Salvatore Quasimodo e Il Teatro Greco

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Salvatore Quasimodo recensore di spettacoli e traduttore di Teatro Greco

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Salvatore Quasimodo e il Teatro Greco di Danilo Ruocco - 1

Salvatore Quasimodo e il Teatro Greco1

Di Danilo Ruocco Nel 1948 Salvatore Quasimodo divenne titolare della rubrica di critica

drammatica2 del settimanale “Omnibus”. Proprio in quell’anno, spinto

dalla curiosità di ascoltare la traduzione di Manara Valgimigli della trilogia

eschilea3, decise di affrontare un viaggio non facile nell’Italia postbellica e

si recò a Siracusa per assistere agli spettacoli che si svolgevano al Teatro

Greco.

Di quelle rappresentazioni, il poeta-critico ci ha lasciato una testimonianza

gustosa quanto particolareggiata di come il pubblico vi prendeva parte. Va

notato come Quasimodo, nel suo ruolo di critico, fosse attento non solo al

valore del testo, della traduzione, della regia e dell’interpretazione degli

attori, ma anche alle reazioni del pubblico e, diversamente da quanto

avviene per solito, per lui le reazioni degli spettatori avevano importanza

non solo al momento del calar del sipario, ossia al momento degli applausi

o dei fischi, ma anche prima che lo spettacolo avesse inizio. Vale la pena,

quindi, trascrivere la descrizione quasimodiana quasi per intero:

Gli spettacoli cominciavano alle 18.30; ma già durante le ore meridiane, e anche nella mattinata, folti gruppi di spettatori sedevano sulle gradinate, contenti di avere un posto privilegiato dal quale potere udire e vedere Oreste, Elettra e Cassandra e gli altri familiari personaggi della trilogia. Uomini e donne compravano all’ingresso cappelli di paglia per resistere al dritto sole siciliano: cappelli autentici di mietitori o altri più gentili con strisce azzurre o rosse. Là consumavano il pasto e la merenda e qualcuno si sdraiava facendo la siesta sulle pietre cocenti o con la testa appoggiata sui cuscini mercenari. Forse anche gli antichi aspettavano così l’inizio dello spettacolo, e un lembo della tunica o del peplo serviva per difendere il capo dalla calura. Soprattutto donne e uomini del popolo si impadronivano del luogo sacro ore e ore prima delle rappresentazioni […] I venditori di ceci abbrustoliti (‘a calia), di semi di zucca, di arachidi e di gazzose giravano cautamente da un

1 Relazione presentata al convegno Poesia nel Paesaggio svoltosi a Siracusa il 16 marzo 2012. 2 Per l’attività di critico drammatico di Salvatore Quasimodo Cfr. Danilo Ruocco, Quasimodo critico teatrale, pubblicato l’1 gennaio 2009 nel sito dedicato a Salvatore Quasimodo, url: www.salvatorequasimodo.it/2009/01/quasimodo-critico-teatrale.html.

3 Cfr. Salvatore Quasimodo, Agamennone - Coefore - Le Eumenidi, in Id, Il poeta a teatro, Milano, Spirali, 1984, p. 34.

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settore all’altro della cavea. Ragazzi che s’erano avventurati nei primi giorni ad annunziare di lontano la loro merce, avevano ricevuto strisci di ben calzati piedi da qualche dormiente risvegliato sull’«a» o sull’«o» dell’acuto richiamo vocale. Il vento, dal mare o dagli aranceti vicini, veniva ogni tanto a muovere l’aria del teatro [...] Sabato, 22 maggio, mentre il sole attenuava un po’ la sua furia, davanti a una folla di circa quindicimila persone che a poco a poco, a ondate, si raccoglieva in silenzio, gli attori cominciarono (ahimè, col tono di tanti e tanti anni fa, e a nulla è valsa la traduzione in prosa di Valgimigli) la recitazione urlata dell’Agamennone.Il teatro di Siracusa ha un’acustica sorprendente, che, anche fuori dai limiti della cavea, permette una chiara percezione delle parole pronunciate dagli attori: non abbiamo, quindi, capito tutte quelle gole spalancate più del necessario.4

Il finale della citazione, più che agli spettatori, è dedicato agli attori e

alla traduzione; i primi accusati di recitare in modo non consono (ovvero

urlandolo) il testo tradotto in prosa da Valgimigli. La recensione, però,

non termina in tal modo, ma prosegue descrivendo cosa accadde il giorno

seguente, e l’attenzione del poeta ritorna di nuovo sull’antico «luogo

sacro»5 ri-vissuto dagli spettatori moderni.

