi e gli accorgimenti della semina o di qualunque artigiano nel suo lavoro) può ben capirsi quanto possano valere certe conoscenze nozionistiche per misurare o sminuire il grado si elevatezza spirituale di un essere.51

E’ vero che è lo stesso articolista che, anche qui, sembrerebbe preoccuparsi di “recuperare” Guénon, come se quest’ultimo ne avesse bisogno e la Sua Opera non si difendesse da sola, allorché la si leggesse direttamente e senza pregiudizi o glosse sui riassunti. Dice infatti l’articolista: “... la conoscenza che lo scrittore francese aveva dell’opera di Ibn Arabi era di carattere chiaramente “non libresca”, affermazione che se da un lato non è che un’ulteriore testimonianza a favore dell’evidente (quanto innata) capacità con cui lo scrittore francese era in grado di acquisire e giustapporre al meglio qualsivoglia fonte dottrinale, non importa se estrapolata da una fonte cartacea, se ricevuta per via orale o per diretta trasmissione spirituale, da un punto di vista più contingente è sostenuta dal fatto che ogni volta che nella sua opera egli fa riferimento a qualcosa scritto di sicura attribuzione ibnarabiana (oltre alle più volte citate Futuhat, solo il trattato “Tartib al tasawwuf”, le “Tadbirat al ilahiyya” e “Al qishr wa’l lub”) si astiene sempre dal citarne passaggi originali, mentre come già detto l’unico testo che egli cita diffusamente, attribuendolo, probabilmente sulla

51 Tanto più si rafforza la sgradevole sensazione cui facevamo cenno, allorché è lo stesso

articolista che alla pag. 233 riporta in nota n. 323 una frase tratta addirittura da uno dei primi libri di Guénon “l’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta”, dove Guénon afferma: “Anche per l’esoterismo islamico, l’Unità, considerata in quanto contiene tutti gli aspetti della Divinità (Asrar Rabbaniyya, o “misteri dominicali”) è dell’Assoluto la superficie riverberante a innumerevoli facce che magnifica ogni creatura che vi si specchi direttamente”. Con ciò Guénon evidenzia di ben sapere l’uso che, nell’esoterismo islamico e secondo la terminologia e la lingua in cui esso si esprime, viene fatto dei termini come Unità, Essere, Assoluto e Totalità; pertanto, se e quando espone con termini diversi la stessa dottrina, egli sa di non fare alcun errore di riferimento ed è ben consapevole di riferirsi allo “spirito” che è dietro le apparenti differenze verbali certo che il lettore qualificato (cui esclusivamente egli si rivolge come ripetutamente precisa) saprà fare gli opportuni accostamenti, riconoscimenti, trasposizioni e la necessaria, quanto operativamente spirituale, sintesi.

Ancor più significativa la nota se si considera che è riportata nel capitolo dal titolo “Unità e identità essenziali del “Sé” in tutti gli stati dell’essere.

Ancora: perchè mai poi l’articolista avrà tralasciato il resto della nota che evidenzia ancor più la capacità intellettiva di Guénon di cogliere da qualunque tradizione, lo stesso significato e la stessa Conoscenza? Una soppressione che riguarda questo seguito... “Questa superficie è anche Maya, considerata nel suo aspetto più elevato, come shakti di Brahma, vale a dire come l’’”onnipotenza” del Principio Supremo. Ancora, in modo del tutto simile, nella Qabbalah ebraica Kether (la prima della dieci Sephitot) è la “veste” di En Soph (l’Infinito o l’Assoluto)..

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scora di Agueli, ad Ibn Arabi, la celebre “Risalat al ahadiyya”, non solo è in realtà di Awhad al din Balyani ma non corrisponde che in minima parte alla dottrina ibnarabiana sul wujud, quale che sia il lessico tecnico ivi adottato. Dal momento però che lo scrittore francese, pur ignorando il vero autore dello scritto, vi attinge comunque i passaggi più affini alla dottrina del vero Ibn Arabi (tra tanti altri che avrebbero potuto supportare ancor meglio la sua trattazione, a costo di allontanarla però ancor più dalla vera wahad al wujud ibnarabiana) (...) tale conoscenza “non libresca” dell’opus akbariano potrebbe essersi tradotta, quanto all’atto pratico, in un uso “non libresco” della dottrina di Ibn Arabi (...) Non essendo infatti intenzione di Guénon fare dell’ermeneutica ibnarabana, quanto esporre al lettore occidentale un concetto che egli potesse facilmente comprendere secondo il suo usuale quadro ontologico di riferimento, è giocoforza ovvio che, tra tutti i significati attribuiti alla parola wujud egli abbia scelto quello più comunemente diffuso in Occidente, vale a dire “esistenza” da “ex stare” (al di fuori dunque di ogni contesto akbariamno in senso stretto) evitando in tal modo di introdurre visuali dottrinali che, per quanto somme ed elevate, non solo non sarebbero state comprese dalla maggior parte dei propri lettori, ma avrebbero anzi potuto introdurre pericolosi elementi di confusione n una disanima già complessa di suo. (...) Nulla di strano quindi che in un’opera di ricostruzione e giustapposizione dottrinale come la sua, nella quale proprio la restituzione del linguaggio al suo senso originario ha un’importanza primaria, tali precauzioni costituiscono una necessità a dir poco provvidenziale (oltre che una inusualissima delicatezza nei confronti del proprio lettore); trovandosi infatti a dover continuamente confrontare con linguaggi specifici di altri esponenti della tradizione , a loro volta afferenti a diversi mondi dottrinali, sarebbe stato pressocchè impossibile richiamarsi a tutti nel dettaglio mantenendo nel contempo coerenza interna. Mancandogli quindi una “lettura” circa la dottrina ibnarabiana della wahad al wuyud, Guénon non ha fatto che tradurre tale termine in modo coerente per farne l’uso richiesto dall’esposizione dottrinale che si prefiggeva, uso ovviamente più coerente con la dottrina universalis, sebbene non da considerarsi filologicamente aderente al pensiero di Ibn Arabi e della sua scuola in quanto tale”. Pag. 157-158 Il fatto che l’articolista mostri molto bene di capire la ragione per la quale Guénon ha adottato il termine “esistenza” per quello che nella lingua e nella cultura occidentale da sempre esprime, rende sospetto tutto il suo evidenziare la conoscenza “non libresca” di Guénon che ha il chiaro effetto, nei più, di sminuire quasi a far pensare ad una sua non esatta o completa preparazione. Ne’ le precisazioni che apporta lo stesso articolista per le quali questa imprecisione di riferimento non può essere ricondotta ad una “ristrettezza di veduto di Guénon” (bontà sua..) ne’ che il suo scopo non era fare dell’ermeneutica, recuperano l’impressione. Ma non spiegano neppure perchè, allora, questa precisazione giunga al termine di una lunga disanima critica introduttiva, cioè dopo aver posto in una luce “mediocre” l’Autore, lo “soccorra” con quella che è effettivamente una delle ragioni per le quale egli operò certe scelte, come lui stesso spiega a più riprese in vari passi delle sue Opere e in alcune lettere. Peraltro è l’articolista stesso che riporta subito dopo alcuni tralci dove Guénon chiarisce il perchè di certe scelte e che qui ci risparmiano dal riportare. Ma

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allora perchè, anzichè rilevare la conseguenza più importante dall’affermazione che lo scopo di Guénon, al contrario di quello dei “professori” non è l’ermeneutica ibnarabiana ne’ di chiunque altro (ad esempio Shancaracharya che pur riporta spesso nelle opere sull’Induismo) ma i cardini della dottrina della “non dualità”, degli “stati molteplici dell’essere”, dell’iniziazione, della “Liberazione” e della Conoscenza del Sè e che pertanto non serve affatto il titolo o la pagina nella quale, questo o quel Maestro, pur citato, abbia riportato in analisi quell’insegnamento. L’obbligo assoluto di riportare esattamente il numero di riferimento esiste soltanto allorchè venga citato un Testo sacro (e difatti Ibn Arabi e Shancara fanno sempre riferimento l’uno al Corano, l’altro al Veda) ma quasi mai è dato di vedere un Maestro che, pur citando una frase, un insegnamento, un riferimento, spesso persino un Hadith che, alla maniera dei letteralisti più estremi, riporta titoli o pagine mentre i “professori” lo fanno sempre; forse anche questo è uno dei segni del progresso culturale, umano e sociale cui l’uomo attuale è giunto rispetto alle approssimazioni del passato, in questa “civiltà” delle “cose esatte” ed oggettive... E che dire della precisazione, pur resa nella proclamata intenzione di difendere Guénon e di “chiarirlo” (come se ne avesse bisogno e se dovesse essere qualche “professore” a farlo), che nonostante la sua non conoscenza libresca, ed anzi proprio per questo, avrebbe dimostrato “..un’evidente (quanto innata) capacità... di acquisire al giustapporre al meglio qualsivoglia fonte dottrinale, non importa se estrapolata da una fonte cartacea, se ricevuta per via orale e per diretta trasmissione spirituale...”? Non è forse evidente che questo anziché risaltare proprio ciò di cui si tratta, cioè, una “conoscenza diretta” ha invece l’effetto di relativizzare quest’ultima ipotesi e ridurla, ma proprio... a voler tutto concedere, ad una “diretta trasmissione spirituale” intendendo magari... di dati tradizionali esatti da una fonte informata quale può essere una vera scuola Ibnarabiana informata sui testi!52 L’articolista ha forse dimenticato qualcosa che non può ignorare data la sua evidente erudizione sull’argomento e cioè che il “riconoscimento di stato” tra due Maestri che hanno in comune almeno la realizzazione effettiva di un qualche stato spirituale non si compie per via di lettura ma per una sorta di “comunicazione” che non ha nulla a che fare con ciò che quest’espressione comunemente suggerisce ne’ con le fantasticherie occultiste e tanto meno medianiche. Due Autorità di elevata statura possono benissimo richiamarsi, secondo l’economia delle opportunità spirituali, l’un l’altro anche in contesti che potrebbero apparire a prima vista e dall’esterno diversi ma che sono in realtà intimamente identici nell’essenziale. Guénon non è più in questo mondo con il suo corpo e la sua voce ma la Sua Opera si difende veramente da sola e persino negli aspetti più spiccioli allorché si voglia attaccarlo, è sufficiente leggerlo con la necessaria attenzione per trovare le

52 Questo piacere di trovare in fallo per una qualche informazione un Maestro spirituale non si limita a Guénon

come abbiamo già rilevato; in internet è diventata una patetica abitudine trovare qualcuno che si premura di evidenziare a questo o a quel sito che si occupa di argomenti tradizionali che, questo o quel Maestro spirituale, generalmente tra i più elevati, come Shankara, Ibn Arabi e altri, ha commesso un errore di attribuzione di questa o quella frase a questo o quel Maestro che lo aveva preceduto nel tempo e che, i mezzi moderni e la moderna ricerca, hanno invece potuto accertare doversi attribuire ad un altro. Immaginiamo la gioia che debbano provare certi personaggi per certe scoperte dalle quali tanto più debbono sentirsi glorificati quanto più il Maestro colto in fallo è elevato...

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risposte alle critiche stesse che i malevoli per una ragione o per l’altra avessero intenzione di rivolgergli... ed a che questo non è un caso. Al caso sollevato dai “professori” si applica alla perfezione una nota contenuta in un articolo di Guénon, “Atlantide e Regione iperborea”, a proposito di un’espressione che Guénon aveva usato nei confronti di uno dei soliti “eruditi” dei suoi tempi e che, uno di loro, aveva avvertita come “infelice”. Risponde in nota Guénon: “Le Cour ci rimprovera di aver detto a questo proposito che il suo collaboratore.. “non a certamente il dono delle lingue”, e trova che la nostra “è un’affermazione infelice”; il fatto è che egli confonde semplicemente il “dono delle lingue” con le cognizioni linguistiche; in realtà, esso non ha nulla a che vedere con l’erudizione”. E’ in virtù del “dono delle lingue” che Guénon ed Ibn Arabi potrebbero, se le circostanze, il momento, l’opportunità e le funzioni lo richiedessero, reciprocamente utilizzare l’uno i termini di espressione dell’altro per trasmettere lo spirito dello stesso insegnamento... se i nostri ”professori” comprendessero realmente... Su quest’ultimo argomento non intendiamo spendere altre parole ne’ ci sembra opportuno farlo. Un altro passaggio sgradevole e poco conforme al vero è il fatto che certe scelte sarebbero state indotte in Guénon da una “delicatezza” verso i suoi lettori (evidentemente un po’ “ciucci”, aggiungiamo noi; ma l’aggettivo è conseguentemente implicito nell’espressione dell’articolista) di tematiche elevatissime laddove, è ben noto, che Guénon non fa altro che premettere e ripetere che scrive per pochi disinteressandosi della quantità e che quei pochi potranno capire proprio perchè, nonostante tutto non sono “uomini moderni”. I destinatari dell’Opera di Guénon sarebbero un po’ “ciucci” mentre i professori sarebbero ben qualificati tanto da poterlo anche criticare all’occorrenza! E’ incredibile il rovesciamento: proprio quello che è un “privilegio”, cioè: l’assenza di preformazioni condizionanti, di un limite “confessionale”, di un ambiente pericolosamente vigile nella difesa dell’esteriorismo e la possibilità di adottare un linguaggio libero da immagini devozionali, di sentimentalismo e dalla componente emozionale, sarebbe un “minus”, un limite mentre la dottrina più pura e coerente si troverebbe espressa nel linguaggio Ibnarabiano. La risposta più semplice non è proprio che Guénon anzichè sottovalutare i suoi pochi lettori ai quali si rivolgeva, li riteneva capaci di saper discernere e confidava proprio nella loro qualificazione di cogliere l’essenziale rinviando proprio alla dottrina essenziale? Questo perché un vero akbariano ed un vero guénoniano nel senso iniziatico, operativo e non già “scolastico” del termine non si preoccuperebbero affatto delle comparazioni mirando a capire l’insegnamento essenziale al di la delle immagini e delle formule espositive atte soltanto a suggerire e non a costituire una sorta di “dogmi” ad imitazione di quelli exoterici; diversamente essi non sarebbe degli iniziati ma soltanto i seguaci di una filosofia, di una costruzione filosofica o di uno schematismo più o meno rigido; questo è uno dei significati di quello che viene definito “il dono delle lingue”. La dottrina metafisica in sé stessa ha poco di preoccupazioni “teologiche” ed ha in vista la trasmissione di un insegnamento il cui vertice è la dottrina della “Realtà Una

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ed Unica”, della “non dualità”; il cui presupposto è la dottrina della “molteplicità degli stati dell’essere”; ed il cui fine, allorché viene nuovamente resa evidente all’uomo, è la realizzazione di questa realtà intesa come la Liberazione totale dell’essere nella pienezza del suo principio. Immaginiamo l’obiezione: l’articolista non afferma che quest’ultimo è un linguaggio migliore o peggiore; afferma che i riferimenti che Guénon fa ad Ibn Arabi portandolo a supporto di quanto egli afferma in alcuni dati dottrinali, non corrispondono a quanto Ibn Arabi dice ed alcuni riferimenti non sono suoi. Capiamo perfettamente che, in ambito profano, questo è tanto quanto basterebbe per screditare qualcuno, ma quel qualcuno è Guénon e l’ambito nel quale egli opera non è “profano” e proprio a questo punto sarà bene essere chiari con quel che pensiamo al proposito. E quel che pensiamo è esattamente questo: nonostante le apparenze, Ibn Arabi non differisce da Guénon e da nessun’altro degli autentici Maestri spirituali (neppure da quelli che, ad esempio, come Sirhindi sembrerebbero chiamarlo in causa su alcuni aspetti pur parziali della dottrina che si propongono di rettificare, integrare o precisare) non solo nell’essenza come è costretto ad ammettere lo stesso articolista ma neppure nell’esposizione! Capiamo bene che quest’ultima affermazione può apparire veramente paradossale e sconcertante ma le cose sono esattamente in questo modo e non è nostra la colpa se la maggior parte di quei già pochi che si avvicinano alle Opere dell’esoterismo e della metafisica tradizionale, non sono capaci di cogliere questa Verità che pur è tra quelle essenziali. F Un irrefrenabile impulso “accademico-professorale”,

ben rivelatore e significativo...

Cosa dire, infine, del fatto che nelle pagine conclusive questa “comparazione” tra il linguaggio e la dottrina come espressa da Guénon e da Ibn Arabi, asseritamente finalizzata a risolvere quelle che lo stesso articolista definisce “le apparenti differenze e contraddizioni”, finisce con l’estendersi anche ad altri Maestri e al linguaggio da loro adottato per esprimere i concetti metafisici e favorirne la comprensione, come Jili, Abdel Qader Al Jisair...!? Ciò che in realtà finisce col risultare da questo metodo è che di questa metafisica in fondo ognuno sembrerebbe avere una sua idea... come la filosofia e come tutte le altre cose di questo mondo! Deduzione, questa, che in realtà è la più falsa che possa sostenersi visto che la Conoscenza, come la Verità, dietro i rivestimenti del linguaggio, i simboli e le differenti espressioni o immagini, è in realtà Una ed Unica come il suo Soggetto. Ed è proprio a questo proposito che pensiamo di poter affermare che ogni linguaggio ed ogni espressione è provvisorio mentre la dottrina debba essere colta con qualcosa che è più dello stesso linguaggio perchè il “comprendere” è qualcosa di diverso dall’assimilare il ragionamento, la nozione, lo stile espositivo utilizzato. E’ proprio questo che, in campo esoterico e in presenza di

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insegnamenti metafisici, consente a chi è veramente qualificato, di riconoscere dietro ogni tradizione, dietro ogni simbolo, dietro ogni sfumatura, dietro persino ogni apparente diversa esposizione, l’identica dottrina, il medesimo profumo dell’influenza spirituale, il medesimo stato dal quale proviene l’intuizione della Verità rivelata. Ma comprende anche le esigenze cosmiche o le esigenze sociali che possano indurre ad usare un linguaggio anziché l’altro, a moderare o ad accentuare, a rivelare ma anche a rivestire nuovamente in un tajalli (svelamento) progressivo che è pur sempre un nuovo velamento sia pure ad un superiore livello rispetto al precedente. A questo punto sarà il caso di ribadire con decisione che qualsiasi forma concettuale nella quale sono stati rivestiti i dati della metafisica pura è “provvisoria”, è un’immagine che mira a suggerire, a stimolare la comprensione di ciò che si deve comprendere dall’interno. In questo senso anche la dottrina indù della Maya, i concetti di realizzazione, di manifestazione, di esistenza, di Essere, di Principio, di Qualità, così pure termini come “Realtà”, “Verità”, “essenza” e “sostanza”, “Diade”, “Cosmo”, “irraggiamento”, “Spirito”, le contrapposizioni “fisica e metafisica”, ed ogni altro termine indù, islamico o taoista che sia, è “provvisorio” nel senso che mira a far capire “il senso” dell’esistenza, la “ragione” della molteplicità degli esseri, il rango della vita nella Realtà.

Nel corso di questo nostro studio noi abbiamo usato varie immagini tratte ora da una Tradizione ora dall’altra ma molte altre da nessuna rifacendoci, invece, al simbolismo della Natura che traduce i principi metafisici e permette pertanto di risalire ad essi con il suo linguaggio. Metodo perfettamente legittimo in quanto è il “Libro della Natura” che è traduzione di quello “Celeste” del Principio, come si esprimono certi Testi tradizionali e certe allusioni degli sessi Testi sacri. Quanto poi ad alcuni riferimenti nei quali viene più in particolare segnalata una differenza dottrinale, quasi si trattasse di correnti tra grandi Maestri del Tasawwuf diventa quasi obbligato ravvisare in ciò il segno di un’incomprensione assai profonda nell’articolista, senza con ciò dubitare affatto della sua vasta erudizione. Infatti, quando l’esposizione sembri troppo scopertamente spingersi a fare attribuzioni di dottrina come se si trattasse di rivendicazioni d’autore, la sensazione diventa insopprimibile come quando afferma: “ Guénon cita espressamente la wahdat al-wuyud nel suo libro “Il simbolismo della Croce” e senza nominarla esplicitamente la chiama comunque in causa nel libro “Gli stati molteplici dell’essere” e “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta”. Tale dottrina, la cui definizione non è dello stesso Ibn Arabi ma compare per la prima volta nel Miftah al Gha’ib di Sadr al-din Qunawi (suo discepolo nonché figlio adottivo) è stata sicuramente una delle più studiate e meditate (ma anche osteggiate, si pensi agli attacchi di Ibn Taymiya e dei suoi epigoni...) insieme alla Wahdad al-shuhud doi Ahmed Sirhindi e, in misura più locale ma nonmeno incisiva, alla wahdad al-mutlaqa” di Ibn Sab’in. Dal momento che Guénon non cita esplicitamente queste ultime dottrine, ai fini di una maggiore chiarezza espositiva abbiamo preferito non prenderle in considerazione ma al lettore che fosse interessato ad approfondirle (magari in relazione all’ontologia akbariana... può fare riferimento a... “ Pag. 126.

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Forse saremo un po’ troppo severi o malfidati ma un simile modo di esporre ci appare tanto più essere in relazione alla voglia di dare contezza all’auditorium, dell’immenso, vasto sapere della cultura universitaria moderna che ha avuto accesso ai testi più rari in una collaborazione “globale” da “uomini moderni” dotati dei mezzi di diffusione e di comunicazione più eccezionali, che non dalla premura di chiarire i presunti limiti che alcuni attribuirebbero a Guénon. Ad una profusione di dati così precisi e di riferimenti così “libreschi” se non avessimo un’attitudine tradizionale e una corazza di impenetrabilità alle troppe mitologie moderniste sull’efficienza, ci verrebbe automatico esclamare ma “che sapienza”... “ma che progresso”! Quanti mezzi, cultura ed occasioni per evitare errori, false attribuzioni, brutte figure e sfondoni, abbiamo oggigiorno; povero Guénon che invece doveva servirsi di traduzioni di Agueli e di notizie riferite e riportate da altri, peraltro non sempre correttamente! Neppure la giustificazione che l’articolista fa mostra di fornire per salvare l’”onore” di Guénon ci sembra convincentemente sincera al di la poi della discutibilità della stessa. Nella dichiarata intenzione di giustificare Guénon dalle inesattezze circa i riferimento testuali, l’articolista in realtà non fa che sminuirlo perché sembra soccorrerlo o volerlo soccorrere e recuperare, come quando si vuole salvare qualcuno da una brutta figura con un’ ”affettuosa comprensione”. In realtà la risposta alle perplessità dell’articolista e di quelli che più di lui sminuiscono la portata dell’Opera di Guénon, è che egli non aveva alcuna intenzione ne’ funzione di riportare o far conoscere la dottrina o la forma espressiva di Ibn Arabi ne’ di nessun altro in specifico; egli vuole ricondurre alla comprensione dei dati tradizionali e dottrinali della metafisica e di quell’insegnamento universale che è definito anche “Philosophia perennis”. A ritrovare l’unità, a superare le differenze di linguaggio, di forma, di simboli e di espressioni concettuali, deve provvedere giacchè proprio questo è uno dei lavori della meditazione interiore che debbono condurre all’evidenza e alla Conoscenza. E questo processo interiore non si applica soltanto alla penetrazione dei diversi simboili e dei rivestimenti ma anche dei “dati dottrinali” che sembrerebbero già essere la diretta espressione della Conoscenza e della dottrina mentre sono essi stessi ancora “veli”. Attenendosi al metodo letteralmente comparativo dal quale i “professori” non riescono a separarsi per loro stessa natura e per un limite di comprensione profonda delle cose di ordine sovrarazionale nonostante la veramente paurosa estensione orizzontale del loro “sapere”, ogni testo di qualsiasi Maestro comparato a quello di un altro che pur insegni la stessa dottrina, può apparire in contrasto attenendosi letteralmente all’uso dei termini che questi può utilizzare. Anzi, di più: lo stesso apparente contrasto sorge a volte persino all’interno dell’Opera di uno stesso Maestro tanto che qualcuno non ha perso l’occasione di rilevare come, lo stesso Ibn Arabi usi, in uno scritto, una terminologia che sembrerebbe in contrasto con quella utilizzata in un questo o quell’altro suo scritto pur essendo entrambi sicuramente attribuibili alla stessa penna! La ragione è che, chi si avvicina con quell’animo “critico” o “nozionistico” anche se animato dalle migliori intenzioni non lo fa per una decisione consapevole ma per una tendenza a volte invincibile che non è quasi mai consapevole, di questo genere di condizionamenti che sono propri di una certa attitudine innata connessa ai propri limiti ed alle proprie

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possibilità prima ancora che di una mentalità preconcetta. Questo in parte li scusa ma non li rende meno perniciosi e meno suscettibili di subire un’influenza che, a tratti, ha quasi del “satanico” considerato che l’immissione del seme di una relativizzazione e del dubbio, allorchè sia difficile instillarlo in modo diretto per la natura inattaccabile di certi argomenti e di certi Autori, può rivelarsi possibile attraverso un’operazione più subdola e sottile la cui consapevolezza può completamente sfuggire allo stesso agente che può rivelarsi benissimo in “buona fede”. Un esempio di questo apparente contrasto può rilevarsi dall’uso che viene fatto del termine “essenza” da parte di Guénon e da parte di Ibn Arabi. Guénon utilizza il termine in un senso più relativo riferendolo al polo “attivo”, “improntante” (non diciamo “formatore” perchè il termine sarebbe applicabile ai soli stati individuali dell’esistenza nei quali è appunto presente la forma) dell’Essere allorchè, ponendosi come principio della manifestazione si “polarizza” in “essenza” e “sostanza” o “impronta” e “materia prima”, secondo un’altra terminologia. E’ evidente però che Guénon ha ben cura di precisare che l’uso di questo termine a questo grado ed in questo contesto non equivale all’idea di Essenza nel significato assoluto che, ad esempio, gli attribuisce Ibn Arabi. Quest’ultimo, infatti, quando usa questo termine intende addirittura la stessa Realtà Assoluta che egli definisce, secondo un linguaggio islamico “Realtà Divina” nel suo significato più illimitato, in “Sé Stessa” e priva di qualsivoglia “relazione”; dunque “inconoscibile” perchè non soggetta ad alcun limite che possa definirla o relazionarla a qualcosa che possa o debba conoscerla. Questo, in perfetta sintonia con un Hadith del Profeta che ingiunge di non meditare sull’essenza di Allah ma solo sui Suoi Attributi. La ragione è in fondo semplice ed evidente: infatti, se si tratta della Realtà pura, il che vuol dire considerata nel suo grado assoluto, nessun mezzo ne’ individuale ne’ universale può cogliere quell’Essenza. Essa non è oggetto di “speculazione”, di “riflessione”, di “sforzo” ma è colta soltanto per “Contemplazione diretta” e può dirsi... per “attrazione” secondo l’espressione: “Conoscere Allah per mezzo di Allah”. Guénon, usando espressioni che poggiano soprattutto sul solo simbolo costituito alla parola umana in diretto rapporto con il concetto e che non si appoggia ad un altro simbolo, per designare la Realtà nel suo stato incondizionato, assoluto, libero da ogni condizione, non passa attraverso l’ulteriore utilizzo di un’altra parola “mediana” come “essenza” ma parla direttamente di “Infinito” che equivale alla Realtà nella sua totalità senza che ciò evochi l’idea di una somma di parti o nulla di quantitativo. Tuttavia, a rigor di logica e di linguaggio, l’utilizzo del termine “essenza” sia pure nella sua accezione ed estensione massima, non è propriamente il massimo della proprietà di linguaggio visto che, il termine “essenza” presuppone pur sempre un correlativo, un “complementare” che è la “sostanza” cosa che non è ammissibile nelle Realtà intesa in Sé stessa, cioè nel suo stato assoluto, supremo, incondizionato, infinito, totale totalizzante; termini questi, che significano esattamente la stessa cosa e designano il medesimo grado di Realtà... o per meglio dire: la Realtà pura e semplice in Sé stessa. Perchè allora Ibn Arabi la usa? Semplicemente perché nella radice araba del termine è contenuta anche quest’accezione che è oltre quella dualità; siamo allora nella stesso discorso della parola “esistenza”. Ma allora ha senso partire prima dal rilievo di

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presunte differenze per arrivare soltanto dopo tanti discernimenti a mostrare che non ci sono differenze essenziali di dottrina? Lo scopo non sarebbe mostrare invece la dottrina in sé stessa magari aiutandosi con tutti i linguaggi possibili proprio perché lo scopo principale è quell’insegnamento piuttosto che l’apprendimento del “pensiero” o della forma espositiva di questo o quell’Autore? In effetti il linguaggio coerentemente metafisico, quello cioè più puro e coerentemente adeguato ad esprimere concetti di metafisica pura e non necessariamente costretto a partire da immagini e posizioni teologiche e devozionali collegate peraltro ad elementi di ordine emozionale e sentimentale alle quali deve rendere conto, potendosi esprimere liberamente senza doversi appoggiare a quelle immagini “teologiche” o preoccuparsi prudentemente di eventuali accuse di eresia o di contraddizione della forma espressiva e letterale dei Testi sacri da parte dei Maestri e delle autorità dell’esteriore (accuse che costavano la vita e la tortura in un ambito sociale prettamente exoterico), non avrebbe bisogno di completare con aggettivi, lodi, enfasi sentimentale, ciò che è già una Verità ed un sostantivo sufficiente ad esprimere la Realtà di cui si tratta. Così, ad esempio, la “Realtà” ed il correlativo termine, intesi nel significato più coerente, non avrebbero neppure bisogno di precisazioni e di qualificazioni ulteriore quali: “suprema”, “divina”, “principiale”, “totale”, ecc. che sono certamente utili o che diventano necessarie soltanto per far comprendere meglio che, in quel determinato contesto, non deve essere scambiata con un qualunque grado della Realtà, con un qualsiasi rivestimento condizionato di Essa che non costituisce altro che una “possibilità” della Realtà ma non la Realtà stessa concepita nella sua Assoluta Libertà ed incondizionatezza. E tanto meno avrebbero bisogno di accompagnarsi con lodi, espressioni di stupore, elementi di devozione. Del pari, termini come “Principio” per il quale non ci sarebbe neppure bisogno di qualificarlo come “supremo” se non perchè l’essere manifestato possa e debba distinguerlo dalla funzione di “Essere” e da qualunque altro “principio” relativo. E’ solo per far comprendere all’essere manifestato che, in un contesto, si intende un determinato grado della Realtà anzichè un altro più oppure meno elevato rispetto al suo, che si aggiungono certi aggettivi al sostantivo. Così, volendo riferirsi al grado della Realtà che è “in relazione” con la manifestazione e che ne costituisce il “principio immediato”, il “centro”, si usano termini come “Principio dell’esistenza” o come “Essere”; se si intende riferirsi al grado della Realtà in Sé stessa, senza relazioni ma che contiene in Sé tutti i gradi e gli stati della realtà manifestati e non, manifestabili e non, in corso di manifestazione o soggetti a futura manifestazione, si usano termini come “Non essere”, “Principio Supremo”, “Principio Assoluto”, “Principio dell’Essere e del Non Essere” ma si tratta di espressioni che, per quanto più o meno adeguate, sono tuttavia sempre provvisorie e finalizzate a far comprendere il significato del contesto. Usare forme espressive diverse per farne quasi altrettante dottrine o correnti o evidenziare presunte differenze dottrinali che investirebbero presunti limiti dell’Autore, nel campo della vera metafisica ed allorchè si ha a che fare con autentici Maestri ed autentiche Autorità spirituali tradizionali, evidenzia

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veramente una traccia di “satanismo” nel significato ovviamente non morale del termine ma non per questo meno tenebroso.53

La conclusione dell’argomento è che Ibn Arabi può ben legittimamente usare il termine Essenza e tuttavia anche qui il linguaggio è provvisorio; infatti se a volte sembra che si affermi che “Neppure Allah Conosce con la Sua Scienza la Sua Essenza” questo è perchè, quest’ultima, non è oggetto di conoscenza “positiva” che sarebbe in qualche modo “circoscritta” per quanto incommensurabilmente vasta. Basterà però comprendere che è Conoscenza anche la consapevolezza che l’Essenza non può essere afferrata per capire che non si intende affermare un’impossibilità assoluta ma, al contrario, che proprio questa consapevolezza di impotenza è essa stessa Conoscenza proprio perché, ritenere il contrario, sarebbe una forma di ignoranza e di non comprensione. Infatti, con certe espressioni, anche paradossali, si vuole soprattutto sottolineare l’inadeguatezza dello stesso termine “Conoscenza” fosse pure inteso nella sua espressione più eccelsa per designare lo stato di Colui che “Conosce”, ovvero, “non conosce” l’Essenza in quanto non ne è più minimamente distinto essendo Uno con Essa. Per quanto la Vera Conoscenza è l’identità tra conoscente, conoscenza e conosciuto, l’idea umana di Conoscenza (e l’idea non può del resto essere che in questo modo), evoca tuttavia ancora, in qualche modo, una distinzione tra “Conoscente”, “Conoscenza” e “Conosciuto”. E qui, attraverso uno degli usuali ragionamenti che procedono alla larga per giungere al punto, Ibn Arabi arriva a far capire che se la Scienza divina sembra non essere coestensiva all’Infinità dell’Essenza tuttavia proprio quest’ignoranza è Conoscenza. Ma in fondo cosa vuol dire questo apparente sofisma? Non vuol dire altro che ciò che in altre forme tradizionali è espresso con altri concetti più “sobri” e “sintetici”: che il Supremo non può essere Conosciuto che “negativamente”, “in forma negativa” e per privazione; non dicendo ciòè: “è questo” bensì: “neti-neti”, “non è questo, non è questo”. E’ questo implica che allora anche lo stesso termine Conoscenza diventa provvisorio,

53 Ovviamente le qualificazioni e le precisazioni che accompagnano la parola “Realtà” come

nel caso in cui si dice “realtà relativa”, “realtà umana”, “angelica, “divina”, non sono errate nel loro uso ma lo sono soltanto avendo riferimento alla Conoscenza Pura per la quale la Realtà è “Una ed Unica”, Totale e Totalizzante, comprensiva dell’indefinità di tutti i gradi e stati nei quali essa è suscettibile di manifestarsi o di non manifestarsi, essendo, tutti quei gradi e stati, possibilità della sua stessa infinità. Quelle qualificazioni sono dunque necessarie per gli esseri manifestati ancora legati all’apparenza del loro stato e delle loro condizioni ma dal momento che lo scopo è passare dall’apparenza alla Realtà, dall’ignoranza o conoscenza relativa alla Conoscenza vera, dall’errore di prospettiva alla Verità che rende Liberi, è evidente che lo scopo d certe espressioni diventa quello di “anticipare”, almeno nel concetto e nell’immagine teorica più elevata che il mentale può consentire, l’ordine di Realtà di cui si tratta, cioè la Realtà in Sè stessa che, come tale è assoluta, incondizionata, illimitata ed infinita. Quanto poi agli effetti che il riflesso che quest’ordine di Realtà può suscitare sull’essere non ancora Liberato e lontano non solo dalla meta ma anche dalle tappe più elevate che precedono la Liberazione, se è comprensibile e fino ad un certo punto anche necessario che si producano e possano anche accompagnarsi ad una “soggettivazione” anche emotiva e devozionale, questo non vuol dire che costituiscano l’essenziale o siano parte della dottrina stessa e dei suoi contenuti.

