SAGGI di · Diritto ed economia dell’impresa 261 Fascicolo 2| 2017 Indice Interventi Il...

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Diretta da LUCIANO M. QUATTROCCHIO 2 - 2017 G. Giappichelli Editore – Torino Rivista telematica bimestrale 2 - 2017 Iscrizione al R.O.C. n. 25223 ISSN 2499-3158 INTERVENTI di G. Büchi, M. Cugno, M.C. Vietti, F. Lunardon, S. Figurati, A. Vicini Ronchetti S. Cerrato, M. Giusta, L.M. Quattrocchio, G. Guglielmi APPROFONDIMENTI di L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna, P. Rava SAGGI di V. Ferraro, F. Restano, G. Quaranta, L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna, A. Avataneo

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Diretta da LUCIANO M. QUATTROCCHIO 2 - 2017

G. Giappichelli Editore – TorinoRivista telematica bimestrale 2 - 2017 • Iscrizione al R.O.C. n. 25223ISSN 2499-3158

INTERVENTI di G. Büchi, M. Cugno, M.C. Vietti, F. Lunardon, S. Figurati, A. Vicini Ronchetti

S. Cerrato, M. Giusta, L.M. Quattrocchio, G. Guglielmi

APPROFONDIMENTI di

L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna, P. Rava

SAGGI di

V. Ferraro, F. Restano, G. Quaranta, L.M. Quattrocchio, B.M. Omegna, A. Avataneo

Diretta da LUCIANO M. QUATTROCCHIO

2 - 2017

G. Giappichelli Editore – Torino

Direttore responsabile: Luciano M. Quattrocchio

Direzione e Redazione:www.dirittoeconomiaimpresa.it

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ISSN 2499-3158

Pubblicato nel mese di maggio 2017

Comitato di Direzione

Direttore: Luciano M. Quattrocchio.Vice-Direttore: Monica Cugno.Segretario: Maurizio Cavanna.Consulente linguistico: Diana Fahey.

Comitato Scientifico

Presidente: Guido Bonfante.Vice-Presidente: Giacomo Büchi.Segretario: Giuseppe Vanz.

Sergio Foà, Aldo Frignani, Patrizia Grosso, Bruno Inzitari, Fiorella Lunardon, Giovanni Ossola, Alessandra Rossi.

Comitato di Redazione

Presidente: Carlo Majorino (Consigliere SAA). Vice-Presidente: Francesco Cappello.Segretario: Maria Maccarrone.

Fabrizio Bava, Cecilia Casalegno, Margherita Corrado, Anna Cugno, Alain Devalle, Paolo Fabris, Elena Gentile, Francesco Gerino, Guido Giovando, Mario Grandinetti, Valeria Miraglia, Bianca Maria Omegna, Elena Piccatti, Anna Maria Porporato, Michele Ricciardo Calderaro, Maurizio Riverditi, Fa-brizia Santini, Alessandro Terzuolo, Andrea Trucano, Gabriele Varrasi, Bar-bara Veronese, Alessandro Vicini Ronchetti.

Collaboratori di RedazioneAlessandro Avataneo, Fabrizio Bava, Valentina Bellando, Francesco Cappel-lo, Cecilia Casalegno, Giovanni Castellani, Maurizio Cavanna, Margherita Corrado, Chiara Crovini, Anna Cugno, Monica Cugno, Alain Devalle, Paolo Fabris, Elena Gentile, Francesco Gerino, Guido Giovando, Mario Grandinet-ti, Melchior E. Gromis Di Trana, Maria Maccarrone, Carlo Majorino, Cinzia Manassero, Valeria Miraglia, Roberta Monchiero, Luisa Nadile, Bianca Ma-ria Omegna, Alessandro Pastore, Elena Piccatti, Anna Maria Porporato, G. Quaranta, Michele Ricciardo Calderaro, Maurizio Riverditi, Fabrizia Santini, Alessandro Terzuolo, B. Tessa, Andrea Trucano, Gabriele Varrasi, Barbara Veronese, Alessandro Vicini Tronchetti.

261 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Indice

Interventi

Il trasferimento d’azienda: aspetti giuridici ed aziendalistici

G. BÜCHI-M. CUGNO, Il trasferimento d’azienda nell’economia e gestione delle imprese 263

M.C. VIETTI, Gli aspetti Contabili del Trasferimento d’Azienda: principi contabili nazionali e internazionali 283

F. LUNARDON, I rapporti di lavoro nel trasferimento d’azienda 300

S. FIGURATI, Il trasferimento d’azienda dell’impresa in crisi: questioni giu-slavoristiche 308

A. VICINI RONCHETTI, La disciplina fiscale del trasferimento d’azienda 313

S. CERRATO, Il trasferimento d’azienda nel diritto commerciale: questioni controverse 319

M. GIUSTA, Il trasferimento d’azienda nel fallimento quale modalità di sal-vaguardia dei complessi aziendali e dei posti di lavoro 329

L.M. QUATTROCCHIO, Il trasferimento d’azienda nel concordato preventivo: concordato liquidatorio e concordato con continuità aziendale 337

G. GUGLIELMI, Gli aspetti penali del trasferimento d’azienda: qualificazio-ne distrattiva o dissipativa 350

Approfondimenti

L.M. QUATTROCCHIO-B.M. OMEGNA, Il contenzioso bancario e finanziario. Antinomia fra norme primarie e norme secondarie e interazioni fra giu-dizio civile e giudizio penale: spigolature di matematica finanziaria 367

P. RAVA, Brevi note sull’insolvenza infragruppo e su relativi aspetti di rile-vanza penale 481

Saggi

V. FERRARO-F. RESTANO, La nuova disciplina dell’approvazione del con-cordato preventivo 500

G. QUARANTA, Crowdfunding: esame della disciplina e ruolo dei gestori dei portali per la raccolta dei fondi 514

L.M. QUATTROCCHIO-B.M. OMEGNA-A. AVATANEO, Le vendite dei com-plessi aziendali nelle procedure concorsuali 549

  

Diritto ed economia dell’impresa

ascicolo 6|2016

Interventi Il trasferimento d’azienda:

aspetti giuridici ed aziendalistici

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Il trasferimento di azienda nell’economia e gestione delle imprese Giacomo Büchi-Monica Cugno

SOMMARIO

1. L’individuazione del costrutto. – 2. Le varie forme di trasferimento di azienda o di rami di azienda a titolo definitivo. – 2.1. La cessione. – 2.2. La fusione. – 2.3. La scissione. – 3. I problemi strategici del trasferimento di azienda e/o di rami di azienda a titolo definitivo. – Bibliografia di riferimento.

1. L’individuazione del costrutto

Da un punto di vista di management l’impresa è un sistema realizzato da un insieme di risorse (tangibili, intangibili e umane) e di attori legati, tra di loro da relazioni, orientanti alla realizzazione delle attività e collegati, attra-verso rapporti, a vari soggetti esterni (tra gli altri, Perrini 2016 e Sciarelli 2017), il cui fine ultimo è la sopravvivenza nel tempo.

Il sistema impresa non è un entità statica, ma è una combinazione che si va a realizzare nel tempo e in uno specifico spazio. L’evoluzione di impresa dipende sia dai fattori interni ed esterni, sia dal modo che essi si combinano, nel quale un ruolo rilevante nella continuazione della stessa (tra gli altri, Fontana e Caroli 2017).

Il sistema imprenditoriale si evolve attraverso fasi di stabilità-cambiamento, e la regolazione dell’alternanza consolidamento-impulso è funzione dell’organo di governo (Büchi e Cugno 2015). Quest’ultimo può decidere che la conti-

Giacomo Büchi Ph.D. (Padova) e M.Sc. (Oxford), Professore ordinario di Economia e gestione delle imprese – Università degli Studi di Torino.

Monica Cugno Ph.D. (Padova), Professore aggregato e ricercatore di Economia e gestio-ne delle imprese – Università degli Studi di Torino.

Il saggio è frutto dell’elaborazione della relazione su invito presentata al Convegno Studi «Il trasferimento d’azienda: aspetti giuridici e aziendalistici», Torino 23 marzo 2017. Il la-voro scaturisce da una riflessione congiunta degli Autori, che hanno condiviso la definizione della struttura, le modalità di sviluppo dell’argomentazione e i relativi risultati, mentre la ste-sura del testo risulta così ripartita: il Prof. Giacomo Büchi ha curato i par. 1; la Prof.ssa Mo-nica Cugno i parr. 2 e 3.

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nuazione e/o la crescita di impresa sia esito di operazioni straordinarie, ossia prevedere la possibilità di trasferimento dell’azienda o di una parte della stessa (ramo di azienda) 1.

L’individuazione del costrutto ‘trasferimento di azienda’ o ‘ramo di a-zienda’ deve essere approfondita a partire dalla sentenza della Corte di Cas-sazione del 28 aprile 2014 n. 9361: il trasferimento (di azienda) si verifica ogni qual volta che, a seguito di operazioni societarie di varia natura – ces-sione, fusione, scissione, affitto e usufrutto –, il titolare dell’attività viene a mutare e inoltre è necessario che il trasferimento avvenga con riferimento a una vera e propria entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obiet-tivo.

Quando il trasferimento ha per oggetto solo una parte del complesso azienda si parla di cessione del ramo di azienda. In questo caso l’autonomia funzionale è maggiormente accentuata: la tipologia di trasferimento deve consentire l’esercizio di una attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico scopo, il cui accertamento presuppone la valutazione com-plessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di azienda (Corte di Cassazione del 17 marzo 2009, n. 6452).

Di conseguenza, come dedotto dalla giurisprudenza, è possibile affermare di essere di fronte a ipotesi di trasferimento di azienda «[…] ogni qual volta che venga ceduto un insieme di elementi costituenti un complesso organico e funzionalmente adeguati a conseguire lo scopo in vista del quale il loro coordinamento è stato posto in essere, essendo necessario e sufficiente che sia stata ceduta un’entità economica ancora esistente, la cui gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa dal nuovo titolare con le stesse o analo-ghe attività economiche […]» (Corte di Cassazione del 12 luglio 2002, n. 10193) e «che la nozione di trasferimento di azienda rilevante ai fini dell’art. 2112 c.c. novellato si identifica con qualsiasi operazione che comporti, indi-pendentemente dal trasferimento di proprietà dei beni di azienda, il muta-mento anche parziale nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità» (Corte di Cassazione del 17 luglio 2002, n. 10348).

1 È utile ricordare che l’azienda è definita dal codice civile «come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa» (art. 2555). Esiste quindi una so-stanziale differenza fra azienda e impresa: l’azienda è un complesso di beni utilizzati dal-l’imprenditore; l’impresa è l’attività esercitata dallo stesso.

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La Suprema Corte ha individuato così l’esistenza di fatto del trasferimen-to di azienda o di un ramo di azienda tutte quelle volte in cui (i) muta il tito-lare dell’attività (quindi il datore di lavoro) e per l’effetto (ii) sono trasferiti i beni facenti parte del complesso azienda, siano essi le strumentazioni o al-tro; (iii) siano ceduti i contratti con la clientela; (iv) il personale continui a lavorare per il nuovo datore, o comunque venga riassunto, senza soluzione di continuità tra i due rapporti di lavoro; (v) vengano mantenuti lo stabile e il luogo di lavoro; (vi) venga svolta la medesima precedente attività del ceden-te.

La regolazione definisce infine una precisazione in merito alla cessione del cosiddetto parco clienti. In tali ipotesi, al fine di valutare l’esistenza o meno di un trasferimento, il fatto che due aziende si siano susseguite nell’e-vasione degli ordini non può essere da solo sintomo della cessione di azien-da, perché la clientela non può essere considerata alla stregua di un bene. Inoltre, pur essendo vero che la fattispecie della cessione di azienda ricorra anche nel caso in cui il complesso degli elementi trasferiti non comprenda tutti i beni della presunta cedente, tuttavia, per la ricorrenza di detto trasfe-rimento è indispensabile che i beni oggetto della cessione conservino un re-siduo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine, sia pure con la succes-siva integrazione del cessionario, all’esercizio dell’impresa: in altre parole, quanto ceduto deve essere di per sé un insieme organicamente finalizzato ex-ante all’esercizio dell’attività di azienda, autonomamente idoneo a consenti-re l’inizio o la continuazione di quella determinata attività (Corte di Cassa-zione del 9 ottobre 2009, n. 21481).

Il saggio si inserisce nel filone di ricerca delle operazioni straordinarie di azienda a titolo definitivo – cessione, fusione e scissione – con un percorso di-stinto in due momenti strettamente correlati: nella prima parte viene offerta la disamina degli aspetti di carattere generale 2 delle principali varie forme di tra-sferimento di azienda o rami di azienda e delle conseguenze che le differenti operazioni possono avere sulle scelte strategiche attuate dall’imprenditore; nella seconda parte vengono approfonditi gli impatti che i diversi negozi giuridici hanno sulla generazione del capitale intellettuale, con particolare attenzione al-l’influenza che gli stessi hanno sul legame con i clienti (capitale relazionale).

2 Nel prosieguo dei saggi del numero monografico della rivista sono offerti mirati appro-fondimenti: sui principi contabili nazionali e internazionali, sui profili fiscali, sulla tutela del rapporto di lavoro, sulla realizzazione delle forme contrattuali, sull’applicazione nel caso di crisi di impresa, sugli aspetti penali dei differenti negozi giuridici. Un interessante approfon-dimento sugli aspetti di management del trasferimento di impresa è offerto da Di Giuseppe (2009).

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2. Le varie forme di trasferimento di azienda o di ramo di azienda a titolo definitivo

2.1. La cessione di azienda La cessione di azienda è un’operazione straordinaria finalizzata a permet-

tere a un soggetto terzo la continuazione dell’attività di azienda o di un ramo dell’attività di azienda.

Chi aliena l’azienda (o una parte di essa) deve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova azienda che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta (divieto di concorrenza, art. 2557 c.c.). Il patto di aste-nersi dalla concorrenza in limiti più ampi di quelli previsti dal comma pre-cedente è valido, purché non impedisca ogni attività professionale dell’alie-nante. Esso non può eccedere la durata di cinque anni dal trasferimento.

Se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano caratte-re personale.

Il contraente terzi può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante (successione nei contratti, art. 2558 c.c.).

La cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese. Il debitore ceduto è tuttavia liberato se paga in buona fede all’alienante (crediti relativi all’azienda ceduta, art. 2559 c.c.). L’alienante non è liberato dai de-biti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta (o di una parte di essa), ante-riori al trasferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori.

Le motivazioni strategiche della cessione di azienda sono da ricercare nella volontà che la continuità dell’impresa sia affidata a soggetti terzi ester-ni all’imprenditore e/o ai membri della famiglia. Il tema è particolarmente rilevante negli studi di family business dove il fondatore o le generazioni familiari sono meno propensi a disinvestire a causa del forte legame emo-zionale che l’impresa che rappresenta per la famiglia stessa e per i suoi membri (tra gli altri, Cugno e Tardivo 2012).

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2.2. La fusione di azienda La fusione di azienda prevede l’unificazione o compenetrazione a unità

dei patrimoni di due o più società e la confluenza dei soci in un’unica strut-tura organizzativa (art. 2501 c.c) 3. Le attività economiche assumono lo stes-so soggetto giuridico e continuano la loro attività in un unico complesso produttivo potenziato.

Il codice civile prevede sei tipi di fusione.

• Fusione in senso stretto (o propriamente detta), che comporta la costitu-zione di una nuova società e l’estinzione delle società partecipanti (ossia queste ultime perdono la loro soggettività giuridica). Le azioni o quote del-le società partecipanti vengono annullate e, in sostituzione vengono asse-gnate ai soci le azioni o le quote della nuova società, in misura corrispon-dente all’originario valore della partecipazione, secondo quanto stabilito nel rapporto di cambio.

• Fusione per incorporazione, nella quale una o più società si fondono in una di esse che assorbe le altre. La società incorporante conserva la pro-pria soggettività giuridica, mentre quella incorporata si estingue. Le azioni o le quote dell’incorporata vengono annullate e, in sostituzione, vengono assegnate ai soci azioni o quote delle società incorporanti, nella misura de-terminata in base al rapporto di cambio.

• Fusione per incorporazione inversa, quanto la società partecipante è in-corporata dalla società partecipata. I soci della partecipante ricevono azio-ni della partecipata per annullamento del patrimonio della prima.

• Fusione per incorporazione anomala, nel caso in cui una società si fonde con un’altra di cui possiede tutte le azioni o le quote.

• Fusione a seguito di acquisizione con indebitamento, cosiddetto leverage buy-out.

La fusione si definisce: omogenea, quando avviene tra società dello stes-so tipo giuridico; eterogenea, nel caso in cui le società appartengono a diffe-renti tipologie.

Il procedimento di fusione si può suddividere in cinque fasi.

• La fase preliminare, dopo aver istaurato i rapporti ed i contatti tra gli orga-ni amministrativi delle società partecipanti, questi ultimi procedono alla realizzazione dei documenti necessari per avviare il procedimento: proget-

3 Una regolamentazione specifica è offerta prevista per la fusione di imprese bancarie e assicuratrici. In ogni caso la partecipazione non è consentita alle società in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo.

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to di fusione; redazione della situazione patrimoniale e illustrativa; deposi-to del progetto di fusione presso il registro delle imprese (almeno trenta giorni prima della assemblea fissata per l’approvazione dell’operazione di fusione); relazione sul rapporto di cambio (a cura di esperti) e alla relazio-ne di stima nel caso di fusione di società di persone con società di capitali (a cura di esperti).

• La fase pubblicitaria, nella quale si depositano presso la sede sociale delle società coinvolte nell’operazione di fusione i documenti necessari all’av-vio del procedimento. Il deposito di alcuni atti e documenti è, ai sensi del-l’art. 2501-sexies c.c., condizione essenziale per la decisione di fusione.

I documenti devono essere depositati presso la sede sociale durante i tren-ta giorni che precedono la decisione di fusione. Nel caso di assenza di socie-tà azionarie tale termine viene ridotto a 15 giorni e i soci possono – all’una-nimità – rinunciare al termine di deposito.

La giurisprudenza (Tribunale di Milano marzo 1991, e Tribunale di Na-poli gennaio 1995) hanno determinato in sei mesi il termine massimo tra il deposito del progetto di fusione presso il registro delle imprese e la decisio-ne in ordine alla fusione.

I documenti oggetto del deposito sono: il progetto di fusione; la relazione dell’organo amministrativo (se obbligatoria); la relazione degli esperti (se obbligatoria); i bilanci regolarmente approvati degli ultimi tre esercizi (o dalla costituzione di periodo inferiore) delle società partecipanti con relazio-ne dell’organo di controllo contabile; le situazioni patrimoniali delle società partecipanti.

• Fase deliberativa, nella quale l’assemblea decide di approvare l’opera-zione di fusione sulla base della documentazione depositata. La decisione dei soci in ordine alla fusione deve essere approvata dai soci di ciascuna società partecipante mediante approvazione del progetto predisposto dagli amministratori (art. 2502 c.c.). Il progetto può essere modificato in sede di approvazione assembleare purché si tratti di modifiche «che non incidono sui diritti dei soci o dei terzi».

Nel caso di Srl, SpA, e Sapa la fusione è approvata dalla assemblea straordinaria dei soci con le maggioranza prevista per la modifica dell’atto costitutivo o dello statuto. Per le società di persone è prevista la maggioran-za dei soci determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili.

L’organo amministrativo di ciascuna società partecipante alla fusione de-ve procedere al deposito della decisione di fusione presso il registro delle imprese competente, allegando i documenti relativi all’operazione.

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Si rileva che il socio di Snc dissenziente può, ai sensi dell’articolo 2502 c.c., recedere, così come, ai sensi dell’articolo 2473 c.c., il socio di Srl. Mentre nel caso di SpA il socio può recedere se previsto dallo Statuto, ovve-ro al verificarsi delle condizioni di cui all’art. 2437 c.c.

La deliberazione di fusione deve contenere: attestazione della regolarità dei depositi; la garanzia del rispetto del divieto di cui all’art. 2504-ter c.c.; la dichiarazione di conformità del progetto di fusione approvato a quello depo-sitato; l’indicazione del nuovo organo amministrativo e di controllo nel caso di nuova costituzione; l’attestazione che non è iniziata la distribuzione dell’attivo (per le società in liquidazione); l’informativa su eventuali obbli-gazioni convertibili; il conferimento del mandato agli amministratori per sti-pulare l’atto di fusione.

La delibera assembleare può essere impugnata da: amministratori; sinda-ci; soci assenti, dissenzienti ovvero astenuti; consiglio di sorveglianza e soci legittimati 4.

• La fase delle opposizioni, nella quale i creditori sociali possono esercitare il diritto di opposizione. I creditori i creditori sociali (anteriori all’iscrizione del-la delibera di fusione presso il registro delle imprese) possono, ai sensi dell’art. 2503 c.c., opporsi all’operazione di fusione nel termine di giorni 60 decorrenti dall’iscrizione delle deliberazioni delle società partecipanti. Il giudice può disporre la sospensione dell’esecuzione della delibera as-

sembleare in caso di accertato pregiudizio per il ricorrente in conseguenza della fusione (art. 2378 c.c.); al contrario il tribunale – in caso di opposizio-ne – può disporre che l’operazione abbia comunque luogo in pendenza di opposizione qualora ritenga infondato il pericolo di pregiudizio ovvero la società abbia prestato idonea garanzia.

Gli organi amministrativi, pertanto, possono procedere alla stipulazione presso il notaio dell’atto di fusione solo se sono decorsi 60 giorni dall’iscri-zione della delibera di fusione presso il registro delle imprese senza alcuna opposizione da parte dei creditori. Tale temine può essere derogato qualora: vi sia il consenso alla fusione da parte dei creditori; vi sia l’integrale paga-mento dei creditori non consenzienti; vi sia il deposito bancario a garanzia delle somme per i creditori non consenzienti; la relazione degli esperti è re-datta per tutte le società dalla stessa società di revisione che attesta che non sono necessarie garanzie a tutela dei creditori sociali.

4 Sono soci sostenitori: i possessori di almeno 1 per mille del C.S. per società quotate; i possessori di almeno 5% del C.S. per società non quotate; gli altri soci possono agire per il risarcimento del danno.

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Un caso particolare di opposizione alla fusione è rappresentata dalla op-posizione degli obbligazionisti. Quest’ultimi si possono opporsi a condizio-ne che l’operazione di fusione non sia stata approvata dall’assemblea degli obbligazionisti (2503 e 2503-bis c.c.). Nel caso di obbligazioni convertibili la società deve dare possibilità di conversione mediante pubblicazione di avviso nella GURI almeno 90 giorni prima dell’iscrizione del progetto. Gli obbligazionisti potranno chiedere la conversione entro 30 giorni dalla pub-blicazione dell’avviso.

Restano impregiudicati per chi non converte tutti i diritti equivalenti a quelli loro spettanti prima della fusione.

• La fase attuativa, nella quale si attua definitivamente il programma di fu-sione (atto di fusione). Il procedimento di fusione viene attuato mediante una procedura ordinaria, ovvero, a determinate condizioni, mediante pro-cedura semplificata. Nella procedura ordinaria il perfezionamento dell’operazione richiede

l’approvazione dei soci, inoltre a sono previste, a determinate condizioni, si-gnificative semplificazioni procedurali.

Diversamente la procedura semplificata si caratterizza per il fatto che il perfezionamento della procedura non richiede l’approvazione dei soci e l’intero processo viene gestito dagli amministratori.

I documenti e gli atti che caratterizzano la procedura di fusione sono: il progetto di fusione, la situazione patrimoniale delle società partecipanti; la relazione dell’organo amministrativo; la relazione degli esperti; la delibera di fusione.

• Il progetto di fusione. È un documento sottoscritto dall’organo amministrativo delle società partecipanti, dal quale devono risultare (art. 2501-ter c.c.): ◦ il tipo, la denominazione o ragione sociale, la sede delle società parteci-

panti alla fusione; ◦ l’atto costitutivo della nuova società risultate dalla fusione o di quella in-

corporante, con le eventuali modificazioni derivanti dalla fusione; ◦ il rapporto di cambio delle azioni o quote, nonché l’eventuale conguaglio

in danaro (quest’ultimo non può essere superiore al 10% del valore no-minale delle azioni o delle quote assegnate);

◦ le modalità di assegnazione delle azioni o delle quote della società che ri-sulta dalla fusione o di quella incorporante;

◦ la data dalla quale le azioni o quote partecipano agli utili; ◦ la data a decorrere dalla quale le operazioni delle società partecipanti alla

fusione sono imputate al bilancio della società che risulta dalla fusione o di quella incorporante;

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◦ il trattamento riservato, eventualmente, a particolari categorie di soci e ai possessori di titoli diversi dalle azioni.

Il progetto di fusione è redatto per atto pubblico e depositato nei 30 gior-ni successivi presso il Registro delle Imprese dei luoghi ove hanno sede le società partecipanti (art. 2502 c.c), salvo che i soci rinuncino al termine con consenso unanime o che la fusione coinvolga soltanto società di persone).

Il deposito relativo alla società beneficiaria o alla incorporante non deve precedere quello delle altre società. La fusione ha effetto quando è stata ef-fettuata l’ultima delle iscrizioni previste dall’art. 2504 c.c. (efficacia costitu-tiva). Peraltro è prevista la possibilità della post-datazione nel caso di fusio-ne per incorporazione, la retrodatazione è ammissibile quando riguarda: la data di partecipazione agli utili delle azioni o quote assegnate; la data a par-tire dalla quale le operazioni delle società estinte sono imputate all’incorpo-rante ovvero alla società beneficiaria.

A seguito della fusione, ai sensi dell’art. 2504-bis comma 1 c.c., l’incor-porante ovvero la società beneficiaria si sostituiscono alle società estinte nei rapporti contrattuali e processuali anteriori alla fusione. Le società incorpo-rate o fuse si estinguono ed i loro diritti ed obblighi sono assunti dalla socie-tà incorporante o risultante dalla fusione.

• La fusione con procedimento agevolato ex art. 2505 c.c. La fattispecie ri-guarda l’operazione di fusione per incorporazione di società interamente possedute. In questo caso il progetto di fusione non contiene: il rapporto di concambio e gli eventuali conguagli; le modalità di assegnazione; la data di partecipazione agli utili. Non devono essere inoltre predisposte; la rela-zione dell’organo amministrativo; la relazione degli esperti. L’atto costitutivo, o lo Statuto, può prevedere che la decisione di fusione

sia presa dall’organo amministrativo con atto pubblico (facoltà dei soci che rappresentano almeno il 5% del C.S. di richiedere la deliberazione assem-bleare; detta richiesta deve essere avanzata entro otto giorni dal deposito del progetto di fusione. • La fusione con procedimento agevolato art. 2505-bis c.c. La fusione per

incorporazione di società possedute al 90%. In questo caso non deve esse-re predisposta la relazione dell’esperto sulla congruità del rapporto di cambio (art. 2501-sexies) purché ai soci della società incorporata sia con-cesso «il diritto di far acquistare le loro azioni o quote dalla società incor-porante per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso». L’atto costitutivo, o lo Statuto, può prevedere che la decisione di fusione

sia presa dall’organo amministrativo con atto pubblico (facoltà dei soci che

272 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

rappresentano almeno il 5% del C.S. di richiedere la deliberazione assem-bleare; detta richiesta và avanzata entro otto giorni dal deposito del progetto di fusione.

La fusione con procedimento agevolato art. 2505-quater c.c. Si tratta di fusioni cui non partecipano società con capitale rappresentato da azioni. Non si applicano le disposizioni: a partecipazione alla fusione è vietata alle socie-tà in liquidazione che abbiano iniziato la distribuzione dell’attivo (art. 2501 comma 2 c.c.); il conguaglio in denaro non può essere superiore al 10% del v.n. delle azioni o quote assegnate (art. 2501-ter comma 2 c.c.); può essere derogata con il consenso unanime dei soci delle società partecipanti (art. 2501-sexies c.c.).

Alcuni termini possono essere dimezzati se: il periodo tra la data di iscri-zione del progetto (art. 2501-ter c.c.) e la decisione – termine derogabile – è ridotto da 30 a 15 giorni; il termine relativo al deposito atti presso la sede delle società (art. 2501-septies c.c.), derogabile, è ridotto da 30 a 15 giorni; il termine per l’opposizione dei creditori (art. 2503 comma 1 c.c.) è ridotto da 60 a 30 giorni. • La situazione patrimoniale (art. 2501-quater c.c.). L’organo amministrati-

vo delle società partecipanti alla fusione deve redigere, con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio, la situazione patrimoniale delle so-cietà stesse, riferita ad una data non anteriore di oltre centoventi giorni al giorno in cui il progetto di fusione è depositato nella sede della società. La situazione patrimoniale può essere sostituita dal bilancio dell’ultimo eser-cizio, se questo è stato chiuso non oltre sei mesi prima del giorno del de-posito indicato nel primo comma.

• La relazione dell’organo amministrativo (art. 2501-quinquies c.c.). L’organo amministrativo delle società partecipanti alla fusione deve predi-sporre una relazione che illustri e giustifichi, sotto il profilo giuridico ed economico, il progetto di fusione e in particolare il rapporto di cambio del-le azioni o delle quote. La relazione deve indicare i criteri di determinazio-ne del rapporto di cambio. Nella relazione devono essere segnalate le eventuali difficoltà di valutazione.

• La relazione degli esperti (art. 2501-sexies c.c.). Uno o più esperti devono redigere, per ciascuna società, una relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni o delle quote, che indichi: a) il metodo o i metodi se-guiti per la determinazione del rapporto di cambio proposto e i valori risul-tanti dall’applicazione di ciascuno di essi; b) le eventuali difficoltà di valu-tazione. La relazione deve contenere, inoltre, un parere sull’adeguatezza del me-

todo o dei metodi seguiti per la determinazione del rapporto di cambio e

273 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

sull’importanza relativa attribuita a ciascuno di essi nella determinazione del valore adottato. L’esperto o gli esperti sono scelti tra i soggetti di cui al pri-mo comma dell’articolo 2409-bis c.c. e, se la società incorporante o la socie-tà risultante dalla fusione è una società per azioni o in accomandita per azio-ni, sono designati dal tribunale del luogo in cui ha sede la società.

Se la società è quotata in mercati regolamentati, l’esperto è scelto tra le società di revisione sottoposte alla vigilanza della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa.

In ogni caso, le società partecipanti alla fusione possono congiuntamente richiedere al tribunale del luogo in cui ha sede la società risultante dalla fu-sione o quella incorporante la nomina di uno o più esperti comuni.

Ciascun esperto ha diritto di ottenere dalle società partecipanti alla fusio-ne tutte le informazioni e i documenti utili e di procedere ad ogni necessaria verifica.

L’esperto risponde dei danni causati alle società partecipanti alle fusioni, ai loro soci e ai terzi.

Ai soggetti di cui ai precedenti terzo e quarto comma è altresì affidata, in ipotesi di fusione di società di persone con società di capitali, la relazione di stima del patrimonio della società di persone a norma dell’articolo 2343 c.c.

La relazione di cui al primo comma non è richiesta se vi rinunciano all’unanimità di soci di ciascuna società partecipante alla fusione.

La revisione legale dei conti sulla società è esercitata da un revisore lega-le dei conti o da una società di revisione legale iscritti nell’apposito registro.

Lo statuto delle società che non siano tenute alla redazione del bilancio consolidato può prevedere che la revisione legale dei conti sia esercitata dal collegio sindacale. In tal caso il collegio sindacale è costituito da revisori le-gali iscritti nell’apposito registro. • Il deposito degli atti (2501-septies c.c). Devono restare depositati in copia

nella sede delle società partecipanti alla fusione, durante i 30 giorni che precedono la decisione in ordine alla fusione, salvo che i soci rinuncino al termine con consenso unanime, e finché la fusione sia decisa: 1) il progetto di fusione con le relazioni indicate negli articoli 2501-

quinquies e 2501-sexies c.c.; 2) i bilanci degli ultimi tre esercizi delle società partecipanti alla fusione, con

le relazioni dei soggetti cui compete l’amministrazione e la revisione legale; 3) le situazioni patrimoniali delle società partecipanti alla fusione redatte a

norma dell’articolo 2501-quater c.c.

I soci hanno diritto di prendere visione di questi documenti e di ottenerne gratuitamente copia.

274 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

• La delibera di fusione (art. 2502 c.c.). La fusione è decisa da ciascuna delle società che vi partecipano mediante approvazione del relativo progetto. Se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, tale approva-zione avviene, nelle società di persone, con il consenso della maggioranza dei soci determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili, salva la facoltà di recesso per il socio che non abbia consentito alla fusione e, nelle società di capitali, secondo le norme previste per la modificazione dell’atto costitutivo o statuto. La decisione di fusione può apportare al progetto di cui all’articolo 2501-

ter c.c. solo le modifiche che non incidono sui diritti dei soci o dei terzi. La fusione è un’operazione straordinaria che consente un allargamento della

dimensione dell’organizzazione, con possibili effetti positivi sulla redditività nel medio-lungo periodo. Senza pretesa di esaustività, i vantaggi competitivi posso-no generarsi in numerosi ambiti che possono essere così sintetizzati.

• Governance e proprietà. Apertura al management e alla proprietà di sog-getti esterni (alla famiglia) o agli attuali membri della famiglia.

• Tecnologico. Acquisizione di marchi, brevetti, licenze, segreti di fabbrica-zione, know-how, diritti di sfruttamento, R&S attraverso l’acquisizione di una start-up o imprese con un elevato contenuto innovativo.

• Produzione. Miglioramento dello sfruttamento degli impianti, aumento della capacità produttiva, integrazione delle fasi produttive, implementa-zione delle economie di estensione.

• Amministrativo. Riduzione dei costi amministrativo e/o utilizzo di strutture e sistemi informativi avanzati.

• Logistico. Ottimizzazione del processo di fornitura e/o distributivo (strate-gia di integrazione verticale a monte e/o a valle).

• Commerciale. Incremento della competitività, riduzione della concorrenza (grazie all’acquisizione di imprese concorrenti), ampliamento e integra-zione della gamma di prodotti; miglioramento della posizione contrattuale o delle possibilità in tema di pubblicità e commercializzazione del prodot-to – bene e/o servizio.

• Finanziario. Compensazione di squilibri nelle strutture delle imprese che si fondano, affinamento delle condizioni di negoziazione, potenziamento dei livelli di risorse finanziarie.

2.3. La scissione La scissione è l’operazione straordinaria attraverso la quale la società,

detta scissa, trasferisce l’intero patrimonio o parte dello stesso a società,

275 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

chiamate beneficiarie, con l’assegnazione ai soci della prima delle azioni o quote delle società beneficiarie 5. Le società beneficiarie possono essere so-cietà già esistenti, oppure società costituite appositamente.

L’art 2506-bis c.c. prevede due tipi di scissioni.

• La scissione totale nella quale l’intero patrimonio della società scissa viene trasferito (diviso) a due o più società beneficiarie. A seguito della scissione totale la società scissa si estingue e l’attività prosegue in capo alle società beneficiarie che assumono i diritti e gli obblighi corrispondenti alla quota di patrimonio traferita.

• La scissione parziale nella quale viene trasferita (divisa) ad una o più so-cietà beneficiarie soltanto una parte del patrimonio della società scissa. In questo caso la società scissa non si estingue ma prosegue la propria attivi-tà, con un patrimonio ridotto e senza la parte di attività/passività trasferite alle società beneficiarie. In questo caso la società scissa, dopo la scissione continuerà la propria attività, ad esclusione del ramo di azienda che è stato scisso e trasferito alla/e società beneficiaria/e. Le azioni o quote della nuo-va società beneficiaria vengono attribuite ai soci di scissa.

Nell’ambito delle suddette forme, totale o parziale, la scissione può esse-re definita:

• in senso stretto, quando la società si scinde e da essa nascono società di nuova costituzione;

• per incorporazione, nel caso in cui una o più società preesistenti sono be-neficiarie della scissione di un’altra società.

I criteri di ripartizione delle quote o delle azioni emesse dalle società be-neficiarie sono due.

• il criterio proporzionale, dove le quote o le azioni delle società beneficia-rie vengono assegnate ai soci della scissa in base alle percentuali di parte-cipazione di questi ultimi al capitale sociale della scissa.

• il criterio non proporzionale, che prevede che le quote o le azioni delle so-

5 L’operazione di scissione è completamente differente dal conferimento di azienda o di un ramo di questa. In entrambi i casi si assiste al trasferimento di una parte o dell’intero del patrimonio. Nel caso di conferimento una società, detta conferente, trasferisce l’intero patri-monio o parte dello stesso a favore di un’altra società, detta conferitaria, ricevendone in con-tropartita azioni o quote della medesima. Quindi nel caso di conferimento le azioni o quote della società conferitaria finiscono nel patrimonio della società conferitaria e vengono iscrit-te in bilancio nell’attivo patrimoniale. Nel caso della scissione di azienda le azioni o quote della/e beneficiarie vengono assegnate ai soci della società scissa.

276 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

cietà beneficiarie vengono assegnate senza tener conto delle originarie percentuali di partecipazione, ma in modo da attribuire ai soci della scissa partecipazioni il cui valore complessivo, considerati anche i conguagli, sia equivalente al valore della partecipazione precedentemente detenuta (D.Lgs. n. 358/1997). La scissione, analogamente alla fusione, si snoda in alcuni elementi es-

senziali: il progetto di scissione; la gestione patrimoniale, la relazione am-ministratori (se obbligatoria), la relazione degli esperti sul rapporto di cam-bio (se obbligatoria); il deposito documenti la delibera di scissione; l’atto di scissione.

Il progetto di scissione deve contenere tutte le indicazioni previste per il progetto di fusione (§ 2.2) e inoltre contenere: l’esatta indicazione degli elementi patrimoniali – attivi e passivi – da trasferire a ciascuna delle società beneficiarie e i criteri di distribuzione (art. 2506-bis c. 1 c.c.). L’analiticità e la completezza di detto inventario è funzionale alla valutazione e alla limita-zione della possibilità di contestazioni in merito alla destinazione degli ele-menti patrimoniali che vengono trasferiti.

Se la destinazione di un elemento dell’attivo non è desumibile dal proget-to, esso, nell’ipotesi di assegnazione dell’intero patrimonio della società scissa, è ripartito tra le società beneficiarie in proporzione della quota del pa-trimonio netto assegnato a ciascuna di esse, così come valutato ai fini della determinazione del rapporto di cambio; se l’assegnazione del patrimonio della società è solo parziale, tale elemento rimane in capo alla società trasfe-rente.

Ai sensi dell’articolo 2506-bis comma 3 c.c. si rileva che per gli elementi del passivo della scissa la cui destinazione non è desumibile dal progetto, ri-spondono in solido le società beneficiarie (nel caso di scissione totale), ov-vero la società scissa e le società beneficiarie (nel caso di scissione parziale). In ogni caso la responsabilità solidale è limitata al valore effettivo del patri-monio netto attribuito a ciascuna società beneficiaria, ovvero rimasto in capo alla scissa nell’ipotesi di scissione parziale.

L’elemento fondamentale del progetto di scissione è rappresentato dalla modalità assegnazione azioni o quote delle società beneficiarie ai soci della scissa. Ai soci occorre fornire chiara e precisa informativa in ordine alla proporzionalità o alla non proporzionalità con cui verranno loro assegnate le azioni o le quote della/e società beneficiaria/e.

L’art. 2506-bis al comma 5 c.c., introduce un ulteriore elemento di salva-guardia degli interessi dei soci dissenzienti in caso di scissione non propor-zionale, prevedendo che «… qualora il progetto preveda una attribuzione delle partecipazioni ai soci non proporzionale alla loro quota di partecipa-

277 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

zione originaria, il progetto medesimo deve prevedere il diritto dei soci che non approvino la scissione di far acquistare le proprie partecipazioni per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso, indi-cando coloro a cui carico è posto l’obbligo di acquisto …».

Il legislatore inoltre prevede la possibilità della post-datazione e della re-tro-datazione per quanto concerne gli effetti contabili e di partecipazione agli utili dell’operazione. Peraltro:

– la post-datazione non può avvenire se la scissione comporta la costituzione di nuove società;

– la retro-datazione ai fini della partecipazione agli utili non è applicabile alle società di nuova costituzione.

• La relazione patrimoniale. Anche per la scissione è prescritta, ai sensi dell’art. 2506-ter comma 1 c.c., la redazione delle situazioni patrimoniali delle società partecipanti alla scissione.

• La relazione degli amministratori. La relazione deve: illustrare i criteri di distribuzione delle azioni o quote; indicare il valore effettivo del patrimo-nio netto trasferito e di quello che eventualmente rimane nella società scis-sa (nell’ipotesi di scissione parziale).

• La relazione degli esperti sul rapporto di cambio. La relazione degli esper-ti è regolata dall’art. 2501-sexies c.c. Si precisa che la stessa non è richie-sta nel caso di scissione con costituzione di nuove società ed in cui non siano previsti criteri di attribuzione delle azioni o quote diversi da quello proporzionale. Si rinvia a quanto specificato in tema di fusione.

• Il deposito documenti. Gli amministratori devono depositare presso sede sociale delle società partecipanti alla scissione durante i 30 giorni prece-denti la decisione i seguenti documenti: progetto di scissione; relazioni de-gli organi amministrativi; relazioni degli esperti; bilanci degli ultimi tre esercizi (completi di relazioni degli organi amministrativi e di controllo e di eventuali relazioni di certificazione); situazioni patrimoniali delle socie-tà. Tale termine rinunciabile con il consenso unanime dei soci.

• La delibera di scissione. La decisione, ai sensi del combinato disposto de-gli artt. 2502 e 2506 ter c.c., deve essere decisa/deliberata da ciascuna del-le società che vi partecipano mediante l’approvazione del relativo progetto (oggetto unico della delibera) e deve contenere l’atto costitutivo della so-cietà da costituire e le modificazioni degli statuti delle società preesistenti. La decisione di scissione deve essere depositata per l’iscrizione nel regi-stro delle imprese unitamente: al progetto di scissione; alle relazioni degli organi amministrativi; alle relazioni degli esperti; ai bilanci degli ultimi tre esercizi (completi di relazioni degli organi amministrativi e di controllo ed

278 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

eventuali relazioni di certificazione); alle situazioni patrimoniali delle so-cietà.

• L’atto di scissione. Il momento conclusivo della complessa operazione è costituito dalla stipulazione dell’atto di scissione. Secondo la dottrina pre-valente, ha anch’esso di natura contrattuale, anche se il suo contenuto è in-teramente predeterminato nelle delibere/decisioni delle varie società che partecipano alla scissione e la sua funzione è essenzialmente esecutiva.

Quanto alla forma, la scissione deve risultare da atto pubblico da deposi-tare entro trenta giorni per l’iscrizione, a cura del notaio o dei soggetti cui compete l’amministrazione della società risultante dalla scissione o di quella scissa, presso l’ufficio del registro delle imprese del luogo ove è posta la se-de di ciascuna delle società partecipanti, secondo la procedura prevista per l’atto di fusione (art. 2504 c.c.).

La scissione ha effetto dal momento in cui è eseguita l’ultima delle iscri-zioni dell’atto di scissione nell’ufficio del registro delle imprese in cui sono iscritte le società beneficiarie. Può essere stabilita una data successiva, tran-ne nel caso di scissione mediante costituzione di società nuova, ove occorre che sia garantita la formazione del capitale sociale fin dal momento della co-stituzione della società beneficiaria del trasferimento.

Resta ferma la possibilità di stabilire, in caso di scissione per incorpora-zione, limitatamente ad alcuni aspetti, una retroattività di tipo convenzionale o contabile. Per gli effetti a cui si riferisce l’art. 2501-ter n. 5-6 c.c., si pos-sono stabilire date anche anteriori. Si tratta segnatamente dei punti del pro-getto di scissione riguardanti la data:

• dalla quale le azioni o quote assegnate partecipano agli utili; • a decorrere dalla quale le operazioni delle società partecipanti sono imputa-

te al bilancio della società incorporante.

Per quanto riguarda gli altri aspetti della scissione, quali determinazione del rapporto di con cambio, avanzo e disavanzo di scissione, ecc. si rinvia a quanto riferito per la fusione.

In conclusione appare importante rappresentare che nell’operazione di scissione, rispetto all’operazione di fusione, gli principali aspetti di differen-ziazione sono i seguenti:

• i criteri di assegnazione delle attività e delle passività che devono essere indicato nel progetto di scissione, come visto, non sono previsti del proget-to di scissione (art. 2506-bis comma 2 c.c.);

• la specifica responsabilità patrimoniale della scissa e delle beneficiarie (art. 2506-bis comma 3 c.c.);

279 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

• il diritto dei soci che non approvano la scissione non proporzionale a fare acquistare le proprie quote o azioni.

Nella teoria di management è ormai consolidato che la scissione consente all’imprenditore di ottimizzare la struttura dell’impresa e rappresenta un ag-giustamento del portafoglio di business e di attività attraverso un disinvesti-mento di una parte delle stessa.

Le ragioni di natura strategica che conducono alla scissione di azienda o di un ramo della stessa in favore di più società sono molteplici:

• il frazionamento di realtà aziendali finalizzato a sviluppi produttivi specia-listici;

• la riorganizzazione dell’attività svolta con abbandono dei settori scarsa-mente compatibili con quello principale o scarsamente remunerativi;

• la ristrutturazione aziendale alla ricerca di una maggiore efficienza interna delle risorse e/o competenze (riallocazione);

• la soluzione a situazioni conflittuali tra i soci; • il perseguimento di vantaggi fiscali; • la soluzione immediata a problemi finanziari o reddituali.

La scissione non deve essere considerata come una sconfitta o fallimento del manager ma deve essere vista come una strategia di crescita di impresa. In tale direzione si devono considerare i casi di disinvestimento che consen-tono l’ottenimento di una superiorità di ottimizzazione dello sviluppo delle opzioni e/o di sviluppo dell’innovazione (Peruffo, 2003).

Nella pratica il disinvestimento cessa di essere considerato come un evento stand-alone e definitivo: spesso l’impresa (madre) mantiene legami con l’unità disinvestita, beneficiando delle performance innovative prodotta da quest’ultima e in alcune circostanze riacquistando la stessa a seguito dell’evoluzione del contesto competitivo (Moschieri e Mair 2011).

3. I problemi strategici del trasferimento di azienda o di rami di azienda a titolo definitivo

La cessione, fusione e scissione di azienda o di un ramo della stessa sono operazioni straordinarie che possono favorire la continuità, la crescita ester-na e/o la specializzazione dell’impresa con conseguenti benefici che possono essere misurati anche da una stabile redditività nel tempo dell’istituto eco-nomico.

I possibili vantaggi competitivi che si generano nel trasferimento azien-

280 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

dale (o di una parte della stessa) a titolo definitivo non sempre sono conse-guiti o almeno non con l’intensità voluta. Gli interrogativi derivano da alcu-ne considerazioni: la continuità con un nuovo soggetto è sempre generata? L’aumento dimensionale, la riorganizzazione o la ristrutturazione organizza-tiva consente un miglioramento del vantaggio competitivo conseguito? La specializzazione permette di ottenere un incremento delle economie di espe-rienza? e la lista potrebbe continuare all’infinito …

La spiegazione può essere rintracciata – almeno secondo l’approccio del-la resource based view (tra gli altri Barney et al. 2011, Büchi 2013) – nella presenza in impresa delle risorse intangibili e di quegli elementi di intangibi-lità delle risorse umane – conoscenza e competenza –. Le risorse intangibili si manifestano in due aree fondamentali della gestione di impresa:

• nel mercato, ne sono esempi l’immagine, l’identità percepita, la reputazio-ne, la fedeltà e fiducia dei clienti e le relazioni consolidate degli stessi;

• nel sistema impresa, costituiscono casi, l’attitudine all’innovazione, l’ac-cesso alle informazioni, le relazioni con gli stakeholder esterni, il radica-mento, la coesione e la capacità delle risorse umane, la spinta imprendito-riale.

L’insieme delle risorse intangibili che direttamente o indirettamente spie-gano un valore superiore al capitale finanziario 6 viene definito con il termi-ne capitale intellettuale del sistema impresa. Al suo interno diversi sono modelli offerti dagli studiosi di economia e gestione delle imprese per di-stinguere le forme varie forme di capitale intellettuale:

• capitale umano, realizzato dalle competenze e conoscenze detenuto dai soggetti che lavorano nell’impresa;

• capitale strutturale, caratterizzato dal sistema organizzativo (struttura, pro-cessi, valori, relazioni interne);

• capitale organizzativo, composto dalla capacità innovativa dell’attività economica;

• capitale sociale, contraddistinto dalle relazioni esterne dell’impresa; • capitale relazionale, prodotto dalle relazioni con i clienti 7.

I vari studiosi sono concordi nel definire che il termine ‘capitale’ viene deliberatamente utilizzato per evidenziare che le relazioni interne e/o esterne

6 Il management assegna alla locuzione capitale finanziario il significato che l’economia aziendale attribuisce al capitale netto.

7 La letteratura è particolarmente numerosa. Per un’analisi che non vuole essere esaustiva si rimanda ai lavori di Costabile 2001 e Cugno 2010.

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all’impresa possono essere investite (così come le altre forme di capitale) per produrre flussi economici e finanziari, e – se correttamente gestite – pos-sono dar luogo a fenomeni di accumulazione, per quantità (numero di rela-zioni) e qualità (stato) misurate in termini di fiducia e fedeltà – delle stesse.

Un processo che si realizza tramite una progressiva sedimentazione, os-sia che si alimenta e si rafforza con l’utilizzo, si pensi a esempio allo svilup-po delle relazioni con i clienti; ma che al contempo è facilmente deperibile, i cambiamenti possono infatti rendere obsolete le risorse intangibili, è questo il caso dei brevetti superati dalle condizioni tecnologiche o dal venir meno di uno sviluppo della relazioni (es. mancata comunicazione del marchio). Il capitale intellettuale è infine caratterizzato dalla mancanza del mercato di capitali, ossia è difficilmente trasferibile a terzi. A esempio nel momento nel quale un’impresa decide di compiere un’operazione straordinaria il portafo-glio clienti può decidere di non seguire il nuovo imprenditore e/o il nuovo istituto economico realizzato. In alcuni settori – in particolare nel comparto bancario e assicurativo – la cessione della base cliente è normata e prevede un consenso; in altri settori – la maggior parte – gli acquirenti possono deci-dere di non acquistare i prodotti.

Da un punto di vista di management, la cessione, la fusione e la scissione costituiscono operazioni di trasferimento i cui effetti sono particolarmente impegnative da un punto di vista strategico che, se non correttamente gestite – ossia attraverso un opportuna pianificazione – possono portate al declino dell’impresa o delle sue gemmazioni.

Bibliografia di riferimento

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Cugno M. (2010), Creazione di valore e cliente. Strumenti quantitativi a supporto delle scelte strategiche, Isedi, Torino.

Cugno M., Tardivo G. (2012), Il sistema family business. Un patrimonio da valorizzare, FrancoAngeli, Milano.

Cugno M. (2013), Gli strumenti quantitativi a supporto dello sviluppo della customer va-lue, in Tardivo G., Quagli G. (a cura di), La creazione di valore – Creazione di valore per l’impresa, pp. 131-147, FrancoAngeli, Milano.

282 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

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Di Giuseppe B. (2009), Fusioni & scissioni. Profili strategici e economici, Giuffrè, Milano.

Fontana F., Caroli M. (2017), Economia e gestione delle imprese, McGraw-Hill, Milano.

Moschieri C., Mair J. (2011), Adapting for innovation: including divestitures in the de-bate, Long Range Planning, 44, pp. 4-25.

Peruffo E., Perri A., Gentili S. (2013), Verso una “cultura” del disinvestimento: efficien-za, superiorità e conformità, Convegno Aidea.

Roos G. (2017), The Strategic Management of Intellectual Capital, Taylor & Francis Ltd, London.

Perrini F. (2016), Management. Economia e gestione delle imprese, Egea, Milano.

Sciarelli S. (2017), La gestione dell’impresa. Tra teoria e pratica aziendale, Cedam, Mi-lano.

283 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Gli aspetti Contabili del Trasferimento d’Azienda: principi contabili nazionali e internazionali Maria Chiara Vietti

Un’azienda ai sensi dell’art. 2555 c.c. viene definita come un complesso di beni organizzato per l’esercizio dell’attività d’impresa. L’imprenditore potrebbe così decidere di trasferire in parte o integralmente il complesso di beni aziendali organizzati.

Esistono vari tipi di trasferimenti d’azienda realizzabili dall’imprenditore:

• La cessione d’azienda. • Il conferimento d’azienda. • La fusione. • La scissione.

È anche possibile effettuare un trasferimento temporaneo dell’azienda realizzabile attraverso l’affitto d’azienda.

SOMMARIO

1. La Cessione d’Azienda. – 2. Il Conferimento d’Azienda. – 3. La Fusione. – 4. La Scissio-ne. – 5. Operazioni di MLBO. – 6. IFRS 3 Business Combination.

1. La Cessione d’Azienda

La cessione d’azienda è un’operazione che non viene regolata all’interno del codice civile e rimane per lo più legata alla libera contrattazione delle parti.

Solitamente le parti nominano esperti effettuando delle vere e proprie due diligence e utilizzando metodi talvolta diversi per il calcolo dell’Enterprise Value.

Il calcolo dell’EV può essere effettuato ad esempio:

 284 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

• con il metodo del DCF (discounted cash flow) attraverso cui verranno at-tualizzati i flussi di cassa futuri per la determinazione del valore della so-cietà tenendo in considerazione il suo terminal value (TV);

• con il metodo dei multipli tra cui quello più utilizzato è EV/EBITDA che permette di individuare il valore dell’azienda effettuando dei confronti di transazioni simili all’interno del mercato avvenute precedentemente. Ad esempio, si individua una società simile per dimensione, natura e attività svolta all’interno del mercato e che nell’esercizio precedente abbia realiz-zato una transazione di vendita d’azienda. Si verifica l’EBITDA dell’a-zienda individuata e si utilizza quale indicatore un multiplo dell’Ebitda (quale il prezzo di cessione è stato di 5 volte l’EBITDA) per determinare il valore di cessione della società ad oggetto.

Nel grafico seguente viene sintetizzata l’operazione di cessione d’azienda dove la società cedente cede le proprie attività e passività alla società ces-sionaria in cambio di denaro o liquidità.

Nella contabilità del Cedente i beni sono iscritti al costo storico. La dif-ferenza tra il Prezzo di Vendita e il Costo Storico determina la Plusvalen-za/Minusvalenza.

Nella contabilità del Cessionario i beni vengono iscritti in base al costo di acquisto dei medesimi.

Se il costo di acquisizione è superiore al valore dei beni, la differenza per l’acquirente, va allocata in primis ai beni dell’attivo oppure al passivo se ca-pienti. In alternativa, solo nel caso in cui non sia allocabile a specifici asset e

 285 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

qualora ne sussistano i presupposti tale differenza potrà essere iscritta nella voce Avviamento. L’avviamento sarà così pari alla differenza tra il prezzo di cessione stabilito e il costo di acquisto dei beni.

Ovviamente, affinché tale eccedenza possa essere considerata avviamen-to, è necessario verificare la capacità di produrre benefici economici futuri dell’azienda acquistata (art. 2426 c.c.).

Il Tribunale di Catanzaro il 15 marzo del 2015 ha identificato la cessione d’azienda in una cessione universitas rerum comprendente cose corporali (mobili e immobili) ma anche avviamento, crediti, debiti: elementi tutti uni-ficati in vista della loro destinazione al comune fine della perseguita attività commerciale.

Con l’azienda infatti non vengono a trasferirsi solo i beni da una società all’altra ma anche i crediti e i debiti.

La cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi dal momento dell’iscrizione del Trasferimento nel Registro delle Imprese, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante.

La cessione dei debiti è disciplinata dall’art. 2260 c.c. «l’alienante non è liberato dai debiti, inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al tra-sferimento, se non risulta che i creditori vi hanno consentito. È mantenuto fermo il principio per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore». (Campobasso, 2015). L’articolo prosegue indicando che nel trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti suddetti anche l’acquirente dell’azienda se essi risultano dai libri contabili obbligato-ri. Con riferimento alla cessione dei debiti si ha quindi un responsabilità so-lidale dell’alienante insieme con l’acquirente. Inoltre, a tutela del soggetto ceduto si è espressa la Cassazione il 12 marzo 2013 con la sentenza n. 6107 «qualora la cessione sia avvenuta nel corso di un processo al cui esito sia stata pronunciata una sentenza poi azionata in via esecutiva, è opponibile al cessionario il titolo conseguito dal ceduto nei confronti del cedente relativo ad un rapporto contrattuale d’impresa non del tutto esaurito».

2. Il Conferimento d’Azienda

Con conferimento d’azienda si intende la cessione di un complesso orga-nizzato di beni in cambio di azioni della società conferitaria che dovrà au-mentare il suo capitale sociale.

La società conferente si iscriverà una partecipazione nella conferitaria come contropartita dell’operazione di conferimento. Nell’immagine sotto-

 286 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

stante viene rappresentata graficamente l’operazione di conferimento.

Esistono due modelli contabili alternativi di conferimento:

1) Il modello a saldi chiusi: si verifica una discontinuità fiscale e contabile. La conferitaria scrive i beni al valore corrente. Il relativo ammortamento riparte e si perde la stratificazione storica.