Il giorno dopo per Le Coefore e Le Eumenidi, con sole più secco, sulle gradinate e sulla collina una folla di almeno trentamila persone parlava aspettando le «portatrici di libami» sulla tomba del morto re. All’apparire di Oreste e di Pilade sulla scena non è stato possibile ottenere il silenzio. Lo spettacolo era lì, nella cavea, sugli strapiombi delle latomie, su ogni sasso. [...] La folla non taceva: gl’inviti al silenzio non facevano che aumentare il mormorio di quella immensa conchiglia. Si udiva a tratti qualche «Ahi, ahimè» (i ragazzi ripetevano «ahi, ahi» tenendosi il ventre con le mani). E poi si distinsero le prime parole di Elettra e finalmente il silenzio di trentamila bocche fu pieno, «calante il sole». [...] avevo visto il popolo dell’antica Grecia a una festa dionisiaca.6

Tale attenzione alle azioni e reazioni del pubblico siracusano del Teatro

Greco, tradotta dal poeta in una lunghissima descrizione, fa sospettare

che essa vada, in qualche modo, letta anche come una critica indiretta

4 Ibidem, p. 35.

5 Come si è visto Quasimodo, correttamente, definisce il Teatro Greco un «luogo sacro», ricordando, in tal modo, il fatto che, per gli antichi greci, assistere a una rappresentazione equivaleva a partecipare a un rito.

6 Salvatore Quasimodo, Agamennone - Coefore - Le Eumenidi, op. cit., p. 36.

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all’operato degli attori in scena che, nonostante la loro recitazione

urlata (a «gole spalancate»), non sempre seppero catturare l’attenzione

degli spettatori, alcuni dei quali, i più giovani, non si peritarono dallo

scimmiottarli, fingendo dolori al ventre. Una recitazione poco moderna

che il critico sospetta non essere più in grado di coinvolgere il pubblico.

Non è da sottovalutare, però, anche il parallelo che il recensore compie

tra l’antico popolo della Magna Grecia e i moderni isolani. Non sfuggono,

infatti, i riferimenti alla tunica e al peplo usati nell’antichità per ripararsi

dal sole (sostituiti da moderni cappelli di paglia) e quello alle Feste

dionisiache, riecheggiate, in qualche modo, nel presente. Parallelo, quello

tra il mondo dell’antica Grecia e la contemporaneità, che Quasimodo,

poeta e uomo «siculo greco»7, rinnova spesso nella sua produzione e a

cui tiene in modo particolare, tanto che, è noto, arrivò “poeticamente” a

dirsi nato a Siracusa, piuttosto che a Modica, città in cui effettivamente

nacque.

La descrizione quasimodiana del comportamento dei siracusani, a parere

di chi scrive, non va letta come un tentativo di svilire le capacità di

comprensione artistica degli spettatori. Quasimodo conosce il pubblico

e lo giudica in grado di distinguere una buona rappresentazione, di

fattura moderna, da una ormai troppo antiquata. Prova ne sia quanto

dal poeta scritto nel 1953, presente a Siracusa come recensore del

settimanale “Tempo”.

Il Teatro della Latomia dei Cappuccini [...] ha affrontato il giudizio dei siracusani con Le Troiane di Euripide: giudizio di chi è abituato alla critica del pensiero greco, di chi sta attento alle parole dei poeti come a un peso di pietre preziose.8

Opinione sul pubblico siracusano, come si vede, del tutto positiva che, in

un’epoca di bassa scolarizzazione e conseguente analfabetismo diffuso,

può sorprendere. La convinzione espressa da Quasimodo che il pubblico

sapesse riconoscere la poesia era già presente nella recensione del 1948

7 Salvatore Quasimodo, Micene, poesia di La terra impareggiabile, in Id, Poesie e discorsi sulla poesia, Milano, Mondadori, 199610, p. 216.

8 Salvatore Quasimodo, Le Troiane, in Id, Il poeta a teatro, op. cit., p. 219.

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là dove il critico riferì che il pubblico, anni prima, aveva espresso il proprio

disappunto «con la sua cordiale risata, [...] <picchiando> forte sul gusto

vascolare e fossile di alcuni testi tradotti»9 utilizzati al Teatro Greco prima

di avvalersi delle traduzioni di Valgimigli. Quasimodo è, dunque, convinto

del fatto che il gusto degli spettatori siracusani fosse educato quanto

basta per sapere distinguere una traduzione valida e moderna da una

troppo antiquata.