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una parola necessaria ma con tutti i suoi limiti. Ecco che con certi giri al largo di parole e di espressioni si vuole far balenare un’evidenza immediata e non “razionalizzabile”; “razionale” si ma non riducibile a semplice razionalità. Questo del resto è il senso di espressioni attribuite ad Abu Bakr o a vari Sapienti secondo i quali il massimo della Conoscenza è infine raggiungere la consapevolezza della propria impotenza a conoscere. Che altro vuol dire questo se non che la Conoscenza suprema non può essere “raggiunta” perché non c’è nulla da raggiungere in quanto tutto è già “ab aeterno” e niente potrebbe essere realizzato se già non lo fosse dall’Eternità? Niente viene “aggiunto”; semmai “viene tolto”; e viene tolto il Velo che impedisce di vedere ciò che è da sempre e per sempre. E questo “togliere” è “Fana” cui segue “Fana al Fanai” (l’”estinzione” e l’”estinzione dell’estinzione”). Infatti, se nell’ottica akbariana la Conoscenza non può raggiungere l’Essenza, questo non costituisce un limite alla realizzazione spirituale ne’ di prospettiva, visto che è poi Ibn Arabi stesso a precisare che l’Essenza non può essere oggetto di scienza (termine che contiene anche l’idea di conoscenza) ma può essere solo “Contemplata” (Mushahadh) o “Veduta” (Ru’yah). Il che, poi, è la stessa cosa che dicono tutte le dottrine metafisiche visto che parla della Conoscenza come della forma pura di Contemplazione attiva e diretta e che i due termini si identificano. Nel più diretto linguaggio usato da Guénon e che è poi quello che viene usato nelle “Vie dirette” come il Vedanta adwaita, si distingue infatti tra Conoscenza e Conoscenza Suprema che coincide, appunto, con la “Pura Contemplazione Attiva”. Conoscenza (Vidya) in sanscrito ha una radice “Vid” che significa appunto “Vedere-Sapere-Conoscere”.

L’argomento è in diretta relazione con il concetto di “Intelletto”: nel linguaggio guénoniano l’Intelletto universale è l’organo della Conoscenza “non suprema” (stati superiori della manifestazione ed Essere) e “Suprema” (la Realtà assoluta) ed un principio fondamentale dell’Opera di Guénon è, secondo un’espressione di Max Giraud: “la Conoscenza identificante dell’Intelletto supremo in relazione con l’idea di “Possibilità Universale... la Conoscenza dell’Intelletto supremo è coestensiva alla Possibilità Universale”. Ora, nella scuola akbariana sembrerebbe che prevalga l’interpretazione secondo la quale l’infinità dell’Essenza non è “oggetto di scienza” non soltanto per ogni essere manifestato, cosa naturale visto che essendo l’Essenza al di la di ogni dualità nulla può comprenderla “dall’esterno” ma che persino la Scienza Divina non sia coestensiva all’infinità dell’Essenza sicchè viene posto come dubbio se la Scienza Divina stessa conosca l’Essenza. E’ evidente che se così fosse, verrebbe a cadere l’idea stessa di possibilità d’identificazione dell’essere con il Supremo attraverso la Conoscenza che l’Intelletto universale consente.

Anche qui si tratta di falsi problemi collegati al diverso uso del linguaggio ma anche di un limite di comprensione dei certe espressioni usate da Ibn Arabi e da altri Maestri di fronte alle quali ci si ferma a metà senza rendersi conto che l’arresto apparente che egli fa è contenuto addirittura qualcosa di più audace di quello che egli vuole negare; in altre parole, egli, quando ad esempio nega la facoltà della “Scienza Divina” (Al ‘Ilm) che è l’Attributo divino che nel linguaggio akbariano corrisponde all’aspetto supremo dell’Intelletto come inteso da Guénon, mentre sembrerebbe segnare un limite all’identificazione, al concetto stesso di “Identità Suprema” in

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realtà con ciò l’afferma in un modo ancor più categorico. Infatti è proprio da questa apparente “limitazione” che Ibn Arabi sembrerebbe presupporre, che poi in realtà prende occasione per affermare ancora una volta il fondamentale principio metafisico, quello più elevato di tutti secondo il quale “Non c’è altra Divinità (Realtà) se non Allah (la Realtà)”. E’ un concetto che, in estrema coerenza, esprime categoricamente che c’è solo una Realtà: “la Realtà” e rigorosamente niente fuori di essa e che non sia compreso in essa. La conseguenza più coerente nel vertice della più completa prospettiva metafisica è che, nella Realtà Suprema (che non è altro che “la Realtà” libera da ogni velo e condizione che determinano i molteplici modi apparire) non c’è realmente niente di tutto quel che appare: ne’ uomini, ne’ ginn, ne’ angeli, ne’ arcangeli; ma neppure lo Spirito o l’Intelletto; infine, neppure la Conoscenza e la Scienza, il Conoscente o Conosciuto, perchè tutti questi termini implicano comunque in qualche modo una dualità, una “relazione”, un’”associazione” che, nella Realtà, non c’è, non c’è mai stata e mai ci sarà. Questo è veramente il vertice conoscitivo e l’affermazione più coerente della dottrina della “non dualità” e del vero Monoteismo che non può non essere assoluto; dell’ ”Unità Suprema senza secondo”.54 Non possiamo non riconoscere che anche M. Valsan ha colto quest’aspetto in Ibn Arabi che è ancor più visibile in Balyani, allorchè (Valsan) dice: “L’Intelletto Primo in quanto realtà distinta dall’Infinità divina non porta mai a compimento la Conoscenza del Principio, da cui procede immediatamente e riceve continuamente

54 Per essere ancora più precisi, varrà osservare che anche in questo caso si tratta di una

questione di limite del significato che viene attribuito allo stesso termine “Conoscenza”. La Conoscenza intesa nel significato più strettamente indù e secondo l’uso che ne fa Guénon, non è la Conoscenza alla quale Ibn Arabi nega il potere di conoscere la Realtà nel suo proprio grado libero da veli e condizioni, cioè, l’Assoluto come Essenza. Ibn Arabi, infatti, usa il termine in un significato ancora relativo, per quanto elevato; come facoltà e possibilità ancora cosmica se non addirittura ancora qualificata secondo la condizione umana probabilmente ritenendo che il termine evocasse inevitabilmente proprio questo limite e non permettesse pertanto di comprendere la natura reale dell’Identità Suprema e della “Non dualità”, e dunque, dell’esperienza della “realizzazione spirituale”. Ecco un altro limite del linguaggio umano suscettibile di suscitare anch’esso un altro equivoco: usare il termine “esperienza” per applicarlo o per esprimere la natura della “realizzazione spirituale” significa quasi inevitabilmente evocare un’idea di “transitorietà” o di qualcosa che si aggiunge alla somma di “esperienze” che la coscienza umana esperimenta o può comunque esperimentare durante la vita dell’essere umano come “un fenomeno episodico” tra tanti, sperimentato da qualcosa che, appunto come la coscienza, rimane ferma in sé stessa, anche se per un certo tempo o in una certa misura coinvolta, davanti al fenomeno stesso che viene così vissuto alla stregua di tante altre esperienze più o meno passeggere o più o meno fissatesi nell’animo umano. In realtà, l’esperienza spirituale nel significato più reale, autentico e realizzativo del termine si riferisce invece ad un passaggio effettivo da una condizione di apparenza alla Realtà o, quanto meno, da un grado di minor realtà ad un altro più elevato e meno condizionato. In parole semplici, il limite che Ibn Arabi sembra tracciare alla Conoscenza e all’Intelletto non è altro che la differenza che in termini indù viene fatta tra la Conoscenza del Non Supremo e la Conoscenza del Supremo, tra la Conoscenza assoluta e quella, per quanto elevata, tuttavia ancora relativa perché limitata all’Essere.

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gli effluvi beatificanti; ma sotto un altro aspetto, poichè l’Intelletto è essenzialmente identificato al Principio (ciò che si ricollega all’idea di Identità dell’Esistenza Universale – Wahdad al Wujyd) ed è così “Principio” e non già “Intelletto”, la sua conoscenza, eternamente e completamente in atto, è coestensiva all’infinità principiale, in quanto Conoscenza di Sé stesso”. Il libro del Nome di Maestà: Allah.

E’ poi l’Emiro Abd el Qadir nel suo “Libro delle Soste” a fornire altri elementi di superamento: “..e Allah vi mette in guardia sul Suo stesso conto (Corano III,28) ossia a proposito della Sua Essenza. Per questo fatto Lui ha ordinato loro di ricercare ciò che possono cogliere, ossia la scienza del Grado della Sua Essenza, grado che è quello della “Funzione di Divinità” (Al Uluhiyya) ecco perchè Lui ha detto: “affinchè sappiate che Lui è solamente una Divinità Unica” (Cor. XIV, 19) e ancora: “E sappi che Lui, non c’è altra Divinità se non Allah” (Cor. XIV, 52). Così la “Funzione di Divinità” può essere oggetto di scienza (tu’lam) perchè può essere colta dall’Intelletto (ma’qulah) ma non contemplabile (la tush-had) mentre l’Essenza, secondo la definizione dei più grandi maestri spirituali di questa comunità, è ciò che non può essere appreso, salvo sotto il rapporto in cui si sa di non poterlo apprendere; la scienza inerente ad Allah consiste nel sapere che Lui non può essere Conosciuto tramite la scienza, e che nulla può comprenderlo ed inglobarlo. Per ogni altra cosa la scienza è il contrario dell’ignoranza, salvo per l’Essenza, perchè la scienza sul Suo conto è l’ignoranza sul Suo conto”.

Sin qui l’Emiro tratta della scienza intellettuale degli esseri manifestati riguardo Dio ma prosegue: “Il Suo privilegio consiste nel non rientrare sotto la comprensione della Scienza che proviene da Lui. La Sua Scienza della Sua Essenza consiste nel sapere che la Sua Scienza non ingloba la Sua Essenza. Una simile Scienza non comporta ignoranza: Lui ha la Scienza sotto il rapporto in cui sa che la natura profonda dell’Essenza impedisce che La si possa circoscrivere, e “ignora”, realizzando allora la “sintesi dei contrari; e Lui solo può riunire i contrari! Quel che diciamo, ed è parola sincera, è che Allah ha la Scienza della Sua Essenza secondo quanto esige la natura di Quest’ultima. Essa è infinita ed impossibile da inglobare pertanto Lui sa che non La si può circoscrivere, e chiunque conosce una cosa secondo ciò che la natura di questa cosa esige non può essere tacciato di ignoranza”. Altrove l’Emiro aggiunge: ”E’ impossibile inglobare l’essenza tramite la scienza; con Scienza è da intendere una delle “Opere” dell’Essenza (Shu’un adh-Dhat), una delle Sue Relazioni, la cui forma è il ricettacolo manifestato e l’Intelletto Primo, scienza che gli iniziati chiamano l’esteriore della scienza” (...) Quanto alla Scienza essenziale (Al ‘Ilm adh-Dhat) che è identica all’Essenza sotto ogni rapporto, essa ingloba l’Essenza perchè Le è identica (li-annahu ‘aynuha) quantunque l’Essenza sia infinita; meglio ancora: non si può dire di una cosa ne’ che ingloba sé stessa, ne’ che non si ingloba. Una notte nei pressi della Moschea sacra mi venne detto: “Dio, sia esaltato, non può essere conosciuto se non grazie al fatto che è l’essenza dei contrari”. Si risposi- Lui è così; al che venne aggiunto: “Ed è così che Lui ingloba la Sua Essenza malgrado la Sua infinità, secondo quanto conviene. E non Conosce Allah se non Allah”.”. Questo punto è stato oggetto di parecchi esami e ha immerso

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nella perplessità gli intellettuali (ahl a ‘uqul) e le genti dello svelamento iniziatico (ahl al kashf). Shaikh Abd El Qadir.55

Appare evidente, come rileva Max Giraud, a chi sappia penetrare il senso delle cose e non rimanga in superficie, che l’Emiro “...distingue due aspetti della Scienza Divina: uno, per quanto principiale, percepisce tutte le “cose” nell’Unità della Funzione divina in cui queste “cose” sono “fuse ma non confuse” secondo l’espressione di Eckhart, e l’altro, totalmente incondizionato, al di la di ogni dualità è identico all’Essenza stessa. E’ la prima specie di Scienza, che Lui chiama anche l’”apparente delle Scienze” (zhahir al ‘ilm) che non può inglobare l’Essenza ma che pure non contiene ignoranza, giacchè afferma di non poter afferrare l’Essenza, conformemente alla natura di Quest’ultima. Il rapporto tra questa Scienza e la Scienza Suprema è espresso da questo passaggio di Shankaracharya tradotto da Guénon: “Di ogni cosa che è suscettibile di divenire oggetto di conoscenza, una conoscenza distinta e definibile è possibile; ma non così è per Ciò che non può divenire un oggetto simile. E questo è Brahma, perchè è il Conoscitore (totale) e il Conoscitore può conoscere le altre cose (rinchiudendole tutte nella Sua infinita comprensione, che è identica alla Possibilità Universale) ma non renderSi oggetto della Sua stessa Conoscenza (giacchè nella Sua identità), che non risulta da alcuna identificazione, non si può neanche fare, come nella condizione di Prajna, la distinzione principiale tra soggetto ed oggetto, che tuttavia sono il “medesimo”, e lui non può cessare di essere Sé stesso, “onnisciente” per divenire “conosciuto in toto”, che sarebbe un altro Sé medesimo”.

Ed ecco infine la chiarezza intellettuale di Guénon che con il linguaggio della più pura e libera espressione metafisica precisa: “La Conoscenza considerata in sé e indipendentemente dalle condizioni afferenti a qualsiasi stato particolare, non può accettare alcuna restrizione, e per essere adeguata alla verità totale deve essere coestensiva non solo all’Essere ma alla Possibilità Universale stessa, ed essere

55 Al fondo delle cose e a ben osservare, le precisazioni che Ibn Arabi fa sul limite

dell’Intelletto e della conoscenza allorchè si tratti dell’Essenza, non corrisponde in fondo alla differenza che il Vedanta fa tra la Conoscenza del “Non Supremo”, cioè, dell’Essere e quella del “Supremo” che per il fatto di essere tale non può più definirsi in alcun modo essendo ogni termine ed ogni forma di linguaggio assolutamente inadeguata a descriverla tanto che la stessa analogia e gli stessi termini intelletto e conoscenza diventano infine inadeguati per esprimere ciò di cui realmente si tratta? Se non può correttamente affermarsi che l’Infinito è raggiunto, conosciuto, realizzato; se non può coerentemente affermarsi che cosa il Supremo “è” ma soltanto approssimarsi per esclusione e in negativo “che cosa non è” come precisano tutte le dottrine metafisiche di tutte le tradizioni, non significa dire la stessa cosa che “è inconoscibile” come dice Ibn Arabi? E non affermano forse i Saggi del Taoismo e del Vedanta che “il Supremo non lo Conosce se non chi non lo conosce”? Simili espressioni non sono forse identiche a quelle riferite ai sapienti dell’Islam allorchè affermano paradossalmente: “Il massimo della conoscenza è l’ignoranza e giungere alla consapevolezza dell’impossibilità e dell’impotenza a conoscere”? Ma il senso reale di queste paradossali espressioni è correttamente compreso dai nostri professori e da coloro che ritengono di vedervi un limite alla “realizzazione spirituale” e alla Liberazione?

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quindi infinita come lo è necessariamente quest’ultima. Ciò vuol dire che conoscenza e verità, così considerate metafisicamente, non sono altro in fondo che ciò che noi abbiamo chiamato, con un’espressione peraltro imperfetta, “aspetti dell’infinito”; ed è quanto afferma con particolare chiarezza questa formula, che è una delle enunciazioni fondamentali del Vedanta: “Brahma è la Verità, la Conoscenza, l’Infinito” (Satyam, Jnanam, Anantam Brahma). E ancora: “L’Intelletto, in quanto principio universale, potrebbe essere concepito come il contenitore della conoscenza totale ma a condizione di non vedere in ciò che un semplice modo di dire, perchè, trovandoci in questo caso essenzialmente nella “non dualità” contenente e contenuto sono assolutamente identici, dovendo entrambi essere ugualmente infiniti; ed essendo una “pluralità di infiniti” come si è già detto un’impossibilità. La Possibilità Universale che comprende tutto non può essere compresa da nulla se non da sé stessa, ed essa comprende sé stessa senza comunque che questa comprensione esista in alcun modo”; perciò non si può parlare in termini correlativi dell’Intelletto e della Conoscenza , in senso universale, se non come abbiamo parlato più sopra dell’Infinito e della Possibilità, ossia vedendoci una sola e stessa cosa, che consideriamo simultaneamente sotto un aspetto attivo e sotto un aspetto , ma senza che ciò costituisca alcuna reale distinzione”. (Réné Guénon: Gli stati molteplici dell’essere).

G Qualcosa di più che una semplice ignoranza?

Rileggendo queste poche righe e considerando che il linguaggio di Guénon è

così scarno, sobrio, chiaro, lucido, intellettuale e così libero da “poesia”, divagazioni e immagini che non siano l’essenziale forma del puro pensiero metafisico, ci viene decisamente da osservare che deve esserci veramente qualcosa di oscuro nella sottile ostilità che qualcuno sembra nutrire verso la Sua Opera anche quando mal si cela dietro un’apparenza di difesa. Qualcosa di oscuro misto ad una sorta di “rabbia” contenuta come chi avverte che egli mette a nudo l’animo occidentale e quello dell’uomo moderno con il quale, malgrado tutto, ci si sente solidalmente accomunati. L’improvviso amore per quei Maestri portato sino allo svisceramento delle regole della metrica sembrerebbe quasi essere, o essere stato, funzionale alla sola necessità di ridurre le evidenze che con Guénon erano inquietantemente emerse in loro e fuori di loro. Sarà necessario citare direttamente Ibn Arabi per evidenziare come, la miglior difesa del metodo di Guénon proviene proprio da lui come del resto c’è da aspettarsi quando si comprende l’essenza dell’insegnamento metafisico? Sono dello stesso Ibn Arabi le parole: ”La terza cosa (gli Archetipi) non è ne’ qualificata dall’esistenza ne’ dalla non esistenza, ne’ dalla temporalità ne’ dall’eternità (a parte ante) ma è sempre stata con l’Eterno dall’eternità (...) Non è esistente ne’ non esistente (...) ma è la radice stessa (cioè la base ontologica) del mondo (...) poichè è a cagione di quella terza cosa che il mondo entra nell’esistenza. Essa è quindi la realtà essenziale di tutte le realtà del mondo. E’ una realtà universale ed intelligibile

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sussistente nell’Intelletto che appare come eterna nell’Eterno e come temporale nel divenire cosicchè se tu dici che questa cosa è il mondo sei nel vero e se tu dici che è l’Assoluto, l’Eterno, sei pure nel vero. Ma tu hai ragione anche che essa non è ne’ il mondo ne’ l’Assoluto ma qualcosa di diverso da entrambi. Tutte queste affermazioni sono vere nei suoi riguardi. Perciò si può dire che sia la realtà più universale comprendente la temporalità (huduth) e l’eternità (qidam). Essa si differenzia nella molteplicità delle cose esistenti e tuttavia non è divisa dalla molteplicità delle cose esistenti ma da quella degli intelligibili. In breve non è ne’ esistente ne’ non esistente. Non è il mondo e però è il mondo. E’ “altro” e però non è “altro” “ (Ibn Arabi – Kitab insha’ir al ihatiyya”.

E’ questa la più bella risposta a tutte le perplessità dei seminatori di divisione ma forse l’effetto potrebbe essere soltanto un aumento di perplessità.56

Sarà forse appena il caso di fare un’ultima precisazione sull’argomento:

l’Intelletto universale nella metafisica indù (Buddhi) è considerato come la prima produzione di Prakriti (la sostanza “fecondata” dall’essenza Purusha) dunque è la Prima manifestazione, la più elevata e “prossima” al Principio inteso come l’Essere. Qui l’Intelletto universale è la stessa cosa dello Spirito (Ruh), del Verbo o della Luce che sono altrettanti termini che designano la stessa realtà sia pure con particolarizzazioni diverse com’è soprattutto nel caso della Luce. Questo stesso fatto fa comprendere da solo che ciò che è al di la e che lo precede, logicamente ed ontologicamente, non può essere conosciuto attraverso questa facoltà per cui vi è perfetta concordanza tra le due tradizioni. Perchè allora si afferma, e Guénon lo conferma, che la Liberazione (che coincide con la realizzazione dello stato incondizionato, del Supremo, dell’Assoluto) può essere ottenuta attraverso la Conoscenza e che l’Intelletto è l’Organo e la facoltà della Conoscenza? La ragione è in fondo semplice: L’Intelletto è il “Raggio” che collega tutti gli stati della manifestazione al “Sole spirituale” dal quale promana; è dunque soltanto attraverso di esso che può pervenirsi al Sole spirituale, allo stato dell’Essere; ma una volta stabiliti nel “Sole spirituale” è il Sole stesso che contiene e supera il Raggio e che coincide

56 Ma infine, allorchè Ibn Arabi afferma che la Conoscenza e l’Intelletto non possono

cogliere l’Essenza e l’Assoluto e poi rivela che tutto ciò che è e che esiste, dunque tutta la realtà manifestata e non manifestata, manifestabile e non manifestabile con tutti gli esseri, altro non sono che “auto-manifestazioni dell’Assoluto” (non soltanto dunque espressioni dell’Assoluto ma auto-manifestazioni...) non significa già aver dato sufficienti indizi per far comprendere “chi” e “che cosa” sono, oltre le apparenze ed i veli, gli esseri manifestati? E perché, ed in virtù di che cosa, essi possano “Conoscere” la loro stessa essenza? E l’ingiunzione del Profeta che invita a non meditare “sull’Essenza di Allah ma solo Suoi Attributi”, non vuole, infine, significare proprio che la Conoscenza della Realtà Suprema non è raggiungibile che le facoltà manifestate, per elevate che siano, ma soltanto in virtù della stessa essenza che non può essere oggetto di “meditazione”, di “riflessione”, di “speculazione”, di “immaginazione” ma invece soltanto di “Contemplazione diretta?” che è esattamente ciò che ogni dottrina metafisica afferma?

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con la Luce stessa e non già con un riflesso, per quanto diretto, di essa.57 Se dunque è solo attraverso il Raggio che si “perviene”, si “conosce” o si “contempla”, come ci si voglia esprimere, il “Sole”, una volta passati dalla prospettiva del Raggio a quella del Sole, ben si comprende che è il Sole stesso a Conoscere Sé stesso coincidendo in Lui il contemplante, il contemplato e lo strumento della contemplazione. Se potrà allora benissimo continuare a parlare di “Intelletto” applicato alla realtà divina come quando si parla di “Intelletto divino” o di “Intelligenza universale” che sono diversi dall’intelligenza cosmica e dall’Intelletto manifestato quando si abbia chiaro che si tratta di analogia e quando si consideri che in fondo l’Intelletto manifestato è la stessa facoltà dell’Intelletto immanifestato, però, con la fondamentale differenza che, nel primo caso, è la facoltà che “guarda verso la Fonte” dalla quale promana e che appare “esterna”; mentre, nel secondo caso, è la facoltà attraverso la quale l’Essere contempla e conosce Sé stesso ed in quanto “rivolta verso Sé stesso” senza tuttavia che vi sia distinzione alcuna tra l’Essere che si Conosce e si Contempla e quella stessa facoltà attraverso la quale ciò avviene. La difficoltà a comprendere questa indistinzione tra l’Essere e la facoltà, è legata soltanto alle condizioni di separatività limitatrice che caratterizzano lo stato umano, e dunque, ai limiti delle facoltà conoscitive degli esseri in esso manifestati.58

57 Ricordiamo anche qui, ancora una volta e a costo di apparire ripetitivi sin quasi alla noia,

che termini come “prossimità”, “avvicinamento”, “raggiungimento” ecc. utilizzati per designare la “realizzazione spirituale” e le tappe della Liberazione dell’essere manifestato sono provvisori ed inadeguati a designare ciò di cui realmente si tratta ed è solo per un limite del linguaggio umano caratterizzato dalle condizioni di tempo, spazio e forma che siamo costretti ad impiegarli mentre, nella “Realtà pura”, libera da condizioni di ogni genere e definita secondo i vari linguaggi con l’aggiunta dell’attributo “divina” oppure “assoluta” o “suprema”, essendo immutabile, eterna e permanente, “approssimazione”, non c’è mai nulla che possa considerarsi “uscire”, “emanare”, “entrare” o “tornare “ in essa visto che, fuori della Realtà Unica e Totale, non v’ è alcun’altra realtà.

Le peggiori confusioni e quelle che a buona ragione possono in certi casi definirsi eresie, nascono proprio dalla dimenticanza di questa importante quanto elementare considerazione sulla differenza di condizioni relativa ai vari piani dell’esistenza e ai limiti del linguaggio umano oltre che delle forme espressive.

58 Questa uguaglianza e differenza ad un tempo tra l’Intelletto, primo e più elevato grado della manifestazione universale (prima manifestazione di Prakriti secondo il Vedanta) e l’”Intelletto divino” immanifestato ed immanifestabile che appartiene solo all’Essere e che, solo, conduce sino alla Conoscenza del Supremo, può esprimersi con l’immagine della “Saggezza divina” simboleggiata in Dante da Beatrice; in effetti l’Intelletto superiore (agente, universale, attivo, di cui l’intelligenza umana è solo il riflesso passivo) nonostante la sua trascendenza, è già solo un’espressione nel dominio della manifestazione. Se è allora consentito, come fa Guénon, definire l’Intelletto come la facoltà di ordine universale grazie alla quale è possibile conseguire la Conoscenza fino al massimo grado del Supremo che è l’incondizionato (conseguendo dunque la Liberazione per mezzo della Conoscenza) è perchè, intanto, è solo attraverso l’Intelletto universale che si può pervenire al limite estremo che separa i più alti stati della manifestazione universale e l’Essere, e poi, perchè oltre quel grado della manifestazione l’Intelletto (Raggio celeste) è in realtà riconoscibile per quello che realmente è, vale a dire, come il Sole stesso, “Luce e Fonte di Luce, piena” dal quale promana; per cui, indicare nell’Intelletto il mezzo della Conoscenza totale e suprema, non è affatto errato quando si vuole trasmettere un insegnamento iniziatico e non fare

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L’ignoranza di alcuni presupposti fondamentali è dunque all’origine della confusione che i “professori”, come del resto quelli che nell’ambito delle varie tradizioni sono gli “exoteristi”, fanno allorchè si imbattono nei testi di autentici Maestri spirituali e della Gnosi in genere.59

soltanto delle speculazioni filosofiche dove cominci a tiranneggiare solo la dialettica. In effetti esiste anche un uso “satanico” della dialettica quando, ad esempio, arrestando ad ogni piè sospinto il filo dell’intuizione durante l’esposizione di una dottrina metafisica attraverso obiezioni che fanno dimenticare il potente e provvidenziale strumento dell’analogia e i limiti del linguaggio umano allorché si considerino ordini di realtà superiori e meno condizionati, si paralizza ogni possibilità di comprensione ed ogni sviluppo completo dell’argomento affrontato. E’ questa una delle ragioni per le quali noi insistiamo ripetutamente, ogni volta che usiamo certi termini, a precisare che l’espressione o l’immagine, inappropriata per designare un certo ordine di realtà è l’unica o tra le uniche comunque adatta a suggerire ciò di cui si tratta, con l’ausilio dell’analogia e sempre “in attesa” che si innesti l’”intuizione intellettuale” che la rende interiormente comprensibile per quell’“illuminazione” che svela è rende chiare le realtà di ordine superiore.

59 D’altra parte confusioni sul genere di quelle che abbiamo finora esaminate non sono le uniche: ci siamo ultimamente imbattuti in un’altra presunta “incompatibilità” o contrasto, questa volta tra Guénon e Dante allorchè il primo afferma che il potere temporale deve tradizionalmente essere soggetto all’autorità spirituale mentre Dante ne affermerebbe l’autonomia tra i due poteri nei loro rispettivi ambiti. Ecco un altro incredibile esempio di confusione: quando mai Dante considera l’idea di un’autonomia nel significato moderno e laico del termine? E’ evidente che si tratta di un’autonomia pratica ma non di principio visto che il “potere temporale” deve essere illuminato dai principi della “fede” e dalla conoscenza tradizionale. Se Dante non insiste sulla subordinazione vera e propria è perché il “papato” e l’autorità spirituale della sua epoca e della sua propria tradizionale non rappresenta, ne’ tanto meno esaurisce, la Conoscenza totale comprensiva anche dell’esoterismo, della Via iniziatica e della metafisica visto che, al contrario, la Chiesa stessa era responsabile insieme al potere temporale rappresentato dal re di Francia Filippo il bello, del “rogo dei Templari” e dalla persecuzione dei gruppi iniziatici ed esoterici che erano costretti a celarsi dietro varie forme. Fermandosi alle differenze di linguaggio senza portarsi al cuore dell’insegnamento trasmesso, in Dante, ad esempio, ancor più potrebbe sorgere l’equivoco di un diverso insegnamento se si pensa che, contrariamente al linguaggio più coerentemente potuto adottare da Guénon, Dante, come ben precisa L. Lieudat, quando usa il termine “metafisica” lo fa solo per designare “...null’altro che la “filosofia prima”, ossia quella parte della filosofia teoretica che considera “un al di la delle cose visibili” ma che è ancora una scienza relativa e che è ben lungi dall’essere la saggezza ultima; per contro, è alla “teologia” (allora non più considerata soltanto alla maniera dell’exoterismo – ns. nota) di cui parla Dante a costituire la vera e propria metafisica nel senso di Guénon”. Il vero iniziato che abbia le qualificazioni giuste sa riconoscere immediatamente dietro le differenze di espressioni lo stesso, unico insegnamento come sa riconoscerlo dietro le differenze apparenti delle stesse forme exoteriche.

In fondo, nonostante le pretese e le dichiarazioni d’intento dei vari “professori”, non è forse questo un modo ancora propriamente exoterico di approcciare insegnamenti, Maestri e dottrine che rientrano nell’ambito esoterico ed iniziatico? Non è, infatti, proprio dell’ambito exoterico di qualsiasi forma tradizionale, l’attitudine di fermarsi, come paralizzati, alle differenze di linguaggio, al simbolo senza comprendere il simboleggiato, alle apparenti differenze e/o opposizioni, incapaci di scorgere il fondo comune costituito dall’Unica, essenziale Verità?