2) Il modello a saldi aperti: si verifica una continuità fiscale e contabile. La conferitaria iscrive i beni al costo della conferente e riapre i fondi rettifica-tivi così come erano nella conferente.

Il codice civile disciplina la necessità di richiedere una perizia di un esperto nominato dal Tribunale che attesti che il valore dei beni conferiti sia almeno pari a quello del capitale sociale ad essi attribuito e dell’eventuale sovrapprezzo. L’incarico è ad personam e «ciò preclude all’esperto designa-to di nominare, a sua volta, un altro professionista per l’utile svolgimento dell’incarico.» Trib. Trento 28 gennaio 2003, n. 1227.

Gli amministratori devono entro il termine di 180 controllare le valuta-zioni contenute nella relazione e se sussistono fondati motivi devono proce-dere alla revisione della stima. (art. 2343, comma 3, c.c.). Se risulta che il valore dei beni conferiti è inferiore di oltre un quinto quello per cui avviene il conferimento, la società deve ridurre proporzionalmente il capitale sociale annullando le azioni scoperte.

Nel caso in cui, invece, il valore dei beni conferiti sia superiore a quello di aumento del capitale sociale, l’OIC 28 indica che non è possibile aumen-tare il valore del conferimento.

 287 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

3. La Fusione

Esistono due tipologie di Fusione:

1) La fusione per unione o pura, nella quale le società partecipanti all’ope-razione si estinguono e danno origine ad una nuova entità giuridica. In tale operazione i soci della società partecipante a fronte dell’annullamento delle azioni o quote di partecipazione nelle stesse, ottengono azioni o quote della nuova entità sulla base del rapporto di cambio tra le nuove e le vecchie azioni;

2) La fusione per incorporazione, nella quale viene ad estinguersi la sola società incorporata mentre l’incorporante effettua un aumento di capitale sociale con attribuzione ai soci della società incorporata delle relative azio-ni o quote, sulla base del rapporto di cambio tra le nuove azioni e quote e-messe e quelle dell’incorporante che vengono annullate.

Si propone di seguito un esempio di una Fusione per Incorporazione: Ipotesi:

1) il capitale di Delta è formato da 420 mila azioni del VN di1 Euro; 2) il Capitale Sociale di Beta è formato da n. 800 mila azioni del VN di 1 euro; 3) la società Beta SpA detiene il 30% delle azioni di Delta SpA.

La partecipazione è iscritta nel bilancio della società Beta SpA per un va-lore di euro 700.00.

La situazione contabile dell’incorporata è la seguente:

ATTIVO 31/12/2016 PASSIVO 31/12/2016

Imm Immateriali 0 Capitale Sociale 420.000

Imm. Materiali 2.545.400 Riserva Sovrapprezzo Azioni

Imm. Finanziarie Riserve di Rivalutazione 600.000

Totale Immobilizzazioni 2.545.400 Riserva Legale 84.000

Altre riserve 1.100.000

Rimanenze 240.000 Utile (perdita) d'esercizio (226.378)

Totale Patrimonio Netto 1.977.622

Crediti 1.546.837

Totale Crediti 1.546.837 Fondo per Rischi ed Oneri 80.139

Disponibilità Liquide 459.500 Trattamento di fine rapporto 350.000

Debiti 2.098.976

Totale Attivo Circolante 2.246.337 Totale Debiti 2.098.976

Ratei e Risconti Attivi Ratei e Risconti Passivi 285.000

TOTALE ATTIVO 4.791.737 TOTALE PASSIVO 4.791.737

Incorporata Delta

 288 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

La situazione contabile dell’incorporante è la seguente:

ATTIVO 31/12/2016 PASSIVO 31/12/2016

Imm Immateriali 0 Capitale Sociale 1.000.000

Imm. Materiali 4.000.000 Riserva Sovrapprezzo Azioni

Imm. Finanziarie 700.000 Riserve di Rivalutazione 200.000

Totale Immobilizzazioni 4.700.000 Riserva Legale 200.000

Altre riserve 500.000

Rimanenze 700.000 Utile (perdita) d'esercizio 1.500.000

Totale Patrimonio Netto 3.400.000

Crediti 2.000.000

Totale Crediti 2.000.000 Fondo per Rischi ed Oneri 200.000

Disponibilità Liquide 500.000 Trattamento di fine rapporto 400.000

Debiti 3.500.000

Totale Attivo Circolante 3.200.000 Totale Debiti 3.500.000

Ratei e Risconti Attivi Ratei e Risconti Passivi 400.000

TOTALE ATTIVO 7.900.000 TOTALE PASSIVO 7.900.000

Incorporante Beta ante fusione

 289

D

irit

to e

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con

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resa

F

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2| 2

017

DIFFEREN

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Valore co

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 della partecip

azione

 in Delta Sp

A700.000,00

         

Patrimon

io netto Delta Sp

a (voce A dello Stato Patrimon

iale)

1.977.622,00

      

Quota p

ossedu

ta da B

eta S

pa30%

Frazione

 di P.N. di D

elta co

rrispon

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)593.287,00

         

Diffe

renza

106.713,00

         

Costo parte

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 in Delta

>Qu

ota P

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‐‐‐>

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VANZ

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TO 

700.000

                                     

593.287

               

106.713

         

 290

D

irit

to e

d e

con

om

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ell’i

mp

resa

F

asci

colo

2| 2

017

DIFFERENZA DA CONCAMBIO

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LOR

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I R

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pa1.900.000,00

 P

N c

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del

la B

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Spa

3.400.000,00

 V

alor

e re

ale

soci

età

Del

ta S

pA2.100.000,00

 V

alor

e re

ale

soci

età

Bet

a S

pA3.400.000,00

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umer

o az

ioni

Del

ta S

pA420.000,00

     

Num

ero

azio

ni B

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SpA

1.360.000,00

 V

alor

e re

ale

azio

ni D

elta

SpA

5,00

                  

Val

ore

real

e az

ioni

Bet

a S

pA2,50

                 

DETERMINAZIONE DEL RAPPORTO DI CAMBIO 

Valore reale azioni Delta SpA

5,00

                  

Rapporto di concambio =

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐ =

‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐‐

2,00

Valore reale azioni Beta SpA

2,50

                  

DE

TE

RM

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DE

LL

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/12/

2013

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Cap

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soc

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420.000

Cap

itale

soc

iale

1.000.000

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di r

ival

utaz

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600.000

Ris

erva

di R

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utaz

ione

200.000

Ris

erva

lega

le84.000

Ris

erva

lega

le200.000

Ris

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400.000

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ia700.000

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o1.500.000

Util

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ta)

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eser

cizi

o‐226.378

Tota

le P

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to3.400.000,00

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Pat

rimon

io n

etto

1.977.622,00

 

Numero delle azioni di Delta da concambiare =

420.000 * 70% =

294.000,00

     

Aumento del C.S. di Beta S.p.A = 2 * 294.000 =

588.000,00

         

Aumento del C.S. di Beta SpA

588.000,00

         

Frazione di P.N. di terzi (70% di 1.977.622,00)

1.384.335,00

      

Differenza

796.335,00

‐         

Aumento C.S. di Beta 

<Quota PN di terzi in Delta (70%)

‐‐‐‐‐‐>

AVANZO DA CONCAMBIO 

588.000

                                     

1.384.335

       

796.335

  

 291 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

La destinazione delle differenze di fusione è la seguente.

Il Disavanzo di Fusione ai sensi dell’art. 2504-bis c.c.: «deve essere im-putato, ove possibile, agli elementi dell’attivo e del passivo delle società par-tecipanti alla fusione e per la differenza, nel rispetto delle condizioni dell’art. 2426 n. 6, ad avviamento».

L’Avanzo di Fusione ai sensi dell’art. 2504-bis, comma 4, c.c.: «è iscritto ad apposita voce del P.Netto, ovvero, quando sia dovuto a previsione di ri-sultati economici sfavorevoli, in una voce per fondi per rischi e oneri».  

 

 292

D

irit

to e

d e

con

om

ia d

ell’i

mp

resa

F

asci

colo

2| 2

017

‐ Attribuzione del disavanzo da annullamento agli elementi dell'attivo

Il Disavanzo di fusione è attribuibile interamente ai fabbricati, il cui valore corrente (€ 1.200.000) è superiore 

al valore netto contabile (1.120.000 ‐ 83.600 = 1.036.400 €).

Poiché tale maggior valore non è rilevante ai fini fiscali, l'ammortamento che sarà calcolato sullo stesso risulta 

non fiscalm

ente deducibile.

Occorre, pertanto, rilevare la fiscalità differita e imputare ai fabbricati il maggior valore risultante dal disavanzo di fusione 

al lordo delle imposte differite.

Dal momento che le imposte differite sono calcolate nella misura del 31,4% (27,5% Ires e 3,9% Irap), il valore 

del fondo imposte differite risulta essere pari a :

106.713 * 0,314 / (1‐0,314) =

48.845,00

                                                                  

Il maggior valore da attribuire ai fabbricati è quindi pari a:

Disavanzo da fusione

106.713,00

                                                               

Fondo imposte differite

48.845,00

                                                                  

Maggior valore fabbricati

155.558,00

                                                               

Fabbricati

aDiversi

155.558,00

Disavanzo da annullamento

106.713,00

     

Fondo imposte differite

48.845,00

       

‐ Iscrizione dell'avanzo da concambio a riserva di patrimonio netto

L'avanzo di fusione è im

putato a Riserva di Patrimonio Netto

Avanzo da concambio

aRiserva avanzo di fusione

796.335,00

 293 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

La società incorporante in seguito alla Fusione avrà una situazione patri-moniale e finanziaria così come rappresentata nell’immagine seguente:

4. La Scissione

La scissione è un’operazione attraverso cui avviene una disaggregazione del patrimonio della società scissa in favore di una o più società beneficiarie in cambio dell’assegnazione delle quote ai soci della società scissa.

La scissione può avvenire in modo proporzionale o non proporzionale. Entrambe le due tipologie di scissione (totale o parziale) possono essere ef-fettuate secondo il criterio proporzionale ovvero, previo consenso unanime, non proporzionale a seconda che l’assegnazione delle quote delle società che acquisiscono il patrimonio della scissa rifletta ovvero non rifletta i rap-porti di partecipazione che i soci avevano in quest’ultima. Nella scissione proporzionale l’obiettivo è una diversa assegnazione di patrimoni a favore di soggetti giuridici nuovi o già esistenti; la scissione non proporzionale è in-

ATTIVO 31/12/2016 PASSIVO 31/12/2016

Imm Immateriali 0 Capitale Sociale 1.588.000

Imm. Materiali 6.700.958 Riserva Avanzo da Fusione 796.335

Imm. Finanziarie 0 Riserve di Rivalutazione 200.000

Totale Immobilizzazioni 6.700.958 Riserva Legale 200.000

Altre riserve 500.000

Rimanenze 940.000 Utile (perdita) d'esercizio 1.500.000

Totale Patrimonio Netto 4.784.335

Crediti 3.546.837

Totale Crediti 3.546.837 Fondo per Rischi ed Oneri 328.984

Disponibilità Liquide 959.500 Trattamento di fine rapporto 750.000

Debiti 5.598.976

Totale Attivo Circolante 5.446.337 Totale Debiti 5.598.976

Ratei e Risconti Attivi Ratei e Risconti Passivi 685.000

TOTALE ATTIVO 12.147.295 TOTALE PASSIVO 12.147.295

Incorporante Beta

 294 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

vece uno strumento di separazione della compagine sociale, finalizzato ad esempio a risolvere dissidi tra soci.

Qualora il Progetto di Scissione stabilisca un’attribuzione delle quote ai soci non proporzionale alle quote di partecipazione originarie, deve essere previsto il diritto dei soci dissenzienti di far acquistare le proprie partecipa-zioni per un corrispettivo determinato alla stregua dei criteri previsti per il recesso, indicando coloro a cui carico è posto l’obbligo di acquisto (art. 2506 bis, comma 4, c.c.).

L’immagine sottostante ripropone lo schema di una scissione con attribu-zione di attività e passività alle società beneficiarie in cambio dell’assegna-zione delle aziende ai soci della società scissa.

Anche con l’operazione di Scissione vengono a determinarsi delle diffe-

renze da fusione che possono essere di annullamento, qualora una o più so-cietà beneficiarie avessero una partecipazione nella società scissa oppure da concambio qualora fosse necessario concambiare ai soci della società scissa le azioni nella società beneficiaria e si ricontrasse una differenza tra i valori durante l’assegnazione. Si vedano le formule e l’esempio che seguono.

 295 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Differenza da Annullamento:

COSTO DELLA PARTECIPAZIONE < o > % P.NETTO SCISSO DELLA BEN.

Differenza da Concambio:

Incremento di Cap. Soc. Beneficiaria < o > % P.NETTO SCISSO DI TERZI

Incremento di Cap. Soc. Beneficiaria si determina così:

. 1 %

.

Di seguito si riporta un esempio:

Differenza da Annullamento: Es:

– Beta ha una partecipazione in A del 40% – Costo Partecipazione 500 – P. Netto Scisso 1.800

500 < 720 (avanzo da annullamento 220

Differenza da Concambio: Es:

– Cap Soc. Beneficiaria ante scissione 300 – Peso del Cap Soc della Beneficiaria sul totale 40%

3001 40%

300 200

200(60% 1.800) (avanzo da concambio di 880

 296 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

5. Operazioni di MLBO

Per operazioni di Merger Lavaraged byout – MLBO si intendono le ope-razioni di acquisizione con indebitamento.

Si riporta di seguito un’immagine tratta dalla Circolare n. 6 del 30 marzo 2016 dell’Agenzia delle Entrate dove si riporta sinteticamente la rappresen-tazione grafica di una tipica operazione di acquisizione con indebitamento.

Agenzia delle Entrate, Circolare n. 6 del 30.03.2016

L’operazione riguarda l’acquisizione in una società denominata bersaglio (target) posta in essere mediante la creazione di un’apposita società veicolo (special purpose vehicle-Newco) che viene finanziata in parte, anche minima con capitale proprio, e in parte mediante prestiti onerosi (debt). Viene utiliz-zato l’indebitamento come fonte di leva finanziaria che comporta l’emergere di benefici e rischi. L’art. 2501 bis c.c. prevede che «nel caso di fusione di società una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, quando per effetto della fusione il patrimonio di quest’ultima vie-ne a costituire garanzia generica a fronte di rimborso di detti debiti».

In sintesi tale operazione consiste «nell’acquisto della partecipazione tota-litaria o di controllo di una società di capitali mediante lo sfruttamento dell’effetto della leva finanziaria che prevede il ricorso a istituti di credito e/o società finanziarie specializzate per la concessione di prestiti che saranno ripagati con il cash flow della società acquisita e/o con la vendita di cespiti aziendali della società bersaglio» (Fava P., Fuschino P., Leveraged buy-out: orientamenti giurisprudenziali civili e penali, Piacenza, 2003, p.17).

Queste operazioni servono come strumento di riorganizzazione, per af-

 297 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

frontare discontinuità interna ed esterna, acquisire valore aziendale, una semplificazione organizzativa della struttura societaria che conduce a mi-gliori livelli di competitività, la prosecuzione da parte di nuovi imprenditori dell’attività dell’azienda che si trova in situazioni di dissesto finanziario, processi di ristrutturazione, passaggi generazionali e miglioramento delle posizioni debitorie.

Dopo il trasferimento delle partecipazioni in capo alla SPV, questa si uni-sce per incorporazione o fusione inversa con la target company (di seguito, il soggetto risultante è definito con la denominazione MergerCo) trasferen-do, attraverso l’operazione di riorganizzazione, sugli assets e sui flussi di cassa generati dall’attività della target l’onere di ripagare il debito (e relativi interessi) contratto dalla società veicolo per l’acquisizione (cd. tecniche di debt push down).

6. IFRS 3 Business Combination

I Principi Contabili Internazionali (IAS/IFRS) a differenza di quelli Na-zionali (OIC) non prevedono trattamenti separati per ciascuna delle opera-zioni precedentemente trattate. L’IFRS 3 definito Business Combination in-fatti racchiude tutte le operazioni di trasferimento al suo interno. Le opera-zioni di trasferimento d’azienda vengono quindi trattate alla stessa stregua all’interno di questo principio internazionale.

Si veda l’immagine che segue dove vengono classificate le singole ope-razioni nonché i loro effetti sul Bilancio separato e consolidato, la conse-guenza relativa all’emissione e così via.

OPERAZIONI DI BUSINESS COMBINATION

 298 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

In sintesi l’IFRS 3 classifica tutte le operazioni di cui si è trattato in pre-cedenza come operazioni di Business Combination riconducendole tutte all’ap-plicazione di un unico metodo definito Acquisition Method.

Si tratta di un’operazione in cui l’acquirer è la società che ottiene il con-trollo di altri business (acquiree). Non sono Business combination la costitu-zione di una Joint Venture o l’acquisizione di un’attività o di un gruppo che non costituiscano un’attività aziendale.

Gli step da seguire con l’acquisition method sono i seguenti:

1. Identificazione dell’acquirente perché è importante verificare se si tratta di acquisizione diretta o indiretta. Di solito chi emette le azioni è l’acqui-rente ma bisogna verificare. Se le azioni dei vecchi soci nell’acquirente sono inferiori a quelle nuove emesse e concambiate ai soci dell’incorpo-rata allora l’acquisizione è inversa.

2. La data di acquisizione è quella in cui l’acquirente acquisisce il controllo dell’acquisita. Non è possibile come in Italia una retrodatazione.

3. L’avviamento è determinato come la differenza tra A e B dove A è dato dalla sommatoria di 1) il corrispettivo dell’acquisizione 2) l’importo delle partecipazioni di minoranza nell’acquisita 3) il fv alla data di acquisizione delle interessenze precedentemente possedute nell’acquisita (in caso di un’aggregazione in più fasi).

B il valore netto degli importi, alla data di acquisizione, delle attività identificabili acquisite e delle passività assunte identificabili e valutate in conformità al presente IFRS.

In conclusione effettuando un semplice confronto tra le operazioni di tra-sferimento d’azienda, così come delineate dagli OIC e dagli IAS/IFRS, è

 299 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

possibile “toccare con mano” come vi sia ancora una grandissima diversità tra il trattamento previsto dai principi contabili nazionali rispetto ai principi contabili internazionali. Tale diversità di trattamento non è identificabile in una differenza specifica ma in un differente approccio metodologico frutto di differenti criteri e principi di valutazione.

300 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

I rapporti di lavoro nel trasferimento d’azienda Fiorella Lunardon

SOMMARIO

1. Specialità della disciplina del trasferimento d’azienda e assenza di rilievo del “consenso” del prestatore di lavoro. – 2. La controversa fattispecie del trasferimento di ramo d’azienda. – 3. La disciplina del rapporto di lavoro del lavoratore trasferito.

1. Specialità della disciplina del trasferimento d’azienda e assenza di rilievo del “consenso” del prestatore di lavoro

La disciplina del trasferimento d’azienda, nel diritto del lavoro, costitui-sce una disciplina speciale, vale a dire “in deroga” alla disciplina che secon-do il diritto comune trova applicazione nelle ipotesi di modificazione sog-gettiva di una delle parti del contratto.

Ai sensi dell’art. 2558, comma 1, c.c., «se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale». Ciò significa che sul piano civilistico venditore ed acquirente possono, con una manifestazio-ne di volontà ad hoc, escludere dal perimetro del trasferimento alcuni con-tratti 1. Qualora poi volesse operarsi il confronto con riferimento non alla di-sciplina “commercialistica” ma a quella “civilistica pura”, va ricordato che l’art. 1406 c.c., in tema di cessione del contratto, recita: “ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte

1 L’art. 2558, comma 2, cod. civ. stabilisce poi che “il terzo contraente può recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante”; mentre l’art. 2112 cod. civ. prevede che il lavo-ratore ha diritto di rassegnare le dimissioni nei tre mesi successivi al trasferimento, qualora quest’ultimo abbia determinato una sostanziale modifica delle sue condizioni di lavoro.

301 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

vi consenta”. Ben diversamente si atteggia la disciplina lavoristica. L’art. 2112 c.c. appronta una tutela finalizzata a rendere il rapporto di la-

voro insensibile rispetto alle vicende circolatorie dell’impresa prevedendo che in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua in modo automatico e inderogabile con il cessionario (principio di continuità) e il prestatore di lavoro conserva tutti i diritti maturati presso il cedente. A ga-ranzia di tali diritti è prevista la responsabilità solidale tra cedente e cessio-nario.

A fini del perfezionamento dell’operazione novativa (che si risolve nel mutamento soggettivo del creditore della prestazione), non è richiesto il con-senso del lavoratore trasferito 2. Come visto, tale peculiarità trova spiegazio-ne nella specialità della disposizione codicistica, che sotto questo profilo ri-sulta peraltro coerente con le disposizioni che negano rilievo alle manifesta-zioni di volontà del lavoratore subordinato (in quanto tale soggetto, alla pari del datore di lavoro, al principio dell’inderogabilità della normativa lavori-stica) 3. D’altro canto, lo stesso consenso appare tecnicamente inutile, a fron-te della garanzia di continuità del rapporto e del mantenimento dei diritti maturati.

2. La controversa fattispecie del trasferimento di ramo d’azienda

Configurandosi il consenso del lavoratore come elemento estraneo alla ratio dell’art. 2112 c.c. non stupisce che, per di più operando la norma a senso unico “garantistico”, la giurisprudenza abbia nel tempo elaborato una fattispecie quanto mai ampia del trasferimento d’azienda 4. L’attuale quinto

2 Cass. 9 aprile 2015, n. 7144; Cass. 17 marzo 2009, n. 6425; Cass. 27 settembre 2007, n. 20221; Trib. Milano 24 marzo 2015, in Leggi d’Italia, 2015.

3 Art. 2103, ultimo comma (nella formulazione antecedente l’art. 3 del d.lgs. n. 81 /2015): «ogni patto contrario è nullo»; art. 2113 cod. civ.: «le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del codice di pro-cedura civile, non sono valide».

4 La quale non soltanto predica l’indifferenza del mezzo tecnico (“tipologia negoziale”) utilizzato dalle parti per il trasferimento (Trib. Milano 10 febbraio 2015, in Leggi d’Italia, 2015), ma esclude anche la necessità di un rapporto contrattuale diretto tra cedente e cessio-nario (Cass. 8 luglio 2011, n. 15094) oltre che naturalmente, sulla falsariga della disposizio-ne di cui all’art. 2112, comma 5, c.c., quella di un fine di lucro (Cass. 27 febbraio 1998, n. 2220). Cfr. in proposito CARINCI-DE LUCA TAMAJO-TOSI e TREU, Il rapporto di lavoro su-bordinato, Utet, Torino, 2016, pp. 176-177; VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro. II.  

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comma dell’art. 2112, introdotto dal d.lgs. n. 276 del 2003 a giuridificazione di orientamenti ormai consolidati, recita «Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazio-ne che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica orga-nizzata, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato». Le operazioni estensive della fat-tispecie, fino ad un certo momento, sono quindi risultate coerenti con la fi-nalità protettiva classicamente attribuita alla fattispecie stessa.

La fattispecie del trasferimento è dunque molto ampia e comprende ces-sioni in senso lato, scissioni, fusioni, affitto, usufrutto, leasing, conferimen-to. Attualmente fa eccezione l’ipotesi del trasferimento del pacchetto aziona-rio perché la giurisprudenza non vi ravvisa un mutamento di titolarità dell’a-zienda, limitandosi tale trasferimento ad un mero mutamento degli assetti materiali ed economici dell’impresa 5.

La stessa nozione di “azienda” è stata progressivamente ampliata dal le-gislatore, al fine di estendere l’applicazione dell’art. 2112 c.c. 6.

Ad un certo punto, tuttavia, la disposizione civilistica parrebbe aver mutato natura. A seguito del profondo cambiamento che ha coinvolto la figura del dato-re di lavoro nel contesto del mercato globale e in risposta alle esigenze di effi-cienza e competitività che inducono sempre più l’impresa ad assecondare le ne-cessità economiche imperanti 7, l’art. 2112 c.c. è infatti divenuto (anche) stru-mento di decentramento e/o esternalizzazione di parti di azienda (c.d. ramo).

Il trasferimento di ramo d’azienda comporta di fatto l’uscita automatica dei lavoratori addetti al ramo ceduto il cui rapporto è destinato a continuare ope legis con il cessionario e dunque a prescindere, oltre che dal consenso, da eventuali procedure (e relativi costi) di riduzione del personale. Per que-

Il rapporto di lavoro, Kluwer-Cedam, Padova, 2017, pp. 419 ss., spec. 423 ed ivi i copiosi riferimenti giurisprudenziali.

5 Cfr. ad esempio Cass. 12 marzo 2013, n. 6131. 6 Secondo l’attuale formulazione l’azienda coincide con «un’attività economica organiz-

zata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferi-mento la propria identità» (art. 2112, comma 5, c.c.). Trattasi di una speciale definizione che “allenta ogni aggancio con la generale nozione di cui all’art. 2555 c.c. (nella quale l’azienda è un complesso di beni organizzati dall’imprenditore, con tutto il carico di materialità nor-malmente da questi ultimi evocato) e sposta l’accento sull’attività e sull’organizzazione (Corte di Giustizia UE 9 settembre 2015, C-160/14)”: cfr. CARINCI-DE LUCA TAMAJO-TOSI e

TREU, Il rapporto di lavoro subordinato, Utet, Torino, 2016, p. 177. 7 BARBERA, Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle re-

gole del diritto, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2010, p. 203; SPEZIALE, Il datore di lavoro nell’impresa integrata, ivi, 2010, p. 1 ss.

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sto motivo si è parlato di “eterogenesi dei fini” della norma che, nata per tu-telare i lavoratori, si sarebbe trasformata nello strumento che consente al da-tore di lavoro di liberarsi di parte del personale. Va a questo proposito ricor-dato che, salvo il caso in cui l’oggetto del trasferimento non consista effetti-vamente in un vero e proprio ramo d’azienda (ai sensi dell’art. 2112, secon-da parte del comma 5, c.c.), ai lavoratori che vogliono contestare il trasferi-mento resta solo la possibilità di azionare in casi limite il generale rimedio civilistico rispetto alla frode alla legge 8.

Non a caso (volendo considerare a parte le sollecitazioni esercitate dalla normativa europea) nel 1990 il legislatore è intervenuto ed ha previsto (con l’art. 47 della legge n. 428) che in ipotesi di trasferimento d’azienda il datore di lavoro non possa procedere unilateralmente, ma abbia l’obbligo di infor-mare i sindacati ed eventualmente aprire un tavolo di consultazione, entro 7 giorni dalla informazione, qualora il sindacato lo richieda. Il riconoscimento, da parte del legislatore, di un ruolo del sindacato nel contesto della discipli-na del trasferimento d’azienda suona a conferma di un cambiamento di tutto il sistema che gravita intorno all’art. 2112 c.c.

Né è un caso che proprio la norma che ha introdotto con l’articolo 47 queste procedure di informazione e consultazione sia la norma che si è an-che occupata del trasferimento dell’azienda in crisi, quasi a presentire ciò che poteva accadere.

Ed invero se l’art. 2112 c.c. fosse quella norma adamantina di tutela, co-me il giuslavorista classico è abituato a pensare, non si sarebbero poste que-stioni sul trasferimento del ramo d’azienda. Invece l’individuazione del ra-mo d’azienda divide tuttora la giurisprudenza nonostante qualche importante (ma a quanto pare inascoltato) “affondo” da parte della Corte di Giustizia 9. Il trasferimento del ramo d’azienda ha in altre parole aperto un “varco” nella disposizione codicistica che per qualcuno non può considerarsi colmato dal-la previsione introdotta dal legislatore del 1990, con la legge n. 428, che af-fida al sindacato il controllo delle ricadute del trasferimento sulle condizioni (future) dei lavoratori trasferiti 10.

8 L’impugnazione del trasferimento d’azienda (novazione soggettiva ex lege) è sottoposta al termine di decadenza stragiudiziale e giudiziale previsto per l’impugnazione del licenzia-mento, con decorrenza dalla data del trasferimento stesso (art. 32, comma 4, let. c) della leg-ge n. 183 del 2010).

9 Cfr. Corte di Giustizia UE 6 marzo 2014, causa C-458/12, in Giur. It., 2014, 1950, con nota di TOSI, La “preesistenza” del ramo d’azienda tra Corte di Giustizia U.E. e Corte di Cassazione: il re ora è nudo, p. 1952.

10 Si ricorda che un’ulteriore idea antagonista allo spirito originario dell’articolo 2112 è  

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Il d.lgs. n. 276 del 2003, per favorire la dinamicità del mercato e le tra-slazioni, ha cercato di alleggerire la fattispecie «il ramo deve essere inteso come articolazione funzionalmente autonoma, identificata come tale dal ce-dente e dal cessionario al momento del suo trasferimento». Proprio su que-sta definizione la giurisprudenza è andata costruendo autentiche “barriere”. I profili critici sono due: cosa sia l’autonomia funzionale e cosa sia e se debba esserci la preesistenza, dal punto di vista operativo, del c.d. ramo d’azienda.

L’autonomia funzionale del ramo d’azienda non coincide anzitutto con la materialità dello stesso, potendo consistere anche in una sezione dell’azien-da costituita in prevalenza da rapporti di lavoro organizzati in modo idoneo allo svolgimento di una particolare attività produttiva. L’elemento della ma-terialità, che è sempre stato considerato determinante per quanto riguarda la fattispecie del trasferimento d’azienda 11, nel ramo può presentarsi in forma ancora più attenuata, giacché sufficiente a realizzare il discrimine della “funzionalità” è la sussistenza di una interdipendenza di rapporti di lavoro organizzati in modo tale da essere nell’insieme capaci di giungere ad un ri-sultato produttivo autonomo (bene o servizio). L’autosufficienza del risulta-to produttivo prescinde insomma dalla materialità. Ed è la stessa interdipen-denza organizzativa a poter essere apprezzata di per sé in termini di autono-mia, consentendo l’individuazione di un sotto-sistema operativo che in quanto tale può essere isolato e staccato dal più generale complesso dell’impresa 12.

quella della disarticolazione delle diverse componenti che compongono l’azienda (forza la-voro, macchinari e attrezzature). In proposito è sufficiente leggere le sentenze della Corte di Giustizia che reputano necessario, ai fini del trasferimento (anche del ramo d’azienda), che vi sia una cessione dei beni e delle attrezzature nella loro materialità ovvero l’azienda o il ramo conservi un’identità anche dal punto di vista prettamente materiale.

11 Si vedano oggi in ogni caso i frequenti rilievi sulla c.d. “smaterializzazione” dei pro-cessi produttivi che consentirebbero di applicare l’art. 2112 cod. civ. anche alle traslazioni di un’attività realizzata solo mediante l’impiego di un insieme di lavoratori all’uopo organizza-ti, senza il supporto di un apparato strumentale, purché non si tratti di mera sommatoria di prestazioni lavorative individualmente operanti: sul punto, ancora, CARINCI-DE LUCA TA-

MAJO-TOSI e TREU, Il rapporto di lavoro subordinato, Utet, Torino, 2016, p. 178, e soprattut-to ivi i riferimenti alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (nota n. 32) e a parte della giu-risprudenza italiana (nota n. 33).

12 “Il connotato essenziale del ramo d’azienda sta nell’elemento dell’organizzazione, in-tesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo, inte-ragenti tra loro e capaci di tradursi in beni e servizi individuabili. Deve quindi trattarsi di una articolazione funzionalmente autonoma dotata di una certa oggettività, consistente nell’esi-stenza di uno scopo o di una funzione comuni, che unifichino e rendano omogeneo il com-plesso trasferito”: Trib. Milano 9 dicembre 2010 (est. Ravazzoni), in Lav. Giur., 2011, p. 326.

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L’autonomia funzionale, va sottolineato, è l’unico requisito previsto dalla Riforma del 2003. La “preesistenza” non è (più) richiesta: anzi, rispetto alla formulazione del 2001, la disposizione (art. 32, d.lgs. n. 276 del 2003, ora art. 2112, comma 5, secondo periodo, cod. civ.) stabilisce espressamente che il ramo può essere “identificato come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento” 13. La norma si riferisce dunque ad una si-tuazione di potenzialità produttiva “proiettiva” (e non retrospettiva), senza contenere alcun cenno all’“attualità” operativa. Tanto che il momento della “attualizzazione”, secondo la legge, ben può coincidere con la stessa “identi-ficazione” che dell’entità in questione fanno il cedente ed il cessionario “al momento del trasferimento”.

Ignorando lettera e ratio della disposizione normativa, buona parte della giurisprudenza richiede tuttavia (anche per i trasferimenti avvenuti dopo il 2003) che l’entità produttiva potenzialmente autonoma abbia già in prece-denza dato prova di funzionare e quindi di produrre. Altra parte, invero mi-noritaria, ritiene invece sufficiente ad integrare il “ramo” un sistema operati-vo autonomo, indipendente e potenzialmente produttivo, che può cominciare a produrre anche dopo essere stato trasferito. La richiamata sentenza della Corte di Giustizia del 2014 secondo cui è sufficiente la potenzialità 14 è stata seguita da altre secondo cui, al contrario, la preesistenza deve essere intesa come operatività in atto precedente al trasferimento 15. Sugli andamenti evo-lutivi della materia è impossibile fare previsioni, anche perché la casistica è

13 “In trasparente controtendenza rispetto alla scelta di politica del diritto del legislatore del 2001”, che mirava al rigido contenimento del fenomeno delle esternalizzazioni: così TO-

SI, La “preesistenza” del ramo d’azienda tra Corte di Giustizia U.E. e Corte di Cassazione: il re ora è nudo, cit., p. 1953. In precedenza il ramo era infatti definito “parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità” (art. 1 del d. lgs. 2 febbraio 2001, n. 18).

14 Cfr. la nota n. 9. 15 Ad esempio, Cass. 19 ottobre 2014, n. 21503 (Pres. Stile, Rel. Tricomi), in Riv. It. Dir.

Lav., 2015, II, p. 3: «per ramo d’azienda deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità. Il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti nel negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti e uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo d’azienda già costituito» conf. Cass. 27 maggio 2014, n. 11832 (Pres. Roselli, Rel. Buffa), ivi, p. 90; Cass. 9 maggio 2014, n. 10128 (Pres. Roselli, Rel. Tricomi), in Riv. Giur. Lav., 2014, p. 426.

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sterminata e in nome degli stessi principi i dati di fatto vengono interpretati diversamente. V’è ad esempio anche chi, pur sostenendo che basta la poten-zialità, richiede come prova della stessa la preesistenza operativa.

La conseguenza, nell’ipotesi in cui non si ravvisi il misterioso elemento della preesistenza, è quella di far “cadere” la fattispecie nell’ambito del dirit-to comune (che originariamente per il lavoratore era la meno favorevole), segnatamente (non tanto nell’ambito dell’art. 2558 c.c., quanto) dell’art. 1406 cod. civ., che richiede il consenso del contraente ceduto.

3. La disciplina del rapporto di lavoro del lavoratore trasferito

Dal punto di vista della disciplina applicabile al rapporto del lavoratore trasferito, è necessario distinguere tra piano legale e piano contrattuale col-lettivo.

Per quanto concerne la disciplina legale non si pongono problemi, perché assai difficilmente si profilano possibilità di una sua diversificazione quale conseguenza della modificazione del datore di lavoro. Possono invece esser-ci mutamenti di disciplina sul piano contrattuale collettivo, che in genere co-stituisce la parte più sostanziosa della regolamentazione (sistema di inqua-dramento, orari di lavoro, retribuzione, indennità). È dunque sul versante della disciplina contrattuale che si possono riscontrare le più forti differenze tra il trattamento precedente e quello successivo al trasferimento.

In proposito, il terzo comma dell’art. 2112 c.c. dispone che «il cessiona-rio è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri con-tratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario». Ciò significa che il lavoratore trasferito, una volta che si trovi a dipendere dal cessionario, potrà chiedere che gli vengano applicati i trattamenti contrattuali che gli venivano applicati in precedenza alla condizione che il cessionario già non applichi un altro contratto collettivo. Solo nell’ipotesi (assai rara) in cui il cessionario non applichi un contratto tale da poter sostituire il contratto collettivo del cedente, il lavoratore potrà pretendere di mantenere la precedente disciplina (e anche in questo caso) fino alla sua scadenza.

L’effetto di sostituzione automatica che questo terzo comma dell’articolo 2112 consacra, si realizza solo (limite introdotto nel 2001) tra contratti col-lettivi dello stesso livello. Il contratto nazionale sostituisce automaticamente quello nazionale, l’aziendale sostituisce l’aziendale. Può darsi che il cedente applichi solo un contratto aziendale (Fiat) e a questo punto il cessionario po-

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trebbe decidere di applicare il proprio contratto nazionale con tutti i proble-mi che ne derivano (applicare il nazionale del cessionario e l’aziendale del cedente). Per la complessità della questione e la delicatezza del mutamento di disciplina collettiva (che la norma consente sia immediato), v’è chi ritiene opportuno che le parti (cedente, cessionario e rappresentanze sindacali di en-trambi) stipulino un contratto di armonizzazione, verosimilmente all’esito della consultazione sindacale prevista dai primi commi dell’art. 47 della leg-ge n. 428 del 1990.

Con il contratto di armonizzazione, pacifico che i diritti acquisiti fino al momento del trasferimento restano intoccabili e che il lavoratore li può sem-pre far valere (ed anzi per essi è disposta la responsabilità solidale), le parti coinvolte nella vicenda circolatoria “razionalizzano” le ricadute del trasfe-rimento per quanto concerne il trattamento economico e normativo dei lavo-ratori, onde evitare incertezze gestionali e contenziosi defatiganti 16.

16 Non a caso la norma prevede che il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento, possa rassegnare le dimis-sioni che saranno considerate dimissioni per giusta causa, con obbligo di versamento del preavviso ai sensi dell’art. 2019 c.c.

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Il trasferimento d’azienda nell’impresa in crisi: questioni giuslavoristiche Savino Figurati

Nel mio intervento parlerò del trasferimento dell’azienda in crisi ed in particolare dei commi 4-bis e 5 dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990.

Il testo previgente del comma 5 dell’art. 47 diceva che: «Qualora il tra-sferimento riguardi aziende o unità produttive delle quali il CIPI abbia ac-certato lo stato di crisi aziendale o imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liqui-dazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata di-sposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acqui-rente non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile, salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante.».

Questa disciplina è stata oggetto di una sentenza della Corte di Giustizia che l’ha ritenuta in contrasto con la direttiva 2001/23, che è la direttiva base sui diritti dei lavoratori nei trasferimenti di azienda, e lo ha fatto per quanto riguarda la previsione della deroga in caso di trasferimenti riguardanti aziende o attività produttive in crisi ai sensi dell’accertamento del CIPI, a prescindere dai riferimenti normativi ed al rinvio a procedure che nel frat-tempo sono cambiate.

Secondo la Corte, infatti, la direttiva consente che si possa derogare alle garanzie previste per i lavoratori, solo quando si è aperta una procedura di in-solvenza che si trovi sotto il controllo dell’autorità pubblica competente, pos-sibilmente la magistratura. I requisiti non sussistono nell’ipotesi di crisi azien-dale, che non risponde a tale requisito, visto che il CPI è un organo politico.

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Il 25 settembre 2009 il legislatore italiano ha recepito la sentenza, dispo-nendo in primo luogo la soppressione del quinto comma con riferimento alle aziende e unità produttive in crisi secondo il CIPI, ovvero quelle sottoposte alla cassa integrazione straordinaria.

In realtà, con l’occasione, il testo viene profondamente modificato con la previsione di due distinte ipotesi, una nel comma 4-bis e una nel comma 5, diverse per presupposti e discipline.

Il comma 4-bis recita: «Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende: a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale; b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria in caso di continuazione o di man-cata cessazione dell’attività; b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo; b-ter) per le quali vi sia stata l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti».

A seguito c’è il comma 5, in forza del quale: «Qualora il trasferimento riguardi imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di falli-mento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministra-tiva ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavora-tori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applica-zione l’articolo 2112 del codice civile, salvo che dall’accordo risultino con-dizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo con-tinui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante.».

Quella di cui all’ultimo periodo è una dizione che già trovavamo nel vec-chio comma 5 ante sentenza della Corte, e che adesso troviamo nel comma 5 e non nel comma 4-bis.

Questo è il principale elemento di differenziazione tra le due discipline, solo una delle quali consente di escludere dal trasferimento parte dei lavora-tori occupati.

Invece l’espressione “accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione” la troviamo in entrambe le disposizioni. È un’espressione ambigua perché, essendo chiara la volontà del legislatore di differenziare le due discipline, prevedendo solo nelle ipotesi di cui al comma 5 la possibilità di limitare il passaggio presso l’acquirente solo ad alcuni dipendenti, allora

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ci si chiede cosa significhi la presenza di tale dizione anche nel 4-bis. Non resta che pensare che si riferisca alla possibilità di effettuare il trasferimento di uno o più rami d’azienda, salvaguardando in questo modo l’occupazione di ognuno di questi.

Se io ho un’azienda e riesco a cederne solo una parte, salvo comunque, per quanto solo in modo parziale, l’occupazione, perché ogni ramo ceduto passa con i tutti i suoi dipendenti. La formulazione sul mantenimento anche parziale dell’occupazione è presente in entrambi i commi perché risponde ad una esigenza che è il minimo comune denominatore delle due disposizioni.

Ci sono due cose in comune nei due commi: il mantenimento anche par-ziale dell’occupazione, nel senso che si diceva prima, e l’accordo sindacale, poiché in questa materia il consenso individuale è sostituito dal consenso collettivo rappresentato appunto dall’accordo sindacale.

Nel comma 4-bis è scritto che «l’articolo 2112 trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo», questo vuol dire che è possibile modificare la disciplina dell’art. 2112 agendo sull’anzianità, sui trattamenti retributivi e su ogni altro aspetto economico e normativo, ma non sulla conservazione dell’occupazione. Pertanto, i lavoratori addetti all’azien-da o al ramo passano, ma passano con modalità definite dall’accordo. È pos-sibile probabilmente anche procedere all’assunzione ex novo, anziché alla continuità del rapporto di lavoro prevista dall’art. 2112 c.c., purché riguardi tutti i lavoratori addetti all’azienda o al ramo d’azienda oggetto del trasferi-mento. Invece il comma 5 dice: «ai lavoratori il cui rapporto di lavoro con-tinua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codice ci-vile, salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore». Quindi nel primo caso detto articolo trova applicazione con le deroghe dell’accordo, qui non trova applicazione salvo le provvisioni dell’accordo. Non trovando applicazione l’art. 2112 il campo dell’operatività dell’accordo è praticamen-te quasi illimitato. L’unico limite è costituito dal mantenimento anche par-ziale dell’occupazione, oltre che dalle tutele derivanti dall’accordo sindacale.

Tre mesi prima della norma citato, è stata introdotta una norma nell’art. 63 della legge n. 270 del 1990 che dice “Nell’ambito delle consultazioni re-lative al trasferimento d’azienda previste dall’articolo 47 della legge 29 di-cembre 1990, n. 428, il commissario straordinario, l’acquirente e i rappre-sentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e ulteriori modifiche delle condi-zioni di lavoro consentite dalle norme vigenti in materia”. È curioso che il legislatore sia intervenuto, con discipline diverse sullo stesso istituto, due volte nell’arco di tre mesi.

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Vediamo alcuni esempi di applicazione giurisprudenziale dei principi so-pra esposti.

Il Tribunale di Padova, con sentenza del 27 marzo 2014, ha stabilito che «La deroga all’articolo 2112 c.c. consentita dal comma 4 bis lett b-bis) dell’art. 47 della legge 428 del 2009 può avere ad oggetto esclusivamente le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro (mansioni, qualifica, orario di lavoro eccetera), in quanto per incidere sui diritti assicurati dai commi 1 e 2 dell’articolo 2112 c.c. è necessario l’accordo stipulato con il singolo la-voratore.».

Il Tribunale di Alessandria, in un Decreto del 18 dicembre 2015, ha sta-tuito che «nel caso di concordato con continuità aziendale non è possibile stipulare un accordo sindacale ai sensi del comma 5 dell’articolo 47, che prevede l’applicazione in toto dell’articolo 2112 dei lavoratori il cui rap-porto continua con l’acquirente, in quanto tale norma è applicabile alle sole imprese per le quali vi sia stata l’omologazione del concordato preventivo e concessione dei beni. Come dire alle ipotesi del comma 5 e non a quelle del 4bis. Pertanto nell’ipotesi di un concordato con continuità aziendale è pos-sibile stipulare, con la consultazione sindacale, il solo accordo previsto dal comma 4 bis lettera b-bis, il quale però non può incidere né sulla continua-zione del rapporto di lavoro, né sulla solidarietà fra cedente e cessionario (commi 1 e 2 art. 2112). Di conseguenza per ottenere una deroga in tal sen-so è necessario stipulare anche l’accordo con il singolo lavoratore interes-sato (articoli 410 e 411 c.p.c.).».

Entrambe queste sentenze fanno riferimento agli accordi con i singoli la-voratori ai sensi degli artt. 410/411 c.p.c., che sono le norme che prevedono che gli accordi tra datori di lavoro e lavoratori, che riguardino diritti indi-sponibili derivanti dalla legge o dal contratto collettivo, possano essere fatti solo nelle cosiddette sedi protette, ossia ispettorato nazionale del lavoro (art. 410) o sede sindacale (art 411). Naturalmente, tale rinvio va inteso ad accor-di stipulati in un momento successivo al trasferimento, in quanto si può di-sporre del diritto a passare presso l’acquirente solo dopo che il trasferimento è stato effettuato, perché solo allora tale diritto matura e gli atti di disposi-zione di diritti futuri sono nulli.

La Corte di Appello de L’Aquila, con sentenza del 28 aprile 2014, ha stabilito che «secondo l’articolo 47 comma 5 della legge 428 del 1990 per le aziende in crisi o sottoposte ad una procedura concorsuale, quando inter-venga un accordo sindacale avente ad oggetto il trasferimento d’azienda, è automatica l’inoperatività della disciplina prevista dall’articolo 2112 senza necessità che l’accordo espliciti dette inoperatività, ma al contrario devono essere concordate ed esplicate le eventuali condizioni del miglior favore in-

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tese a mitigare gli effetti della totale applicazione dell’articolo 2112.». La giurisprudenza riportata conferma la notevole differenza di disciplina

tra le ipotesi 4-bis del comma 5 e la grande ampiezza e libertà contrattuale che tale comma conferisce: gli unici limiti sono sempre la necessità del-l’accordo sindacale e il fatto che tutto questo meccanismo consenta di salva-re qualche posto di lavoro.

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La disciplina fiscale del trasferimento d’azienda Alessandro Vicini Ronchetti

Il trasferimento d’azienda implica, in primo luogo e secondo una prospet-tiva tributaria, delle riflessioni riguardo allo strumento giuridico con cui vie-ne trasferita l’azienda. Come è stato precedentemente, anche il diritto tribu-tario si adegua, non sempre in maniera precisa, agli strumenti giuridici con cui l’azienda è oggetto di trasferimento. E dobbiamo fare distinzione fra 2 tipologie di trasferimenti d’azienda alle quali il legislatore tributario assegna un trattamento differenziato. Da un lato vi sono le fattispecie così dette rea-lizzative: normale cessione di azienda o di ramo di azienda. Dall’altro, le fattispecie non realizzative, quindi fattispecie che pur comportando un tra-sferimento dell’azienda da un soggetto in capo ad un altro soggetto, per la legge tributaria non costituiscono il realizzo di plusvalore imponibile. Di conseguenza non vi è neppure rilevanza tributaria in relazione agli asset per-cepiti dal cessionario o dal conferitario, a seconda dell’operazione. Una pri-ma suddivisione deve quindi poggiare su questa distinzione: operazioni rea-lizzative ed operazioni non realizzative. Con riferimento al primo versante (operazioni realizzative) il diritto tributario non ha delle implicazioni parti-colarmente complesse, nel senso che si applica l’art. 86 del testo unico delle imposte sui redditi che disciplina il regime tributario delle plusvalenze che nel caso di specie riguarda un complesso di beni e non un singolo bene, i.e. un’azienda. Se dalla cessione del complesso di beni emerge che il corrispet-tivo pattuito è superiore al valore netto contabile dell’azienda vi sarà un componente positivo di reddito imponibile, quindi una plusvalenza. Su que-sto aspetto non vi sono osservazioni particolari da svolgere.

Certo, v’è l’aspetto che riguarda non tanto la tassazione diretta ma la tas-sazione indiretta in base al quale spesse volte l’amministrazione finanziaria muove contestazioni con riferimento al corrispettivo in quanto ritenuto non congruo rispetto al valore di mercato ai fini dell’imposta di registro. In que-sto caso dovremmo inoltrarci in vicende che attingono più agli aspetti relati-vi all’accertamento e alle norme di tipo procedurale, sulle quali non vorrei

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soffermarmi in questa sede. Vi è poi l’altra categoria di fattispecie giuridiche che sono di tipo non realizzativo per il legislatore tributario, e in questo caso la scelta che è stata fatta – che talvolta si discosta dalla norma civilistica – è stata quella di adeguarsi, nel limite del possibile, alle previsioni civilistiche e mi riferisco, in particolare, alle operazioni di fusione e di scissione per le quali vi è una successione universale nelle attività e nelle passività da parte del soggetto che subentra rispetto al soggetto che viene meno. Per tali fatti-specie il legislatore tributario ha previsto che non vi siano conseguenze di carattere tributario. Ciò implica che qualora si sia in presenza di una scissio-ne o di una fusione – benché l’operazione comporti un trasferimento di beni da un soggetto ad un altro soggetto – per la norma tributaria questo trasferi-mento di beni non è visto come di tipo realizzativo.

Quanto detto è espressamente sancito dall’art. 172 del d.p.r. n. 917 del 1986. Anche in questo caso non ci sono particolari osservazioni da svolgere salvo che le operazioni di fusione e scissione possono comportare implica-zioni di carattere tributario qualora i soggetti che partecipano all’operazione di riorganizzazione siano titolari di posizioni soggettive peculiari, in partico-lare siano soggetti dotati di perdite fiscali. Il riporto delle fiscali costituisce una fattispecie speciale per il diritto tributario nel caso di attività d’impresa. La presenza di perdite fiscali costituisce un beneficio che nel futuro potrà permettere un abbattimento del reddito imponibile. In questo caso, nell’ipo-tesi di operazioni di fusione e di scissioni, come vi dicevo, pur essendo ope-razioni non realizzative quindi non comportano conseguenze di natura tribu-taria, sono applicabili delle disposizioni di carattere anti abusivo, uso il ter-mine abuso perché dall’introduzione dell’art. 10-bis dello statuto dei diritti del contribuente ha fatto ingresso nel nostro ordinamento la nozione di “abu-so del diritto” che ha sostituito la norma che era in vigore da alcuni decenni che parlava di elusione fiscale. Ebbene, qualora partecipino ad un’operazio-ne di scissione o fusione società che hanno il diritto al riporto negli esercizi successivi di perdite fiscali, trovano applicazione alcune clausole anti-abuso. In particolare, il riporto delle perdite fiscali può essere oggetto di preclusio-ne in talune circostanze. Il titolare di perdite fiscali potrà utilizzarle dopo l’operazione di riorganizzazione solo se esse non derivano da una società sprovvista di determinati presupposti di vitalità, quindi devono provenire da una società che svolgeva l’ordinaria. Il legislatore preclude quindi il riporto delle perdite qualora uno dei soggetti partecipanti all’operazioni di fusione o scissione abbia in dote perdite fiscali, allora queste perdite siano relative ad un soggetto che non ha i requisiti di vitalità. Occorre però precisare che il legislatore, sempre con la riforma dell’abuso del diritto, ha modificato anche le disposizioni che riguardano l’interpello. Questi strumenti sono prevalen-

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temente rappresentati da interpelli o accordi, hanno conseguenze di natura totalmente diversa, ma con riferimento specifico alla vicenda delle perdite fiscali nel caso di fusione o scissione è possibile presentare istanza di inter-pello all’amministrazione finanziaria volta a chiedere la disapplicazione del-la norma anti abusiva. Pertanto, qualora venga posta in essere un’operazione di fusione o scissione e qualora sia presente una società che detiene perdite fiscali che nel caso dell’operazione suddetta non potrebbero essere utilizza-te, perché per esempio ha un patrimonio netto minore alle perdite fiscali o perché per eventi non voluti negli anni precedenti non ha avuto una suffi-ciente vitalità commerciale per cui ricadrebbe nella disposizione che preclu-de il riporto delle perdite, potrò essere chiesta la disapplicazione della regola antielusiva. Dimostrando all’Amministrazione finanziaria l’assenza di alcun intento abusivo nell’operazione ma al contrario, essa è posta in essere da ra-gioni economico commerciali, è possibile che l’ufficio accordi la disapplica-zione della norma anti abuso in quanto, sulla base della documentazione pre-sentata, non appaiono finalità abusive. La medesima disposizione vale nel caso di scissione.

L’azienda può inoltre essere trasferita attraverso altre forme giuridiche come è stato visto in precedenza. È possibile infatti trasferire l’azienda a se-guito di un’operazione di conferimento d’azienda o di ramo d’azienda. Que-sto tipo di operazione giuridicamente è un’operazione realizzativa in quanto il conferimento è un’operazione che viene effettuata ed evidenziata nei do-cumenti di bilancio in base ai corrispettivi realmente applicabili al valore dell’azienda ma il legislatore tributario ha adottato una scelta differente. L’ope-razione di conferimento d’azienda o di ramo d azienda ai sensi dell’art 176 e ss. del testo unico delle imposte sui redditi è un operazione qualificata non rea-lizzativa. Ne consegue, anche in questo caso, che non vi sono peculiari im-plicazioni di carattere tributario in quanto il soggetto conferente, pur eviden-ziando da un punto di vista civilistico un maggior valore e quindi plusvalore, questo plusvalore per la norma tributaria non ha alcun tipo di rilevanza fi-scale, quindi non comporta del reddito imponibile ma al tempo stesso in ca-po al conferitario il valore dell’azienda ricevuta avrà rilevanza tributaria li-mitatamente al valore netto contabile che l’azienda aveva in capo al soggetto conferente.

Il legislatore ha previsto nel caso del conferimento, ma vale anche nel ca-so dell’operazione di fusione e scissione, un’ipotesi opzionale per il quale in base alla quale il soggetto conferitario quando riceve la azienda può applica-re un’imposta sostitutiva sul maggior valore dell’azienda ricevuta. In ogni caso, il plusvalore che viene realizzato dal soggetto conferente non assume rilevanza tributaria. È quindi possibile, per il soggetto conferitario che riceve

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l’azienda o per la società risultante dalla fusione oppure ancora dalla società beneficiaria in caso di scissione, assoggettare ad imposta sostitutiva tale mag-gior valore. A seguito della suddetta opzione, tali maggiori valori assume-ranno rilevanza tributaria.

L’ammontare dell’imposta sostitutiva è parametrato sul valore oggetto di affrancamento. L’aliquota oscilla dal 12% sino ad arrivare al 16%.

Il conferimento, vi dicevo prima, è un’operazione neutrale quindi fiscal-mente non rilevante ma nella analisi della mia relazione odierna ho eviden-ziato che ci sono profili interessanti che appartengono non solo alla tassa-zione diretta, come finora fatto, ma ci sono aspetti che attengono anche alla tassazione indiretta e, in particolare, mi riferisco a un’ipotesi particolarmente diffusa negli ultimi anni grazie agli interventi della Corte di cassazione. L’ipotesi riguarda il caso in cui, a seguito di un conferimento, le partecipa-zioni relative alla società conferitaria siano immediatamente alienate.

La fattispecie descritta è destinataria di una espressa disposizione. Nel-l’art. 176 Tuir è previsto che il conferimento di azienda e la successiva ces-sione di partecipazioni con conseguente applicazione dell’art. 87 Tuir, non costituisce un’operazione elusiva (all’epoca in cui è stata introdotta la dispo-sizione si parlava di elusione e non di abuso), questa vicenda si porta dietro un contrasto giurisprudenziale. Il legislatore si è preoccupato di sancire a non elusività all’interno della disposizione delle imposte sui redditi che a se-guito del conferimento – che abbiamo detto trattarsi di operazione neutrale – il conferente non paga le imposte sulla plusvalenza ma al tempo stesso rice-ve delle partecipazioni che danno diritto all’applicazione della participation exemption ereditando il lasso temporale di esercizio dell’impresa da parte del conferitario.

A fronte di tale assetto legislativo l’amministrazione finanziaria doven-dosi piegare alla autorevolezza della legge che acclara la non elusività delle operazioni ai fini delle imposte sui redditi, ha valutato che poteva sussistere un profilo di elusività (oggi diremmo di abuso del diritto) non tanto con rife-rimento alla tassazione diretta ma con riferimento alla tassazione indiretta consistente nel mancato pagamento dell’imposta di registro in misura pro-porzionale. A seguito dei numerosi accertamenti e successive pronunce giu-risprudenziali si è consolidato l’orientamento della Corte di cassazione se-condo cui: qualora venga posta in essere questa successione di operazioni in un arco temporale che legittimi il sospetto di operazione preordinata al fine di eludere il tributo del registro, trova applicazione l’art. 20 della legge sull’imposta di registro secondo cui la base imponibile è data dalla sostanza dell’operazione e non necessariamente solo sulla base dei negozi giuridici

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formalizzati. Il conferimento di azienda e la successiva cessione delle parte-cipazioni sono riqualificate come un’operazione di cessione d’azienda.