Come già accaduto nel 1948, inoltre, anche nella recensione del 1953

il poeta sente la necessità di includere nel testo una descrizione del

paesaggio in cui si svolge la rappresentazione. Scrive Quasimodo:

Questo teatro, ricavato in una latomia, cioè in un giardino labirintico, difeso da alte e squadrate rocce e da volte aperte da antichi cavatori, che ha nel suo svolgersi fiori e alberi d’incredibile salute, e catacombe, non sopporterebbe un capitello di gesso o un fondale provvisorio. Piccolo teatro di acustica non egualmente riflessa, ma raccolto nel silenzio della collina.10

Anche il paesaggio, sembra di capire, rifiuta il «gusto vascolare e fossile»

(per usare parole quasimodiane) delle scenografie che, per solito, erano

utilizzate al Teatro Greco di Siracusa e che Quasimodo, nella recensione

del 1948, descrisse (sbertucciandole) usando espressioni come «hangar»

e «pollaio»11.

Come si è sicuramente compreso da quanto detto finora, Salvatore

Quasimodo non gradiva che le tragedie greche fossero rappresentate

affidandosi a traduzioni vecchie e linguisticamente sorpassate e a

dinamiche recitative di sapore “dannunziano” (o pseudo-dannunziano)

e scenografie alla maniera di Duilio Cambellotti. Il recensore, invece,

auspicava l’uso di traduzioni di “facile” ascolto e fruizione da parte

degli spettatori contemporanei e messe in scena che tenessero conto

dei traguardi raggiunti dal teatro di regia che, in quegli anni, si andava

imponendo in Italia grazie al lavoro di registi come Giorgio Strehler e

Luchino Visconti.

9 Salvatore Quasimodo, Agamennone - Coefore - Le Eumenidi, op. cit., p. 35.

10 Salvatore Quasimodo, Le Troiane, op. cit., p. 219.

11 Salvatore Quasimodo, Agamennone - Coefore - Le Eumenidi, op. cit., p. 35.

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Costante, nelle recensioni di Quasimodo, è la polemica contro traduttori

troppo ligi alla filologia o affascinati da sonorità e ritmi ottocenteschi.

Vale la pena leggere qualcuno dei commenti alle traduzioni pubblicati da

Quasimodo in quegli anni.

Nel 1950, pur rallegrandosi che anche l’Istituto del Dramma Antico

avesse fatto ricorso al lavoro di un regista (nello specifico a quello di

Guido Salvini) per dare un segno unico allo spettacolo (in precedenza,

invece, «diretto collettivamente da filologi, traduttori e tecnici»12),

Quasimodo si rammarica del fatto che la traduzione fosse ancora affidata

a chi era rimasto ancorato al gusto di un’epoca ormai definitivamente

superata. Scrive, infatti, il critico:

La scelta delle traduzioni è ancora limitata ad alcuni nomi (si eccettua Manara Valgimigli) che ha rappresentato bene la cultura d’un’epoca: quella del ferro battutto, di Francesca Bertini, dei furori dannunziani, dei rifacimenti dei classici sulla metrica barbara carducciana. E ci riporta un linguaggio inventato dai filologi e costruito sulla sintassi greca e latina con parole secche e scricchiolanti come papiri. Linguaggio dove le inversioni sono una regola, una costante matematica. («La rutilante d’oro Babilonia | inviò di commiste torme eserciti» [...]). Ci perdoni il Bignone se dobbiamo citarlo, perché i suoi Persiani [...] hanno dato agli attori angosce e dubbi continui durante la resa dei doppi ottonari e dei decasillabi. [...] Eschilo, comunque, ha resistito allo strazio funereo e sdrucciolo del traduttore, e così Euripide, toccato almeno con mano più delicata da Romagnoli <traduttore delle Baccanti>.13

La benevolenza di Quasimodo nei confronti di Ettore Romagnoli fa capire

quanto il poeta fosse stato infastidito dalla traduzione di Ettore Bignone se

è vero che Quasimodo, altrove, non si fece scrupolo di stroncare anche le

traduzioni di Romagnoli14.