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In tutti i casi di apparente contrasto che abbiamo esaminati, si tratta, vale

ancora ripeterlo, di una questione soltanto di linguaggio; e Guénon, dovendo svolgere una funzione universalmente accessibile, ha usato un linguaggio che permettesse a chiunque, da qualsiasi forma tradizionale fosse partito, di riconoscere i dati fondamentali della Conoscenza metafisica, dell’esoterismo e della Via iniziatica, permettendo di riscoprirli anche nella propria forma tradizionale, se del caso, comprendendoli attraverso le chiavi di una semplificazione provvidenziale che permettesse di liberare l’essenziale dall’accessorio, il dato puro metafisico dall’immagine, dall’espressione forzatamente connessa a questa o quella forma tradizionale. Nei Maestri spirituali legati ad una data forma tradizionale, soprattutto se a rivestimento “religioso”, l’affermazione di determinati concetti metafisici deve spesso passare attraverso l’utilizzo di un’immagine presa dalla forma per poi elevarsi ai significati più alti e profondi. Così, dovendo parlare della “Realtà Suprema” intesa come il grado della Realtà nel suo stato puro ed incondizionato, un Maestro del Tasawwuf deve partire dall’idea stessa di “Dio” e non può farlo che assumendola inizialmente nella sua valenza più accessibile e comunemente intesa sicchè chi legge certi scritti è condotto lungo tutto un processo dialettico e logico che oscilla tra la lode, il devozionismo, l’immagine antropomorfa, la fedeltà all’espressione letterale del Testo sacro e l’obbligo di non abusare di espressioni paradossali anche quando sarebbero utili supporti per favorire una comprensione del concetto ed un passaggio oltre l’attitudine esteriorista. Lentamente il discepolo viene stimolato a superare l’immagine più esteriorista di Dio inteso come “un essere” e condotto alla comprensione del significato più profondo di “Essere” sicchè viene introdotto in una dimensione della realtà più profonda dove Dio non è quell’immagine quasi formale che comunemente viene intesa o percepita ma è il Principio sovra-formale che non e qualcosa di “duale” con il quale “relazionarsi” ma è la radice profonda del proprio essere. E’ un processo lento, delicato, che non deve turbare e che dalla semplice “fede” mira a condure all’evidenza, alla partecipazione attiva e dove il sentimento cede il posto, prima alla ragione e poi all’Intelletto e dove deve svelarsi il senso intero dell’esistenza, la sua ragion d’essere e la soluzione del Mistero che la pone. Partendo da una base exoterica è un lavoro di costante penetrazione, di rivelazione del simbolo, di svelamento, di progressione dottrinale per giungere a una formulazione completa della dottrina. Questo implica uno sviluppo del linguaggio che non sempre può giungere alle vette più ardite della metafisica pura in modo immediato e diretto perchè un dato scarno e sintetico può provocare reazione e può essere equivocato ed altre volte può creare illusioni e rami di eterodossia. Questo è ciò che sembrano non aver capito alcuni che, partendo dall’Opera di Guénon al quale pur debbono tutto, si trovano a loro agio allorchè possono trovare, attraverso il linguaggio di alcuni scritti dei Maestri del Tasawwuf, quel coinvolgimento emozionale che accompagna il rivestimento religioso e che, con il loro atteggiamento, danno prova di aver solo provvisoriamente abbandonato allorché ebbero il primo impatto con l’esoterismo nelle forme espresse da Guénon; e di averlo fatto non senza un sacrificio che in fondo evidenzia gran parte della loro vera natura e

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delle loro effettive aspirazioni. Non si deve credere, infatti, che assumere un atteggiamento critico e professorale che altro non fa che evidenziare un orgoglio intellettuale peraltro ingiustificato, significhi essere esenti da un’attitudine sentimentale e limitatamente esteriorista; al contrario: la storia dell’Occidente insegna come, anche quei pretesi intellettuali che si sono impegnati in saggi critici contro la religione, cristiana o in generale facendo sfoggio del loro ateismo, nelle loro argomentazioni non sono riusciti mai ad andare oltre un bavoso moralismo frammisto a un sentimentalismo della stessa natura di quello che volevano criticare, nonostante le ostentazioni di razionalità. La critica al letteralismo religioso, ad esempio, non ha saputo fare altro che ridursi a forme di ironica derisione di dogmi della fede quali la verginità della Madonna, la presunta contraddizione tra la Bontà di Dio e la presenza di malattie, di ingiustizia e del male nel mondo e banalità del genere che evidenziano un fondo intellettuale comune tra la piccola religiosità, l’esteriorismo in genere e l’attacco alla religione caratterizzante soprattutto il limite di un tipo umano come l’”uomo moderno” più che una differenza di opinioni o di idee. Non è forse questa una conferma che, i limiti e la natura di quelli che si pretendeva di criticare (cioè i religiosi ed in particolare gli exoteristi più ottusi) sono esattamente gli stessi di chi criticava e che questi ultimi della Spiritualità non possono in fondo comprendere niente di più di quelli che essi criticano e che identificano con la Spiritualità stessa. L’attitudine di chi crede nel modo più letterale e grossolano alle forme espressive e simboliche del linguaggio è esattamente la stessa di coloro che si accingono a criticarle tanto da poter ben affermare che i primi come i secondi non possono essere qualificati per altro che per la più esteriore forma di exoterismo nella quale si esaurisce tutta la realtà della Spiritualità ad essi accessibile. Per paradossale che possa sembrare, gli uni e gli altri sono degli exoteristi inguaribili; anche quelli che si applicano a criticare l’exoterismo; e lo sono tanto da poter tranquillamente affermare che, anche quando per assurdo avessero un ripensamento sui dati di fede che si sono applicati a criticare e volessero aprirsi ad una forma di Spiritualità, il loro posto e la loro collocazione non potrebbe essere diversa da quella di coloro che si sono prima applicati a criticare60.

Dicevamo che una dottrina metafisica, allorchè si fermi all’Essere puro, non può considerarsi completa e mancherebbe del dato fondamentale costituito dalla conoscenza e consapevolezza della “non dualità” che è la conseguenza stessa e la risposta più coerente alla domanda essenziale sul significato della Realtà . Infatti se la Realtà fosse costituita soltanto dalla Personalità Divina che è identica all’Essere Puro, non sarebbe possibile neppure concepire l’”Identità Suprema”, la Realtà Unica, il Vero Monoteismo nel suo aspetto iniziatico ed esoterico e lascerebbe persistere in qualche modo e nonostante i tentativi di aggiustamento dialettico o i rifugi di un fideismo dogmatico, la contraddizione assoluta di un dualismo irriducibile che non

60 Ovviamente diversa sarebbe la questione se la critica alle figurazioni di questa o quella forma exoterica fosse stata in vista di evidenziare il limite della loro interpretazione esteriorista e strettamente exoterica per stimolare una più profonda comprensione.

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può spiegare ne’ il senso, la natura e l’origine della realtà relativa ne’ tanto meno della Realtà Totale che, come tale, non può che essere Assoluta, Omnicomprensiva ed Unitaria. Infatti la Personalità Divina costituirebbe il limite di sbarramento che renderebbe assoluta la funzione dell’Essere ed insuperabile la stessa dualità che, pur transitoria essendo in funzione della Manifestazione, tuttavia sussiste finché si considera un qualunque stato di questa. 61

Una metafisica che si ferma all’Essere è costretta a ricorrere ad altre immagini che sottendono la risoluzione della dualità evitando di affermarla dottrinalmente e concettualmente, parlando di “Unione”, “riassorbimento”, “partecipazione” ed espressioni analoghe che, tuttavia, contraddicono la natura più profonda della

61 Ricordiamo ancora una volta che nella prospettiva delle lingue indo-europee e in quella

latina l’Esistenza è la Natura, la Manifestazione intesa in tutti i suoi stati e gradi, individuali ed universali, fino all’Essere escluso che, essendo il Principio della manifestazione, non è soggetto ad alcun limite inerente la manifestazione stessa e la trascende. Laddove invece si abbia la cura di precisare che il termine Esistenza viene inteso come sinonimo di “Realtà Totale” (come è nella lingua araba e nel linguaggio di Ibn Arabi, distinguendo l’Esistenza manifestata da quella Non manifestata ed immanifestabile, allora è evidente che non vi è alcuna contraddizione dottrinale tra le due forme di espressione perchè non sono due prospettive dottrinali ma la stessa espressa in termini diversi. In questo secondo caso è allora evidente che il Principio venga definito come l’Unico veramente pienamente esistente (a sé stesso) mentre ogni altro essere è contingente, una parvenza di realtà e di esistenza, una partecipazione, un’ombra, un riflesso incompleto di Esistenza. E’ però innegabile che, checchè se ne dica e malgrado le preferenze, la distinzione formale di linguaggio tra esistenza ed Essere rende più chiaro ed immediato il concetto dei differenti gradi di realtà ed evita moltissime confusioni. Forse molti preferiscono mantenere l’idea di “esistenza” parlando anche di ordini di Realtà che sono oltre, perché gli risultano più familiari i termini e perchè mantengono un’immagine del Divino più vicina ai limiti ed alle raffigurazioni che la mente umana reclama ed alla prospettiva exoterica che, bene o male, continua ad influenzare anche molti di quelli che si incamminano in una Via iniziatica e reclamano pretese esoteriche e metafisiche con un’attitudine che sembrerebbe frammista ad un certo “timore” e quasi ad un “senso di colpa” per l’audacia che osa concepire l’idea stessa di “non dualità” e di “Identità Suprema” ma la Verità, soprattutto nel suo massimo grado, non deve rendere conto di nulla; anzi è il diritto più inalienabile. Certamente possono esistere ragioni di opportunità perchè essa sia “graduale” e “velata” in certe condizioni e proprio perchè non venga profanata o mal compresa per il limite di comprensione dei della stragrande maggioranza degli uomini ma questo è un altra cosa. Del resto proprio da questa esigenza trae legittimità e necessità lo stesso “exoterismo” e la funzione di ogni Rivelazione con i suoi peculiari rivestimenti; infatti, se la Verità deve svolgere a vari livelli una funzione di “salvezza” o di Liberazione degli uomini, attraverso la sua comprensione e la sua Conoscenza, non produrrebbe questo frutto per la maggioranza di essi se venisse rivelata nel suo aspetto più intellettualmente metafisico e, come tale, incomprensibile per loro. Questo legittima ma solo se non divenga una vera e propria forma di persecuzione dell’esoterismo nel nome di un letteralismo puro, non solo la prudenza ma anche a volte il rigore delle autorità esteriori (dei “dottori della legge”) rappresentanti dell’exoterismo, allorchè l’esoterismo uscendo proprio dal suo riserbo che la sua stessa natura e funzione gli impone, diventa una forma dilagante di confusione che finisce, infine, col tradire se stesso e danneggiare la funzione di “fede” dell’exoterismo che non è mai un’espressione concorrenziale o alternativa dell’altro ma il necessario “velo”, rivestimento (la “scorza che racchiude la polpa ed il nocciolo, dicono i Maestri) della Verità... ma tutto insieme: scorza, polpa e nocciolo costituiscono il frutto mancando uno dei quali non c’è il frutto stesso.

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Conoscenza metafisica per la quale, nonostante l’uso necessario ma provvisorio di tali parole, non vi è mai alcuna “uscita” ed alcun “ritorno”; alcuna “ri-unione” ed alcuna “separazione”, alcun “fuori” ed alcun “dentro”, alcun “esteriore” ed alcun “interiore”, alcuna “trasformazione” ne’ alcun “divenire”, tutte espressioni inapplicabili ed impossibili da concepirsi riguardo la Realtà Totale (in un certo linguaggio designata come “Realtà Divina”) persino quando ci si attenga alla pura e semplice teologia che è l’aspetto più elevato dell’exoterismo ma che solo di poco si avvicina ad una partecipazione di una qualunque concezione veramente metafisica.62 E’ pur vero che l’Essere è metafisicamente concepito anch’esso come uno stato e non come “un essere” speciale e distinto ad immagine di “un dio” ma è soltanto nel “Non Essere” inteso ovviamente come “ciò che è al di la dell’Essere” (e non “al di qua”, designando quest’ultimo, la manifestazione tutta intera e, solo per una particolare estensione negativa del termine, ciò che è “negazione dell’essere”, vale a dire l’opacità volontaria e comunque “invincibile” ed anche la “resistenza” ad ogni penetrazione e partecipazione di Luce riflessa dell’Essere) che può concepirsi

62 Su questo i Maestri del Tasawwuf più rigorosamente metafisici come Ibn Arabi, Ibn

Sab’in ed Al Balyani (Vedasi: Il trattato dell’Unità di quest’ultimo) e nell’induismo vedantiano advayta Shancaracharya, sono “vertiginosamente” incalzanti ed evidenti.

Sarà il caso di precisare ancora una volta che, anche espressioni come “Realtà Divina” anzichè “Realtà Totale”, sono il frutto di una scelta di opportunità di linguaggio e, nella prospettiva metafisica, non vogliono affatto significare che esista una “realtà parziale” o “relativa”, parallela, contrapposta, “accanto” e neppure “subordinata e sottostante” alla “Realtà Divina”, cioè al Principio in Sé stesso (a Dio, quando si continui ad usare in metafisica questo termine) perchè la Realtà è sempre e soltanto Una ed Unica anche se agli esseri contingenti appare “graduata” secondo le condizioni che la caratterizzano e secondo le quali si manifesta. La qualificazione “divina” accanto a Realtà non vuole significare che viene distinta da altri ordini di realtà, umano, ecc. ma solo che tutti quelli non sono che “modi di apparire”, “veli”, aspetti condizionati, minor gradi di realtà, possibilità “in sovrappiù” della Realtà Totale in Sé stessa (un “sovrappiù” che in realtà non aggiunge nulla ma è un semplice modo di espressione per suggerire quella Verità altrimenti inesprimibile). Il linguaggio è sempre provvisorio ma la dottrina è identica: così quando il Vedanta puro afferma che la realtà condizionata è “illusione”, “sogno”; non nega affatto la realtà relativa ne intende affermare che si tratta di un’allucinazione ma intende invece “apparenza” rispetto alla Realtà Reale che è Nuda e Libera da condizioni esistenziali; e con quella espressione “illusione” vuole solo evidenziare che, quando l’uomo si attacca tenacemente ed invincibilmente ad essa credendo con ciò di renderla permanete e reale o la scambia per una realtà unica ed assoluta ma nel suo aspetto limitato quale essa appare (cioè materiale e animica), vive una tremenda illusione che conferma e rafforza la sua ignoranza ed il suo destino caduco. L’espressione “Realtà Divina” vuole dunque significare, nella metafisica islamica, la Realtà Pura e Semplice, Unica, quale essa è e non già “qualcosa” che appartiene ad “un essere” ad esclusione di altri e che può essere dato o negato. La “Realtà Divina” è ciò che “vedono”, ciò che “realizzano”, ciò che Conoscono, coloro che sono passati dall’apparenza alla Realtà, dalle condizioni di questo o quello stato o grado dell’esistenza, alla “visione” Reale della Realtà, quale essa realmente è: la Pienezza dell’Essere ed oltre ancora. E ciò non per un “dono” o un’aggiunta che venga concesso o apportato alla loro natura, prima relativa, ma per il fatto che l’apparenza della loro natura relativa era un’ignoranza, un’apparenza ed è ora superata dallo svelamento che è Conoscenza della natura reale del loro essere e che implica, per ciò stesso, la Visione e la realizzazione della Realtà così come essa è da sempre e per sempre nella Sua Permanenza.

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l’Identità Suprema perchè è in quello stato che cessa ogni “relazione” ed ogni “funzione”. Però è pur vero che nella forma di linguaggio che la metafisica assume nella tradizione islamica, in Ibn Arabi e negli altri, l’Essere, non essendo considerato soltanto nella sua funzione di “principio della manifestazione” che è oltre l’esistenza ma come la Pienezza stessa dell’Esistenza che, allora, non è più intesa solo come “l’esistenza manifestata” che è dominio delle condizioni limitative e delle “Qualità” che, per quanto elevate sono tuttavia “condizioni” e “limiti” rispetto alla Pienezza e Totalità dell’Essere, può in tal modo venir considerato come “principio della manifestazione” (cioè, in questa prospettiva, dei gradi dell’esistenza manifestata e manifestabile) ma anche concepito come “Essere Assoluto” nel quale allora, può ben risolversi il superamento di ogni “dualità” e come “..l’incontro tra il Servo ed il Suo Signore dove non è più ne’ l’uno ne’ l’altro.” secondo le espressioni del Tassawwuf. A questo punto non sarà inutile precisare qualcosa che dovrebbe comunque essere già abbastanza evidente ma che non è mai troppo ribadire: come abbiamo già rilevato, nella prospettiva metafisica e nel linguaggio dell’esoterismo (ovviamente intendendo quello autentico e non le sue contraffazioni) i termini e le nozioni di Essere e Non essere, non designano “un essere” specifico e singolare pur concepito come un soggetto perfettissimo e dotato di potenza, saggezza, bontà e qualità infinite ma essenzialmente uno “stato”, “ la condizione priva di condizioni” (l’espressione pur contenendo una contraddizione intrinseca a causa dei limiti del linguaggio umano è l’unica adatta a far comprendere ciò di cui si tratta) caratterizzata dall’ “unità”, dalla “centralità”, dalla “pienezza” e dalla “totalità” nella “permanenza”. E’ lo stato dell’Unità cui perviene Colui che ha annientato in sé stesso tutto ciò che si oppone all’Unità stessa, che costituisce dispersione, molteplicità, false identificazioni con questa o quella condizione, con questa o quella condizione di apparenza della realtà. In questa condizione di “Unità”, Colui che vi perviene (può dirsi anche “gli esseri che vi pervengono” per usare un termine che però non è più appropriato in quanto evoca ancora una molteplicità che contraddice l’Unità; ma ancora una volta è solo un limite del linguaggio umano) sono “Uno”, uniti, “fusi ma non confusi”. Come insegnano i Maestri spirituali: “nell’Essere tutti gli esseri sono “Uno”, “fusi ma non confusi”. Dalla sintesi dei versetti coranici (ayatal kursi, surat Ihlas, ecc.) che più specificatamente riferiscono ciò nei termini : “..Allah- Lui (AllaHu... Quella Realtà non c’è altro che Lui) che non è colto ne’ da torpore ne’ sonno, eterno, permanente, ne’ generante ne’ generato, Uno ed Unico in Sé” questo insegnamento appare evidente. Quel “Hu”, come spiega più volte Ibn Arabi, nel Corano non è soltanto il grammaticale pronome personale di terza persona (lui) ma il sostituto del Nome Supremo altrimenti inesprimibile (più che inconoscibile come comunemente si traduce o ci si esprime) perchè riferito all’Essenza dell’Assoluto sicchè più che nel “personale” “Lui” che designa più propriamente un soggetto inteso come una persona, va inteso come l’impersonale “Quello” che designa più un Ordine di Realtà o meglio, la Realtà pura e semplice che, soltanto rispetto ai vari gradi di realtà relativi, ai gradi e alle apparenze può definirsi “Realtà Suprema” o “Realtà Divina” (come altri Maestri fanno) ma che, in realtà, designa la Realtà pura e semplice, cioè, libera da veli, condizioni e modalità, siano esse manifestate, non manifestate,

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manifestabili o no. Non si spiegherebbe in altro modo il fatto che quando, riferisce all’Essenza, il Corano non usa il pronome di prima persona “Io” o “Noi” come pur fa quando nel Corano Allah detta una Regola o un comando, ma, come se riferisse ad “un altro”, usa il termine “Lui”. Poichè tutto il Corano è considerato Parola diretta di Allah che “parla” (attraverso l’Arcangelo Gabriele al Profeta e poi il Profeta agli uomini) non avrebbe altro senso che l’”Io” o il “ Noi” divenga poi “Lui” visto che è lo stesso Soggetto che parla.63 Di più: quel “Noi” (plurale majestatis) è indicativo di una “Molteplicità nell’Unità” dove tutti gli esseri pervenuti all’Unità, sono riuniti nell’Unità e sono “Uno”. Ecco come ciò illumina altre espressioni coraniche secondo le quali i “servitori perfetti” sono “Uno con la Volontà del Loro Signore” riconducendole alla dottrina dell’”Identità Suprema”.64

Vi è infine un’altra considerazione da fare: potrebbe infatti ritenersi che la “spersonalizzazione” del concetto di Essere principio dell’Esistenza e più ancora di “Principio Supremo”, principio dell’Essere e del Non Essere, riduca l’Essere e più ancora il Principio Supremo, ad un qualcosa di indistinto, e che il significato di “principio impersonale” voglia alludere a qualcosa di inconcepibile ma non soltanto

63 “L’Assoluto rivela Sé stesso a Sé stesso ” fa comprendere Ibn Arabi. “Questa è una diretta

automanifestazione dell’Essenza (Dhat) di cui l’invisibile è la realtà e attraverso questa automanifestazione l’”ipseità” è attualizzata. Si è giustificati ad attribuire o’”ipseità” stante il fatto che (nel Corano) l’Assoluto designa Sé stesso col pronome “Lui”. L’Assoluto (a questo grado) è eternamente e permanentemente “Lui” per Sè stesso”. (Fus. Pag. 146/120).

64 “Il primo “svelamento” avviene nello stato di “estinzione” (fanà) nell’Assoluto. In questo stato, l’uomo che contempla e l’oggetto contemplato non sono altro che l’Assoluto. Ciò è detto “unificazione” (jam). Il secondo “svelamento” è detto “permanenza” (baqa) che segue l’estinzione. In questo stato spirituale, le forme del mondo “creato” si mostrano ed appaiono l’una all’altra nell’Assoluto stesso, tuttavia qui la Realtà agisce come uno specchio per le creature e l’Uno Si differenzia nel molteplice attraverso le innumerevoli forme di cose. La realtà (dello Specchio) è l’Assoluto e le forme (che appaiono in esse) sono le creature. Le creature, in questa esperienza, si conoscono vicendevolmente rimanendo purtuttavia distinte l’una dall’altra” (Al Qashani – Com. Ibn Arabi).

Occorre precisare che il termine “creato” e “creatura” nel significato esoterico e metafisico non comporta la limitazione che assume nell’exoterismo e nella teologia ma implica soltanto l’idea di “dipendenza”, di una realtà che non ha in sè il suo principio ed è esistente e relativamente reale in funzione di un Principio fuori di se che la pone. Se nella forma essa ha un inizio temporale con la “vita” in realtà non ha inizio quanto all’”origine” essenziale che coincide con l’Essenza divina, con il Sé permanente e che risiede nella Possibilità Totale infinita. Il termine “creatura” si riferisce dunque all’apparenza (umana o di altra specie ivi compresi gli esseri universali) e quello di “creazione” non ha a che vedere con l’idea di “creazione dal nulla.” cioè di qualcosa che è fuori dal Principio; designa invece propriamente che questa “creazione” avviene come atto intemporale (sovratemporale) e ab aeterno “da niente che sia fuori dal Principio”. vale a dire più propriamente: “ tratta dal Principio stesso” e da null’altro che sia estraneo ad Esso. Come farebbe del resto ad esistere o ad avere una sua realtà “qualcosa” che è fuori dal Principio che essendo l’infinito nulla può escludere o avere fuori di Sé? E soprattutto come farebbe questo qualcosa ad essere un “niente” dal quale può poi trarsi qualcosa? Su ciò: “Creazione e manifestazione” di René Guénon.

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in quanto supremo ed altrimenti inesprimibile bensì nel senso di indistinto, indistinguibile, quasi “irrazionale”, “caotico”, “sub-formale”. Questo, in realtà, mentre è un limite della mentalità “occidentale” (ereditata dal mondo classico, soprattutto greco) abituata a considerare “perfetto” (persino nell’arte) soltanto il “finito”, il “compiuto” da cui deriva anche che il “cosmos” è ciò che dal “caos” trae “forma” ed “ordine”. Nella realtà, la “forma” è propriamente il “limite”, la condizione che contorna una cosa. Ma questo non vuol dire che il “caos” è più del “cosmos” e che il Principio si identifichi a ciò che precede il “cosmos”. Il “caos” sono infatti le “potenzialità” da cui il Principio, che trascende entrambi i gradi della realtà, “trae” la forma e “comanda, dispone, ordina l’ordine” per usare una frase un po’ paradossale. Parlando di ciò che è “al di la della forma”, “ oltre la Personalità” non si intende ciò che “precede” la forma ma ciò che è “oltre” essa (secondo del resto il significato proprio del termine “trans-formare” = andare oltre la forma); sicchè si intende il “sovra-formale” non il “sub-formale” e si intende l’” illimitato” non l’” indeterminato”, in senso di indistinto, di confuso, di potenziale o di caotico. Questo discorso si applica tanto più all’Essere e al Non Essere. Quando si dice che la “Personalità Divina” (“Io”, “Noi”) è il Principio che si pone quale Essere in rapporto all’esistenza intesa come la manifestazione e che la “Impersonalità Divina” (Lui, Quello) designa il Principio in Sé stesso, l’Assoluto, il Supremo, non si intendono due esseri o due realtà distinte, l’uno meno limitato o superiore all’altro ma l’Unica Realtà, considerata in Sé stessa o in relazione alla manifestazione, quale “centro” di essa. Il “Non essere” è il “centro” dell’Essere, l’Essere è il centro dell’esistenza intesa come la manifestazione.65 Da quanto abbiamo poc’anzi chiarito, consegue un’ulteriore necessaria considerazione: potrebbe ritenersi che la “spersonalizzazione” del concetto di Essere o la qualificazione del termine “Personalità Divina” nel significato “sovra-individuale” che il termine “Persona e Personalità” e l’evidenziazione del fatto che l’Essere è soprattutto uno “stato” e non un “soggetto” designato come “un essere” portino in se, nuovamente, il pericolo di una sorta di astrazione del concetto di Essere che non sembrerebbe più conciliarsi con il fatto che, nei Testi sacri, l’Essere, definito come Dio, o chiamato con Nomi quali Allah, Brahma, Iswara, Jahwe, secondo le varie tradizioni, si rivela, Parla, Ode, Esorta, Giudica, Rimprovera, Loda e si attribuisce Volontà, Personalità, Attività, contrapponendosi al “creato” ed alla “creatura” come una realtà ben distinta e quasi come “un essere” per quanto inaccessibile e non limitabile in qualità umane o super-umane. Ora, per quanto va ribadito in termini categorici che il concetto di “Essere” e di “Personalità Divina” non designano affatto “un essere” ne’ tanto meno “un individuo” che come tale possieda un corpo o una forma di qualunque natura, aspetto ed estensione voglia immaginarsi o concepirsi, va ugualmente precisato che, tuttavia,

65 (Ovviamente se per Esistenza si intende non solo la manifestazione ma tutta la Realtà

compresi i gradi di non manifestazione cioè immanifestabili, secondo la radice araba, allora è ovvio che il termine Essere designa il “Centro” di tutto ma allora ci sarà un’ulteriore distinzione in seno all’Essere considerato in Sé stesso o in rapporto all’esistenza manifestata e limitata.

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poichè se è vero che “il meno non contiene mai il più” tuttavia “il più contiene il meno” e poichè ogni grado della realtà traduce, per analogia, ciò che appartiene al grado più alto della Realtà secondo il rapporto “macrocosmo-“microcosmo”, ciò che appare nella forma e nella realtà umana, ha comunque un rapporto di analogia con i gradi della realtà superiore, ed infine, con il grado supremo ed incondizionato di cui ogni cosa è “possibilità” o, secondo il linguaggio di Ibn Arabi, “automanifestazione” (ovviamente solo degli “aspetti” o meglio delle possibilità manifestabili). Questa precisazione implica pertanto che l’Essere, pur essendo principialmente “uno stato” (considerato ovviamente non già come uno stato tra tanti altro ma come lo “stato di centralità” dell’intera esistenza e di tutti gli stati di manifestazione, lo “stato” per eccellenza, il “centro trascendente” di tutte le condizioni, modalità e limiti degli stati manifestati e manifestabili, l’Uno che contiene in se tutta la possibilità della serie indefinita dei numeri e delle cose, il “Punto immanifestato” e privo di dimensioni che contiene in se tutta la virtualità dell’estensione indefinita) che possa essere “attualizzato” e “realizzato” (meglio dire Conosciuto o “Ri-conosciuto”) da Coloro che percorrono la Via, possa nel contempo considerarsi come “Personificato”, come “Soggetto Divino” suscettibile di possedere “in sovrappiù” tutto quello che appartiene agli stati dell’esistenza. E se l’Essere è “Uno e Molti” e i Molti sono Uno, è concepibile come l’Essere possa auto-qualificarsi nelle Rivelazioni come “Io” o come “Noi”. Ed è concepibile come possa porsi quale Legislatore divino, essendo l’Ordinatore, il Reggitore (Conservatore) e l’Annientatore (Trasformatore) dell’intera manifestazione. Ed è concepibile come Quella “Volontà” non sia un Arbitrio ma la perfetta traduzione dell’Armonia e dell’Ordine cosmico, secondo Conoscenza, Sapienza, Saggezza, Giustizia, Equilibrio e Verità. Ed è allora anche comprensibile perché l’Essere non possa mai manifestarsi direttamente in quanto immanifestabile ed irriducibile alle condizioni limitative di qualunque stato dell’esistenza manifestata e perchè ogni Rivelazione avvenga allora per il tramite di un “Arcangelo” all’uomo. La Realtà centrale è trascendente rispetto ai limiti degli stati di manifestazione e non può mai entrare “in Sè stessa” e con la propria infinità (anche se l’Essere non esaurisce l’intero infinito che è totalizzato dal Supremo, dall’Assoluto trascende tuttavia tutti i limiti dell’esistenza manifestata) nel finito. Il “contatto” deve dunque essere stabilito per un “tramite”; ma questo tramite non è esteriore all’Essere ne’ all’essere relativo con cui è stabilito. Infatti nell’esteriore il tramite se si manifesta come un arcangelo (nel caso Gabriele come l’annunciatore di Maria) e come una “discesa” sul Profeta, nell’interiore Gabriele corrisponde all’Intelletto universale che, “riattivato” nel Profeta, gli consente di ascendere alla Fonte della Rivelazione, “...finchè fu alla distanza alla distanza di due archi o meno...” come si esprime il Corano. (An Najm 9).66

66 Ecco come il Tajalli (svelamento) assume due significati, uno “ascendente” ed uno

”discendente”. La Verità ovvero la Realtà si svela via, via che l’iniziato procede nel suo Viaggio ascendente verso la Conoscenza (la Liberazione, l’Incontro, il Volto di Allah, l’Ascesa verso il proprio Signore) e scopre i significati dei segni, dei simboli, delle tracce divine; e, riguardo ad Allah, il Tajalli è la Rivelazione stessa; innanzi tutto “di Sé stesso a Sé stesso allorchè dall’Essenza assoluta l’Assoluto si pone come l’Essere e “Si Conosce”; poi, rivestendosi di Veli e di Qualità

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Questo fa comprendere come possa indistintamente affermarsi che il Corano, come tutti i Testi sacri, è la Rivelazione dal grado dell’Essere Principio dell’Esistenza (o se si vuole, da parte dell’Essere come prima inteso) e come, ad un tempo possa considerarsi come l’acquisizione da parte del Profeta attraverso l’Intelletto Universale in Lui agente e dal grado della Realtà Divina dell’Essere Puro, della Volontà di Quella stessa Realtà e come essa sia la traduzione Autentica, Vera e Fedele di quella Realtà. Allo stesso modo può dirsi che Gabriele è l’Intelletto Universale stesso che, attivo nel Profeta, ha permesso il contatto effettivo con la realtà dell’Essere Legiferante e la traduzione del linguaggio universale dell’Essere nel linguaggio umano oppure che l’Intelletto Universale ri-attivato nel Profeta è identificato all’Arcangelo stesso senza che tra le due cose vi sia alcuna dualità, se non dall’esterno. Questa identificazione è possibile proprio in virtù del fatto che tra un determinato stato dell’essere e gli esseri che lo occupano non vi è alcuna differenza e distinzione come quando si dice che lo stato umano equivale all’uomo e l’uomo equivale allo stato umano.

Questo vale per qualunque altro stato dell’esistenza individuale o universale. Gli stati angelici possono essere considerati pome “stati” e condizioni oppure in relazione agli esseri che li occupano e li realizzano (gli angeli o gli Arcangeli che occupano, i primi la periferia di quegli stati e i secondi il centro allo stesso modo di come di cui gli animali ed i vegetali occupano la periferia dello stato umano e l‘uomo il centro). Per l’iniziato sono importanti gli angeli ma è ovvio che ancora più importanti sono gli stati corrispondenti in sé stessi per il semplice fatto che egli non aspira al contatto in sé stesso con gli angeli per qualche vana curiosità o vaghezza mistica bensì quegli stati offrono per lui interesse per il solo e ben più importante fatto che possono essere da lui stesso realizzati essendo gli stati superiori del suo stesso essere e non qualcosa che attiene ad altri. E’ poi inteso che questo stesso interesse esiste in quanto questo costituisce una tappa del processo di Liberazione, cioè, della Conoscenza totale che deve condurre fino all’Essere ed oltre, fino allo “stato incondizionato” che è l’Assoluto, il Supremo.67 permette i gradi dell’esistenza manifestata e quindi di essere Conosciuto attraverso quelli. Quest’ultima Opera è un Tajalli che “svela” ma nel contempo “vela” perchè per essere conosciuto deve rivestirsi ma se non si rivestisse non potrebbe essere Conosciuto. Nel Tajalli “ascendente”, allora, Colui che procede nella “realizzazione ascendente” eseguo il processo inverso al “Tajalli divino” in quanto deve pervenire dall’apparenza alla Realtà e risolvere, cioè, togliere i veli che erano stati posti nella manifestazione del mondo, per Conoscere la Realtà.