L’agenzia entrate trovando – passatemi il termine – la porta chiusa dal punto di vista delle imposte dirette perché l’176 precludeva qualsiasi conte-stazione in termini di elusione o abuso ha individuato uno spiraglio all’in-terno delle disposizioni riguardanti la tassazione indiretta in particolare l’im-posta di registro. Tutto ciò, ovviamente, necessiterebbe di un inquadramento dell’art. 20 del testo unico dell’imposta di registro perché l’art. 20 citato evidenzia un’impostazione dell’inizio degli anni del secolo scorso da parte della “scuola Pavese” in particolare da parte di Benvenuto Griziotti e tutti i suoi allievi. Tale tesi fornisce una lettura funzionale della disposizione in base alla quale occorre andare a vedere la sostanza dell’operazione e non soffermarsi sulla forma giuridica della operazione posta in essere.

In merito, ci sono alcuni spunti di carattere procedimentale che possono essere meritevoli di attenzione. È interessante soffermarci per vedere se in questo caso – anticipiamo che la dottrina ha già evidenziato perplessità – la contestazione da parte dell’amministrazione finanziaria riguardante la non corretta applicazione di imposta di registro non debba essere un tipo conte-stazione che dovrebbe prevedere il necessario contraddittorio con l’ammini-strazione finanziaria.

È nota a tutti voi la vicenda annosa che purtroppo pare sia stata definita dalle Sezioni unite relativamente all’obbligo del contradditorio endoproce-dimentale, secondo cui esso sussiste solo per tributi armonizzati. La corte di giustizia ha affermato il diritto del contribuente ad un contraddittorio duran-te il procedimento ma poiché l’affermazione promana dalla Corte di giusti-zia europea, secondo la cassazione il contraddittorio è obbligatorio solo per tributi armonizzati e le sezioni unite lo hanno confermato. Ad oggi per i tri-buti non armonizzati non è previsto un contraddittorio. Ma qual è l’aspetto più problematico?

L’art. 10-bis dello statuto dei diritti del contribuente che reca la disciplina riguardante l’abuso di diritto prevede che, essendo una fattispecie partico-larmente articolata e ricca di aspetti valutativi, al fine di tenere conto della legittima tutela del contribuente, prevede che qualora l’amministrazione fi-nanziaria voglia contestarlo (l’abuso del diritto) deve prioritariamente avverti-re il contribuente, il quale ha diritto di formulare le proprie osservazioni entro un termine predeterminato, come dire viene introdotta in via legislativa una sorta di contraddittorio endoprocedimentale nel caso dell’abuso del diritto.

Il tema che si pone oggi la dottrina, secondo me con condivisione della soluzione affermativa, attiene alla necessità che anche con riferimento alle

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operazioni riguardanti l’imposta di registro, ancorché l’art. 20 della legge sull’imposta di registro non sia una norma espressamente antielusiva ma sia una norma di tipo interpretativo, sia applicabile il generico principio della tutela dell’affidamento del contribuente e della garanzia della difesa dello stesso. Di conseguenza dovrebbe essere concesso il diritto ad un contraddit-torio endoprocedimentale.

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Il trasferimento d’azienda nel diritto commerciale: questioni controverse 1 Stefano A. Cerrato

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. Il trasferimento di azienda: un campo (ancora) problematico. – 3. Trasferi-menti «anomali» d’azienda: una casistica. – 4. L’abuso del diritto nella cessione di comples-si aziendali. Tre casi paradigmatici.

1. Premessa

Discorrere del trasferimento di azienda nel diritto commerciale significa affacciarsi su un orizzonte di rara ampiezza, poiché il diritto commerciale disciplina l’azienda con un certo numero di norme, non moltissime, che non hanno subito modifiche significative nel corso degli ultimi ’70 anni (dal 1942) rispetto alla loro originaria formulazione.

Poiché dunque siamo di fronte ad istituti classici del diritto commerciale ed è elevato il rischio di annoiare il lettore con riflessioni note e banali, vor-rei impostare la trattazione cercando di individuare ipotesi specifiche di tra-sferimento d’azienda che possono presentare profili per certi versi anomali rispetto alle situazioni più comuni e ormai «classiche»; inoltre vorrei anche provare a ragionare, con qualche riferimento a casi concreti recenti, sul tema dell’abuso del diritto nel trasferimento di azienda.

1 Il presente contributo rappresenta la trascrizione, con minime correzioni, della relazione tenuta al convegno “Il trasferimento d’azienda: aspetti giuridici e aziendalistici”, tenuto il 23 marzo 2017 presso la SAA – School of Management di Torino.

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2. Il trasferimento di azienda: un campo (ancora) problematico

Nonostante decenni di elaborazione giuridica, anche di elevatissima qua-lità (si pensi agli studi di giuristi quali Cottino, Colombo, Galgano, Auletta, Candina, Pugliatti, etc.) la disciplina del trasferimento d’azienda rimane an-cora un campo problematico del diritto commerciale.

Su questi temi la dottrina si è ampiamente cimentata nel corso del tempo e tra le questioni di vertice su cui ancora si oggi si discute troviamo quella relativa alla natura giuridica dell’azienda. Su questo terreno come è noto si sono affrontate sul campo prevalentemente due teorie (universalistica e ato-mistica) ed è poi emersa, come spesso accade, una concezione intermedia che coglie elementi entrambe le teorie.

I sostenitori della prima tesi ritengono che l’azienda sia un’universalità di beni, sostenuti in ciò dal sintagma che si legge nell’art. 670 c.p.c. (sequestro di azienda o di «altre universalità di beni»); teoria però che si è scontrata con una serie di considerazioni anche operative e pratiche perché non si riesce a ricondurre l’azienda nel concetto tipico di universalità di beni che leggiamo nell’art. 816 cod. civ. («pluralità di cose che appartengono alla stessa perso-na»), dato che al suo interno possono esserci beni che non «appartengono» (i.e.: non rientrano nella titolarità) all’imprenditore: si pensi ai beni in lea-sing, in locazione, in comodato, in conto lavorazione, etc. C’è, in altri termi-ni, una forte disomogeneità del «titolo» sul bene che non si concilia con la definizione codicistica. Senza considerare che molti indici normativi che troviamo nel codice civile inducono a qualificare l’azienda, da un punto di vista civilistico, come un bene unitario piuttosto che come aggregazione di beni (artt. 2556, 2557, 2561 c.c.). Sul versante opposto, i sostenitori della teoria atomistica ritengono che l’azienda sia solo un’espressione lessicale riassuntiva di una pluralità distinta di beni, su ciascuno dei quali l’impren-ditore dispone di diritti diversi.

Sono emerse – come dicevo – anche teorie intermedie che tendono a va-lorizzare (in un modo molto aderente alla realtà) il fatto che l’azienda sia un’entità prevalentemente economica composta da pluralità di beni che re-stano distinti fra loro e autonomi (come sostiene la teoria atomistica) ma unificati da una unitaria finalità – cioè lo scopo di produzione – che viene impressa dal imprenditore. Seguendo questa impostazione, a ben osservare, si attribuisce maggiore forza all’elemento funzionalizzante dell’impresa co-me destinazione destinare di beni alla produzione per creare reddito, piutto-sto che al profilo statico della titolarità di essi, che in questa accezione per-dono la loro identità per far parte di un complesso produttivo unitario.

Nel tempo anche la Cassazione, così come tutta la giurisprudenza, si è in-

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teressata di questo tema e sembra essersi consolidata da qualche tempo la tesi universalistica ma nella particolare variante non dell’universalità di di-ritto (universitas iuris), ma dell’universitas facti, che sta ad indicare l’idea secondo cui i beni sono unificati da un punto di vista teleologico ma restano autonomi e distinti (Cass., nn. 1548/80, 2714/96, 13676/06, 20191/07).

La circostanza che vi sia una varietà di interpretazioni non rappresenta un limite né è criticabile, poiché nel contesto di una disciplina scarna come quella dell’azienda può aiutare l’interprete a meglio affrontare determinati quesiti sia ermeneutici sia pratici che si possono porre sulla disciplina in questione.

Muovendoci ancora su un piano generale, un altro problema al quale si deve far cenno riguarda la delimitazione del perimetro dell’azienda, cioè quali siano i beni che possiamo annoverare all’interno del concetto azienda.

Se si guarda alla norma (art. 2555 c.c.) la risposta non è immediata poi-ché viene usato il termine «beni»; ma il sostantivo non ha un significato va-go se si tiene conto, in chiave sistematica, della definizione di beni che rin-veniamo nell’art. 810, ossia «cose che possono essere oggetto di diritti». Hanno quindi avuto larga diffusione le tesi che tendono a circoscrivere il concetto di azienda solo ai beni come sopra definiti; questa ermeneusi lasce-rebbe fuori tutto ciò che bene non è, cioè i rapporti giuridici, i negozi, i dirit-ti, ai quali in effetti (come ha acutamente notato De Nova) l’art. 813 c.c. estende le disposizioni sui beni, quasi a confermare che siano qualcosa di «altro»; e la differenza mi pare sia evidente se si confronta questa norma con l’art. 814 c.c. là dove definisce beni anche le energie naturali. Peraltro, a fa-vore di questa interpretazione sembrerebbe oggi militare anche un altro ar-gomento testuale, dato dall’art. 105 l. fall., che considera e disciplina separa-tamente la vendita dell’azienda rispetto alla vendita di rapporti giuridici omogenei, e in questa espressione molti interpreti hanno visto la conferma dell’autonomia dei diritti riferibili all’azienda rispetto al compendio azienda-le. Sono però interpretazioni da maneggiare con cautela.

Ancora: un altro tema dibattuto concerne i c.d. «beni prospettici»; ci rife-riamo alla questione se l’azienda includa soltanto i beni attuali o anche quel-li che potranno essere in prospettiva inclusi all’interno dell’azienda per ef-fetto dell’esercizio ovvero per effetto dello svolgimento dell’attività. Anche qui si confrontano teorie differenti perché alcuni pensano che la disciplina debba essere considerata nella sua accezione storico-statica, e secondo que-sto punto di vista il legislatore deve fotografare la situazione aziendale in un preciso momento considerando solo i beni di quel dato istante senza tener conto di quelli futuri. Da altri invece viene valorizzato l’elemento della proiezione produttiva del complesso aziendale, quindi il fatto che alla base

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dell’azienda ci sia un programma per cui l’imprenditore non può non aver considerato i beni appunto «prospettici».

Le questioni sono – come si vede – molto complesse. Credo, per non in-dulgere ulteriormente su questi argomenti, che il miglior modo di affrontarle sia adottare una chiave di lettura di carattere economico. Per lungo tempo diritto ed economia hanno dialogato poco restando ognuno nel loro ambito; oggi invece la disciplina dell’azienda (così come quella delle società e del-l’impresa in genere) non può prescindere da una equilibrata considerazione dei fenomeni economici, attraverso la cui «lente» deve essere «letta» la di-sciplina giuridica. Pare banale, ma se in questa ottica si considera l’azienda nei termini usuali delle scienze economiche, e cioè come un’unità che ha funzioni produttive, cioè uno schema organizzativo, si semplificano di molto le questioni poc’anzi affrontate.

3. Trasferimenti «anomali» d’azienda: una casistica

Affronteremo ora il tema delle forme atipiche di trasferimento d’azienda; non starò a soffermarmi sulle forme classiche e tipiche del trasferimento d’azienda come ad esempio compravendita e donazione, note a tutti.

Uno dei terreni sui quali più spesso si assiste ad operazioni anomale di trasferimento di azienda è quello della successione generazionale. Non sem-pre la disposizione testamentaria comune è uno strumento idoneo per assicu-rare un passaggio non traumatico (e non problematico) fra generazioni, sic-ché è frequente il ricorso ad altri schemi giuridici.

Una delle forme anomale ricorrenti è la cessione indiretta riguardo alla quale ho individuato alcune ipotesi: (a) il ricorso ad atti di liberalità atipici; (b) il conferimento d’azienda; (c) il ricorso a vincoli di destinazione; (d) il trasferimento di partecipazioni.

(a) Nella prima ipotesi rientrano tutte quelle operazioni che – muovendo da una finalità di liberalità, cioè volontà di effettuare un’attribuzione di natu-ra patrimoniale senza corrispettivo – ricorrono a meccanismi o a negozi di-versi dalla donazione vera e propria, vale a dire a negozi che hanno causa giuridica differente. Si pensi ad esempio al soggetto che vuole acquisire un complesso aziendale ma con la prospettiva di assegnarlo ad un futuro suc-cessore e desideri fin da subito organizzare questa operazione: è possibile ipotizzare che venga concluso un negozio di cessione a titolo oneroso del complesso aziendale fra cedente e futuro destinatario finale (e dunque non con il cessionario interessato all’acquisto), gravando però quest’ultimo del-

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l’onere dell’acquisto. Ovviamente non è questa la sede per una disamina di dettaglio dell’operazione. Segnalo che questo meccanismo consente vantag-gi fiscali ma parallelamente solleva anche una serie di interrogativi a riguar-do, sui quali è bene che i consulenti si soffermino con particolare attenzione.

I dubbi emersi riguardano, in particolare, la validità di questo tipo di ne-gozio: chiedersi se sia lecito o illecito non è ozioso anche se, volendo appli-care le recenti e consolidate teorie della «causa in concreto» (ma lo diceva già Ascarelli negli anni Cinquanta!), e dunque osservando la finalità ultima del negozio, pare possibile rispondere positivamente.

Ci si chiede altresì se questa forma di cessione nasconda un negozio si-mulato. Mi pare sia corretta la risposta negativa poiché non c’è una manife-stazione esterna di realizzare un negozio ed una volontà interna di conclude-re un diverso accordo, bensì c’è la volontà di realizzare quel tipo di negozio ma con finalità ulteriori rispetto a quelle tipiche.

Ovviamente la peculiarità dell’operazione si riflette sul regime giuridico: un negozio del genere ha la forma della cessione e quindi deve rispettare le regole formali previste per questo contratto (quindi quanto dispone l’art. 2556 c.c. però nella sostanza si tratta di una donazione, perché quello è il ri-sultato finale, e dunque devono trovare applicazione (ex art. 809 cod. civ.) le disposizioni sulla riduzione per reintegro di legittima (art. 555 c.c.), sulla re-vocazione (art. 800 c.c.) e sulla collazione (art. 737 c.c.).

(b) La seconda ipotesi considera il conferimento d’azienda come mecca-nismo per consentire il passaggio generazionale del compendio aziendale. In passato non era agevole ricorrere a questo meccanismo poiché per legge la partecipazione sociale doveva essere proporzionale al conferimento. Oggi, grazie alla riforma del 2003, è consentito che le partecipazioni sociali siano distribuite tra i soci in misura non proporzionale rispetto ai conferimenti (artt. 2346, comma 4, e 2468, comma 4, c.c.). È quindi possibile effettuare un conferimento di azienda che abbia il carattere di atto di liberalità con questo tipo di accordo (il conferente dispone che le partecipazioni siano at-tribuite al destinatario finale) e così si semplificano anche le procedure e si riduce il rischio di invalidità dell’operazione.

Occorre però osservare qualche cautela. Innanzitutto occorre che venga specificato il motivo per cui viene fatta tale attribuzione delle partecipazioni poiché trattandosi di una deroga rispetto al principio generale della propor-zione fra investimento e rischio, occorre che la funzione economica dell’operazione sia resa evidente. È poi necessario il consenso di tutti coloro che subiscono una diminuzione patrimoniale, problema che non si pone in verità quando siamo in fase di costituzione, mentre è più serio in occasione

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di un aumento di capitale; in tal caso non basta solo il consenso della mag-gioranza dei soci come prevede la legge o lo statuto ma è necessario acquisi-re il consenso di coloro che saranno pregiudicati da una attribuzione non proporzionale. Attenzione infine al tema del patto leonino che è immanente all’ordinamento societario (art. 2265 c.c.): il soggetto infatti non può effet-tuare un conferimento di rischio senza acquisire alcuna posizione sociale; ciò significa che il conferente deve comunque diventare socio della società seppure con una quota minima e questo potrebbe limitare o depotenziare l’utilità dello strumento.

(c) Il tema dell’utilizzo di vincoli di destinazione come strumento di ces-sione dell’azienda presenta aspetti di interesse. Come è noto, sulla materia è intervenuto il legislatore nel 2005 introducendo una disposizione (art. 2645-ter c.c.) nell’ultimo libro del Codice che nella sua formulazione letterale po-trebbe apparire molto limitativa poiché afferma che si può ricorrere a tali forme di vincoli di destinazione soltanto per realizzare «interessi meritevoli di tutela» riferibili a «persone con disabilità, a Pubbliche Amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art. 1322, comma secondo». Questa ultima specificazione è invero fondamentale permette – secondo al-cuni – di aprire all’utilizzo «innominato» di questo strumento per qualsiasi operazione purché superi il vaglio di meritevolezza previsto in materia con-trattuale in genere; in altri termini la norma rappresenterebbe un caso (gene-ralizzabile) di deroga al principio della responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.) in presenza di una finalità meritevole di protezione secondo l’ordi-namento. Ed in questo senso si sono espresse alcune sentenze di merito, ri-tenendo lecito il vincolo di destinazione previa verifica che lo scopo fosse lecito e non altrimenti raggiungibile (Trib. Bergamo, 4 novembre 2015; Trib. Novara, 27 ottobre 2015); l’ipotesi di sottoporre a vincoli di destina-zione anche un complesso aziendale è quindi perseguibile, sempre nei limiti dell’utilizzo non abusivo dello strumento, anche se mi permetto di dubitare sulla bontà di queste interpretazioni «estensive» alla luce della funzione di ordine pubblico dell’art. 2740 c.c.

Analogamente il trust può essere uno strumento utilizzabile per operazio-ni di trasferimento d’azienda e di successione aziendale. Il problema in que-sto caso è quello della disciplina applicabile poiché varie sono le questioni di applicazione delle norme straniere convenzionali sul trust, sulle quali non abbiamo qui spazio per soffermarci.

(d) Altro ampio insieme di casi di cessione indiretta dell’azienda si rin-viene nel trasferimento delle partecipazioni sociali. Da un certo punto di vi-sta il trasferimento di partecipazioni sociali come mezzo di circolazione

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dell’azienda è molto utilizzato ma tante volte a questo meccanismo non ven-gono affiancate altre cautele che permettano di garantire che all’operazione in sé poi segua effettivamente un decorso non traumatico, poiché il cambio generazionale in azienda è un momento sempre molto delicato (in Italia so-prattutto poiché la maggioranza delle imprese è di stampo familiare e di soli-to per via di litigi o disinteresse non si supera la terza generazione).

Strumenti utili in queste situazioni di «trauma» per la discontinuità ve ne sono. Pensiamo ad esempio alle regole sulla governance che permettono – con un sapiente mix di disposizioni idonee ad assicurare un passaggio gra-duale – di assicurare la continuità gestoria; mi riferisco alla separazione fra proprietà e controllo, già teorizzata negli anni Trenta da Berle e Means e fa-cilmente applicabile non solo nelle società di grandi dimensioni quotate. op-pure all’utilizzo del sistema dualistico di amministrazione perché la struttura prevista da tale modello per il governo societario è suddivisa in due organi e ciò può consentire facilmente l’organizzazione di un passaggio generaziona-le «morbido» attraverso la designazione nel consiglio di sorveglianza dei componenti «anziani» a supervisionare e controllare, lasciando le «leve del comando» ai giovani che così operano con una certa libertà ma sempre sotto la vigilanza dei componenti senior; oppure all’utilizzo del sistema dei gruppi che consente un passaggio generazionale non traumatico poiché si separa il piano del controllo azionario da quello operativo vero e proprio.

Alcune varianti possono poi creare problemi di «ingegneria finanziaria»: pensiamo al leveraged buy-out, oggi reso lecito, entro limiti ben determinati dagli artt. 2501-bis e 2358 c.c., attraverso il quale è spesso possibile conge-gnare operazioni di auto-finanziamento a supporto della successione genera-zionale. Forse meno naïve ma molto concreto è il patto di famiglia (artt. 768-bis ss. c.c.): si discute se si tratti di una deroga al divieto dei patti suc-cessori (art. 458 c.c.) anche se mi pare preferibile la risposta negativa, con-siderato che si tratta pur sempre di un atto inter vivos di attribuzione patri-moniale che resta soggetto a riduzione ex art. 557 c.c.

Le regole operative di tutela a favore dell’acquirente presentano alcuni profili critici, soprattutto quando viene effettuata un’operazione di trasferi-mento delle partecipazioni sociali come meccanismo di circolazione del-l’azienda.

Per un verso, la giurisprudenza si è ormai attestata nel senso di ritenere che alcune disposizioni che disciplinano la cessione dell’azienda siano ap-plicabili analogicamente alla vendita di partecipazioni (ad esempio il divieto di concorrenza ex art. 2557 c.c.: cfr. Cass. n. 19430/2011); ma l’equipara-zione si ferma sul piano economico, sicché non determina una riqualifica-zione dell’operazione a fini fiscali (così CTR Toscana, 8 novembre 2016, n.

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1950/17/16) benché sul punto vi siano precedenti di legittimità contrari. Molto complesso il tema dei vizi del bene ceduto. Poiché l’oggetto diret-

to del trasferimento è la partecipazione stessa, la giurisprudenza applica le regole sui vizi all’oggetto diretto, e ciò vuol dire che vizi che caratterizzano il complesso aziendale non entrano all’interno dell’orizzonte dell’operazione di vendita. Ciò ha determinato lo sviluppo di una prassi contrattuale molto ricca su garanzie e dichiarazioni rese da parte del venditore sullo stato del complesso aziendale (nel senso che occorrano specifiche previsioni contrat-tuali per estendere la tutela ex artt. 1497 e 1428 c.c., Trib. Roma, 15 settem-bre 2015; Cass., n. 17948/12). Il punto non è però sempre stato pacifico: una Cassazione del 2004 (Cass. n. 3370/2004) aveva aperto uno spiraglio ad una rilevanza anche dell’oggetto mediato nella cessione di partecipazioni valo-rizzando il profilo della buona fede e quindi tenendo in conto anche i vizi del complesso aziendale e non solo quelli relativi alle partecipazioni (così anche Trib. Milano, 25 agosto 2006; e già l’antica Cass. n. 329/1935). Se la giurisprudenza togata su questo argomento ha una posizione un po’ più rigo-rosa, la giurisprudenza arbitrale invece segna aperture maggiori. Mi riferisco ad un recente Lodo arb. Torino, 1 luglio 2013, reperibile in Giurisprudenza arbitrale, 2016, favorevole ad una applicazione analogica delle disposizioni sui vizi della vendita direttamente al bene aziendale. Un elemento importan-te, quindi, quando si opera su queste tematiche è la scelta del sistema di giu-stizia (giudice o arbitro) con l’avvertenza, aggiuntiva, che le clausole arbi-trali in caso di molteplici contratti sulla stessa operazione siano uguali. Vi è altrimenti il rischio che in operazioni concatenate vi siano meccanismi di giustizia diversi o con regole di competenza o nomina di arbitri differenti; ciò determina, purtroppo, una conseguente frammentazione delle liti, e spes-so dà adito ad avvocati scaltri di sfruttare le aporie contrattuali per eccezioni soltanto defatigatorie.

4. L’abuso del diritto nella cessione di complessi aziendali. Tre casi paradigmatici

Concludo il mio intervento segnalando tre casi di operazioni di cessione di azienda caratterizzati da condotte abusive.

Il primo è un caso «storico» ma con profili di attualità, il famoso caso «Termoregolatori Campini», i cui provvedimenti sono stati tutti pubblicati su Giurisprudenza Italiana fra il 2000 e il 2001 con commenti di Gastone Cottino (ultimo, App. Milano, 22 ottobre 2001).

Termoregolatori Campini s.r.l. era una società operativa il cui statuto sta-

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biliva come termine il 31 dicembre 1999. Poiché la maggioranza dei soci non era in grado di deliberare la proroga del termine stante l’opposizione di una minoranza qualificata, l’organo amministrativo decise di adottare una soluzione tranciante: conferire tutto il complesso aziendale all’interno di una nuova azienda controllata al 100% dalla vecchia società operativa. Ciò de-terminò la prevedibile reazione della minoranza che impugnò la decisione lamentando la violazione delle competenze assembleari (in allora l’art. 2361 cod. civ. era l’unico riferimento); dopo una ricca battaglia giudiziaria l’ope-razione fu giudicata valida ma ebbe il merito di sollevare l’attenzione degli studiosi sul tema delle cd. competenze implicite dell’assemblea, vale a dire sui limiti entro cui gli amministratori possano legittimamente dire di «gesti-re» l’impresa. Ed ebbe altresì il merito di sollecitare il legislatore che nel 2003, con la riforma societaria, disciplinò proprio questa situazione: se oggi una s.r.l. volesse compiere tale tipo di operazione, non vi sarebbero dubbi sulla necessità che sia deliberata dai soci: l’art. 2479 al numero 5 infatti af-ferma che l’assemblea è competente per deliberare sulle operazioni che comportano una «sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo» e quanto accaduto nel caso Termoregolatori Campini ne era un chiaro esempio, dal momento che tramutare una società operativa in holding pure significa apportare una modifica sostanziale dell’oggetto so-ciale. Ed in questo senso vi sono già precedenti di merito: segnalo fra gli ul-timi Trib. Piacenza, 14 marzo 2016.

Il secondo caso è recente (Trib. Reggio Emilia, 16 giugno 2015) e riguar-da «La Briciola s.r.l.», società che, al fine di sfuggire ad un creditore, trasferì il complesso aziendale ad una nuova azienda con lo stesso nome ma in for-ma di s.n.c. Il giudice ha ritenuto che vi fosse stato un abuso del diritto nell’operazione perché la funzione causale concreta della compravendita di azienda era stata piegata ad una finalità diversa da quella tipica e legittima, e quindi era stata elusa la disciplina sulla responsabilità patrimoniale. Sia però consentito evidenziare un punto debole nel ragionamento del Tribunale: aver escluso la norma sulla responsabilità per i debiti (art. 2560 c.c.) che, se ret-tamente applicata (e così avrebbe dovuto essere, una volta riconosciuta abu-siva ed elusiva l’operazione), avrebbe automaticamente coinvolto la cedente in responsabilità.

L’ultimo caso è del marzo 2017 (caso «Hilton Italiana s.r.l., Cass. n. 6770/2017) e riguarda un’operazione di retrocessione di servizi appaltati da un hotel che aveva dato in gestione la propria spa interna (appalto di servi-zi). Si discuteva se fosse una cessione di azienda ai fini dell’art. 2112 c.c. e la risposta della Cassazione è stata positiva. L’esistenza di un appalto di ser-vizi non esclude dunque che ci si trovi nel contesto di un trasferimento di

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azienda, integrato dalla retrocessione dei servizi appaltati con contestuale trasferimento della complessiva organizzazione utilizzata dall’appaltatore, inclusi quasi tutti i dipendenti

La sentenza per un verso si riporta ad una elaborazione consolidata (Cass. nn. 11918/2013; 23357/2013; 21710/2012), anche spinta da posizioni con-formi della giurisprudenza comunitaria (Corte giust. UE, 9 settembre 2015, caso Ferreira da Silva e Brito, che valorizza la presenza e la conservazione dell’identità di una organizzazione economica); per altro verso assume rile-vanza alla luce della legge n. 122 del 2016 che ha previsto, in ipotesi di mo-difica di appalto, che l’acquisizione di personale già impiegato nello stesso non costituisce trasferimento d’azienda se l’appaltatore subentrante è dotato di una propria struttura operativa e di una specifica identità di impresa.

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Il trasferimento d’azienda nel fallimento quale modalità di salvaguardia dei complessi aziendali e dei posti di lavoro Maurizia Giusta

Trascrizione convegno del 23 marzo 2017 Il tema che mi è stato assegnato è il trasferimento d’azienda nel fallimen-

to quale modalità di salvaguardia dei complessi aziendali e dei posti di lavo-ro, e la vendita dell’azienda, di rami d’azienda o di beni e rapporti in blocco.

La materia viene disciplinata in modo analitico dall’art. 105 l. fall. e pri-ma ancora nel programma di liquidazione previsto dall’art. 104-ter l. fall. quale documento di generale strategia liquidatoria da parte del curatore.

Per quanto rileva ai fini dell’argomento qui trattato, il Curatore dovrà specificare anche in riferimento all’auspicabile mantenimento dell’impresa funzionante: lettera A) l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio del-l’impresa o di singoli rami d’azienda oppure l’opportunità di affittare a terzi l’azienda o singoli rami ai sensi dell’art. 104-bis; lett. D) la possibilità di cessione unitaria dell’azienda o di singoli rami o di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco; lett. E) le condizioni della vendita dei singoli cespiti rinvenuti nel patrimonio del fallito.

Da questa disciplina normativa emerge la volontà legislativa che la liqui-dazione debba tendere per quanto possibile alla conservazione dell’integrità e del valore dell’azienda o dei suoi rami, verificando l’opportunità di dispor-re l’esercizio provvisorio o di stipulare contratti di affitto con i terzi in vista della successiva cessione e solo ove questo non risulti praticabile si potrà procedere alla vendita dell’attività, in blocco o singolarmente.

In questo ambito per meglio comprendere le strategie liquidatorie indivi-duabili, dovrà essere innanzitutto indicata l’eventuale esistenza di un’azien-da funzionante con indicazione delle prospettive di alienazione unitaria o di riallocazione sul mercato.

Oltre all’individuazione dei beni da realizzare devono essere riportate an-che le modalità di liquidazione degli stessi che possono variare a seconda della tipologia dei beni che sono stati rinvenuti.

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Devono essere indicati i criteri di valutazione della convenienza delle di-verse prospettive liquidatorie (cioè l’esercizio provvisorio, l’affitto o la ven-dita dell’azienda o di singoli rami o di singoli beni), con una comparazione delle stime eventualmente acquisite da esperti, esiti di sondaggi di mercato compiuti dal curatore, o di offerte già acquisite.

La fase della stima e dell’adeguata valutazione dell’azienda nell’ambito di una procedura concorsuale è certamente delicata soprattutto in assenza di una chiara disciplina normativa e di una sostanziale incertezza sui metodi scientifici di valutazione del complesso aziendale. Nella prassi si tende a va-lutare le aziende nel corso delle procedure concorsuali facendo riferimento non soltanto alla consistenza patrimoniale, ma anche alle prospettive reddi-tuali future e, in concreto, la cessione del compendio aziendale nella sua uni-tarietà consentirà di evidenziare i necessari valori di avviamento, se ancora esistenti, unitamente al valore dei cespiti ancora funzionanti.

Al contrario, nei casi in cui non sia neanche prospettabile un ritorno alla redditività aziendale, allora le perdite gestionali in prospettiva futura andran-no a comprimere il reale valore del complesso aziendale e quindi in questa ipotesi la vendita atomistica dei singoli cespiti potrebbe portare ad un valore di realizzo superiore rispetto a quello che si otterrebbe dalla cessione dell’a-zienda nella sua unitarietà.

Secondo l’opinione di alcuni interpreti, per esigenze di flessibilità del programma di liquidazione in presenza di elementi variabili del mercato o di situazioni non completamente prevedibili ma solo ipotizzabili (ad es. per la difficoltà di prevedere la possibilità di alienazione dell’azienda o di beni in blocco, in assenza di offerte già depositate prima della redazione del pro-gramma), è possibile effettuare delle previsioni alternative e condizionate, sottoposte anche a termini, per cui si prevederà che per un certo tempo sarà perseguita una soluzione liquidatoria ritenuta preferibile e che, in difetto di offerte entro il termine indicato, si procederà automaticamente (senza neces-sità di un supplemento di programma) alla vendita separata di singoli beni, con indicazione per entrambe le fasi delle forme di pubblicità e delle moda-lità di svolgimento delle gare.

Altro elemento di essenziale rilevanza sono le indicazioni relative alla concreta individuazione delle “procedure competitive” che a norma dell’art. 107 l. fall. devono essere adottate per tutte le vendite e gli atti di liquidazio-ne e che attengono alla modalità di realizzazione dell’attivo oggetto del pro-gramma di liquidazione stesso.

In questo senso l’art. 104 g), comma 2, lett. e) richiede che nel program-ma di liquidazione vengano specificate le condizioni della vendita dei singo-li cespiti, cioè il tipo di procedura competitiva che si è inteso adottare e le

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forme di pubblicità più idonee a raggiungere il maggior numero possibile di potenziali interessati per ottenere il miglior risultato in termini di realizzo. Si dovranno indicare la metodologia prescelta con un’idonea procedura di pub-blicità per assicurare la trasparenza; il meccanismo di presentazione delle offerte e il modo di svolgimento della gara tra gli offerenti.

Una volta decisa la vendita attraverso procedure competitive si devono poi rispettare i principi di trasparenza e pari opportunità per gli interessati ad offrire; si tratta di principi volti a garantire la corretta competizione infor-mando il pubblico dei potenziali interessati della gara e delle condizioni per parteciparvi.

Ricordo che le modalità liquidative e le procedure competitive ex art. 107 l. fall. devono presentare necessariamente alcuni requisiti imprescindibili, cioè devono essere caratterizzate da adeguata pubblicità; da un sistema in-crementale di offerte con regole prestabilite e non discrezionali di selezione dell’offerente; da trasparenza della procedura e da apertura al pubblico dei potenziali interessati.

Se la procedura di liquidazione del bene viene effettuata dal curatore in esecuzione di quanto evidenziato nel programma di liquidazione, l’atto di trasferimento sarà un atto tra privati e non un atto giudiziario, cioè ci si do-vrà avvalere di un notaio per concludere il contratto di compravendita ed è previsto che la forma di tale atto di vendita sia atto pubblico o scrittura pri-vata autenticata da iscrivere nel Registro delle Imprese. Se nell’azienda ce-duta sono presenti degli immobili è necessaria anche la trascrizione; l’iscri-zione e la trascrizione sono estremamente importanti in quanto la loro omis-sione comporterebbe la responsabilità in capo al curatore per le obbligazioni assunte dal cessionario. L’iscrizione della cessione dell’azienda nel Registro delle Imprese è rilevante anche con riferimento a quanto previsto dall’art. 105, comma 6, l. fall., secondo cui la cessione dei crediti relativi alle aziende ce-dute, anche in mancanza di notifica al debitore ceduto o di sua accettazione, ha effetto nei confronti dei terzi.

Per quanto riguarda le modalità di vendita dell’azienda l’art. 105, comma 1, prevede che la liquidazione dei singoli beni sia disposta solo qualora risul-ti prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, o di suoi rami, o di singoli beni o rapporti giuridici individuabili in blocco, non consento una maggiore soddisfazione.

Il curatore dovrà perciò effettuare una previsione comparativa dei presu-mibili vantaggi che la vendita dell’intero compendio aziendale comporta, valutare cioè se la cessione dei singoli beni consenta di realizzare un ricavo netto superiore o almeno pari a quello della vendita unitaria dell’azienda.

La legge prevede come prioritario il criterio della cessione unitaria e co-

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me alternativo o subordinato quello della liquidazione singola o frammenta-ria; un’alternativa potrebbe anche essere la vendita di taluni cespiti omoge-nei individuabili in blocco come ad esempio macchinari, crediti, materie prime, semilavorati, oppure la vendita di rami autonomi.

La cessione del compendio aziendale nella sua unitarietà consente in primo luogo la conservazione del patrimonio costituito da eventuali licenze, autorizzazioni, concessioni e altri contratti cosiddetti di funzionamento il cui valore e interesse è legato esclusivamente alla prosecuzione dell’attività e che verrebbero perduti irrimediabilmente in caso di cessazione dell’attività stessa; consente inoltre rapidità di realizzo e minori costi di conservazione dei beni con un più rapido soddisfacimento per i creditori. Nel caso in cui sia più conveniente vendere tutta l’azienda del fallito o un ramo di essa, si do-vranno seguire le modalità dell’art. 107 ed è demandata al curatore la scelta delle modalità competitive attraverso cui vendere l’azienda ed effettuare la stima del suo valore.

Quanto alla sorte dei rapporti di lavoro si può convenire con i rappresen-tanti dei lavoratori nell’ambito delle consultazioni sindacali, il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e anche conveni-re ulteriori modifiche riguardo al rapporto di lavoro pur rispettando le norme vigenti.

In mancanza di accordo si applicherà la disciplina dell’art. 2112 c.c. che prevede la prosecuzione dei rapporti già esistenti con l’acquirente.

La possibilità per il curatore di derogare alle norme disposte dall’art. 2112 c.c. è estremamente utile perché consente da un lato, ai sensi del com-ma terzo, di modificare la rigidità dei costi del personale dell’azienda ogget-to di cessione, agevolandone la ricollocazione sul mercato e, dall’altro, con-sente di non rendere coobbligato il cessionario dell’azienda rispetto ai debiti nei confronti del personale dipendente cessato prima del trasferimento dell’azienda stessa.

La disapplicazione dell’art. 2112 è subordinata però al verificarsi con-giuntamente delle condizioni prescritte dall’art. 47 della legge n. 428 del 1990 che prevede che l’azienda oggetto di cessione deve avere più di quin-dici dipendenti, cioè deve essere un’azienda socialmente rilevante tale da consentire l’esperimento della consultazione sindacale; il curatore e il ces-sionario devono avviare le procedure di consultazione seguendo l’art. 47 e durante tale procedura deve essere raggiunto un accordo per il mantenimen-to, anche solo parziale, dell’occupazione.

Quanto ai rapporti di debito e credito relativi all’azienda ceduta, il regime codicistico ordinario prevede la responsabilità dell’alienante per i debiti ine-renti all’azienda ceduta se non risulta che i creditori vi hanno consentito e la

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responsabilità solidale anche dell’acquirente se i debiti risultano dai libri con-tabili obbligatori.

Nel caso invece di vendita di azienda nel fallimento è previsto che, salvo diversa convenzione, sia esclusa la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’azienda ceduta anteriori al trasferimento poiché il fine della pro-cedura fallimentare è soddisfare nel minor tempo possibile le ragioni credi-torie, che verrebbero compromesse se l’acquirente dovendo sopportare i de-biti dell’azienda ceduta, li imputasse nel corrispettivo dell’azienda.

Si stabilisce inoltre che nel caso di cessione delle attività e passività del-l’azienda, o di suoi rami, o di beni e rapporti giuridici individuabili in bloc-co, l’alienante cioè il curatore non è responsabile per i debiti, così derogando al regime di responsabilità previsto dall’art. 2560 c.c.

Per quanto concerne i crediti dell’azienda ceduta vale la regola generale della priorità dell’iscrizione del trasferimento nel Registro delle Imprese, iscrizione che può sostituire la notifica o l’accettazione della cessione di cre-dito.

Quanto alle garanzie esistenti sui debiti dell’azienda, i privilegi e le ga-ranzie di qualsiasi tipo conservano la loro validità e il loro grado a favore del cessionario.

Un caso particolare è previsto dall’ultimo comma dell’art. 105, ove si fa riferimento alla possibilità che l’acquirente invece di pagare il prezzo si ac-colli in tutto o in parte i debiti dell’azienda che acquisterà.

Sempre in tema di cessione dell’azienda ricordo la possibilità di affitto dell’azienda del fallito, che può costituire una valida alternativa all’esercizio provvisorio e può essere anche un atto funzionale alla cessione, cioè una so-luzione transitoria in attesa che si realizzino le condizioni per una migliore operatività della liquidazione.

Questa ipotesi è prevista dall’art. 104-bis l. fall. e può essere avanzata an-che prima della presentazione del programma di liquidazione; è necessario poi seguire l’iter previsto dal curatore nel programma di liquidazione, che deve ottenere il parere favorevole dei creditori e l’autorizzazione da parte del giudice delegato; il giudice delegato potrà autorizzare l’affitto quando esso risulta funzionale a una più proficua vendita successiva dell’azienda.

Nonostante gli interrogativi sulla sensatezza di questa operazione, si può osservare che in questo modo si conserva l’integrità del complesso aziendale e intanto si percepiscono i canoni versati dall’affittuario; inoltre l’unico re-sponsabile per i debiti contratti durante l’affitto rimane l’affittuario. Non è infrequente poi che l’affittuario diventi egli stesso l’acquirente dell’azienda e in questo caso l’affitto si configura proprio come una situazione transitoria fatta in vista di un futuro acquisto.

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Vediamo sinteticamente come si svolge l’affitto di azienda: si procede innanzitutto alla scelta dell’affittuario, questa fase è preceduta da una stima di congruità del canone e delle condizioni negoziali effettuata da uno stima-tore esperto; è poi necessario che il curatore, pur non dovendo inviare degli avvisi, predisponga adeguati strumenti di pubblicità in modo che tutti i po-tenziali interessati, aspiranti affittuari, possano avere tutte le informazioni utili per valutare la convenienza dell’affare e l’opportunità di presentare un’offerta; ci potranno essere una o più richieste di affitto d’azienda e in questo caso si agirà sempre attraverso procedure competitive indicando un termine per l’in-vio delle richieste di affitto al curatore. La scelta in ogni caso dovrà tenere conto non solo dell’ammontare del canone offerto ma anche delle garanzie prestate e soprattutto dell’attendibilità del piano di prosecuzione dell’attività imprenditoriale con particolare riguardo alla conservazione dei livelli occu-pazionali, cioè al mantenimento dei rapporti di lavoro.

Per quanto riguarda la forma del contratto di affitto si seguono le forme ordinarie, cioè forma scritta ad probationem con le successive iscrizioni del contratto nel Registro delle Imprese. Il contratto di affitto prevederà inoltre il diritto del curatore di procedere all’ispezione dell’azienda.

Per quanto riguarda la durata dell’affitto non è stabilita dalla legge una durata fissa, solitamente si sceglie un periodo adeguato alla liquidazione dei beni e si tende a scegliere una durata non eccessivamente lunga proprio per-ché si tratta di una soluzione intermedia di natura transitoria; in ogni caso il termine è di volta in volta concordato con l’affittuario anche qui previa con-sultazione del comitato dei creditori e del giudice delegato. Alla scadenza della durata del contratto l’affittuario deve retrocedere dall’azienda e sarà solo sua la responsabilità dei debiti contratti durante la sua gestione in dero-ga alla disciplina generale prevista dal Codice Civile.

Riguardo ai rapporti di lavoro mi soffermo in particolare sull’obbligo di pagamento del trattamento di fine rapporto in caso di trasferimento d’azien-da, poiché è una tematica molto rilevante e frequente nella materia fallimen-tare in quanto in caso di affitto dell’azienda e di prosecuzione dei rapporti di lavoro subordinati alla cessione si pone il problema di individuare il sogget-to che sarà obbligato al pagamento del TFR maturato dal dipendente il cui rapporto di lavoro è proseguito con la società affittuaria.

Su questo tema c’è stata un’evoluzione della giurisprudenza, cioè un mu-tamento di orientamento della Cassazione; ricordo una delle più recenti sen-tenze della Corte di Cassazione, la numero 164 del 2016, in cui si afferma che in caso di cessione di azienda assoggettata al regime di cui all’art. 2112, posto il carattere retributivo e sinallagmatico del TFR che è un istituto di re-tribuzione differita che matura man mano durante lo svolgimento del rappor-

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to di lavoro, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di TFR maturato durante il periodo di lavoro con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d’azienda. Il datore di lavoro cessionario invece è obbligato per questa quota solo in ra-gione del vincolo di solidarietà e poi sarà l’unico obbligato al pagamento del trattamento di fine rapporto per quanto riguarda la quota maturata nel perio-do intercorso successivamente al trasferimento d’azienda.

Da queste premesse discendono alcune conseguenze in tema di fallimen-to, cioè che il lavoratore sarà legittimato a proporre istanza di fallimento nei confronti del datore di lavoro cedente l’azienda perché è creditore dello stes-so; altra conseguenza è che poiché il TFR è parte della retribuzione che vie-ne accantonata e diviene esigibile solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro potrà formare oggetto di domanda di ammissione al passivo del fallimento soltanto al momento della cessazione del rapporto stesso e non durante la continuazione del rapporto.

Per concludere vorrei riferire una particolare ipotesi del trasferimento d’azienda nell’ambito di procedure concorsuali che è prevista normativa-mente dall’art. 11 comma 2 della legge n. 9 del 21 febbraio 2014.

Questa disposizione sancisce che nel caso di affitto o di vendita di azien-da o di rami di azienda o di complessi di beni e contratti di impresa sottopo-sta a fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria o li-quidazione coatta amministrativa, hanno diritto di prelazione per l’acquisto o per l’affitto le società cooperative costituite da lavoratori ex dipendenti dell’impresa sottoposta alla procedura concorsuale.

La norma risale all’anno 2014 ma non ha avuto frequente applicazione finora, è comunque un istituto significativo e conveniente per salvaguardare l’attività di impresa ed evitare la perdita dell’avviamento e soprattutto in modo specifico per consentire un adeguato mantenimento del livello occu-pazionale.

La lettura dalla norma può porre alcuni problemi interpretativi, ad esem-pio potrebbe verificarsi il caso di una cooperativa che intenda esercitare il diritto di prelazione in quanto sono divenuti suoi soci degli ex dipendenti dell’azienda fallita, cioè si potrebbe trattare di una cooperativa già esistente al momento del fallimento che non annoverava in quel momento nessun so-cio ex dipendente della società fallita e poi vi è stato il successivo ingresso di alcuni di questi ex dipendenti nella compagine sociale. Ci si può chiedere allora se questo sia sufficiente a far ritenere integrato il requisito dell’essere la società cooperativa costituita da lavoratori dipendenti dell’impresa sog-getta a fallimento; in linea teorica in questo caso direi di no in quanto la ratio

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della norma è quella di preservare con l’affitto dell’azienda nell’ambito della procedura fallimentare proprio quel valore molto importante, cioè i lavorato-ri, e di conseguenza solo cooperative costituite da lavoratori già in forza presso l’azienda fallita possono avvantaggiarsi della prelazione poiché solo questi ex dipendenti e non altri possono preservare il valore aggiunto costi-tuito dall’insieme di beni e lavoratori che forma l’azienda.

Per questo riterrei che la presenza dei dipendenti della società fallita deb-ba essere prevalente e che la cooperativa dovrebbe essere sorta dopo il fal-limento tra gli ex dipendenti; anche perché potrebbe presentarsi la circostan-za che un terzo in forma di cooperativa già esistente al momento del falli-mento e che non comprendeva tra i soci nessun ex dipendente della società fallita possa attirare a sé uno o due di questi ex dipendenti per poi esercitare la prelazione e rendere difficile la gara e la vendita dell’azienda stessa.

Per quanto concerne le modalità di esercizio del diritto di prelazione in questo caso mi pare preferibile l’opinione secondo cui non è necessaria la partecipazione della cooperativa alla gara potendo poi la cooperativa all’esi-to della gara stessa dichiarare di volersi avvalere del diritto di prelazione, in quanto il diritto di prelazione può esercitarsi anche all’esterno della gara e all’esito della competizione secondo le modalità ordinarie.

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Il trasferimento d’azienda nel concordato preventivo Luciano M. Quattrocchio

SOMMARIO

1. Individuazione della fattispecie. – 2. La continuità aziendale indiretta. – 3. Gli strumenti di monitoraggio. – 4. Gli strumenti di reazione. – 5. Il tema dell’affitto-ponte. – 6. Le offerte concorrenti. – 7. Le proposte concorrenti. – 8. La continuità aziendale nel Disegno di legge di riforma della crisi d’impresa.

1. Individuazione della fattispecie

Il tema del trasferimento d’azienda emerge in tutta la sua portata nel-l’ambito del concordato con continuità aziendale.

Come è noto l’art. 186-bis l. fall. il quale reca la rubrica “Concordato con continuità aziendale”, al comma 1 stabilisce che «Quando il piano di con-cordato di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prose-cuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azie-nda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presen-te articolo. Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzio-nali all’esercizio dell’impresa».

Da tale formulazione si può evincere che esistono tre forme di concor-dato:

• il concordato liquidatorio; • il concordato con continuità aziendale; • il concordato misto.

Nell’ambito del concordato con continuità aziendale, è necessario poi di-stinguere fra continuità aziendale diretta e continuità aziendale indiretta.

Tuttavia, poiché il trasferimento d’azienda può essere una modalità attua-tiva sia del concordato liquidatorio – e, in tal caso, si dovrebbe più corretta-

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mente parlare di liquidazione universalistica – sia del concordato con conti-nuità aziendale indiretta, occorre interrogarsi su quali siano le differenze.

Pare corretto ritenere che la risposta debba essere ricercata nei differenti criteri di generazione della provvista al servizio del concordato:

• se il prezzo di cessione dell’azienda è pagato istantaneamente dal terzo acquirente, ci si troverà nell’ambito del concordato liquidatorio universa-listico;

• ove invece il prezzo venga pagato attraverso i flussi di cassa (cash flow) generati per effetto dell’esercizio dell’azienda trasferita da parte della new company, si rientrerà nell’ambito del concordato con continuità aziendale indiretta.

Tale ipotesi interpretativa trova conforto nella previsione di cui all’art. 186-bis, comma 2, lett. a), l. fall. ove si prevede che «il piano di cui al-l’articolo 161, secondo comma, lettera e), deve contenere anche un’anali-tica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie neces-sarie e delle relative modalità di copertura».

Infatti, se il prezzo fosse immediatamente pagato, non avrebbe senso ri-chiedere un business plan dei flussi generati dall’azienda trasferita.

Limitando l’indagine alle ipotesi di continuità aziendale, è possibile ope-rare la seguente classificazione:

• continuità totale o parziale (liquidazione dei beni non funzionali all’eser-cizio dell’impresa):

• continuità diretta; • continuità indiretta.

2. La continuità aziendale indiretta

Nell’ambito della continuità indiretta si possono prospettare due ipotesi:

• esercizio diretto dell’azienda (rectius, dell’impresa, sebbene la norma si es-prima in termini di cessione o conferimento di “azienda in funzionamento” e non di “impresa in funzionamento”) da parte della old legal entity in crisi (o bad company), cui faccia seguito la cessione o il conferimento; ◦ esercizio indiretto (temporaneo) dell’azienda – tramite un contratto d’af-

fitto o un contratto preliminare, anche stipulato anteriormente all’accesso alla procedura – da parte di una new legal entity in bonis (o good com-pany), cui faccia seguito la cessione o il conferimento.

339 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Pare opportuno operare una distinzione fra continuità indiretta tipica e continuità indiretta atipica, nei seguenti termini:

• continuità indiretta tipica con cessione d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui il prezzo – che costituisce la prov-

vista per il pagamento dei creditori concorsuali – sia pagato ratealmente ed origini dai cash-flow della cessionaria;

• per assicurare l’efficacia dei rimedi di cut off è necessario che la cessione sia sottoposta a condizione risolutiva ovvero che sia prevista la riserva di proprietà e siano contemplati adeguati meccanismi di controllo;

• continuità indiretta tipica con conferimento d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui la provvista per il pagamento dei

creditori concorsuali consista in un flusso di dividendi ed origini dai cash-flow della conferitaria;

• l’efficacia dei rimedi di cut off è limitata dalla circostanza che il conferi-mento non può essere sottoposto a condizione risolutiva o a riserva di pro-prietà, mentre è possibile contemplare adeguati meccanismi di controllo;

• continuità indiretta atipica con cessione d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui il prezzo sia pagato all’atto del

trasferimento o sia comunque garantito, ma la società cessionaria intenda comunque beneficiare della previsione secondo cui i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbli-che amministrazioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della pro-cedura; nonché della norma in base alla quale l’ammissione al concorda-to preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal debitore di cui all’art. 67 l. fall. attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento; ed infine della disposizione per cui il giudice delegato, all’atto della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni;

• in caso contrario non si può parlare di concordato con continuità aziendale, ma di concordato liquidatorio di universalità;

• continuità indiretta atipica con conferimento d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui la partecipazione sia venduta ed il

prezzo sia pagato all’atto del trasferimento o sia comunque garantito, ma la società conferitaria intenda beneficiare della previsione secondo cui i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto del-l’apertura della procedura; nonché della norma in base alla quale l’am-missione al concordato preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal debitore di cui all’art.

340 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

67 l. fall. attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di a-dempimento; ed infine della disposizione per cui il giudice delegato, al-l’atto della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni;

• in caso contrario non si può parlare di concordato con continuità aziendale, ma di concordato liquidatorio di universalità di beni, trasformata in bene di secondo grado (la partecipazione).

La distinzione fra concordato liquidatorio e concordato con continuità aziendale si riverbera anche sul contenuto del piano e sulla relazione del pro-fessionista.

Con riferimento al contenuto del piano:

• concordato liquidatorio: ◦ il piano deve contenere la descrizione analitica delle modalità e dei tempi

dell’adempimento; • concordato con continuità: ◦ il piano deve contenere la descrizione analitica delle modalità e dei tempi

dell’adempimento; ◦ il piano deve contenere l’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi

dalla prosecuzione dell’attività d’impresa: business plan economico; ◦ il piano deve contenere l’analitica indicazione delle risorse finanziarie

necessarie e delle relative modalità di copertura: business plan finan-ziario.

Relativamente al contenuto della relazione del professionista: • concordato liquidatorio: ◦ la relazione deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità

del piano; concordato con continuità: ◦ la relazione deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità

del piano; ◦ la relazione deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa

prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; la comparazione dovrebbe essere fatta avendo riguardo all’alternativa liquidatoria, eventualmente concordataria. Non pare sia necessaria una disclosure sulle eventuali azioni risarcitorie o

recuperatorie esercitabili in sede fallimentare: infatti, nell’ipotesi di concor-dato liquidatorio tale disclosure non è prevista.

341 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

3. Gli strumenti di monitoraggio

È necessario richiamare anche gli strumenti di monitoraggio (o assuran-ce) dell’esecuzione del piano, nei seguenti termini: – concordato liquidatorio: controllo diretto da parte del commissario giudi-

ziale; – concordato con continuità.

• Continuità diretta: controllo diretto da parte del commissario giudiziale (verosimile non necessità del liquidatore giudiziale).

• Continuità indiretta: ◦ cessione d’azienda: ▪ strumenti contrattuali (follow up): bilanci infrannuali (secondo OIC

6), covenant, ecc.; ◦ conferimento d’azienda: ▪ strumenti ad efficacia reale: previsione statutaria; ▪ strumenti ad efficacia obbligatoria: patti parasociali; ▪ se la conferitaria è una s.r.l.: controllo del socio (art. 2476 c.c.); ▪ strumenti contrattuali (follow up): bilanci infrannuali (secondo OIC

6), covenant, ecc.

4. Gli strumenti di reazione

Quanto agli strumenti di reazione (cut off) potrebbe essere operata la se-guente distinzione:

• concordato liquidatorio (controllo diretto del commissario giudiziale): ◦ prima dell’omologazione: revoca del concordato; ◦ dopo l’omologazione: risoluzione in caso di inadempimento di non scar-

sa rilevanza; legittimazione esclusiva dei creditori. • concordato con continuità diretta (controllo diretto del commissario giudi-

ziale): ◦ prima dell’omologazione: revoca del concordato ove si accerti che l’eser-

cizio dell’attività d’impresa è cessato o risulta manifestamente dannoso per i creditori;

◦ dopo l’omologazione: comunicazione del commissario giudiziale a tut-ti i creditori di inadempimento di non scarsa rilevanza; legittimazione esclusiva dei creditori alla risoluzione.

• concordato con continuità indiretta (controllo del commissario giudiziale: bilanci infrannuali secondo OIC 6, covenant, ecc.):

342 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

◦ cessione d’azienda: ▪ prima dell’omologazione: il rimedio della revoca con retrocessione

dell’azienda può realizzarsi soltanto nel caso in cui nel contratto di ces-sione sia stata apposta una condizione risolutiva ovvero sia stata previ-sta la riserva di proprietà;

▪ dopo l’omologazione: il rimedio della risoluzione del concordato in ca-so di inadempimento di non scarsa rilevanza con retrocessione del-l’azienda può realizzarsi soltanto nel caso in cui nel contratto di cessio-ne sia stata apposta una condizione risolutiva ovvero sia stata prevista la riserva di proprietà

◦ conferimento d’azienda: ▪ prima dell’omologazione: il rimedio della revoca con retrocessione del-

l’azienda è sterilizzato dalla circostanza che il conferimento non può essere sottoposto a condizione risolutiva o a riserva di proprietà;

▪ dopo l’omologazione: il rimedio della risoluzione del concordato in ca-so di inadempimento di non scarsa rilevanza con retrocessione dell’a-zienda è sterilizzato dalla circostanza che il conferimento non può essere sottoposto a condizione risolutiva o a riserva di proprietà.

5. Il tema dell’affitto-ponte

Altra questione sottoposta all’interprete è se un piano concordatario che muova da un contratto di affitto-ponte, stipulato prima della cessione defini-tiva dell’azienda faccia venire meno la natura di concordato con continuità aziendale, per consolidarsi nell’ambito del concordato liquidatorio.