Va sottolineato, inoltre, come Quasimodo fosse stato colpito

negativamente dalla fatica che gli attori facevano nel dover pronunciare

versi la cui costruzione sintattica era pensata, forse, più per essere letta

che per essere pronunciata sulle tavole di un palcoscenico. In altre parole,

12 Salvatore Quasimodo, Le Baccanti - I Persiani, in Id, Il poeta a teatro, op. cit., p. 98.

13 Ibidem.

14 Cfr. a titolo d’esempio Salvatore Quasimodo, Le Troiane, op. cit., p. 219.

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Quasimodo sembra lamentarsi del fatto che i traduttori non tenessero

in debita considerazione la situazione di enunciazione tipica del teatro

che fa sì che degli attori determinati si rivolgano a un pubblico ben

preciso in uno spazio storicamente caratterizzato. Inutile specificare come

attori e pubblico dell’antica Grecia vivessero il “fatto teatrale” in modo

completamente differente dagli attori e spettatori italiani del Secondo

Novecento e, quindi, come, necessariamente, la lingua e i gesti dovessero

essere adeguati ai tempi.

Infine, non sfugge il fatto che Quasimodo considerasse alcune traduzioni

frutto di un «linguaggio inventato dai filologi», ossia, in altre parole, di

una lingua che non riproduceva né quella degli antichi greci, né quella

degli italiani contemporanei. Una polemica, quella con i filologi, annosa

e che investì Quasimodo anche in veste di traduttore. Polemica che,

da parte di alcuni filologi, non si è spenta o placata neppure con la

scomparsa del poeta.

Polemica che, come detto, Quasimodo rinfocolò ripetutamente. Ad

esempio, nel 1955, a proposito della traduzione dell’Edipo a Colono di

Sofocle “ascoltata” al Teatro Olimpico di Vicenza, il critico scrisse:

<La voce di Edipo è> contaminata da un linguaggio vago, quello del traduttore, che ora si piegava alle contorte sintassi e al gusto degli echi bellottiani, ora, nei Cori, specialmente, al tenero georgico idillismo di Zanella. Una voce di parola grecista, non greca; che dalla precisione filologica non scende a quella poetica [...]15

Mancanza di poesia rimproverata al traduttore (in realtà traduttrice16)

che il critico, diversamente da quanto di sua abitudine, non nomina

mai nel suo articolo. Rimprovero che si affianca all’accusa pesante di

aver «contaminato» la lingua di Edipo.

Rimproveri ai «rigattieri filologi»17 non si contano nei testi quasimodiani

e, a volte, tali rimproveri diventano veri e propri sberleffi sarcastici, come

15 Salvatore Quasimodo, Edipo a Colono, in Id, Il poeta a teatro, op. cit., p. 288.

16 Il testo era, infatti, tradotto da Giuseppina Lombardo-Radice. Cfr. Gino Nogara, Cronache degli spettacoli nel Teatro Olimpico di Vicenza dal 1585 al 1970, Vicenza, Accademia Olimpica, 1972, p. 338.

17 Salvatore Quasimodo, Ecuba, in Id, Il poeta a teatro, op. cit., p. 287.

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quando, nel 1956, recensendo l’Alcesti di Euripide messo in scena da

Guido Salvini e tradotto da Eugenio Della Valle, il poeta scrisse:

Una sonorità ritmica benelliana cresce su Euripide con sottile crudeltà, mentre la filologia scolastica prepara le sue tagliole a brevi intervalli. [...] oltre il limite del grottesco. Il futuro ascoltatore non chiuderà facilmente l’orecchio al lamento di Admeto che ritorna nella reggia di Fere dopo il seppellimento di Alcesti. E udrà, nel pianto umano, che il re non ha più cuore di entrare nelle «sudice stanze»; dove quell’aggettivo (nel verso 947) è almeno «squallide». Cara Alcesti regina, che, morendo, non aveva avuto tempo di pulire la casa dell’amato re, per il quale era scesa nell’Ade!18

Ogni ulteriore commento pare superfluo...

Come è noto, il rapporto di Quasimodo con il Teatro Greco non si limitò al

solo ruolo di recensore di altrui spettacoli e traduzioni. Quasimodo, infatti,

fu traduttore di tragici greci fin dal 194619. Traduttore non amato da molti

filologici (che, tra l’altro, gli rimproveravano la modernità della lingua e

dalla sintassi), ma richiesto da uomini di teatro e apprezzato da pubblico

e critica, forse proprio in ragione di quella “modernità” rimprovaratagli da

certi grecisti.