Questo processo così descritto nel linguaggio della metafisica islamica può essere tradotto in molti altri modi ma l’insegnamento è lo stesso. L’esistenza (sempre intesa secondo la radice latina) è la manifestazione delle possibilità di manifestazione che l’Infinito porta in Sé nella sua Possibilità Totale che è, appunto, infinita e queste possibilità non sono che gradazioni della Realtà Totale, “attenuazioni”, rivestimenti di condizioni” via, via più grossolane quanto più sono lontane dalla Fonte, dalla Perfezione.

67 Ecco perchè le immagini più appropriate per designare in qualche modo la Realtà dell’Essere o del Supremo sono “Oceano”, “Avvolgimento”, Spirito (ma non più inteso soltanto come il Ruh, lo Spirito “creato”, cioè, manifestato ma come quando si dice “lo Spirito di Dio” per intendere l’Essenza) oppure “Soffio”; ma non lo sono più per l’Essenza (assoluta e non quale mero correlativo di sostanza) per la quale Ibn Arabi usa unicamente l’immagine della “Nube” rifacendosi peraltro ad un hadith del Profeta.

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Questa identificazione tra lo “stato” e l’Angelo, consente di affermare che il Corano è veramente la Rivelazione dell’Essere effettuata per il tramite di Gabriele e che Gabriele è identificato nell’occasione con l’Intelletti Universale del Profeta. Chiunque occupa un medesimo grado dell’esistenza universale e dell’equivalente Conoscenza effettiva, è “uno” con gli altri esseri che lo occupano; anche qui “fuso ma non confuso”; ed è questa la ragione per la quale si può parlare di “tipologie spirituali” e di “funzioni” dove, un Profeta o un Maestro possa essere considerato la riapparizione di un altro precedente senza che questo significhi la riapparizione della stessa individualità o dello stesso essere. La stessa cosa vale per quelle che sono le cosiddette “rassomiglianze spirituali” dove una tipologia profetica o spirituale rende simili anche nel volto certi esseri; si parla, appunto, di “tipologia cristica”, “mosaica” o “mohammadiana”.

A questo punto, dopo le considerazioni che abbiamo svolte sull’esistenza, l’Essere e il Non essere, non dovrebbe risultare difficile constatare come, nel caso prima esaminato circa presunte divergenze tra Guénon ed Ibn Arabi non si tratti minimamente di una differenza di prospettiva che (quella di Ibn Arabi) “recupererebbe” l’Esistenza e la considererebbe in un modo diverso da chi (Guénon) l’avrebbe invece limitata alla sola Manifestazione ma si tratta soltanto di un’estensione del termine oltre il limite del linguaggio letterale ed in virtù del fatto che la radice della diversa lingua araba lo consente contenendo in sé anche un significato di “Vera Pienezza”. Questa precisazione però, se consente di capire perchè Ibn Arabi può agevolmente utilizzare un’immagine anzichè l’altra, non giustifica i “professori” che sembrano aver trovato un oceano nel quale sguazzare con le loro sottili distinzioni, le loro disquisizioni e, in fondo, con i loro alibi individuali dietri i quali “attenuare” l’impegno di una applicazione coerente della dottrina nella loro vita. Ed è qui che, ancora una volta, giungiamo al nodo principale della questione: perchè improvvisamente gli ambienti accademici hanno scoperto la “bellezza” del “pensiero islamico”, della “poesia islamica”, della dottrina intima di un Islam prima osteggiato o emarginato? E perchè, se navigano volentieri tra un testo e

L’osservazione di qualcuno secondo la quale considerare l’Essere (e a maggior ragione il Non essere) non più come “soggetto individuale e individualizzabile e la “Personalità divina” come qualcosa che non riferisce ad “un essere” particolare e specifico (il Dio antropomorfo e secondo l’immagine più comune) cioè la “Persona-individuo” significa contraddire il concetto stesso di “adorazione di Dio”, di “Volontà divina” e di “obbedienza” a quella volontà e privare di senso gli atti di culto, i riti e la devozione stessa su cui si fonda la religione, nella prospettiva esoterica non ha il minimo pregio ed evidenzia soltanto un’incomprensione profonda dell’autentica realtà spirituale, quali che possano essere le apparenze esteriori di chi solleva simili obiezioni. Nella realtà, mentre sono i Testi sacri stessi, quando si comprendono veramente, a proclamare che “Dio” non è limitabile o comparabile a nulla di ciò che l’uomo può immaginare, attribuirgli o pensare, quello che semmai risulterebbe contraddetta è l’immagine “dualista” e tutta esteriore dell’adorazione oltre che il suo significato limitato all’immagine di un culto. L’adorazione di cui parlano i Testi sacri, esotericamente equivale a qualcosa di molto più profondo, come del resto l’”Unione”, la “Volontà divina”, la “sottomissione e l’obbedienza” , la “riconoscenza”, il “riconoscimento”, il “ritorno a Dio”, il significato dei riti, ecc. Del resto anche altri argomenti come la “purificazione”, la “concentrazione”, la “meditazione” e la “contemplazione” nella prospettiva iniziatica ed esoterica acquistano tutto il loro più pieno ed autentico significato che non è quello limitatamente “morale”, “doveroso”, “sentimentale”, “votivo”, “mortificatorio” e “devozionale” come vorrebbe la prospettiva più estremisticamente exoterica.

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l’altro dei vari Maestri del Tasawwuf, ignorano o mettono in ombra Guénon? La risposta viene quasi automatica cominciando con l’osservare che il senso profondo di tutti i testi di esoterismo e di metafisica si riassume in fondo in un insegnamento base che è la partenza e l’arrivo di tutto: la consapevolezza che questa vita con tutte le sue angosce, aspettative, corse, bramosie, non ha senso e che è un passaggio nel quale operare sin da qui quello che si definisce “distacco”; “morire prima di morire”. Il “distacco”, un’attitudine che non ha a che vedere con la “rinuncia” che è invece una disciplina, una “mortificazione” o se vogliamo un “sacrificio” ma nel senso morale del termine e che implica una “sofferenza” considerata come una “virtù”. In realtà il “distacco” può essere, e generalmente è così, qualcosa di assolutamente naturale ed innato in alcuni esseri predisposti ad un’aspirazione verso l’universale; in chi presente, per una tendenza innata, il senso delle cose umane come prive di valore rispetto a qualcosa che anticipa il senso dell’eterno. Ma questo “distacco” è anche la cosa più difficile di tutte da accettare, anche da digerire ma anche soltanto da capire perchè è un sentire più che un “pensare”. Ed è difficile per molti pur attratti dal fascino di certe dottrine vissute solo nel mentale. Eppure il “distacco” è la base, la chiave che facilita la comprensione di certe dottrine; il punto di partenza e, paradossalmente, di arrivo ad un tempo. Il “distacco” è “disgusto” ma senza atteggiamento e disprezzo per le cose “piccole” e “meschine”; per la “falsità”, piccola o grande che sia: è il presupposto e la caratteristica ad un tempo, della “nobiltà spirituale”, della “libertà interiore”, dell’aspirazione verso la Verità. E’ l’opposto dalla volontà di apparire, del bel parlare o del parlare per il gusto di parlare e di guardarsi; è invece l’esigenza ma non impetuosa bensì calma e serena ed infine riservata, di parlare soltanto per “testimoniare” una Verità; per rendere partecipi senza alcun vanagloria e per totale assenza di egoismo altri che sinceramente evidenziano di aspirarvi, dello stesso “gusto spirituale” che si sta assaporando; ma è anche “distacco dai frutti” dell’azione. Distacco dal risultato dell’impegno. Nella prospettiva islamica corrisponde a quella che viene definita: “sottomissione ed accettazione della “Volontà divina” (che è anche la traduzione letterale della parola Islam), qualunque cosa accada e qualunque sia il risultato dell’azione. Azione agita con il distacco da ogni aspettativa umana, egoistica e sentimentale. Azione per la Verità e la giustizia in sé stesse, senza attesa di ricompense ed effettivamente senza ricompense; senza attesa o desiderio di risultati, senza riconoscimenti; senza aspettative. Azione senza desiderio, lecito o meno che sia; legittimo o meno che sia. Azione compiuta per il superamento dell’azione stessa; per il superamento di sé stessi e come strumento non come fine. Azione compiuta per misurare ma senza alcun compiacimento ed alcuna sfida, la resistenza del proprio “io”, dei propri attaccamenti, delle proprie passioni, della propria sincerità nell’aspirazione verso le cose eterne e l’universale o, se si vuole, verso i riflessi di queste nel mondo purché non siano questi i veri inconsapevoli scopi cioè la ricerca di una soddisfazione o di una ricompensa umane. “Distacco” perché non può essere diversamente... tanto è innato e connaturale nel proprio essere l’evidenza della caducità della nullità delle miserie umane e dei risultati del mondo. Azione, infine, che non porta in sé più neppure il desiderio, l’aspettativa o l’intenzione di portarsi oltre il desiderio, di verificarsi, di pervenire al

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distacco perché il vero distacco è quello che è già tale; quello di chi è già libero. Ma in ogni caso... non si perverrà mai a questo distacco finale, se il distacco non è già componente nobile del proprio animo; come dicevano gli Alchimisti: “..per produrre oro bisogna già averne”; qualcosa che ha valore persine nelle applicazioni più esteriori e profane di questa espressione perché una verità è vera a tutti i piani.68 Per paradossale che possa apparire ai “professori”, non abbiamo alcun timore nell’affermare che, sul piano del linguaggio e della chiarezza espositiva è sicuramente più Guénon che spiega Ibn Arabi che non viceversa. E questo lo ripetiamo ancora, non già perchè vogliamo dire che Guénon ne’ sappia di più o di meno sul piano della dottrina e della metafisica ma perchè Guénon è stato libero, grazie al relativismo della nostra epoca, di poter usare un linguaggio che in un contesto sociale rigidamente confessionale sarebbe potuto apparire persino “scandaloso” e suscettibile di grave conseguenze. Un’epoca dissacrante e dissacrata come quella attuale presenta almeno l’unico vantaggio che, una Verità ardita come quella della “Realtà Una ed Unica” con la conseguenza inevitabile dell’ “Identità Suprema” che porta con se, può essere enunciata apertamente senza che susciti scandalo; e ciò non soltanto in quanto non è affatto compresa ma perchè non interessa più ormai quasi nessuno ne’ in sè stessa ne’ come apparente opposizione al dualismo creaturistico ed assoluto. Essa non scandalizza più nessuno ormai; non crea alcuno scandalo o turbamento; al contrario, diventa forse l’unica Luce capace di scuotere le tenebre almeno per i pochi che possono ancora capire e sfuggire ai lacci e alle seduzioni della realtà relativa. Questo è forse il significato ultimo del versetto Coranico: “(infine) scaglieremo la Verità contro la falsità... e quella la dissolverà”.

Quelle che abbiamo evidenziato, e soltanto quelle, sono la ragioni delle apparentemente diverse conclusioni cui a volte sembrano pervenire in certi punti Guénon ed Ibn Arabi ma anche altri Maestri tradizionali. Le cose sono in questo modo quando si abbia a che fare con autentico Maestri delle diverse forme tradizionali ma esiste un’eccezione quando si abbia invece a che fare con i sostenitori dell’exoterismo, soprattutto nella sua dimensione più esteriorista.69

68 Al “distacco” in tal modo coerentemente inteso, si accompagna anche l’idea di “povertà”

che, se non è necessariamente la “povertà” in senso economico, non la disprezza, non la teme e non la rifugge con ogni mezzo ma sa, infine, anche accettarla ove fosse inevitabile e segno di significativi imprevisti. “Povertà” e “semplicità” sono anche i compagni di una vita che non cerca complicazioni, arrivismi, affermazioni e competizioni ma tende all’armonia, alla pace, all’equilibrio e all’ordine pur senza rigorismi insensati o, peggio, ipocrisie a contenuto sociale.

Varrà ripetere che mentre il vero “distacco” è un effetto della Conoscenza e a un grado più basso una qualità che può essere innata in quanto anticipatrice della conoscenza, esiste anche un “distacco” che, come la “rinuncia” è ancora soltanto una disciplina.

69 Alla distinzione classica tra “esoterismo” ed “exoterismo” che è la stessa distinzione tra

“Gnosi” e semplice “religione” (beninteso la Vera Gnosi e non lo gnosticismo che ne è se non la contraffazione quanto meno l’esteriorizzazione) potrebbe aggiungersene un’altra che è il prodotto degli ultimi secoli: l’”esteriorismo” che è un ulteriore esteriorizzazione dello stesso exoterismo tanto da rendere quest’ultimo quasi irriconoscibile ed impossibilitato a potersi ricongiungere con la

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In quest’ultimo caso le cose stanno diversamente; infatti, mentre gli autentici rappresentanti di una tradizione esoterica ed iniziatica quali in Occidente erano le correnti gnostiche, pitagoriche, ermetiste e rosacrociane; oltre quelle eredi del templarismo, fino alle confraternite dei “Fedeli d’Amore” e della “Fede Santa” cui aderivano anche Dante e Cavalcanti, allorchè usavano termini come “Filosofia”, “Fede”, “Teologia”, “Amore”, “Sapienza”, “Saggezza”, ecc. lo facevano in un significato trasposto a quello ordinario e che superava il senso morale e la sfera del mero pensiero, i comuni filosofi e teologi, gli eruditi e gli studiosi dell’esteriore trasponevano, invece, tutto nella sfera del pensiero umano e dell’ipotesi filosofica e/o scientifica. Un esempio aiuterà meglio a capire la portata di quest’affermazione e le fondamentali implicazioni che ne derivano.

Tutte le diatribe intellettuali, palesi e nascoste, che si susseguirono per secoli in Europa dal Medio Evo in poi e che apparivano come scuole di pensiero divise da quelli che sembravano soltanto apparenti contrasti filosofici, erano, in realtà, testimonianze discrete e “coperte” di una lotta sotterranea tra la consapevolezza di una Conoscenza metafisica che continuava a trasmettersi nella riservatezza e nel segreto delle organizzazioni iniziatiche, da una parte, e di quell’exoterismo che era ormai prevalente, se non addirittura esclusivo, nella sfera religiosa rappresentato dalla Chiesa, dall’altra parte.

La partita si giocava su un punto fondamentale: il ruolo del “pensiero filosofico” e della conoscenza in relazione al loro effetto sulla natura umana e sul processo realizzativo dell’essere e il ruolo di quella Rivelazione su cui la Religione dominante fondava la sua autorità e rivendicava in modo esclusivista e monopolista la sua funzione salvifica, produttrice di effetti trascendenti sulla natura umana, altrimenti considerata caduca. In ultima analisi, tutto il problema si riassumeva nella nozione di Intelletto, sulla sua natura, funzione e possibilità.

Contro questo monopolio assoluto aa corrente esoterica ed iniziatica che si continuava a trasmettere in modo sotterraneo e riservato nei i secoli attraverso le iniziazioni ai “Misteri”, le Scienze tradizionali, le Corporazioni, le Arti e i Mestieri, oltre ciò che restava delle antiche iniziazioni cavalleresche, rivendicava all’uomo una facoltà ed un potere insito nella sua propria natura in virtù della presenza in lui di una facoltà di ordine trascendente, rappresentata dall’Intelletto, facoltà verticale superiore alla semplice ragione che costituisce, invece, una facoltà di ordine soltanto orizzontale ed umana.

In quest’ottica, in virtù dell’Intelletto agente, l’uomo può superare i suoi limiti conoscitivi, ascendere alla sfere superiori ed universali dell’essere e conseguire una Conoscenza superatrice della condizione umana che lo rende simile agli angeli e lo

sua natura più profonda e tale da impedire quasi completamente il passaggio dalla lettera allo spirito. Di quest’ulteriore riduzione dello spirito tradizionale e della Conoscenza tradizionale, ci occuperemo forse, se ce ne sarà dato il tempo e l’occasione, in uno studio a parte, per ora ci limitiamo soltanto a tracciare nel testo gli esempi di quello che è il limite del linguaggio usato dall’exoterismo allorchè sembri utilizzare i termini della metafisica e della “filosofia” per condurre a quella che viene definita “teologia”.

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introducesse ulteriormente verso l’Essere e verso la Liberazione da tutte le condizioni limitative dell’esistenza manifestata. Questa conoscenza, che costituiva già una certa base di una conoscenza e di un insegnamento di carattere metafisico, non era ovviamente considerata in se stessa sufficiente ad operare un tale risultato giacché, finché rimaneva sotto forma di trasmissione di un mero dato dottrinale, non era altro che “filosofia” anche se considerata nel suo significato più elevato e tradizionale. A questo dato doveva, infatti, accompagnarsi la trasmissione di un’”influenza spirituale” (iniziazione) che rendesse nuovamente agente e riattivasse la facoltà dell’intelletto, “dormiente” nell’uomo delle età successive a quella primordiale e a quella immediatamente successiva e una serie di riti e tecniche proprie della tradizione, Arte, Mestiere o Scienza, cui si era ricollegati essendovi in essa gli strumenti simbolici di appoggio sui quali agiva la necessaria meditazione riattivante. Tuttavia, una filosofia che, anche senza poter trasmettere gli altri elementi “tecnici” e rituali trasmettesse già questa consapevolezza che è come un “ricordo” ed un’”eredità” primordiali era considerabile un bene prezioso ed una fonte di verità; da cui, l’alta considerazione che taluni ambienti riservavano alla filosofia tradizionale.

Ovviamente, tanto più significativi erano quegli ambienti che, oltre a possedere questa consapevolezza, eredi dell’insegnamento primordiale, possedevano anche gli altri mezzi tanto da poter essere considerati “centri iniziatici” e “vie iniziatiche” complete. Per questi ambienti, allora, la filosofia era soltanto un mezzo di “copertura”, un’occasione speculativa per testimoniare quell’insegnamento superiore parallelo all’esclusivismo e al monopolio sulla spiritualità che l’exoterismo e il sacerdozio ufficiale rivendicavano per sé stessi soltanto.

E’ in questa partita che si inseriscono gli strumenti e i “messaggi” che gli ambienti si scambiano. La corrente exoterica che deteneva il potere formale, allorchè per una ragione o per l’altra è costretta a prendere atto della “filosofia” come è stato per tutto il medio evo e i secoli successivi, è stata costretta a confrontarsi con il “pensiero filosofico” subendone a volte anche la forza impositiva soprattutto quando appariva indubbio che la filosofia veicolasse un insegnamento che, pur prescindendo dall’autorità religiosa e dai dati della Rivelazione, evidenziava fin troppo chiaramente che nell’uomo è presente una capacità intellettiva che è capace di giungere ad intuizioni elevatissime circa le Verità di ordine universale e metafisiche, anche senza, e prima, che una qualche Rivelazione o influenza religiosa, si ponesse come testimonianza di una rivelazione divina agli uomini, circa la Verità di un superiore grado della Realtà rispetto a quello umano e corporeo espresso nella modalità di una manifestazione della Volontà dell’Essere nell’esistenza. La spaccatura tra gli ambienti collegati ai “Misteri”, alla Via iniziatica e all’esoterismo da una parte e quelli più specificatamente legati alla “via religiosa” propria della Rivelazione dominante, dall’altra, si verificava proprio su questo punto principale. La filosofia tradizionale era la punta emergente, l’abito esteriore attraverso il quale gli ambienti iniziatici potevano dimostrare che esisteva ancora una “via diretta” di comunicazione effettiva dell’uomo con quell’ordine di Realtà che supera la sfera puramente umana e più limitatamente naturale che, invece, il dominio religioso riservava esclusivamente a sé stesso e al campo di una Rivelazione della quale si faceva e si fa erede e

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rappresentante esclusivo. In questa prospettiva era ed è indiscutibile che l’uomo può conoscere e sapere di un ordine di realtà sovrannaturale e trascendente i limiti della propria natura umana soltanto attraverso la Rivelazione di un Principio che si pone, nell’immagine religiosa, come “un essere superiore”, “un Dio”.

In realtà la presenza di una corrente spirituale che soltanto da un certo momento in poi si è manifestata come “filosofica” che precedeva persino le varie Rivelazioni, testimoniava il contrario ed è proprio questo fatto che ha imposto alle autorità dell’esteriore, di appropriarsi della filosofia, di non negarla ne’ condannarla ma anzi di utilizzarla, però subordinandola come “ancilla fidei”, supporto accessorio della “fede” e della religione ufficiale con tutti i suoi dogmi. E’ così che tutti gli sforzi delle autorità exoteriche si sono concentrati nel ridurre la portata della “filosofia”, anche quella più spiritualista e vicina all’effettiva Conoscenza metafisica. Una riduzione che si preoccupava soprattutto di porre in ombra proprio il dato fondamentale e riaffermare che l’uomo non possiede una facoltà intellettiva che trascende la sua individualità umana e che possa elevarlo alla comprensione delle realtà di ordine superiore e sovrumano perchè questa conoscenza può venire solo in modo “discendente” per rivelazione da parte dell’”essere superiore” che si manifesta agli uomini. In una parola: non è vero che l’uomo è dotato, neppure virtualmente, dell’Intelletto trascendente; egli ha bisogno della “grazia discendente” che, sola, può elevarlo alla comprensione e forse persino all’esigenza del Divino.

Queste posizioni estremiste ed esterioriste urtavano contro tutte le testimonianze dell’autentiche espressioni della Spiritualità tradizionale di tutti i tempi ma all’esclusivismo spesso settario degli exoteristi questo non importava, andava riportato in ombra. A volte quest’attitudine era necessariamente imposta dal riserbo, dalla natura stessa dell’insegnamento esoterico e metafisico, dalla necessità di salvaguardare la “fede” e gli equilibri sociali specie dei meno qualificati intellettualmente per evitare smarrimento e turbamenti ma non di rado è stata determinata da un’invincibile ignoranza dell’autentica Spiritualità e da un’incapacità di portarsi oltre il simbolo e i condizionamenti umani e sentimentali che prevalgono non solo nella stragrande maggioranza degli uomini ma anche in molte autorità exoteriche; quando ovviamente non siano soltanto espedienti di conservazione del potere e delle proprie posizioni, infatti la paura e la speranza sono gli ingredienti migliori per la conservazione del potere e del suo esercizio. Orbene, la filosofia è stata il cuscinetto esterno nel quale hanno potuto confrontarsi e volte anche scontrarsi, gli ambienti esoterici e quelli exoterici senza il rischio di portare lo scontro al limite dell’accusa di eresia, come pur qualche volta è ugualmente avvenuto. Infatti, grazie alla copertura filosofica poteva rimanere celata la propria qualità ed anche le propria convinzioni; era infatti sul piano della dialettica che certe idee si confrontavano, come argomenti di interesse culturale ed intellettuale, come studio del pensiero degli antichi e non già come elementi di convinzione ai quali gli interlocutori aderivano o come elementi di contrasto o di alternativa con i dati della “fede” e della religione dominante. Su questo piano non era più troppo difficile ne’ presentava più troppi inconveniente la presenza parallela della filosofia, ridotta nella prospettiva exoterica a semplice “pensiero umano” e al massimo a “sentimento” che

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spingeva l’uomo a una vaga ricerca delle ragioni della sua esistenza e alla prefigurazione di quel Dio che, solo la Rivelazione, avrebbe poi realmente testimoniato e lo avrebbe fatto nella sua giusta ed infallibile maniera. In tal modo l’Intelletto era degradato a semplice “intelligenza umana” e negato nella sua vera natura; il sentimento religioso e la “fede” esaltate e l’autorità exoterica consolidata; il rischio di un’autonomia in campo spirituale dall’autorità exoterica era così scongiurato e la filosofia entrava a pieno titolo fra gli studi, depotenziata dei suoi contenuti più interiori e potenzialmente più pericolosi per la prospettiva exoterico-religiosa.70

E’ evidente che è a questa “Filosofia” che gli esoteristi facevano riferimento mentre era alla “filosofia” depotenziata che gli exoteristi riferivano. Pochi erano, da parte exoterica che tuttavia capivano la portata interiore della “filosofia” e tra questi soltanto quelli che avevano interesse a coprirla e depotenziarla e coloro che invece la utilizzavano come copertura. Va da sé che in ogni caso non si trattava della “filosofia” quale è diventata da un certo momento in poi, cioè, pura speculazione concettuale e campo delle ipotesi; fino a questo momento si trattava della vera Filosofia tradizionale che, pur essendo ormai quasi esclusivamente ridotta al “pensiero”, aveva in vista di trasmettere ancora quel che restava dell’insegnamento degli ambienti esoterico-iniziatici e della Conoscenza metafisica ad essi propria pur nelle forme espressive del pensiero e del metodo filosofico.

Quanto abbiamo sinora affermato non esclude affatto che, anche tra i rappresentanti ufficiali dell’exoterismo non ve ne fosse qualcuno che difendeva le posizioni exoteriche più estreme per funzione e nella consapevolezza della necessità, per la stragrande maggioranza degli uomini, del rivestimento sentimentale, devozionale e formale di certe verità riguardanti la Realtà universale ed in genere tutto quello che si pone oltre questa vita terrena , la realtà corporea e la condizione umana. La stessa funzione exoterica imponeva ed impone la prudente difesa della forma e della lettera anche quando questo imponga un’attenuazione alla propria conoscenza. Di questo è consapevole lo stesso Dante (come del resto tutti i veri iniziati avanzati nella Via o che ne sono comunque intellettivamente qualificati) se si pensa che, nella sua Opera, La Divina Commedia, egli pone l’uno di fronte all’altro, riconciliati in Paradiso, San Tommaso e Sigieri. Quest’ultimo, che Dante definisce “ingiustamente perseguitato” per aver rivelato “verità inopportune che lo avevano messo in cattiva luce” veniva contrapposto a San Tommaso, e viceversa. Perchè? E quali erano queste verità inopportune”? Sicuramente “la dottrina che s’asconde

70 Qualcosa del genere avveniva anche nel mondo islamico dove erano gli stessi Maestri del

Tassawwuf ad evidenziare i pregi ed i limiti della Filosofia di fronte alla Rivelazione e alla Fede (intesa ovviamente nel suo significato però più elevato) ma essi avevano però una contropartita: non erano l’exoterismo; erano i diretti eredi dello Spirito della Rivelazione e i loro insegnamenti erano la “Fonte della Filosofia” non la Filosofia puramente e semplicemente, per cui essi ben potevano rilevare i limiti di quest’ultima visto che possedevano una Conoscenza che era realizzazione delle realtà mretafisiche e che rappresentavano proprio la “Via iniziatica”, la Tariqa che conduce alla Haqiqa (la Verità).

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sotto il velame de li versi strani... “ che, come dice appunto Dante, può comprendere soltanto quelli che hanno “l’intelletti sani...”71 e sicuramente la natura ed il ruolo dell’”Intelletto agente” e della sua trascendenza nell’uomo e, conseguentemente, l’affermazione dell’indipendenza della filosofia dalla teologia. Augurabile l’ accordo ma tra le due ma non subordinazione della prima alla seconda; anzi, secondo un’ottica dove, a questo Intelletto, è riservato un piano di collocazione che supera la prospettiva exoterica della semplice “salvezza individuale” come legittimamente sembra concludere Dante nella sua Opera “Il Convivio”.

San Tommaso che sicuramente sa come stanno realmente le cose, cerca tuttavia una via di mezzo per salvare l’una e l’altra prospettiva recuperando la filosofia ma subordinandola alla teologia e lo fa degradando l’Intelletto al ruolo di “facoltà anch’essa umana” e riconducendo il suo potere di “intuizione” non all’Intelletto ma al fatto che l’uomo essendo dotato di un’anima immortale, tale creata da Dio è da essa che l’intelletto, trae i riflessi di una verità che “sente” in modo indiretto in virtù di questa origine “immortale” dell’anima. Per fare ciò ovviamente San Tommaso deve trascurare di chiarire come possa una cosa “immortale” avere avuto un ”inizio” e peraltro un “inizio” creato da un nulla che preesistesse alla cosa immortale; e deve dimenticare volutamente ciò che egli non può non sapere, vale a dire, che la dottrina dell’immortalità dell’anima individuale umana e quella della trascendenza dell’intelletto agente, come rileva giustamente Lieudat, “...sono due espressioni parziali della verità, tra le quali non può esistere una reale” contraddizione. (L. Lieudat – “Su una “divergenza” (apparente) tra Réné Guénon e Dante”. Così come resta la contraddizione di come possa un’anima immortale essere ignorante e mantenere tutti i limiti di una condizione che è proprio quella che la esclude dall’immortalità e caratterizza la sua caducità umana. Se l’anima è immortale supera i limiti umani e allora non c’è alcuna difficoltà a ritenerla dotata di facoltà trascendenti quali l’Intelletto. Che sia l’Intelletto a rendere immortale l’anima o viceversa, che cosa cambierebbe?

A proposito della divulgazione di “verità inopportune” e di “ingiuste persecuzioni”, varrà ricordare che, sempre nella Storia, le accuse rivolte ai Sapienti che hanno in qualche modo divulgato certi insegnamenti riservati, quando non sono state presentate e perseguitate direttamente come “eresie”, sono state, molto significativamente avvertite come un “pericolo per l’ordine sociale”, per l’”equilibrio sociale”, una “seminagione di discordia sociale”, un “germe che può instillare dubbio e nuocere all’autorità e all’obbedienza” più ancora che un oltraggio alla verità, alla fede e alla religione come tale. Questo, sempre e dovunque.

71 “O Voi che avete gli intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde (si nasconde) dietro il

velame di li versi strani” (Dante: La Vita Nova”), cioè, dei versi che appaiono poesie ma che in realtà hanno in vista di trasmettere verità incomunicabili ufficialmente. E poichè in quei versi si parla di Amore, di filosofia, di teologia, è evidente che quelle verità non attengono a fatti umani o critiche inopportune al potere o a personaggi del potere ma alla dottrina, all’uomo, a Dio e all’esistenza.

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Si ricorderà che, nell’antica Grecia, Socrate bevve la mortale cicuta (o gli fu fatta bere?) perchè era stato accusato di “...corrompere i giovani con i suoi insegnamenti filosofici incomprensibili all’uomo comune”; che Giordano Bruno in pieno Cattolicesimo fu arso al rogo per eresia; che Mansur Al Hallag, nell’Islam, fu flagellato e crocefisso per bestemmia; che lo stesso Gesù nel mondo ebraico fu condannato per bestemmia non avendo smentito l’attribuzione di essere “figlio di Dio”; che gli Imam venerati nell’Islam Shiita sono stati, chi uccisi barbaramente chi avvelenati, per aver rivendicato una funzione spirituale più “intima” dell’Islam nei confronti del Califfato più politicizzato; che i Sufi sono stati osteggiati dai califfi più esterioristi e dai “maestri dell’esteriore” proprio per l’esoterismo; che non pochi Saggi e Sapienti del Taoismo hanno dovuto occultarsi per evitare di essere uccisi dalla furia degli imperatori e governatori più legati all’ordine confuciano; che i Templari sono stati il rogo più clamoroso della storia; che le organizzazioni iniziatiche che ancora sopravvivevano nel Medio Evo e nei secoli successivi in Occidente dovevano prudentemente occultarsi dietro la copertura di “Scienze, Arti e Mestieri” e dietro la Poesia d’Amore dei “Fedeli D’Amore”, della “Fede Santa” e dei “Catari” oppure dietro le istituzioni “cavalleresche” del ciclo del “Santo Graal” e della “Tavola Rotonda” sino ai centri dell’Ermetismo, dell’Alchimia e dei Rosacroce.72

Sarà appena il caso di ricordare che, come abbiamo poco sopra evidenziato, lo stesso Dante pur da prova di ben conoscere le motivazioni, tutte esteriori e di opportunità sociale, che dividono sapienti come San Tommaso e Sigeri, pone tuttavia il Profeta Mohammad (del quale però mostra bene in tutta la sua vita e la sua Opera di non poter considerare ne’ un mentitore, ne’ un impostore, ne’ un eretico non fosse altro dando prova di conoscere e condividere la dottrina dei Maestri del Sufismo) nell’inferno. Non lo pone però tra gli “eretici” con ciò mandando un “messaggio” a chi può comprendere e dando prova, proprio attraverso il paradosso di questa

72 Sull’attribuzione di “figlio di Dio” fatta a Gesù si osserva che ciò che l’Islam non accetta non è tanto l’espressione o l’immagine in sé potendosi accettare l’aspetto esoterico della frase secondo il quale tutti gli esseri sono in qualche modo “figli di Dio” in quanto, se il padre terreno dona il corpo, l’anima è donata da Dio che, pertanto, è il “Vero Padre Celeste”. Ciò che l’Islam non accetta è l’espressione nel suo significato letterale implicante l’idea della “Unità-Trinità divina” per la quale Gesù è letteralmente “Figlio” ed è l’”Unico figlio di Dio” costituente in tal modo parte essenziale della Natura e del Mistero di Dio stesso. Nell’esoterismo cristiano, invece, il concetto di “figlio” e di “unigenito” ha un significato tutto spirituale che non ha a che supera la teologia trinitaria e l’idea salvifica di Dio che si sarebbe incarna in un preciso momento storico e in un preciso corpo umano, per espiare il peccato originale dell’umanità”. Anche qui nella prospettiva esoterica l’”incarnazione” e la “redenzione” assumono un aspetto sublime in chiave di “realizzazione spirituale” dell’uomo nato dalla Vergine, rigenerato nella Croce e risorto nello Spirito. Se l’esoterismo islamico pur non rigettando l’immagine di “Dio-Padre Celeste” non la utilizza e mantiene sempre quella di “Signore”, stabilisce tuttavia l’intimità e l’identità, attraverso altre immagini come “Il Mio Signore” o espressioni coraniche come “Io sono più vicino all’uomo della sua vena giugulare”; ” Lui è con voi ovunque voi siate”; ” non sono due senza che lui sia il terzo di loro”.. o gli ahadith: “...e quando lo amo sono la mani con cui afferra, il piede con cui cammina....”; “Chi conosce il suo proprium conosce il suo Signore”, ecc.