La questione è stata affrontata – tra l’altro – dal Tribunale di Roma, con Decreto in data 24 marzo 2015, il quale ha affermato il principio secondo cui le operazioni straordinarie (cessione, affitto, conferimento d’azienda), seppure volte a un mutamento della originaria compagine aziendale, non possono dirsi prive del requisito della «continuità» in caso di risanamento traslativo indiretto. In altri termini, il concordato con continuità indiretta è ascrivibile alla categoria del concordato con continuità aziendale.

Il Tribunale si pone in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza e dalla dottrina che qualifica il piano di concordato contenente l’“affitto-ponte” come un concordato prettamente liquidatorio, escluso dall’alveo del concordato con continuità aziendale perché mancante del requisito fonda-mentale della continuità diretta.

Infatti, in via diametralmente opposta, i giudici affermano che l’introdu-zione nell’ordinamento dell’articolo 186-bis l. fall. non consente di aderire

343 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

all’orientamento sopra richiamato: sia il concordato con ristrutturazione (o, meglio, con continuità diretta) sia quello con cessione o con continuità indi-retta sono ascrivibili alla categoria del concordato con continuità aziendale. Quest’ultimo modello, infatti, ipotizza proprio una continuazione fisiologica della vita dell’azienda, si trovi in capo all’originario imprenditore ovvero in capo a terzi affittuari-acquirenti.

Il Tribunale ritiene, inoltre, che la qualificazione come concordato con continuità aziendale sia coerente con i principi generali dettati dal Codice civile in materia di lavoro, nonché con le disposizioni previste in tema di azienda e del relativo trasferimento; norme che delineano una evidente con-tinuità giuridica, non solo ideale, nei rapporti tra l’azienda ceduta e quella subentrante.

Tale orientamento è stato, di recente, confermato dal Tribunale di Como (Decreto 9 febbraio 2017).

La proposta era strutturata attraverso il meccanismo dell’affitto di azien-da finalizzato a una successiva cessione attraverso l’individuazione di due soggetti interessati all’acquisto dei rispettivi rami d’azienda.

Il Tribunale valorizza – in particolare – la volontà del legislatore, sempre più evidente e favorevole alla continuità aziendale, in tutte le sue forme, an-che quella indiretta. In questa prospettiva è decisivo il peso del disegno di legge delega sulla crisi d’impresa. In esso si trova, tra i principi di delega, un’indicazione chiara: «Dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi, assicurando la con-tinuità aziendale anche tramite un diverso imprenditore, riservando la liqui-dazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un’idonea soluzione al-ternativa».

Si versa, quindi, nell’ipotesi di concordato preventivo con continuità aziendale indiretta anche nel caso in cui la proposta sia strutturata attraverso il meccanismo dell’affitto di azienda finalizzato a una successiva cessione attraverso l’individuazione di due soggetti interessati all’acquisto dei rispet-tivi rami d’azienda.

Per ragioni di completezza, vale la pena rammentare che il Tribunale di Livorno ha recentemente (Decreto 8 marzo 2017) ammesso al concordato preventivo una società pubblica affidataria in house di servizi locali. Se le società in house possono fallire (v. Cass. n. 3196/2017) – questo il ragiona-mento – possono anche utilizzare gli altri strumenti della legge fallimentare, fra cui il concordato con continuità aziendale.

344 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6. Le offerte concorrenti

Come è noto, la disciplina del concordato preventivo è stata significati-vamente modificata ad opera della recente “Miniriforma” di cui al d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con la l. 6 agosto 2015, n. 132.

In particolare, è stato introdotto il nuovo art. 163-bis l. fall., che prevede l’apertura di una procedura competitiva rispetto all’offerta avanzata da un soggetto individuato, in ordine al trasferimento in suo favore – verso corri-spettivo in denaro – dell’azienda o di uno o più rami d’azienda o di specifici beni; la finalità è sia di massimizzare la recovery dei creditori concordatari, sia di mettere a disposizione dei creditori concordatari una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore.

Come sottolineato nella Relazione illustrativa, nella prassi il piano con-cordatario prevede – non di rado – la cessione dell’azienda, di uno o più ra-mi d’azienda dell’impresa in crisi oppure di beni di rilevante valore (ad esempio, immobili) a terzi già individuati. Generalmente non vi è la garanzia che le condizioni economiche pattuite con il terzo assicurino il miglior rea-lizzo dell’azienda e dunque sia massimizzata la recovery dei creditori con-cordatari. Questo rischio risulta particolarmente elevato nei casi in cui la controparte del debitore non sia terza e indipendente rispetto a quest’ultimo ovvero quando il debitore non abbia previamente esperito un procedimento competitivo. Al fine di massimizzare la recovery dei creditori concordatari e di mettere a loro disposizione una terza possibilità, oltre a quella se accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore, la norma stabilisce che è possi-bile, nel pieno rispetto del piano del debitore e solo quando questo preveda una cessione con corrispettivo in denaro, prevedere l’apertura a possibili of-ferte competitive che siano migliorative nel quantum senza alterare l’origi-nario piano. Ciò anche al fine di delimitare esattamente la ratio della norma e non creare confusioni con l’istituto limitrofo dei piani concorrenti.

La nuova disposizione (comma 1) consente la presentazione di altre of-ferte concorrenti in modo che le condizioni economiche assicurino il miglior realizzo dell’azienda e il ristoro dei creditori concordatari. Infatti, come già si è detto, il rischio di non ottenere le migliori condizioni economiche risulta particolarmente elevato nei casi in cui la controparte del debitore non sia in-dipendente rispetto a quest’ultimo o quando il debitore non abbia già esperi-to un procedimento competitivo.

In particolare, si prevede che quando il piano di concordato comprende una offerta da parte di un soggetto già individuato, avente ad oggetto il tra-sferimento in suo favore – anche prima dell’omologazione, verso un corri-spettivo in denaro o comunque a titolo oneroso – dell’azienda o di uno o più

345 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

rami d’azienda o di specifici beni, il tribunale dispone la ricerca di interessa-ti all’acquisto e l’apertura di un procedimento competitivo. Le disposizioni si applicano anche quando il debitore ha stipulato un contratto che abbia la finalità del trasferimento non immediato dell’azienda, del ramo d’azienda o di specifici beni.

Il tribunale dispone quindi, con decreto, l’apertura del procedimento com-petitivo che deve:

• stabilire le modalità di presentazione di offerte irrevocabili; • prevedere che ne sia assicurata in ogni caso la comparabilità; • stabilire i requisiti di partecipazione degli offerenti; • stabilire le forme e i tempi di accesso alle informazioni rilevanti, gli even-

tuali limiti al loro utilizzo e le modalità con cui il commissario deve fornir-le a coloro che ne fanno richiesta;

• stabilire la data dell’udienza per l’esame delle offerte; • stabilire le modalità di svolgimento della procedura competitiva, le garan-

zie che devono essere prestate dagli offerenti e le forme di pubblicità del decreto.

È poi previsto che l’offerta di cui al comma 1 (quella iniziale) diviene ir-revocabile dal momento in cui viene modificata in conformità a quanto pre-visto dal decreto e viene prestata la garanzia stabilita con il decreto medesi-mo.

Le offerte devono essere presentate in forma segreta e non sono efficaci qualora non conformi al decreto e, comunque, se sottoposte a condizione. Le offerte medesime sono, inoltre, rese pubbliche nell’udienza appositamente fissata, alla presenza degli offerenti e di qualunque interessato.

Se sono state presentate più offerte migliorative, il giudice dispone la ga-ra tra gli offerenti. La gara può svolgersi nella stessa udienza o in un’udien-za immediatamente successiva, ma deve concludersi prima dell’adunanza dei creditori, anche quando il piano preveda che la vendita o l’aggiudicazio-ne abbia luogo dopo l’omologazione.

In ogni caso, con la vendita o con l’aggiudicazione – se precedente – a soggetto diverso da colui che ha presentato l’offerta iniziale, quest’ultimo è liberato dalle obbligazioni eventualmente assunte nei confronti del debitore e in suo favore il commissario dispone il rimborso delle spese e dei costi so-stenuti per la formulazione dell’offerta, entro il limite massimo del 3% del prezzo in essa indicato.

Come sottolineato dalla Relazione illustrativa, in tal modo si vuole evita-re che la prospettiva di una procedura competitiva abbia effetti disincenti-vanti rispetto alla presentazione di proposte di acquisto durante la fase ini-

346 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

ziale del processo di risoluzione concordata della crisi. Il tetto al rimborso è invece diretto a evitare un’eccessiva lievitazione a carico della procedura dei costi.

Ovviamente, il debitore deve modificare la proposta e il piano di concor-dato in conformità all’esito della gara.

La comparabilità delle offerte garantisce che siano confrontabili tra loro e non richiedano una variazione sostanziale del piano (con il rischio che esso divenga, altrimenti, non più fattibile). In questo modo, come precisato dalla Relazione illustrativa, si è ritenuto di assicurare che la presentazione di of-ferte concorrenti sull’azienda, su uno o più rami d’azienda o su specifici be-ni non costituisca ostacolo al complessivo progetto di superamento in via concordata della crisi predisposto dall’imprenditore in difficoltà. Infatti, l’of-ferta migliorativa avrebbe soltanto l’effetto, nel quadro del medesimo piano, di aumentare il valore di realizzazione del bene (o dei beni) per cui il piano già in origine prevedeva la cessione. Ciò, chiaramente, non significa che, in caso di offerta migliorativa, non sia necessario apportare modifiche al piano e alla proposta.

L’ultimo comma del nuovo art. 163-bis l. fall. stabilisce, poi, che la nuo-va disciplina deve essere applicata – in quanto compatibile – anche all’affitto di azienda o di uno o più rami d’azienda e alle cessioni nella fase del concordato con riserva. Tale previsione ha l’effetto di legittimare la prassi delle cessioni in pendenza del termine per la presentazione del piano e della proposta ai sensi dell’art. 161, comma 6, l. fall., che in certi casi si ri-velano particolarmente opportune tenuto conto del rischio – in relazione alle caratteristiche specifiche dell’attività economica svolta dall’impresa – di perdita dell’avviamento o della continuità aziendale in danno dei creditori.

7. Le proposte concorrenti

Altra modifica di rilievo è quella costituita dall’introduzione della disci-plina delle proposte concorrenti. In particolare, sono stati modificati alcuni articoli della legge fallimentare con l’obiettivo di rendere possibile ai credi-tori la presentazione di proposte di concordato alternative a quella formulata dall’imprenditore; i creditori potranno, quindi, optare per la proposta che meglio tuteli i loro interessi. Le finalità sono quelle di massimizzare la reco-very dei creditori concordatari e di mettere a loro disposizione una possibili-tà ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore.

In particolare, come sottolineato dalla Relazione illustrativa, si perseguo-

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no due importanti obiettivi: a) offrire ai creditori strumenti per impedire che il debitore presenti proposte che non rispecchiano il reale valore dell’azienda – appropriandosi, così, integralmente del surplus di ristrutturazione, ossia del maggiore valore creato dalla riorganizzazione rispetto all’alternativa del-la liquidazione fallimentare –, anche quando ai creditori non sia offerta l’in-tegrale soddisfazione dei loro crediti, benché riscadenzati; b) creare i pre-supposti per la nascita, anche in Italia, di un mercato dei distressed debt, già da tempo sviluppatosi in altri Paesi (tra cui, in particolare, gli Stati Uniti d’America) in modo da consentirne un significativo smobilizzo. Eventuali investitori interessati a compiere un’operazione di acquisto e risanamento di un’impresa in concordato, per poter presentare una proposta alternativa, do-vrebbero infatti acquistare crediti nei confronti dell’impresa in concordato per un valore pari almeno al 10 per cento dell’indebitamento di quest’ultima. Se poi l’investitore volesse assicurarsi il successo della propria proposta la percentuale di crediti che dovrebbe essere acquistata sarebbe molto maggiore.

Più in dettaglio, è stato modificato l’art. 163 l. fall. concernente l’ammis-sione alla procedura di concordato preventivo.

Come è noto, quest’ultimo – nel disciplinare l’ammissione alla procedura di concordato preventivo – (prevedeva e tuttora) prevede che il tribunale – ove non abbia provveduto a norma dell’art. 162, commi 1 e 2, l.f. – con de-creto non soggetto a reclamo dichiara aperta la procedura di concordato pre-ventivo; se sono previste diverse classi di creditori, il tribunale provvede analogamente, previa valutazione della correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi.

Con il provvedimento di cui al comma 1, il tribunale:

• delega un giudice alla procedura di concordato; • ordina la convocazione dei creditori non oltre trenta giorni dalla data del prov-

vedimento e stabilisce il termine per la comunicazione di questo ai creditori; • nomina il commissario giudiziale, osservate le disposizioni degli artt. 28 e

29 l. fall.; • stabilisce il termine non superiore a quindici giorni entro il quale il ricor-

rente deve depositare nella cancelleria del tribunale una somma pari al 50 per cento delle spese che si presumono necessarie per l’intera procedura, ovvero una diversa minor somma, non inferiore al 20 per cento di tali spe-se, che sia determinata dal giudice. Su proposta del commissario giudizia-le, il giudice delegato può disporre che le somme riscosse vengano investi-te secondo quanto previsto dall’art. 34, comma 1, l. fall. Qualora non sia eseguito il deposito prescritto, il commissario giudiziale deve provvedere a norma dell’art. 173, comma 1, l. fall.

348 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Anzitutto, per effetto della c.d. “Miniriforma”, il termine per la convoca-zione dei creditori ordinata dal tribunale è stato portato da 30 a 120 giorni dalla data del provvedimento del tribunale medesimo.

Inoltre, al fine di disciplinare le c.d. “Proposte concorrenti”, sono stati in-trodotti quattro nuovi commi, dopo il terzo.

Anzitutto, si prevede che uno o più creditori, i quali – anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda di concordato – rappre-sentino almeno il 10% dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale, possono presentare una proposta concorrente di concordato preventivo e il relativo piano non oltre 30 giorni prima dell’adunanza dei creditori. Il 10% viene computato senza considerare i crediti della società che controlla la so-cietà debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a co-mune controllo. La relazione che deve accompagnare il piano e la relativa documentazione può essere limitata alla fattibilità del piano per quegli aspet-ti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale e può essere omessa qualora non ve ne siano.

Viene, poi, stabilita – quale condizione di inammissibilità delle proposte concorrenti – la circostanza che, se nella relazione di cui all’art. 161, comma 3, l. fall., il professionista attesti che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o – nel caso di concordato con continuità aziendale di cui all’art. 186-bis l. fall. – di almeno il 30% dell’ammontare dei crediti chiro-grafari.

Si aggiunge che i creditori che presentano una proposta di concordato concorrente hanno diritto di voto sulla medesima solo se collocati in una au-tonoma classe.

Infine, si stabilisce che – se la proposta concorrente prevede diverse clas-si di creditori – prima di essere comunicata ai creditori, deve essere sottopo-sta al giudizio del tribunale che verifica la correttezza dei criteri di forma-zione delle diverse classi.

8. La continuità aziendale nel Disegno di legge di riforma della crisi d’impresa

Il Disegno di legge di riforma della crisi d’impresa, prevede – nell’ambi-to dei Principi (art. 2, comma 1, lett. g), d.d.l.) – che venga data «priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il supe-ramento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un di-verso imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei credi-

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tori e purché la valutazione di convenienza sia illustrata nel piano, riservan-do la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un’idonea so-luzione alternativa».

Nel contempo, si demanda al legislatore delegato (art. 6, lett. a)) di «pre-vedere l’ammissibilità di proposte che abbiano natura liquidatoria esclusi-vamente quando è previsto l’apporto di risorse esterne che aumentino in mi-sura apprezzabile la soddisfazione dei creditori; è assicurato, in ogni caso, il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare complessivo dei crediti chiro-grafari».

Infine, si affida l’incarico al legislatore delegato (art. 6, lett. l)) «di inte-grare la disciplina del concordato con continuità aziendale, prevedendo:

• che tale disciplina si applica anche alla proposta di concordato che preve-da la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non fun-zionali all’esercizio dell’impresa, a condizione che possa ritenersi, a se-guito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale;

• che tale disciplina si applica anche nei casi in cui l’azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di con-cordato».

350 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Gli aspetti penali del trasferimento d’azienda: qualificazione distrattiva o dissipativa Guglielmo Guglielmi

Oggetto del presente intervento sono gli «aspetti penali del trasferimento di azienda»; in particolare l’attenzione è posta alle ipotesi di bancarotta pa-trimoniale per distrazione e dissipazione.

Nel ricordare che la disciplina del trasferimento di azienda (o anche solo di un ramo) è imperniata sui contratti tipici quali vendita, usufrutto, affitto, ma che è applicabile a qualsiasi fattispecie traslativa della proprietà o del godi-mento, con i dovuti adattamenti 1, si ritiene che per affrontare il tema suindica-to risulti opportuno, dopo qualche cenno alla disciplina del reato di bancarotta patrimoniale, esaminare la Giurisprudenza con riferimento ad ipotesi di trasfe-rimento di azienda, con qualche «digressione» verso pronunce relative ad ipo-tesi di scissione, in ragione dell’analogia di molte tematiche trattate.

In estrema sintesi, il reato di bancarotta trova la sua disciplina nella c.d. legge fallimentare, vale a dire il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942 ed in particolare negli artt. 216 (bancarotta fraudolenta dell’imprenditore indi-viduale), 217 (bancarotta semplice), 223 (bancarotta societaria o impropria fraudolenta) e 224 (bancarotta societaria o impropria semplice).

Con riferimento alle ipotesi più ricorrenti nella Giurisprudenza penale esaminata relativamente al trasferimento di azienda, si rileva il ricorrere, in special modo, di ipotesi di bancarotta fraudolenta propria patrimoniale ex art. 216 l. fall., con particolare riferimento alle condotte di distrazione o, molto meno di frequente, di dissipazione, ovvero di ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria o societaria di cui all’art. 223 l. fall., comma 1, che sanziona i fatti di bancarotta fraudolenta ex art. 216 commessi da amministratori, direttori ge-nerali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite; anche in questo caso, ci si riferisce principalmente alle condotte di distrazione e dissipazione.

1 Cfr. M. SPIOTTA, L’Organizzazione dell’attività, in G. COTTINO (a cura di), Lineamenti di diritto commerciale, Zanichelli, Milano, 2016, 81.

351 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

In breve, per distrazione si intende una condotta a forma libera, consi-stente nel distogliere un bene dallo scopo dovuto, costituito, secondo la pre-valente Dottrina, dalla funzione di garanzia per i creditori 2.

In Giurisprudenza si riscontrano molteplici indirizzi, sostanzialmente ri-conducibili a decisioni che qualificano la distrazione come sottrazione dei beni alla garanzia dei creditori ed altre che fanno leva su una diversa desti-nazione del patrimonio rispetto a quella che lo stesso deve avere nell’impresa.

Circa la dissipazione, la stessa viene in estrema sintesi definita quale de-pauperamento dell’attivo in funzione di soddisfazioni estranee a ragionevoli esigenze di impresa 3, dagli sperperi voluttuari e sproporzionati alle spese socialmente apprezzabili ma patrimonialmente insostenibili, quali ad es. le spese di beneficenza; la dissipazione, dunque, comprende qualsiasi disper-sione di beni (di regola denaro) effettuata per scopi estranei all’impresa 4.

Costituisce noto esempio di bancarotta fraudolenta per dissipazione la decisione del Tribunale di Roma (Sez. VI, 10 ottobre 2015, n. 14243) pro-nunciatasi in merito alla «Vicenda Alitalia». Tale decisione ha dichiarato la natura dissipativa e distrattiva dell’operazione straordinaria di scorporo di cinque rami d’azienda della società Alitalia spa (nello specifico, quelli non core, dedicati ai servizi di terra), conferiti ad una nuova società (sostenuta finanziariamente da un socio di controllo diverso da Alitalia). «La menzio-nata duplicazione delle strutture, secondo la ricostruzione giudiziale, lungi dal rifocalizzare l’azienda sul proprio core business, “cagionò inefficienze produttive, duplicazioni di funzioni di controllo, conflittualità interna, ca-renze nei flussi informativi cui sono conseguiti solo diseconomie”, stante le criticità in termini di “correttezza sostanziale dell’operazione e di economi-cità della scelta in termini di gestione aziendale”» 5.

Proseguendo con i cenni penalistici, secondo Dottrina e Giurisprudenza

2 Cfr. C. PEDRAZZI, Reati fallimentari, in C. PEDRAZZI-A. ALESSANDRI-L. FOFFANI-S. SEMINARA-G. SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, Parte generale e reati fal-limentari, Monduzzi, Milano, 2003, 121 ss.

3 Così E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, Diritto penale dell’impresa, IV ed., Zanichelli, Bologna, 2016, 311.

4 Cfr. A. ROSSI Reati fallimentari, in ANTOLISEI, Manuale di Diritto penale. Leggi com-plementari, vol. II, XIII ed. a cura di C.F. GROSSO, Giuffrè, Milano, 2014, 117, che specifica come d’ordinario la dissipazione implica una pluralità di atti, ma a costituirla può bastare anche una sola azione, purché ne derivi un rilevante pregiudizio per i creditori, trattandosi di una erogazione «smodata».

5 Così L. MESSORI, La bancarotta per dissipazione nella «vicenda Alitalia»: profili pena-li della responsabilità manageriale nelle scelte di gestione, in Cass. Pen., 2016, 10, 3856.

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prevalenti l’oggetto giuridico tutelato dalla bancarotta patrimoniale è l’inte-resse dei creditori a soddisfarsi sul patrimonio del debitore, come affermato in tema di responsabilità patrimoniale dal disposto di cui all’art. 2740 c.c., secondo il quale il debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbli-gazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri.

Soggetto attivo è l’imprenditore (individuato dall’art. 2082 c.c.) dichiara-to fallito con riferimento alla bancarotta propria, cui debbono aggiungersi i soci illimitatamente responsabili di snc e sas ex art. 222 l. fall., mentre nella bancarotta societaria vengono in rilievo amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori.

Tali ultimi soggetti, ai sensi dell’art. 236 l. fall., risultano destinatari delle disposizioni di cui agli artt. 223 e 224 l. fall. anche in caso di concordato preventivo ovvero di accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o di convenzione di moratoria.

Possono infine essere soggetti attivi l’amministratore di fatto, nonché l’e-ventuale concorrente extraneus, responsabile con l’intraneus ai sensi dell’art. 110 c.p.

Con riferimento ai soggetti attivi, si richiama il tema della responsabilità dei singoli componenti degli organi societari collegiali poiché, come rilevato da autorevole Dottrina, «nel diritto penale del fallimento si verifica ciò che avviene per buona parte delle fattispecie penali societarie le quali, astrat-tamente perpetrabili in esecuzione monosoggettiva dai diversi destinatari delle stesse, vengono tuttavia non di rado in concreto realizzate nell’ambito di organismi pluripersonali precostituiti con le ipotesi più frequenti che hanno riguardo proprio all’attività antigiuridica realizzata in ed attraverso essi» 6.

Viene altresì in rilievo il tema del concorso dell’amministratore di fatto con quello di diritto c.d. «testa di legno» 7. Sul punto, la Giurisprudenza ri-tiene configurabile la responsabilità omissiva del prestanome poiché questi, con l’accettazione della carica, avrebbe assunto ed accettato obblighi di im-pedimento e controllo 8. Ciò in particolar modo, tuttavia, con riferimento alla

6 Cfr. ROSSI, Reati Fallimentari, cit., 184. 7 Sul punto diffusamente E. M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 300 ss. 8 Cfr. E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 301 che richiamano Cass. pen.,

Sez. V, 7 gennaio 2015 n. 7332, secondo cui: «In tema di bancarotta fraudolenta, l’ammi-nistratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrug-ga o dissipi i beni sociali, la quale non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia ac- 

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bancarotta documentale, in cui vi sono diretti obblighi di tenuta delle scrittu-re da parte dell’amministratore di diritto; con riferimento invece alla banca-rotta patrimoniale per distrazione non sarebbe legittima, secondo recente Giurisprudenza, la presunzione automatica del dolo di sottrazione dell’am-ministratore di diritto 9.

In generale, si ricorda che al fine di ravvisare la responsabilità del terzo estraneo ex art. 110 c.p. occorrono:

• attività tipica di almeno un soggetto «proprio»; • influenza causale sul verificarsi dell’evento; • consapevolezza della qualifica del soggetto proprio e della lesione degli

interessi dei creditori (desumibile, per alcuni, dalla coscienza dello stato di decozione dell’impresa) 10.

Quanto al concorso per omesso impedimento, ex art. 40 cpv. c.p., occorre:

• la sussistenza in capo al soggetto di una posizione di garanzia; • l’omissione di un comportamento dovuto volto all’impedimento della com-

missione di un reato da parte del soggetto attivo «proprio» previsto dalla norma incriminatrice;

• la consapevolezza del compimento da parte del soggetto «proprio» di un reato;

cettato di ricoprire formalmente la carica di amministratore; tuttavia allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da presta-nome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità pena-le.» (fattispecie relativa ad un’ipotesi di distrazione di somme di denaro).

9 Cfr. E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 302 che richiamano Cass. pen., sez. V, 14 maggio 2013 n. 37305, la cui massima recita: «in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in caso di concorso ex art. 40, comma 2, c.p., dell’amministratore formale nel reato commesso dall’amministratore di fatto, il dolo del primo può configurarsi anche come eventuale ed essere integrato dall’omesso controllo sulla tenuta delle scritture che dimostra la rinuncia a porre in essere quelle attività idonee a prevenire il pericolo di distrazioni e, di conseguenza, l’accettazione del rischio che esse possano verificarsi». Tale decisione ha af-fermato che: «pur essendo esatto che nei confronti dell’imprenditore meramente formale non può automaticamente operare la presunzione di responsabilità in caso di mancato repe-rimento, privo di giustificazione, di beni dei quali sia accertata la disponibilità prima della pronuncia di fallimento, tuttavia l’accettazione della titolarità dell’impresa rende il soggetto tenuto all’agire informato, secondo quanto tra l’altro imposto dalle norme del codice civile agli amministratori».

In merito, si veda il commento di A. ZACCHIA, Osservazioni a Cass. Pen., sez. V, n. 37305, 14 maggio 2013, in Cass. Pen., 2014, 10, 3402.

10 Cfr. E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 299 ss.

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• la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatri-ce 11.

Si tratta di uno schema cui risulta tipicamente riferibile la responsabilità omissiva dell’amministratore privo di delega, ovvero del sindaco, che vede la Giurisprudenza divisa con particolare riferimento all’individuazione del richiesto elemento soggettivo.

Accanto a pronunce che ritengono sufficienti «segnali di allarme» da cui desumere l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito, ovve-ro la volontaria omissione di attivarsi per impedirlo 12, ve ne sono altre che sottolineano come «conoscenza» e «conoscibilità» dell’evento (in questo ca-so del reato commesso da parte del soggetto proprio) non siano concetti so-vrapponibili 13.

In tema di concorso, appare interessante, tra le decisioni recenti relative ad ipotesi di trasferimento di azienda, Cass. pen., sez. V, 16 gennaio 2015, n. 15951, che ha ritenuto la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione mediante cessione di un ramo di azienda in base all’accertata de-stinazione della somma ottenuta con la cessione suddetta, peraltro giudicata modesta, a fini sociali, per il resto non risultando che il denaro fosse stato impiegato per ragioni inerenti all’attività di impresa 14.

11 Cfr. A. ROSSI, Illeciti penali nelle procedure concorsuali, in C.F. GROSSO-T. PADOVA-

NI-A. PAGLIARO, (diretto da) Trattato di diritto penale, Parte Speciale, Giuffrè, Milano, 2014, 45 ss.

12 Cfr. Cass. pen., sez. V, 7 marzo 2014, n. 32352, relativa al «dissesto Parmalat». 13 Cfr. Cass. pen., sez. V, 2 novembre 2012, n. 42519. Sul punto, più diffusamente, E.M.

AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 303 ss., che sottolineano la presenza di analoghe decisioni in tema di responsabilità dei componenti del Collegio Sindacale, decisioni che ten-tano «con un percorso ricostruttivo non sempre lineare, di ricostruire la sussistenza del dolo da elementi sintomatici, la cui gravità – più che dimostrare direttamente l’elemento psicolo-gico più grave – vale più che altro ad escludere che quest’ultimo si fermi alla mera colpa».

14 Si veda anche – sebbene non attenga al trasferimento di azienda – Cass. pen., sez. V, 11 gennaio 2013 n. 20829, secondo cui: «In tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, deve ritenersi la configurabilità del reato anche nel caso in cui la distrazione venga fatta consistere in erogazioni a favore dei dipendenti della società poi dichiarata fallita, quando le stesse siano effettuate con danaro di quest’ultima senza adeguata contropartita ed in as-senza di valide garanzie, sì da potersi escludere che esse corrispondano ad un interesse economico della medesima società. In tal caso ben può ritenersi che anche il dipendente de-stinatario di dette elargizioni concorra nel reato, alla sola condizione che egli abbia la con-sapevolezza del loro carattere distrattivo, senza che sia, peraltro, necessaria, a tal fine, an-che la specifica conoscenza dello stato di dissesto».

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Tale decisione, in particolare, specifica come: «In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare impropria, la condotta distratti-va, non potendo essere compiuta interamente dall’amministratore, ad ecce-zione dei casi in cui la disponibilità dei beni dell’impresa fallita è conserva-ta dallo stesso, si manifesta, di regola, nella forma del concorso di persone nel reato, poiché è necessario il contributo dei soggetti che, in quanto titola-ri di funzioni nella procedura concorsuale, sono in grado di adottare gli atti dispositivi dei beni del fallimento o di consentire il compimento della azioni distrattive»; in particolare, la Corte ritiene immune da vizi la sentenza che aveva affermato il concorso nel reato dell’amministratore della società falli-ta, del curatore fallimentare e del giudice delegato, in relazione ad una tran-sazione, autorizzata da quest’ultimo, con la quale, realizzandosi effetti pre-giudizievoli per i creditori, erano state alienate l’azienda e gli immobili dell’im-presa a due società gestite dallo stesso amministratore della fallita.

In tema di concorso nel reato (nel caso in esame, del consulente) si veda anche Cass. pen., sez. V, 10 dicembre 2015, n. 8349, che ha confermato la responsabilità penale concorsuale, nella distrazione operata dagli ammini-stratori della società fallita, del legale consulente sia della società fallita sia della società che ne aveva rilevato il magazzino il quale, nella consapevo-lezza dei propositi distrattivi, aveva prestato la propria assistenza legale nel-la predisposizione degli strumenti giuridici idonei a determinare la sottrazio-ne del valore reale del magazzino ai creditori, svolgendo peraltro anche un’at-tività di consulenza diretta a favorire e rafforzare il proposito criminoso de-gli amministratori 15.

Si veda, ancora, Cass. pen., sez. V, 7 ottobre 2016, n. 42572, che ha sta-tuito che il cessionario della società fallita, unitamente al consulente che so-vrintende alla conclusione dei relativi contratti, risponde di concorso esterno in bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, laddove sia provato il contributo apportato all’operazione fittizia 16. La sentenza valorizza la vici-nanza temporale delle operazioni, i vincoli di conoscenza del fallito, il man-cato pagamento di un prezzo congruo e la distrazione di rilevanti commesse

15 Più specificamente la distrazione sarebbe stata realizzata tramite la predisposizione di un contratto estimatorio, nell’ambito di un piano concordatario il cui programma prevedeva come principale pilastro negoziale del trasferimento dell’azienda ad una società, proprio la stipulazione del suddetto contratto estimatorio.

16 La Corte sottolinea la necessità della volontarietà dell’apporto e della consapevolezza che esso incida in modo determinante sul complessivo depauperamento del patrimonio so-ciale, su cui la legge pone un preciso vincolo di disponibilità, finalizzandone l’impiego al-l’adempimento delle obbligazioni contratte nel corso dell’attività di impresa.

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trasferite a una costituita newco, rilevando l’attuazione di un’operazione so-stanzialmente fittizia 17.

Oggetto materiale delle condotte succitate è rappresentato dai beni dell’imprenditore (bancarotta propria) ovvero dai beni della società (banca-rotta societaria); in Dottrina si specifica che, oltre ai beni sui quali l’impren-ditore o la società vantano diritti reali, vanno ricompresi altresì i diritti sui beni immateriali e, in generale, tutti i rapporti giuridicamente rilevanti ed e-conomicamente valutabili, nonché i beni futuri, purché vi sia una tutela giu-ridica e non una mera aspettativa di fatto 18.

Si sottolinea in proposito l’assoluta rilevanza dei diritti di proprietà indu-striale (si pensi ai diritti sui brevetti per invenzioni industriali, marchi, dise-gni ecc.) per il notevole valore di natura economica che possono assumere.

Quanto all’elemento soggettivo della bancarotta c.d. patrimoniale, si assi-ste in Dottrina ad un dibattito dovuto principalmente all’assenza, nel dato normativo, dell’espressione «allo scopo di recare pregiudizio ai creditori», che parrebbe riferita esclusivamente alle condotte di esposizione/riconosci-mento di passività inesistenti.

Le posizioni sul punto risultano vieppiù variegate: accanto a chi ritiene che, nonostante il dato letterale, il requisito psicologico sia sempre il dolo specifico, da ritenersi implicitamente previsto nelle ipotesi in cui non vi sia un espresso richiamo normativo 19, vi è chi, conformemente alla Giurispru-denza maggioritaria, ritiene invece che sia sufficiente il dolo generico, con-sistente nella coscienza e volontà di compiere atti di distrazione/dissipazione

17 Cfr. B. BRUNO, Bancarotta, concorso per il consulente, in Il Sole 24 Ore, 17.11.2016. 18 Cfr. T. COLETTA, L’oggetto materiale del reato di bancarotta patrimoniale, in Cass.

Pen., 2005, 1437. Sul punto A. ROSSI, Reati Fallimentari, cit., 96, precisa che costituiscono oggetto materiale anche i beni pervenuti nel corso della procedura.

19 A. ROSSI, ult. op. cit., 123, che riprendendo sul punto le affermazioni di Francesco An-tolisei, ribadisce che «i fatti di bancarotta costituiscono di regola l’esercizio di un diritto, avendo per oggetto beni che appartengono all’agente e, per tale ragione, non potrebbero considerarsi giuridicamente illeciti se non pregiudicano i legittimi interessi dei creditori. In conseguenza, per costruire con correttezza il contenuto del dolo è necessario che i fatti con-templati dalla legge non solo siano consapevolmente voluti, ma anche posti in essere col proposito e con lo scopo di pregiudicare gli interessi dei creditori». Sul punto L. CONTI, vo-ce «Fallimento (reati in materia di)», in Digesto Pen., V, Utet, Torino, 1991, 23, afferma che se il dolo specifico «si esige nel caso di simulazione di passività, la volontà di offendere le ragioni dei creditori, quanto meno nella forma del dolo eventuale, non può mancare nelle altre ipotesi, se è vero, come non par dubbio, che un’identica ratio presiede ai due gruppi di figure delittuose e che l’essenza della bancarotta va appunto ravvisata nell’offesa all’inte-resse dei creditori».

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con la consapevolezza della possibilità di danno alle ragioni dei creditori 20. Circa il ruolo della sentenza dichiarativa del fallimento, in caso di banca-

rotta postfallimentare, la stessa viene considerata presupposto del reato, men-tre in caso di condotta prefallimentare, viene qualificata dalla Dottrina do-minante quale condizione obiettiva di punibilità 21.

Per quanto riguarda la Giurisprudenza, la maggior parte delle pronunce ritiene che la sentenza di fallimento sia un elemento costitutivo del reato, sebbene non richieda la sussistenza né di un vero nesso di causalità né di un collegamento psicologico tra condotta e fallimento 22; si segnala sul punto una recentissima decisione che, invece, ha affermato che nei reati di banca-rotta prefallimentare la sentenza dichiarativa di fallimento è condizione obiettiva di punibilità 23.

Terminate queste brevi premesse e tornando al cuore del presente inter-vento, relativo alle condotte distrattive/dissipative in rapporto alla disciplina del trasferimento di azienda, appare utile fornire una panoramica di alcune pronunce sul tema, scelte tra le più recenti e rappresentative, idonee cioè ad illustrare quali condotte possano essere sussunte, e a quali condizioni, sotto il paradigma in primis della distrazione.

Al fine di evidenziare la molteplicità di forme che può assumere la di-strazione, è sufficiente riferire che la Suprema Corte, in decisioni recenti, ha ad esempio ritenuto sussistere una condotta distrattiva:

• nella cessione senza corrispettivo di un’intera azienda di proprietà dell’im-putato, a società anch’essa appartenente in parte all’imputato, con sede nel medesimo luogo della prima e identica attività commerciale (nel caso di specie di vendita di auto; cfr. Cass. pen., sez. V, 11 marzo 2015, n. 24295); L’addebito contestato aveva ad oggetto l’intera azienda della società falli-

ta, comprensiva e dell’avviamento e di una serie di beni strumentali (compu-ter, stampanti ed altro) detenuti in leasing, oltre alla sede e al personale; in proposito la Suprema Corte ha potuto affermare, sulla scia della Giurispru-denza maggioritaria, che: «Non può costituire oggetto di distrazione l’avvia-mento commerciale di una azienda ove questo venga identificato come pro-

20 Sul punto, R BRICCHETTI-L. PISTORELLI, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, Dottrina e Giurisprudenza a confronto, Giuffrè, Milano, 2011, 103 ss., che parlano di «con-sapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alle finalità dell’impresa e di compiere atti che cagionino o possano cagionare danno ai creditori».

21 Cfr. ad es. L. CONTI, cit., 19 ss. 22 Così E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 292. 23 Cfr. Cass. pen., sez. V, 8 febbraio 2016, n. 13910.

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spettiva di costituire rapporti giuridici solo teoricamente immaginabili e dunque con specifico riferimento allo sviamento di clientela. Tuttavia l’av-viamento è invece suscettibile di distrazione quando, contestualmente, è sta-ta oggetto di disposizione anche l’azienda medesima o quanto meno i fattori aziendali in grado di generare l’avviamento» 24;

• nella cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale (cfr. Cass. pen., sez. V, 22 gennaio 2013 n. 17965 25).

Proseguendo, risulta interessante, in particolare sotto il profilo della le-sione alla garanzia dei creditori, Cass. pen. sez. V, 2 aprile 14, n. 16989, in quanto confermativa dell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale inte-gra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di ramo di azienda che renda non più possibile l’utile perseguimento dell’oggetto socia-le senza garantire contestualmente il ripiano della situazione debitoria; la S.C. ha tra il resto sottolineato come, nel caso di specie, il contratto di affitto di azienda che costituiva l’unico asset produttivo della fallita, prevedesse la costituzione di una opzione triennale di acquisto in favore dell’affittuario che finiva per gravare in maniera negativa sugli interessi dei creditori, ren-dendo più difficile, nell’ottica liquidatoria concorsuale, l’eventuale colloca-zione della società fallita sul mercato.

Ancora, tra le decisioni più recenti, è possibile citare Cass. pen., sez. V, 12 aprile 2016, n. 18997, pronunciatasi in merito ad un’ipotesi di bancarotta patrimoniale societaria per dissipazione/distrazione di un’azienda, ceduta

24 Ancora, si veda Cass. pen., sez. V, 19 marzo 2014, n. 26542, secondo cui: «Ai fini del-la configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta è necessario che la distrazione sia ri-ferita a rapporti giuridicamente ed economicamente valutabili, con la conseguenza che non può costituire oggetto di distrazione l’avviamento commerciale di un’azienda ove questo venga identificato come prospettiva di costituire rapporti giuridici solo teoricamente imma-ginabili». (Fattispecie in cui la Corte ha escluso che potesse costituire condotta distrattiva l’avere l’agente indirizzato i principali clienti della società fallita alla impresa individuale con la quale aveva proseguito l’attività produttiva al fine di favorire la instaurazione di futuri rapporti contrattuali in capo a quest’ultima).

25 Che ha ritenuto sussistente un’ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale a carico di un soggetto in qualità di componente del cda di una srl, esercente attività di commercio di materiali edili e noleggio di automezzi e macchine da cantiere, per avere distratto determina-ti beni ovvero il ricavato della loro vendita, ed in particolare alienando per un prezzo mai versato, il principale ramo d’azienda ed i relativi beni strumentali, successivamente conferito dallo stesso acquirente nel patrimonio di una neocostituita srl ad integrale sottoscrizione ed acquisto di quote sociali per un importo complessivo di molto maggiore del prezzo, così da creare passività accertate per un valore doppio rispetto alle attività residue.

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durante la procedura di concordato preventivo per un prezzo sensibilmente inferiore al valore di mercato, cessione peraltro approvata dal comitato dei creditori ed autorizzata dal giudice delegato.

Tale decisione si è pronunciata sul ricorso del terzo interessato avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame aveva confermato un decre-to di sequestro preventivo di un’ingente somma, desumendo il fumus com-missi delicti da una complessa operazione ritenuta distrattiva, in quanto ten-dente a svuotare le risorse della società in concordato; ciò nonostante fossero intervenute formali approvazioni ed autorizzazioni degli organi della proce-dura.

La S.C. ha annullato il provvedimento impugnato ritenendo che fosse sta-ta svilita la funzione della rete di controlli apprestati dalla legge a tutela dell’interesse dei creditori nella cessione dei beni concordatari; ciò in quanto non era stato esaminato se fosse stata libera, o invece frutto di ingannevole prospettazione, la scelta di autorizzare l’operazione da parte degli organi della procedura.

Pare a questo punto opportuno ricordare come, in virtù del disposto dell’art. 236 l. fall. (commi 2 e 3), le fattispecie – per quanto qui interessa – di cui agli artt. 223 e 224 l. fall., trovino applicazione anche in caso di pro-cedure diverse dal fallimento; ci si riferisce alle nuove forme di soluzioni concordate della crisi, il cui ricorso è sempre più frequente atteso il partico-lare momento del Paese.

In merito a tale ipotesi, interessa una recente decisione 26 relativa ad un’im-putazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione o dissipa-zione di risorse di una spa ammessa al concordato preventivo.

Nel caso in esame, l’imputato era accusato di aver consumato la condotta non come liquidatore giudiziale, qualifica rivestita nell’ambito della proce-dura di concordato, ma come amministratore di fatto della società e come amministratore di fatto e di diritto delle società collegate beneficiarie delle condotte di spoliazione: in tali diversificati ruoli avrebbe indotto gli organi concorsuali ad approvare le operazioni aventi natura distrattiva.

La vicenda consente alla S.C. di ribadire come: «Le condotte di spolia-zione di una società ammessa al concordato, addebitate all’amministratore, non sono “coperte” dal decreto di omologa e possono assumere rilevanza penale: l’art. 217 bis legge fall. esclude la responsabilità per le operazioni compiute in esecuzione di un concordato preventivo solo con riferimento ai delitti di bancarotta semplice e preferenziale, e non anche quando si ravvi-

26 Cfr. Cass. pen., sez. V, 19 ottobre 2016, n. 51277 .

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sino fatti concretanti un delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, qua-li appunto l’aver distratto o dissipato risorse della società».

Si veda, ancora, Cass. pen., sez. V, 8 gennaio 2016, n. 8926, pronunciata-si in merito ad un’ipotesi di bancarotta per distrazione commessa tramite un insieme di operazioni negoziali (tra cui cessione di rami di azienda posta in essere mentre era pendente una domanda di concordato preventivo e sotto l’ombrello di un piano di risanamento aziendale ex art. 67, comma 3, l. fall.).

A parere della S.C., il debitore non aveva nessuna facoltà di vendere tutti i beni aziendali, approfittando del fatto che non venne immediatamente pub-blicata la sentenza di fallimento «giacché tale attività – posta in essere, al di fuori di qualsiasi procedura pubblicistica, quando la società non era, paci-ficamente, in grado di soddisfare tutte le sue obbligazioni – concreta indi-scutibilmente un’attività distrattiva, dal momento che privava l’impresa del-la totalità del patrimonio senza nessuna garanzia di soddisfacimento inte-grale dei creditori».

Né l’attività era divenuta lecita per la presentazione di un piano di risa-namento aziendale che, peraltro, «non si sottrae alla valutazione di con-gruenza e fattibilità del giudice penale (come non si sottrae, in caso di suc-cessivo fallimento, alla valutazione del giudice civile) allorché sia strumen-talmente destinato a “proteggere” attività negoziali che, per essere svolte in un momento di crisi dell’impresa, si appalesano idonee a distogliere il pa-trimonio dalla sua finalità tipica (la garanzia per i creditori)».

Si ritiene a questo punto di inserire nella sintetica panoramica sin qui esposta anche qualche riferimento a decisioni aventi ad oggetto, quali con-dotte «distrattive», ipotesi di «scissione», e ciò in ragione, come accennato, dell’analogia di numerose tematiche trattate.

Viene in primo luogo in rilievo Cass. pen., sez. V, 18 gennaio 2013, n. 10201, pronunciatasi in sintesi in merito ad un’ipotesi di distrazione di una somma di denaro da una spa dichiarata fallita mediante una scissione con creazione di una newco, cui veniva attribuita una rilevante liquidità.

Tale decisione risulta interessante in quanto afferma che in caso di scissione mediante costituzione di nuova società, l’assegnazione a quest’ultima di sole attività non costituisce di per sé un fatto di distrazione qualora la società scissa venga successivamente dichiarata fallita; ciò in quanto non esiste alcuna norma del diritto societario che impone di attribuire alla società scorporata ovvero alla nuova società costituita un’eguale porzione di attività e passività ed in quanto – soprattutto – nel caso di scissione, i diritti dei creditori sono adeguatamente sal-vaguardati dalle disposizioni che prevedono il loro diritto di opposizione al pro-getto di scissione e, ancor più, dalla norma che impone la solidarietà, nei limiti dell’attivo conferito, della società scorporata o creata ex novo.

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Ancora, si veda Cass. pen., sez. V, 13 giugno 2014, n. 42272, che ha in-vece statuito che la scissione di una società, poi fallita, che porta alla crea-zione di una nuova società, con il passaggio in capo a quest’ultima di tutti i beni attivi della prima, possa integrare gli estremi del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, qualora presenti i connotati intrinseci di offensi-vità «nei confronti della garanzia generica che il patrimonio dell’impren-ditore, secondo la previsione dell’art. 2740 c.c.».

Ciò che infatti rileva «è che una determinata operazione, per le modalità con le quali è stata realizzata, si presenti come produttiva di effetti immedia-tamente e volutamente depauperativi del patrimonio” sebbene sia ai credito-ri “riconosciuto il diritto di rivalersi sui beni conferiti alle società beneficia-rie (…) è vero altresì che un pregiudizio per gli stessi è comunque ravvisa-bile nella necessità di ricercare detti beni».

Ma soprattutto, rileva la S.C., all’esito di tale ricerca i creditori potrebbe-ro «dover concorrere con i portatori di crediti nel frattempo maturatisi nei confronti delle società beneficiarie».

In termini conformi anche Cass. pen., sez. V, 10 aprile 2015, n. 20370 27, la quale ribadisce la necessità, ai fini del giudizio sulla ravvisabilità del rea-to, di una valutazione in concreto che tenga conto dell’effettiva situazione debitoria in cui versava la società poi fallita al momento della scissione.

Tornando al tema «principale» del trasferimento di azienda, risulta infine di assoluto interesse una recente decisione, relativa alla cessione di un ramo di impresa in stato fallimentare a prezzo corrispondente alla differenza tra attività e passività, che rendeva tuttavia la cedente priva di beni ed impossi-bilitata a proseguire, con conseguente sottrazione delle garanzie per i credi-tori non compresi nel trasferimento 28.

Tale decisione, pronunciatasi in merito ad un’operazione complessa, comprensiva della trasformazione di una società con cessione di immobili che attraverso passaggi societari tornavano nella disponibilità della stessa, il tutto mentre la società era già in fase di decozione, ha statuito che: «Il reato di bancarotta fraudolenta (nelle forme della distrazione o della dissipazio-ne, ovvero nella determinazione dolosa del dissesto) non consiste soltanto nella dismissione di beni (in particolare, di rami d’azienda) senza corrispet-

27Si tratta di una decisione relativa ad una fattispecie in cui la società, poi fallita al mo-mento della scissione era stata oggetto di una verifica tributaria, si trovava in stato di insol-venza ed a suo danno erano state effettuate ulteriori operazioni depauperatorie, quali l’affitto di azienda a favore di una terza società per una somma insignificante, mentre la società be-neficiaria era ascrivibile ai congiunti dell’amministratore della società poi fallita.

28 Cfr. Cass. pen., sez. V, 1 aprile 2015, n. 42024.

362 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

tivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, ma è integrata anche da attività e comportamenti che, sebbene corrispondenti all’esercizio di facoltà legittime riconosciute dall’ordinamento all’imprenditore, tuttavia rechino consapevolmente danno all’impresa, in quanto la liceità di ogni operazione dipende dai suoi riflessi sul patrimonio dell’imprenditore, sulla “salute” dell’impresa e sulla capacità dei beni aziendali di soddisfare le ragioni del ceto creditorio».

In particolare: la S.C. insegna come «Diversa deve essere la valutazione delle iniziative imprenditoriali a seconda che le stesse concernano un’im-presa in bonis o in stato prefallimentare: infatti, se nel primo caso la poten-zialità offensiva (per il ceto creditorio) di quelle iniziative deve essere og-getto di puntuale dimostrazione, da condurre – con giudizio ex ante – con criteri rigorosi e sulla base di elementi oggettivi (che tengano conto del li-vello dell’indebitamento, della consistenza patrimoniale dell’impresa e della sua capacità, anche prospettica, di produrre reddito) – poiché trattasi di giudizio che interferisce con i principi dell’autonomia privata, della libertà gestionale e della libera disponibilità dei beni da parte dell’imprenditore – e deve investire in pieno la condizione soggettiva di quest’ultimo, di cui deve essere dimostrata la consapevolezza di recare offesa ai creditori; nell’im-presa in stato prefallimentare quella valutazione deve necessariamente te-nere conto della situazione precaria dell’impresa e della sua potenziale dis-solvenza».

L’esame della Giurisprudenza sopra sinteticamente e parzialmente citata, e in primis la sentenza da ultimo riportata, spingono ad una serie di conside-razioni che riguardano lo stato della Giurisprudenza come insufflata dalle indicazioni della più autorevole Dottrina.

Innanzitutto, l’esame consente di affermare come non sia possibile, a fronte del pedissequo rispetto degli istituti civilistici di settore, per ciò solo escludere la responsabilità penale.

In particolare, non possono considerarsi di per sé sufficienti i rimedi ap-prontati a tutela dei creditori sul fronte civilistico (il riferimento ad esempio è alla disciplina della trasmissione dei contratti, dei crediti e dei debiti con-tenuta negli artt. 2558 ss. c.c. con riferimento al trasferimento di azienda ed all’art. 2506-quater c.c. relativamente alla scissione).

Occorre comunque operare una valutazione in concreto che consenta di appurare se le condotte tenute, da valutarsi attentamente nel loro complesso, pongano o meno in pericolo la garanzia dei creditori depauperando il patri-monio.

Dunque, in caso di dimostrata situazione di insolvenza o, peggio, di uno stato di crisi (il riferimento è alla disciplina del concordato preventivo ex art.

363 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

160 l. fall.), particolarmente attenta sarà la valutazione, da parte della magi-stratura, in ordine alle condotte tenute tanto dai soggetti attivi del reato oltre che dall’eventuale consulente o professionista che potrebbe rispondere quale concorrente ai sensi dell’art. 110 c.p., avendo ispirato o consapevolmente sup-portato le scelte indebite praticate. Come autorevolmente sottolineato, le operazioni negoziali potrebbero in concreto venire strumentalizzate verso un fine eteronomo 29.

Per evitare pur sempre possibili fraintendimenti o ingiustificati giudizi di valore, non può che essere raccomandato, per quanto possibile, il ricorso ai risultati dell’elaborazione teorico-pratica degli operatori della materia, che potranno fornire utili indicatori in merito alla legittimità o meno di determi-nate operazioni.

Ad esempio, al fine di verificare in sede penal-fallimentare il corretto uti-lizzo dell’istituto dell’affitto di azienda, soccorreranno le indicazioni in tema di determinazione del canone congruo di locazione d’azienda nelle procedu-re concorsuali, come esposte nel Documento CNDCEC intitolato La deter-minazione del canone congruo di locazione d’azienda nelle procedure con-corsuali (Roma, 2016).

In ogni caso, e con esclusivo riferimento alla fase dell’accertamento giu-diziale, anche in considerazione del fatto che l’intento fraudatorio in senso lato nei confronti dei creditori costituisce la chiave di interpretazione delle norme penal-fallimentari in discorso, ecco che potrebbe utilmente soccorrere l’indagine in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

Sul punto la Giurisprudenza è orientata circa la sufficienza del dolo gene-rico, essendo richiesta all’agente la consapevolezza del pregiudizio – anche potenziale – alla garanzia dei creditori e non la rappresentazione del falli-mento.

È sufficiente infatti che «la condotta di colui che pone in essere o con-corre nell’attività distrattiva sia assistita dalla consapevolezza che le opera-zioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo o che la finalità di determinarlo colori il dolo del reato come specifico (Sez. 5^, n. 9807 del 13 febbraio 2006, Caimmi ed altri, Rv. 234232)» 30.

29 Così E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 310. 30Cfr. Cass. pen., sez. V, 2 aprile 2014, n. 16989, cit. In merito si precisa che le Sezioni

Unite (ma non è questa la questione devoluta), hanno affermato che l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio so- 

364 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Per concludere, sia in ordine all’elemento soggettivo, sia ancor prima all’antigiuridicità della condotta, preme citare Cass. pen., sez. V, 16 giugno 2015, n. 49622, secondo cui: «Il delitto di bancarotta fraudolenta patrimo-niale punisce il depauperamento dell’impresa consistente nell’aver destina-to le risorse della stessa a scopi estranei all’oggetto sociale, in cui la rap-presentazione e la volontà dell’agente attiene alla deminutio patrimoni e non al successivo fallimento. Si configura dunque come reato di pericolo concreto in cui la concretezza assume la sua dimensione effettiva nel mo-mento in cui interviene la dichiarazione di fallimento»; consegue a tale af-fermazione il fatto che: «deve dunque restare esente da pena il soggetto che distragga enormi risorse alla società se la stessa ha comunque a disposizio-ne riserve ben più rilevanti e idonee a fronteggiare le eventuali pretese cre-ditorie, posto che in tal caso il pericolo di pregiudizio per i creditori non as-sume la concretezza richiesta dall’ordinamento» 31.

Conclusi questi cenni in tema di bancarotta per distrazione/dissipazione, si segnala che ulteriore fattispecie potenzialmente configurabile per il tra-mite di operazioni negoziali attinenti al trasferimento di azienda, è quella di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, l. fall., che sanziona amministratori, di-rettori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite, i quali ab-biano cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.

Si tratta di un delitto di evento, in cui l’evento naturalistico è costituito dal «fallimento», espressione su cui è fiorito un acceso dibattito tra coloro i quali fanno riferimento alla sentenza dichiarativa del fallimento 32 piuttosto

ciale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (cfr. Cass. pen., sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474).

31 Pronunciandosi in merito ad una serie di condotte tra cui, in occasione del conferimen-to del ramo di azienda da una cooperativa ad una srl l’alienazione gratuita alla stessa di mar-chio, know-how, autorizzazioni amministrative, rapporti contrattuali con la clientela, nonché di crediti verso soci.

32 Cfr. A. ROSSI, Reati Fallimentari, cit., 221. L’Autrice sottolinea in proposito che «France-sco Antolisei e Luigi Conti, nelle precedenti edizioni del Manuale, avevano, in un quadro di in-terpretazione sistematica, posto nel maggiore risalto che il fallimento, nelle ipotesi qui al vaglio, non veniva in considerazione nel suo profilo formale ma nel suo aspetto sostanziale, come stato obiettivo di insolvenza (dissesto) sfociato nella dichiarazione del tribunale». Si veda anche la me-desima Autrice, in ID., Causazione del fallimento della società «con dolo o per effetto di opera-zioni dolose»: peculiarità, anomalie testuali e controversie esegetiche alla luce della sentenza sul capo Parmalat – Capitalia, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, secondo cui: «sul presuppo-sto che l’evento naturalistico è rappresentato dal fallimento formalizzato, il dissesto potrà, indiffe-rentemente, o essere stato effettivamente determinato ovvero anche “semplicemente” simulato».

365 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

che al dissesto naturalisticamente considerato, e coloro che invece hanno ri-levato che l’espressione «dissesto» contenuta negli artt. 223 cpv. n. 1 e 224 n. 2 l. fall. sia da identificarsi con l’espressione «fallimento» di cui alla fatti-specie in esame, facendo leva su un’interpretazione sistematica.

La locuzione «con dolo» va intesa come preordinazione dolosa del falli-mento, la cui causazione può essere determinata con le più varie modalità, anche sotto forma di causazione omissiva, trattandosi di fattispecie a forma libera 33.

Quanto alle operazioni dolose, si ritiene che le stesse comprendano qual-siasi comportamento delle persone preposte alla gestione ed al controllo del-la società che, implicando l’abuso di potere o la violazione dei doveri ine-renti alla loro qualità, rechi pregiudizio 34, compresi i reati non elencati nel n. 1 del secondo comma dell’art. 223.