Tra i filologi vi fu, ad esempio, anche chi arrivò a sostenere, parlando

delle traduzioni dei testi di Shakespeare, che le versioni di Quasimodo

potevano essere accolte solo considerandole come delle “tracce”20,

piuttosto che delle vere e proprie traduzioni. Le repliche di Quasimodo –

com’era suo stile – non si fecero attendere e, tra l’altro, egli ebbe a dire:

La tecnica è un mezzo, ma non è la poesia. Perciò le traduzioni dei poeti non possono essere tentate che dai poeti. Il lavoro del filologo è necessario per la interpretazione, per la conoscenza, per tutte le altre ragioni di sistemazione storica d’un testo, per la ricerca delle derivazioni, ecc., ma al di là di questi limiti c’è una zona pericolosa:

18 Salvatore Quasimodo, Alcesti, in Id, Il poeta a teatro, op. cit., p. 325.

19 Per l’attività di traduttore di Salvatore Quasimodo Cfr. Danilo Ruocco, Salvatore Quasimodo e il teatro, in Alessandro Quasimodo a cura di, Quasimodo, Milano, Mazzotta, 1999, pp. 169-172.

20 Cfr. Guglielmo Petroni, Shakespeare tradotto da Quasimodo, in “La Fiera Letteraria”, 19 giugno 1949, ora in Gilberto Finzi a cura di, Quasimodo e la critica, s.l. <ma Milano>, Mondadori, 1969, p. 339.

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quella stessa che il filologo ama rimproverare al poeta: c’è la zona della creazione artistica: in essa, talvolta, entra qualche poeta.21

e, altrove, specificò:

Traducendo qualsiasi opera di teatro, dai tragici greci a Shakespeare, ho tentato di essere fedele al linguaggio dei poeti per i quali dovevo trovare un’altra misura linguistica. Il linguaggio dei primi o del drammaturgo inglese è intimamente teatrale: altri traduttori hanno commesso un falso in atto pubblico riducendo “letterari” i versi di Sofocle o di Shakespeare.22

Dunque, Quasimodo si poneva la preoccupazione di mantenere inalterata

la teatralità insita nel testo originale, bandendo il linguaggio letterario,

a favore dell’aderenza al parlato. I suoi erano testi messi al servizio di

registi e interpreti e non traduzioni per accademici.

Si capisce, allora, come Quasimodo fosse ricercato da registi affermati

quali, ad esempio, Giorgio Strehler, Renato Simoni, Vittorio Gassman

e non stupisce neppure che ancora oggi il mondo del teatro continui

frequentemente a ricorrere alle traduzioni quasimodiane.

Si è detto che la prima traduzione del poeta siciliano di una tragedia greca

risale al 1946. Si tratta dell’Edipo re di Sofocle, pubblicata in quell’anno

da Bompiani e portata sulle scene per la prima volta nel 1955 da Vittorio

Gassman.

Non sembra il caso di ripercorrere qui nel dettaglio le vicende legate

alle traduzioni quasimodiane del teatro tragico greco. Basti dire che

Quasimodo tradusse Le Coefore di Eschilo; l’Ecuba e l’Eracle di Euripide e

l’Edipo re e l’Elettra di Sofocle.

Le tragedie di Euripide furono tradotte per gli spettacoli che si tennero

al Teatro Greco di Siracusa rispettivamente nel 1962 e nel 1964 ed

entrambe furono messe in scena dal regista Giuseppe Di Martino.

Pare opportuno, per evidenti ragioni di ospitalità, fissare brevemente

21 Salvatore Quasimodo, Shakespeare di Quasimodo con una noterella polemica, in «La fiera Letteraria», a. IV, n° 11, 13 marzo 1949; ora in Id, Una noterella polemica in merito ad alcune riserve provocate dalla mia traduzione di “Romeo e Giulietta”, in Alessandro Quasimodo a cura di, Quasimodo, op. cit., p. 226, da cui si cita.22 Salvatore Quasimodo, Teatro, specchio di problemi, in Id, Il poeta a teatro, op. cit., p. 15.