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collocazione, che non lo considera un mentitore o qualcuno che semina false dottrine su Dio ma, molto significativamente, “un agitatore sociale”, tra “..i seminatori di discordia sociale” che turbano l’ordine e l’equilibrio. Mentre la collocazione nell’inferno è motivata assolutamente da ragioni di prudenza in vista del rischio sicuro della condanna al rogo o di un’emarginazione nell’ambiente europeo che avrebbe reso vana la sua funzione di testimonianza dell’insegnamento universale ed esoterico che sarebbe stata immediatamente limitato e qualificato come prettamente “islamico” ed anticristiano, la scelta del girono infernale è esattamente la testimonianza opposta; quella che, in primo luogo condanna l’esteriorismo settario che costringe a questi paradossi, e, soprattutto, che suggerisce, una volta di più, che sono proprio i “giusti e i veritieri” ed anche i veri sapienti ad essere condannati dal “potere” quando non lo assecondano o evidenzino una potenzialità sconvolgente degli equilibri stabiliti. Non è forse significativo che questa qualificazione di “agitatore, seminatore di discordia sociale” sia la stessa che il “farisaismo ebraico”, prima, ed il potere temporale degli imperatori di Roma poi, rivolse a Gesù? E questo non è in perfetto accordo con la frase di Gesù nei Vangeli... “Non crediate che io sia venuto a portare la pace; io sono venuto a portare la guerra, a dividere i figli dai padri, gli sposi dalla spose...”. In questo senso assolutamente qualificante, dunque, Dante considera evidentemente il Profeta dell’Islam al di la dell’apparenza formale. E che questo debba ben averlo compreso la Chiesa che tuttavia nulla poté contro di lui proprio per il rispetto della forma (la paradossale collocazione del Profeta nell’inferno che nell’esteriore prevale sul paradosso della scelta del girone e ne copre la contraddizione) lo dimostra proprio il fatto che, la stessa copertura, non fu utile pochi decenni prima ai Templari, arsi al rogo nonostante fossero formalmente tenaci “crociati”, guerrieri e monaci ad un tempo, valorosi in battaglia contro i saraceni islamici; essi venivano infatti nonostante ciò condannati dalla Chiesa proprio con l’accusa, tra altre, di essere “..musulmani travestiti da cristiani..” che di giorno “..combattevano contro quelli con i quali si riunivano poi di notte”.... Accusa che, in realtà, voleva fare implicito riferimento alla loro universalità e alla loro natura esoterico-iniziatica. Ciò non di meno Dante si fa ardito quando colloca il papa nell’inferno e San Bernardo fondatore dei Templari in uno dei più alti paradisi. Può farlo perchè la collocazione di quel papa nell’inferno non è un atto di eresia ma politico e personale legato ad un uomo e non alla funzione e poi non riferito direttamente al delitto contro i Templari.

La giustificazione formale che viene data al fatto che Dante non colloca il Profeta tra i “miscredenti” o gli “eretici” o tra i “mentitori” e gli ingannatori, maghi o falsari che siano, è che l’accusa di eresia può essere rivolta soltanto a chi partecipe di una fede religiosa ne stravolge dall’interno i dogmi o le direttive mentre chi è ateo puramente e semplicemente oppure appartiene ad un’altra fede, anche se bestemmiasse quella ufficiale, non può essere accusato di eresia e come tale ucciso per questo. Eventualmente potranno essergli contestati altri delitti per i quali è prevista una pena: l’adulterio, la pratica di sortilego o magia ma non l’eresia. La giustificazione è debolissima e di puro comodo ed anzi evidenzia ancor più come, questo genere di accusa, mira soprattutto a mantenere un “potere” riservato nelle

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mani di veri o presunti custodi o ministri di quel culto più che la purezza di un messaggio di fede. Infatti, tanto più offesa una forma religiosa dovrebbe sentirsi dall’ateismo, dalla negazione, dal materialismo scientifico, dall’ ostilità verso di essa e verso la fede stessa in generale che non invece dall’interpretazione di un dato di quella fede che, senza negarlo ma anzi presupponendolo, ne evidenzia anche altri aspetti più o meno profondi. E’ infatti paradossale che, un indù, un musulmano, un ebreo o uno zoroastriano, possano comparire davanti ad un sovrano del Paese che vive una diversa tradizione e addirittura davanti al Papa (come pur è successo persino nel Medio Evo) e nonostante la Crociate in corso o quelle passate, essere considerato un ospite con il quale scambiare idee e cortesie, impressioni e cultura non solo in tema di teologia ma anche di aspetti socio-giuridici (ad esempio il divieto di bere alcolici, la poligamia, il rifiuto di Gesù come Profeta (per gli Ebrei) o come “figlio di Dio” (per i Musulmani) se non addirittura quello che veniva considerato, senza peraltro esserlo affatto “politeismo”, come nel caso delle tradizioni dell’India e della Cina, mentre, un Cristiano che affermasse di condividere una di queste posizioni sarebbe considerato eretico e bruciato al rogo.

E’ evidente che il problema non è l’orrore per la diversa fede e l’ansia per la verità; certamente alcuni elementi emotivi possono entrare in gioco ma questo a livelli soprattutto popolari e in alcuni fanatici indottrinati ed ossessionati con gli elementi della paura e del terrore scambiati per scrupolo ma prevale soprattutto la preoccupazione per l’ordine pubblico e sociale; per l’obbedienza ed il potere all’interno della propria società e civiltà. Ciò che appartiene alle altre giurisdizioni non fa paura perché è un mondo lontano ed estraneo che ha altrettanto bisogno di circoscriversi e di proteggersi, esattamente com’era per la tutela della purezza delle razze, cara non solo ai bianchi ma anche ai rossi e ai neri, visto che, prima che un problema di discriminazione di una razza nei confronti di un’altra o di una pretesa superiorità di una sull’altra era un problema di protezione della “purezza” della razza in sé, qualunque essa fosse, cui tutti dalle più svariate parti tenevano.73

L’ostilità delle autorità exoteriche allorché giungeva agli estremi cui è giunta in certe occasioni doveva inevitabilmente provocare da parte degli ambienti iniziatici, in tutti i tempi e in tutte le tradizioni, anche reazioni che davano origine anche a dure espressioni di critica. Sono note le definizioni del Cristianesimo primitivo tratte dal Vangelo verso i “farisei ipocriti... sepolcri imbiancati” che uccidono con la lettera lo Spirito e che, chiuso l’accesso del Regno dei Cieli a sé stessi, impediscono anche agli altri di entrarvi. “Guai a voi scribi e farisei ipocriti... guai a voi” (Vangelo).

Sono note anche le definizioni dei Maestri del Tasawwuf verso i “dottori della legge... sapienti dell’esteriore”.

73 Questo evidenzia ancor più come, quelle che oggi sono state presentate come “lotte contro

il razzismo” furono più un attacco allo spirito tradizionale e all’ordine tradizionale in sé stesso condotto dovunque esso fosse ancora presente che non una preoccupazione di salvaguardare “diritti umani” o aspirazioni dell’uomo. Anche questo rientrava in un progetto “globalista” che, prima di attuarsi come finalmente oggi sta accadendo, aveva il suo quadro ideale giù preparato da alcuni circoli di pseudo-illuminati sui quali ci siamo più volte pronunciati.

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Forse meno note sono le definizioni che i Saggi del Taoismo danno dei confuciani o anche dei monaci o “gente dell’esteriore”: “Avere nella testa idee incrostate, e un’elevata opinione dei propri costumi; rompere con il mondo e far partito a sé; parlare difficile e criticare gli altri; in una parola, comportarsi da pedanti; ecco come fanno quelli che vivono da eremiti nelle montagne e nella valli; spregiatori dei modi (di vivere) comuni, i quali finiscono con il morire di fame, o annegati in qualche torrente. (...) Dissertare sulla bontà e l’equità, la lealtà e la fedeltà; praticare il rispetto degli altri, la semplicità, la modestia; in altre parole, reprimersi in tutti i modi; ecco cosa fanno quelli che hanno la pretesa di portare la pace nel mondo e di fare la predica agli uomini: maestri di scuola, ambulanti e sedentari. Esaltare i propri meriti, agitarsi per farsi un nome, sottilizzare sui riti e sull’etichetta, voler dare regole a tutto, ecco come fanno quelli che frequentano i corsi, politici alla ricerca d un padrone da servire, di un principato da organizzare, di alleanze da procurare. Ritirarsi sulla riva dei corsi d’acqua o nei siti solitari, pescare alla lenza o non fare nulla, ecco il modo di essere degli amanti della natura e della vita tranquilla. Respirare a ritmo, espirare l’aria contenuta nei polmoni e sostituirla con aria fresca, aiutarsi nella respirazione con gesti simili a quelli dell’orso che si solleva sulle zampe da dietro o dell’uccello che vola, ecco quello che fanno quelli che desiderano vivere a lungo, imitatori di P’eng Zu. Tutti costoro sono dei fissati. E adesso, parliamo degli uomini seri”. (Chuang tzu – Cap XV – A) Non meno “severe” le poesie di Hafez il grande “poeta” gnostico persiano: “L’eternità sta nel vino, coppiere, a me versane l’ultima goccia. Lassù non fiorita è la radura, non quale a Shiraz riva d’acque. Di liuti parlatemi solo, parlatemi solo di coppe: il segreto di questo mondo è un enigma che mai saprà scioglier sapienza”. “ In nome di Dio non sederti con chi indossa il saio, distogliendo il volto dagli spiantati libertini. Il saio di cui si parla è pieno di lordure: evviva la gabbana di un venditore di vino! Mai un dolore ho visto tra costoro che si danno arie da sufi: limpido sia il piacere degli scolafeccia! Tu sei di temperamento delicato e non sopporti le rozzerie di un pugno di gente che veste la tonaca. Or che mi hai inebriato non sedermi d’accanto velata; or che mi hai dato il miele, non farmi bere veleno! Vieni a vedere: per i torti di questi ipocriti la fiasca s’è fatta piena Di sangue del cuore e la ribeca suona scordata. Guardati dall’ardore di Hafez, cui il petto ribollisce come una pentola”. “Vieni o sufi, togliamoci di dosso questa tonaca da impostori e Tiriamo un frego a cancellare questo disegno di inganno. Destiniamo al vino le offerte votive e le elemosine del convento.

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Immergiamo nell’acqua delle rovine il saio dell’ipocrisia. Se domani non ci daranno il Giardino di Rezvan, scacceremo i giovani servitori dal Giardino e le huri dal Paradiso. Dedichiamoci alla gioia, altrimenti saremo indotti al rimpianto Nel giorno in cui porteremo a un altro mondo i bagagli dell’anima. Al segreto divino ch’e nascosto nei drappi dell’occulto noi, inebriati, strapperemo il velo dal viso. Dov’è il fulgore el so sopracciglio? Vogliamo attirare la palla del firmamento in una ricurva mazza da polo d’oro pari alla luna nuova. O Hafez, siffatte vanterie non ci appartengono. Perchè allungare ancor più fuori del nostro tappeto?” “O luce dei miei occhi ascolta, ho qualcosa da dirti, ascolta: Poichè la tua coppa è colma, offrila perchè ne bevano e bevila anche tu (...) Rosario e saio non ti concedono la delizia che da l’ubriacarsi Per questa azione, trai ispirazione dal vinattiere. I vecchi parlano per esperienza, te l’ho detto. Bada ragazzo che ti farai vecchio; a scolta i consigli: la mano dell’amore mai pose in catene un sobrio. Vuoi dar di piglio alle chiome dell’Amica? Lascia la sobrietà. Nulla, della vita e dei beni, si nega agli amici: sacrifica cento volte La vita all’amico che presta ascolto alle esortazioni. O coppiere mai sia vuota di puro vino la tua coppa Volgi uno sguardo sollecito a me che bevo la feccia....”. Per quanto riguarda poi le Confraternite iniziatiche cristiane in Europa all’epoca di Dante il linguaggio delle stesse nei confronti della Chiesa, definita nella poesie allegoriche “pietra”, “morte”, “oscura ignoranza” è ormai noto attraverso gli studi di Luigi Valli su “Dante e il linguaggio segreto dei Fedeli d’Amore”.

Da quella frattura degenerata poi in scontro vero e proprio che, soprattutto in

Occidente, si verificava in parallelo con la persecuzione dei Templari, traggono origine anche le premesse anche quella serie di deviazioni che coinvolgono anche gli ambienti iniziatici sempre più costretti a ritrarsi quanto al loro nucleo più riservato e ad esteriorizzarsi quanto al cerchio più esterno. Non raramente certe deviazioni sono state favorite dalla reazione esasperata, culminata a volte in una vera e propria ribellione contro l’idea stessa di Religione e di Spiritualità. Si spiega in questo modo il progressivo esteriorizzarsi degli ambienti, ad esempio massonici, il loro anticlericalismo e il sostegno a quelli che sono noti come i moti rivoluzionari. Il tutto si confondeva con un malinteso ideale di vendetta contro il potere corrotto della Chiesa responsabile del Rogo dei Templari tanto da diventare un tema ricorrente persino nella ritualità massonica degli “Alti gradi”.

Questo favoriva anche il processo di profanazione e di esteriorizzazione che doveva portare soggetti di ogni specie a trovare copertura nella riservatezza e nella

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segretezza delle Logge massoniche con ciò nuocendo tremendamente alla referenza iniziatica e spirituale della Libera Muratoria.74 Inasprendosi il rancore verso le autorità esteriori dell’exoterismo ed acutizzatosi la repressione verso la Massoneria le cose giungevano al punto che la stessa vera ragione della divisione diventava da “spirituale” a profana. L’ambito esoterico, dovendosi concentrare in una difesa fisica per la sopravvivenza e sempre più investito di calunnie clericali il cui apice veniva raggiunto con la mistificazione di Leo Taxil, finiva con l’evidenziare più l’aspetto di rancore e di ostilità verso il mal potere clericale ed exoterico che verso l’exoterismo in sé stesso e i suoi rappresentanti. Critica all’esteriorismo esagerato, all’ipocrisia moralistica, ai privilegi, finivano con il confondersi con le aspirazioni liberali, con una nuovo concezione di libertà, di laicità ecc. E allora, la responsabilità dell’effetto di un’Occidente sempre più profano, di un sopravanzare dell’esigenza di una liberazione fino al punto di un rigetto, infine, di tutto quello che appariva essere il responsabile del clima di soffocante ipocrisia puritana, è da attribuire più ad un’autorità spirituale resasi ignorante della sua stessa tradizione e funzione, del suo essersi corrotta e collusa con il potere e della violenza rivolta verso gli ultimi rappresentanti di un retaggio esoterico ed iniziatico o alla Massoneria quale ultima vestigia sopravvissuta di un retaggio esoterico ed iniziatico che, prevalendo tuttavia in essa una confusione tra una legittima reazione verso la degenerazione delle autorità exoteriche e l’aspirazione reazionaria di punirne la prepotenza e lo strapotere, ha finito con il favorire l’ulteriore crisi dell’Occidente e con il rafforzare l’azione

74 Non possiamo assolutamente approfondire in questa limitata sede l’evoluzione della Libera Muratoria da associazione iniziatica, esoterica e tradizionale verso la Massoneria, prima profana di Anderson e Desaguliers ed infine verso quelle correnti che, approfittando della copertura che l’istituzione assicurava, si infiltravano all’interno per svolgere la loro funzione, ora di attacco al Cattolicesimo, ora di politica rivoluzionaria contro le monarchie tradizionali, ora di pseudo-spiritualità con tinte a volte persino quasi contro-iniziatiche, ora di complottismo politico-finanziario. E’ tuttavia un fatto che, l’autentica Massoneria tradizionale è riuscita a mantenere, nonostante tutto al suo interno, una corrente realmente iniziatica, difficile a dirsi quanto forte o quanto debole, nella quale Guénon ha cercato di innestare un’azione restauratrice e purificatrice che fosse capace di riportare alla sua reale funzione e natura l’istituzione. Se vi sia riuscito attraverso l’influenza della Sua Opera, in che misura e quali siano le possibilità e la situazione attuale, non è nostro compito approfondirlo, soprattutto in questa sede.

Al di la di questo è però doveroso dire chiaramente, anche per non lasciarsi ingannare e comprendere da dove veramente proviene il pericolo nel nostro tempo, che la Massoneria come tale, più che la responsabile è stata la vittima e spesso il “capro espiatorio”, di quel programma di sovversione che le forze della “contro-tradizione” e della “contro-spiritualità” hanno condotto e stanno conducendo ormai apertamente da oltre tre secoli ma che, soltanto nell’ultima metà del XX secolo hanno definito chiaramente nelle sue linee globali e globaliste ben al di fuori della Massoneria. Quest’ultima non serve più ai loro scopo neppure come “copertura” non avendo più, i personaggi che vi si erano infiltrati per i loro scopi, affatto bisogno di coprirsi dal momento in cui, altre iniziative, ormai addirittura pubbliche e referenziate, hanno assunto la direttrice di quel “potere reale” che viene esercitato attraverso centri di potere come la Bilderberg che coordina di fatto, il CFR, il GAT, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e tutti gli altri centri di potere sovranazionali che determinano la politica mondiale in tutte le sue linee: militare, economica e culturale.

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dissolvitrice delle forze che miravano verso questa direzione? Poco conta ed in ogni caso la responsabilità è reciproca anche se era il potere che esercitava la violenza non certo i centri riservati che erano il bersaglio delle persecuzioni.

Nella situazione di un’Europa quale quella del XV e XVI secolo in poi la spaccature tra i due dominii (exoterico ed iniziatico) ha portato, per ulteriore esteriorizzazione ed esasperazione di ambo le parti, ad irrigidimenti tali anche nei rispettivi ambiti. In quello religioso questo si verificava in un’intensificazione dell’attività dogmatica che si imponeva con la rigidità del “dogma di fede” su punti dottrinali che erano i più esposti all’interpretazione simbolica ed esoterica e che il dogma curava di riportare al loro aspetto indiscutibilmente letterale. Nell’ambito esoterico quest’attività non faceva che aumentare il disgusto per l’ulteriore irrigidimento posto d’autorità insieme alla condanna contro ogni tentativo di comprensione e di penetrazione. In queste condizioni era facile che la reazione degli ambienti iniziatici finisse col diventare una reazione verso il potere stesso, verso l’imposizione, verso l’atteggiamento autoritario con il quale si vietava ogni senso critico anche quando fosse rivolto a non a negare ma, invece, a comprendere i significati più elevati del dato di fede più iniziatico ed esoterico. Può così ben dirsi che tutte le correnti di un rivoluzionarismo naturalistico ed evoluzionistico, di un socialismo liberal-massonico, con tutte le correnti del neospititualismo e persino del materialismo, sono stati i frutti di un exoterismo esasperato e di una lotta, prima di tutto, contro ogni autentica espressione di intellettualità cui a suo modo ha contribuito per una reazione esasperata una certa parte della Massoneria ormai già contaminata dall’esterno ma anche indotta dagli attacchi del potere exoterico ad una difesa che doveva necessariamente impegnarsi anche all’esterno delle Logge visto che era in questione la sopravvivenza.

Questo consentiva alle autorità exoteriche di identificare la Massoneria con tutti i moti rivoluzionari, le congiure, i progetti antireligiosi e antitradizionali, il liberalismo; a sua volta, per reazione, quella parte della Massoneria che si vedeva investita dalla furia clericale finiva essa stessa, per contrapposizione, con il lasciarsi identificare con tutto ciò che costituiva una reazione contro l’oscurantismo e l’ignoranza rivestita di moralismo e di un rigorismo insopportabile accompagnato da stomachevoli sentimentalismi coperture di un’ipocrisia di fondo che era, in realtà, l’essenza stessa del potere di quell’epoca crepuscolare e dei suoi ultimi, degni rappresentanti.

In tal modo, le forze che costituiscono realmente il nucleo dell’azione contro-tradizionale e contro-spirituale e che sono la radice stessa della “civiltà moderna” con tutto il suo sottofondo di frode, restano così ben coperte sotto le fantasie dei vari complottisti che non si sono solo prestati a rendere ridicolo lo stesso argomento ma hanno fornito, nella loro passività, l’ulteriore servizio di rivolgere la responsabilità di tutti i mali che affliggono l’attuale epoca, proprio verso coloro che li avevano annunciato decenni prima, allorché nessuno li prevedeva ed anzi ne derideva il presagio, e che avevano sin dall’ora indicato, proprio nei segni premonitori, l’azione delle forze della dissoluzione messe in opera dai precursori di quelli che possiamo definire gli attuali “padroni del mondo” i quali, finalmente, abbandonata ogni

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prudenza, usciti allo scoperto, reclamano ormai, l’eredità di un mondo che ritengono loro per un diritto fondato sulla ricchezza e sul suo utilizzo comandato da formule incomprensibili, operazioni informatiche, ricatti sociali, strategico di ogni genere sulle quali ci siamo soffermati dettagliatamente in altri studi.75

Prima di concludere l’argomento che abbiamo appena trattato sarà il caso di

fare un’ultima considerazione non meno importante delle altre ponendoci innanzi tutto la domanda: le categorie dei rappresentanti dell’exoterismo, si esauriscono con quelle che abbiamo poco prima indicate, cioè con la stragrande maggioranza rappresentata da coloro che sono sentimentalmente attaccati alle raffigurazioni, alle forme espressive, alle immagini devozionali e ai simboli, con coloro che pur comprendendo i limiti della prospettiva exoterica la difendono per funzione cercando di ignorare l’esoterismo, con coloro che per assoluta ignoranza e squalificazione intellettuale sono fondamentalmente legati alla forma tanto da considerare letteralmente nemici chiunque non è fatto a loro immagine? Riteniamo di no perché manca una categoria che è per noi senz’altro la più interessante. Si tratta di quei rappresentanti che aderiscono sinceramente alla loro forma tradizionale pur consapevoli di certi limiti ma che, pur non impegnandosi in una via iniziatica o in una difesa dell’esoterismo o di certi dati delle dottrine tradizionali metafisiche transitate o confluite attraverso le correnti gnostiche, non ne

75 Una serie di libri di tematiche “complottistiche” composti da migliaia di pagine, hanno

invaso l’editoria, facendo tutta una confusione tra ufologia, magia, massoneria, esoterismo, “Illuminati di Baviera”, Cia, FBI, Mossad, Opus dei, Islam esoterico, fascismo, nazismo, sette sataniche, Torri Gemelle, occultismo e... Guénon (!?) per avallare (secondo da quale parte si muove l’azione) l’idea di un attacco contro la “Santa madre Chiesa Cattolica”, oppure contro l’Islam o contro la “Tradizione Romana”(!?) e, infine, addirittura contro l’Umanità da parte di uomini che si tramuterebbero in serpenti in certi periodi e durante certe operazioni! Certamente il grado di follia e di serietà varia secondo che si tratti di autori come il primo Maurizio Blondet dei “Complotti” (che sembrerebbe almeno negli ultimi anni rettificato un po’ il tiro abbandonando almeno una retorica anti-guénoniana ed antislamica e aver assunto una maggior serietà pur persistendo in lui un acceso anti-ebraismo che a tratti lo acceca e che non sa contenere nei limiti del possibile e del probabile) e come quell’“Epiphanius” autore del voluminoso (oltre 1000 pagine) “Massoneria e sette segrete – La faccia occulta della storia”, nel quale lo zelo clericale e cattolico conduce l’autore stesso verso ogni sorta di falsità, di frode e di calunnia che nessuno scrupolo religioso per fanatico ed intenso che sia, può giustificare.

Libri del genere svolgono la loro funzione di miglior copertura nei confronti delle vere forze del “potere reale” e dell’azione contro-spirituale perchè se è innegabile che esista una strategia “globalista” condotta da personaggi che hanno in progetto la costituisce di un “Ordine Mondiale” dove ogni identità culturale è annientata, l’essere umano omologato ad un minimo comun denominatore costituito dai bisogni organici e più grossolanamente psicologici e dove, infine, venga esercitato sopra l’umanità un controllo totale esteriore ed interiore che assicuri un potere assoluto ed invincibile da parte di pochi “padroni” che formano un’oligarchia ormai quasi addirittura visibile e persino individuabile; è però indispensabile che l’argomento venga trattato con un rigore ed una serietà che non lasci equivoco e non consenta di ridicolizzare l’argomento stesso, come certamente gradiscono coloro che, del progetto, sono in un modo o nell’altro, parte.

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sono ostili e la cui difesa dell’exoterismo coincide con una posizione che, quanto meno, può e deve considerarsi almeno abbastanza valida.

Gli esponenti di quest’ultima categoria più riservata sostengono, infatti, e dobbiamo dire a ragione, che la Conoscenza dottrinale in sé stessa, allorché rimane o diventa un accumulo di nozioni sia pure correttamente comprese, non serve a nulla. Quanti professori di dottrine metafisiche; quanti sapientoni; quanti eruditi di gnosi e di libri di Maestri di questa o quella tradizione; eppure, quanti Saggi? Quanti Sapienti? Quanti Santi?

La conclusione: l’acquisizione della dottrina, foss’anche correttamente appresa, foss’anche la più metafisicamente completa non modifica niente dell’essere umano neppure nei suoi caratteri più esteriori. Spesso anzi ne gonfia l’orgoglio, crea illusioni, rende presuntuosi, fa ritenere saggi e sufficienti. Questo, tanto più è vero quanto più l’uomo si è allontanato dalla Fonte e dalla sua “purezza e semplicità originaria”. E’ innegabile che lungo lo svolgersi delle quattro età del presente ciclo (età primordiale, età dell’argento, del bronzo e del ferro76) l’uomo ha perduto il contatto diretto con il suo aspetto superiore, con gli stati superiori del suo essere ed il suo asse interiore si è inclinato come del resto ha fatto lo stesso pianeta nel quale vive, la cui inclinazione è del resto simbolo e traduzione cosmico simbolica di quell’evento umano prima che fenomeno astrofisico. Nell’età primordiale l’uomo era in contatto diretto con il suo aspetto trascendente; egli era “profeta per sé stesso” come si esprimono i Maestri del Tasawwuf.77 “Adamo era Profeta” e Adamo è “una ‘umma” (Corano), cioè, un’umanità di Adami primordiali. L’uomo (gli Adami) delle età successive avendo perduto quello stato di “centralità” e di “integralità”, ha

76 Sarà appena il caso di ricordare che la ripartizione di queste quattro età, nota a tutte le

civiltà tradizionali, non ha nulla a che vedere con quella cui fanno riferimento la storia e la scienza e che viene legata alla scoperta e all’utilizzo da parte dell’uomo del corrispondente metallo. Ogni ciclo cosmico corrispondente a ciò che la tradizione indù chiama “cicli dei vari Manu” simbolo dell’uomo) e quella islamica “i cicli dei centomila Adami creati”, e si compone di quattro età che corrispondono ad altrettante “umanità” intese come manifestazioni dell’uomo sempre più condizionato ed intellettualmente ridotto rispetto alla sua integralità, fino all’uomo dell’ultima età fondamentalmente intessuto di passioni, di sentimentalità ed opacizzato nella sua facoltà superiori ed intellettive. Nel mondo indù le quattro età si chiamano “Satya yuga = età dell’Essere, della purezza, dell’equilibrio e dell’integralità”; Tetra Yuga = età dell’aleatorio, della minor luce, dell’incerto, dove, tre quarti sono virtù e un quarto oscurità; “Dwapara yuga = età del mediano dove metà è luce e metà oscurità “; Kali yuga = età di kali, della notte, dell’oscurità, dell’ignoranza”. Nel mondo classico la stessa distinzione è indicata con i termini: “età dell’oro”, età dell’argento, età del bronzo, età del ferro. Nella tradizione del Nord la prima età è detta “età della luce piena” cui seguono le altre età della “luce in attenuazione”; ed infine l’ultima età: “età del lupo”. Da osservare che anche la prima a volte è indicata come l’”età del lupo” nel significato però superiore del simbolo del lupo che, nella tradizione nordica, designa la luce ma anche il suo opposto, cioè, la brama della lupa magra e famelica.

77 Il contatto con l’Angelo (si ricorderà che Gabriele è l’Arcangelo della Rivelazione) era diretto e questo significa che l’uomo primordiale era “profeta” e possedeva l’integralità del suo stato umano ed il possesso integrale dell’Intelletto agente di cui, appunto, Grabriele è manifestazione sensibile, esternazione e simbolo ad un tempo.

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bisogno di “ritrovare il centro”, di “restaurare lo stato primordiale perduto”; di “reintegrarsi nel paradiso terrestre” e riconquistare lo stato di “uomo vero”. Secondo altre espressioni delle varie tradizioni, deve ritrovare “l’isola degli immortali”, il “Vello d’oro”, “ risalire la Montagna sacra”, “ ritrovare la città dell’eterna giovinezza”; la “fonte dell’immortalità”, la “patria perduta; rinvenire “il Santo Graal”, la “Pietra filosofale che trasforma il piombo in oro”.

Almeno dalla terza età del ciclo attuale, l’uomo ha avuto bisogno delle Rivelazioni come noi le conosciamo, di “inviati”, di “discese divine”, della manifestazione discendente dell’insegnamento andato perduto o quanto meno oscurato. Ogni nuova Rivelazione è infatti una Restaurazione dello Spirito primordiale provvidenzialmente adattata al nuovo tempo e al nuovo uomo. L’Islam è considerata l’ultima Rivelazione perchè un ulteriore adattamento che vada incontro alla natura umana non può essere più possibile non per un limite della Misericordia divina ma perchè il Messaggio non conserverebbe più nulla di spirituale e non avrebbe più alcun potere salvifico.

L’uomo ha però anche bisogno di effettuare un processo di purificazione che lo renda nuovamente ricettivo ad un certo ordine di verità e che lo distacchi dagli attaccamenti più oscuranti e lo concentri nell’obiettivo anche rimuovendo gli ostacoli che mantengono le tenebre e impediscono l’azione della Luce spirituale perchè ha bisogno anche di una “disciplina”, di riti e di mezzi di grazia che non possono esser costituiti da iniziative umane ma che sono rappresentati e riassunti proprio in una “Legge sacra” nuovamente Rivelata e adattata alle fasi delle età del ciclo.

Proprio su questo punto si è scontrato ed anche arrestato il contrasto tra gli esponenti dell’exoterismo di qualunque forma tradizionale in genere e quelli dell’esoterismo. Che valore può più avere una conoscenza che rimanga soltanto teorica e che non rimuova nulla degli attaccamenti, della brama, delle paure e degli egoismi umani? Di una conoscenza che, facendo illudere che rende liberi sol perché si comprendono i segni, i simboli e le dottrine avvolte nei Testi sacri e negli insegnamenti dei saggi e dei sapienti, mantenga l’uomo in tutti i suoi limiti, rafforzi i suoi vizi e fornisca lui l’alibi di una libertà dagli obblighi e dai divieti stabiliti dalla morale e dalla Legge sacra?

L’osservazione è sacrosanta, giusta ed assolutamente pertinente ma soltanto quando si riferisca a quelle Vie che abbiano perduto la loro Fonte o a quegli individui che pretendano di essere liberi dal legame con la Rivelazione che apporta proprio i mezzi di grazia necessari non solo alla “salvezza” ma anche a realizzare proprio quella comunicazione cosciente con gli stati superiori dell’essere, con l’Essere e che deve infine condure alla Liberazione. Infatti, nessuna Via iniziatica autentica e nessun esoterismo vero si presentano al di fuori di una tradizione vivente e legittima cui si ricollega; fuori da una Rivelazione della quale costituisce proprio l’aspetto intimo, fuori di una Legge sacra che, se da un lato è “disciplina” e strumento di purificazione, dall’altro lato è la prefigurazione stessa dello stato di “perfezione” e di “nobiltà” che caratterizza l’”Uomo Perfetto” (Al Insanul Kamil), l’”Uomo trascendente”, il Liberato.