Venendo alla Giurisprudenza, risulta di interesse Cass. pen., 20 maggio 2014, n. 40998, che ha qualificato quale «operazione dolosa» la vendita a prezzo di mercato di un bene immobile costituente l’unico ramo d’azienda di una società e che, pur se seguita dall’effettivo conseguimento del corrispet-tivo, aveva tuttavia privato l’impresa della possibilità di svolgere l’attività per cui era stata costituita.

Si veda anche, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, Cass. pen., sez. V, 4 gennaio 2017, n. 533, che ha annullato con rinvio un’ipotesi di banca-rotta per operazioni dolose, sulla scorta del fatto che l’amministratore si era attivato – anche a costo di commettere irregolarità amministrative edilizie, se non proprio reati edilizi – per evitare il dissesto, frutto della condotta im-prudente e della propria inesperienza (la fattispecie concerneva la gestione di un multisala), di tale che tale condotta dimostrava, a parere dell’organo giudicante, l’assenza dell’elemento soggettivo doloso richiesto dalla norma incriminatrice.

Ancora, è possibile ipotizzare l’integrazione del reato di bancarotta c.d. preferenziale, ex art. 216, comma 3, l. fall., a mente del quale «È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la proce-dura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione».

Differentemente dalle fattispecie sinora citate, il bene protetto è ravvisa-

33 Cfr. A ROSSI, Causazione, cit., 34 Cfr. A. ROSSI, Causazione, cit., secondo cui: «Poiché nell’ipotesi in esame non si esige

neppure la volizione indiretta del fallimento della società, la quale, per la ragione indicata, deve ritenersi compresa nella causazione con dolo, il dubbio che ci si trovi di fronte ad un caso di responsabilità oggettiva è forte».

366 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

bile più che altro nella lesione della par conditio creditorum attuata median-te – per l’ipotesi che qui interessa – l’esecuzione in via preferenziale di pa-gamenti.

La fattispecie, inoltre, presuppone l’effettiva pre-esistenza di un credito, anche non liquido ed esigibile 35. Il pagamento deve essere pregiudizievole ai creditori, dunque il reato non si perfeziona ove venga pagato un creditore privilegiato se nella massa attiva vi sia capienza sufficiente per soddisfare tutti i creditori con pari privilegio.

In merito, parte della Dottrina sottolinea la rilevanza dell’art. 67, comma 3, l. fall., il cui attuale testo prevede una serie di pagamenti (in senso lato) esclusi dall’azione revocatoria, ritenendo che tali esenzioni civilistiche inci-dano sulla fattispecie di reato che non si potrà considerare oggettivamente realizzata 36. Altri Autori, invece, si limitano a rilevare l’incidenza di tali esenzioni sull’elemento soggettivo del reato.

In tema di bancarotta preferenziale e trasferimento di azienda è possibile ad esempio citare Cass. pen., Sez. V, 13 novembre 2014, n. 2286, che ha confermato la condanna nei confronti dell’amministratrice di una società, poi fallita, la quale aveva ceduto ad una società creditrice, a cui l’imputata era interessata, un punto vendita, sottraendolo in tal modo alla garanzia dei creditori. In proposito, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che: «L’elemento soggettivo del delitto di bancarotta preferenziale è costituito dal dolo specifico, che è ravvisabile ogni qualvolta l’atteggiamento psicolo-gico del soggetto agente sia rivolto a favorire un creditore con la consape-volezza, anche solo eventuale, di recare pregiudizio agli altri» 37.

35 Cfr. E.M. AMBROSETTI-E. MEZZETTI-M. RONCO, cit., 322 36 Cfr. A ROSSI, Reati Fallimentari, cit., 145. 37 In concreto, la Corte ha rilevato che: «il pagamento preferenziale fu accompagnato da

accorgimenti tesi a mascherare la reale natura dell’operazione; vale a dire: 1) l’acquisto del punto vendita, con pagamento per cassa (quindi, indimostrato) dalla (...). sas solo un mese prima della successiva cessione; 2) la vendita alla (...) srl, cui la stessa R. era interes-sata, e il successivo trasferimento del bene ad una società gravitante nell’orbita del credito-re (la (...) spa); 3) la consegna, alla venditrice, di sedici assegni che non furono mai incas-sati, ma restituiti brevi manu ai dirigenti del gruppo (...) spa, al fine di simulare l’avvenuto pagamento».

  

Diritto ed economia dell’impresa

ascicolo 6|2016

Approfondimenti

368 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Il contenzioso bancario e finanziario. Antinomia fra norme primarie e norme secondarie e interazioni fra giudizio civile e giudizio penale: spigolature di matematica finanziaria Luciano M. Quattrocchio-Bianca M. Omegna

SOMMARIO

1. Premessa. – 2. Una passeggiata tra tassi, coefficienti e indici. – 2.1. La nozione di interesse e di tasso di interesse. – 2.2. Segue: la nozione di tasso di interesse “reale”. – 2.3. I parametri “ufficia-li”. – 3. Segue: la nozione di sinallagma finanziario. Definizione di “operazione finanziaria”. – 4. Il quadro normativo di riferimento. – 4.1. Premessa. – 4.1.1. La disciplina civilistica. – 4.1.2. La disciplina penalistica. – 4.2. L’usura: usura originaria e usura sopravvenuta. – 4.2.1. Premessa. – 4.2.2. Le Istruzioni fornite dalla Banca d’Italia con riguardo alle operazioni di conto corrente. – 4.2.3. La verifica del superamento del “tasso soglia”. – 4.2.4. L’usura sopravvenuta. – 5. La ma-tematica finanziaria deterministica: i contratti di conto corrente. – 5.1. Il contenuto dell’estratto-conto. – 5.2. Il contenuto del riassunto a scalare. – 5.3. Il calcolo degli interessi. – 5.4. La prescri-zione: rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie. – 5.5. Il regime dell’interesse composto: l’effetto anatocistico della capitalizzazione. La Delibera del C.I.C.R. 9 febbraio 2000. – 5.6. La modifica introdotta dalla “Legge di stabilità 2014”. Il “passaggio” dal regime dell’interesse composto a quello dell’interesse semplice. – 5.7. L’introduzione (definitiva) dell’anatocismo annuale. – 5.8. Le conseguenze di natura tecnica. – 6. Segue: Il credito al consumo: finanziamenti contro cessio-ne del quinto dello stipendio e contratti di leasing. – 6.1. I finanziamenti contro cessione del quin-to dello stipendio. – 6.1.1. Il quadro normativo. – 6.1.2. Le nuove istruzioni emanate dalla Banca d’Italia con effetto dalle rilevazioni per il terzo trimestre 2009. – 6.1.3. Un caso pratico. – 6.1.3.1. Descrizione delle condizioni contrattuali. Contratto di mutuo contro cessione di quote di stipen-dio. – 6.1.3.2. Esposizione del criterio di calcolo seguito. – 6.1.3.3. La base-dati. – 6.1.3.4. Con-tratto di prestito contro cessione di quote dello stipendio. – 6.1.3.5. Confronto con i tassi soglia usurari. – 6.1.3.6. Tasso Annuo Effettivo Globale. Esposizione del criterio di calcolo seguito. – 6.1.3.7. Contratto di prestito contro cessione di quote dello stipendio. – 6.1.3.8. Conclusioni. – 6.2. I contratti di leasing. Un caso pratico. – 6.2.1. Descrizione delle condizioni contrattuali. – 6.2.2. Esposizione del criterio di calcolo seguito. – 6.2.2.1. Premessa. La formula utilizzata. – 6.2.2.2. L’applicazione alla fattispecie oggetto di indagine. – 6.2.2.2.1. Il calcolo sulla base dei dati desunti dal Piano di Ammortamento. – 6.2.2.2.2. Il calcolo sulla base dei dati rielaborati (al netto dell’I.V.A.). – 6.2.2.2.3. Il calcolo sulla base dei dati rielaborati (al lordo dell’I.V.A.). – 6.2.2.2.4. Confronto con i tassi soglia usurari. – 6.2.3. Conclusioni. – 7. L’ammortamento del mu-

369 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

tuo. – 7.1. Considerazioni di carattere generale. – 7.2. Un caso pratico. – 8. Gli interessi di mora. – 8.1. L’elaborazione giurisprudenziale. – 8.2. Un caso pratico. – 9. La matematica finanziaria dell’incertezza: le polizze unit linked e index linked. – 9.1. Definizione di “operazione attuariale”. – 9.2. Le polizze vita tradizionali. – 9.3. Il contratto di assicurazione. – 9.4. Le assicurazioni sulla vita: concetti generali. – 9.5. Le assicurazioni sulla vita con prestazioni flessibili. – 9.6. Le polizze linked. – 9.7. Analisi tecnica dei “prodotti”. Profili di tecnica assicurativa. – 9.7.1. Nozioni di ba-se. – 9.7.2. Le assicurazioni sulla vita: tipologie. – 9.7.2.1. Le assicurazioni caso morte. – 9.7.2.2. Le assicurazioni caso vita. – 9.7.2.3. Le assicurazioni miste. – 9.7.3. La componente demografica e la componente finanziaria. – 9.7.4. La genesi delle polizze unit linked e index linked. – 9.7.5. Le caratteristiche strutturali delle polizze unit linked e index linked. – 9.7.5.1. Considerazioni genera-li. – 9.7.5.2. Le polizze unit linked. – 9.7.5.3. Le polizze index linked. – 9.7.5.4. Le differenze ri-spetto alle polizze rivalutabili. – 9.7.5.5. La riserva matematica. – 10. Segue: gli interest rate swap, tra curve dei tassi e commissioni implicite. – 10.1. Considerazioni di carattere generale. – 10.1.1. I contratti derivati sui tassi d’interesse: caratteri generali e tipologie applicative. – 10.1.2. Aspetti generali dei contratti di interest rate swap. – 10.1.3. Utilizzo degli swap per trasformare le passività. – 10.1.4. Valutazione degli swap su tassi di interesse. – 10.1.5. Segue: le tecniche di va-lutazione. – 10.1.5.1. Premessa. – 10.1.5.2. Tassi spot e tassi forward. – 10.1.5.3. Procedimento di valutazione degli interest rate swap. – 10.1.5.4. Gli interest rate swap come scommesse. – 10.1.5.5. Il rischio di controparte. – 10.1.5.6. Conclusioni. – 10.2. Un caso pratico. – 10.2.1. Le condizioni contrattuali. – 10.2.2. Esame tecnico del contratto di interest rate swap. – 10.2.2.1. Premessa. – 10.2.2.2. Caratteristiche del contratto. – 10.2.2.3. Analisi del contratto. – 10.2.2.4. Verifica dell’eventuale superamento del tasso soglia usurario. – 10.2.2.4.1. Premessa. – 10.2.2.4.2. L’esclusiva considerazione del tasso di interesse. – 10.2.2.4.3. La considerazione del tasso di mora. – 10.2.2.5. Calcolo del mark to market. – 10.2.2.6. Efficacia delle coperture. – 10.2.2.7. Conclusioni.

1. Premessa

Con l’obiettivo di fornire lo strumentario di base, di natura sia tecnica sia giuridica, per affrontare con cognizione di causa le questioni riguardanti gli illeciti bancari e finanziari, saranno sviluppati – seppure soltanto per sommi capi – gli argomenti di seguito indicati:

1. Una passeggiata tra tassi, coefficienti e indici. 2. Segue: la nozione di sinallagma finanziario. Definizione di “operazione

finanziaria”. 3. La matematica finanziaria deterministica: i contratti di conto corrente. 4. Segue: il credito al consumo, tra finanziamenti contro cessione del quinto

dello stipendio e contratti di leasing. 5. L’ammortamento del mutuo. 6. Gli interessi di mora. 7. La matematica finanziaria dell’incertezza: le polizze unit linked e index linked. 8. Segue: gli interest rate swap, tra curve dei tassi e commissioni implicite.

370 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

2. Una passeggiata tra tassi, coefficienti e indici

2.1. La nozione di interesse e di tasso di interesse L’interesse è un valore assoluto e costituisce il “costo finanziario” del ca-

pitale. Esso è calcolato in funzione del capitale, del tasso di interesse e del periodo di maturazione.

Il tasso di interesse è una misura relativa e corrisponde all’incidenza dell’interesse – “costo finanziario” del capitale – sul capitale medesimo. Es-so viene normalmente espresso in misura percentuale 1.

Si ponga peraltro attenzione alla circostanza che la locuzione “per cento” potrebbe indurre in un errore applicativo. Infatti, l’espressione 10% (dieci per cento) deve essere interpretata – dal punto di vista matematico – nel sen-so di 10/100 (dieci diviso cento), e cioè della misura relativa di un interesse pari a 10 rapportato ad un capitale pari a 100; con l’ovvia conseguenza che 10% equivale a 10/100 = 0,10.

La matematica finanziaria fornisce varie nozioni di tasso di interesse – quali, tra le altre, il “Tasso Annuo”, il “Tasso Periodico”, il “Tasso Effetti-vo”, il “Tasso Nominale”, il “Tasso Reale”, ecc. – con significati profonda-mente diversi.

Il “Tasso Annuo” è il tasso di interesse rapportato ad anno; esso può es-sere capitalizzato n volte all’anno, con n che può assumere valori da zero a +∞ (tendente ad infinito) 2. La capitalizzazione degli interessi n volte al-l’anno determina la “trasformazione” in capitale degli interessi maturati alla fine di ciascun periodo (ad esempio, il trimestre); con la conseguenza che, nel periodo successivo, gli interessi maturati nel periodo precedente – e og-getto di capitalizzazione – perdono la loro natura di interessi ed assumono quella di capitale. Nei rapporti di conto corrente bancario, la capitalizzazione degli interessi è di norma avvenuta, sino ad oggi, trimestralmente (n = 4) 3.

La capitalizzazione degli interessi è indicata, nell’art. 1283 c.c. con l’e-spressione “anatocismo”, dal greco “anà” – nel significato di “sopra” – e “to-

1 Sul tema dei tassi di interesse si vedano MISHKIN-EAKINS-FORESTIERI, Istituzioni e mer-cati finanziari, Milano-Torino, 2012, 35 ss.

2 In tale ultimo caso si parla propriamente di capitalizzazione continua, nel senso che la capitalizzazione si produce a ogni istante.

3 Come osservato da Trib. Torino, 20 aprile 2012 (Est. Dott. BRUNO CONCA), inedita, «… la liquidazione degli interessi viene fatta dalla banca trimestralmente e, quindi, gli interessi maturati nei trimestri concorrono alla determinazione del capitale di riferimento per il tri-mestre successivo».

371 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

kòs” – nel significato di “prodotto” –; ossia “interesse prodotto sull’interesse” 4. Il “Tasso Periodale” è il tasso di interesse rapportato ad un periodo infran-

nuale; esso è pari al “Tasso Annuale” diviso per il numero di periodi. Nei rap-porti di conto corrente bancario, il “Tasso Periodale” è un “Tasso Trimestra-le”; pertanto, esso è pari a: Tasso Annuale / 4. E così, se – ad esempio – il “Tasso Annuale” è pari al 10%, il “Tasso Periodale” è pari al 2,5% = 10%/4.

Il “Tasso Effettivo” è il tasso di interesse annuo, equivalente al “Tasso Periodale” di periodo n, capitalizzato n volte all’anno. Il Tasso Effettivo è normalmente maggiore del Tasso Annuo, giacché risente dell’effetto di capi-talizzazione degli interessi; il Tasso Effettivo coincide con il Tasso Annuo soltanto nel caso in cui n = zero, ovvero n = 1, e cioè, nell’ipotesi in cui la capitalizzazione non intervenga nel corso dell’anno (assenza di capitalizza-zione o capitalizzazione annuale).

A titolo esemplificativo, si consideri il caso seguente, in cui dati i (“Tasso Annuale”, pari al 10%) e n (periodicità della capitalizzazione), si voglia de-terminare il “Tasso Effettivo”; ne conseguirebbero i risultati di seguito riportati:

n = periodicità della capitalizzazione

i = 10% tasso annuo

Tasso Effettivo

n = 1 10,00%

n = 2 10,25%

n = 4 10,38%

n = 12 10,47%

n tendente ad infinito 10,52%

4 Al riguardo v. BARBA, La disciplina legale dell’anatocismo nel sistema codicistico, in L’anatocismo nei contratti e nelle operazioni bancarie, a cura di Capaldo, Padova, 2010, 43 ss.

372 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Dalla tabella qui rappresentata, emerge come il “Tasso Effettivo” diverga progressivamente dal “Tasso Annuale” all’aumentare della periodicità di ca-pitalizzazione.

Da tale relazione derivano le seguenti conseguenze:

• il “Tasso Effettivo” coincide con il “Tasso Annuale” soltanto in completa assenza di capitalizzazione nel corso dell’anno o nel caso di capitalizza-zione alla fine dell’anno;

• il “Tasso Effettivo” costituisce l’unico tasso rappresentativo dell’onerosità del finanziamento in presenza di capitalizzazione infrannuale.

Al fine di apprezzare l’effetto della capitalizzazione in un intervallo di tempo ultrannuale, si riporta di seguito un esempio in cui – assunto in misu-ra pari a 100 il capitale inizialmente investito – si determinano gli effetti del-la capitalizzazione infrannuale su un intervallo di tempo che si estende sino a 10 anni (t = 1, t = 5, t = 10).

CAPITALE 100,00

MONTANTE t = 1 t = 5 t = 10

n = 0 110,00 150,00 200,00

n = 1 110,00 161,05 259,37

n = 2 110,25 162,89 265,33

n = 4 110,38 163,86 268,51

n = 12 110,47 164,53 270,70

n tendente ad infinito

110,52 164,87 271,83

Come è agevole rilevare, il montante (cioè il capitale comprensivo degli interessi) aumenta progressivamente al crescere sia della durata del finan-ziamento (t), sia della periodicità della capitalizzazione (n); ma con un risul-

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tato che, anche nell’ipotesi di capitalizzazione continua (n tendente all’in-finito), non è – per così dire – “esplosivo” (il montante passa da 200,00, in assenza di capitalizzazione, a 271,83, nell’ipotesi di capitalizzazione conti-nua).

2.2. Segue: la nozione di tasso di interesse “reale” La matematica finanziaria opera, altresì, una distinzione fra tasso di inte-

resse “nominale” e tasso di interesse “reale” 5. Il tasso di interesse “reale” corrisponde al tasso di interesse “nominale”

depurato degli effetti dell’inflazione. In termini matematici, tenuto conto dell’assioma fondamentale per cui le

percentuali non si sommano, né si sottraggono, dato n = tasso nominale ed f = tasso d’inflazione, il tasso reale (r) è dato dalla seguente formula

r = [(1 + n) / (1 + f)] – 1

e non invece, come è diffusa consuetudine fare,

r = n – f

Il tasso di interesse “reale” non viene in considerazione nei rapporti di conto corrente bancario, ma può assumere rilevanza nella quantificazione – o meglio, nell’“attualizzazione” – del danno risarcibile.

Normalmente, l’“attualizzazione” del danno risarcibile viene operata me-diante il riconoscimento dell’effetto composito della rivalutazione e degli interessi nella misura legale.

Il cumulo della rivalutazione e degli interessi legali persegue l’obiettivo di reintegrare il “danneggiato” nella stessa situazione patrimoniale nella qua-le si sarebbe trovato se il danno non fosse mai stato prodotto, ove la rivalu-tazione costituisce una riespressione a valori attuali del capitale originario – cioè non “contaminato” dall’effetto inflattivo – e gli interessi legali rappre-sentano la compensazione del danno subito a causa del ritardo nella corre-sponsione del capitale originario.

Al proposito, occorre sottolineare come – da un punto di vista strettamen-te finanziario – il risultato che si ottiene per effetto del “cumulo” della riva-

5 Sul punto si vedano MISHKIN-EAKINS-FORESTIERI, op. cit., 51 ss.

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lutazione monetaria e degli interessi legali conduce soltanto a un’appros-simazione dell’interesse “reale” e cioè, di una grandezza compensativa de-purata dagli effetti dell’inflazione.

Infatti, non è assolutamente detto che il tasso di interesse legale esprima un tasso di interesse reale e non risenta – in senso positivo o negativo – del tasso di inflazione.

Ma se la funzione degli interessi legali è quella di compensare il danno subito a causa del ritardo nella corresponsione del capitale originario, biso-gna forse richiamare la sentenza della Corte di Cassazione, nella quale – seppure nel contesto dei debiti di valuta – si osserva che: «la più comune e prudente forma di investimento del denaro ha una redditività superiore al tasso dell’interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di un’ob-bligazione pecuniaria, in linea di massima, continua a poter essere econo-micamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione» 6. Sulla base di tale premessa, la Suprema Corte esprime il principio secondo cui «nelle obbligazioni pecu-niarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il mag-gior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2 (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovu-ti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento – dovendo ritenersi superata l’esigenza di inquadrare a tale fine il creditore in una delle categorie a suo tempo indivi-duate – nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza del-la mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali deter-minato per ogni anno ai sensi dell’art. 1284 cod. civ., comma 1».

Ci si dovrebbe, pertanto, interrogare se – nelle controversie bancarie – pos-sa essere in qualche modo “adattato” il principio espresso dalla Suprema Cor-te in ordine all’opportunità di sostituire il tasso di rendimento dei titoli di Stato al tasso di interesse legale, attesa la maggiore rappresentatività del primo. Pe-raltro, occorrerebbe – forse – operare la scelta del tasso di riferimento alla luce dell’intervallo di tempo intercorso fra la sottoscrizione del contratto e la do-manda ripristinatoria, e cioè adottare un tasso di interesse di breve termine o di medio termine a seconda dei casi; ciò sul riflesso che – come è noto – può essere significativamente diverso il tasso dei Buoni Ordinari del Tesoro

6 Cass., sez. un., 16 luglio 2008, n. 19499, in Giur. It., 2009, 5, 1136, nota di VALORE.

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(B.O.T.) rispetto a quello dei Buoni del Tesoro Poliennali (B.T.P.). La solu-zione più semplice – tenuto conto dell’intervallo di tempo normalmente di medio termine – consisterebbe, peraltro, nell’adozione del c.d. “Rendistato”, indice calcolato dalla Banca d’Italia sulla base di un paniere composto da tutti i Buoni del Tesoro Poliennali (B.T.P.) quotati sul Mercato Obbligazionario Telematico (M.O.T.) e aventi vita residua superiore ad un anno.

Ma anche utilizzando un tasso di interesse maggiormente espressivo del rendimento ricavabile da un investimento alternativo, non si perverrebbe ad un completo ristoro del danno subito dal correntista, giacché non si terrebbe conto del vantaggio – economicamente e finanziariamente corretto – ritraibi-le dal reinvestimento, di anno in anno, dei frutti di tale investimento alterna-tivo. Occorrerebbe, quindi, maggiorare il risultato derivante dall’applicazio-ne cumulata della rivalutazione e degli interessi compensativi attraverso la loro “capitalizzazione”, così da poter tenere conto della misura del danno “reale” cagionato al correntista.

D’altronde, la matematica finanziaria insegna che il conteggio degli interessi secondo il c.d. “regime dell’interesse semplice” – senza capitalizzazione – ha senso soltanto per periodi molto brevi e, in ogni caso, inferiori all’anno. Per pe-riodi superiori, l’unico regime finanziario razionalmente applicabile è il c.d. “regime dell’interesse composto”, ossia, con capitalizzazione (almeno) annuale.

Prendendo quindi le mosse dalla constatazione per cui il riconoscimento dell’interesse nella misura legale o sulla base del c.d. “Rendistato” o di altro parametro desunto dai mercati finanziari, in periodi superiori all’anno, si pone in contrasto con qualsiasi principio di razionalità, sia economica, che finanziaria; si potrebbe ritenere che la quantificazione del danno non possa prescindere dalla capitalizzazione (almeno) annuale.

In merito all’eventuale sussistenza di un eventuale danno non patrimonia-le per la mancata o ritardata restituzione del capitale originario, vale la pena ricordare quanto affermato dall’Arbitro Bancario Finanziario in una pronun-cia relativa ad un caso in cui un soggetto – nell’ambito di un contratto ban-cario – «imputando alla banca inadeguata diligenza professionale ex art. 1176, comma 2 c.c. – per non avere tempestivamente rilevato l’anomalia delle operazioni di prelievo eseguite sul suo conto – lamentava un danno non patrimoniale conseguente ad “ansia, turbamento, grave limitazione del diritto di autodeterminazione”» 7.

Il Giudice adito ha formulato, in merito, il seguente principio, che sembra

7 Arbitro Bancario Finanziario, Decisione 26 marzo 2010, n. 169, in www.arbitrobancario finanziario.it.

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poter valere anche con riguardo ai rapporti di debito da noi esaminati: «A questo riguardo, è pertinente il richiamo alla pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 26972/2008 che, offrendo un’interpretazione costituzional-mente orientata dell’art. 2059 c.c., condiziona la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di un diritto della persona – nei casi in cui tale risarcibilità non sia prevista espressamente dalla norma – alla sus-sistenza di tre condizioni: a) che l’interesse leso abbia rilevanza costituzio-nale; b) che la lesione dell’interesse leso sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia di minima tollerabilità; c) che il danno non sia futile, os-sia che non consista in meri disagi o fastidi.

Nella fattispecie in esame (che era relativa alle conseguenze della clonazione di una carta bancomat: n.d.r.), valutando le allegazioni fattuali che il ricorrente ha enumerato a corredo della domanda ripristinatoria, alla luce del principio giurisprudenziale innanzi richiamato, non vi è alcun dubbio che la pretesa ri-pristinatoria risulti infondata in quanto carente delle tre circostanze condizio-nanti la risarcibilità del danno non patrimoniale esistenziale».

2.3. I parametri “ufficiali” La normativa primaria e secondaria assume a riferimento parametri –

quali il Tasso Annuo Nominale (c.d. T.A.N.), il Tasso Annuo Effettivo Glo-bale (c.d. T.A.E.G.) e il Tasso Effettivo Globale (c.d. T.E.G.) – non sempre coincidenti con quelli formalizzati dalla matematica finanziaria.

Il Tasso Annuo Nominale (T.A.N.) corrisponde al “Tasso Annuo” (v. su-pra); esso, in presenza di capitalizzazione infrannuale, non fornisce un’in-formazione significativa del “costo del credito”. Al contrario, il “Tasso Ef-fettivo” (ibidem) dà un’indicazione del “costo del credito” generato dalla so-la componente finanziaria; in sintesi, esprime – per così dire – l’‟onerosità finanziaria annua” del credito.

Tuttavia, come è noto, l’‟onerosità complessiva annua” del credito risen-te anche delle componenti “non finanziarie” del “costo del credito”. La mi-sura dell’‟onerosità complessiva annua” del credito è correttamente espressa dal Tasso Annuo Effettivo Globale (T.A.E.G.) 8. La formula di calcolo di ta-le grandezza, nei rapporti di conto corrente, è di la seguente:

8 Il TAEG, secondo l’art. 19 della Legge n. 142 del 1992 che lo ha introdotto nel nostro ordinamento, è: «il costo totale del credito per il consumatore espresso in percentuale annua del credito concesso e comprensivo degli interessi e degli oneri da sostenere per utilizzarlo, calcolato conformemente alla formula matematica che figura nell’allegato II alla direttiva del Consiglio 90/88/CEE».  

377 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

(Interessi e Oneri) x 36.500

T.A.E.G. = ––––––––––––––––––––––––––––––––

Numeri Debitori

Il Provvedimento della Banca d’Italia del 28 marzo 2013, in attuazione della Direttiva 2011/90/UE, all’Allegato 5B, ha poi stabilito che: «L’equazione di base, da cui risulta il TAEG, esprime su base annua l’eguaglianza fra la somma dei valori attualizzati di tutti i prelievi e la somma dei valori attualizzati dei rimborsi e dei pagamenti delle spese».

La formula riportata nell’Allegato 5B è la seguente:

m m

Ʃ CK × (1+X)-tk = Ʃ Dl × (1+X)-sl

k = 1 l = 1

dove: X è il TAEG, m è il numero d’ordine dell’ultimo utilizzo, k è il numero d’ordine di un utilizzo, sicché 1 ≤ k ≤ m, Ck è l’importo dell’utilizzo k, tk è l’intervallo di tempo, espresso in anni e frazioni di anno, compreso tra la data del primo uti-

lizzo e la data di ciascun utilizzo successivo, sicché tl = 0, m’ è il numero dell’ultimo rimborso o pagamento di spese, l è il numero di un rimborso o pagamento di spese, Dl è l’importo di un rimborso o pagamento di spese, sl è l’intervallo di tempo, espresso in anni e frazioni di anno, compreso tra la data del primo uti-

lizzo e la data di ciascun rimborso o pagamento di spese.

Osservazioni: a) Le somme versate da entrambe le parti in vari momenti non sono necessariamente del-

lo stesso importo, né sono versate necessariamente a intervalli eguali. b) La data iniziale è quella del primo utilizzo. c) Gli intervalli di tempo intercorrenti tra le date utilizzate nei calcoli sono espressi in

anni o frazioni di anno. Si assume che un anno sia composto da 365 giorni (366 giorni per gli anni bisestili), 52 settimane o 12 mesi di uguale durata, ciascuno dei quali costituito da 30,41666 giorni (vale a dire 365/12), a prescindere dal fatto che l’anno sia bisestile o meno.

d) Il risultato del calcolo è espresso almeno fino alla prima cifra decimale. Se la cifra de-cimale seguente è superiore o uguale a 5, la cifra del primo decimale è aumentata di uno.

378 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

La formula di calcolo del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.) è di seguito riportata:

Interessi x 36.500 Oneri x 100

T.E.G. = ––––––––––––––––– + ––––––––––––––––––––

Numeri Debitori Accordato

Pare opportuno sottolineare il fatto che sia il T.A.E.G., sia il T.E.G. non sono tassi di interesse, poiché tengono conto – anche – della componente “non finanziaria” del “costo del credito”; pare, quindi, preferibile qualificare gli stessi in termini di “tassi di onerosità”.

La determinazione del Tasso Effettivo Globale Medio (T.E.G.M.) da par-te del Ministero del Tesoro – ai sensi dell’art. 2, comma 1, legge n. 108 del 1996 – prende le mosse dai Tassi Effettivi Globali (T.E.G.) comunicati dalle Banche sulla base delle Istruzioni della Banca d’Italia. Esso, come si avrà modo di specificare meglio nel prosieguo, assume rilevanza nella determi-nazione del c.d. “Tasso Soglia” usurario.

3. Segue: la nozione di sinallagma finanziario. Definizione di “ope-razione finanziaria”

Un’operazione finanziaria consiste nello scambio di somme scadenti in epoche diverse, certe nella loro manifestazione e fisse o variabili (in funzio-ne di parametri di natura finanziaria) nel loro importo 9.

Nelle operazioni finanziarie deve essere verificato il rispetto della condi-zione di “equivalenza finanziaria”; cioè, di indifferenza (finanziaria) fra le somme – come si è detto certe nella loro manifestazione – scadenti in epoca diversa. L’indifferenza è valutata sulla base di un procedimento finanziario indicato con l’espressione “capitalizzazione” – attraverso il quale si trasferi-sce una somma in avanti nel tempo – ovvero “attualizzazione” – mediante il quale si trasferisce una somma in indietro nel tempo –; a tale fine si utilizza

9 Per una rassegna generale vedasi GABRIELLI-LENER, I contratti del mercato finanziario, Milano, 2011, 3 ss. e CAMPOBASSO, Testo Unico della finanza, Torino, 2002, 505 ss.

379 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

un tasso di interesse detto, a seconda della “direzione”, “tasso di capitalizza-zione” o “tasso di attualizzazione”.

L’operazione finanziaria più semplice è costituita dallo scambio di una somma scadente in una certa epoca, con un’altra somma scadente in epoca diversa.

1

0

In tale caso, il rispetto della condizione di equivalenza finanziaria pre-suppone l’esistenza di un tasso di interesse sottostante, di capitalizzazione o di attualizzazione – detto tasso interno di rendimento –, che rende indiffe-rente le due somme scadenti in epoche diverse. Ovviamente, in tale caso, il tasso di interesse – pur costituendo il “costo finanziario” dell’operazione – viene calcolato attraverso un procedimento complesso.

Un’operazione finanziaria un po’ più articolata è quella costituita dallo scambio di una somma scadente in una certa epoca con una serie di somme scadenti in epoche diverse, che si realizza – ad esempio – nel caso di finan-ziamento con rimborso rateale ovvero nell’ipotesi di costituzione di un capi-tale.

Il finanziamento con rimborso rateale può essere come di seguito rappre-sentato:

0

10

21

380 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

La costituzione immediata di un capitale, a fronte di una rendita periodica limitata nel tempo, può avere la seguente rappresentazione:

10

21

0

 

Il concetto di equivalenza finanziaria, nelle operazioni finanziarie più complesse sopra rappresentate, non muta: si tratta sempre di indifferenza (finanziaria) fra somme – in questo caso più numerose – scadenti in epoca diversa.

4. Il quadro normativo di riferimento

4.1. Premessa Verrà, di seguito, inquadrata – per sommi capi – la disciplina civilistica e

penalistica.

4.1.1. La disciplina civilistica

L’art. 1815, comma 2, c.c. prevede che «Se sono convenuti interessi usu-rari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi».

4.1.2. La disciplina penalistica

L’art. 644, comma 1, c.p., stabilisce che «Chiunque … si fa dare o pro-mettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una pre-stazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è pu-nito con la reclusione da due a dieci anni e con la multa da euro 5.000 a eu-ro 30.000».

Il successivo comma 2 prevede che «alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad al-tri, per la mediazione, un compenso usurario».

381 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Il comma 3 dispone che «la legge stabilisce il limite oltre il quale gli in-teressi sono sempre usurari. Sono altresì usurari gli interessi, anche se infe-riori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni simila-ri, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o pro-messi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria».

4.2. L’usura: usura originaria e usura sopravvenuta

4.2.1. Premessa

L’art. 644, comma 4, c.p., come sostituito dall’art. 1 della legge 7 marzo 1996, n. 108, nel reprimere il reato di usura, come si è detto prescrive che «Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito».

L’art. 2 della legge. n. 108 del 1996 attribuisce al Ministero del Tesoro (ora Ministero dell’Economia e delle Finanze) il compito di rilevare trime-stralmente, sentiti la Banca d’Italia e l’ormai soppresso Ufficio Italiano Cambi, il tasso effettivo globale medio degli interessi applicati dalle banche e dagli intermediari, stabilendo che i valori medi così rilevati siano pubblica-ti sulla Gazzetta Ufficiale. I tassi medi così rilevati e pubblicati, aumentati della metà, costituiscono, ai sensi dell’ultimo comma del citato art. 2, il limi-te oltre il quale i tassi applicati si considerano sempre usurari, ai sensi del-l’art. 644, comma 3, c.p.

Non pare fuori luogo ritenere che il Ministero delle Finanze (di concerto con la Banca d’Italia) non abbia dato correttamente corso al mandato confe-rito, giacché nella rilevazione trimestrale non ha tenuto conto di tutte le «commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito», così come previ-sto dall’art. 644, comma 4, c.p.; si potrebbe, quindi, argomentare che il tasso soglia così calcolato non possa essere considerato vincolante, quantomeno per le grandezze escluse dalla rilevazione 10.

10 Per un’approfondimento sul tema si veda CALANDRA BUONAURA-PERASSI-SILVETTI, La banca: l’impresa e i contratti, in COTTINO (a cura di), Trattato di diritto commerciale, Padova, 2001, 399 ss.

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4.2.2. Le Istruzioni fornite dalla Banca d’Italia con riguardo alle opera-zioni di conto corrente

Le “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura” emanate dalla Banca d’Italia (versione del 2006) in-dicavano la seguente formula di calcolo del T.E.G.:

Interessi x 36.500 Oneri x 100

T.E.G. = –––––––––––––––– + –––––––––––––––––––

Numeri Debitori Accordato

Ove:

• «gli interessi sono dati dalle competenze di pertinenza del trimestre di rife-rimento, ivi incluse quelle derivanti da maggiorazioni di tasso applicate in occasione di sconfinamenti rispetto al fido accordato, in funzione del tasso di interesse annuo applicato»;

• «i numeri debitori sono dati dal prodotto tra i “capitali” ed i “giorni”»; • «gli oneri da considerare sono quelli indicati al successivo punto C4, effet-

tivamente sostenuti nel trimestre»; • per “accordato” si intende «il limite massimo del credito concesso dal-

l’intermediario segnalante sulla base di una decisione assunta nel rispetto delle procedure interne (…). Il fido accordato da prendere in considera-zione è quello al termine del periodo di riferimento (ovvero l’ultimo nel caso dei rapporti estinti). Nel caso di passaggi a debito di conti non affi-dati o comunque se si verificano utilizzi di finanziamento senza che sia stato precedentemente predeterminato l’ammontare del fido accordato, l’at-tribuzione alla classe di importo va effettuata prendendo in considerazione l’utilizzo effettivo nel corso del trimestre di riferimento (ad es. nel caso di passaggi a debito di conti correnti non affidati deve essere considerato il saldo contabile massimo; nel caso di sconto di effetti e di operazioni di factoring su crediti acquistati a titolo definitivo deve essere considerato l’importo erogato)».

Le “Istruzioni” precisavano, inoltre, quanto segue: «La commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del T.E.G. Essa viene rilevata sepa-

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ratamente, espressa in termini percentuali. Tale commissione nella tecnica bancaria viene definita come il corrispettivo pagato dal cliente per compen-sare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggia-re una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto. Tale compen-so – che di norma viene applicato allorché il saldo del cliente risulti a debito per oltre un determinato numero di giorni – viene calcolato in misura percen-tuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento».

La Cassazione Penale ha – per contro – ritenuto che la commissione di massimo scoperto debba rientrare a pieno titolo nel calcolo del T.E.G. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che: «Con riferimento alla de-terminazione del tasso di interesse usurario, ai sensi del comma quattro dell’articolo 644 c.p., si tiene, quindi, conto delle commissioni, remunera-zioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito. Incensurabile in questa sede, essen-do immune da vizi logici, è la valutazione di entrambi i giudici di merito di far riferimento alla perizia che ha seguito l’impostazione metodologica poi recepita in sentenza, scegliendo di utilizzare il criterio della CMS – soglia per accertare i casi di sforamento, individuandoli, in concreto, ogni volta che risulti superato il valore medio aumentato della metà. Quindi, come peraltro rilevato sia dal Tribunale che dalla Corte territoriale, anche la commissione di massimo scoperto deve essere tenuta in considerazione quale fattore potenzialmente produttivo di usura, essendo rilevanti ai fini della determinazione del tasso usurario, tutti gli oneri che l’utente soppor-ta in relazione all’utilizzo del credito, indipendentemente dalle istruzioni o direttive della Banca d’Italia (circolare della Banca d’Italia 30.9.1996 e successive) in cui si prevedeva che la commissione di massimo scoperto non dovesse essere valutata ai fini della determinazione del tasso effettivo globale degli interessi, traducendosi in un aggiramento della norma pena-le che impone alla legge di stabilire il limite oltre il quale gli interessi so-no sempre usurari (…). La materia penale è dominata esclusivamente dal-la legge e la legittimità si verifica solo mediante il confronto con la norma di legge (art. 644, comma 4, c.p.) che disciplina la determinazione del tas-so soglia che deve ricomprendere “le remunerazioni a qualsiasi titolo”, ricomprendendo tutti gli oneri che l’utente sopporti in connessione con il credito ottenuto e, in particolare, anche la commissione di massimo sco-perto che va considerata quale elemento potenzialmente produttivo di usu-ra nel rapporto tra istituto bancario e prenditore del credito. Appare per-tanto illegittimo lo scorporo dal TEGM [Tasso effettivo Globale Medio] della CMS [Commissione di Massimo Scoperto] ai fini della determina-

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zione del tasso usuraio, indipendentemente dalle circolari e istruzioni im-partite dalla Banca d’Italia al riguardo. In termini generali, quindi, l’ignoranza del tasso di usura da parte delle banche è priva di effetti e non può essere invocata quale scusante, trattandosi di ignoranza sulla legge penale (art. 5 c.p.)» 11.

In senso difforme, ma più coerente dal punto di vista finanziario, si è espressa la giurisprudenza di merito, osservando che: «L’affermato supera-mento del tasso soglia muove dall’assunto della necessaria inclusione della c.m.s. nel T.E.G., di contro alle direttive di Bankitalia, pro tempore vigenti (sino al 2009) e, in concreto, osservate dalla Banca. La difesa attorea si ri-porta ad una recente giurisprudenza di legittimità corroborante tale impo-stazione, peraltro non priva di seguito anche nella giurisprudenza di merito. La difesa della Banca convenuta osserva, di contro, come mai la Banca avrebbe potuto scostarsi dalle direttive di Bankitalia, suo organo di vigilan-za, nella determinazione del TEG e nella conseguente commisurazione dei tassi applicati, nel rispetto del tasso soglia. La ritenuta illegittimità delle prescrizioni dell’organo di vigilanza non potrebbe, oggi, essere addossata alla Banca, obiettivamente posta in una sorta di letto di Procuste: ieri co-stretta a disattendere quanto stabilito – a torto o a ragione ma, certo, in modo non manifestamente illegittimo – dall’organo di vigilanza per non es-sere oggi, a seguito di una sopravvenuta giurisprudenza di legittimità, tac-ciata di applicazione di condizioni sostanzialmente usurarie» 12.

Di contrario avviso è la Corte d’Appello di Torino, la quale – sebbene nell’ambito di una questione avente ad oggetto un’operazione di credito al consumo – si è espressa nei seguenti termini: «È evidente pertanto che le suddette istruzioni della Banca d’Italia non abbiano alcuna efficacia precet-tiva nei confronti del Giudice nell’ambito del suo accertamento del TEG ap-plicato alla singola operazione …»; per contro, quest’ultimo «va accertato dal Giudice unicamente sulla base dell’art. 644 c.p. … e, ove presenti, di eventuali disposizioni di legge aventi pari forza; non hanno alcuna efficacia a tal fine le istruzioni impartite dalla Banca d’Italia per rilevare il TEGM, sia perché non rivolte … a stabilire il tasso globale effettivo di una certa singola operazione, sia perché non aventi comunque, neppure in astratto,

11 Cass. pen. 23 settembre 2011, n. 46669, in Dir. Pen. e proc., 2012, 730, con nota di Pi-loni. In senso analogo v. anche, ex multis, Cass. 19 febbraio 2010, n. 12028, in Giur. It., 2010, 11, 2407 con nota di Grindatto e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 23 gen-naio 2014, in www.ilcaso.it.

12 Trib. Torino, 20 aprile 2012 (Est. Dott. Bruno CONCA), cit.

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portata derogatrice né integratrice della norma di cui sopra, nella parte in cui si indica come calcolare il tasso effettivo globale» 13.

La questione pare ora risolta da un orientamento della giurisprudenza di legittimità, in via di consolidamento, secondo cui:

• la commissione di massimo scoperto deve essere esclusa dalla formula di calcolo del T.E.G. per il periodo antecedente al 1° gennaio 2010. In parti-colare, la commissione di massimo scoperto, applicata sino all’entrata in vigore dell’art. 2-bis, d.l. n. 185 del 2008, deve essere esclusa dal calcolo del T.E.G. fino al termine del periodo transitorio fissato al 31 dicembre 2009, in quanto i decreti ministeriali per mezzo dei quali è stato rilevato il T.E.G.M. – dal 1997 al dicembre del 2009 – non ne hanno tenuto conto nella determinazione del tasso soglia usurario. Pertanto, per i rapporti ban-cari antecedenti il 1° gennaio 2010, non occorre considerare la C.M.S. ai fini della verifica del superamento del tasso soglia usurario (Cass. 31 mag-gio 2016, n. 12965);

• sino al 2009 nel calcolo del T.E.G. non deve essere computata la commis-sione di massimo scoperto, in quanto la disposizione dettata dall’art. 2-bis, comma 2 del d.l. n. 185/2008, che attribuisce rilevanza, ai fini dell’appli-cazione dell’art. 1815 c.c., dell’art. 644 c.p.c. e degli artt. 2 e 3 della legge n. 108 del 1996, agli interessi, alle commissioni e alle provvigioni derivan-ti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazio-ne, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, ha carattere non già interpretativo, ma inno-vativo, e non trova pertanto applicazione ai rapporti esauritisi in data ante-riore all’entrata in vigore della legge di conversione; con la conseguenza che, in riferimento a tali rapporti, la determinazione del tasso effettivo globale, ai fini della valutazione del carattere usurario degli interessi ap-plicati, deve aver luogo senza tener conto della commissione di massimo scoperto (3 novembre 2016, n. 22270).

In particolare, la Banca d’Italia – nel 2009 – ha operato una release delle “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”, includendo la commissione di massimo scoperto fra gli “oneri”. In particolare ha precisato che:

• «gli interessi sono dati dalle competenze di pertinenza del trimestre di rife-rimento, ivi incluse quelle derivanti da maggiorazioni di tasso applicate in occasione di sconfinamenti rispetto al fido accordato»;

13 App. Torino, 27 gennaio 2014 (Est. Dott.ssa Federica LA MARCA), in www.ilcaso.it.

386 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

• «i numeri debitori sono dati dal prodotto tra i “capitali” ed i “giorni”»; • «gli oneri su base annua sono calcolati includendo tutte le spese sostenute

nei dodici mesi precedenti la fine del trimestre di rilevazione, a meno che queste siano connesse con eventi di tipo occasionale, destinati a non ripe-tersi (…). Il calcolo del tasso deve tenere conto delle commissioni, remu-nerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tas-se, collegate all’erogazione del credito e sostenute dal cliente, di cui il soggetto finanziatore è a conoscenza, anche tenuto conto della normativa in materia di trasparenza. In particolare, sono inclusi (…) gli oneri per la messa a disposizione dei fondi, le penali e gli oneri applicati nel caso di passaggio a debito di conti non affidati o negli sconfinamenti sui conti correnti affidati rispetto al fido accordato e la commissione di massimo scoperto laddove applicabile secondo le disposizioni di legge vigenti»;

• per “fido accordato” si intende «l’ammontare del fido utilizzabile dal cliente in quanto riveniente da un contratto perfetto ed efficace (cd. Accordato ope-rativo). Il fido accordato da prendere in considerazione è quello al termine del periodo di riferimento (ovvero l’ultimo nel caso dei rapporti estinti). Nel caso di passaggi a debito di conti non affidati o comunque se si verificano uti-lizzi di finanziamento senza che sia stato precedentemente predeterminato l’ammontare del fido accordato, l’attribuzione alla classe di importo va effet-tuata prendendo in considerazione l’utilizzo effettivo nel corso del trimestre di riferimento (ad es. nel caso di passaggi a debito di conti correnti non affidati deve essere considerato il saldo liquido massimo di segno negativo; nel caso di operazioni di factoring su crediti acquistati a titolo definitivo e di sconto di effetti deve essere considerato l’importo erogato)». Quanto ai numeri debitori, si è sostenuto che questi non debbano essere

assunti nella misura riportata negli estratti conto scalari, in quanto le Istru-zioni della Banca d’Italia fanno riferimento al prodotto tra “capitali” e gior-ni: facendo leva sul dato letterale, i sostenitori di tale tesi affermano che i numeri da inserire nella formula debbano essere preventivamente depurati dai “numeri anatocistici”, ovvero dall’effetto della capitalizzazione degli in-teressi al termine di ciascun trimestre.

Tale impostazione non è condivisa dalla Banca d’Italia, la quale ha preci-sato che «il calcolo dei numeri debitori per le aperture di credito in conto corrente va effettuato considerando l’estratto conto “scalare”, in cui i capi-tali sono comprensivi degli interessi e delle altre spese addebitate trime-stralmente» 14.

14 Cfr. Risposte ai quesiti pervenuti in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali ai sensi della legge sull’usura (agg. Novembre 2010).

387 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

In tale senso si è espressa anche la giurisprudenza, la quale ha affermato che: «Va al riguardo sottolineato che anatocismo e capitalizzazione non co-stituiscono concetti equivalenti: mentre il primo designa la speciale attitudi-ne degli interessi a produrre, a loro volta, interessi, la seconda indica il fe-nomeno in forza del quale una certa misura d’interessi viene tramutata in sorte capitale, con conseguente trasformazione di un’obbligazione accesso-ria in principale. Da ciò consegue che solo quest’ultima – non l’anatocismo di per sé – conduce ad un mutamento del regime giuridico dell’obbligazione d’interessi, solamente alla quale sono applicabili, per esempio, speciali norme in materia d’imputazione del pagamento (art. 1194 c.c.), quietanza (art. 1199 c.c.), cessione del credito (art. 1263 c.c.), privilegio (art. 2749 c.c.), pegno (art. 2788 c.c.), ipoteca (art. 2855 c.c.), prescrizione (art. 2948 c.c.). L’assorbimento dell’interesse passivo nel capitale esclude la computa-bilità dello stesso fra le voci di costo periodico del finanziamento per il pe-riodo successivo all’intervenuta capitalizzazione, appunto perché, una volta capitalizzato, l’interesse non è più tale e, stante il suo conglobamento nel denominatore, non può più essere da questo espunto. Il superamento del tasso soglia, invece, viene espressamente assunto da parte attrice depuran-do il capitale dell’interesse composto capitalizzato. Avuto riguardo alla formula di computo del TEG, sostenere che nel calcolo del tasso soglia oc-corra depurare il capitale dell’effetto della capitalizzazione degli interessi è incongruo: infatti, così come gli “interessi sugli interessi maturati nei trime-stri precedenti” devono essere ricompresi nel numeratore, del pari gli inte-ressi maturati nei trimestri precedenti non possono essere espunti dal de-nominatore; non si potrebbe d’altronde sostenere che il denominatore deb-ba essere depurato degli interessi maturati nei trimestri precedenti, così da includere soltanto il capitale originario. In tale ipotesi, infatti, si raffronte-rebbero dati non omogenei fra loro (il numeratore ricomprendente gli inte-ressi sugli interessi e il denominatore che non li ricomprenderebbe); inoltre, il denominatore depurato degli interessi maturati nei trimestri precedenti risulterebbe non commensurabile con il tasso soglia, che – come noto – vie-ne determinato sulla base di un tasso globale effettivo medio che ricom-prende, nel denominatore, gli interessi maturati nei trimestri precedenti. D’altronde, come già ricordato, la liquidazione degli interessi viene fatta dalla banca trimestralmente e, quindi, gli interessi maturati nei trimestri concorrono alla determinazione del capitale di riferimento per il trimestre successivo. Se, poi, si volesse sostenere che “gli interessi sugli interessi ma-turati nei trimestri precedenti” non sarebbero dovuti perché la capitalizza-zione non era stata pattuita e accettata, questi dovrebbero essere espunti sia

388 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

dal numeratore che dal denominatore, senza alcun effetto in termini di supe-ramento del tasso soglia. In definitiva, la verifica del superamento del tasso soglia deve correttamente tenere conto degli interessi maturati nei trimestri precedenti sia al numeratore che al denominatore; mentre l’esclusione del-l’effetto anatocistico dovrebbe essere operata esclusivamente nella rideter-minazione degli interessi effettivamente dovuti, nel caso in cui la capitaliz-zazione sia stata pattuita ed accettata. La prospettazione attorea inerente il superamento, per taluni periodi, del tasso soglia è dunque inficiata nel me-todo e, alla luce delle argomentazioni tecniche svolte, non vi è evidenza del fatto che, operato il giusto conto della capitalizzazione degli interessi, il tas-so soglia abbia da intendersi in effetti superato per effetto del computo della c.m.s.» 15.

4.2.3. La verifica del superamento del “tasso soglia”

Calcolato il T.E.G., occorre confrontarlo con il limite indicato dalla leg-ge, ovvero con il Tasso Effettivo Globale Medio, aumentato della metà, rile-vato trimestralmente dal Ministero del Tesoro e pubblicato sulla G.U. In altri termini occorre verificare se il T.E.G. trimestralmente applicato dalla banca sia superiore al tasso soglia, calcolato nel modo seguente:

Tasso soglia = T.E.G.M. x 1,5

Se dovesse verificarsi il superamento del tasso soglia, il tasso applicato

dalla banca deve considerarsi usurario e, pertanto, non va applicato alcun tasso di interesse nel ricalcolo effettuato dal correntista ai fini dell’azione di ripetizione 16.

Come si è detto, sino al 2011 il calcolo del tasso soglia avveniva secondo la relazione seguente:

Tasso soglia = T.E.G.M. x 1,5

Come è agevole rilevare, tale criterio di determinazione del tasso soglia

conduceva ad un margine di tolleranza diverso, a seconda del T.E.G.M., il

15 Trib. Torino, 20 aprile 2012 (Est. Dott. Bruno CONCA), cit. 16 Ai sensi dell’art. 644 c.p. è da ritenersi comunque usurario il tasso che, pur inferiore al

tasso soglia, sia sproporzionato rispetto alla prestazione offerta o sia stato determinato cono-scendo lo stato di difficoltà economica o finanziaria del correntista.

389 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

quale – come è noto – assume valori differenti a seconda delle categorie di finanziamento.

Infatti, ove il T.E.G.M. avesse assunto valore pari al 10%, il margine di tolleranza sarebbe stato addirittura pari a 5 punti percentuali; ove, per con-tro, il T.E.G.M. avesse assunto valore pari al 2%, il margine di tolleranza sa-rebbe sceso addirittura ad 1 punto percentuale.

Tale criterio di calcolo conduceva, quindi, ad un evidente effetto distorsi-vo.

È quindi intervenuto il Legislatore, che, con l’art. 8 del decreto Legge 13 maggio 2011, n. 70, ha modificato nei seguenti termini il criterio di calcolo:

Tasso soglia = T.E.G.M. x 1,25 + 4% (massimo 8 punti percentuali)

Costituisce un utile esercizio di analisi matematica del diritto, individuare

il T.E.G.M. in corrispondenza del quale la modifica della modalità di calcolo non ha determinato effetto alcuno, ovvero il c.d. “tasso di indifferenza”:

T.E.G.M. x 1,25 + 4% = T.E.G.M. x 1,5

da cui

T.E.G.M. x 0,25 = 4% e infine

T.E.G.M. = 16% La stessa percentuale costituisce il T.E.G.M. di indifferenza, tenuto conto

del limite di tolleranza (8%):

T.E.G.M. x 1,25 + 4% = T.E.G.M. + 8% da cui

T.E.G.M. x 0,25 = 4% e infine

T.E.G.M. = 16%

390 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Come risulta dagli esempi che seguono, per T.E.G.M. inferiori al tasso di indifferenza – pari al 16% – la variazione della modalità di calcolo ha com-portato un aumento del margine di tolleranza; per T.E.G.M. superiori al tas-so di indifferenza, la modifica ha condotto ad un effetto opposto.

Es. n. 1): T.E.G.M. = 15% Criterio ante 2011:

15% x 1,5 = 22,5% Criterio post 2011:

15% x 1,25 + 4% = 22,75%

22,75% > 22,5% Es. n. 2): T.E.G.M. = 17% Criterio ante 2011:

17% x 1,5 = 25,5% Criterio post 2011:

17% x 1,25 + 4% = 25,25%

25,25% < 25,5% L’ incidenza del limite è rappresentata dalla relazione seguente:

25,5% – 17% = 8,5%

T.E.G.M. = 25%

25% < 25,5% Come già si è detto, nella verifica del superamento del tasso soglia assu-

me spesso rilevanza determinante la commissione di massimo scoperto. In particolare, il superamento del tasso soglia avviene secondo l’ordine di fre-quenza di seguito rappresentato:

391 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

• piuttosto di frequente in caso di inclusione della commissione di mas-simo scoperto nel primo addendo, in quanto il peso sul denominatore, costi-tuito dai numeri debitori, è spesso significativo;

• raramente in caso di inclusione della commissione di massimo scoperto nel secondo addendo, in quanto l’incremento del numeratore in relazione al denominatore – costituito dai numeri debitori – è spesso significativo;

• quasi mai in caso di separata considerazione della commissione di mas-simo scoperto, attraverso il regime del margine.

Pare opportuno sottolineare che soltanto l’ultimo criterio può essere con-siderato finanziariamente corretto.

4.2.4. L’usura sopravvenuta

È opportuno ricordare che l’usura può manifestarsi sia in sede di stipula-zione del contratto, qualora il tasso di interesse applicato sia superiore al tas-so soglia relativo al trimestre di riferimento e, in tal caso si parla di usura originaria; sia in epoca successiva, qualora il tasso di interesse applicato – non oggetto di variazione – sia (diventato) superiore al tasso soglia relativo al trimestre di riferimento 17.

In caso di usura originaria, si ritiene che operi l’art. 1815 c.c. e che – dunque – debba essere interamente eliminato l’interesse applicato; in caso di usura sopravvenuta, si ritiene che il tasso di interesse applicato debba essere ricondotto al tasso soglia 18.