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l’attenzione proprio su queste due opere. La prima, l’Ecuba, di fama

sicura; mentre la seconda, l’Eracle, assai meno frequentata dai teatranti,

tanto che la traduzione quasimodiana fu la prima che si udì risuonare

nella cavea del Teatro Greco e si dovette aspettare il 2007 (ossia più di

quaranta anni) per porterla vedere nuovamente in scena nell’antico teatro

siracusano23.

Tutte le tradegie tradotte da Quasimodo, lette o ascoltate oggi, non

soffrono il passare del tempo, ma anzi, risultano ancora assai moderne.

Per potere, però, dare un’idea, in qualche modo più precisa, di come esse

potessero suonare alle orecchie di quegli spettatori siracusani che, si è

visto, il poeta-recensore voleva esperti conoscitori del Teatro Greco, non

è inutile raffontare l’incipit del Prologo dell’Ecuba così come tradotto da

Quasimodo con quello tradotto dal più volte citato Ettore Romagnoli, le cui

versioni, come ricordato, vennero utilizzate da alcuni teatranti anche negli

Anni Cinquanta del Novecento.

La versione dell’Ecuba firmata da Ettore Romagnoli fu pubblicata da

Zanichelli nel 1930 nel quinto dei sette volumi della collana “I poeti greci

tradotti da Ettore Romagnoli”. Il titolo della collana mette in evidenza

il nome del traduttore e dice assai bene di quanto, in quegli anni,

Romagnoli fosse stimato come uomo di lettere.

Ecco i versi iniziali della tragedia nella versione di Romagnoli. A parlare è

l’ombra di Polidoro:

I recessi dei morti, e della tenebrale porte abbandonate, ove lontano dagli altri Numi Ade soggiorna, io giungoqui: Polidòro io son, d'Ècuba figlio,che nacque da Cissèo: mio padre fu Prìamo, che, quando su la frigia rocca la minaccia incombé che sotto l'astecadesse degli Achei, dal suol di Troialontano mi mandò, di Polinèstorealla magion, dell'ospite di Troia,che il pian ferace piú d'ogni altro seminadel Chersoneso, e quelle genti amiche

23 In quell’anno la tragedia fu portata in scena al Teatro Greco di Siracusa dal regista Luca De Fusco che si avvalse dalla traduzione di Giulio Guidorizzi.

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di corsïeri, con la forza regge.E meco insieme, di nascosto il padremolto oro gl'inviò, perché, se maivinte le mura d'Ilio procombessero,non dovessero i suoi figli superstiti conoscer la penuria. Ed il piú giovineero io dei Priamídi; e dalla terralungi per questo mi mandò: ché reggere col braccio giovinetto io non potevoscudo né lancia. Or, finché saldi stetterodella terra i confini, e smantellate non fûr le torri del troiano suolo,e la fortuna sorrideva ad Ettore, fratello mio, nella battaglia, io pressol'ospite tracio di mio padre crebbi,misero me, come novello cespite,e fui nutrito. Ma poiché perironoEttore e Troia, e furono distruttii patrî Lari, e Prìamo stesso cadde presso l'ara, dei Numi opra, ed il figlio sanguinario d'Achille lo sgozzò, l'ospite di mio padre, a me tapinola morte die', per bramosia dell'oro, per tenerselo in casa; e dopo ucciso, fra l'estuar dell'onde mi gittò.

Ascoltati i versi di Romagnoli, come dare torto a Salvatore Quasimodo

quando se ne lamentava? Stupisce che il pubblico dei primi Anni

Cinquanta potesse ancora comprenderli al solo udirli e che attori e registi

di quegli anni potessero ragionevolmente pensare di affidarsi a loro per

inscenare le tragedie greche.

Ben differenti i versi quasimodiani:

Vengo dalla porta delle tenebresu dagli antri dei morti dove Adeabita lontano dagli altri dei.Sono Polidoro figlio di Priamoe di Ecuba nata da Cisseo.Quando la città dei Frigistava per cedere sotto le lancedei Greci, mio padre temendo per memi mandò lontano dalla terratroiana nella casa di Polimestore,in Tracia. Il mio ospite seminala fertile pianura del Chersoneso