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Ecco perchè tutti i veri Maestri spirituali di tutte le Tradizioni hanno sempre precisato che l’esoterismo e la Via iniziatica non sono un’”altra cosa” della Rivelazione e della Legge sacra ma ne sono il “Cuore”, il “significato completo”, la “coerente applicazione”, il “compimento”, l’”Interiore rispetto all’esteriore”, “la polpa ed il nocciolo”; mentre l’esteriore, preso in sé stesso in assoluto ed autonomizzato, è, e resta, soltanto scorza. E’ vero che anche la scorza è il frutto ma resta scorza se non si considera anche la polpa ed il nocciolo. L’irrigidimento di certe autorità dell’exoterismo allorché si fondò su quello scrupolo che abbiamo poc’anzi evidenziato è pertanto comprensibile come lo è quello di chi anche oggi lo facesse per lo stesso motivo.78 Tuttavia questo è uno scrupolo che non tiene conto di ciò che abbiamo appena detto e del fatto che coloro che percorrono la Via, sono proprio i più scrupolosi osservanti dei precetti, degli obblighi e dei divieti indicati dalla Legge sacra; sono proprio i più attenti alla lettera ed allo Spirito della Rivelazione e i più scrupolosi osservanti delle “convenienze spirituali” circa i dati più riservati della dottrina; ma sono anche quelli che, più saggiamente, operano affinché lo “scandalo”, ove avvenga o sia inevitabile, non venga forzatamente portato alla luce e fatto emergere quasi per un’isterica forma di soddisfazione individuale e di punitivo moralismo puritano ma sia invece coperto secondo le regole e le indicazioni stesse che le ingiunzioni tradizionali danno al proposito. E’ pur vero che i tempi non favoriscono la serietà e che non sempre si sono potute evitare interferenze, inquinamenti, contraffazioni e parodie del falso esoterismo in danno di quello autentico e legittimo ma questo fa parte delle leggi del momento ciclico e degli inconvenienti spesso inevitabili, propri dell’ultima età.

78 Diverso da quello or ora esaminato è invece il caso di un’ostilità indomabile o anche

soltanto subdola ma non meno radicale e decisa presente soprattutto in un certo Cristianesimo anche Cattolico. Quest’ultimo caso, che riemerge periodicamente nella Chiesa, marcia parallelo ad un altrettanto subdolo tentativo di appropriarsi delle tematiche “gnostiche” che appaiono più suggestive ed attraenti per ricondurle nell’alveo della “fede”, del sentimento e dell’exoterismo. E’ così che, accanto ad una certa mistica cristiana si è cercato di formare una sorta di “gnosi” che, con i presupposti dell’autentica Gnosi fondata sull’esoterismo, sull’iniziazione, sui dati della metafisica tradizionale, sulle tecniche ed il metodo iniziatico della meditazione, del mantra (dikr) e della presenza di un Maestro spirituale, non ha nulla a che vedere essendone i presupposti dottrinali, le finalità ed il risultato completamente diversi. Lo scopo ed il fine di quella gnosi annacquata resta infatti sempre e soltanto la sola “salvezza”; il presupposto fondamentale: la dualità irriducibile “creatore-creatura” e la separazione delle due realtà con un’idea pertanto del Monoteismo tutta esteriore e grossolana; i mezzi anche di quella sola salvezza: non già la Conoscenza o un’acquisizione da porre in relazione a qualcosa che nell’essere sia già presente “ab aeterno” ma ad una Grazia esterna intesa come “un dono” che non ha alcuna connessione con la Conoscenza stessa ne’ con l’Intelletto ma che equivale ad una sorta di premio per il merito di una devozione prestata all’immagine della Divinità e per la fedeltà prestata agli altri contenuti sentimentali della forma tradizionale. .

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H Altre divergenze? L’argomento appena trattato ci introduce direttamente su un altro punto

fondamentale dell’Opera di Ibn Arabi che viene indicato dai “professori” come in disaccordo con l’Opera di Guénon. Si tratta, appunto, della nozione di Intelletto e della sua funzione. Vale la pena di chiarire perchè l’argomento è in diretta relazione con quello appena trattato circa i rapporti tra “Filosofia”, “esoterismo” ed exoterismo nel Medio Evo Cristiano.

Guénon ha messo in luce come l’Intelletto universale è lo strumento, l’organo stesso, della Conoscenza superiore che non può essere acquisita con la mente, organo e facoltà prettamente umana e dunque di ordine individuale.79 L’Intelletto, infatti, è una facoltà di ordine universale ed è come tale trascendente rispetto all’individualità umana e alle facoltà che la concernono, pur rappresentando nell’uomo il “soffio divino”, l’aspetto “non umano” in virtù del quale può dirsi che egli non è soltanto quell’apparenza individuale che appare ma molto di più.

L’Intelletto in tal senso inteso viene identificato nella varie tradizioni con il “Cuore” “centro dell’essere umano”80, con lo “Spirito”, con il “Verbo”, con il “Calamo Divino”, con Gabriele, l’Arcangelo delle Rivelazioni.

L’Intelletto, essendo il “Raggio” che promana dal “Sole Spirituale”, che è l’Essere, è l’unico in grado di afferrare la natura della Fonte Divina e di “risalire” verso di essa come lungo un “Asse Verticale”. Lungo tutti gli stati della manifestazione esso rimane invariato in sé stesso in quanto costituisce l’Asse verticale che ricollega tutti gli stati della manifestazione al Principio considerato come l’Essere e poichè l’Asse costituisce il “centro” di ogni stato di manifestazione, come tale è il punto trascendente e non manifestato dal quale tuttavia si “irraggia” lungo il piano orizzontale che costituisce uno specifico stato di manifestazione, di esistenza. Questo “irraggiamento” avviene dunque sul piano orizzontale mentre l’irraggiamento che dall’Essere produce tutta la manifestazione, avviene sulla verticale costituendo, appunto l’”Asse del Mondo” (o meglio “dei Mondi”); il “Filo” (Sutratma) che tiene collegati i mondi come una collana; il “Raggio Celeste”. Il “centro” di ogni stato dell’esistenza rappresenta così il “luogo trascendente”, il “punto immanifestato”, “l’attimo intemporale” nel quale è presente, senza essere manifestato perchè immanifestabile essendo oltre ogni condizione ed essendo la presenza delle condizioni stesse (non importa quali se più o meno restrittive o più o meno libere) che consentono la manifestazione di un grado o dell’altro dell’esistenza e degli esseri in esso manifestati e contenuti. Il “centro”, che nel caso dell’essere

79 Anche la semplice teologia cristiana insegna che gli angeli sono puri spiriti dotati di

intelletto, caratterizzati ed identificati con questa stessa facoltà.

80 Il “Cuore” inteso non come sede del sentimento e l’emozione che nella fisiologia tradizionale viene posto in relazione alle viscere ma come sede dell’Intelligenza, dell’Intuizione, della Comprensione delle cose universali e divine.

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umano è appunto simboleggiato dal Cuore81 non è mai, dicevamo, manifestato ma è sempre “presente”; anzi costituisce la ragione e la causa stessa dell’esistenza dell’essere manifestato e la sua sussistenza per tutto il ciclo della sua manifestazione ed è il “centro” che consente la “continuità” dell’”identità personale” di un determinato essere lungo il passaggio da uno stato all’altro che avvenga lungo l’Asse centrale o lungo le spire della periferia dei vari stati essendo l’Asse il centro di tutti gli stati della manifestazione che può essere descritta non come cerchi chiusi e sovrapposti l’uno all’altro ma come una Spirale che consente il passaggio agli altri stati anche attraverso la periferia.82 Tuttavia l’essere manifestato, quello umano ad esempio, non possiede in modo diretto e immediato l’Intelletto più di quanto non sia collocato al “centro” che è non manifestato; non potrà prendere consapevolezza e possesso (se cos’ ci si può esprimere) che “uscendo” dalla condizione periferica in cui si trova e convergendo verso il centro (da cui la ”conversione” di cui si parla anche nel linguaggio religioso). Ma, ovviamente, questa conversione non potrà avvenire che “nell’interiore” perchè l’accesso al Cuore non avviene nella condizione di dispersione e di molteplicità che caratterizza propriamente la manifestazione. Il “centro” è “dentro” non fuori, così come, secondo il vangelo: “Il Regno dei Cieli è dentro di voi”.83

Abbiamo detto che il “centro” non è mai manifestato perché è immanifestabile rappresentando, appunto, la “Traccia”, l’Ombra” (mentre in realtà ne è la Luce) dell’Essere nella Manifestazione; cosa si intende allora quando si dice che nell’età primordiale il “centro” era visibile ed il “Paradiso terrestre” era presente? Si intende che era facilmente accessibile; che era ad un passo dall’uomo; si intende che egli era collocato “nel giardino” ma non al “centro” dove era collocato l’Albero della Vita e quello della “Conoscenza del bene e del male”, cioè della conoscenza non più unitiva ma separativa e duale. Quel “centro” era accessibile ma bisognava accostarsi ad esso nel modo adeguato e secondo l’Ordine diversamente non soltanto l’Opera fallisce ma

81 (considerando tuttavia che il simbolo non è solo una figurazione ma la reale traduzione cosmico-simbolica della realtà superiore e dei principi metafisici che li rappresenta se non per identità, “per analogia” e l’analogia è reale. In tal senso il simbolo è più della realtà visibile e sensibile e non di meno)

82 La differenza di passaggio indica proprio la differenza della condizioni postume dell’essere che esce da uno stato per entrare in un altro. Secondo il grado di Conoscenza (e qui Conoscenza non s’intende ovviamente nozionistica o mentale) acquisito dall’essere manifestato questi accederà ad uno stato “paradisiaco”, di “salvezza” o ad uno “infernale” di dannazione (usando un linguaggio religioso) che significa, uno stato di esistenza più libero e meno condizionato o uno più svantaggiato e condizionato di quello che possedeva nel precedente stato, avendo perduto sia l’occasione della salvezza che quella della Liberazione immediata o differita.

Proprio perchè l’Esistenza è Unica ed è il riflesso dell’Unità dell’Essere che la “irraggia”, i gradi e gli stati non possono essere incomunicabili ed autonomi come delle realtà chiuse; tutta l’esistenza è infatti caratterizzata oltre che dalla “dualità” anche dal “divenire” che è, appunto, la contrapposizione dello stato dell’Essere che è la stabilità, l’eternità, l’immutabilità, la pienezza. Proprio per questa “unità” gli esseri possiedono “virtualmente” tutti gli stati anche se sono “attualmente” manifestati e racchiusi in uno di questi. E’ proprio in virtù di questo fatto che la Conoscenza e il Ritorno (come si esprimono i Testi sacri) è possibile e che è altresì possibile la Liberazione che non è se non l’uscita da tutte le condizioni limitative e restrittive della manifestazione.

83 Dice Gesù: “Vi diranno è qui, è la, ecco voi non credeteli perchè in realtà il Regno dei Cieli è dentro di voi”.

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si conferma la condizione di esteriorità ed avviene un ulteriore l’allontanamento dal centro con una maggiore periferizzazione dell’essere. Una periferizzazione che equivale quasi ad un perire, una morte allo Spirito. Dunque il “giardino” è la condizione del “paradiso terrestre”, dell’”immortalità virtuale”, dell’integralità dello stato umano e delle sue possibilità ma non è il “centro del giardino” che è ad un palmo di mano ma non ancora effettivo perché l’ingresso in esso equivale a non più uscirne rivolgendosi ormai l’essere verso gli stati superiori nell’Asse verticale.

Orbene, possiamo ora tornare all’Intelletto in quella che viene indicata da

taluni come la prospettiva di Ibn Arabi. Secondo una interpretazione ancora esteriore, taluni ritengono di concludere

che Ibn Arabi non attribuisca all’Intelletto questo potere tanto che sembrerebbe di dover concludere che egli appartiene a quelli che, come abbiamo visto trattando nelle pagine precedenti i rapporti tra exoterismo ed esoterismo nel Medio Evo cristiano che egli scenda dalle vette metafisiche nelle quali pur conduce per tornare nuovamente all’idea di “fede”, di “grazia” e di “merito morale” come unici mezzi e strumenti della “salvezza” e di ogni conquista spirituale, comprese le vette dell’Identità Suprema. Delle quali tuttavia egli parla e alla cui conquista tutta la sua Opera stimola e sospinge. E’ vero questo “ripiego”? E perchè?

Cominciamo subito col rilevare come lo stesso Guénon parlando dell’Opera di Ibn Arabi afferma chiaramente come l’iniziato, leggendo le opere di quel Maestro, vi troverà molto di più di quanto non possa trovarvi il comune lettore (che ovviamente può essere anche un estimatore o... un “professore”) e questo evidenzia già i vari livelli di lettura e di comprensione ma anche di interiorizzazione di quell’Opera ma suggerisce anche che quello di Guénon vuole essere un “messaggio” ed un invito a penetrare oltre le forme espressive.

Quanto poi al fatto se sia vero che Ibn Arabi riduce la natura e il livello dell’Intelletto e questo si rifletta dunque in un limite conoscitivo e dunque un restringimento dell’idea stessa di “Identità Suprema” e di “non dualità” che inerisce gli esseri colui che percorrono la Via iniziatica, le cose non sono affatto così.

In realtà qui, come nel caso del termine “esistenza” l’uso del termine è limitato all’aspetto “creato” dell’Intelletto anche quando si intende “Aql al Awwal” (l’Intelletto primo e non soltanto i suoi riflessi umani) per cui è evidente che alla natura, alla funzione ed al potere dell’Intelletto viene data una “restrizione” a questa facoltà nella via della realizzazione, come si esprime giustamente Max Giraud, e sussiste una difficoltà nel volerla trasporre nell’universale ma soltanto perchè egli considera soltanto l’aspetto “manifestato”, quello che l’induismo considera la prima manifestazione di Prakriti, cioè, “La Buddi”, il “Raggio celeste”. In tal senso è evidente che l’Intelletto “rifletta del Principio” e sia come la guida e il Maestro interiore degli esseri manifestati ma è altrettanto evidente che, essendo la prima manifestazione, la più elevata ma pur sempre il prodotto dell’esenza e della sostanza, cioè della prima “diade”, della “polarizzazione dell’Essere” non conosce l’Essere in sé stesso e l’Essere non partecipa nella sua Conoscenza che è Conoscenza di sé stesso, attraverso questo Intelletto e questa Luce. Può dirsi, sempre secondo

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un’immagine più o meno adeguata, che questa Luce e questo Intelletto sono l’irraggiamento più diretto di quella Luce e dell’”Intelletto Divino” di cui conservano più vivamente il “ricordo” e l’impronta, ma non vi coincidono. Questo però non vuol dire che ne siano “separati” realmente ma soltanto che, da quel livello in poi, non è più con l’Intelletto manifestato, riflesso di quello divino, che l’essere Conosce ciò che appartiene allo stato e alla realtà dell’Essere o, a maggior ragione, di ciò che è oltre l’Essere. Da quel punto in poi la Conoscenza continua attraverso l’”Intelletto Divino” cioè l’Intelletto proprio dell’Essere che appartiene all’Essere è che non ne’ è separato ma è Uno con esso; che è la natura stessa dell’Essere nell’identità “Essere = Conoscere”; si Conosce Allah per mezzo di Allah e con la Conoscenza di Allah. Se si continua a parlare di “Conoscenza di Allah” o di “Intelletto Divino” non si intende più l’essere che deve pervenire alla Conoscenza di Allah ma della Conoscenza che Allah ha di sé stesso; “Allah che Conosce Sé stesso per mezzo di Sé stesso”. E’ evidente che, prendendo come base l’essere manifestato e illustrando la dottrina dal punto di vista di colui che deve conseguire la “realizzazione”, il riferimento più immediato è l’Intelletto ed il termine Intelletto e Conoscenza continua ad essere applicato come schema di riferimento per tutto ciò che concerne il processo realizzativo sino alla Liberazione ma è altrettanto evidente che, quando la Conoscenza sarà “attuale” e “reale”, diciamo pure “effettiva”, che cosa significano più termini come “Conoscenza” e come “Intelletto”? La stessa espressione “Conoscenza di Allah” che continua a suggerire pur sempre una dualità, come “qualcosa” o “qualcuno” che debba Conoscere Allah o sia giunga a Conoscerlo, appare allora in tutta la sua contingenza, provvisorietà ed insufficienza. Questa restrizione che viene fatta al termine “Intelletto” non significa dunque, affatto, un limite dell’orizzonte della “realizzazione spirituale” che è e resta sempre l’”Identità Suprema”, la “Non dualità”; e questo viene confermato dal fatto che, il ruolo realizzativo che, nel linguaggio Guénoniano, viene fatto svolgere dall’Intelletto nel Tassawwuf e in Ibn Arabi viene fatti svolgere da un’altra facoltà che, liberata dal diverso rivestimento, non è altro che... l’Intelletto! Questa apparentemente diversa facoltà o organo spirituale... è il “Cuore”, “ricettacolo della Fede”, che, come dice il detto profetico contiene Allah mentre ne’ il cielo e la terra insieme non lo contengono ne’ possono contenerlo! Come abbiamo già rilevato più volte, il “Cuore” non è il “cuore sentimento” ma il “Cuore sede dell’Intelletto”; sede dell’Intelligenza che coglie, non come una vaga sensazione o emozione ma, nell’evidenza, il Principio e le cose universali con una luce che è “presentimento” e “anticipazione” dell’illuminazione e della contemplazione. Ecco allora che le parole di Maestri del Tassawwuf come l’Emiro Abdel Qadir, uno dei più grandi commentatori insieme a Qashani di Ibn Arabi, akbariani essi stessi, acquistano la loro giusta luce: “Fra le genti che non seguono leggi sacre, o che seguono una Legge “dimessa” (Mansukhah) vi è chi, praticando gli esercizi spirituali, gli sforzi ascetici, la riforma dei carateri dell’anima, giunge alla contemplazione dell’Intelletto Primo e pensa si tratti di Dio, esaltato Egli sia! E che al di la non vi sia più alcun bersaglio da colpire per il tiratore! Essi sono allora al colmo dello sviamento e commettono un errore assai pregiudizievole, perchè non hanno con sé la luce della Fede, ma unicamente la

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luce dell’anima e ciò che le è specifico. Le cose si svelano nella loro essenza solo a colui che possiede entrambi le luci”. (Mawqif 248 tomo 2 pag 626)

Intendendo alla lettera ciò che l’Emiro dice, si sarebbe portati a credere che è la luce della fede (di cui il Cuore è ricettacolo) che consente di superare i limiti del mondo manifestato. Nella realtà, che le cose non siano come sembra di capire alla prima superficiale lettura, lo dice innanzi tutto la logica: forse che la “fede” del comune fedele, anche di quello sincero e praticante ma rinchiuso nei limiti della comprensione letterale del Testo sacro, delle espressioni e dei dati della religione è la Fede di cui si tratta? Se così fosse perchè mai tutta l’Opera di Ibn Arabi non è altro che una confutazione dei significati esteriori dei versetti coranici ed una rivelazione non di rado sconcertante (tanto che questa è proprio la ragione del rifiuto che gli oppongono i teologi) dei sensi nascosti che sono poi la base sopra i quali egli insegna la metafisica dell’Identità Suprema, del tajalli e della realizzazione spirituale? Tanto basterebbe credere a quello che i Maestri dell’esteriore da sempre invitano a credere. Ma è soprattutto la lettura più attenta del testo stesso (e quasi sempre è così per tutti i testi di questa natura che sembrano apparentemente riaffermare l’esteriorismo mentre osservando meglio risulta vero il contrario) che rivela il suo significato diverso da quello che emerge alla prima lettura che probabilmente è mirata a rassicurare chi non può comprendere oltre. Infatti già all’inizio l’Emiro non dice... “Le genti che non seguono una Legge sacra...” ma “tra le genti...”, indicando così che non si riferisce a tutti. Inoltre, mentre sembrerebbe con questo riferirsi alle Tradizioni diverse dall’Islam, come almeno i più che leggono sono immediatamente portati a pensare con ciò escludendo dalla possibilità non solo della Vera Conoscenza ma anche della semplice “salvezza”, a chi in realtà si riferisce? Forse che gli Indù sono privi di una “Legge sacra”? Non hanno essi il “Manavadharmashastra”, il Veda e tutto il corpus dei riti? Forse che hanno libero permesso di seguire le loro passioni? E quanto agli “esercizi spirituali” o alle pratiche che condurrebbero all’errore di identificare l’Intelletto con Dio (il Principio Supremo) che dire del fatto che il Vedanta considera assolutamente inutili tutti gli sforzi, le cerimonie, gli esercizi e persino i riti se non accompagnati dalla Conoscenza e dall’intenzione unita alla concentrazione, costante, onnipresente, radicale, addirittura “unica ed esclusiva” (e non soltanto prevalente) nel Principio Supremo, Unica Realtà? Si dovrà riportare qualche sintetico canto rituale di Shancaracharya (considerabile l’equivalente indù di Ibn Arabi) per avere evidenza di quanto poco sia questione del solo Intelletto e di quale grado di adesione alla Legge sacra e all’Ordine cosmico perviene colui che è giunto a possedere la vera Conoscenza effettiva e non solo teorica? “Si ottiene un sapere eminente, e poi? Si diventa ricchi e potenti, e poi Ci si diverte con una bella donna e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Ci si adorna con braccialetti ed altri gioielli, e poi? Ci si veste di abiti di seta, e poi?

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Ci si delizia con vivande squisite, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Si visitano dei luoghi ameni, e poi? I parenti e gli alleati sono nutriti e rispettati e poi? I tormenti causati dall’indigenza e dalle disgrazie sono allontanati, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Ci si immerge nel Gange o in qualche altro fiume e poi? Si distribuiscono in elemosina monete di rame e poi? Si ripetono migliaia di volte i mantra, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. La famiglia si distingue, e poi? Ci si copre il corpo di cenere, e poi? Si porta continuamente un rosario, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Ci si purifica il corpo con digiuni e poi? Si hanno figli e figlie, e poi? Si compie il trattenimento del respiro, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Il nemico è vinto nelle battaglie, e poi? Il numero degli amici aumenta, e poi? Si possiedono i poteri dello Yoga, e poi? Certo non è così che il Sé è conosciuto. Si cammina sulle acque, e poi? Si tiene il vento prigioniero in una ciotola, e poi? Si solleva il monte Meru nel palmo della mano, e poi? Si beve veleno come fosse latte, e poi? Si mangia del fuoco come fosse riso, e poi? Ci si muove nel cielo come un uccello, è poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Si acquista l’onnipotenza su tutta la terra, e poi? Si concentra in sé stessi la potenza di un dio, e poi? Ci si innalza sino alla supremazia di Shiva, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Si stabilisce qualsiasi cosa con i mantra, e poi? Si è trafitti da frecce senza subirne danno, e poi? Si conosce il passato e l’avvenire, e poi?

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Certo non è così che il Sé è percepito. L’angoscia delle passioni è distrutta, e poi? Il pungolo della collera è smussato, e poi? La stretta del desiderio è respinta, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. La notte della dispersione è dissipata, e poi? Non si trae alcun orgoglio dalla propria funzione, e poi? Le morse della brama sono scomparse, e poi? Certo non è così che il Sé è percepito. Si conquista il mondo di Brahma, e poi? Si contempla il mondo di Vishnù, e poi? Si comanda nel mondo di Shiva, e poi? Certo non è così che il Sé e percepito. Colui nel cui Cuore questo santo disprezzo per il non-Sé Scaturisce in modo costante e pieno È un vaso d’elezione per la percezione diretta del Sé Che non conosceranno mai quaggiù Coloro che si smarriscono nel turbine di un universo illusorio.” Shankaracharya (Il santo disprezzo per il non-Sé.). Un altro inno: “Quando nella città egli contempla i cittadini, uomini e donne costituiti dal nome e dalla forma, ben vestiti con ornamenti d’oro, e si ricrea con loro pensando: “Colui che percepisce è il puro Testimone” Il Muni (Liberato) non è nell’illusione; tamas (le tenebre, l’ignoranza, la pesantezza) Grazie all’iniziazione del suo Guru, è stato abolito. Quando nella foresta egli guarda le cime degli alberi che si piegano sotto il loro fardello di foglie, e sente i cinguettii diversi degli stormi di uccelli nascosti nell’ombra folta, non avendo per sedile, sia di notte che di giorno, che un palmo di terreno... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito Quando soggiorna in un Tempio, un altro giorno in un palazzo sontuoso, a volte in una roccia, a volte suo bordi dei torrenti, o quando divide la capanna dell’uno o dell’altro saggio eminente e pacato... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito.

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Quando si ricrea, ora con dei fanciulli che ridono e battono le mani ora con una donna giovane e bella; quando si intrattiene con dei vecchi austeri o con degli uomini completamente diversi... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Quando conversa con dei Saggi che assaporano una felicità immemoriale e multiforme, o con dei poeti dalle cui labbra sgorga l’essenza stessa dell’arte poetica, o ancora con i migliori logisti tutti assorbiti dalle loro deduzioni... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Quando compie in qualche luogo un culto divino con delle meditazioni assidue, altrove cn fiori appropriati, in piena fioritura e pregni di profumo, altrove con delle foglie immacolate, l’animo gioioso, tutto dedito alla glorificazione... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guro è stato abolito. Quando recita i nomi di Colei che è benigna verso gli esseri, di Colui che da la Tranquillità o di Vishnu che penetra ogni cosa o quando recita i Nomi del Condottiero dell’Armata Divina o di Colei che manifesta e consuma l’universo e la beatitudine inonda i suoi occhi di lacrime... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Quando si purifica nei flutti del Gange, quando adopera acqua di un pozzo o di uno stagno, che sia quest’acqua fredda o calda o tiepida e piacevole o quando il suo corpo coperto di ceneri è simile alla canfora... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Quando è occupato da sensi e dagli oggetti dello stato di veglia; quando gode degli oggetti dello stato di sogno o quando percepisce la felicità ininterrotta del sonno profondo... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abilito. Quando è nudo, quando è vestito come un dio o quando cinge intorno alle reni una pelle di eone, magnanime, senza scrupoli, dando gioia al cuore dei suoi vicini,,, il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’illusione del suo Guru è stato abolito. Quando permane in sattwa, quando è in contatto con la natura di rajas o con quella d tamas, o quando si libera da queste tre modalità, a volte nella corrente della trasmigrazione, a volte compiacendosi nel sentiero della Shruti (Shari’a indù)... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guri è stati abolito. Quando osserva il silenzio o quando si dimostra incline a parlare, quando la sua felicità intima sospende la sua voce o la fa prorompere nel riso, o quando esamina con interesse qualche faccenda mondana... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito.

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Quando versa sorsate di vino puro nelle bocche dischiuse come loti delle shakti o quando le prende egli stesso con la sua bocca, dimostrando che il mio e il suo non contaminano la natura non duale... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Quando si compiace nel frequentare i fedeli di Shiva o gli Shakta; quando vive tra gli adoratori di Vishnu, fra quelli di Surya o di Ganesha, liberato in virtù della non dualità da tutto ciò che divide... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Quando percepisce la pura essenza attraverso l’innumerevole varietà delle qualità e delle distinzioni, a volte rivestita di una forma, a volte senza forma, essenza che è la sua ed anche quella di Shiva; quando di fronte a questa meraviglia esclama: “che cos’è mai questo?”... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Quando percepisce anche la dualità tutta intera come Verità, come fatta di Shiva, secondo la grande parola del Sacro Testo (Veda-Upanishan) di cui egli ha compreso e meditato le accezioni profonde; quando avendo respinto l’errore della dualità (non unificata) egli ripete senza sosta “Shiva, Shiva, Shiva”... Il Muni non è nell’illusione; tamas grazie all’iniziazione del suo Guru è stato abolito. Egli gioisce ininterrottamente della Liberazione, tuffandosi e rituffandosi nel lago di Beatitudine innata che è la Realtà Suprema di Shiva alla quale egli è giunto grazie allo sguardo di nettare del suo Guru compassionevole. Il suo comportamento essendo perfetto è il primo fra gli uomini e i poeti lo proclamano uno Yogi, un rinunciatario, un ispirato. Egli è silenzioso con il taciturno, virtuoso con il virtuoso, sapiente con il sapiente, afflitto con l’afflitto, nella gioia con chi è felice, nel piacere con chi gode, stupido con gli stupidi, giovanile con le donne giovani, loquace con i chiacchieroni: lui, il fortunato che ha conquistato i tre mondi, è disprezzato con il miserabile! Shankaracharya. (Jivan mukta Ananda Lahari). Tornando ora all’Emiro Abdel Qadir, che altro dire della frase con la quale egli conclude l’inciso, cioè: “Le cose si svelano nella loro essenza solo a colui che possiede entrambi le luci”? Forse che essa non evidenzia sin troppo chiaramente che egli riconosce all’Intelletto la sua funzione di ausilio essenziale del processo realizzativo, non bastando la sola “fede”; giacchè, è proprio quell’Intelletto che illumina di significati profondi ed elevati; quelli che appunto Ibn Arabi rivela e che la “fede” da sola non rivelerebbe affatto ma anzi terrebbe nel loro guscio ed avvolti nella sua scorza. E’ evidente che, con il riferimento alla “fede”, mentre si intende chiaramente il significato superiore che abbiamo già rilevato, si intende anche fare salvo il ruolo fondamentale della Rivelazione con la sua Shari’a, il suo linguaggio, i suoi riti, i suoi

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simboli e le sue forme espressive; ed ovviamente non lo si vuole fare salvi tanto per convenienza, opportunità o necessità ma per una intrinseca ragione legata alla funzione stessa di una Rivelazione che è il provvidenziale adattamento cosmico dei mezzi di grazia alla nuova condizione umana del particolare momento ciclico. La necessità della “Fede” qui è dunque intesa proprio sulla base della consapevolezza non certo che è indispensabile l’exoterismo (il che contradirebbe proprio l’esistenza stessa del Tassawwuf rendendolo superfluo ed inutile se non addirittura in contrasto) ma del fatto che la nuova Rivelazione è la forma stessa della quale si riveste lo stesso esoterismo che trae legittimità dalla stessa Rivelazione nella sua totalità. Quel riferimento alla “Fede” è l’avviso stesso non di una superiorità sull’esoterismo ma di un’imprescindibilità di quest’ultimo dalle basi rituali e dagli strumenti di grazia della Rivelazione ma unicamente perchè la Rivelazione rettamente intesa non si esaurisce ne’ tanto meno si identifica con l’exoterismo o con i limiti che gli exoteristi non sono capaci di superare ma contiene tutto. Non sarebbe concepibile un Tassawwuf senza il Corano, la Sunna e la Shari’a o il riferimento ad una presunta Via di Conoscenza senza la Rivelazione e tutta la struttura sulla quale quella Via si sorregge; ma questo proprio perchè la Rivelazione non è soltanto quello che l’exoterismo è capace di vedervi ne’ perchè l’esoterismo abbia bisogno dell’exoterismo (è vero il contrario) ma perchè è soprattutto Conoscenza. Senza quella base strutturale, infatti, ogni preteso uso autonomo dell’Intelletto si ridurrebbe, nel migliore dei casi, a un mero esercizio della mente, a speculazioni dialettiche e visto che, infine, non si tratterebbe affatto dell’Intelletto considerato che, alla prova dei fatti, “...quelli tra le genti che non seguono Leggi sacre... “, di cui parla l’Emiro, non sono neppure in grado di capire questa preliminare esigenza! In caso contrario che senso avrebbero le esortazioni coraniche a meditare, a riflettere a comprendere? E soprattutto che senso avrebbero le ingiunzioni, i rimproveri, gli inviti di Ibn Arabi ai “dottori dell’esteriore” e a quelli che si dicono “fedeli” e “monoteisti” ma non comprendono coerentemente il senso di queste parole ne’ lo vivono in conseguenza? Con che cosa lo stesso Ibn Arabi avrebbe compreso le verità sublimi che esprime? E “come” e su “quale” facoltà si sarebbe svolto lo “svelamento intuito” di cui parla? E come avrebbe egli potuto ricevere le “rivelazioni dell’Angelo”, e comprenderle, e poi “tradurle” e “leggerle” agli altri?84 E con che

84 E che cosa significa che il Profeta allorchè gli apparve l’Angelo della Rivelazione (Gabriele) ingiungendogli

di “leggere” la Rivelazione, rispose “Non so leggere” obbedendo oi soltanto alla successiva ingiunzione... “Leggi, nel Nome del Tuo Signore che ha creato... che ha insegnato all’Uomo ciò che non sapeva”... Veramente si è disposti, come i più limitati esterioristi tra gli exoteristi, a considerare il Profeta era un “illetterato” cioè un “ ignorante” che non sapeva leggere , visto peraltro che poi, guarda caso, scrive ai potenti della sua epoca lettere autografe di accogliere l’Islam? Non è invece logico che egli non sapesse leggere il linguaggio spirituale tradotto nel suo livello umano e distintivo avendo raggiunto le vette dell’Unità dove le lettere non sono più divise e dove l’insegnamento è sintetico ed eminentemente metafisico, cioè incomprensibile alla stragrande maggioranza degli uomini cui una Rivelazione è destinata? Invece la funzione gli imponeva ora il “ritorno alle creature”, la “Missione”, che è come un’apparenza di allontanamento dal “Suo Signore” tanto che occorre un ordine successivo e chiarificatore: “Leggi Nel Nome del Tuo Signore”. Questa “discesa” è evidente anche dall’hadith nel quale il Profeta, all’esito di un esame che un uomo (che il Profeta stesso ha indicato come l’Arcangelo Gabriele in sembianze umane) apparso in mezzo ai Compagni aveva fatto nei confronti del Profeta interrogandolo sui principi dell’Islam e, alla risposta del Profeta rispondeva che era esatto. Alla domanda rivolta al Profeta chi fosse, dopo che si era allontanato, Egli rispondeva “”Gabriele che è venuto ad insegnarVI la Vostra Religione”.