17 Si veda in proposito, per gli opportuni approfondimenti, DI VITO, Usura sopravvenuta e inesigibilità della prestazione, in Corr. giur., 2002, 4, 510. La rilevanza dell’usura soprav-venuta è oggi riconosciuta dalla giurisprudenza maggioritaria: v., in particolare. Cass. civ., Sez. I, 11 gennaio 2013, n. 602, in Nuova Giur. Civ., 2013, 7, 653; Cass. civ., sez. I, 11 gen-naio 2013, n. 603, in Danno e Resp., 2014, 2, cfr. in tal senso anche le decisioni dell’Arbitro Bancario Finanziario n. 620 del 29 febbraio 2012 e n. 1796 del 3 aprile 2013, entrambe repe-ribili sul sito www.arbitratobancariofinanziario.it. Si deve, tuttavia, dare atto che, secondo un precedente e opposto orientamento giurisprudenziale, il superamento del tasso soglia do-vrebbe essere valutato solamente nel momento di conclusione del contratto, in quanto «Il D.L. 29 dicembre 2000, n. 394 art. 1, conv. In L. 28 febbraio 2001, n. 24, ha infatti chiarito, con norma avente carattere di interpretazione autentica che, ai fini dell’applicazione del-l’art. 644 c.p., e dall’art. 1815, comma 2, c.c., si intendono usurari gli interessi che supera-no il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi e comunque convenu-ti a qualunque titolo, indipendentemente dal momento, del loro pagamento»: v. a tal proposi-to Cass. civ., sez. I, 30 novembre 2007, n. 25016.

18 Sulle diverse ricostruzioni in merito alle possibili conseguenze della usura sopravvenu-ta vedi, per tutti, il recente intervento di DOLMETTA, Sugli effetti civilistici dell’usura so- 

392 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

È bene precisare che si rientra nella fattispecie di usura originaria non so-lo quando il tasso d’interesse convenzionale pattuito originariamente sia su-periore al tasso soglia del trimestre di riferimento, ma anche nell’ipotesi in cui – per effetto dell’esercizio del ius variandi ex art. 118 T.U.B.– venga pattuito un nuovo tasso d’interesse convenzionale e quest’ultimo – nello stesso trimestre di variazione – sia superiore al tasso soglia.

5. La matematica finanziaria deterministica: i contratti di conto corrente

5.1. Il contenuto dell’estratto-conto L’informativa inviata periodicamente dalla banca si compone di due do-

cumenti distinti: l’estratto-conto vero e proprio e il riassunto a scalare. Nel presente paragrafo si illustrerà, in dettaglio, il contenuto dell’estratto-conto, mentre nel paragrafo successivo si esaminerà il contenuto del riassunto a scalare.

L’estratto-conto è un documento contabile che, oltre a contenere l’indi-cazione delle generalità della banca e del correntista, riporta l’elencazione delle operazioni poste in essere nel periodo di tempo considerato (mese o trimestre) e l’indicazione della data nella quale le operazioni sono state poste in essere e della valuta attribuita dalla banca.

A titolo esemplificativo, un estratto-conto potrebbe – in due trimestri consecutivi – avere la forma di seguito rappresentata:

pravvenuta, in www.ilcaso.it, e i riferimenti ivi indicati, e QUARANTA, Su usura e interessi di mora: questioni attuali, in Banca, borsa e tit. cred., II, 2013, 49.

393 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Data

contabile Data valuta Dare Avere Descrizione

31/12/2007 31/12/2007 20.000,00 Saldo iniziale

4/1/2008 4/1/2008 120.000,00 Addebito assegno

12/1/2008 15/1/2008 40.000,00 Versamento

assegno

25/1/2008 25/1/2008 70.000,00 Bonifico in

uscita

2/2/2008 5/2/2008 50.000,00 Versamento

assegno

16/2/2008 16/2/2008 150.000,00 Addebito assegno

27/2/2008 27/2/2008 30.000,00 Bonifico in

entrata

3/3/2008 3/3/2008 80.000,00 Bonifico in

uscita

7/3/2008 10/3/2008 40.000,00 Versamento

assegno

12/3/2008 12/3/2008 70.000,00 Addebito assegno

21/3/2008 21/3/2008 20.000,00 Bonifico in

entrata

31/3/2008 31/3/2008 4.621,30 Addebito

competenze

294.621,30 Saldo finale

394 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Data contabile Data valuta Dare Avere Descrizione

31/3/2008 31/3/2008 294.621,30 Saldo

iniziale

4/4/2008 4/4/2008 120.000,00 Addebito assegno

12/4/2008 15/4/2008 240.000,00 Versamento

assegno

25/4/2008 25/4/2008 70.000,00 Bonifico in

uscita

2/5/2008 5/5/2008 250.000,00 Versamento

assegno

16/5/2008 16/5/2008 150.000,00 Addebito assegno

27/5/2008 27/5/2008 130.000,00 Bonifico in

entrata

3/6/2008 3/6/2008 80.000,00 Bonifico in

uscita

7/6/2008 10/6/2008 140.000,00 Versamento

assegno

12/6/2008 12/6/2008 70.000,00 Addebito assegno

21/6/2008 21/6/2008 120.000,00 Bonifico in

entrata

30/6/2008 30/6/2008 4.124,75 Addebito

competenze

30/6/2008 30/6/2008 385.875,25 Saldo finale

395 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Le informazioni in esso contenute hanno il seguente significato:

• data Contabile: giorno in cui il correntista ha effettuato l’operazione; • data Valuta: data dalla quale decorrono gli interessi; • dare: movimento a debito per il correntista; • avere: movimento a credito per il correntista; • descrizione: descrive il tipo di operazione di accredito o di addebito.

Il “saldo iniziale” di un dato trimestre corrisponde al “saldo finale” del trime-stre precedente, cui concorre l’addebito o l’accredito delle competenze, costituite dalla somma algebrica tra interessi attivi e passivi, commissioni e spese bancarie, che, a seconda delle circostanze, può assumere saldo “Dare” o “Avere”.

5.2. Il contenuto del riassunto a scalare L’estratto-conto è corredato dal riassunto a scalare o “staffa”. In tale do-

cumento i saldi in valuta delle singole operazioni sono ordinati cronologi-camente e sugli stessi vengono calcolati, a seconda che il conto corrente pre-senti un saldo attivo o passivo, gli interessi debitori o creditori.

Il riassunto a scalare, che corrisponde all’esemplificazione riportata nel paragrafo precedente, è così strutturato:

Valuta Saldo per valuta Giorni Numeri creditori

Numeri debitori

1/1/2008 20.000,00 3 60.000,00 –

4/1/2008 – 100.000,00 11 – 1.100.000,00

15/1/2008 – 60.000,00 10 – 600.000,00

25/1/2008 – 130.000,00 11 – 1.430.000,00

5/2/2008 – 80.000,00 11 – 880.000,00

16/2/2008 – 230.000,00 11 – 2.530.000,00

27/2/2008 – 200.000,00 5 – 1.000.000,00

3/3/2008 – 280.000,00 7 – 1.960.000,00

10/3/2008 – 240.000,00 2 – 480.000,00

12/3/2008 – 310.000,00 9 – 2.790.000,00

21/3/2008 – 290.000,00 10 – 2.900.000,00

31/3/2008 – – –

396 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Valuta Saldo per valuta Giorni Numeri

creditori Numeri debitori

1/4/2008 – 294.621,30 3 – 883.863,90

4/4/2008 – 414.621,30 11 – 4.560.834,32

15/4/2008 – 174.621,30 10 – 1.746.213,01

25/4/2008 – 244.621,30 10 – 2.446.213,01

5/5/2008 5.378,70 11 59.165,68 –

16/5/2008 – 144.621,30 11 – 1.590.834,32

27/5/2008 – 14.621,30 7 – 102.349,11

3/6/2008 – 94.621,30 7 – 662.349,11

10/6/2008 45.378,70 2 90.757,40 –

12/6/2008 – 24.621,30 9 – 221.591,71

21/6/2008 95.378,70 9 858.408,29 –

30/6/2008 – – –

Le informazioni in esso contenute hanno il seguente significato:

• saldo per valuta: la colonna riporta le date di valuta delle operazioni; • giorni: numero di giorni in cui il saldo per valuta è rimasto invariato; • numeri debitori: si ottengono moltiplicando il saldo negativo per il numero

di giorni in cui il saldo è rimasto invariato; • numeri creditori: si ottengono moltiplicando il saldo positivo per il numero

dei giorni in cui il saldo è rimasto invariato.

Per semplicità, le grandezze vengono – in questa sede – indicate attraver-so i seguenti acronimi:

Numeri debitori = ND Saldo trimestrale = ST Tasso d’interesse = i Interesse trimestrale = IT Anno solare = 365 Trimestre commerciale = 90 Rettifiche competenze = RC Rettifiche numeri debitori = RND

397 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Le relazioni intercorrenti fra le diverse grandezze possono, quindi, essere come di seguito sintetizzate:

ND = ST · 90

IT = ND · i / 365

i = IT / ND · 365

IT = ST · 90 / 365 · i

Le RC corrispondono a variazioni del SM

RND = RC · 90 ATTENZIONE: Potrebbe capitare che

IT = ND · i / 36.500 ovvero

IT = ND · i / (365 · 100) e in tal caso

RND = RC · 90 / 100

5.3. Il calcolo degli interessi Il riepilogo di calcolo degli interessi attivi e passivi da parte della banca è

contenuto nell’ultima parte del riassunto a scalare, in appositi prospetti che individuano per i numeri debitori e per i numeri creditori il tasso di interesse corrispondente, con relativa decorrenza.

Il calcolo degli interessi procede secondo il seguente iter:

• come illustrato nel paragrafo precedente, la banca individua i saldi per va-luta e il numero dei giorni in cui tali saldi sono rimasti invariati;

• in seguito, ciascun saldo – negativo o positivo – viene moltiplicato per il numero dei giorni corrispondenti (come visto, i risultati di questo prodotto vengono comunemente denominati “numeri debitori” o “numeri creditori”);

398 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

• per ciascun numero creditore o debitore vengono determinati gli interessi attivi e passivi eseguendo il seguente calcolo:

numeri creditori (o debitori) ∙ tasso interesse: 365 

Prendendo le mosse dagli estratti-conto sopra riportati, ne scaturiscono i seguenti risultati:

Valuta Saldo per valuta Giorni Numeri

creditori Numeri debitori

Interessi creditori

Interessi debitori

1/1/2008 20.000,00 3 60.000,00 – 1,64 –

4/1/2008 – 100.000,00 11 – 1.100.000,00

– 241,10

15/1/2008 – 60.000,00 10 – 600.000,00 – 131,51

25/1/2008 – 130.000,00 11 – 1.430.000,00 – 313,42

5/2/2008 – 80.000,00 11 – 880.000,00 – 192,88

16/2/2008 – 230.000,00 11 –

2.530.000,00 – 590,68

27/2/2008 – 200.000,00 5 – 1.000.000,00

– 219,18

3/3/2008 – 280.000,00 7 – 1.960.000,00 – 490,96

10/3/2008 – 240.000,00 2 – 480.000,00 – 113,97

12/3/2008 – 310.000,00 9 –

2.790.000,00 – 720,00

21/3/2008 – 290.000,00 10 – 2.900.000,00

– 734,25

31/3/2008 – – – 1,64 3.747,95

 

399 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Plafond di affidamento 200.000,00

Tasso di interesse creditore 1,00%

Tasso di interesse debitore intra-fido 8,00%

Tasso di interesse debitore extra-fido 12,00%

Interessi creditori maturati 1,64

Interessi debitori maturati 3.747,95

Tasso C.M.S. 0,25%

Massimo scoperto 310.000,00

Commissione di massimo scoperto 775,00

Spese 100,00

Saldo competenze debitorie – 4.621,30

Valuta Saldo per valuta Giorni Numeri

creditori Numeri debitori

Interessi creditori

Interessi debitori

1/4/2008 – 294.621,30 3 – 883.863,90 – 224,83

4/4/2008 – 414.621,30 11 – 4.560.834,32 – 1.258,36

15/4/2008 – 174.621,30 10 – 1.746.213,01 – 382,73

25/4/2008 – 244.621,30 10 – 2.446.213,01 – 585,06

5/5/2008 5.378,70 11 59.165,68 – 1,62 –

16/5/2008 – 144.621,30 11 – 1.590.834,32 – 348,68

27/5/2008 – 14.621,30 7 – 102.349,11 – 22,43

3/6/2008 – 94.621,30 7 – 662.349,11 – 145,17

10/6/2008 45.378,70 2 90.757,40 – 2,49 –

12/6/2008 – 24.621,30 9 – 221.591,71 – 48,57

21/6/2008 95.378,70 9 858.408,29 – 23,52 –

30/6/2008 – – – 27,63 3.015,83

400 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Plafond di affidamento 200.000,00

Tasso di interesse creditore 1,00%

Tasso di interesse debitore intra-fido 8,00%

Tasso di interesse debitore extra-fido 12,00%

Interessi creditori maturati 27,63

Interessi debitori maturati 3.015,83

Tasso C.M.S. 0,25%

Massimo scoperto 414.621,30

Commissione di massimo scoperto 1.036,55

Spese 100,00

Saldo competenze debitorie – 4.124,75

Le modalità di calcolo sono di seguito illustrate:

• interessi creditori: il numero creditore (relativo ad una data di valuta) deve essere moltiplicato per il tasso di interesse creditore (1,00% in questo ca-so); il prodotto viene poi diviso per 365;

• per gli interessi debitori, il ragionamento è più complesso: ◦ nel caso in cui il saldo per valuta sia nei limiti del plafond di affidamen-

to, gli interessi debitori sono ottenuti dal prodotto fra i numeri debitori e il tasso di interesse intra-fido (8,00% in questo caso); il prodotto viene poi diviso per 365;

◦ nel caso in cui il saldo per valuta (corrispondente ad una determinata data di valuta) sia superiore al plafond di affidamento, gli interessi debitori sono ottenuti dal prodotto fra i numeri debitori e il tasso di interesse in-tra-fido (8,00% in questo caso), diviso 365, nei limiti dell’affidamento (euro 200.000,00); oltre il risultato del prodotto fra i numeri debitori e il tasso di interesse extra-fido (12,00% in questo caso), diviso 365, ove sia superato il limite dell’affidamento (euro 200.000,00).

401 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

5.4. La prescrizione: rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie Nella tecnica bancaria l’espressione “rimesse” sta ad indicare i versamen-

ti effettuati dal correntista sul conto corrente: tali versamenti possono, a se-conda dei casi, aumentare il saldo positivo o ridurre quello negativo.

La Corte di Cassazione, in una nota Sentenza resa a Sezioni Unite 19, con riferimento alle rimesse operate su un conto corrente con saldo negativo ha riesumato la distinzione fra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie, nei seguenti termini:

• rimesse solutorie: versamenti effettuati su un conto corrente per il quale vi sia stato uno sconfinamento oppure su un conto corrente non affidato;

• rimesse ripristinatorie: versamenti effettuati dal correntista su un conto cor-rente con saldo rientrante nei limiti del plafond di affidamento.

Si riporta, di seguito, un esempio numerico, al fine di apprezzarne meglio la distinzione. Si ipotizza che il saldo iniziale sia pari a zero e che l’affida-mento ammonti ad euro 200.000.

Data valuta Dare Avere Saldo per valuta

Rimesse solutorie

Rimesse ripristinatorie

1/1/2008 20.000,00 20.000,00 – –

4/1/2008 120.000,00 – 100.000,00 – –

15/1/2008 40.000,00 – 60.000,00 – 40.000,00

25/1/2008 70.000,00 – 130.000,00 – –

5/2/2008 50.000,00 – 80.000,00 – 50.000,00

16/2/2008 150.000,00 – 230.000,00 – –

27/2/2008 30.000,00 – 200.000,00 30.000,00 –

3/3/2008 80.000,00 – 280.000,00 – –

10/3/2008 40.000,00 – 240.000,00 40.000,00 –

12/3/2008 70.000,00 – 310.000,00 – –

21/3/2008 20.000,00 – 290.000,00 20.000,00 –

31/3/2008 4.621,30 –2 94.621,30 – –

294.621,30

19 Cass. S.U. 2 dicembre 2010, n. 24418, in Giur. It., 2011, 10, 2073.

402 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Data valuta Dare Avere Saldo per valuta

Rimesse solutorie

Rimesse ripristinatorie

1/4/2008 294.621,30 – 294.621,30 – –

4/4/2008 120.000,00 – 414.621,30 – –

15/4/2008 240.000,00 – 174.621,30 214.621,30 25.378,70

25/4/2008 70.000,00 – 244.621,30 – –

5/5/2008 250.000,00 5.378,70 44.621,30 205.378,70

16/5/2008 150.000,00 – 144.621,30 – –

27/5/2008 130.000,00 – 14.621,30 – 130.000,00

3/6/2008 80.000,00 – 94.621,30 – –

10/6/2008 140.000,00 45.378,70 – 140.000,00

12/6/2008 70.000,00 – 24.621,30 – –

21/6/2008 120.000,00 95.378,70 – 120.000,00

30/6/2008 4.124,75 91.253,95 – –

385.875,25

In alcuni casi risulta abbastanza semplice distinguere tra rimesse solutorie

e rimesse ripristinatorie: la rimessa effettuata in data 15 gennaio 2008 per 40.000 euro e quella effettuata in data 5 febbraio 2008 per 50.000 euro han-no natura ripristinatoria, poiché sono state effettuate a fronte di un saldo ne-gativo rientrante nei limiti dell’affidamento concesso.

La rimessa effettuata in data 27 febbraio 2008 per euro 30.000 ha invece natura solutoria, in quanto effettuata a fronte di un saldo negativo oltre il li-mite dell’affidamento (il superamento del limite è avvenuto in data 16 feb-braio 2008); evidentemente, tutte le rimesse successive hanno natura soluto-ria, sino a che il saldo non sia rientrato nei limiti del plafond disponibile.

Non è invece così intuitivo il caso in cui una rimessa presenti in parte na-tura solutoria ed in parte ripristinatoria, come ad esempio quella effettuata in data 15 aprile 2008 per euro 240.000: in tal caso, infatti, la rimessa a natura solutoria per euro 210.000, giacché tale versamento consente il rientro del saldo nei limiti dell’affidamento, e natura ripristinatoria per la differenza pa-ri ad euro 30.000.

403 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Secondo la ricostruzione operata nella richiamata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la distinzione fra rimesse solutorie e rimes-se ripristinatorie assume rilevanza ai fini della prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito. In particolare, nel caso di rimesse solutorie il ter-mine decennale – da computarsi (dies ad quem) avendo riguardo al primo atto interruttivo ovvero alla data di notifica – decorre dall’annotazione della rimessa. Per contro, il termine decennale decorre (dies a quo) dalla chiusura del conto nel caso in cui la rimessa (a copertura delle competenze maturate nel trimestre precedente) abbia natura ripristinatoria.

Al proposito, è utile riportare letteralmente il principio espresso dalla Su-prema Corte: «Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rap-porto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripeti-zione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decor-rere il relativo termine di prescrizione.

Qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo acca-drà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano de-stinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è co-sì, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano uni-camente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere».

Con riferimento all’onere probatorio, la giurisprudenza di merito ha af-fermato che «A tale regula juris consegue, fra l’altro, una diversa valenza dell’allegazione e prova del carattere solutorio della rimessa, a seconda che il conto sia aperto o chiuso. Se, con riferimento al conto aperto, la deduzio-ne e prova della natura solutoria costituiscono elementi conformativi, ri-spettivamente, della domanda e del relativo thema probandum, diversamen-te dovendo inferirsi l’inammissibilità della condictio indebiti, dal momento che, vero il principio secondo cui actio nondum nata non praescribitur, dev’es-

404 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

sere ovviamente riconosciuto anche l’opposto; con riferimento al conto chiuso, sarà tendenzialmente onere del convenuto dedurre e provare il con-tenuto solutorio della rimessa, atteso che, provatane tale natura, la risalen-za ultradecennale della stessa conduce alla prescrizione, limitatamente alla rimessa medesima, dell’azione di ripetizione ed alla conseguente riduzione del debito per l’effetto incombente sull’accipiens; la natura della rimessa, con quanto ne dovrebbe conseguire in termini d’intervenuta prescrizione del diritto, si atteggerebbe, in tal caso, a fatto (parzialmente) estintivo del dirit-to, come tale oggetto di necessaria allegazione e prova da parte del conve-nuto» 20. In sede di consulenza tecnica, è – quindi – necessario enucleare le rimesse solutorie e le rimesse ripristinatorie per i periodi antecedenti al de-corso del decennio dalla chiusura del conto, giacché le competenze maturate in epoca precedente e oggetto di richiesta di ripetizione di indebito devono considerarsi prescritte nei limiti di copertura delle rimesse solutorie effettua-te (sempre in epoca antecedente al decorso del decennio).

Come osservato recentemente, «È onere della banca che eccepisce la prescrizione dell’azione di indebito dare la prova del carattere solutorio delle rimesse, specificando altresì nei termini di cui all’art. 167 c.p.c. quelle aventi detta caratteristica. Si deve escludere il carattere solutorio delle ri-messe allorché le stesse vengano effettuate su conto corrente non affidato, ma sul quale il correntista per anni abbia costantemente operato in una si-tuazione di scoperto, e con applicazione da parte dell’istituto della commis-sione massimo scoperto; si deve riconoscere in tal caso un affidamento di fatto» 21.

5.5. Il regime dell’interesse composto: l’effetto anatocistico della capi-talizzazione. La Delibera del C.I.C.R. 9 febbraio 2000 A partire dalla nota Delibera C.I.C.R. del 9 febbraio 2000 – e sino al 31

dicembre 2013 (v. infra) – la normativa bancaria prevedeva una deroga alla disciplina di diritto comune, consentendo – in presenza della clausola di re-ciprocità – che gli interessi maturati nell’ambito dei rapporti di conto corren-te bancario potessero essere capitalizzati con cadenza infrannuale (nella pra-tica, con cadenza trimestrale).

Sul piano della tecnica bancaria, gli interessi maturati nel trimestre subi-

20 Trib. Torino, 20 aprile 2012, cit. 21 In tale senso Trib. Torino, 3 aprile 2014 (Est. Dott.ssa Cecilia Marino); in questo senso

v. anche Cass. 26 febbraio 2014, n. 4518, in www.cortedicassazione.it. Contra, v. tuttavia la recente Trib. Mantova, 11 giugno 2014, in www.ilcaso.it.

405 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

vano una sorta di metamorfosi, trasformandosi in capitale in corrispondenza dell’ultimo istante dell’ultimo giorno del trimestre; a partire dal primo istan-te del primo giorno del trimestre successivo, gli interessi maturati nel trime-stre precedente – ormai divenuti capitale – cominciavano, a loro volta, a produrre interessi.

Da tale prassi operativa discendeva la circostanza che il capitale formato-si alla fine di un trimestre si “arricchiva” degli interessi maturati nello stesso trimestre e, nel trimestre successivo, iniziava a produrre interessi, come se fosse un unicum con il capitale; e gli interessi producevano, a loro volta, in-teressi per così dire sine die, giacché – quantomeno fino a che l’esposizione rimaneva nei limiti dell’affidamento – non trovava applicazione il già citato art. 1194, comma 2, c.c.

5.6. La modifica introdotta dalla “Legge di stabilità 2014”. Il “passaggio” dal regime dell’interesse composto a quello dell’interesse semplice La legge 27 dicembre 2013, n. 147, modificava il quadro di riferimento,

prevedendo l’abolizione “assoluta” dell’anatocismo. In particolare, il nuovo art. 120, comma 2, del T.U.B. veniva modificato nei seguenti termini: «Il C.I.C.R. stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capi-talizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale».

L’abolizione dell’anatocismo era, quindi, subordinata da una nuova Deli-bera C.I.C.R., che avrebbe dovuto definire «modalità e criteri per la produ-zione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria». Tuttavia, poiché la Delibera C.I.C.R. non ha mai visto la luce, la giurisprudenza ha dovuto affrontare la questione se la modifica apportata all’art. 120, comma 2, T.U.B. fosse autosufficiente – e, quindi, immediata-mente efficace – ovvero se l’emanazione della Delibera C.I.C.R. costituisse una sorta di “condizione di efficacia”. Come è noto, la giurisprudenza non si è pronunciata univocamente, aderendo in taluni casi alla tesi della immediata efficacia e in altri a quella della efficacia sospesa.

La modifica conduceva – sul piano tecnico ad una sorta di “rivoluzione copernicana”: infatti, l’abolizione dell’anatocismo (anche annuale) determi-nava il “passaggio” dal regime dell’interesse composto a quello dell’in-teresse semplice, con una serie di conseguenze di notevole portata.

406 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Nel frattempo, tuttavia, il d.l. 24 giugno 2014, n. 91, modificava nuova-mente lo scenario, introducendo l’anatocismo annuale. In particolare, l’art. 120, comma 2, T.U.B. assumeva il seguente tenore: «Il C.I.C.R. stabilisce modalità e criteri per la produzione, con periodicità non inferiore a un an-no, di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni disciplinate ai sensi del presente Titolo. Nei contratti regolati in conto corrente o in conto di pa-gamento è assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nell’addebito e nell’accredito degli interessi, che sono conteggiati il 31 di-cembre di ciascun anno e, comunque, al termine del rapporto per cui sono dovuti interessi; per i contratti conclusi nel corso dell’anno il conteggio de-gli interessi è comunque effettuato il 31 dicembre».

Tuttavia, in sede di conversione (legge 11 agosto 2014, n. 116), la modi-fica veniva espunta e – magicamente – tornava in vigore il testo originario, che prevedeva l’abolizione dell’anatocismo.

5.7. L’introduzione (definitiva) dell’anatocismo annuale In sede di conversione del d.l. 14 febbraio 2016, n. 18 – recante “Misure

urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la ga-ranzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio” – la l. 8 aprile 2016, n. 49, introduceva nuovamente – e in via definitiva – l’anatocismo an-nuale. In particolare, l’art. 120, comma 2 del T.U.B. prevedeva che il C.I.C.R stabilisse le «modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi sono conteggianti il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del rapporto per cui sono dovuti; b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in con-to corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: 1) gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e divengono esigibili il 1° marzo dell’anno suc-cessivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rap-porto, gli interessi sono immediatamente esigibili; 2) il cliente può autoriz-zare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è con-

407 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

siderata sorte capitale; l’autorizzazione è revocabile in ogni momento, pur-ché prima che l’addebito abbia avuto luogo».

Veniva in sostanza riaffermata la legittimità dell’anatocismo bancario (appena qualche mese dopo la sua “abolizione”), anche se con periodicità non inferiore ad un anno, demandando al CICR l’onere di prevedere le mo-dalità e i criteri di produzione degli interessi sugli interessi.

In data 3 agosto 2016 il CICR ha approvato in via definitiva la Delibera che contiene le disposizioni applicative del secondo comma dell’art. 120 del T.U.B., che gli intermediari finanziari dovranno applicare a partire dal 1° ot-tobre 2016. In particolare la delibera prevede che – nei rapporti di conto cor-rente – gli interessi siano conteggiati al 31 dicembre di ciascun anno e di-vengano esigibili il 1º marzo dell’anno successivo a quello in cui sono matu-rati; è inoltre stabilito che il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esi-gibili; in questo caso, la somma addebitata è considerata sorte capitale. Infi-ne, gli interessi debitori maturati non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale.

5.8. Le conseguenze di natura tecnica Nonostante la “riabilitazione” dell’anatocismo avvenuta per mezzo del

provvedimento legislativo da ultimo richiamato, pare comunque opportuno mettere in evidenza l’effetto distorsivo che – per il periodo antecedente all’originaria delibera del CICR (periodo ante 2000) e per il periodo di inter-regno (dal 2014 al 2016) – può generarsi a seguito dell’eliminazione del-l’anatocismo.

È utile, a tale fine, partire dall’esempio già utilizzato, raffrontando l’effet-to derivante dalla soppressione dell’effetto anatocistico in misura integrale, tenuto conto dell’art. 1194, comma 2, c.c., a mente del quale «il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli inte-ressi». Al proposito, pare opportuno sottolineare che – a stretto rigore – sol-tanto le rimesse solutorie hanno natura di “pagamento” 22, con la conseguen-za che il citato art. 1194, comma 2, c.c., non troverebbe applicazione in caso di rimesse ripristinatorie.

• Le tabelle seguenti recano il calcolo degli interessi tenendo conto del-l’effetto anatocistico.

22 Cass. S.U. 2 dicembre 2010, n. 24418, cit., ove si osserva che i versamenti ripristinato-ri non sono pagamenti.

408 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Data valuta Dare Avere Saldo per valuta

Rimesse solutorie

Rimesse ripristinatorie

31/12/2013 20.000,00 20.000,00 – –

4/1/2014 120.000,00 – 100.000,00 – –

15/1/2014 40.000,00 – 60.000,00 – 40.000,00

25/1/2014 70.000,00 – 130.000,00 – –

5/2/2014 50.000,00 – 80.000,00 – 50.000,00

16/2/2014 150.000,00 – 230.000,00 – –

27/2/2014 30.000,00 – 200.000,00 30.000,00 –

3/3/2014 80.000,00 – 280.000,00 – –

10/3/2014 40.000,00 – 240.000,00 40.000,00 –

12/3/2014 70.000,00 – 310.000,00 – –

21/3/2014 20.000,00 – 290.000,00 20.000,00 –

31/3/2014 4.621,30 – 294.621,30 – –

294.621,30

409 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Data valuta Dare Avere Saldo per valuta

Rimesse solutorie

Rimesse ripristinatorie

31/3/2014 294.621,30 – 294.621,30 – –

4/4/2014 120.000,00 – 414.621,30 – –

15/4/2014 240.000,00 – 174.621,30 214.621,30 25.378,70

25/4/2014 70.000,00 – 244.621,30 – –

5/5/2014 250.000,00 5.378,70 44.621,30 205.378,70

16/5/2014 150.000,00 – 144.621,30 – –

27/5/2014 130.000,00 – 14.621,30 – 130.000,00

3/6/2014 80.000,00 – 94.621,30 – –

10/6/2014 140.000,00 45.378,70 – 140.000,00

12/6/2014 70.000,00 – 24.621,30 – –

21/6/2014 120.000,00 95.378,70 – 120.000,00

30/6/2014 4.124,75 91.253,95 – –

385.875,25

Le tabelle seguenti contengono il calcolo degli interessi eliminando l’ef-

fetto anatocistico nei limiti di operatività dell’art. 1194 c.c. e, cioè, tenendo conto della prima rimessa solutoria del trimestre successivo.

410 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Data valuta Dare Avere Saldo per valuta

Rimesse solutorie

Rimesse ripristinatorie

31/3/2014 20.000,00 20.000,00 – –

4/1/2014 120.000,00 – 100.000,00 – –

15/1/2014 40.000,00 – 60.000,00 – 40.000,00

25/1/2014 70.000,00 – 130.000,00 – –

5/2/2014 50.000,00 – 80.000,00 – 50.000,00

16/2/2014 150.000,00 – 230.000,00 – –

27/2/2014 30.000,00 – 200.000,00 30.000,00 –

3/3/2014 80.000,00 – 280.000,00 – –

10/3/2014 40.000,00 – 240.000,00 40.000,00 –

12/3/2014 70.000,00 – 310.000,00 – –

21/3/2014 20.000,00 – 290.000,00 20.000,00 –

31/3/2014 – 290.000,00 – –

290.000,00

Data valuta Dare Avere Saldo per valuta

Rimesse solutorie

Rimesse ripristinatorie

31/3/2014 290.000,00 – 290.000,00 – –

4/4/2014 120.000,00 – 410.000,00 – –

15/4/2014 240.000,00 – 174.621,30 210.000,00 30.000,00

25/4/2014 70.000,00 – 244.621,30 – –

5/5/2014 250.000,00 5.378,70 44.621,30 205.378,70

16/5/2014 150.000,00 – 144.621,30 – –

27/5/2014 130.000,00 – 14.621,30 – 130.000,00

3/6/2014 80.000,00 – 94.621,30 – –

10/6/2014 140.000,00 45.378,70 – 140.000,00

12/6/2014 70.000,00 – 24.621,30 – –

21/6/2014 120.000,00 95.378,70 – 120.000,00

30/6/2014 95.378,70 – –

390.000,00

411 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Il raffronto conduce al risultato di seguito riportato:

Effetto reale anatocismo 32,82

Effetto eliminazione integrale 91,16

Effetto distorsivo dell’eliminazione 58,34

In altri termini, l’eliminazione integrale dell’effetto anatocistico – senza,

cioè, tenere conto del portato dell’art. 1194 c.c. – conduce ad un effetto di-storsivo, la cui misura dipende dalla data in cui si colloca la prima rimessa (nel caso di specie, il 15 aprile 2008).

Al proposito si è osservato che si procede «all’imputazione degli accredi-ti, in sede di ricostruzione del rapporto di conto corrente, prima ad interessi e spese e poi al capitale. Questa impostazione, seguita per anni dai tribunali piemontesi e di altre regioni (sulla scorta di conforme giurisprudenza della Corte d’Appello di Torino), ultimamente era caduta in disgrazia sulla scorta della considerazione che gli accrediti, nell’ambito del rapporto di conto corrente, non erano stati ritenuti – dalla giurisprudenza di merito – “paga-menti” definitivi e che il saldo passivo del conto corrente (salvo il caso di risoluzione del rapporto) non era da considerarsi un debito. La nuova giuri-sprudenza della S.C. a Sezioni Unite ha impatto anche su questo aspetto in quanto identificando i “pagamenti” negli accrediti su saldo scoperto o pas-sivo su conto non affidato, elimina i dubbi emersi in proposito. Pertanto, in tutti i casi di scopertura o di saldo passivo su conto non affidato, quantome-no con periodicità trimestrale gli accrediti successivi alla liquidazione delle competenze passive di ciascun trimestre andranno imputati prioritariamente ai relativi addebiti, secondo la disposizione civilistica richiamata» 23.

Rimane da chiedersi se, nel caso in esame (ormai superato dalla nuova

23 A. TROPINI, Relazione al Convegno “Derivati, Anatocismo e usura nei contratti ban-cari – Profili tecnici, civili e penali”, Università del Piemonte Orientale-Facoltà di Econo-mia, Casale Monferrato, 18 febbraio 2011.

412 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

normativa) tutte le rimesse debbano essere destinate al preventivo pagamen-to degli interessi, giacché – per effetto della mancata capitalizzazione degli interessi medesimi – non si produce più la loro metamorfosi in capitale, con-servando definitivamente la loro natura.

6. Segue: il credito al consumo: finanziamenti contro cessione del quinto dello stipendio e contratti di leasing

6.1. I finanziamenti contro cessione del quinto dello stipendio

6.1.1. Il quadro normativo

La legge 7 marzo 1996, n. 108, Disposizioni in materia di usura, modifi-cando l’art. 644 c.p., ha stabilito che gli interessi sono sempre usurari quan-do superino il tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato dalla metà (c.d. “Tasso soglia”) 24.

Il Tasso Soglia è determinato sulla base delle rilevazioni trimestrali del Tasso Effettivo Globale Medio (T.E.G.M.), effettuate dal Ministero del-l’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro – per categorie omo-genee di operazioni, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano Cambi (ora soppresso) e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. Le rilevazioni avvengono assumendo a riferimento le informazioni fornite dagli intermediari finanziari all’Ufficio Italiano Cambi e alla Banca d’Italia, sulla base delle istruzioni operative da quest’ultima emanate (e quindi, sulla base dei Tassi Effettivi Globali o T.E.G., calcolati dagli stessi intermediari finanziari e suddivisi in categorie omogenee di operazioni).

Il Tasso Effettivo Globale (T.E.G.), meglio noto nella matematica finanzia-ria come tasso implicito o tasso interno di rendimento, include tutte le com-ponenti di costo del finanziamento, fatta eccezione per quelle espressamente escluse (di cui si dirà in seguito); esso viene rilevato in media su tutto il ter-ritorio nazionale – e per questo motivo viene detto Tasso Effettivo Globale Medio (T.E.G.M.) – ed esprime il “costo” complessivo per le operazioni rientranti in una determinata categoria.

Il Tasso Effettivo Globale Medio (T.E.G.M.) – come sottolineato dalla Banca d’Italia – «fornisce elementi utili ad accertare se le condizioni di co-

24 In merito vedi DAGNA, Profili civilistici dell’usura, Padova, 2008, 98 ss.

413 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

sto (spese, interessi e oneri di varia natura) delle operazioni creditizie pra-ticate dalle banche e dagli intermediari finanziari presentano carattere usu-rario». Secondo le “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”, emanate dalla Banca d’Italia (pubbli-cate sulla G.U. n. 74 del 29 marzo 2006) e dall’Ufficio Italiano Cambi (pub-blicate sulla G.U. n. 102 del 4 maggio 2006), voce C4. (Trattamento degli oneri e delle spese), nella loro versione in vigore sino al secondo trimestre 2009, nel calcolo del T.E.G. «sono inclusi:

1) le spese di istruttoria e di revisione del finanziamento (per il factoring le spese di “istruttoria cedente”);

2) le spese di chiusura della pratica (per il leasing le spese forfettarie di “fi-ne locazione contrattuale”). Le spese di chiusura o di liquidazione addebi-tate con cadenza periodica, in quanto diverse da quelle di tenuta conto, rientrano tra quelle incluse nel calcolo del tasso;

3) le spese di riscossione dei rimborsi e di incasso delle rate, salvo quanto stabilito al successivo punto b);

4) il costo dell’attività di mediazione svolta da un terzo, se necessaria per l’ottenimento del credito;

5) le spese per le assicurazioni o garanzie, imposte dal creditore, intese ad assicurare il rimborso totale o parziale del credito. Le spese per assicura-zioni e garanzie non sono ricomprese quando derivino dall’esclusivo adem-pimento di obblighi di legge. Nelle operazioni di prestito contro cessione del quinto dello stipendio e assimilate indicate nella Cat. 8 25 le spese di assicurazione in caso di morte, invalidità, infermità o disoccupazione del debitore non rientrano nel calcolo del tasso, purché siano certificate da apposita polizza;

6) ogni altra spesa contrattualmente prevista connessa con l’operazione di finanziamento … (omissis).

Sono esclusi:

a) le imposte e tasse; b) le spese e gli oneri di cui ai successivi punti per la parte in cui non ecce-

dano il costo effettivamente sostenuto dall’intermediario: • il recupero di spese, anche se sostenute per servizi forniti da terzi (ad es.

25 Cat. 8: “Altri finanziamenti a medio/lungo termine”; in tale categoria sono espressa-mente compresi i finanziamenti che prevedono l’ordine incondizionato e irrevocabile al pro-prio datore di lavoro di pagare una quota dello stipendio direttamente al creditore e con am-montare entro il quinto degli emolumenti al netto delle ritenute.

414 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

perizie, certificati camerali, spese postali; spese custodia pegno; nel ca-so di sconto di portafoglio commerciale, le commissioni di incasso di pertinenza del corrispondente che cura la riscossione);

• le spese legali e assimilate (ad es. visure catastali, iscrizione nei pubblici registri, spese notarili, spese relative al trasferimento della proprietà del bene oggetto di leasing, spese di notifica, spese legate all’entrata del rapporto in contenzioso);

• gli oneri applicati al cliente indipendentemente dalla circostanza che si tratti di rapporti di finanziamento o di deposito (ad es. nel caso di aper-tura di conti correnti, gli addebiti per tenuta conto e quelli connessi con i servizi di incasso e pagamento);

c) gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente per il caso di inadempimento di un obbligo».

6.1.2. Le nuove istruzioni emanate dalla Banca d’Italia con effetto dalle rilevazioni per il terzo trimestre 2009

Il quadro sopra delineato trova diretta conferma nella recente evoluzione delle Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi, in vigore dal mese di agosto 2009, nelle quali l’Autorità di Vigilanza, innovando ri-spetto al passato, ha modificato l’elenco degli elementi inclusi nel calcolo del Tasso, prevedendo che rientrino anche «5) le spese per assicurazioni o garanzie intese ad assicurare il rimborso totale o parziale del credito ovve-ro a tutelare altrimenti i diritti del creditore (ad es. polizze per furto e in-cendio sui beni concessi in leasing o in ipoteca), se la conclusione del con-tratto avente ad oggetto il servizio assicurativo è contestuale alla conces-sione del finanziamento ovvero obbligatoria per ottenere il credito o per ot-tenerlo alle condizioni contrattuali offerte, indipendentemente dal fatto che la polizza venga stipulata per il tramite del finanziatore o direttamente dal cliente»; e precisando, ulteriormente, nella nota 11 che: «Nelle operazioni di prestito indicate nella Cat. 8 le spese per assicurazione in caso di morte, in-validità, infermità o disoccupazione del debitore rientrano nel calcolo del tasso».

Nello stesso Provvedimento, l’Autorità di Vigilanza prevede che siano esclusi:

«a) le imposte e tasse; b) le spese notarili (ad es. onorario, visure catastali, iscrizione nei pubblici

registri, spese relative al trasferimento della proprietà del bene oggetto di leasing);

c) i costi di gestione del conto sul quale vengono registrate le operazioni di

415 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

pagamento e di prelievo, i costi relativi all’utilizzazione di un mezzo di pagamento che permetta di effettuare pagamenti e prelievi e gli altri costi relativi alle operazioni di pagamento, a meno che il conto non sia a servi-zio esclusivo del finanziamento;

d) gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo».

Va altresì annotato che la Banca d’Italia ha previsto (§ D.1) un periodo transitorio dal 1/7/2009 al 31/12/2009, nel quale le spese assicurative dove-vano essere incluse in sede di rilevazione, ma non essere considerate ai fini della verifica del superamento dei limiti usurari.

In coerenza con la richiamata evoluzione del quadro regolamentare di ri-ferimento, la verifica dell’eventuale superamento dei tassi soglia usurari de-ve quindi essere condotta avendo riguardo a termini di confronto calcolati con metodologie omogenee e in particolare, per il caso di operazioni di pre-stito contro cessione del quinto dello stipendio, escludendo o includendo gli oneri assicurativi a seconda che esse siano state perfezionate entro il secon-do trimestre 2009 o dal terzo trimestre di tale anno in poi.

6.1.3. Un caso pratico

6.1.3.1. Descrizione delle condizioni contrattuali. Contratto di mutuo contro cessione di quote di stipendio

In data 15 marzo 2010 il Sig. XXX sottoscriveva un contratto di finan-ziamento contro cessione di quote dello stipendio con la YYY S.p.A., alle seguenti condizioni:

Importo Lordo del Finanziam. 24.000,00

Importo Rata 250,00

Numero Rate Mensili 96

Somma Rate Mensili 24.000,00

Commissione YYY 5.880,00

Netto Erogato 13.272,90

Costi Assicurativi 92,16

Imposte e tasse 54,33

416 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.1.3.2. Esposizione del criterio di calcolo seguito

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, pare fuor di dubbio che il tasso da assumere a riferimento per la verifica dell’eventuale superamento del Tasso Soglia sia il Tasso Effettivo Globale (T.E.G.), da determinarsi, in base alle (nuove) istruzioni della Banca d’Italia, tenendosi conto anche dei costi assicurativi e delle ulteriori voci di costo previste dalle medesime istru-zioni.

Le istruzioni per la determinazione del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.) sono fornite agli intermediari finanziari dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano Cambi. La formula per il calcolo del T.E.G., indicata dalle citate “Istruzioni” per le “Altre categorie di operazioni”, fra le quali rientra l’ope-razione di prestito oggetto della presente disamina, è la seguente:

m m

Ʃ

AK

Ʃ

AK ––––––––––– = –––––––––––––

(1 + i)k (1 + i)k’

k = 1 k = 1 dove:

i è il T.E.G. annuo, che può essere calcolato quando gli altri termini dell’equazione sono noti nel contratto o altrimenti

K è il numero d’ordine di un “prestito”*

k è il numero d’ordine di una “rata di rimborso”**

Ak è l’importo del “prestito” numero k

Ak è l’importo della “rata di rimborso” numero k

m è il numero d’ordine dell’ultimo “prestito”

m è il numero d’ordine dell’ultima “rata di rimborso”

417 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

* Per “prestito” si intende ciascuna erogazione eseguita dal creditore per effetto di uno stesso contratto.

** Per “rata di rimborso” si intende ogni pagamento a carico del cliente relativo al rimborso del capitale, degli interessi e degli altri oneri.

Con riferimento al finanziamento e al prestito in oggetto, la formula per il

calcolo del T.E.G. è la seguente:

96

Ʃ

Rata Somma Erogata = –––––––––––––

(1 + i)k

k = 1

6.1.3.3. La base-dati

Come si è avuto modo di osservare, secondo le “Istruzioni per la rileva-zione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura” della Banca d’Italia e dell’Ufficio Italiano Cambi aggiornate al 2009 e dunque vi-genti all’epoca della sottoscrizioni del contratto che si è assunto quale esem-pio, nel calcolo del T.E.G. rientrano «5) le spese per assicurazioni o garan-zie intese ad assicurare il rimborso totale o parziale del credito ovvero a tu-telare altrimenti i diritti del creditore (ad es. polizze per furto e incendio sui beni concessi in leasing o in ipoteca), se la conclusione del contratto avente ad oggetto il servizio assicurativo è contestuale alla concessione del finan-ziamento ovvero obbligatoria per ottenere il credito o per ottenerlo alle con-dizioni contrattuali offerte, indipendentemente dal fatto che la polizza venga stipulata per il tramite del finanziatore o direttamente dal cliente»; e preci-sando, ulteriormente, nella nota 11 che: «Nelle operazioni di prestito indica-te nella Cat. 8 26 le spese per assicurazione in caso di morte, invalidità, in-fermità o disoccupazione del debitore rientrano nel calcolo del tasso».

26 Cat. 8. Prestiti contro cessione del quinto dello stipendio e della pensione.

418 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Inoltre le “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura” della Banca d’Italia e dell’Ufficio Italiano Cambi aggiornate al 2009, e dunque vigenti all’epoca della sottoscrizione del contratto di cessione qui esaminato, specificano che sono escluse dal cal-colo del T.E.G.

«a) le imposte e tasse; b) le spese notarili (ad es. onorario, visure catastali, iscrizione nei pubblici

registri, spese relative al trasferimento della proprietà del bene oggetto di leasing);

c) i costi di gestione del conto sul quale vengono registrate le operazioni di pagamento e di prelievo, i costi relativi all’utilizzazione di un mezzo di pagamento che permetta di effettuare pagamenti e prelievi e gli altri costi relativi alle operazioni di pagamento, a meno che il conto non sia a servi-zio esclusivo del finanziamento;

d) gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo».

6.1.3.4. Contratto di prestito contro cessione di quote dello stipendio

A titolo di premessa, occorre prendere atto che il contratto di cessione di quote dello stipendio è stato stipulato in data 15 marzo 2010; pertanto, al ca-so di specie si applicano le disposizioni di cui alle “Istruzioni per la rileva-zione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura” della Banca d’Italia e dell’Ufficio Italiano Cambi aggiornate al 2009.

Venendo al caso concreto, il Sig. XXX ha conseguito dalla Banca YYY liquidità per euro 13.327,23.

Come più sopra riportato le imposte e tasse, che non rientrano nel calcolo del T.E.G., ammontano ad euro 54,33.

Sulla base dei predetti valori si può determinare l’ammontare del T.E.G., con esclusione delle imposte e tasse, con il seguente risultato:

Ipotesi T.E.G.

Calcolo con esclusione delle imposte e tasse 17,679%

419 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.1.3.5. Confronto con i tassi soglia usurari

Il tasso soglia relativo alle operazioni effettuate nel periodo 1/1/2010-31/3/2010 e, quindi, per il periodo di riferimento che interessa in relazione al Contratto di finanziamento contro cessione di quote dello stipendio stipulato in data 15 marzo 2010, è il seguente:

Categoria Periodo di

riferimento Tasso soglia Tasso soglia

usurario

Prestiti contro cessione del quinto dello stipendio e della pensione

(oltre 5.000 euro)

1°/1/2010 – 31/3/2010

12,460% 18,690%

Il confronto delle risultanze precedentemente illustrate con il tasso soglia

usurario, risulta dalla seguente tabella:

Ipotesi T.E.G. Tasso soglia usurario

Calcolo con esclusione delle imposte 17,679% 18,690%

È del tutto evidente che il tasso soglia non risulta essere stato superato.

6.1.3.6. Tasso Annuo Effettivo Globale. Esposizione del criterio di calcolo seguito

Premesso che il tasso da assumere a riferimento per la verifica dell’e-ventuale superamento del Tasso Soglia è il Tasso Effettivo Globale (T.E.G.), viene calcolato anche il T.A.E.G. del finanziamento, che ha mera funzione informativa. La formula da utilizzarsi al fine è la seguente:

420 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

m m

Ʃ

AK

Ʃ

AK ––––––––––––– = –––––––––––––

(1 + i)k (1 + i)k

k = 1 k = 1 dove:

i è il T.A.E.G. annuo, che può essere calcolato quando gli altri termini dell’equazione sono noti nel contratto o altrimenti

K è il numero d’ordine di un “prestito”*

k è il numero d’ordine di una “rata di rimborso”**

Ak è l’importo del “prestito” numero k

Ak è l’importo della “rata di rimborso” numero k

m è il numero d’ordine dell’ultimo “prestito”

m è il numero d’ordine dell’ultima “rata di rimborso”

* Per “prestito” si intende ciascuna erogazione eseguita dal creditore per effetto di

uno stesso contratto. ** Per “rata di rimborso” si intende ogni pagamento a carico del cliente relativo al

rimborso del capitale, degli interessi e degli altri oneri. Con riferimento al finanziamento che si è assunto ad esempio, la formula per il cal-

colo del T.A.E.G. è dunque la seguente:

421 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

96

Ʃ

Rata Somma Erogata = –––––––––––––

(1 + i)k

k = 1

6.1.3.7. Contratto di prestito contro cessione di quote dello stipendio

Poiché per il calcolo del T.A.E.G. devono essere ricomprese tutte le spe-se, incluse quelle sostenute per imposte e tasse, la base di calcolo è stata as-sunta in misura pari a euro 13.272,90. Ne è risultato un T.A.E.G. pari al 17,829%.

Ne discende che non vi è il superamento del tasso sogli usurario neppure con riguardo al T.A.E.G., così come risulta dalla Tabella di seguito riportata:

Ipotesi T.A.E.G. Tasso soglia usurario

Calcolo con inclusione di tutti gli oneri 17,829% 18,690%

6.1.3.8. Conclusioni

Come innanzi esposto, dal confronto del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.) e del Tasso Annuo Effettivo Globale (T.A.E.G.) dell’operazione di finanzia-mento contro cessione di quote dello stipendio con il tasso soglia usurario rilevato nel periodo di riferimento, non si evidenzia mai il superamento di quest’ultimo; né si rileva – mutatis mutandis – il superamento di una qual-che soglia usuraria con riguardo alla Commissione addebitata.

Si deve pertanto concludere che nella operazione posta in essere tra la YYY S.p.A. e il Sig. XXX il tasso di interesse praticato non può essere defi-nito usurario.

422 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.2. I contratti di leasing. Un caso pratico

6.2.1. Descrizione delle condizioni contrattuali

In data 22 aprile 2008 il Sig. ZZZ sottoscriveva un contratto di leasing al-le seguenti condizioni 27:

Grandezze Valori

Valore della fornitura 28.554,77 (oltre I.V.A.)

Spese gestione pratica 300,00 (oltre I.V.A.)

Bolli contrattuali 29,24

Primo canone 558,17 (oltre I.V.A.)

Canoni successivi senza spese di incasso

558,17 (oltre I.V.A.)

Spese incasso canoni successivi 5,00 (oltre I.V.A.)

Prezzo di riscatto finale 285,54 (oltre I.V.A.)

Data di inizio 24/4/2008

Durata in mesi (Canoni posticipati)

59

Interessi di mora 3 volte il Tasso di Riferimento

(già Tasso di Sconto)

6.2.2. Esposizione del criterio di calcolo seguito

6.2.2.1. Premessa. La formula utilizzata

Le istruzioni per la determinazione del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.) sono fornite agli intermediari finanziari dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano Cambi. La formula per il calcolo del T.E.G., indicata dalle citate

27 Per un approfondimento sulla struttura del contratto di leasing nella prospettiva del presente lavoro si veda BONTEMPI, Diritto bancario e finanziario, Milano, 2002, 135 ss.

423 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

“Istruzioni” per le “Altre categorie di operazioni”, fra le quali rientra l’ope-razione oggetto della presente Relazione, è la seguente:

m m

Ʃ

AK

Ʃ

AK ––––––––––––– = –––––––––––––

(1 + i)k (1 + i)k

k = 1 k = 1 dove:

i è il T.E.G. annuo, che può essere calcolato quando gli altri termini dell’equazione sono noti nel contratto o altrimenti

k è il numero d’ordine di un “prestito”*

k è il numero d’ordine di una “rata di rimborso”**

Ak è l’importo del “prestito” numero k

Ak è l’importo della “rata di rimborso” numero k

m è il numero d’ordine dell’ultimo “prestito”

m è il numero d’ordine dell’ultima “rata di rimborso”

* Per “prestito” si intende ciascuna erogazione eseguita dal creditore per

effetto di uno stesso contratto. ** Per “rata di rimborso” si intende ogni pagamento a carico del cliente

relativo al rimborso del capitale, degli interessi e degli altri oneri. Con riferimento al contratto in oggetto, la formula per il calcolo del

T.E.G. deve essere adattata come segue, giacché il finanziamento – commi-surato al Valore della fornitura – è stato erogato integralmente alla data di sottoscrizione del contratto e le Spese ed il primo Canone sono stati pagati alla stessa data:

424 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

n

Ʃ

CK Pr Vf = Si + Ci + ––––––––––––– + ––––––––––––– (1 + i)k (1 + i)n

k = 1 dove:

Vf È il Valore della fornitura

Si È l’ammontare delle Spese

Ci È l’importo del primo Canone

Ck È l’importo dei Canoni successivi (eventualmente maggiorato delle spese d’incasso)

k È il numero d’ordine dei Canoni

i È il T.E.G. annuo

n È il numero d’ordine dell’ultimo Canone

Pr È il Prezzo di Riscatto

Ak È l’importo del canone numero k

6.2.2.2. L’applicazione alla fattispecie oggetto di indagine

Vengono elaborati i tre prospetti di calcolo di seguito descritti:

• Dati desunti dal Piano di Ammortamento trasmesso da WWW S.P.A., al netto dell’I.V.A.: il criterio è coerente con le citate “Istruzioni”, ma non con l’art. 644, comma 4, c.p.

• Dati rielaborati tenendo conto di tutti gli oneri, al netto dell’I.V.A.: il crite-rio è coerente con l’art. 644, comma 4, c.p., ma non tiene conto dell’effetto distorsivo dell’I.V.A.

• Dati rielaborati tenendo conto di tutti gli oneri, al lordo dell’I.V.A.: il crite-rio è coerente con l’art. 644, comma 4, c.p.

425 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.2.2.2.1. Il calcolo sulla base dei dati desunti dal Piano di Ammorta-mento. – Viene, anzitutto, determinato l’ammontare del “Tasso leasing” sul-la base dei dati desunti dal Piano di Ammortamento rassegnato da WWW S.P.A., pervenendo al seguente risultato:

Grandezze Valori

Valore della fornitura 28.554,77

Servizi di marchiatura 180,00

Spese gestione pratica 300,00

Bolli contrattuali 29,24

Primo canone 558,17

Canoni successivi senza spese di incasso

558,17

Spese incasso canoni successivi 3,05

Canoni successivi con spese di incasso

561,22

Sommatoria canoni 33.670,15

Prezzo di riscatto finale 285,54

Data di inizio 24/4/2008

Durata in mesi 59

Valore del contratto 29.034,77

Debito iniziale (Sommatoria spese, canoni e prezzo di riscatto)

34.435,69

T.E.G. annuo 7,1837%

T.E.G. mensile 0,5798%

Il risultato si discosta, sebbene in misura non significativa, da quello co-

municato da WWW S.P.A. (7,06%).

426 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.2.2.2.2. Il calcolo sulla base dei dati rielaborati (al netto dell’I.V.A.). – Viene, poi, determinato l’ammontare del T.E.G. sulla base dei dati desunti dal Contratto di leasing con inclusione di tutti gli oneri (al netto dell’I.V.A.), pervenendo al seguente risultato:

Grandezze Valori

Valore della fornitura 28.554,77

Servizi di marchiatura 180,00

Spese gestione pratica 300,00

Bolli contrattuali 29,24

Primo canone 558,17

Canoni successivi senza spese di incasso

558,17

Spese incasso canoni successivi 5,00

Canoni successivi con spese di incasso

563,17

Sommatoria canoni 33.785,20

Prezzo di riscatto finale 285,54

Data di inizio 24/4/2008

Durata in mesi 59

Valore del contratto 28.734,77

Debito iniziale (Sommatoria spese, canoni e prezzo di riscatto)

34.550,74

T.E.G. annuo 8,1203%

T.E.G. mensile 0,6527%

Il risultato si discosta, sebbene in misura non significativa, da quello co-

municato da WWW S.p.A. (8,06%).