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e domina con la forza un popoloamante dei cavalli. Priamogli affidò in segreto molto oroperché se le mura di Ilio fossero crollatenon voleva lasciare i suoi figlinella miseria. Io ero il più giovanee il mio braccio non poteva portareancora le armi né lanciareil giavellotto; così mi fece andar viada Ilio. Finché la mia patrianon fu invasa e le difese di Troiarespinsero i nemici e mio fratello Ettorevinse in tutte le battaglie,Polimestore ebbe cura di mee venni su come un arbusto.Ma quando Ettore fu uccisoe Troia distrutta e la mia casarasa al suolo e mio padrecadde presso l’ara sacra agli deisotto la spada del sanguinariofiglio di Achille, il mio ospitemi uccise e mi gettò nel mareper rubare l’oro di mio padre.24

La versione di Quasimodo sembra scritta oggi e non mezzo secolo fa ed

è indubbio che le sue parole siano dirette, aderenti al parlato, teatrali in

quanto di facile dire per un attore e di altrettanto facile ascolto per gli

spettatori.

Nessun stupore, quindi, per il fatto che i risultati scenici conseguiti

dalle traduzioni di Quasimodo furono eccellenti. Prova ne sia una sola

testimonianza, quella di Carlo Trabucco che nel 1952, a proposito

dell’Elettra di Sofocle per la regia di Strehler, si chiedeva quali fossero gli

elementi che l’avevano resa “un’opera moderna” e rispondeva:

[…] bisogna rivolgersi a Salvatore Quasimodo il quale ha fatto parlare i personaggi come lo potrebbe [...] un Pirandello.Se Strehler si fosse, per esempio, attenuto alla traduzione del Bellotti e avesse fatto dire al precettore (che il Bellotti con stile idoneo al suo tempo chiama “ajo”) — “Come saper poss’io, cortesi donne | se queste son d’Egitto re le case?” e il coro avesse risposto: “Queste, buon uomo: apposto al ver ti sei.” […] se Strehler a questo testo si fosse appigliato, noi avremmo sbadigliato, con o senza rima. Invece Quasimodo ci ha portati sul piano d’oggi ed è giunto a

24 Euripide, Ecuba, trad. Salvatore Quasimodo, s.l., Arnoldo Mondadori, 1963, pp. 13-15.

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un “pensa ai fatti tuoi”, che con altre espressioni del tempo nostro, hanno forse in qualche momento un po’… appiattito il linguaggio degli eroi sofoclei, ma è certo però che si è fatto intendere da tutti e tutti l’han seguito, al punto che quando qualcuno si arrischiava a tossire o a far scricchiolare la poltrona, veniva zittito e ripreso.25

Un risultato notevole che può anche aver scontentato i filologi, ma ha

sicuramente soddisfatto il pubblico.

Piace concludere questo discorso ricordando che Salvatore Quasimodo

poneva una grande fiducia nel Teatro come “alleato” del poeta

contemporaneo impegnato a «rifare l’uomo»26. A riprova, si citano alcune

riflessioni che Quasimodo scrisse nel 1965 a conclusione del Messaggio

che inviò in occassione della Quarta Giornata Mondiale del Teatro:

L’invito a teatro in questa giornata non dovrebbe essere provvisorio, temporaneo, ma convincere la nuova generazione (aggrappata alle prospettive spettacolari dello sport o alla dispersa vibrazione vocalica delle canzoni) che solo nel teatro troverà il dialogo che definisca la sua probabile sorte fisica.La guerra non è alle nostre spalle, ma proprio nei nostri gesti quotidiani. E qui l’uomo va fermato e avvertito: e non nel segno della speranza, ma attraverso la certezza della sua forza spirituale e civile.Il teatro presume di continuare questo aperto dialogo millenario dell’uno, non contro l’altro, ma per l’altro, vicino o straniero alla sua lingua e al suo costume.27

© Danilo Ruocco, www.daniloruocco.it, 2012.

25 Carlo Trabucco, “Elettra” tragedia di Sofocle al Quirino, in “Il Popolo”, 5 aprile 1952.26 «Oggi [...] dopo due guerre nelle quali l’“eroe” è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve “rifare” l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, [...] Rifare l’uomo: questo il problema capitale. [...] Rifare l’uomo, questo è l’impegno» (Salvatore Quasimodo, Poesia contemporanea, in Id, Poesie e discorsi sulla poesia, op. cit., p. 273.).

27 Salvatore Quasimodo, Messaggio del Premio Nobel Salvatore Quasimodo per la celebrazione della Quarta Giornata Mondiale del Teatro, s.l. <ma Milano>, 31 marzo 1965; si legge in Danilo Ruocco, Salvatore Quasimodo e il teatro, op. cit., p. 180.