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cosa dovrebbero capire i lettori di Ibn Arabi ciò che è oltre i simboli, la lettera, le espressioni figurate, se non con l’Intelletto? E come potrebbero farlo se non esistesse una facoltà capace di farlo? Non è certo il “cuore-sentimento” così mutevole e limitato che può cogliere le realtà e le ragioni universali.

A tacitare tutte basterebbe questo versetto del Corano: “E questi simboli Noi li proponiamo agli uomini, e non li afferrano con l’Intelletto se non coloro i quali hanno la Scienza” (Cor. XXIX , 43).

Se Ibn Arabi negasse veramente l’Intelletto, la capacità o la facoltà di “andare oltre” le apparenze, il linguaggio figurato o anche il senso letterale, esteriore e più immediatamente legato ai sensi grossolani, non avrebbe senso neppure tutta la sua Opera ne’ la stessa Via iniziatica. E’ evidente dunque che il motivo del suo apparente limitare l’Intelletto non è lo stesso degli exoteristi del Cristianesimo dei quali ci siamo occupati ne’ lo stesso del “dottori della legge” islamica. Egli sa bene che l’Intelletto al quale viene attribuita la facoltà di Conoscere sino al grado massimo della Liberazione e che coincide con l’Assoluto, non è la “ragione” e neppure il riflesso dell’Intelletto nel mondo umano ma il “Cuore-Intelletto”, l’”Occhio del Cuore”.85

Ancora una volta varrà ripetere, dunque, che ciò che Ibn Arabi e i grandi del Tassawwuf dicono allorchè sembrano limitare la funzione dell’Intelletto è in vista di evitare, in una Via spirituale, l’errore di riporre totale fiducia sul solo Intelletto escludendo la Rivelazione. Errore non perché si ritenga limitato l’Intelletto ma in quanto, la condizione ciclica che ha reso necessaria una Rivelazione, esclude (salvo per i casi straordinari degli Afrad che non possono essere considerati come principio generale) che l’Intelletto sia ancora effettivamente “agente” nell’umanità destinataria della Rivelazione, come invece era nell’Umanità primordiale.86 Come evidenzia Max

85 Se si dice che la Conoscenza trova un limite nell’Essenza Divina, il che vuol dire

nell’Essenza dell’Assoluto stesso, è perché, in realtà, l’Assoluto, l’Infinito, non hanno un’Essenza e non sono un’Essenza che deve essere conosciuta o capita. L’Assoluto non si “raggiunge”; nell’Assoluto si è “stabiliti”; e se il modo di Conoscere l‘Essere è “Essere” (in quanto la vera Conoscenza è essere la cosa stessa diversamente si tratterà sempre di una conoscenza esteriore e duale, dunque di una “non Conoscenza” ovvero, ancora di un’ignoranza) è evidente che non c’è nulla da conoscere se non Sé stessi al di la delle apparenze illusorie. Ecco perchè i Veri Maestri, i Sapienti e lo stesso Abu Bakr giungono ad affermare che la loro Conoscenza, ormai giunta al massimo del percorribile, della Virtù e della ricerca, così come la Conoscenza di quelli che sono ugualmente giunti al massimo della Conoscenza, è culminata con la Consapevolezza e con il Conoscere... si è ignoranti! Che non si può “conoscere” affatto. Non si tratta dunque di frasi che confermano l’exoterismo e devono far felici gli ignoranti e gli esterioristi ma che, rimanendo incomprese, li escludono definitivamente dalla Comprensione.

86 A tal proposito, questa verità spiega un altro di quelli che alcuni suoi avversari definivano “misteri” per i quali Guénon affermava categoricamente di non aver mai modificato la sua posizione, circa l’assoluta necessità, dopo l’età primordiale e soprattutto nell’ultima fase del ciclo (che riguarda almeno i seimila anni che ci precedono) di una “iniziazione” perché sia possibile percorrere una “via iniziatica” che debba condurre alla “realizzazione spirituale”, alla Conoscenza effettiva e alla Liberazione. E’ evidente che una “iniziazione” come intende Guénon e come intende la Tradizione, non è ciò che gli occultisti o gli pseudo-esoteristi intendono (“iniziazioni in

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Giraud nel suo studio su “Science Sacréè – Numero speciale dedicato a Guénon”, sarebbe infatti fuori luogo ritenere che l’Intelletto sia inutile nelle “vie spirituali” o che Ibn Arabi lo escluda veramente o lo restringa ad una mera facoltà di ordine individuale ed umana.

Come rileva giustamente Max Giraud: “Finchè il viaggiatore verso Dio mantiene la coscienza di una separatività, l’Intelletto rimane il maestro interiore immediato, giacché è il Primo istruito da Dio, e il primo insegnante per le creature proprio in ragione della loro posizione esistenziale, poichè, come dice l’Emiro: “Chiunque, dopo di lui, guarda Dio nello specchio dell’Esistenza non vede che la “forma” dell’Intelletto”. In sua mancanza la Rivelazione fatta agli uomini non avrebbe alcuna efficacia, poichè il Corano insegna... “Ma Allah testimonia di ciò che Lui ha fatto discendere versi di te; Lui lo ha fatto discendere per mezzo della Sua Scienza” (IV, 166). Ora, questa scienza può essere sì ricevuta dal Cuore per teofania (tajalli) in casi eccezionali, ma il più delle volte, nei casi ordinari, viene trasmessa dall’Intelletto alla ragione umana. Tutti i dati e tutte le tecniche tradizionali sono presenti a favorire la scoperta di questa scienza grazie al Tajalli, teofania ricevuta dal Cuore secondo la dottrina normale del Tassawwuf, e tramite l’intuizione intellettuale pura secondo (il linguaggio di) Guénon; ma è evidente che per la formulazione e la comunicazione all’esterno di questa Scienza, e il suo ricevimento dal composto umano, il compito dell’Intelletto, sotto tutti i suoi aspetti umani, è primordiale. Ogni “missione”, e a maggior ragione i casi maggiori di “realizzazione discendente”, sono allora tributari della presenza dell’Intelletto in quanto intermediario.” Per ulteriori argomenti sul punto rimandiamo a questo studio di Giraud.

Concludiamo l’argomento dell’Intelletto con un’ultima considerazione: forse è

proprio su questo punto che il Cristianesimo ha fondato la dottrina “Trinitaria” che, se dal punto di vista esoterico trovava una sua spiegazione, nella lettera appare problematica e, all’Islam, addirittura mostruosa. Infatti, posto che l’Intelletto è anche identificato oltre alle sue identificazioni con il Cuore e con lo Spirito, esso è fatto equivalere anche al “Verbo”, la Prima, più pura ed elevata manifestazione dell’Essere attraverso la sua polarizzazione in “essenza” e “sostanza”. “Verbo”, termine tradotto più esterioristicamente anche con “Parola”, è l’Intelletto Divino Creatore e Rivelatore. Orbene, a questo punto si pongono due sbocchi a questa verità dottrinale, esoterico l’uno ed exoterico l’altro.

Lo sbocco exoterico si muove in un curioso paradosso: mentre si contesta che l’Intelletto abbia una natura trascendente e che possa condurre a Conoscere Dio, dall’altro lato, Cristo Gesù, che è indubitabilmente considerato “il Verbo”, diventa

astrale” o follie del genere) ma la trasmissione di una “baraka” (“benedizione”), “influenza spirituale”, collegata direttamente, legittimamente ed ininterrottamente al Profeta di una determinata tradizione vivente e che ricolleghi, pertanto, l’iniziato alla Fonte di quella Grazia di cui la Rivelazione si fa tramite e che, infine, coincide con il “legame” del suo essere con il “Suo Sé”, con il “Suo Signore”, con quell’aspetto superiore e trascendente con il quale l’uomo ha, via, via, perduto il contatto cosciente, nel procedere del presente ciclo.

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nella dottrina trinitaria “Dio” anche in virtù dell’espressione di San Giovanni Evangelista che dice: “...e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Ora: se questa espressione è perfettamente coerente e legittima nella prospettiva esoterica in quanto evoca la dottrina della “Non dualità” e dell”Identità Suprema”, non si vede come possa trovare accesso nel contesto exoterico visto che si nega sia l’Identità Suprema che l’Intelletto agente; vi trova accesso snaturandone il significato più profondo. E come farlo se non dicendo che qui l’”Intelletto Divino” è personificato ed anche esaurito in una figura storica precisa, esattamente nel “Figlio”, in Gesù Cristo inteso quale “seconda Persona” della “Tri-Unità Divina”. In tal modo, l’insegnamento esoterico secondo il quale “Il Padre” è l’Essere, il “Figlio” la manifestazione e lo “Spirito Santo” il filo d’unione e d’amore che lega essenzialmente l’Una realtà all’altra proprio perché la Realtà è Una, viene a ridursi in un’immagine letterale e ad esaurirsi in tre “Soggetti-immagine” che non hanno a che vedere con la Realtà Totale e con questa dottrina metafisica che ne è in realtà la sua Vera e più elevata spiegazione.

Nel contesto esoterico la metafisica della “Tri-Unità” supera ovviamente l’immagine letterale e non si identifica in forma esaustiva con Gesù Cristo personaggio storico ed esprime, invece, esattamente ciò che nelle altre espressioni dell’esoterismo corrisponde all’Essere, all’esistenza e all’Identità nell’Unità; e le espressioni “Padre”, “Figlio!” e “Spirito Santo” sono puramente simboliche esprimenti un ordine di Realtà e di Verità ben più universale ed intellettualmente elevato.87

Questa Verità è esattamente quella secondo la quale l’Intelletto Universale non è l’Essere ma l’Essere è anche l’Intelletto Universale e, infine, i due non sono due realtà distinte ma un’Unica Realtà. Allah e il Qalamo (la penna con la quale scrive sulla Tavola del Mondo) non sono mai in opposizione o distinti come pure la “servitù perfetta” che è in relazione a ciò, esprime esattamente questa “Unità” ed “identità” essenziali: il “Signore” ed il “Servo Perfetto” sono Uno come dice più volte Ibn Arabi tanto che, in questa Unità, non c’è più ne’ il Signore ne’ il Servitore visto che

87 Il Gesù Cristo storico nell’esoterismo Cristianesimo è Colui che insegna, rinnova, riporta

nuovamente questa Verità ed è ad un tempo il Simbolo, il Modello da imitare e seguire; è il “figlio del Padre” che insegna agli altri come tornare ad essere “Figli del Padre” i quali sono sempre e tutti “unigeniti” perché il Figlio dello Spirito è sempre Uno e non uno tra altri; ed ognuno che “rinasce dallo Spirito e nello Spirito” è Uno col Suo Signore; è l’”Unigenito Figlio dello Spirito” e del “Padre”...; e i Figli sono “fusi” sia pure “non confusi”. Esattamente questo è il senso superiore delle espressioni dei Sapienti del Cristianesimo quando dicono: “Siamo tutti Figli dello stesso Padre”; un’espressione che non sembra affatto richiamare l’idea di Gesù “Figlio di Dio” nel significato trinitario, cioè di Dio che avrebbe in se “Tre Persone Uguali ne Distinte e tuttavia sarebbe ugualmente Un Unico Dio dove è però Dio il Padre, Dio il Figlio, Dio lo Spirito Santo”, come già aveva rilevato Al Ghazzali trattando l’argomento. Ed anche San Paolo ripete spesso: “Vivo ma non io, Cristo in me”; “in Cristo moriamo e risorgiamo”; “Muore il vecchio uomo e risorge il Cristo”; “Cristo in me”. Sono espressioni che non sono soltanto manifestazioni di sentimento, di devozione e di acclamazione ma enunciazioni dottrinali dell’insegnamento esoterico del Cristianesimo.

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l’uno e l’altro termine sono l’uno in relazione all’altro, e l’uno, in funzione dell’altro. L’Assoluto si rivesta dell’uno e dell’altro come di ogni altro aspetto ma è sempre è solo l’Assoluto, come si esprime Ibn Arabi.

La figurazione exoterica di questa conoscenza è legittima finché rimane la consapevolezza del suo significato più profondo e diventa problematica e sotto un certo aspetto illegittima, quando rimane soltanto l’immagine letterale imposta come dogma di fede.

CONCLUSIONE Come prima osservazione, di fronte ad un’attitudine così profana come quella

che abbiamo dovuto costatare nei commenti di certi articolisti, ci era venuto spontaneo pensare che, in definitiva e al di là di tutto, la lettura dei testi dei Maestri tradizionali anziché far loro bene e svolgere in essi un lavoro di penetrazione che potesse condurli alla sintesi e a riconoscere la base comune dello stesso insegnamento dietro le apparenze di linguaggi, peraltro relativamente diversi, fa’ loro soltanto male; ma in fondo anche questo sarebbe relativamente vero. In verità, non fa loro altro che ricondurli alla dimensione che più gli compete e dalla quale erano solo temporaneamente sfuggiti imbattendosi in qualcosa di più grande di loro: una dimensione di exoteristi meno radicali quale che sia poi l’epilogo che ne è seguito allorché la “civiltà moderna” ha loro offerto l’occasione di sfuggire al rango che è loro più congeniale e guidarli verso una più “laica” occasione di professori.

Che dire dunque all’esito dei tentativi di proposita “chiarificazione” fatti da personaggi che da qualche tempo si occupano di Guénon? Forse una frase giusta detta da non ci ricordiamo chi, può riassumere tutto... “Ciò che era chiaro; ciò che Guénon aveva reso evidente... torna finalmente oscuro e certi argomenti vengono nuovamente avvolti nel pastume delle chiacchiere da summa filosofica e in stile scolaresco da accademici stipendiati a caccia di cattedre. Stile scolaresco di quel genere che ha reso a scuola, per anni, odiosa ogni materia anche la più interessante”. Se questo era uno degli scopi, il progetto è riuscitissimo. C’è da ritenere che questa sia una gran soddisfazione per i vari “professori” che non chiedevano altro che una platea che fosse disponibile ad ascoltare a bocca aperta senza essere troppo capace di capire o di capire con troppa facilità perché questo avrebbe ridimensionato un po’ troppo la loro immagine di cervelloni, professoroni capaci di contenere materie così “difficili” da essere quasi impenetrabili per i comuni mortali... ma proprio per questo anche così idonee a far incantare almeno un certo auditorium quando, ovviamente, non sia composto da quella ancor sana massa di “grezzi” capaci tuttavia di riconoscere, per un sano realismo formatosi nella concretezza della vita quotidiana, che dietro certi cervelli gonfi non c’è altro che aria. Del resto, le Opere di Maestri lontani nel tempo sono in un certo senso “rassicuranti” perchè “neutre” e non toccano i propri equilibri, i proprio miti e le proprie illusioni di “uomini moderni”; inoltre lasciano in qualche modo divagare e non di rado...

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“sognare”. Qualcosa che, invece, l’Opera di Guénon, non consente: o la si rifiuta o la si accetta in toto, dovendo cessare, in qualche modo, di essere “uomini moderni” e aprirsi al mondo della Tradizione su tutti i fronti: da quello della comprensione e dell’accettazione delle scienze tradizionali aderendo pienamente alla mentalità tradizionale a quello del rifiuto delle illusioni e delle mitologie moderniste con un’adesione coerente allo spirito tradizionale secondo la forma che si decide di adottare e di vivere. Così, poichè una volta toccati da quell’Opera riesce difficile rigettarla e tornare a vivere nell’oscurità, si cercano, paradossalmente, “alleanze” con qualcuno che si sa essere certamente forte come lo sono i Maestri autentici dell’Islam o di qualunque altra tradizione vivente, per mezzo dei quali illudersi di poter ridurre la misura di quello che è in fondo il metro steso che segna la loro reale statura di uomini moderni. Possono essere sicuri, tuttavia, questi detrattori, che quei Maestri sarebbero i più severi giudici contro di loro perchè, mentre Guénon appartiene al “Consesso dei Saggi e dei Sapienti”, essi restano nonostante tutti dei “profani” con l’aggravante di star svolgendo un’operazione che assume a volte “i tratti del grottesco”. A quel contenitore senza fondo che è l’”uomo moderno” piace conoscere di tutto, soprattutto se è esotico e rassicurante ad un tempo ma non deve toccare i suoi equilibri, i suoi sacrari e misurarlo; non deve soprattutto giudicarlo. E’ ormai palese da molto tempo il tentativo di mettere in ombra Guénon nelle più svariate maniere; la conclusione che teniamo più probabile sta nel fatto che, se quanto abbiamo finora esposto della dottrina metafisica è senza dubbio il presupposto e il viatico fondamentale della dottrina di tutti i Maestri spirituali e delle loro opere, scritte o vissute, tuttavia quest’evidenza rimane come rassicurantemente in ombra sovrastata dalla speculazione dottrinale. Rimane soprattutto avulsa dalla realtà attuale, concreta, nella quale si vive quotidianamente, soprattutto in ordine alle mitologie che oggi sono più diffuse. Infatti, finché ci si limita al generale, a un discorso sull’onestà, sul controllo delle passioni, dell’altruismo, sulla pazienza, sul non fare il male al prossimo, sull’impegnarsi a dare una buona educazione alla famiglia ed ai figli, sull’onestà in generale, sul controllare l’egoismo e l’avidità, non si tratta forse degli stessi argomenti che, non diciamo il più moderno dei Papi farebbe e difatti fa nelle sue prediche, ma che fa anche il più spregiudicato dei politici in pool position o la più banale delle morali laiche?. L’educazione assimilata sa bene come aiutare a filtrare certe parole e come nascondersi dietro la convinzione che in fondo sono gli altri a fare il male e ad essere disonesti. Quando invece qualcuno, come Guénon, viene a individuare la radice di certi oscuramenti, intellettuali prima e morali poi; ed anche l’origine di certe ipocrisie, di certi inganni e di certe confusioni, allora le cose cambiano. Come si può permettere che qualcuno indichi nella scomparsa delle caste, non la causa (Guénon non è così banale e politico..) ma uno dei segni dell’attuale situazione collettiva ma anche individuale. Come si può evidenziare nella ribellione del potere temporale all’autorità spirituale uno dei segno dello sconvolgimento individuale e collettivo e sociale? Come si può indicare nella scienza moderna e in tutti i suoi miti, nella politica falsamente populista ma in realtà guidata da pochi agenti della contro-tradizione la frode di sottofondo? Come si può dire che

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il mondo della Tradizione ed i tempi “passati” possedevano un più elevato equilibrio ed avevano ancora le chiavi di una porzione di felicità umana e permettersi di indicare nel mercantilismo, nelle conquiste della “civiltà moderna” di cui tanto vanno fieri ormai quasi tutti gli uomini, i sottofondi della frode ed i “marchi del grottesco” che danno corpo alle immagini tradizionali racchiuse in parole come “satanismo”, “rovesciamento”, “regno del dajjal”, “segno dei tempi”, “fine di ciclo”, ecc. ecc.? Come possono bravi e “prestigiosi professori” che debbono insegnare nelle Università dalle quali debbono uscire dei buoni “uomini moderni”, accettare prima, e farsi poi testimoni, di tutto questo? Forse che Ibn Arabi chiede questo apertamente? Molto probabilmente se fosse vissuto all’epoca di Guénon ed alla nostra epoca pensiamo che o non parlerebbe più affatto “ritraendosi” in una funzione tutta interiore oppure dichiarerebbe, puramente e semplicemente irrecuperabile, foss’anche soltanto uno solo degli uomini della nostra epoca forse aggiungendo anche che è perfettamente inutile continuare ad impartire certi insegnamenti se non addirittura anche semplicemente ad aprire le chiese e le moschee, visto che questo comincia a rivelarsi ormai, perfettamente inutile su un piano interiore, anche soltanto agli effetti del più basso livello di “salvezza”. Forse è esagerato quello che affermiamo ma crediamo che la conclusione non sarebbe molto lontana dalla realtà e con questo riteniamo di essere arrivati alla vera ragione per la quale Guénon deve farsi considerare superato: in lui c’è la consapevolezza dell’esatto momento cosmico e dell’esatta situazione in cui l’umanità si trova ma c’è anche l’individuazione del veleno e del contro-veleno. C’è la ripresa di una consapevolezza totale, realistica, attuale che permette di capire che cosa sta accadendo e di non partecipare alle illusioni ed alle false speranze cui la gente tiene tanto. Guénon non toglie la speranza ma solo le illusioni e non crediamo che la speranza debba necessariamente identificarsi con un invincibile attaccamento alle illusioni alle quali non si vuole rinunciare. E non è neppure vero che la Verità deve essere consolante per essere tale. La vera Consolazione nel significato superiore del termine è la Verità e la Conoscenza che vincono ogni paura.

Arriviamo così all’ultimo punto col quale vogliamo concludere: Guénon o meglio la sua Opera, è indispensabile? E’ lo per l’Oriente? E lo è per una civiltà tradizionale pienamente vivente? E dove, quando le è veramente? E fin dove e fino a quanto?

La risposta a queste domande è una che tutte le contiene e cominciamo subito col dire che, ovviamente in una diversa realtà sociale tradizionale dove la Tradizione in una delle sue forme fosse ancora perfettamente vivente e completa o dove Guénon non ha ancora svolto la sua funzione, questo può essere superfluo e persino inopportuno. Questo lo sapeva benissimo lo stesso Guénon che ha sempre premesso di rivolgersi ormai più ai pochi in grado di comprendere in Occidente ed ha sempre auspicato che a quest’ultimo un aiuto provenisse proprio dall’Oriente ancora tradizionale. Egli stesso ha sempre fatto capire che, in un’epoca deve non fosse in essere una confusione così imperante, le sue precisazioni non sarebbero state affatto

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necessarie poiché egli non dice nulla di nuovo e nulla di suo; questa è la legittimazione della sua funzione. Forse la conoscenza di Guénon e della sua Opera non è necessaria in una realtà pienamente tradizionale; ma c’è più ormai veramente un angolo della terra dove la Tradizione sia rimasta veramente pura e completa? E c’è un angolo dove non possa dirsi che i “segni” non siano così presente da far chiaramente avvertire l’approssimarsi della “fine del presente ciclo” che è, appunto, “la fine di un mondo”. C’è veramente ancora qualcuno che, tranne casi eccezionali e personali, possa considerarsi immune dalla confusione imperante e che possa considerare superflua l’Opera di chiarificazione intellettuale svolta da Guénon in ogni campo: da quello dottrinale a quello sociale a quello dell’interpretazione dei fenomeni circostanti sui quali, persino quelli più apparentemente immuni da suggestioni e più “puri”, sembrano non avere il minimo sospetto o dubbio circa la vera natura delle forze che li ispirano e li sorreggono? A noi sembra piuttosto che, forme di ingenuità spaventosa presente anche nei pochi Orientali rimasti in una qualche misura integri, espongono anche quel poco che resta dell’Oriente, alle suggestioni più dissolventi che passano attraverso le fenditure lentamente predisposte e che, infine, circondano ed inquinano senza neppure che ci si renda conto di quanto sta accadendo.88 Ed allora la conclusione è che Guénon non è mai superato nel contesto in cui egli deve svolgere, ha svolto e la sua Opera svolge, la sua funzione provvidenziale. Nessun autentico Maestro potrebbe osare dichiararlo eterodosso conoscendone direttamente e non per riferito malevolmente l’Opera, da qualunque tradizione si ponesse; piuttosto eviterebbe di parlarne, di esprimere un giudizio perchè saprebbe riconoscerne per via immediata ed interiore, l’autorità, la funzione e l’ambito di azione. Un ambito di azione che, se non trova ragione di utilità nel contesto di una realtà completamente tradizionale, trova addirittura necessità in un contesto con quello Occidentale fino ad almeno 50 anni fa e, ormai, in tutti i Paesi del mondo quale che sia la pretesa tradizionale che ritengono di avere. Non capire questo è già il “segno” di un inquietante oscuramento; infatti meglio sarebbe, ove ancora qualcosa fosse effettivamente rimasto, tacere su di lui piuttosto che esprimere un qualunque giudizio foss’anche parzialmente positivo perchè, quella parzialità, sarebbe già indicativa di un’incomprensione mentre il silenzio sarebbe ancora espressione comunque di una saggezza e di una comprensione più profonda delle cose e della

88 Aggiungiamo: ed anche quando certe correnti sembrino assumere atteggiamenti di

radicalismo, di fondamentalismo, di reattività e di integralismo che sembrerebbero contrapporsi alla mentalità ed alla “civiltà moderna”, ad un esame poi anche di poco più profondo, queste stesse correnti si evidenziano proprio tra le più esposte alle suggestioni moderniste più dissolventi ed antitradizionali, le più animate da uno spirito di competizione, di concorrenza, di attaccamento alle cose del mondo che porta con se l’aggravante del rischio, proprio perché utilizza argomenti ed elementi che appartengono al “sacro”, di sconfinare infine in un vero e proprio “rovesciamento” che costituisce proprio uno di quei “marchi di grottesco” che evidenziano la natura “satanica” di certe operazioni e delle influenze che agiscono dietro certe correnti, ad insaputa dei soggetti che vengono utilizzati.

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situazione globale. Dove invece la sua Opera non è solo utile ma necessaria e provvidenziale è in tutte quelle realtà nelle quali è ormai giunta la mentalità moderna, la “civiltà moderna”, i miti della “civiltà moderna”, l’uomo moderno, i metodi del vivere, dell’agire, del pensare, del produrre, propri del meccanicismo, del mercantilismo, del produttivismo, dell’organizzazione, del mondo moderno in genere. La sua Opera non nuoce certo di più alla semplice “fede” di fedeli i cui cuori sono ormai ben più orientati verso il mondo che verso l’Eterno; non nuove certo di più alla forma espressiva di chi ha compreso le Opere dei maestri del Tasawwuf e non li turba certamente allorché in essa vengono dimostrare le evidenze che già i grandi Maestri di ogni forma tradizionale, sia pure con più timidezza e prudenza, considerate le diverse situazioni storiche in cui operavano, avevano affermate allorché invitavano a scorgere la stessa dottrina dietro i simboli di tutte le altre Rivelazioni. Checchè ne pensino i “professori”, sia quelli rimasti, almeno all’apparenza, riconoscenti all’Opera di Guénon che quelli che ritengono di averla superata, è Guénon che permette di spiegare Ibn Arabi non viceversa; ed è Guénon che permette di capire dottrine che, approdando direttamente ad Ibn Arabi, sarebbero rimaste, e generalmente rimangono, veramente in un chiuso quasi inaccessibile. E se qualche differenza espressiva (e solo apparentemente dottrinale per effetto dei limiti del linguaggio e per la differenza delle lingue) può sembrare innegabile, si può essere certi che il limite non è ne’ dell’uno ne’ dell’altro Autore ma, eventualmente, del linguaggio che è stato costretto ad usare. E quanto a costrizione, non c’è dubbio che Ibn Arabi abbia avuto più vincoli impostigli dall’epoca, dall’ambiente sociale, dallo scrupolo, dal pericolo e dall’obbligo di rimanere fedele alla lettera del Testo sacro cui doveva appoggiarsi. A dover esternare proprio tutta la sensazione che deriva dalla lettura di certi articoli, verrebbe da dire che sembra quasi che ci sia una sorta di rabbia per il fatto che Guénon è riuscito a rendere troppo comprensibili dottrine che altri, non escluso Ibn Arabi, non erano riusciti, evidentemente perchè non avevano potuto farlo a causa dell’ambiente, a rendere così evidenti e sinteticamente accessibili. E sembra quasi che lo sforzo, proprio attraverso la comparazione voglia mirare proprio al risultato di riportare nell’oceano delle immagini la sintesi del concetto libero.89

89 Varrà ripetere ancora una volta che, mentre la funzione di Guénon è stata quella di fornire

una bussola infallibile di orientamento in una condizione di buio intellettuale quale quello dell’epoca attuale e dell’Occidente e di rendere nuovamente accessibili certe verità dottrinali fondamentali liberate da tutti quegli elementi sentimentali ed emozionali ma anche irrazionali che avevano avuto la loro parte di responsabilità proprio nel rifiuto o nell’incomprensione da parte dell’Occidentale moderno di quelle dottrine stesse, nel caso di Ibn Arabi, invece, la sua funzione è propriamente quella di fornire un lavoro di scavo che sia soprattutto “operatività”, e dunque, anche di rottura e di provocazione sottile, lenta e dosata di abitudini e di immagini. Ciò implica un lavoro di trasporto e uno sforzo anche di comprensione che deve condurre ad un processo di apertura. Guénon deve dare l’immediatezza del dato concettuale nel modo più rapido e sintetico, Ibn Arabi deve invece condurre lungo tutto un processo di assimilazione lento, fatto di aperture e di sconcerti, di suggerimenti e di immagini, di luci e di penombre in un alternarsi di timore e di audacia, di dubbio e di certezza, di comprensione, di soste e di avanzamenti, di coinvolgimenti emotivi e di

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Anche quello che sembrerebbe essere un riconoscimento allorchè l’articolista afferma che, secondo lui, “...non è possibile giungere ad una completa padronanza teorica del Wujud se non integrando in maniera esaustiva l’esposizione datane da Guénon con quella di Ibn Arabi...” (pag. 145) ci sembra in realtà voler essere un qualcosa di riduttivo nei confronti di Guénon. E se potrebbe apparire che l’articolista lo abbia fatto anche nei confronti di Ibn Arabi come a dire che i due si integrano, in realtà si riduce più ad essere un tentativo di riduzione nei soli riguardi del primo, visto che Guénon, anche quando fa richiami a questa o quella forma tradizionale, riconduce sempre il tutto ad un linguaggio universale e diremmo primordiale, libero da qualsiasi rivestimento formale e/o sentimentale; dunque il suo linguaggio è quello che, il pensiero, nella sua forma più libera e pura, può tradurre quando si espongono concetti e dati della dottrina e della realtà metafisica. Questa è stata proprio la funzione “finale” e riassuntiva di Guénon in quelli che sono i “tempi della fine”. Tentare di ridurre quell’Opera significa tentare di oscurare proprio l’evidenza della “primordialità”, e dunque della “preminenza” del suo linguaggio, quasi si volesse ricondurlo sotto l’autorità di una specifica “confessione”. Mettere in ombra l’”autonomia espressiva” (il che non vuol dire che si tratti di “originalità”) che prevale nell’Opera di Guénon significa negarne o ridurne la funzione ma soprattutto non comprendere nel profondo le cose di ordine spirituale nella loro maniera più intellettuale. D’altra parte l’impressione negativa che l’espressione dell’articolista ci suscita si rafforza se si pensa che l’Opera di Ibn Arabi non ha avuto bisogno per secoli di quella di Guénon se si pensa che tra l’uno e l’altro corre quasi un millennio; dunque quella “reciprocità” non può essere che un modo per affermare che Guénon diventa valido soltanto integrandolo con l’altro. Nella realtà, l’una e l’altra Opera, come tutte quelle dei vari Maestri spirituali, sono autonome e complete in se stesse per il fatto stesso che non sono pensiero”, “filosofia”, “sistemi” ma oggetti di meditazione.... supporti... strumenti... suggerimenti... dove i concetti sono essi stessi “immagini” e simboli non potendo il concetto esprimere e contenere quella realtà che trascende il pensiero, le modalità e le condizioni (tempo, spazio e forma) del linguaggio umano. L’esposizione e la descrizione degli ordini di realtà universale, per il fatto stesso di essere “esposizioni” e “descrizioni” sono tutte ugualmente approssimative, provvisorie; sono suggerimenti più o meno adeguati e quanto a questo, è indubbio che Guénon si rivela per l’uomo moderno e nel contesto della “civiltà moderna” il più attuale ( e paradossalmente il più primordiale), il più adeguato, chiaro e completo. Torniamo allora nuovamente a quella che, molto probabilmente, è la ragione per la quale l’Opera di Guénon deve in qualche modo essere lasciata nell’ombra quando non possa essere direttamente attaccata magari dagli stessi che sono stati ridestati da lui a certe consapevolezze: è improvvisi lampi di luce. Infine deve tener conto della forte componente emozionale che accompagna la vita vissuta dell’uomo tradizionale che aderisce dalla nascita alla forma religiosa alla quale è attaccato da sentimenti che vanno dalla devozione alla paura, dalla speranza al timore sino all’amore. Egli deve immettere l’operatività della dottrina con tutti i suoi contenuti esoterici e metafisici in questo crogiuolo.