427 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.2.2.2.3. Il calcolo sulla base dei dati rielaborati (al lordo dell’I.V.A.). – Viene, infine, determinato l’ammontare del T.E.G. sulla base dei dati desunti dal Contratto di leasing con inclusione di tutti gli oneri (al netto dell’I.V.A.), pervenendo al seguente risultato:

Grandezze Valori

Valore della fornitura 34.265,72

Servizi di marchiatura 216,00

Spese gestione pratica 360,00

Bolli contrattuali 29,24

Primo canone 669,80

Canoni successivi senza spese di incasso

669,80

Spese incasso canoni successivi 6,00

Canoni successivi con spese di incasso

675,80

Sommatoria canoni 40.542,24

Prezzo di riscatto finale 342,65

Data di inizio 24/4/2008

Durata in mesi 59

Valore del contratto 34.481,72

Debito iniziale (Sommatoria spese, canoni e prezzo di riscatto)

41.460,89

T.E.G. annuo 8,1203%

T.E.G. mensile 0,6527%

Il risultato coincide, sostanzialmente, con quello calcolato al netto del-

l’I.V.A.

428 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.2.2.2.4. Confronto con i tassi soglia usurari. – Il tasso soglia relativo alle operazioni effettuate nel periodo 1/3/2008 – 30/6/2008 e, quindi, per il periodo di riferimento che interessa in relazione al Contratto di leasing sti-pulato in data 22 aprile 2008, è il seguente:

Categoria Periodo di

riferimento Tasso soglia Tasso soglia

usurario

Leasing (oltre 25.000 Euro

fino a 50.000 Euro) 1°/3/2008 – 30/6/2008

8,42% 12,63%

Il confronto delle risultanze precedentemente illustrate con il tasso soglia

usurario, risulta dalla seguente tabella:

Ipotesi T.E.G. Tasso soglia usurario

Dati desunti dal Piano di Ammortamento 8,2613% 12,63%

Dati desunti dal Contratto di leasing (al netto dell’I.V.A.)

8,4195% 12,63%

Dati desunti dal Contratto di leasing (al lordo dell’I.V.A.)

8,4196% 12,63%

Il tasso soglia non risulta mai superato.

6.2.3. Conclusioni

Dal confronto del Tasso Effettivo Globale (T.E.G.) dell’operazione di leasing con il tasso soglia usurario rilevato nel periodo di riferimento, non si evidenzia mai il superamento di quest’ultimo, quale che sia il criterio utiliz-zato.

Si deve pertanto concludere che nella operazione di leasing tra la WWW S.P.A. e il Sig. ZZZ qui assunta ad esempio, il tasso di interesse praticato non può essere considerato usurario.

429 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

7. L’ammortamento del mutuo

7.1. Considerazioni di carattere generale Il piano di ammortamento è un procedimento attraverso il quale un finan-

ziamento, normalmente erogato dal sistema bancario, viene pagato rateal-mente.

Esistono diversi piani di ammortamento 28, fra i quali:

• L’Ammortamento a rate costanti (francese). • L’Ammortamento con quote capitali costanti (italiano).

Il piano utilizzato dal sistema bancario italiano è quello alla francese, cioè a rate costanti.

La rata, convenzionalmente indicata con la lettera maiuscola R, è costi-tuita da una quota capitale, indicata con la lettera maiuscola C, e da una quo-ta interesse, indicata con la lettera maiuscola I, ove:

R = C + I

Come si è detto R è costante nel tempo, mentre la quota capitale (C) cre-

sce via via nel tempo e la quota interessi (I) decresce. La ragione è intuitiva: infatti, poiché – riducendosi il debito residuo – la quota interessi diminuisce – essendo computata su una base di calcolo che si riduce nel tempo – la quo-ta capitale – ferma restando la rata – necessariamente aumenta.

Vi sono due “condizioni di chiusura” del piano di ammortamento: la pri-ma – per così dire – elementare e la seconda finanziaria.

La condizione di chiusura elementare è intuitiva e non richiede nozioni particolarmente sofisticate di matematica finanziaria.

In particolare, indicando con la lettera D il debito iniziale, la condizione di chiusura elementare richiede che la somma delle quote capitale coincida con il debito iniziale; e cioè

D = C1 + C2 + … Cn

28 Sul tema v. APRILE, Metodi di ammortamento. Tecniche di rimborso di prestiti e mutui, Milano, 1993.

430 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Muovendo dalla condizione di chiusura elementare, si comprende age-volmente come il piano di ammortamento alla francese non “incorpori” l’effetto anatocistico e, cioè, di capitalizzazione degli interessi. Infatti, gli interessi che compongono le rate dei diversi periodi sono calcolate sul debito residuo del periodo precedente; e cioè.

I1 = D0 x i I2 = D1 x i

In = Dn-1 x i

Come è facile rilevare, non si determina, dunque, alcun effetto anatocisti-co, giacché gli interessi vengono calcolati esclusivamente sulla quota capita-le e non invece su quest’ultima maggiorata degli interessi (che via via ven-gono pagati).

La condizione di chiusura finanziaria potrebbe, al contrario, indurre nell’equivoco di ritenere che, in un qualche modo, qualsiasi piano di ammor-tamento sia – per così dire – caratterizzato da effetto anatocistico.

Infatti, la condizione di chiusura finanziaria muove dal presupposto di equivalenza – in termini finanziari – del debito iniziale con la somma delle rate, opportunamente attualizzate, cioè portate indietro nel tempo; nessun in-termediario finanziario, infatti, si sognerebbe di prestare una somma all’e-poca zero per ricevere rate distribuite nel tempo la cui somma sia esattamen-te coincidente con la somma concessa a prestito.

Per convenzione, la condizione di chiusura finanziaria viene posta appli-cando il regime della capitalizzazione (rectius attualizzazione) composta; e, cioè, dell’attualizzazione – per così dire – con “effetto anatocistico”.

Per completezza, si riporta di seguito la formula di matematica finanzia-ria utilizzata quale condizione di chiusura (finanziaria).

D = R /(1 + i) + R / (1+i)2 + … + R / (1+i)n

Come anticipato, una lettura di tale formula nella prospettiva elementare

e non finanziaria potrebbe indurre nell’equivoco di ritenere che – in un qual-che modo – il piano di ammortamento francese (ma la conclusione varrebbe anche per il piano di ammortamento italiano e, cioè, a quote costanti) “na-sconda” un effetto anatocistico.

Trattasi, peraltro, di mero equivoco interpretativo, poiché l’applicazione del regime della capitalizzazione composta – cioè del regime che incorpora

431 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

l’effetto anatocistico – ha l’esclusiva finalità di garantire l’“equivalenza” fi-nanziaria dell’operazione.

Per contro, come si evince chiaramente dalla condizione di chiusura ele-mentare sopra riportata, il piano di ammortamento non sottende alcun effetto anatocistico, giacché gli interessi vengono calcolati esclusivamente sul debi-to residuo, il quale si riduce nel tempo per effetto del pagamento delle quote capitale, ma non si incrementa degli interessi poiché questi ultimi vengono via via pagati.

In definitiva, possono essere tratte le seguenti conclusioni:

• è fuori di discussione che, in caso di capitalizzazione infrannuale, il tasso di interesse effettivo è superiore al tasso nominale;

• è altrettanto fuori di discussione che si verifica l’effetto anatocistico soltan-to nel caso in cui gli interessi via via maturati vengano trasformati in capi-tale e generino a loro volta interessi: l’origine etimologica dell’espressione “anatocismo” non lascia dubbi, derivando dal greco “anà” – nel significato di “sopra” – e “tokòs” – nel significato di “prodotto” –; e, cioè, “interesse prodotto dall’interesse”.

• si deve evitare l’errore di considerare equivalenti le espressioni capitaliz-zazione ed anatocismo, laddove la capitalizzazione ha un perimetro defini-torio molto più ampio: ben potrebbe esserci una capitalizzazione infran-nuale degli interessi, senza effetto anatocistico 29;

• invero, l’effetto anatocistico si genera soltanto ove il capitale concesso a prestito venga via via incrementato degli interessi, che a loro volta comin-cino a produrre interessi; ma ciò – nel caso di specie – non accade, poiché, con il pagamento della rata, vengono pagati anche gli interessi maturati, che quindi non possono – quindi – produrre a loro volta interessi.

7.2. Un caso pratico Tale ultima affermazione diventa lapalissiana non appena si provi a ela-

borare il piano di ammortamento, arricchendo lo stesso con le colonne rela-tive al debito residuo e agli interessi, come risulta dalla tabella (parziale) di seguito riprodotta:

29 In questo senso v. BARBA, La disciplina legale dell’anatocismo nel sistema codicistico, cit., 55.

432 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Rate Date Debito Residuo Rate Quota

Capitale Quota

Interessi

30/11/2009 14.973,92

1 31/12/2009 14.912,32 223,00 61,60 161,40

2 31/01/2010 14.850,06 223,00 62,26 160,74

3 28/02/2010 14.787,13 223,00 62,93 160,07

4 31/03/2010 14.723,52 223,00 63,61 159,39

5 30/04/2010 14.659,22 223,00 64,30 158,70

6 31/05/2010 14.594,23 223,00 64,99 158,01

7 30/06/2010 14.528,54 223,00 65,69 157,31

8 31/07/2010 14.462,14 223,00 66,40 156,60

9 31/08/2010 14.395,03 223,00 67,11 155,89

10 30/09/2010 14.327,19 223,00 67,84 155,16

111 28/02/2019 1.902,97 223,00 200,33 22,67

112 31/03/2019 1.700,49 223,00 202,49 20,51

113 30/04/2019 1.495,82 223,00 204,67 18,33

114 31/05/2019 1.288,94 223,00 206,88 16,12

115 30/06/2019 1.079,83 223,00 209,11 13,89

116 31/07/2019 868,47 223,00 211,36 11,64

117 31/08/2019 654,83 223,00 213,64 9,36

118 30/09/2019 438,89 223,00 215,94 7,06

119 31/10/2019 220,62 223,00 218,27 4,73

120 30/11/2019 0,00 223,00 220,62 2,38

Come è agevole constatare, gli interessi maturati di mese in mese vengo-

no pagati insieme con la rata e non concorrono a produrre a loro volta inte-ressi, giacché non vanno ad incrementare il debito residuo; in altri termini, escono dal circuito anatocistico o – per meglio dire – non vi sono mai entrati.

433 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Al riguardo sembra, comunque, opportuno precisare quanto segue. Si ha “interesse composto”, rilevante agli effetti dell’art. 1283 c.c., nel

caso in cui gli interessi maturati sul debito nel periodo X si aggiungono al capitale, andando così a costituire la base di calcolo, ossia il capitale produt-tivo di interessi del periodo X+1 e così via ricorsivamente. Sennonché nel-l’ammortamento con rimborso graduale non v’è applicazione di interesse composto (e quindi non vi è anatocismo) perché: • gli interessi di periodo vengono calcolati su una base formata dal solo capi-

tale residuo, come agevolmente s’evince dal piano di ammortamento; • alla scadenza della rata gli interessi maturati non vengono capitalizzati, ma

sono pagati come quota interessi della rata di rimborso del mutuo, essendo tale pagamento periodico della totalità degli interessi elemento essenziale e caratterizzante in particolare dell’ammortamento francese, dove la rata è costante e la quota capitale rimborsata è determinata per differenza rispetto alla quota interessi;

• peraltro, poiché la rata paga anche una quota del debito in linea capitale, a ciò segue che il pagamento a scadenza del periodo X riduce il capitale che fruttifica nel periodo X+1, ossia si verifica un fenomeno inverso rispetto alla capitalizzazione.

8. Gli interessi di mora

8.1. L’elaborazione giurisprudenziale Una recente sentenza della Corte di Appello di Venezia 30 affronta la te-

matica, di stringente attualità, se gli interessi moratori debbano essere calco-lati ai fini dell’accertamento del tasso soglia, il cui superamento determine-rebbe l’applicabilità della disciplina relativa all’usura.

In virtù del superiore quadro normativo e regolamentare, si sono delineati in giurisprudenza tre orientamenti in merito all’individuazione degli interes-si che debbano essere computati per calcolare il tasso soglia.

Un primo, cui aderisce la Sentenza citata, accoglie un’ampia interpreta-zione del combinato disposto degli artt. 644 c.p. e 1815 c.c., con la conse-guenza che si considerano non dovuti anche gli interessi moratori che supe-rino il limite soglia al momento in cui sono promessi o comunque convenuti

30 App. Venezia, 18 febbraio 2013, n. 342, inedita.

434 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

a qualunque titolo, salvo che il rapporto non si sia definito prima della entra-ta in vigore della legge n. 108 del 1996 31.

Una diversa opzione interpretativa invece ritiene che, nella determinazio-ne degli interessi usurari, non possano essere computati gli interessi morato-ri, la cui funzione è diversa da quelli corrispettivi.

In particolare, a sostegno di tale assunto, si è affermato che la natura de-gli interessi moratori sarebbe assimilabile alla penale 32; di conseguenza, mentre gli interessi corrispettivi maturano con il passare del tempo, la mora è ricollegabile solo all’evento del ritardo nell’adempimento, fattispecie che le norme regolamentari emesse dalla Banca d’Italia prevedono sia esclusa dal calcolo del T.E.G. Si ritiene altresì che nel senso dell’esclusione dal cal-colo usurario della mora per ritardo deponga la circostanza che per tali inte-ressi, al pari della penale, è previsto un diverso controllo di congruità che si declina nel poter officioso del Giudice di ridurne l’ammontare in caso di manifesta eccessività, al fine di preservare l’equilibrio complessivo del si-nallagma contrattuale, tenendo in considerazione complessivamente tutti gli oneri previsti in capo alla parte nell’ipotesi di inadempimento contrattuale.

Un terzo orientamento giurisprudenziale, invece, ritenendo che nel calco-lo degli interessi usurari rientrino anche quelli moratori, attribuisce un diver-so rilievo sanzionatorio al superamento del tasso soglia. Più precisamente, si osserva che, pur applicandosi la legge n. 108 del 1996 ai contratti anterior-mente stipulati ed ancora produttivi di effetti, gli interessi moratori che supe-rano la soglia usuraria – ai sensi del combinato disposto degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c., in relazione all’art. 1815 c.c. – non debbano annullarsi completamente, ma essere abbattuti entro il limite previsto dalla legge 33.

Inoltre, si è osservato che, nel caso in cui gli interessi divengano usurari

31 Si vedano, ex plurimis, Cass. 9 gennaio 2013, n. 350, in Nuova Giur. civ., 2013, 7-8, 675 ss. con nota di Tarantino; Corte Cost. 25 febbraio 2002, n. 29, in www.cortecostituzio nale.it; Cass., 4 aprile 2003, n. 5324, in www.cortedicassazione.it; Cass. 2 febbraio 2000, n. 1126, in Giur. It., 2001, 311 ss. con nota di Scano; Cass. 17 novembre 2000, n. 14899, in Vita not., 2001, 103 ss. con nota di Putti; nella giurisprudenza di merito si vedano Trib. Ge-nova, 10 ottobre 2000, in Gius., 2001, 2422 ss. e Trib, Roma, 10 luglio 1998, in Foro it., 1999, I, 343 ss.

32 V., ex multis, Trib. Vercelli, 16 novembre 2011, in www.dejure.it. 33 Vedi in proposito Trib. Napoli, 8 luglio 2013, inedita e Trib. Campobasso, 3 ottobre

2000, in Giur. merito, 2001, 674 ss. Secondo una diversa ricostruzione, invece, la declaratoria di nullità del tasso di mora

comporterebbe l’applicazione dell’interesse corrispettivo: v. in questo senso, da ultimo, Trib. Milano 28 gennaio 2014, in www.expartecreditoris.it.

435 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

in seguito ad una diminuzione del tasso soglia successiva alla conclusione di un contratto di apertura di credito in conto corrente, la clausola determinati-va degli interessi moratori pattuita deve ritenersi affetta da nullità parziale, con conseguente riduzione automatica del tasso degli interessi a quello cor-rispondente al tasso-soglia di volta in volta rilevato 34.

8.2. Un caso pratico Si assuma, a titolo di esempio, la regolamentazione degli interessi di mo-

ra contenuta nel contratto di leasing precedentemente esaminato, al fine di verificare in quale modo questi ultimi debbano essere considerati nel proce-dimento di verifica dell’eventuale superamento del tasso soglia usurario.

Il “Prospetto di Sintesi” prevede che gli interessi di mora siano calcolati in misura pari a tre volte il tasso di riferimento (tasso di rifinanziamento principale).

Al proposito, l’art. 7 delle “Condizioni Generali di Locazione Finanzia-ria (Leasing)”, rubricato “Pagamenti ed interessi di mora – spese recupero crediti”, dispone che «Sui ritardati pagamenti e senza necessità di costitu-zione in mora saranno applicati a carico dell’utilizzatore interessi moratori nella misura del doppio del tasso ufficiale di sconto in vigore alla data dell’effettivo pagamento».

Dal chiaro tenore letterale della clausola si desume che gli interessi di mora non si cumulano con gli interessi contrattuali, di talché la verifica dell’eventuale superamento del tasso soglia usurario dei primi deve essere condotta autonomamente.

Sulla base di tale considerazione, si può, quindi, rilevare la dinamica del Tasso di Riferimento nel periodo di durata del Contratto di leasing, dinami-ca che di seguito si riporta:

34 App. Milano, 6 marzo 2002, in Giur. It., 2003, 93.

436 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Data Tipo Tasso Ufficiale di Riferimento Triplo

13/6/2007 BCE 4,00% 12,00%

9/7/2008 BCE 4,25% 12,75%

15/10/2008 BCE 3,75% 11,25%

12/11/2008 BCE 3,25% 9,75%

10/12/2008 BCE 2,50% 7,50%

21/1/2009 BCE 2,00% 6,00%

11/3/2009 BCE 1,50% 4,50%

8/4/2009 BCE 1,25% 3,75%

13/5/2009 BCE 1,00% 3,00%

13/4/2011 BCE 1,25% 3,75%

13/7/2011 BCE 1,50% 4,50%

9/11/2011 BCE 1,25% 3,75%

14/12/2011 BCE 1,00% 3,00%

11/7/2012 BCE 0,75% 2,25%

2/5/2013 BCE 0,50% 1,50%

13/11/2013 BCE 0,25% 0,75%

Successivamente, occorre individuare la dinamica del tasso soglia relati-

vo alle operazioni di leasing, con riguardo allo stesso periodo di riferimento, dinamica di seguito riportata:

437 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Inizio trimestre Fine trimestre T.E.G.M. Tasso soglia

01/01/08 31/03/08 8,21 12,32 01/04/08 30/06/08 8,42 12,63 01/07/08 30/09/08 8,25 12,38 01/10/08 31/12/08 8,62 12,93 01/01/09 31/03/09 8,01 12,02 01/04/09 30/06/09 7,45 11,18 01/07/09 30/09/09 6,91 10,37 01/10/09 31/12/09 7,08 10,62 01/01/10 31/03/10 12,67 19,01 01/04/10 30/06/10 8,77 13,16 01/07/10 30/09/10 7,34 11,01 01/10/10 31/12/10 7 10,50 01/01/11 31/03/11 6,91 10,37 01/04/11 13/05/11 6,96 10,44 14/05/11 30/06/11 6,96 12,70 01/07/11 30/09/11 7,2 13,00 01/10/11 31/12/11 7,18 12,98 01/01/12 31/03/12 7,38 13,23 01/04/12 30/06/12 7,89 13,86 01/07/12 30/09/12 8,54 14,68 01/10/12 31/12/12 8,04 14,05 01/01/13 31/03/13 8,14 14,18 01/04/13 30/06/13 8,05 14,06 01/07/13 30/09/13 7,79 13,74 01/10/13 31/12/13 7,62 13,53 01/01/14 31/03/14 7,55 13,44

Come è agevole rilevare, il tasso di interesse di mora previsto contrat-

tualmente – nella sua dinamica evolutiva – non supera mai il tasso soglia usurario.

438 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

9. La matematica finanziaria dell’incertezza: le polizze unit linked e index linked

9.1. Definizione di “operazione attuariale” Un’operazione attuariale consiste nello scambio di somme scadenti in

epoche diverse, incerte nella loro manifestazione e fisse o variabili (in fun-zione di parametri di natura finanziaria) nel loro importo.

Nelle operazioni attuariali deve essere verificato il rispetto della condi-zione di “equivalenza attuariale”; cioè, di indifferenza (attuariale) fra le somme – come si è detto incerte nella loro manifestazione – scadenti in epo-ca diversa. L’indifferenza, anche in tale caso, è valutata sulla base del pro-cedimento di “capitalizzazione” ovvero di “attualizzazione”.

La differenza sostanziale rispetto ad un’operazione finanziaria consiste nel fatto che l’“equivalenza attuariale” viene valutata attribuendo un “peso” – costituito dalla probabilità di un evento legato alla vita del contraente (morte o sopravvivenza) – a somme scadenti in epoca diversa; giacché le stesse formeranno oggetto di pagamento – o di incasso, a seconda del punto di vista – soltanto in funzione dell’evento medesimo.

9.2. Le polizze vita tradizionali Le polizze vita tradizionali rientrano nella nozione di “operazione attua-

riale”. Un esempio potrebbe essere il seguente: Tizio sottoscrive una polizza vita tradizionale che prevede il pagamento di un capitale al verificarsi dell’evento “morte dell’assicurato entro dieci anni dalla sottoscrizione”.

Nella parte superiore (positiva) dell’asse temporale sono riportati i premi periodici (prestazioni dell’assicurato); nella parte inferiore (negativa) del-l’asse temporale sono riportati i premi naturali (prestazioni dell’assicura-tore), pesate sulla base del rischio demografico:

439 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

10

2 1 0

Come si avrà modo di vedere, i premi di riserva consistono nella diffe-

renza fra i premi periodici e i premi naturali. La condizione di “equivalenza attuariale” è rispettata ove vi sia coinci-

denza fra il valore attuale – nel caso di attualizzazione delle somme – ovvero il valore capitalizzato – nel caso di capitalizzazione delle somme – dei premi periodici e il valore attuale (o il valore capitalizzato) dei premi naturali.

Il tasso di attualizzazione o di capitalizzazione che conduce al rispetto dell’equivalenza attuariale – come si vedrà – è detto “tasso tecnico”.

La condizione di “equivalenza attuariale” implica, quindi, necessariamen-te la considerazione di due componenti: quella assicurativa, che trova espressione in “pesi” di natura probabilistica o statistica sulla base del ri-schio demografico e quella finanziaria, sottesa al procedimento di attualiz-zazione o capitalizzazione.

Sotto il profilo matematico, quindi, si verte nell’ambito delle “operazioni finanziarie” in tutti i casi in cui sia presente – oltre alla componente finan-ziaria – anche una componente assicurativa (o, meglio, demografica).

9.3. Il contratto di assicurazione Dal punto di vista della matematica attuariale, il contratto di assicurazio-

ne può – dunque – essere visto come un’operazione finanziaria aleatoria – e, cioè, posta in essere in condizioni di incertezza – tra il contraente e l’im-presa di assicurazione.

In particolare, l’assicurato assume l’obbligazione di versare un premio quale corrispettivo dell’impegno dell’assicuratore di liquidare un determina-to importo – che, almeno in teoria, potrebbe essere incerto nel quantum – se e quando un determinato evento si verificherà.

Questa particolare operazione finanziaria si basa sul principio di “equità” (o, meglio, di “equivalenza finanziaria”), nel senso che l’entità del premio de-ve essere commisurata alla probabilità dell’evento ed al capitale assicurato.

440 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

La matematica attuariale si occupa dello studio dei contratti assicurativi, avvalendosi di analisi statistiche, probabilistiche e finanziarie.

9.4. Le assicurazioni sulla vita: concetti generali Come già si è detto, l’assicurazione presuppone l’esistenza di un rischio

basato su un evento futuro e incerto, nel senso che deve sussistere un’alea in ordine all’an – l’evento può verificarsi o meno – ovvero al quando – l’e-vento è sicuro, ma non si sa quando si verificherà – ovvero ancora al quan-tum – la diversa modalità in cui si presenterà l’evento determinerà una di-versa prestazione dell’assicuratore 35.

La condizione di incertezza viene – per così dire – “catturata” in modo diverso a seconda che si versi nell’ambito dell’assicurazione contro i danni ovvero dell’assicurazione sulla vita. Infatti, mentre nel primo caso il premio viene calcolato sulla base di rilevazioni empiriche – e, cioè, osservando in un’opportuna collettività di contratti il numero di sinistri verificatisi e i rela-tivi danni e risarcimenti – nel secondo esso viene determinato sulla base di tavole statistiche attendibili – le cc.dd. tavole demografiche –.

Altra caratteristica propria dei contratti assicurativi è costituita dalla cir-costanza che la prestazione dell’assicurato (premio) precede quella dell’assi-curatore (capitale assicurato); dal punto di vista dell’assicuratore, gli incassi precedono nel tempo gli esborsi. D’altronde, l’origine etimologica del ter-mine “premio” deriva dalla fusione dei due vocaboli latini prae ed emere, nel senso di “pagato prima”.

Il premio di assicurazione – prestazione cui è chiamato l’assicurato e a fronte della quale l’assicuratore assume un rischio – è calcolata sulla base sia del rischio assunto dall’assicuratore – e, cioè, tenendo conto di ciò che egli dovrà pagare nel caso si verifichi l’evento oggetto di assicurazione – sia del profitto che quest’ultimo intende conseguire, ovviamente al netto delle spese da sostenere.

Il premio può essere pagato in un’unica soluzione alla stipulazione del contratto – ed in tal caso si parla di “premio unico” – ovvero a rate – ed allo-ra si parla correntemente di “premio periodico”.

Limitando – come si è detto – l’indagine all’assicurazione sulla vita, l’evento che può dar luogo alla prestazione dell’assicuratore attiene alla vita dell’assicurato e, nelle forme classiche di assicurazione, può consistere nella

35 Per approfondimenti sul tema si rimanda a DONATI-PUTZOLU, Manuale di diritto delle assicurazioni, Milano, 2012, 12 ss.

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morte dell’assicurato in un certo intervallo ovvero nella sua sopravvivenza oltre una certa data.

Poiché la prestazione dell’assicuratore (capitale a scadenza) è caratteriz-zata da incertezza, il premio – invece certo e determinato (almeno nelle for-me più semplici), all’epoca della stipulazione del contratto – deve essere calcolato sulla base degli eventuali esborsi futuri a carico dell’assicuratore, “pesati” con le rispettive probabilità e con un certo tasso di attualizzazione.

Quindi, l’operazione finanziaria (rectius assicurativa) è caratterizzata da una componente demografica – avente natura statistica o probabilistica e de-terminata sulla base delle tavole di sopravvivenza – e da una componente finanziaria – costituita dal tasso di interesse mediante il quale calcolare il va-lore attuale degli eventuali esborsi futuri.

Nella terminologia attuariale vengono chiamate basi tecniche del prim’ordi-ne la base demografica – e, cioè, la tavola di sopravvivenza, stabilita contrat-tualmente – e la base finanziaria – ossia il tasso di interesse annuo (detto “tasso tecnico”) che l’assicuratore garantisce all’assicurato –.

La prestazione dell’assicurato in termini attuariali è costituita dal premio unico o dal valore attuale del premio periodico; mentre, la prestazione del-l’assicuratore è rappresentata dal valore attuale dei possibili esborsi futuri (capitale a scadenza o rendita).

Gli elementi che concorrono alla determinazione del premio sono costi-tuiti – tra gli altri – dal capitale assicurato, dalla durata del contratto e dalle basi tecniche utilizzate.

Come si è detto, per la condizione di “equivalenza finanziaria” fra presta-zione dell’assicurato (premio) e prestazione dell’assicuratore (capitale a sca-denza), la prima scaturisce dalla seconda, attraverso un opportuno processo di attualizzazione, tenuto conto di idonee basi tecniche.

In particolare, si definisce “premio puro” il valore attuale atteso delle prestazioni dell’assicuratore, calcolato con le basi tecniche del prim’ordine. L’utilizzo di tali basi risulta favorevole per l’assicuratore e incorpora il pro-fitto in capo a quest’ultimo.

Per contro, si definisce “premio equo” il premio calcolato adottando le basi tecniche del second’ordine – base demografica e base finanziaria –, che rende nullo il valore atteso del profitto dell’assicuratore.

Per quanto appena detto, il premio puro dovrebbe risultare maggiore del premio equo e la differenza fra i due è detta caricamento di sicurezza (impli-cito) e costituisce il valore atteso del profitto dell’assicuratore.

In realtà, l’assicurato paga una somma superiore al premio puro, che comprende il “caricamento per spese” – destinato a coprire le spese di ac-

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quisizione del contratto, di incasso dei premi, di gestione, ecc. – e gli even-tuali “oneri fiscali”.

Si definisce “premio di tariffa” il premio puro – comprensivo del carica-mento di sicurezza (implicito) –, maggiorato del caricamento per spese.

Nella prassi, il pagamento del premio in un’unica soluzione può risultare troppo oneroso per l’assicurato, cosicché il premio unico puro viene suddivi-so in rate annue anticipate, dette “premi periodici”. Ovviamente, il valore attuale dei premi periodici deve coincidere con il “premio unico”, così da garantire in ogni caso l’equivalenza attuariale fra prestazioni dell’assicurato (premi periodici) e prestazioni dell’assicuratore (capitale assicurato o rendi-ta).

Sulla base di quanto esposto, il valore attuale dei premi periodici corri-sponde alla somma dei valori attuali dei costi attesi e del profitto per l’as-sicuratore, questi ultimi detti anche “premi naturali”; in altri termini, i premi periodici rappresentano il valore attuale (rectius da attualizzare, al fine di ot-tenere il premio unico) dei costi per l’assicuratore (maggiorato del suo profit-to) e corrispondono – in termini attuariali – agli impegni assunti da quest’ul-timo, tenuto conto delle basi demografiche e finanziarie, cioè ai premi natura-li.

Sotto tale profilo è, dunque, garantita l’equivalenza finanziaria fra premi naturali e premi periodici. Tuttavia, per effetto dello sfasamento temporale fra gli stessi, non è parimenti garantita – sul piano cronologico – la corri-spondenza aritmetica tra le prestazioni dell’assicurato (premi periodici) e le prestazioni dell’assicuratore (premi naturali).

Il problema potrebbe essere risolto facendo pagare all’assicurato i premi naturali anziché i premi periodici; tuttavia, dal momento che i primi sono crescenti nel tempo – per effetto della maggiore probabilità che li caratteriz-za – si preferisce far pagare a quest’ultimo i premi periodici.

La differenza aritmetica – sul piano cronologico – fra premi periodici e premi naturali determina, quindi, la formazione dei cc.dd. “premi di riserva”. Nel caso in cui tale differenza sia positiva, circostanza che si verifica quando l’introito derivante dal premio periodico pagato dall’assicurato è maggiore del “costo” per l’assicuratore, quest’ultimo deve accantonare tale differenza per far fronte alle future deficienze di premio; ove, invece, la differenza sia negativa, il ché accade quando il “costo” per l’assicuratore è maggiore dell’introito derivante dal premio periodico pagato dall’assicurato, occorre utilizzare gli accantonamenti effettuati in precedenza per far fronte al paga-mento delle prestazioni.

Pertanto, il premio periodico può essere scomposto in due parti: la prima, corrispondente al rischio del periodo, pari dunque al costo per l’assicuratore;

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la seconda, corrispondente all’eccedenza (positiva o negativa), che deve es-sere accantonata in un’apposita riserva oppure prelevata da quest’ultima.

Evidentemente, per la più volte richiamata equivalenza finanziaria dell’intera operazione assicurativa – in base alla quale il valore attuale atteso delle prestazioni dell’assicurato (premi periodici) deve essere pari al valore attuale delle prestazioni dell’assicuratore (premi naturali) – il valore attuale dei premi di riserva è uguale a zero.

Come si è detto, i premi di riserva devono essere accantonati in un appo-sito fondo, chiamato “riserva matematica”. Quest’ultima costituisce un valo-re attuariale, poiché scaturisce dalla differenza di due valori attuariali.

Esistono due criteri applicativi che conducono al calcolo, rispettivamente, della riserva matematica “prospettica” e della riserva matematica “retrospet-tica”.

La riserva matematica prospettiva valutata ad una certa epoca è pari alla differenza fra il valore attuariale delle (future) prestazioni dell’assicuratore fino a scadenza ed il valore attuariale dei premi esigibili fino a scadenza. Es-sendo differenza di valori attuariali, la riserva matematica è anch’essa un va-lore attuariale.

La riserva matematica retrospettiva, pur costituendo sempre un valore at-tuariale, è pari all’ammontare utilizzato dei premi versati fino all’epoca di valutazione per far fronte agli impegni intervenuti nello stesso periodo.

Pur muovendo da due prospettive diverse, il calcolo della riserva mate-matica prospettica e della riserva matematica retrospettica conducono, sotto opportune ipotesi come identità tra basi tecniche, allo stesso risultato.

La riserva matematica (prospettica), quindi, garantisce – in ogni periodo – l’equivalenza attuariale tra prestazioni dell’assicurato (premi periodici) e prestazioni dell’assicuratore (premi naturali ovvero, più propriamente, capi-tale a scadenza o rendita). Essa, inoltre, è costituita da due componenti: quella demografica – collegata all’aspetto probabilistico del contratto assicu-rativo – e quella finanziaria – collegato invece all’aspetto puramente finan-ziario –.

Sul piano temporale, la riserva matematica ha un andamento non costante e, proprio per il fatto di essere costituita (anche) da una componente finanzia-ria, ove quest’ultima fosse prevalente od esclusiva risulterebbe crescente sino a raggiungere, alla scadenza contrattuale, il valore del capitale assicurato.

Del pari, il profitto (o utile) dell’assicuratore – “incorporato” nei premi periodici – è influenzato sia dalla componente probabilistica sia da quella finanziaria. Pertanto, l’utile annuo atteso può essere – a sua volta – scompo-sto in utile demografico e utile finanziario; ove, l’utile demografico assume segno positivo se il rischio sotteso alle basi tecniche del prim’ordine è so-

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vrastimato rispetto a quello sotteso alle basi tecniche del second’ordine, ca-ratterizzate da aspettative più realistiche; e, del pari, l’utile finanziario assu-me segno positivo se il tasso d’interesse sotteso alle basi tecniche del prim’ordine è inferiore a quello sotteso alle basi tecniche del second’ordine, ancora una volta caratterizzate da aspettative più realistiche.

9.5. Le assicurazioni sulla vita con prestazioni flessibili Le forme assicurative tradizionali, esaminate nel paragrafo precedente, sono

caratterizzate dal fatto che le prestazioni dell’assicurato e dell’assicuratore sono predeterminate all’atto della stipulazione del contratto e, soprattutto, fisse.

Tale circostanza può determinare uno svantaggio in capo all’assicurato per una serie di motivi: a) l’inflazione riduce il potere d’acquisto delle pre-stazioni dell’assicuratore; b) il tasso d’interesse tecnico può essere inferiore a quello riconosciuto dal mercato per prodotti finanziari privi di rischio; c) sui mercati finanziari sono presenti strumenti più remunerativi, che assumo-no via via maggiore rilevanza ove la componente finanziaria del prodotto as-sicurativo assuma prevalenza.

In particolare, in regime di prezzi crescenti – e, quindi, di inflazione – vi è uno scostamento fra tasso nominale e tasso reale, che determina uno svan-taggio in capo all’assicurato, giacché egli riceve – in contropartita delle pro-prie prestazioni – prestazioni dell’assicuratore (erogate in epoca successiva), il cui valore effettivo è inferiore rispetto al valore nominale; circostanza che pregiudica l’equivalenza attuariale nel caso in cui si assuma il tasso d’inte-resse reale in luogo di quello nominale. Per ovviare allo svantaggio econo-mico derivante dall’inflazione sono nati prodotti assicurativi a prestazioni flessibili, collegate all’andamento del tasso d’inflazione o di opportuni indi-catori economico-finanziari.

Anche in assenza d’inflazione, il tasso tecnico garantito all’assicurato può risultare poco remunerativo rispetto al tasso d’interesse riconosciuto per altri strumenti finanziari; ciò anche in considerazione del fatto che il rischio di tasso – e, quindi, anche quello di una sua riduzione nel tempo – rimane in capo all’assicuratore. Ora, poiché i premi periodici vengono calcolati in mo-do da garantire implicitamente all’assicurato un rendimento pari al tasso tecnico, il differenziale di tasso – positivo o negativo – influisce esclusiva-mente sull’utile (a consuntivo) dell’assicuratore. Per “arginare” tale effetto sono nati prodotti assicurativi che prevedono la retrocessione all’assicurato di una parte dell’utile finanziario maturato dall’assicuratore.

Infine, poiché i mercati finanziari propongono strumenti finanziari più com-petitivi, si determina uno svantaggio economico in capo all’assicurato, soprat-

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tutto laddove la componente finanziaria del prodotto assicurativo assuma preva-lenza. Per ovviare a tale inconveniente, sono nati prodotti assicurativi innovati-vi, le cui prestazioni sono collegate all’andamento di fondi d’investimento (po-lizze unit linked) o di indici di Borsa (polizze index linked), caratterizzati dalla variabilità delle prestazioni sia dell’assicurato sia dell’assicuratore.

Ora, come si è più volte ribadito, secondo i principi della matematica at-tuariale, deve sempre sussistere l’equivalenza finanziaria fra le prestazioni dell’assicurato (premi periodici) e quelle dell’assicuratore (capitale a sca-denza o rendita). O, meglio, l’equivalenza finanziaria fra le prestazioni del-l’assicurato e quelle dell’assicuratore è garantita dalla riserva matematica; quindi, ferma quest’ultima, le prestazioni dell’assicurato e quelle dell’assi-curatore non possono subire variazioni.

La richiamata equivalenza finanziaria sottende, tra l’altro, il tasso di ren-dimento – e, cioè, l’utile prospettico – per l’assicuratore. Pertanto, un’even-tuale flessibilità delle prestazioni dell’assicuratore – ferme restando le pre-stazioni dell’assicurato e la riserva matematica – può realizzarsi esclusiva-mente attraverso la retrocessione di una parte degli utili maturati (a consun-tivo) dall’assicuratore.

In alternativa, la flessibilità delle prestazioni dell’assicuratore può realiz-zarsi – da un lato – attraverso un adeguamento della riserva matematica ov-vero mediante una variazione delle prestazioni dell’assicurato ovvero ancora attraverso un mix dei due ovvero – dall’altro – per effetto della correlazione delle prestazioni medesime all’andamento di fondi d’investimento (polizze unit linked) o di indici di Borsa (polizze index linked).

Prendendo in considerazione la prima modalità attraverso la quale le pre-stazioni dell’assicuratore vengono rese flessibili, si possono prefigurare tre ipotesi alternative:

a) contratti con prestazioni flessibili dell’assicuratore, che si incrementano periodicamente ad un certo tasso, detto tasso di adeguamento delle presta-zioni; evidentemente in tale caso, poiché le prestazioni dell’assicurato non subiscono variazioni lungo la durata del contratto, per ristabilire l’equi-valenza attuariale deve essere adeguata la riserva matematica; tale modali-tà trova riscontro pratico in modelli di incremento delle prestazioni del-l’assicuratore mediante partecipazione agli utili di quest’ultimo;

b) contratti con prestazioni flessibili dell’assicurato, ferma restando la riser-va matematica; in tale caso peraltro, come è possibile dimostrare matema-ticamente, il tasso di incremento annuo delle prestazioni dell’assicuratore è inferiore rispetto a quello delle prestazioni dell’assicurato (premi), di tal-ché tale modalità di adeguamento risulta difficilmente proponibile sul pia-no commerciale;

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c) contratti con prestazioni flessibili sia dell’assicurato sia dell’assicuratore e con adeguamento della riserva matematica: tale ipotesi trova riscontro pra-tico sia nelle polizze indicizzate, in cui le prestazioni dell’assicuratore so-no correlate all’andamento del tasso di inflazione o di opportuni indicatori economico-finanziari, sia nelle polizze rivalutabili – e, cioè, con premio rivalutabile –, ove viene trasferita una parte dell’utile finanziario dell’assi-curatore, a fronte di un incremento dei premi periodici.

9.6. Le polizze linked In tali prodotti, il principio dell’equivalenza attuariale fra le prestazioni

dell’assicurato (premi periodici) e quelle dell’assicuratore (capitale a sca-denza o rendita) è – per così dire – contaminato dalla variabilità (rectius vo-latilità) di queste ultime, cosicché la loro matrice assicurativa potrebbe – nei fatti – risultare alquanto affievolita; soprattutto ove non sia previsto un ren-dimento minimo garantito.

Le polizze unit linked si “incardinano” normalmente in assicurazioni sul-la vita pure o miste. In particolare, tali prodotti sono caratterizzati dal fatto che le prestazioni dell’assicuratore sono espresse in funzione del valore delle quote di un fondo di investimento.

Per contro, le polizze index linked sono normalmente “incardinate” in as-sicurazioni sulla vita miste a premio unico. In particolare, tali prodotti sono caratterizzati dal fatto che le prestazioni dell’assicuratore sono espresse in funzione dell’andamento di indici di riferimento, replicati – nell’economica dell’impresa di assicurazione – attraverso un titolo strutturato composto da un bond e da un derivato (v. infra).

9.7. Analisi tecnica dei “prodotti”. Profili di tecnica assicurativa 36

9.7.1. Nozioni di base

Il termine polizza, etimologicamente, significa “promessa”; infatti, la sua radice lessicale risiede nel vocabolo latino pollicitatio, promessa appunto.

Nel gergo delle assicurazioni, il termine polizza si usa – tra l’altro – per

36 Il principale documento tecnico di riferimento è costituito dal Quaderno ISVAP n. 5, Le po-lizze Index e Unit Linked in Italia.

Per ulteriori approfondimenti, si vedano: PORZIO C.-PREVIATI D.-COCOZZA R.-MIANI S.-PISANI R., Economia delle imprese assicurative, Milano, 2011; FLOREANI A., Economia delle im-prese di assicurazione, Milano, 2011; MIAMI S. (a cura di), I prodotti assicurativi, Torino, 2010.

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designare il contratto di assicurazione sulla vita, ove l’assicuratore – a fronte della prestazione resa dall’assicurato (premio unico o premi periodici) – si impegna a rimborsare a quest’ultimo una certa somma – sotto forma di capi-tale o di rendita – al verificarsi di un certo evento ovvero ad una certa sca-denza.

Il premio, al cui versamento è tenuto l’assicurato, può essere unico – cioè corrisposto in un’unica soluzione al momento della sottoscrizione della po-lizza – ricorrente – ossia versato periodicamente attraverso rate annuali, se-mestrali, trimestrali o mensili – e premio unico ricorrente che, al pari del ri-corrente, viene versato con cadenza periodica, ma ciascun versamento è au-tonomo e distinto dagli altri.

I “caricamenti amministrativi” sono costituiti dalle provvigioni che l’impresa di assicurazione corrisponde ai canali distributivi per l’acquisi-zione e il rinnovo dei contratti, dalle somme necessarie per il mantenimento del personale, per la pubblicità dei prodotti e per ulteriori spese amministra-tive, che integrano le cc.dd. commissioni di gestione.

Nel campo delle assicurazioni che non riguardino i danni, la riserva ma-tematica è l’importo che deve essere accantonato dall’assicuratore per far fronte agli obblighi futuri assunti verso l’assicurato. La sua ratio risiede nel-lo sfasamento temporale esistente fra il momento in cui l’assicurato paga il premio e quello in cui l’assicuratore rende la propria prestazione.

Il tasso tecnico – tipico delle assicurazioni sulla vita o miste – è il rendi-mento minimo che viene riconosciuto dall’assicuratore all’assicurato (o al beneficiario) ed è prefigurato al momento della sottoscrizione del contratto.

9.7.2. Le assicurazioni sulla vita: tipologie

Le assicurazioni sulla vita perseguono l’obiettivo di soddisfare un’esigen-za di tipo economico al verificarsi di un evento attinente alla vita umana. In particolare, a fronte del versamento di un premio (o di premi periodici) da parte dell’assicurato, l’impresa di assicurazione si impegna a corrispondere al beneficiario della polizza un capitale o una rendita nel caso in cui si veri-fichino determinati eventi relativi alla vita dell’assicurato.

Esistono diversi tipi di assicurazione sulla vita, ciascuno dotato di carat-teristiche peculiari. In particolare, esistono assicurazioni caso morte, assicu-razioni caso vita e assicurazioni miste.

Le assicurazioni caso morte prevedono il versamento, da parte dell’im-presa di assicurazione, di un capitale o di una rendita in caso di morte del-l’assicurato.

Le assicurazioni caso vita sono, per contro, caratterizzate dall’impegno –

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da parte dell’impresa di assicurazione – di versare un capitale o una rendita al beneficiario nel caso in cui l’assicurato sia in vita alla scadenza prevista contrattualmente.

Le polizze miste combinano alcune delle caratteristiche delle assicura-zioni caso morte e caso vita.

9.7.2.1. Le assicurazioni caso morte

Le assicurazioni caso morte mirano ad eliminare o arginare gli effetti ne-gativi di natura economica che possono conseguire dalla morte dell’assicura-to (ad es. decesso del capofamiglia), garantendo un capitale o una rendita nel caso in cui si verifichi tale evento.

Esistono due tipi di assicurazioni caso morte: le polizze caso morte tem-poranee e le polizze caso morte a vita intera.

Le assicurazioni caso morte temporanee sono polizze cc.dd. “puro ri-schio” o “a fondo perduto”, nel senso che, se non si verifica il decesso del-l’assicurato entro i termini temporali stabiliti contrattualmente, l’impresa di assicurazione non è tenuta ad alcuna prestazione e i premi versati dal-l’assicurato restano acquisiti dalla stessa a titolo definitivo. Per contro, l’impresa di assicurazione – nel caso di decesso dell’assicurato (entro i ter-mini temporali stabiliti contrattualmente) – si impegna a versare un capitale od una rendita di consistenza significativamente superiore rispetto alla som-ma dei premi versati dall’assicurato.

Le assicurazioni caso morte a vita intera sono invece polizze cc.dd. “a prestazione sicura” e prevedono che il capitale o la rendita siano versati al beneficiario in ogni caso, indipendentemente dal momento in cui avvenga il decesso dell’assicurato.

9.7.2.2. Le assicurazioni caso vita

Le assicurazioni caso vita prevedono che l’impresa di assicurazione ga-rantisca al beneficiario una prestazione (capitale o rendita) nel caso in cui l’assicurato sia ancora in vita alla scadenza del contratto.

Esistono diversi tipi di assicurazioni caso vita: le polizze a rendita imme-diata; le polizze a rendita differita; le polizze a capitale differito.

Le polizze a rendita immediata sono caratterizzate dal versamento di un premio unico al momento della sottoscrizione del contratto, a fronte dell’im-pegno, da parte dell’impresa di assicurazione, di corrispondere al beneficia-rio una rendita immediata.

Le polizze a rendita differita prevedono l’impegno, da parte dell’impresa di assicurazione, di corrispondere al beneficiario una rendita dopo un certo

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periodo di tempo definito contrattualmente, nell’eventualità che questi sia ancora in vita a quella data.

Le polizze a capitale differito sono caratterizzate dal versamento, da parte dell’assicurato, di un premio unico o di premi periodici e l’impegno, da par-te dell’impresa di assicurazione, di corrispondere un capitale al beneficiario nell’eventualità in cui l’assicurato sia ancora in vita dopo una certa data sta-bilita contrattualmente. Le polizze a capitale differito possono, inoltre, pre-vedere che l’impresa di assicurazione garantisca al beneficiario la restituzio-ne dei premi versati nel caso in cui l’assicurato non sia in vita al termine del periodo di differimento 37.

9.7.2.3. Le assicurazioni miste

Le assicurazioni miste costituiscono una combinazione fra le assicurazio-ni caso vita e le assicurazioni caso morte.

In particolare, tali assicurazioni prevedono – in analogia con le polizze caso morte – la corresponsione, a favore del beneficiario, di un capitale, qua-lora sopraggiunga la morte dell’assicurato entro la scadenza del contratto; e – in analogia con le polizze caso vita – la corresponsione di un capitale nel caso in cui l’assicurato sia ancora in vita alla scadenza del contratto.

Vi sono due tipologie principali di assicurazioni miste: le polizze miste immediate e le polizze miste a termine fisso.

Nelle polizze miste immediate si prevede che la prestazione “caso morte” sia corrisposta al beneficiario nel momento stesso in cui si verifica la morte dell’assicurato.

Le polizze miste a termine fisso sono, invece, caratterizzate dal fatto che la prestazione “caso morte” viene corrisposta al beneficiario solo al termine della durata contrattuale, anche se la morte dell’assicurato si verifica in epo-ca antecedente.

Nelle polizze miste il premio viene, normalmente, suddiviso in due parti: la prima destinata a fronteggiare la corresponsione del capitale o della rendi-ta in caso di morte dell’assicurato; la seconda volta a garantire il pagamento del capitale o della rendita nel caso in cui l’assicurato sia ancora in vita alla scadenza del contratto.

37 Per ulteriori approfondimenti si veda PITACCO, Matematica e tecnica attuariale delle assicurazioni sulla durata di vita, Trieste, 2002.

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9.7.3. La componente demografica e la componente finanziaria

Come è dato evincere dalla sommaria descrizione delle principali caratte-ristiche delle diverse tipologie di assicurazioni sulla vita, la componente de-mografica e la componente finanziaria possono avere pesi significativamen-te diversi.

In particolare, soltanto nelle polizze cc.dd. “pure” la componente demo-grafica raggiunge il proprio apice, giacché l’impresa di assicurazione si im-pegna a corrispondere un capitale o una rendita di importo significativamen-te superiore alla somma dei premi versati; e l’entità di questi ultimi viene de-terminata assumendo a riferimento apposite tavole di mortalità ricavate da statistiche che prendono in considerazione una serie di fattori (ad esempio, sesso, professione ed età dell’assicurato).

In tutti gli altri tipi di polizze, la componente finanziaria assume – via via – maggiore rilevanza, in quanto è prevista – in ogni caso, di morte o di vita dell’assicurato – la corresponsione di un capitale al beneficiario.

Si deve, quindi, ritenere che vi sia la presenza di una componente demo-grafica solo ove il capitale o la rendita – garantita in ogni caso – assuma di-mensioni quantitative differenti, a seconda del momento del decesso dell’as-sicurato. Per contro, nel caso in cui il capitale o la rendita garantiti dall’im-presa di assicurazione siano determinati con gli stessi criteri – indipenden-temente dal verificarsi dell’evento morte o vita dell’assicurato – la compo-nente demografica risulta del tutto assente.

In tale senso si è espressa l’ISVAP, ove ha precisato che «sono ricompre-si nel ramo III, se direttamente collegati a fondi di investimento ovvero ad indici azionari o altri valori di riferimento, solo i contratti di assicurazione sulla durata della vita umana (punto I), vale a dire i contratti caratterizzati dalla presenza di un effettivo impegno da parte dell’impresa a liquidare, per il caso di sopravvivenza, per il caso di morte o per entrambi, prestazioni as-sicurate il cui valore, o quello dei corrispondenti premi, sia dipendente dal-la valutazione del rischio demografico» 38.

9.7.4. La genesi delle polizze unit linked e index linked

Mentre, tradizionalmente, le assicurazioni sulla vita avevano esclusiva-mente una funzione previdenziale di tutela dell’individuo dai rischi connessi al ciclo della vita, recentemente – da parte delle imprese di assicurazione – è stata posta un’enfasi particolare sulla componente finanziaria delle presta-

38 Si veda, in particolare, la Circolare ISVAP 25 maggio 1998, n. 332/D, par. “2) Classi-ficazione all’interno dei rami assicurativi”.

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zioni assicurative, con una funzione di intermediazione del risparmio nel tempo.

In un primo tempo, sono state introdotte le polizze indicizzate, caratteriz-zate dall’apposizione di una clausola in virtù della quale l’entità della pre-stazione dell’assicuratore era collegata al valore di un indice reale o finan-ziario, quale l’indice Istat o di Borsa.

Successivamente, sono sorte le polizze rivalutabili, nelle quali la presta-zione dell’assicuratore, che prevede – di norma – un tasso minimo di rendi-mento garantito, è stata parametrata ai risultati di speciali gestioni di titoli, prevalentemente di Stato, acquistati a fronte delle riserve matematiche; ciò anche al fine di contrastare – almeno in parte – il fenomeno della volatilità dei tassi d’interesse 39.

Successivamente, poiché le politiche economiche e finanziarie adottate dai Paesi europei per aderire alla moneta unica hanno comportato un abbas-samento dei tassi d’interesse, è maturata l’esigenza di orientarsi verso nuovi strumenti di investimento, volti principalmente in direzione dei mercati azionari.

In tale contesto, tenuto conto in particolare della crescente concorrenza di strumenti finanziari con orizzonti d’investimento a medio e lungo termine – quali i fondi di investimento –, le imprese di assicurazione sono state indotte ad offrire prodotti che, accanto alla componente puramente assicurativa, va-lorizzassero nel tempo la componente finanziaria.

Hanno così assecondato le esigenze di diversificazione finanziaria dei ri-sparmiatori, offrendo prodotti assicurativi correlati all’andamento delle bor-se azionarie, quali le polizze index linked, o agganciati all’andamento di fondi d’investimento, quali le polizze unit linked.

9.7.5. Le caratteristiche strutturali delle polizze unit linked e index linked

9.7.5.1. Considerazioni generali

In linea generale si può affermare che le polizze linked sono prodotti ca-ratterizzati dalla diretta dipendenza delle prestazioni dal valore di un’entità di riferimento. Ove, se in linea puramente teorica, qualunque entità potrebbe essere assunta a riferimento, di fatto la scelta è vincolata esclusivamente dal-le possibilità, normative e di mercato, di effettuare investimenti a copertura delle riserve tecniche.

Le polizze unit linked hanno prestazioni collegate al valore di un fondo di

39 La gestione separata è, dunque, amministrata direttamente dall’impresa assicurativa.

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investimento, esterno o interno all’impresa di assicurazione. Nel caso di fondi di investimento costituiti internamente, si parla di fondi assicurativi, privi di autonomia patrimoniale 40; viceversa, i fondi esterni sono emessi dal-le Società di investimento a capitale variabile (Sicav) ovvero dagli Organi-smi di investimento collettivo del risparmio (Oicr), istituiti per la prima vol-ta con la legge 23 marzo 1983, n. 77 e, successivamente, disciplinati dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. Testo Unico della Finanza).

La modalità più semplice attraverso la quale si attua il collegamento con l’entità di riferimento consiste nell’assunzione di quest’ultima in termini di “unità di conto”, diversa dalla moneta a corso legale; in particolare, l’unità di conto può essere costituita dal numero di quote nel caso di fondi suddivisi in quote, da un’unità monetaria nozionale nel caso di indici di mercato o di fondi non suddivisi in quote, dall’unità monetaria nominale del titolo nel caso di strumenti finanziari. Ovviamente, il valore nominale corrispondente si ottiene attraverso la ri-espressione, in termini monetari, dell’entità di riferimento; e così, ad esempio, nel caso di collegamento ad un fondo comune di investi-mento le prestazioni possono essere quantificate attraverso la moltiplicazione fra il numero di quote del fondo ed il valore unitario della quota, nel momento previsto contrattualmente per la liquidazione della singola prestazione. L’ope-razione, pur con la stessa logica di fondo, si presenta più complessa nel caso di prestazioni collegate ad indici azionari o altri valori di riferimento.

Ancora in termini generali, le polizze linked possono essere “incorporate” in qualunque forma di assicurazione sulla vita, ove l’assicurato è chiamato a versare premi corrispondenti ad un determinato “numero” di entità di riferi-mento, a fronte dell’impegno dell’assicuratore a liquidare un prefissato “numero” di entità di riferimento al verificarsi di eventi attinenti alla vita umana, nei periodi previsti contrattualmente.

Richiamando le nozioni di matematica attuariale sopra esposte, in osse-quio al principio di “equivalenza attuariale” fra le prestazioni dell’assicurato e quelle dell’assicuratore, la correlazione fra queste ultime si fonda preva-lentemente sulla componente c.d. “demografica” del contratto, giacché la componente “finanziaria” potrebbe essere interamente assorbita dalla varia-zione di valore dell’unità di conto che – tra l’altro – rappresenta il rendimen-to finanziario del prodotto. Quest’ultimo varia in funzione dell’andamento del valore corrente dell’entità di riferimento e, fatti salvi i casi di prestazione minima garantita, il correlato rischio (finanziario) grava sull’assicurato.

40 Anche nei fondi assicurativi, l’impresa di assicurazione, al pari della società di gestio-ne di un fondo di investimento, deve predisporre un apposito regolamento.

453 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Poiché, quindi, le polizze linked costituiscono prodotti con rischio di in-vestimento a carico dell’assicurato, nel senso che vi è un trasferimento in capo a quest’ultimo dei rischi connessi al risultato finanziario della polizza, alle esigenze di tutela normalmente associate alle assicurazioni sulla vita si aggiungono quelle tipiche dei servizi di investimento.

9.7.5.2. Le polizze unit linked

Le polizze unit linked sono contratti, normalmente “incardinati” in assi-curazioni sulla vita, che prevedono il versamento di premi da parte dell’assi-curato, investiti nell’acquisto di quote di fondi. La prestazione dell’assicu-ratore consiste in un capitale o in una rendita, la cui entità non è certa e pre-determinata nel suo ammontare al momento della conclusione del contratto, ma dipende dal valore delle quote dei fondi (entità di riferimento).