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troppo legata alla consapevolezza delle ragioni stesse dell’oscuramento intellettuale dell’uomo; è troppo evidente nel rilevare le radici, le cause, gli effetti, della contaminazione moderna; tocca troppo ambiti ci quali i pretesi tradizionalisti sono visceralmente legati. In una parola: che le dottrine tradizionali siano per loro natura l’esatto opposto dei miti moderni, del consumismo, della “civiltà moderna” e di tutto quello che in genere ha costituito le tappe dell’attuale “civiltà” in fondo urta la sensibilità e gli attaccamenti dei “professori” cui abbiamo fatto riferimento. Ribadire troppo efficacemente la radice dei fenomeni moderni ed essere ricondotti sempre alla stessa evidenza, da loro infine fastidio. Guénon non permette di giocare con certe conoscenze, con certi argomenti ne’ di assumere atteggiamenti fumosi e professorali. Con Ibn Arabi essi sentono invece di potersi occultare e di potersi permettere di separare la dottrina dalle mitologie progressiste nelle quali in fondo essi fondamentalmente credono anche quando fanno sfoggio di un apparente distacco da esse; con Guénon questo non è possibile. La ragione è in fondo semplice: quali che siano le apparenze, sono fondamentalmente “uomini moderni” che si sentono parte espressiva ed integrante della “civiltà moderna” il cui rifiuto interiore, senza attenuazioni, senza se e senza ma, costituisce invece proprio l’elemento discriminante che, unitamente alla qualificazione intellettuale di cui anzi è una delle espressioni, distingue essenzialmente un uomo irrimediabilmente “profano”, dall’”uomo tradizionale” la cui prime caratteristiche sono: l’aspirazione verso l’universale segno di un innato distacco dalle aspirazioni umane di cui la “civiltà moderna” è un mostruoso prolungamento e la “nobiltà spirituale” che permette di riconoscere, prima di ogni cosa, il “profumo dello Spirito” ed il “senso del sacro”. Diremmo, anzi, che questo è uno degli elementi indicativi della presenza o meno di una vera qualificazione. All’esito di tutte le considerazioni svolte in questo capitolo ci sembra di poter affermare che una cosa è certa e segna tutta la differenza e la distanza tra i profani e chi è veramente qualificato ad avvicinarsi a certe dottrine e all’autentica Spiritualità: quest’ultimo, posto di fronte a qualunque simbolo, a qualunque espressione autenticamente tradizionale, a qualunque adattamento espressivo, a qualunque immagine o concetto che abbia in vista di esprimere la dottrina dei cicli, la dottrina della non dualità, la dottrina della realizzazione spirituale, la dottrina degli stati molteplici dell’essere si tratti di qualsivoglia Maestro, Testo sacro o commentario autenticamente tradizionale e fosse persino posto davanti ad un’opposizione la cui apparenza sembrerebbe farla ritenere addirittura insuperabile, possiede sin dall’inizio, almeno un’”anticipazione” del “dono delle lingue” che gli permette di passare immediatamente all’interiore e di superare ogni apparente differenza permettendogli di riconoscere e di ricondurre, subito, tutto ad Unità. Chi, invece, non appartiene a questo genere, persino dall’Unità più evidente sarà sempre ricondotto alla frammentarizzazione, alla divisione, alla molteplicità.

Il tono di severità che abbiamo adottato in questo capitolo e le aperte critiche in alcuni punti rivolti soprattutto all’articolo su Guénon di Marco Marino, possono forse ad alcuni apparire eccessivi soprattutto alla luce del fatto che, in fine di capitolo, egli

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sembra veramente aver voluto fare un’opera di recupero di Guénon a certi ingiusti attacchi ma le cose non ci appaiono esattamente in questo modo. Se è vero che la conclusione dell’articolista sembrerebbe infine nonostante tutto recuperare in una forma di aggiustamento che potrebbe apparire in qualche modo soddisfacente, resta deprecabile il fatto che, per arrivare ad essa, si sia passati attraverso una metodologia che è suscettibile più di aumentare la confusione che di fare chiarezza perché usa un metodo di “comparazione” come se si trattasse di esaminare due filosofie o due espressioni di pensiero mentre avrebbe dovuto procedere in un modo “discendente” esplicando prima la dottrina metafisica nei suoi principi cardini precisando che essa non è akbariana più di quanto non sia guénoniana; non è indù più o meno di quanto non sia islamica, poi evidenziare i diversi modi di espressione o di adattamento del linguaggio alle varie funzioni, forme espressive e tradizioni dal che sarebbero risultati da soli i limiti stessi delle espressioni ma in relazione al particolare ambiente di esposizione, ai tempi e alle qualificazioni dei destinatari. Anzichè perdere tempo a rivisitare la dottrina e il “diverso” linguaggio dei Maestri, si sarebbe dovuto impiegare sforzi e tempo a chiarire che cosa Ibn Arabi intenda con quelle parole rapportandosi al più primordiale linguaggio ed anche a quello immediatamente evidente utilizzato da Guénon, non senza una precisa ragione, considerato che questo linguaggio si era reso ormai provvidenzialmente e non a caso disponibile ed è proprio quello che ha ricondotto, esseri dispersi nella più buia confusione, alla Tradizione in una o l’altra delle sue forme. Piuttosto che concentrare gli sforzi nel rinvenire e rilevare i punti delle varie esposizioni dove le differenze di linguaggio si presenterebbero più o meno evidenti nell’esposizione della dottrina, non sarebbe stato più valido ed utile esporre, anche con un diverso linguaggio che si sarebbe così aggiunto all’iniziativa dei vari Maestri, quella dottrina unica ed universale contenuti dietro quei linguaggi solo apparentemente diversi? Apparentemente diversi perché, fossero pure nella forma oggettivamente diversi, come non può ignorare un autentico esoterista, non possono esserlo nell’essenza.

Oppure lo scopo è proprio quello di suggerire che... in realtà non c’è nulla di veramente universale; nulla di universalmente vero; nulla di autenticamente metafisico? Ben sinistro ed inquietante se le cose fossero veramente in questo modo ma forse la cosa è più semplice: forse la ragione è che ai “professori”, più che comprendere e assentire alla Conoscenza metafisica in sé, interessa il pensiero di questo o quell’autore che studiano; e questo è anche comprensibile visto che essi operano in ambienti accademici e universitari; ma allora non dovrebbero avere la pretesa di poter giudicare quando si ha a che vedere con argomenti di ordine sapienziale ed iniziatico. Chi sa veramente non deve preoccuparsi di chi non sa, inteso, di chi non potrebbe capire e di chi, dimostrando appunto di non capire, è capace di ritenere superato un Maestro spirituale da un altro, volendo in realtà fare soltanto mostra di averli capiti entrambi e di potersi anche permettere di scegliere. Seguire troppo la logica e l’argomentazione di chi si afferma di voler rettificare,

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senza però qualificarlo per quel che merita ma dando invece impressione quasi di comprendendolo, significa in qualche modo condividerlo .90

Al termine di questo capitolo che riteniamo necessario e molto più coerente di

quanto possa inizialmente apparire in uno studio critico sulla scienza moderna ci sembra opportuno riportare una conclusione che non è nostra ma di un altro autore che, con ben altre più valide argomentazioni di quelle condotte dall’articolista finora citato, ha affrontato il problema delle presunte differenze tra Guénon ed Ibn Arabi. Si tratta di Max Giraud che, all’esito del suo interessante lavoro conclude giustamente osservando che: “..abbiamo dimostrato come, il caso spirituale di René Guénpn possa essere esaminato a partire da taluni dati di fonte islamica provenienti in particolare dalla discendenza spirituale “akbariana”. Un lavoro simile può del pari essere effettuato a partire da testi attinti da altre tradizioni. Tutti gli elementi riuniti rivelano che nella fattispecie ci troviamo di fonte ad una Via e ad una missione eccezionali, che esigono da tutti coloro che le accostino per motivi spirituali il rispetto dovuto ad un’autorità tradizionale straordinaria. Dato che si sia ben compresa la funzione di René Guénon come manifestazione dell’Intelletto universale,

90 In passato abbiamo assistito personalmente ad esempi di squallore inaudito quale il caso di

un “discepolo” (guarda caso occidentale) che, geloso del fatto che il Maestro, malesiano, aveva scelto come Moqaddem per l’Italia un altro al posto di lui, ha in tutti i modi provocato l’emersione, in perfetta mala fede, di argomenti sui quali ben si sapeva che il Maestro, originario di nascita e di dottrina, non poteva certo avere occasione di comprendere il senso che, ad espressioni di universalità estese al Cristianesimo e all’Induismo, presentate nella banale e provocatoria espressione di sfida, se fosse vero quello che il Moqaddem a volte affermava, e cioè che “..la Verità è anche nell’Induismo e nel Cristianesimo”, otteneva soddisfatto una risposta negativa; la revoca della muqaddima al moqaddem nominato ed il trasferimento della stesa a lui stesso. Nemmeno a dirsi, dopo un paio di anni, il nuovo moqaddem e chi lo aveva seguito abbandonato quel Maestro ed abbandonato dagli altri che o avevano appoggiato, lui stesso, si poneva alla ricerca di altri Maestri e di altri incarichi. L’effetto di revoca del precedente moqaddem era ovviamente prevedibile ed inevitabile per come le cose erano presentate e ben lo sapeva il personaggio, italiano e di iniziale, originaria formazione guénoniana.

Sarà comunque il caso di precisare che neppure il revocato moqaddem, nel frattempo auto-proclamatosi Shaikh, brillava per chiarezza dottrinale e le sue ostentate consapevolezze universaliste apparivano in realtà, esse stesse, strumentali ad una forma di pubblicità per sé stesso nell’ambiente europeo sensibile all’Opera di Guénon alla quale, con la sua attitudine, ha fatto non poco male contribuendo al formarsi di forti equivoci su questa stessa Opera ed in molte persone che sarebbe state pur predisposte a comprenderla nel modo giusto.

Precisiamo che non ci stiamo riferendo alle molto più vecchie questioni relative a F. Schuon e neppure alla divisione del pur estremamente serio “Gruppo di Torino” provocata da uno dei tre moqaddem che non aveva accettato la nomina del terzo moqaddem perchè donna, pur essendo questa la moglie di elevatissima levatura intellettuale del defunto Shaikh; ci riferiamo, invece, a qualcosa pure in Italia, che è più relativamente recente, risalendo agli anni ’70 – Le prime critiche riduttive verso Guénon iniziarono in questo gruppo la cui guida tuttavia aveva assunto il nome islamico di Guénon (Abdel Wahid Yahya) presentandosi almeno inizialmente come una sorta di suo erede spirituale pur non mancando occasione di dirlo crescentemente superato in quel che non faceva quadrare i conti nei suoi personali riguardi.

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si coglie subito quanto siano adeguati certi suoi nomi a questa funzione (Abdel Wahid Yahia), e l’importanza che il Maestro ha dato ad argomenti come la “non dualità del Principio”, la realizzazione per mezzo della Conoscenza metafisica ed iniziatica, la Tradizione primordiale e il Re del Mondo”. Queste due ultime realtà, che derivano da principi metafisici”, sono state accolte in partenza come chiavi indispensabili per la comprensione di tutto l’insieme tradizionale. Più tardi esse vennero messe in discussione, e addirittura “schernite”, da coloro stessi che se ne erano serviti per passare dalle tenebre alla luce.91 In realtà esse non sono mai state così “attuali” come oggi, giacchè l’Opera di colui che le ha tanto bene esposte si

91 Tra questi una responsabilità enorme ricade su F. Schuon il quale, iniziata la sua carriera

con un libro di un certo valore “L’unità trascendente delle Religioni” che risentiva ancora, nonostante la presenza già di certi semi che daranno poi il loro frutto negativo in seguito, di tutta l’influenza positiva di Guénon a cui questo autore doveva veramente tutto, lentamente, sicuramente per un eccesso di individualismo alimentato da una mal compresa funzione di mokaddem che aveva regolarmente ricevuta, finiva per autonomizzarsi dalla sua Autorità e per proclamarsi Shaikh. Da quel momento iniziavano adattamenti continui nell’ambito della tariqa da lui diretta (ammissione al dikr di cristiani, deroghe al Ramadan, cambiamenti di formule rituali islamiche ed infine l’affermazione che tutti i Cristiani sono iniziati automaticamente per la natura stessa del Cristianesimo e non necessitano dunque di trovare un’iniziazione e neppure un lavoro iniziatico (essendo per lui i sacramenti “riti iniziatici”(!) ma solo la guida di un Maestro... evidentemente come lui). Con ciò si poneva formalmente e sostanzialmente contro l’Opera di Guénon su punti fondamentali (la distinzione tra “misticismo” ed “iniziazione”; tra “riti iniziatici” e “sacramenti”) ma anche ai margini dell’Islam. In un crescente allontanamento e scadimento, soprattutto dopo un severo intervento di Guénon, arrivava a criticare anche diverse forme espressive della dottrina, anche tra le più importanti, usate da Guénon e, poco passava di tempo, che, quasi come per una sorta di “disgrazia” legata a tanto ardire, lo stesso atteggiamento usava poi persino contro Ibn Arabi e contro quasi tutti i Maestri del Tasawwuf, pretendendo di sostituire le espressioni dottrinali fondamentali del Tasawwuf stesso, con un linguaggio tutto suo personale fatto di paradossi verbali come “assoluto relativo” e “assoluto-assoluto” che, anche quando sembra appoggiarsi alle autentiche dottrine tradizionali, finisce quasi sempre con diventare ossessivo, esasperante, cervellotico e confusionario. Veniva abbandonato da alcuni discepoli tra i quali Valsan che, nonostante alcune incoerenti relazioni continuate a mantenere con Schuon, non si allontanò tuttavia mai dall’aderenza dottrinale all’Opera di Guénon o quanto meno dall’intenzione di rimanervi fedele.

Cosa forse ancora più grave: il caso di Schuon è diverso da quello dei “professori” di cui qui ci stiamo occupando: il suo non sembra infatti soltanto un caso di “incomprensione” ma una vera e propria forma di ribellione individualistica dove, nella critica ad alcuni punti della dottrina nell’esposizione guénoniana è visibile un atteggiamento di insincerità con il quale, diversamente dai “professori”, egli finge di non capire quello che Guénon intende con certe espressioni e si attacca al limite del linguaggio umano per trasferirlo maliziosamente ad un presunto limite di comprensione di Guénon stesso! Qualcosa che nei “professori” non è visibile trattandosi proprio di un vero e proprio limite personale che impedisce loro di andare oltre.

Se le vicende finali della vita di Schuon sembrano essere quasi un “marchio” o quanto meno una “dura prova” abbattutasi sulla sua presunzione ed individualità, va tuttavia osservato che, l’ultimo suo atto prima di morire, con il quale ha sciolto la tariqa invitando i suoi “discepoli” a non seguire più le sue indicazioni ma a tornare ala fonte dell’Autorità tradizionale che lo aveva legittimato solo come moqaddem (Mostaghacen), possono forse essere suscettibili di un’interpretazione che può avere una duplice lettura, quanto all’ambito strettamente “personale”.

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trova messa in causa da tutte le parti a causa di tendenze “settarie” di quanti sono imbarazzati dall’”Universale”. Eppure l’operatività di queste nozioni sarà cruciale quando si tratterà di discriminare il vero dal falso, e di ricevere Colui che giungerà nel momento più imprevisto, e che ci avverte l’Apocalisse di san Giovanni... “Ecco, io vengo come un ladro”. Questo “ladro” è Ermete-Idris, in altri termini: “il Re del Mondo”.

Siamo veramente giunti alla fine del nostro lungo eccessivamente articolo ma

un’ultima conclusione ci è forse doverosa: considerato che leggendo fino in fondo l’articolo del nostro autore egli sembra infine impegnato a superare le apparenti antitesi tra Ibn Arabi e Guénon ed evidenzia un’indubbia erudizione intorno al “pensiero” di vari Maestri spirituali, potrebbe venire da chiedersi perchè noi abbiamo reagito così tanto duramente.

Comprendiamo che, a prima vista e a chi si pone ancora al di fuori di un certo ordine di cose, la reazione potrebbe non apparire proporzionata; ma a chi ha compreso veramente la funzione di Guénon; a chi ha acquisito un minimo di esperienza con le modalità di attacco che le forze della “contro-iniziazione” e quelle delle quali queste ultime si servono, pongono in essere caso per caso, contro tutto ciò che esse percepiscono come effettivamente adeguato ed efficace a contrastare in una certa misura il dilagare di certi effetti ameno, del loro progetto e della loro missione; a chi, infine, ha compreso la natura del vero esoterismo, non sfugge il sottile pericolo che accompagna in modo quasi subdolo certe “relativizzazioni” e certi metodi di approccio e di presentazione delle dottrine tradizionali e dell’Opera di Guénon. E’ pur vero che l’articolista può ribattere che non è lui ad aver provocato la prima incrinatura all’unità essenziale dei grandi metafisici tradizionali e dei Maestri dell’esoterismo risaltandone diversità di linguaggio tali che potrebbero far apparire o ritenere una diversa maniera di intendere le cose fino a dare l’impressione che giungano a conclusioni addirittura diverse su punti fondamentali della dottrina proprio in ordine all’idea stessa di Essere, di esistenza, di realizzazione spirituale, di Liberazione, di Assoluto, cioè, sui cardini stessi della metafisica. Potrebbe dire, e con una certa ragione, che sono stati “altri” e precisamente quelli ai quali egli sta dando una risposta e dalle affermazioni dei quali egli è partito, proprio per contenerne gli effetti di confusione che quelli potrebbero produrre.

Effettivamente come prima impressione sembrerebbe in questo modo; ma nella realtà, l’inadeguatezza di attitudine con la quale egli vorrebbe arginare il dilagare dell’equivoco, contribuisce a mantenerlo e a diffonderlo ulteriormente.

Innanzi tutto Il fatto che, per chi si propone di percorrere una Via spirituale (e quei Maestri scrivono solo per quelli non per far conoscere un loro pensiero o una loro filosofia) e rompe necessariamente con da una mentalità modernista tornando anche faticosamente ad un’attitudine tradizionale, quei ..... sono, appunto, Maestri e non “pensatori”. Non approssimarsi con questo spirito a certe cose è già il primo “segno” (non volendo dire “marchio”) di un’attitudine quanto meno profana. Ed allora, può ben dirsi che è meno nocivo chi si avvicina per criticare che per fare una difesa filosofica o “estetica” come se si dovesse difendere la bellezza , la varietà e la

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ricchezza del pensiero umano o del sentimento poetico. Infatti, una critica alle cose spirituali fatta da chi, come gli atei classici del “materialismo storico” o dell’”ateismo filosofico” che hanno colpito il pensiero spiritualista basandosi su quel poco che essi potevano grossolanamente comprenderne o sui dati dell’exoterismo, gli unici ad essi accessibili e per essi comprensibili, non fa che porli in ridicolo di fronte a chi conosce e sa realmente di che cosa si sta parlando. Chi, invece, da l’impressione di aver ben assimilato e di conoscere le tematiche tanto da poter parlare dei vertici non solo della dottrina ma dei Maestri tradizionali più elevati e poi tratta l’argomento con un’attitudine comparativa e tutta accademica (il che per noi significa modernista e profana) fa sicuramente maggior danno. E a questo proposito è innegabile che il nostro articolista dia proprio l’impressione di approcciare l’argomento “difensivo” di Guénon con l’attitudine non già di chi è consapevole di dover rispondere a dei profani nonostante le loro pretese ma, se non di condividerli apertamente, quanto meno di.. giustificarli.

Checché possa pensarne il nostro articolista e quelli che, più o meno inconsapevolmente, ne condividono la mentalità che è poi quella degli accademici e degli intellettuali modernisti imbevuti di scienze sociologiche, antropologiche, psicologistiche, ecc. quell’attitudine così apparentemente “neutra” con la quale si avvicinano allo studio, alla critica o anche alla erudita e benevola trattazione delle materie tradizionali come l’esoterismo, la metafisica tradizionale ed il linguaggio del vari Maestri spirituali di qualunque forma tradizionale, mentre non è affatto “neutra”, evidenzia tutta la presunzione digli “uomini moderni” convinti di sapere tutto e di potersi pronunciare su tutto solo per aver studiato o per essersi specializzati in questa o quella materia universitaria. Come se la sapienza e la Saggezza si apprendessero a scuola; e in una scuola, peraltro, come quella assolutamente profana quale è il caso della “civiltà moderna”. Come se l’esoterismo e la realtà iniziatica fossero questione di studi accademici! Una pretesa assolutamente profana ed espressiva proprio di quella mentalità antitradizionale e tipicamente moderna; quella mentalità che fa ritenere di potersi appropriare del linguaggio di questo e quel Maestro tradizionale e compararli, criticarli, interpretarli, scegliere o preferire l’uno o l’altro, se non addirittura respingerli entrambi con quell’”equidistanza” di chi ritiene di sapere; di chi conosce entrambe le posizioni o il pensiero filosofico ma ne è distante ugualmente, perchè a lui compete soltanto... l’”insegnamento e l’esposizione del “pensiero” neutralmente espresso o con il “giudizio del professore” che rimane estraneo ed impenetrabile a tutto quello che ha accumulato in quella zona del cervello che è la memoria.

Di fronte ad espressioni sul genere di quelle riportate alla pag. 170: “Se per lo scrittore francese la coscienza, salvo quanto riferita al grado dell’Essere puro, non è che un modo contingente e particolare di conoscenza, sottoposto a certe condizioni o come una proprietà inerente l’essere considerato in rapporto a certi stati di manifestazione.” quale risposta si aspetta di meritare l’articolista, da chi come noi, vuole aderire allo spirito tradizionale nella sua espressione autenticamente esoterica? Non diversa da quella; vale a dire che la coscienza è esattamente quello che viene affermato nella frase riportata..; e lo è non già “secondo lo scrittore francese..” e

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neppure è esatto dire “secondo Guénon”; ma secondo tutte le dottrine tradizionali di carattere metafisico, secondo l’esoterismo! Oppure si aspetterebbe di sentire una risposta più conforme alle scienze psicologiche moderne e molto più “scientificamente” ed accademicamente vicina all’evoluzionismo?

C’è però un’ultima domanda che ha una risposta forse più esaustiva di tutte le parole e che rileva anche perché tutte le pretese dell’articolista di soccorrere l’Opera di Guénon dalle critiche dei presunti estimatori di Ibn Arabi, sono gratuite se non pericolosamente controproducenti. La domanda che contiene tre tuttavia connesse è questa: “Come mai, leggendo direttamente Guénon senza riassunti, senza pregiudizi e con il minimo di sincerità e di qualificazione intellettuale richiesta, non si pone alcun problema di quelli che i comparatori di Ibn Arabi e di Guénon (ammesso che esistano veramente e non siano una provocazione ed un espediente occasionale puro e semplice per porre - e creare - il problema prima di esaminarlo) hanno sollevato? Come mai leggendo direttamente Guénon, le domande non si pongono neppure e se qualcuna si ponesse, sono leggendolo le risposte arrivano quasi subito? Come mai quello che Guénon scrive è facilmente assimilabile e comprensibile con quel minimo di qualificazione cui facevamo cenno mentre diventa incomprensibile quando viene richiamato (veramente ”per chiarirlo?) dal nostro articolista nel contesto del suo articolo e frammistandolo con tutti gli altri richiami al “pensiero” degli altri autori in comparazione?” Ed infine: “Come mai gli stessi scritti degli altri Maestri spirituali richiamati (Ibn Arabi, Qashani ecc.), quando vengano letti direttamente, senza commenti, comparazioni o glosse critiche, sono riconoscibili e immediatamente riconducibili a quel fondo comune ed essenziale della dottrina, oltre le apparenti differenze di linguaggio e diventano “inconciliabili” soltanto nelle comparazioni che i professori, che siano animati da un’asserita volontà di conciliazione o al contrario di evidenziarne l’opposizione e l’inconciliabilità dei contenuti proprio al fine di relativizzare gli argomenti stessi della Spiritualità tradizionale, si impegnano a svolgere nei loro scritti?”.

Gli effetti “operativi” delle lezioni dei professori

Le lezioni dei professori non rimangono neutre: ci sono scolari che non aspettano altro che trovare un conforto dall’apparenza intellettuale per dare significato al loro disagio di fronte alla Verità quand’è troppo evidente.

Nel corso degli ultimi trent’anni nei quali la testimonianza dell’Opera di Guénon ha costituito il solo, vero, punto di riferimento per chi sinceramente aspirava a uno sbocco iniziatico delle proprie aspirazioni esoteriche, abbiamo potuto anche personalmente assistere a un non casuale ripetersi di un fenomeno inquietante: il manifestarsi in alcuni personaggi italiani che sono passati all’Islam (quasi tutti addirittura grazie ad in iniziale interessamento all’esempio e all’Opera di Guénon) di un odio oscillante tra le manifestazioni più grossolane ed altre più sottili, secondo le

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capacità di copertura o le convenienze di chi ne era espressione, verso questo Maestro e la sua Opera. E’ un fastidio profondo accompagnato di un disagio e da un’inquietudine che si placa. E’ come se si trattasse di un’insopportabilità che ricorda quei bollori e quelle inquietudini che una certa “demonologia” riferisce a certi personaggi quando venivano messi in contatto con l’”acqua santa” o con la “croce”. L’immagine sa di “cristiano” ed è certo un po’ esagerata ma rende in modo impressionante proprio la personalità e le operazioni che, quei personaggi, ripetutamente, infaticabilmente, ostinatamente, e nell’arco di un tempo che è spalmato addirittura in due o tre decenni hanno svolto in tutte le occasioni e gli ambienti, soprattutto islamici, dove capitava loro di avere accesso. Particolarmente inquietante, diventa poi il fenomeno, quando ripete un copione che si colora veramente di un’oscurità tenebrosa; senza con ciò voler dare a costoro, sia chiaro, più di quanto essi stessi non siano capaci di capire in ordine allo loro azione di cui sicuramente soltanto strumenti passivi e quasi medianici; ma, in ogni caso, significativamente strumenti.

Il fenomeno cui facciamo riferimento è che, pur distanti tra di loro sotto vari punti di vista esteriori, si sono adoperati, in tempi e occasioni diverse ed anche senza concerto... a poter entrare in contatto con quei gruppi o quelle persone che avevano avuto occasione di conoscere e di sapere che erano ricollegati a una Tariqa. Non li interessava però una qualunque tariqa tra quelle resesi più facilmente accessibili; per anni circolavano intorno a quelle più ristrette e meno accessibili ma soprattutto meno permeabili ad una mentalità che fosse troppo aperta alle suggestioni delle mitologie scientiste, economiche e politiche, moderniste.

L’ostentata condivisione di un’attitudine di riservatezza, di serietà, di non proselitismo e di diffidenza verso gli entusiasmi di paglia, che questi personaggi volentieri riconoscevano, ad esempio, ad un particolare gruppo, si accompagnava, tuttavia, all’evidenziazione di... “un solo difetto” che, a loro avviso, getterebbe una sia pur lieve ombra sul gruppo e... sulla Tariqa o almeno su alcuni esponenti di essa. Quale? Guarda caso: “la persistenza di un’eccessiva adesione a Guénon”!

In alcuni casi questo attacco veniva condotto limitando la critica all’eccessivo universalismo per il quale anche Vie diverse dall’Islam venivano indicate come depositarie dell’Unica Verità della quale i vari e successivi Messaggi profetici non sono che adattamenti necessari e provvidenziali previsti proprio nell’Economia Spirituale del Ciclo. In altri casi, secondo necessità, l’attacco veniva concentrato sul fatto che questo limiterebbe l’Immagine della natura escatologica della Funzione dell’Islam.92 Ora, che si tratti di una tattica risulta, prima che dagli effetti che in alcuni casi si sono prodotti e di cui si dirà, dal fatto che ben si sa che l’argomento è proprio uno di quelli che rimangono certamente i più indigesti da digerire da parte delle autorità exoteriche ma, ed è questa la cosa più subdola ed il fine ultimo di certe

92 Pretesa peraltro meschina da parte di chi, per quel che ci consta in modo diretto, non solo non conosce affatto l’Opera di Guénon neppure nel senso letterale per non aver neppure mai letto uno solo dei suoi libri fino all’ultima pagina ed un solo capitolo senza saltare le righe ma che non conosce affatto le Opere di Ibn Arabi e una nozione sia pure vagamente corretta dell’esoterismo.

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azioni, è di quelle che ben possono mettere mettono in imbarazzo, e di fatti così avviene nella maggioranza dei casi, anche le autorità esoteriche più elevate che, in una forma tradizionale completa come l’Islam svolgono all’interno della comunità una funzione anche di “custodi della Forma e della Legge” oltre che essere Sapienti Custodi della Verità più profonda.93 Ed allora, questa “tentazione” gettata sul tavolo davanti agli occhi di quelle autorità, ha in realtà la sua motivazione più che in una stupidità ed immaturità dei soggetti in questione, in una malizia che trova la sua soddisfazione nel colpire Guénon e la sua Opera di portata universale ma, infine, proprio per colpire, allora, la Consapevolezza di una Verità Universale, allorchè tale insegnamento è rivelato in un modo non più mistificabile in un modo o nell’altro.

Parlavamo di effetti: in un caso, che non è quello cui abbiamo finora riferito, si attraverso uno di questi personaggi, si producevano nella cacciata dalla Tariqa e nella revoca della funzione di uno dei Moqaddem del Maestro che veniva così sostituito con lo stesso personaggio che aveva rappresentato allo Shaikh l’”orribile circostanza” che, il suo Moqaddem affermava che la Verità era in tutte le Forme tradizionali! Superfluo aggiungere che costui ben sapeva in che senso il Moqaddem aveva usato quella frase visto che entrambi conoscevano l’Opera di Guénon e facevano peraltro scena reciproca di condividere. Una scena, appunto, considerato che nella realtà entrambi usavano quell’Opera come pubblicità per farsi discepoli tra gli Occidentali che l’avevano apprezzata e che li aveva condotti verso l’Islam. La sorte non tardò a fare chiarezza: il neo eletto, dopo qualche mese abbandonava il suo Shaikh e andava alla ricerca di nuovi Maestri e incarichi; il Moqaddem revocato, a quel punto si proclamava Shaikh in proprio e continuava ad iniziare nel nome della Tariqa da cui era stato espulso con divieto persino di fare il lavoro personale o qualificarsi. Dopo qualche anno anche questo gruppo si sfaldava nonostante i contributi statali e i riconoscimenti ufficiali.

Orbene, dopo molti anni, qualcosa di analogo si ripeteva da parte di altri personaggi e verso un’altra Tariqa, sicuramente ben più seria e riservata di quella su cui si era già esercitato l’altro personaggio; si tratta del caso cui facevamo cenno all’inizio. Stesso tentativo, come abbiamo visto riportando la frase di attacco a

93 Abbiamo tuttavia conosciuto anche casi di autentica ingenuità e buona fede dove, neofiti

ancora non completamente maturi nell’esperienza, nel vero Adab e nelle sottigliezze della Via, avevano provocato risposte ben dure e dirette a domande significativamente immature, rivolte pur ad autentici Maestri del Tassawwuf sul genere se fosse opportuno leggere Ibn Arabi e non piuttosto concentrarsi sul lavoro sulla nafs e sulla Shari’a. La risposta in un caso da parte del Maestro fu il divieto perentorio senza altre parole di leggere Ibn Arabi e l’ingiunzione a leggere solo il Corano a lavorare sulla propria nafs e sul Cuore rendendolo lucida come uno specchio. Quelli che avevano provocato il problema si ritennero soddisfatti del trionfo riportato sopra altri che avevano fatto resistenza a sottoporlo all’Autorità. Meno soddisfatti gli altri; ma l’obbedienza nella Via è indiscutibile. La cosa durò anni finchè qualcuno scoprì che alcuni fratelli anziani e lo stesso Shaikh avevano nella loro casa Opere di Ibn Arabi e di lui parlava in alcuni suoi libri lo stesso Shaikh ed i suoi Shaikh defunti e, di fatto, il divieto venne a cadere. Una volta lo Shaikh, dopo non meno di 20 anni dall’episodio disse ad un suo moqaddem: “Credi che non avrei piacere d parlare di bn Arabi? Ma con chi”?

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Guénon. Un attacco all’Opera di Guénon che non riusciva grazie al filtro di una Saggezza che vigila sulle cose serie; ma se il tentativo si facesse più subdolo e si ritenesse che, scavalcando gli ostacoli e pervenendo direttamente alla Fonte, si potesse minarla proprio da lì? Non sarebbe, questo, un ulteriore passo, nel tentativo di demolizione di ciò che ancora rimane di impenetrabile all’operazione di attacco al Cuore della Tradizione? 94

94 Abbiamo già avuto modo di rilevare che certi attacchi ed analoghi esiti nefasti si sono già

manifestati anche in decenni precedenti sin dal momento in cui Guénon era ancora vivo e questo è comunque un “segno dei tempi” che evidenzia come ormai la “Porta dei Cieli subisce violenza” come dice Gesù in un versetto dai molteplici significati sovrapposti ed il Corano stesso allorchè parla del tentativo di scalata da parte di esseri che giungerebbero fin quasi al “Consesso Divino” , se non venissero fermati. (As Saffat, 8 e Sad, 69). Tuttavia, fatta eccezione per il caso di Schuon che forse ha rappresentato il primo di vera e propria deviazione e di attacco all’Opera di Guénon, non si può affermare che, le divisioni che pur caratterizzarono le iniziative di Turuq europee (tra cui il gruppo di Valsan e quello di Torino), siano state motivate da ostilità verso Guénon: il massimo che fu contestato a Valsan è di essersi appropriato dell’Opera di Guénon per una forma di “parassitismo” e di “pubblicità” personale e a favore del suo gruppo come a volerne rivendicare una continuità che, in realtà non ha peraltro mai rivendicato in modo diretto. I tentativi ai quali invece assistiamo in questa fase, sicuramente finale, sono di una meschinità e di uno squallore inaudito.