Nelle polizze unit linked la componente “finanziaria” è collegata all’an-damento di fondi d’investimento interni, appositamente costituiti dall’impre-sa d’assicurazione, ovvero da organismi di investimento collettivo del ri-sparmio (Oicr), costituiti esternamente all’impresa. Le prestazioni dell’assi-curato e dell’assicuratore sono, normalmente, espresse in quote del fondo d’investimento.

La scelta del fondo d’investimento a cui agganciare la prestazione, tra più opportunità offerte dalla impresa di assicurazione, sovente è rimessa all’assicurato. Talvolta, l’assicurato ha facoltà di porre in essere operazioni di switch, consistenti nel disinvestimento delle quote del vecchio fondo e nel contestuale reinvestimento dell’importo disinvestito in un altro fondo facen-te parte della categoria predeterminata al momento della conclusione del contratto. In ogni caso, è la sola impresa di assicurazione ad intrattenere i rapporti con gli organismi di investimento collettivo del risparmio, rispetto ai quali – pertanto – l’assicurato rimane estraneo.

Nell’esperienza italiana, le polizze unit linked si differenziano a seconda che il rischio finanziario sia posto totalmente a carico dell’assicurato ovvero venga conservato in capo all’impresa di assicurazioni. Nel primo caso, si parla comunemente di polizze unit linked cc.dd. “pure”, ove l’impresa di as-sicurazione è tenuta solamente a corrispondere all’assicurato – al verificarsi del rischio demografico o al decorrere di un determinato termine dalla con-clusione del contratto – un capitale o una rendita, che potrebbe essere infe-riore al valore attuariale dei premi versati o addirittura pari a zero se in quel dato momento il fondo registrasse un andamento negativo. Nel secondo ca-so, si parla di polizze cc.dd. “guaranteed unit linked”, ove l’impresa di assi-curazione, indipendentemente dall’andamento dei fondi nei quali sono inve-

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stiti i premi, al verificarsi dei presupposti garantisce all’assicurato quanto-meno il valore attuariale dei premi versati e – in taluni casi – un rendimento minimo. Esistono poi forme miste, le polizze cc.dd. “partial guaranteed unit linked”, ove l’impresa di assicurazione garantisce all’assicurato esclusiva-mente la restituzione di una parte del capitale versato.

È agevole arguire come, esclusivamente nelle polizze “guaranteed unit linked”, la matrice assicurativa sia presente in tutta la sua portata e non sia contaminata, se non in senso positivo per l’assicurato, dalla componente – per così dire – speculativa.

Per completezza, vale ancora la pena sottolineare come – nelle polizze unit linked – la componente finanziaria abbia natura collettiva, poiché il col-legamento alle quote del fondo è programmato per una pluralità di contratti.

9.7.5.3. Le polizze index linked

Le polizze index linked, normalmente “incardinate” in un’assicurazione sulla vita, sono caratterizzate dal fatto che i premi sono investiti in strumenti finanziari che replicano gli indici (solitamente azionari) a cui le polizze stes-se sono collegate.

Tipicamente tali strumenti finanziari sono titoli strutturati ad hoc, che vengono quindi posti a copertura della riserva matematica e che costituisco-no la principale componente “finanziaria” dei prodotti 41.

Ove le polizze siano accompagnate da una garanzia sul capitale investito, parte dell’investimento viene effettuata in obbligazioni zero coupon 42 – che ap-punto garantiscono la restituzione del capitale alla scadenza della polizza – mentre la parte residua viene investita in prodotti strutturati che replicano la composizione degli indici di riferimento. In tale ultimo caso, le polizze index linked hanno la caratteristica di abbinare due mercati: uno a rendimento garanti-to – quello delle obbligazioni zero coupon – ed uno a rendimento aleatorio – azioni o indici azionari –. In particolare, nell’esperienza italiana, le polizze in-dex linked sono state collegate all’andamento di indici di Borsa ovvero a panieri di azioni, attraverso una forma di “indicizzazione finanziaria” totale o parziale.

41 In particolare, i titoli strutturati sono specifiche categorie di strumenti finanziari a ren-dimento variabile, caratterizzati da una componente obbligazionaria e da una derivata, que-st’ultima generalmente costituita da una opzione.

42 Le obbligazioni zero coupon (cc.dd. zero coupon bond), a differenza di un ordinario ti-tolo obbligazionario, non prevedono a favore del sottoscrittore alcun interesse esplicito (c.d. cedola) ed il loro rendimento implicito è costituito nella differenza tra il prezzo di emissione – inferiore a loro valore nominale – e l’ammontare del rimborso.

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Ove sia prevista una garanzia minima di rendimento, questa normalmente consiste nella determinazione del capitale finale sulla base del valore più elevato tra quello iniziale, maggiorato di una percentuale predefinita, ed il risultato derivante dall’indicizzazione finanziaria (the best of). Sotto tale profilo, tali polizze presentano analogie con quelle rivalutabili, nelle quali viene previsto un tasso minimo di rendimento.

Altre volte la garanzia di rendimento consiste nella previsione secondo cui, oltre al risultato derivante dall’indicizzazione, vi è un rendimento mini-mo garantito sulla base di un tasso d’interesse contrattuale.

A seconda dei casi, vi può quindi essere un trasferimento totale o parziale del rischio di investimento sull’assicurato. Pertanto, le polizze index linked – al pari delle polizze unit linked – si articolano in tre sottocategorie: le poliz-ze index linked c.d “pure”, le polizze index linked parzialmente garantite (partial guaranteed index linked) e le polizze index linked garantite (guaran-teed index linked).

9.7.5.4. Le differenze rispetto alle polizze rivalutabili

Le polizze a prestazioni rivalutabili sono caratterizzate dal fatto che l’in-cremento del valore delle prestazioni dell’impresa di assicurazione, in un’ottica esclusivamente finanziaria, è determinato periodicamente sulla base di tassi di rendimento, dipendenti dai risultati di gestione di appositi fondi separati dal por-tafoglio dell’impresa di assicurazione medesima.

Fatti salvi i casi in cui sia prevista la garanzia di un tasso minimo di ren-dimento, a causa della variabilità delle prestazioni dell’assicuratore, vi è quindi il trasferimento del rischio di investimento in capo all’assicurato.

Esiste, tuttavia, una differenza fondamentale rispetto alle polizze linked: infatti, nelle polizze rivalutabili l’incremento delle prestazioni dell’assicu-ratore si basa su risultati già conseguiti e definitivamente assegnati, secondo il cosiddetto meccanismo di “consolidamento” della prestazione; nel senso che le somme assicurate vengono capitalizzate in base ai rendimenti periodi-ci delle gestioni speciali, indipendentemente dall’andamento futuro del valo-re degli attivi inseriti nelle gestioni. Per contro, nelle polizze linked l’incre-mento delle prestazioni dell’assicuratore dipende, non da tassi di rendimento periodici, ma dal valore corrente dell’entità di riferimento e tale incremento non è – almeno periodicamente – assegnato in via definitiva.

In definitiva, mentre nelle polizze linked l’assicurato sopporta un rischio assoluto di investimento, nelle polizze rivalutabili questo rischio viene atte-nuato, nel corso del tempo, per effetto delle performance (già) “consolidate”.

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9.7.5.5. La riserva matematica

Nelle assicurazioni sulla vita, la riserva matematica è l’importo che deve essere accantonato dall’assicuratore per far fronte agli obblighi futuri assunti verso l’assicurato (capitale o rendita). Essa trae origine dallo sfasamento temporale esistente fra il momento in cui l’assicurato paga i premi e il mo-mento in cui l’assicuratore deve eseguire le proprie prestazioni.

La “riserva matematica” costituisce la componente quantitativamente e qualitativamente più rilevante delle cc.dd. “riserve tecniche”.

Nelle assicurazioni sulla vita, la sua determinazione tiene conto della componente demografica, che si fonda sulle ipotesi di sopravvivenza, e della componente finanziaria, espressione del differimento temporale delle presta-zioni.

Nelle polizze linked, per la quantificazione della componente demografi-ca, vengono utilizzati criteri analoghi a quelli applicati nelle tradizionali po-lizze di assicurazione sulla vita.

Per contro, relativamente alla componente finanziaria, muta il criterio di determinazione della riserva, alla luce della diversa correlazione fra impegni assunti dall’impresa di assicurazione e investimenti a copertura.

In particolare, nelle tradizionali polizze di assicurazione sulla vita l’atti-vità di investimento dell’assicuratore è condotta nel rispetto di parametri di adeguatezza di redditività, di sicurezza e di liquidità, sulla base degli impe-gni assunti. Nelle polizze linked, invece, la riserva matematica viene costi-tuita sulla base dell’entità di riferimento; essa risulta quindi strettamente cor-relata al valore degli investimenti e l’ammontare accantonato fluttua in rela-zione all’andamento del loro valore corrente. Sotto questo profilo, l’equi-valenza attuariale di cui si è più volte detto non ha natura aprioristica e stati-ca, ma – per così dire – dinamica.

Inoltre, nelle polizze unit linked è obbligatoria la costituzione di una ri-serva “addizionale” nel caso di previsione di una qualsiasi garanzia minima; essa è, quindi, volta a fronteggiare la possibilità che il valore della riserva “base” non sia sufficiente a far fronte alle prestazioni dell’assicuratore. In tale caso, viene ripristinato – quantomeno nei limiti della garanzia – il carat-tere aprioristico e statico dell’equivalenza attuariale.

457 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

10. Segue: gli interest rate swap, tra curve dei tassi e commissioni implicite

10.1. Considerazioni di carattere generale

10.1.1. I contratti derivati sui tassi d’interesse: caratteri generali e tipolo-gie applicative

I contratti derivati su tassi d’interesse hanno la finalità di fronteggiare il fenomeno della variabilità dei tassi di interesse sulle operazioni finanziarie (es.: rischio di incremento dei tassi passivi oppure rischio di diminuzione dei tassi attivi).

I principali contratti derivati su tassi di interesse sono i seguenti:

• “swap” su tassi di interesse o “interest rate swap” (I.R.S.), e relative va-rianti operative;

• “swap” sull’andamento della “curva dei rendimenti” o “Yield Curve Basis swap”;

• operazioni su tassi futuri, come, ad esempio, il “forward rate agreement” (F.R.A.);

• opzioni sui tassi di interesse, o “interest rate options” (I.R.O.).

Nel paragrafo che segue vengono illustrati gli swap plain vanilla, mentre in un paragrafo successivo verranno presentati gli swap fuori standard e le opzioni sui tassi di interesse in quanto direttamente attinenti all’oggetto dell’indagine.

10.1.2. Aspetti generali dei contratti di interest rate swap

Il contratto di “swap” su tassi di interesse” o “interest rate swap” (I.R.S.) è un accordo stipulato fra due parti per scambiarsi nel tempo due diversi in-siemi di flussi di cassa. L’I.R.S. è un’operazione realizzata sul mercato “over the counter”, vale a dire su un mercato non regolamentato; viene riferita ad un capitale di riferimento o “nozionale”, che non è oggetto di scambio, ma funge da parametro su cui commisurare gli interessi che verranno incassati o pagati dai contraenti.

Nel caso più semplice di uno swap su tassi di interesse, le controparti si scambiano flussi di pagamento di interessi, calcolati utilizzando un tasso fis-so contro uno variabile, detti “fixed rate” e “floating rate”, o due diversi tas-si variabili, applicati a un capitale nozionale di riferimento. Se non sono pre-senti elementi di strutturazione e il nozionale è espresso nella stessa divisa, lo swap viene chiamato “plain vanilla”.

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Per convenzione, un soggetto è definito compratore dell’I.R.S. quando incassa il tasso variabile e paga il tasso fisso, mentre è definito venditore dell’I.R.S., quando incassa il tasso fisso e paga il tasso variabile.

Le componenti fondamentali di un I.R.S. sono le seguenti:

• capitale di riferimento (notional) sul quale vengono calcolati gli interessi. Esso è di norma costante per tutta la durata del contratto, ma potrebbe an-che variare, come nel caso dell’accrediting o dell’amortizing swap in cui il capitale è rispettivamente crescente e decrescente;

• data di stipula del contratto (trading date);

• data di inizio del calcolo degli interessi (effective date);

• data di scadenza del contratto (terminating date);

• durata del contratto;

• data di pagamento degli interessi (payment date); • pagamenti netti, ossia flussi netti determinati come differenziale tra gli in-

teressi a tasso fisso e gli interessi a tasso variabile di ogni payment Date.

In origine, il contratto swap era utilizzato esclusivamente per modificare la struttura finanziaria delle poste attive e passive di bilancio. In particolare, la sua funzione era quella di trasformare un finanziamento (impiego) da tas-so variabile a tasso fisso e viceversa; in altri termini, l’obiettivo primario dello swap consisteva nel limitare il rischio di interesse. Successivamente, lo swap venne utilizzato anche a fini speculativi; infatti, tramite lo swap è an-che possibile incrementare l’esposizione al rischio di interesse.

10.1.3. Utilizzo degli swap per trasformare le passività

I contratti di interest rate swap rispondono all’esigenza primaria di atte-nuare il rischio di variazione del tasso di interesse (aumenti o diminuzioni superiori alle attese). Una delle ragioni principali che induce a stipulare un contratto di interest rate swap risiede, dunque, nella possibilità che una pas-sività a tasso variabile possa essere convertita in una passività a tasso fisso (ciò che è vantaggioso in ipotesi di tendenza al rialzo dei tassi) o viceversa (ciò che, invece, diviene vantaggioso in ipotesi di tendenza al ribasso dei tassi).

Il grafico che segue illustra un esempio di conversione di una passività a tasso variabile in una passività a tasso fisso.

459 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

In tal caso una passività finanziaria a tasso variabile pari all’Euribor 6M + 0,30% di spread viene trasformata in una passività a tasso fisso pari al 4,40% costituito dalla somma del 4,10% (derivante dal contratto derivato) oltre allo spread della passività originaria pari a 0,30%.

Analogamente un contratto derivato può essere impiegato ad esempio per trasformare una attività che offre un tasso d’interesse fisso in una che offre un tasso d’interesse variabile.

10.1.4. Valutazione degli swap su tassi di interesse La valutazione di un interest rate swap consiste nella determinazione del va-

lore attuale netto del contratto nel suo complesso. All’atto della stipula uno swap deve valere zero (par swap); in altre parole, deve essere nulla la somma del valore attuale (a tassi di mercato) della successione di cash flow del lato fis-so e di quella del lato variabile. Il valore dei cash flow del lato fisso è certo e di-pende dal tasso fisso del contratto, mentre il valore del lato variabile può essere determinato sulla base dei tassi di interesse a termine 43 (tassi forward), che ri-specchiano le aspettative di mercato circa l’andamento dei tassi.

Se il valore dello swap fosse diverso da zero all’atto della stipula si sa-rebbe in presenza di un off market swap anziché di un par-swap. L’interest rate swap off market è dunque un contratto che non risulta in linea con le quotazioni del mercato. Una delle due controparti è svantaggiata e non avrebbe alcun interesse a stipulare il contratto; perché sussista convenienza per entrambe le parti ad attivare l’operazione, la parte svantaggiata dovrebbe ricevere dalla controparte una somma di denaro (up-front premium) in modo da riportare equilibrio tra pagamenti e incassi. In altri termini, l’up-front premium o payment è un importo pagato per compensare un tasso dello swap non in linea con le quotazioni del momento.

43 I tassi di interesse a termine sono i tassi di interesse, impliciti nei tassi correnti spot, re-lativi a periodi di tempo futuri (v. infra).

tCliente paga

Euribor 6M + 0,30%

Euribor 6M

Tasso fisso 4,10% Tasso fisso

4,10% + 0,30% = 4,40%

Cliente incassa

Tasso VariabileTasso Fisso

Cliente paga

Fixed leg

Floating leg

460 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Se le controparti decidono di porre fine anticipatamente agli effetti del contratto (termination), una delle due deve pagare all’altra la differenza (premio di unwinding), fra i valori dei due lati dello swap.

Richiamando i concetti sopra esposti, si può ancora osservare che al fine di determinare il prezzo di uno swap, si ricorre al principio secondo il quale il valore attuale del lato fisso deve essere pari a quello del lato variabile. Da-ta la curva dei rendimenti, è sufficiente trasformare i dati dello swap in flussi di cassa e poi scontare, alla data in cui si effettua la valutazione, tali flussi per determinare il valore attuale.

Il contratto di interest rate swap funziona, sotto il profilo finanziario, mediante il manifestarsi di due serie di flussi di cassa di segno opposto costi-tuiti dal tasso pagato e dal tasso ricevuto, con riferimento ai quali la Banca, usualmente, accredita/addebita all’impresa contraente il saldo derivante dal-la somma algebrica dei due flussi.

Il valore corrente di un contratto swap ad una determinata data è usual-mente definito come mark to market (mark to market). Esso, evidentemente, assume valore negativo (ovvero sfavorevole all’impresa) nel caso in cui la differenza algebrica tra il valore attuale di quanto pagato dall’impresa e di quanto pagato dalla Banca, al momento della valutazione, sia positiva (saldo finanziario negativo per l’impresa) mentre assume valore positivo (favore-vole all’impresa) nel caso contrario.

Nel caso in cui un contratto venga anticipatamente estinto, per qualsivo-glia ragione, il valore attuale dei flussi di cassa deve essere pagato o incassa-to dall’impresa, nel caso in cui il mark to market sia negativo o positivo.

Ove il mark to market sia negativo, e dunque il contratto assuma un valo-re negativo, se l’impresa ritiene di chiudere la posizione dovrà necessaria-mente corrispondere tale importo all’intermediario finanziario. In via alter-nativa, è possibile stipulare un nuovo contratto che tenga conto del mark to market negativo del contratto chiuso, assorbendolo secondo le modalità di seguito illustrate.

In particolare, ove l’impresa non intenda sopportare in via immediata sul piano finanziario la perdita economica subita con il primo contratto, ma pre-ferisca postergare l’onere economico al futuro, questa dovrà necessariamen-te stipulare un nuovo contratto che incorpori la perdita sofferta sul primo contratto, “scommettendo” sulla possibilità che tale perdita possa venir as-sorbita nel nuovo contratto diversamente strutturato.

In concreto, la perdita inerente al precedente contratto (mark to market negativo per l’impresa) viene addebitata all’impresa a chiusura definitiva della precedente posizione contrattuale. Contestualmente, a fronte dell’impe-gno assunto dall’impresa con la stipulazione di un nuovo contratto I.R.S. off

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market, il cui valore è negativo in misura esattamente corrispondente alla perdita sofferta dall’impresa a seguito della chiusura anticipata del preceden-te contratto di swap, la Banca accredita effettivamente all’impresa medesi-ma, tramite il meccanismo dell’up-front, l’importo corrispondente al valore negativo del nuovo contratto, affinché quest’ultimo assuma valore nullo, in quanto l’accredito introitato dall’impresa compensa il valore negativo del contratto di swap off market. L’onere implicito nel nuovo contratto di swap off market viene interamente compensato dall’accredito dell’up-front pre-mium. In tal modo, sul piano finanziario l’esborso sostenuto dall’impresa, per effetto dell’anticipata estinzione del precedente contratto I.R.S., viene interamente compensato dall’accredito a favore dell’impresa medesima del-l’up-front premium di pari importo. In conclusione, con questo meccanismo, l’impresa sposta l’effettivo pagamento della perdita ad un periodo successi-vo nel quale si potranno verificare tre situazioni:

• il risultato economico del nuovo contratto è pari a zero, in quanto gli utili realizzati con il nuovo contratto sono stati assorbiti dalla perdita pregressa;

• il risultato economico del nuovo contratto determina perdite maggiori della perdita pregressa, in quanto a questa si sommano le perdite del secondo contratto;

• il risultato economico del nuovo contratto determina un utile inferiore di quello realizzato dal secondo contratto in quanto ridotto dall’assorbimento della perdita pregressa.

10.1.5. Segue: le tecniche di valutazione

10.1.5.1. Premessa

Gli interest rate swap dovrebbero avere un valore nullo o prossimo alla zero nel momento in cui vengono negoziati. Successivamente possono avere un valore positivo o negativo, sia perché sono intervenute prestazioni sia perché sono mutate le condizioni del mercato.

I contratti di interest rate swap possono essere valutati alternativamente in due diversi modi:

• come un portafoglio composto di due titoli, di segno opposto, uno a tasso fisso e uno a tasso variabile;

• come un portafoglio di contratti forward su tassi di interesse (forward rate agreement).

Prendendo in esame la seconda delle due modalità, occorre precisare che un contratto forward è un contratto che obbliga il portatore a comprare o a

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vendere una data attività ad un’epoca futura, per un prezzo prefissato. Un forward rate agreement è un contratto forward in cui due parti si accordano sul tasso di interesse da applicare, per un certo periodo futuro, ad un certo capitale.

Il problema principale è quello di determinare il tasso di interesse che in un certo momento futuro dovrà essere applicato: come si avrà modo di vede-re, la curva dei tassi è nota al momento della valutazione.

10.1.5.2. Tassi spot e tassi forward

È, anzitutto, opportuno precisare la nozione di tasso spot e di tasso for-ward ed esplicitare il concetto di curva dei tassi attesi.

Il tasso d’interesse a pronti, detto anche tasso spot a n anni, è il tasso di interesse relativo a un investimento che inizia al tempo zero e dura n anni (la data di riferimento coincide con la data di inizio dell’operazione finanziaria). Se ad esempio il tasso EURIBOR a sei mesi quotato alla data del 1° gennaio 2014 è pari al 1,00%, esso può definirsi il tasso spot rilevabile il 1° gennaio 2014 relativo all’EURIBOR a 6 mesi.

Il tasso di interesse a termine, detto anche tasso forward, invece, è il tasso d’interesse relativo a un intervallo di tempo futuro: un esempio di tasso for-ward è il tasso EURIBOR a 6 mesi che verrà quotato sul mercato tra 1 anno.

L’EURIBOR è il tasso interbancario di riferimento diffuso giornalmente dalla Federazione Bancaria Europea come media ponderata dei tassi di inte-resse ai quali le Banche operanti nell’Unione Europea cedono i depositi in prestito. È utilizzato come parametro di indicizzazione dei mutui ipotecari a tasso variabile.

L’EURIRS, invece, è il tasso interbancario di riferimento utilizzato come parametro di quotazione dei mutui ipotecari a tasso fisso. È diffuso giornal-mente dalla Federazione Bancaria Europea ed è pari ad una media ponderata delle quotazioni alle quali le banche operanti nell’Unione Europea quotano l’interest rate swap; è detto anche IRS.

Nei contratti in cui le parti si scambiano il tasso fisso con il tasso variabi-le, applicando tali tassi ad un nozionale (ad esempio il valore residuo di un contratto di mutuo o il valore residuo di un titolo emesso) a prefissate sca-denze, si assume – in condizioni di normalità e di equivalenza finanziaria – che sia indifferente scambiarsi i flussi al tasso varabile o a quello fisso, ove esista una corretta relazione tra la misura attesa dei futuri tassi variabili ed il tasso fisso costante prescelto su cui si vanno a parametrare i propri paga-menti.

In linea generale, quindi, proprio per le modalità di costruzione, dovrebbe

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essere indifferente per un operatore finanziario, contrarre un mutuo al tasso variabile EURIBOR per la durata ad esempio di 20 anni, oppure contrarre un mutuo o un’obbligazione a tasso fisso EURIRS per la medesima durata. Ciò in quanto l’EURIRS (che esprime il tasso di interesse costante per la durata convenuta) dovrebbe eguagliare il rendimento o costo dei tassi EURIBOR attesi nel corso del periodo di durata del mutuo o dell’obbligazione assunta.

Sul quotidiano il Sole 24 ORE vengono giornalmente pubblicati i dati sui tassi EURIRS a 1 anno, 2 anni, 3 anni, 4 anni, 5 anni e così via, mentre ven-gono pubblicati i tassi EURIBOR fino a 1 anno.

Assumiamo, ad esempio, che la quotazione dell’EURIRS a 5 anni ad una certa data sia pari al 2,00%, quella a 10 anni pari al 3,00%, e quella a 15 an-ni pari al 4,00%. L’assunto di base sottostante è che un investitore (o colui che prende a prestito una somma per 10 anni) si attende un rendimento (ov-vero un costo del finanziamento) costante per 10 anni al tasso del 3,00% an-nuo. Se invece la durata dell’investimento (o del finanziamento) fosse di 5 anni, il tasso di rendimento (o tasso di costo) sarebbe del 2,00% annuo per tutti i cinque anni.

Ciò significa che le aspettative di mercato sull’andamento dei tassi evi-denziano un netto rialzo degli stessi, poiché si ipotizza che il rendimento medio nell’arco dei dieci anni sia pari al 3,00% annuo contro un rendimento medio nei primi 5 anni del 2,00%. Questo lascia facilmente intuire che i tassi medi del secondo quinquennio saranno (a livello di aspettativa) superiori al 3,00%, non potendosi altrimenti ricavare un valore medio per tutti i 10 anni del 3,00%.

Il tasso EURIBOR a termine (o forward) è, invece, il tasso che ci si at-tende ad una data scadenza (ad esempio tra 3 anni), in base ai tassi EURIRS quotati ad una certa epoca.

Applicando la matematica finanziaria è possibile calcolare i tassi for-ward, in base alla relazione tra i tassi EURIRS relativi a diverse epoche fu-ture. In particolare, come è dato evincere dalla seguente Tabella (che riporta un esempio pratico, richiamato anche nel seguito), i tassi EURIBOR (for-ward, o tassi a termine) sono determinati in modo tale che il montante ad ogni epoca t di un capitale unitario investito all’epoca 0 calcolato utilizzando i tassi EURIRS (spot, o tassi a pronti) sia uguale al montante calcolato uti-lizzando la successione dei tassi EURIBOR ricavati implicitamente nei sin-goli periodi (curva dei tassi attesi).

464 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Epoca Data Tasso eurirs spot

Montante eurirs spot

Tasso euribor forward

Montante euribor forward

0 30/6/2006 3,19% 1,0000 3,19%

31/12/2006 3,37% 1,0178 3,37%

1 30/6/2007 3,55% 1,0355 3,55% 1,0355

31/12/2007 3,67% 1,0564 3,79%

2 30/6/2008 3,79% 1,0773 4,03% 1,0773

31/12/2008 3,85% 1,0997 4,09%

3 30/6/2009 3,91% 1,1220 4,15% 1,1220

31/12/2009 3,95% 1,1458 4,20%

4 30/6/2010 4,00% 1,1696 4,24% 1,1696

31/12/2010 4,03% 1,1949 4,28%

5 30/6/2011 4,06% 1,2202 4,32% 1,2202

31/12/2011 4,09% 1,2470 4,36%

6 30/6/2012 4,12% 1,2739 4,40% 1,2739

31/12/2012 4,14% 1,3024 4,44%

7 30/6/2013 4,17% 1,3310 4,48% 1,3310

31/12/2013 4,19% 1,3613 4,52%

8 30/6/2014 4,22% 1,3917 4,56% 1,3917

31/12/2014 4,24% 1,4239 4,59%

9 30/6/2015 4,26% 1,4560 4,62% 1,4560

31/12/2015 4,28% 1,4901 4,65%

10 30/6/2016 4,31% 1,5242 4,68% 1,5242

465 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

È agevole constatare come, in un regime di tassi crescenti, i tassi EU-RIRS spot – che si riferiscono ad intervalli di tempo che vanno da zero a t – crescano progressivamente meno dei tassi EURIBOR forward – che, invece, si riferiscono ad intervalli di tempo che vanno da t – 1 a t –.

Per comprendere tale dinamica si può ricorrere al seguente esempio: è come se due auto che partono dallo stesso posto per raggiungere la stessa destinazione viaggiassero a velocità diverse: per tutto il percorso la prima auto viaggia ad una velocità media di 60 km/h, mentre la seconda percorre un primo tratto del percorso ad una velocità media di 30 km/h ed è necessa-rio che viaggi ad una velocità media superiore nel secondo tratto, onde recu-perare lo svantaggio accumulato nel primo tratto 44.

10.1.5.3. Procedimento di valutazione degli interest rate swap

Il procedimento per la valutazione di un interest rate swap può essere sintetizzato nel seguente modo:

• in base alla curva EURIRS si calcolano i tassi forward EURIBOR per cia-scuna delle date rilevanti ai fini della determinazione dei flussi di cassa;

• si calcolano, quindi, i flussi di cassa nell’ipotesi che i tassi EURIBOR in futuro siano uguali ai futuri tassi forward calcolati secondo il punto prece-dente;

• si determina il valore corrente dello swap calcolando il valore attuale dei flussi di cassa, in base alla curva EURIRS.

10.1.5.4. Gli interest rate swap come scommesse

Chi stipula in un contratto swap su tassi d’interesse impegnandosi a paga-re un tasso d’interesse variabile e a ricevere un tasso d’interesse fisso prede-terminato, sullo stesso capitale nozionale, è come se acquistasse un titolo a tasso fisso e vendesse un titolo a tasso varabile; pertanto perde quando il tas-so variabile sale oltre il tasso fisso e guadagna quando il tasso variabile si mantiene al di sotto di tale soglia. È, dunque, ovvio che sarà disponibile a stipulare un contratto del tipo ora descritto solo se si ritiene che i tassi varia-bili saranno, in media, inferiori al tasso fisso.

In definitiva, chi accetta di stipulare un interest rate swap spera che l’andamento dei tassi di interesse (fissi e variabili) non sarà quello che è sta-

44 L’esempio è tratto da: G. OLIVIERI-E. BARONE-L. POGGIALI, I prodotti derivati negli Enti Pubblici Territoriali, in Master Universitario di Secondo Livello. Regolazione dell’at-tività e dei mercati finanziari.

466 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

to utilizzato per la valutazione, ma sarà tale da garantirgli un vantaggio. Egli dovrebbe quindi calcolare, in base alle sue personali valutazioni e aspettati-ve, l’andamento dei tassi forward e controllare che il valore del contratto sia positivo; solo in questo caso avrebbe interesse a stipulare il contratto di inte-rest rate swap.

Le valutazioni delle probabilità dell’andamento dei tassi variabili – da parte dei due contraenti – devono essere necessariamente diverse, in quanto ognuno – partecipando alla scommessa – ritiene di poter vincere la partita.

È opportuno sottolineare che – almeno in linea teorica – il contratto inte-rest rate swap può avere finalità di copertura o speculativa ovvero può esse-re caratterizzato dalla contemporanea presenza di una componente di coper-tura e di una componente speculativa.

Nel caso di contratti di interest rate swap con cessione di tassi variabili in cambio di tassi fissi, la finalità – ancorché astrattamente di copertura – è di copertura in senso “relativo”, a differenza della copertura in senso “assolu-to” offerta da contratti di assicurazione.

Nei contratti di assicurazione infatti, si elimina il rischio che i tassi cre-scano, ma si conserva il vantaggio che deriva da una eventuale riduzione dei tassi; quindi si elimina il rischio negativo che corre l’acquirente dello strumento di copertura e, indipendentemente dall’andamento futuro dei tassi, la massima perdita conseguibile è rappresentata dal premio pagato inizialmente.

Nei contratti di interest rate swap di copertura invece si elimina sia il rischio negativo (svantaggio derivante dall’evento sfavorevole) sia il ri-schio positivo (vantaggio derivante dall’evento favorevole): tale conclu-sione diviene ovvia non appena si consideri che il vantaggio di un innal-zamento del tasso di interesse variabile (oggetto di copertura) al di sopra del tasso di interesse fisso non viene monetizzato, ma costituisce un mero risparmio per il sottoscrittore, tenuto comunque a pagarlo nell’ambito dell’operazione sottostante; vantaggio sterilizzato nel caso in cui il contrat-to preveda un cap al di sotto di una certa soglia (si veda l’esempio riporta-to più avanti). Da ciò consegue che – per una questione di equilibrio con-trattuale – il costo di tale copertura “relativa” dovrebbe essere nullo nel momento in cui vengono negoziati. Infatti, se così non fosse, si pagherebbe una sorta di premio assicurativo anche a fronte dell’aspettativa di ottenere un vantaggio dall’andamento dei tassi; il che sarebbe, evidentemente con-trario a qualsiasi logica finanziaria.

467 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

10.1.5.5. Il rischio di controparte

Prima di concludere sugli aspetti tecnici va fatto cenno al rischio di con-troparte, dovuto al fatto che la parte che si era impegnata a pagare un tasso di interesse (fisso o variabile che sia), o che dietro il versamento di un pre-mio si sia impegnata a versare la parte eccedente il tasso di riferimento, fal-lisca (o, comunque, vada in default).

10.1.5.6. Conclusioni

Si possono quindi trarre le seguenti conclusioni:

• esistono prodotti derivati di copertura e speculativi; • quelli di copertura devono essere necessariamente onerosi perché il loro

costo compensa il rischio che si elimina; • gli interest rate swap plain vanilla puri sono scommesse e, in caso di

scommessa equa, devono essere a costo zero; • la valutazione va fatta ex ante, perché giustificare la partecipazione ad una

scommessa attraverso il risultato della stessa è mistificante; • non bisogna dimenticare il rischio di controparte che come la recente crisi

finanziaria insegna non è insignificante.

10.2. Un caso pratico

10.2.1. Le condizioni contrattuali

La Società e la Banca hanno stipulato, in data 13 giugno 2006, un con-tratto di interest rate swap le cui caratteristiche sono riportate nella tabella sottostante.

CONTRATTO DI MUTUO

ELEMENTI DEL CONTRATTO GRANDEZZE

Data di sottoscrizione del contratto 13/6/2006

Somma oggetto del contratto (euro) 5.000.000,00

Periodicità Semestrale

Quota capitale 250.000,00

Tasso di interesse Euribor 6 mesi + spread 1,55%

468 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

CONTRATTO DI INTEREST RATE SWAP

ELEMENTI DEL CONTRATTO GRANDEZZE

Tipo di contratto plain vanilla (con cap e floor)

Data di sottoscrizione del contratto 13/6/2006

Nozionale (euro) 5.000.000,00

Tasso di interesse (primi due anni) 3,745%

Tasso di interesse (ultimi otto anni) 4,950%

Floor 1,700%

Cap 6,000%

10.2.2. Esame tecnico del contratto di interest rate swap

10.2.2.1. Premessa

Come ampiamente descritto in precedenza, in un contratto di interest rate swap plain vanilla le controparti si scambiano flussi di pagamenti di interes-si calcolati utilizzando un tasso fisso contro uno variabile applicati a un ca-pitale nozionale di riferimento. Il contratto stipulato tra la Banca e la Società si avvicina molto al tipo “plain vanilla”, con aggiunta di un cap e di un floor.

Per quanto attiene alla prospettazione del rendimento del contratto, essa è implicitamente contenuta nel valore del mark to market del contratto rilevato al momento della sottoscrizione dello stesso. Il mark to market è pari al va-lore attuale dei flussi finanziari attesi correlati al contratto derivato; tali flus-si dipendono dall’andamento dei parametri contrattuali e, nel caso di specie, dall’evoluzione dei tassi di interesse. La stima del mark to market viene ef-fettuata, con riferimento ad una certa data, sulla base dei tassi di interesse prospettici (tassi forward) che rispecchiano le aspettative di mercato circa l’andamento dei tassi. Nel caso in esame il mark to market di apertura del contratto – come si vedrà – è negativo; ciò significa che il contratto, al mo-mento della sua sottoscrizione, incorporava un’aspettativa di perdite future per la Società.

469 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

10.2.2.2. Caratteristiche del contratto

Prima di analizzare nel dettaglio individualmente i contratti swap, di se-guito ne vengono presentate le principali caratteristiche:

• il contratto è stato stipulato over the counter (O.T.C.); è stato, quindi, ne-goziato al di fuori di borse regolamentate;

• il mark to market alla data di sottoscrizione è negativo per la Società; • il contratto è, sostanzialmente, standard; • la dinamica dei pagamenti è perfettamente coincidente con quella del con-

tratto di mutuo.

10.2.2.3. Analisi del contratto

Il contratto di interest rate swap è stato stipulato in data 13 giugno 2006. La Banca è tenuta al pagamento del tasso Euribor a 6 mesi, mentre la So-

cietà è tenuta al pagamento di un tasso fisso maggiorato di uno spread, come descritto di seguito nella tabella “Principali caratteristiche contrattuali”. La liquidazione dei differenziali avviene su base semestrale.

Il capitale nozionale, inizialmente di € 5.000.000, diminuisce col passare del tempo secondo il piano di ammortamento riportato nel contratto (amorti-zing swap). La data iniziale dello swap è il 30 giugno 2006, quella finale il 30 giugno 2016. La convenzione utilizzata per tutti i pagamenti è: giorni ef-fettivi/360.

Periodo Oneri per la società e per la banca

FLOOR COLLAR CAP

30/6/2006 – 30/6/2008

Tasso Parametro A1 3,745% + 1,55% 3,745% + 1,55% 3,745% + 1,55%

Tasso Parametro B1 EURIBOR EURIBOR EURIBOR

30/6/2008 – 30/6/2016

Tasso Parametro A2 4,95% + 1,55% +

EURIBOR 4,95% + 1,55%

4,95% + 1,55% +

6%

Tasso Parametro B1 EURIBOR EURIBOR – 6%

470 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

10.2.2.4. Verifica dell’eventuale superamento del tasso soglia usurario

10.2.2.4.1. Premessa. – È stata, anzitutto, effettuata la verifica dell’even-

tuale superamento del tasso soglia nelle ipotesi di seguito descritte:

• Prima Ipotesi: mutuo ipotecario a tassi variabile maggiorato dello spread, senza tenere conto dell’interesse di mora;

• Seconda Ipotesi: mutuo ipotecario a tasso variabile maggiorato dello spread, tenendo conto dell’interesse di mora (nell’ipotesi, piuttosto rara, che il tasso di interesse di mora si cumuli con il tasso di interesse corri-spettivo);

• Terza Ipotesi: interest rate swap a tasso fisso maggiorato dello spread, senza tenere conto dell’interesse di mora;

• Quarta Ipotesi: interest rate swap a tasso fisso maggiorato dello spread, tenendo conto dell’interesse di mora (nell’ipotesi, piuttosto rara, che il tas-so di interesse di mora si cumuli con il tasso di interesse corrispettivo).

10.2.2.4.2. L’esclusiva considerazione del tasso di interesse. – Il risulta-to, in caso di tasso variabile, è riprodotto nella tabella sottostante:

.

T.E.G. 4,80%

Tasso variabile 4,74%

T.E.G.M. 4,16%

Tasso soglia 6,24%

Come è agevole rilevare, non si riscontra il superamento del Tasso So-

glia. Il risultato, in caso di tasso fisso, è riprodotto nella tabella sottostante:

471 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

T.E.G. 6,10%

Tasso variabile 4,74%

Tasso fisso Primo periodo 5,30%

Tasso fisso Secondo periodo 6,50%

T.E.G.M. 5,14%

Tasso soglia 7,71%

Come è agevole rilevare, non si riscontra il superamento del Tasso So-

glia.

10.2.2.4.3. La considerazione del tasso di mora. – Il risultato, in caso di tasso variabile, è riprodotto nella tabella sottostante:

T.E.G. 7,89%

Tasso variabile oltre mora 7,74%

T.E.G.M. 4,16%

Tasso soglia 6,24%

472 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Come è agevole rilevare, si riscontra il superamento del Tasso Soglia. Il risultato, in caso di tasso fisso, è riprodotto nella tabella sottostante:

T.E.G. 9,19%

Tasso variabile oltre mora 7,74%

Tasso fisso oltre mora primo periodo 8,30%

Tasso fisso oltre mora secondo periodo 9,50%

T.E.G.M. 5,14%

Tasso soglia 7,71%

Come è agevole rilevare, si riscontra il superamento del Tasso Soglia.

10.2.2.5. Calcolo del mark to market

È stato, quindi, determinato il mark to market alla data di stipula del con-tratto, sulla base dei tassi EURIBOR ricavabili dai tassi EURIRS (fonte startbyzero.com/finanza/indici/eurirs/).

Come si può constatare dalla tabella sottostante, il mark to market del contratto alla data di stipula (13/6/2006), negativo per la Società è pari a – € 233.462,68.

473 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Epoca Data Costo tasso euribor

Costo tasso fisso Payoff

Valore attuale payoff

0 30/6/2006

31/12/2006 84.287,50 118.500,00 34.212,50 33.615,32

1 30/6/2007 84.383,75 112.575,00 28.191,25 27.223,98

31/12/2007 85.348,76 106.650,00 21.301,24 20.163,72

2 30/6/2008 85.713,07 100.725,00 15.011,93 13.934,79

31/12/2008 81.839,66 105.900,00 24.060,34 21.879,90

3 30/6/2009 77.820,18 99.281,25 21.461,07 19.127,33

31/12/2009 73.454,57 92.662,50 19.207,93 16.763,45

4 30/6/2010 68.971,47 86.043,75 17.072,28 14.596,27

31/12/2010 64.236,03 79.425,00 15.188,97 12.711,49

5 30/6/2011 59.405,59 72.806,25 13.400,66 10.982,65

31/12/2011 54.517,97 66.187,50 11.669,53 9.357,89

6 30/6/2012 49.527,77 59.568,75 10.040,98 7.882,18

31/12/2012 44.420,07 52.950,00 8.529,93 6.549,25

7 30/6/2013 39.213,53 46.331,25 7.117,72 5.347,76

31/12/2013 33.911,97 39.712,50 5.800,53 4.260,93

8 30/6/2014 28.510,29 33.093,75 4.583,46 3.293,46

31/12/2014 22.963,37 26.475,00 3.511,63 2.466,27

9 30/6/2015 17.338,88 19.856,25 2.517,37 1.728,92

31/12/2015 11.634,33 13.237,50 1.603,17 1.075,86

10 30/6/2016 5.854,70 6.618,75 764,05 501,27

265.246,56 233.462,68

474 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Il contratto di interest rate swap “cela”, dunque, una commissione impli-cita pari a – € 233.462,68, che potrebbe risultare sproporzionata.

Il Tribunale di Verona, sul punto, ha affermato il seguente principio di di-ritto: «Nei contratti di swap, il margine lordo a favore della banca non è di per sé segno di una patologia dell’operazione, a meno che l’importo di esso sia eccessivo e comporti uno sbilanciamento dell’operazione in danno del cliente» 45.

10.2.2.6. Efficacia delle coperture

L’efficacia della copertura dei contratti derivati non può essere dichiarata in via autonoma; al contrario essa dipende dalla propria struttura in relazione alle forme e all’entità dell’indebitamento cui tali contratti sono correlati.

Nel caso di specie, il contratto possiede una struttura atta a costituire una buona copertura, fermo restando quanto si è detto e quanto si dirà più avanti in ordine alla natura intrinsecamente speculativa del contratto medesimo.

Inoltre, la dinamica dei tassi forward mette in evidenza come i tassi a ca-rico della Società siano sempre stati superiori rispetto a quelli a carico della Banca.

Epoca Data Tasso a carico della banca

Tasso a carico della società

0 30/6/2006 3,19% 5,30%

31/12/2006 3,37% 5,30%

1 30/6/2007 3,55% 5,30%

31/12/2007 3,79% 5,30%

2 30/6/2008 4,03% 5,30%

31/12/2008 4,09% 5,30%

3 30/6/2009 4,15% 5,30%

31/12/2009 4,20% 5,30%

Segue

45 Trib. Verona, 10 dicembre 2012, in www.ilcaso.it.

475 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Epoca Data Tasso a carico della banca

Tasso a carico della società

4 30/6/2010 4,24% 5,30%

31/12/2010 4,28% 5,30%

5 30/6/2011 4,32% 6,50%

31/12/2011 4,36% 6,50%

6 30/6/2012 4,40% 6,50%

31/12/2012 4,44% 6,50%

7 30/6/2013 4,48% 6,50%

31/12/2013 4,52% 6,50%

8 30/6/2014 4,56% 6,50%

31/12/2014 4,59% 6,50%

9 30/6/2015 4,62% 6,50%

31/12/2015 4,65% 6,50%

10 30/6/2016 4,68% 6,50%

Si è ritenuto utile porre a confronto l’andamento dei payoff attesi (ex an-

te) e di quelli verificatisi nella pratica (ex post). In particolare, l’andamento dei payoff attesi (ex ante) è di seguito riportato.

476 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Epoca Data Costo tasso euribor

Costo tasso fisso Payoff

0 30/6/2006

31/12/2006 84.287,50 118.500,00 34.212,50

1 30/6/2007 84.383,75 112.575,00 28.191,25

31/12/2007 85.348,76 106.650,00 21.301,24

2 30/6/2008 85.713,07 100.725,00 15.011,93

31/12/2008 81.839,66 105.900,00 24.060,34

3 30/6/2009 77.820,18 99.281,25 21.461,07

31/12/2009 73.454,57 92.662,50 19.207,93

4 30/6/2010 68.971,47 86.043,75 17.072,28

31/12/2010 64.236,03 79.425,00 15.188,97

5 30/6/2011 59.405,59 72.806,25 13.400,66

31/12/2011 54.517,97 66.187,50 11.669,53

6 30/6/2012 49.527,77 59.568,75 10.040,98

31/12/2012 44.420,07 52.950,00 8.529,93

7 30/6/2013 39.213,53 46.331,25 7.117,72

31/12/2013 33.911,97 39.712,50 5.800,53

8 30/6/2014 28.510,29 33.093,75 4.583,46

31/12/2014 22.963,37 26.475,00 3.511,63

9 30/6/2015 17.338,88 19.856,25 2.517,37

31/12/2015 11.634,33 13.237,50 1.603,17

10 30/6/2016 5.854,70 6.618,75 764,05

265.246,56 Come è agevole constatare, le aspettative conducevano a payoff sempre

negativi per la Società. Per una maggiore efficacia visiva, viene di seguito riportato il grafico

dell’andamento delle perdite cumulate della Società in termini di payoff.

477 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Serie1; 1/1/2011;  33.615,32 

Serie1; 1/7/2011;  60.839,31 

Serie1; 1/1/2012;  81.003,03 

Serie1; 1/7/2012;  94.937,81 

Serie1; 1/1/2013;  116.817,72 

Serie1; 1/7/2013;  135.945,05 

Serie1; 1/1/2014;  152.708,50 

Serie1; 1/7/2014;  167.304,76 

Serie1; 1/1/2015;  180.016,26 

Serie1; 1/7/2015;  190.998,91 

Serie1; 1/1/2016;  200.356,80 

Serie1; 1/7/2016;  208.238,98 

Serie1; 1/1/2017;  214.788,22 

Serie1; 1/7/2017;  220.135,98 

Serie1; 1/1/2018;  224.396,91 

Serie1; 1/7/2018;  227.690,36 

Serie1; 1/1/2019;  230.156,64 

Serie1; 1/7/2019;  231.885,56 

Serie1; 1/1/2020;  232.961,42 

Serie1; 1/7/2020;  233.462,68 

478 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Nella Tabella sottostante sono invece riportati i payoff effettivi (ex post) (almeno sino al 31 dicembre 2013).

Epoca Data Costo tasso euribor

Costo tasso fisso Payoff

Valore attuale payoff

0 30/6/2006

31/12/2006 95.750,00 118.500,00 22.750,00 22.352,90

1 30/6/2007 103.075,00 112.575,00 9.500,00 9.174,05

31/12/2007 110.025,00 106.650,00 -3.375,00 -3.194,77

2 30/6/2008 109.225,00 100.725,00 -8.500,00 -7.890,11

31/12/2008 70.000,00 105.900,00 35.900,00 32.646,61

3 30/6/2009 -27.562,50 99.281,25 126.843,75 113.050,36

31/12/2009 -17.675,00 92.662,50 110.337,50 96.295,47

4 30/6/2010 -16.575,00 86.043,75 102.618,75 87.735,81

31/12/2010 -19.050,00 79.425,00 98.475,00 82.412,75

5 30/6/2011 24.337,50 72.806,25 48.468,75 39.723,06

31/12/2011 21.250,00 66.187,50 44.937,50 36.035,76

6 30/6/2012 -10.687,50 59.568,75 70.256,25 55.151,22

31/12/2012 -3.300,00 52.950,00 56.250,00 43.188,54

7 30/6/2013 -2.800,00 46.331,25 49.131,25 36.913,77

31/12/2013 -2.775,00 39.712,50 42.487,50 31.210,27

8 30/6/2014 -2.312,50 33.093,75 35.406,25 25.441,23

31/12/2014 -1.850,00 26.475,00 28.325,00 19.893,08

9 30/6/2015 -1.387,50 19.856,25 21.243,75 14.590,13

31/12/2015 -925,00 13.237,50 14.162,50 9.504,18

10 30/6/2016 -462,50 6.618,75 7.081,25 4.645,78

912.300,00 748.880,08 I valori rilevati ex post confermano il disequilibrio a svantaggio della So-

cietà, tra l’altro con la discesa del tasso variabile al di sotto del floor.

479 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Il prospetto pone – altresì – in evidenza l’asimmetria intrinseca nel con-tratto di interest rate swap, giacché la dimensione quantitativa della com-missione implicita pagata dalla Società risulta ingiustificata alla luce del fat-to che il payoff assume valori accentuatamente negativi al verificarsi dell’e-vento costituito dalla discesa dei tassi di interesse, realizzatosi negli ultimi anni.

Infatti, poiché – come si è detto – il contratto di interest rate swap ha comunque natura implicitamente speculativa – la commissione implicita sarebbe stata giustificata soltanto ove l’evento costituito dalla discesa dei tassi di interesse fosse stato sterilizzato attraverso la previsione di un floor corrispondente al tasso EURIBOR rilevato alla data di sottoscrizione del contratto.

Per contro, sulla base delle condizioni contrattuali, la riduzione del tas-so al di sotto del floor comportava uno svantaggio ulteriore in capo alla Società.

10.2.2.7. Conclusioni

Il contratto di interest rate swap reca un profondo squilibrio a svantaggio della Società: i differenziali sono stati sempre negativi per la Società sia du-rante i periodi di rialzo, sia durante i periodi di ribasso dei tassi di interesse.

La situazione di disequilibrio contrattuale emerge ictu oculi dai grafici sottostanti, che riportano sull’asse delle ordinate la dinamica dei pagamenti (in termini di tassi) al variare dell’Euribor a 6 mesi riportato sull’asse delle ascisse; la superficie colorata in rosso indica l’area di guadagno (effettivo) per la Banca, mentre quella colorata in verde l’area di guadagno (rectius ri-sparmio) per la Società.

Il grafico di seguito riprodotto reca l’ipotesi di tasso di interesse fisso al 3,745%.

480 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Il grafico di seguito riprodotto reca l’ipotesi di tasso di interesse fisso al

4,95%.

È di immediata evidenza il fatto che la Società si sarebbe trovata a subire

in ogni caso una perdita, quale che fosse il tasso EURIBOR; fatta salva una modesta area di guadagno nel primo periodo di vigenza contrattuale.

-6%

-1%

4%

9%

0,01

%0,

39%

0,77

%1,

15%

1,53

%1,

91%

2,29

%2,

67%

3,05

%3,

43%

3,81

%4,

19%

4,57

%4,

95%

5,33

%5,

71%

6,09

%6,

47%

6,85

%7,

23%

7,61

%7,

99%

8,37

%8,

75%

9,13

%9,

51%

9,89

%10

,27%

10,6

5%11

,03%

0%1%2%3%4%5%6%7%8%9%

10%11%12%13%14%

0,01

%0,

43%

0,85

%1,

27%

1,69

%2,

11%

2,53

%2,

95%

3,37

%3,

79%

4,21

%4,

63%

5,05

%5,

47%

5,89

%6,

31%

6,73

%7,

15%

7,57

%7,

99%

8,41

%8,

83%

9,25

%9,

67%

10,0

9%10

,51%

10,9

3%11

,35%

11,7

7%12

,19%

481 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Brevi note sull’insolvenza infragruppo e su relativi aspetti di rilevanza penale Paola Rava

In tema di gruppi di imprese partiamo da un’osservazione o, forse, sareb-be meglio dire da una constatazione.

È noto che nel nostro ordinamento giuridico manca – sul piano del diritto positivo – una definizione normativa specifica, completa ed esauriente del “gruppo di imprese” o del “gruppo di società” ed una correlativa disciplina organica della struttura dei gruppi, anche se è ormai incontestabile che oggi si tratta di un fenomeno caratteristico del neo capitalismo, con una presenza sempre più diffusa nella prassi quale creazione imprenditoriale sul piano economico 1.

La validità generale del modello organizzativo del “gruppo di imprese” è stata riconosciuta legislativamente dalla legge delega n. 366 del 2001, in osse-quio ai dettami della quale hanno, poi, preso vita, rispettivamente, in campo civile il d.lgs. n. 6 del 2003 contenente la riforma del diritto societario e, in campo penale, il d.lgs. n. 61 del 2002 in materia di riforma dei reati societari.

Ai fini definitori, si può indubbiamente affermare la valenza unitaria del gruppo di imprese, in quanto il gruppo si presenta quale fenomeno caratte-rizzato dall’unitarietà economica della sua attività 2 contrapposta alla molte-plicità o frammentarietà giuridica delle sue componenti, costituite da diversi soggetti autonomi che mantengono la loro distinta personalità o soggettività giuridica e, conseguentemente, la loro autonomia patrimoniale e gestionale.

In questo contesto, si può richiamare, innanzitutto, la norma di cui all’art. 2634 c.c. 3 che contiene, al terzo comma, una sorta di anticipazione del con-

1 Neppure il recente progetto di riforma della Commissione Rordorf in materia fallimen-tare, pur disponendo la necessità di regolamentare, in via generale e specifica, la crisi e l’insolvenza dei gruppi di imprese, ha provveduto a fornire una nozione nuova ed ulteriore del gruppo.

2 La c.d. “unicità del disegno economico”. 3 Come introdotta dalla riforma del diritto societario del 2003.

482 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

cetto unitario di gruppo e trova, oggi, una piena coerenza sia sul piano civili-stico che su quello penalistico.

Infatti, con ulteriore riferimento – sul piano civilistico – alle norme intro-dotte dalla riforma sulla direzione e sul coordinamento di società, si può ora con certezza affermare come, a partire dal 1° gennaio 2004, nel nostro ordi-namento giuridico sia ormai configurabile l’impresa di gruppo, nel cui con-testo la direzione unitaria vulnera il principio, finora imperante, dell’autono-mia patrimoniale delle singole società controllate, in quanto l’art. 2497 c.c. configura una vera e propria responsabilità dell’impresa-holding (individua-le o societaria) nei confronti dei soci (anche di minoranza) e dei creditori so-ciali delle società controllate, per fatti riferibili al loro patrimonio, ma ricon-ducibili ad una mala gestio unitaria del gruppo, rimanendo i soci e i creditori sociali di ciascuna società del gruppo titolari di posizioni giuridiche ricono-sciute e tutelate anche a fronte del più ampio e generale interesse di gruppo.

Più in dettaglio, la riforma ha attribuito specifico rilievo all’«attività di direzione e coordinamento di società», considerandola come possibile fonte di responsabilità civile, con un esplicito riferimento – pur se in termini diffe-renziati e in forma speculare rispetto alla norma penale – alla teoria dei van-taggi compensativi, prevedendosi che «non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di di-rezione e di coordinamento» (art. 2497 c.c.).

Pertanto, evidenziandosi come punto centrale di tale attività sia la respon-sabilità ex art. 2497 c.c. in base alla quale le società e/o gli enti coordinatori, dato che agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio ed altrui, in caso di violazione dei principi di corretta gestione societaria assumono la diretta re-sponsabilità sia nei confronti dei soci per il pregiudizio loro arrecato sia nei confronti dei creditori sociali per la eventuale lesione del patrimonio sociale della controllata, emerge dalla lettura dell’art. 2497 c.c. che sussiste abuso di direzione unitaria quando gli amministratori della holding, violando i princi-pi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale, indirizzano le politiche del gruppo in modo tale da realizzare un interesse proprio od altrui a danno delle società controllate (o l’interesse di una controllata a danno di un’altra) in modo pregiudizievole rispetto al bene “partecipazione sociale” o al bene “integrità del patrimonio”, senza che alcun interesse delle singole, così sacri-ficate, sia soddisfatto nemmeno per effetto dell’appartenenza al gruppo.

Da siffatta disposizione pare, dunque, emergere la scelta del legislatore di recepire la c.d. teoria dei vantaggi compensativi, secondo la quale, ai fini del giudizio sulla sussistenza di una responsabilità per mala gestio della holding, si rende necessario valutare la legittimità delle sue decisioni sulla scorta non già del risultato “negativo” immediato che queste apportano rispetto al pa-

483 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

trimonio della singola controllata, quanto piuttosto alla luce della comples-siva situazione economica del gruppo e dell’utilità che, nel medio e nel lun-go periodo, essa può ricavare da tali scelte, utilità che si può indirettamente ripercuotere anche a favore della società apparentemente depauperata, pro-prio in virtù del suo collegamento al gruppo.

Se, alla luce di questo giudizio globale, risulterà che il danno subito dalla singola sia momentaneo o, comunque, rimanga neutralizzato per effetto di un’o-perazione di segno contrario a ciò mirata, o per effetto di concreti benefici deri-vanti dalla strategia complessiva della holding, allora non potrà attribuirsi a quest’ultima alcuna responsabilità.

In definitiva, si può affermare che, a fronte delle dinamiche tipiche del fenomeno dei gruppi, caratterizzate da continui interscambi tra le diverse componenti, non sarebbe corretto isolare – considerandolo come fonte di re-sponsabilità – il singolo atto, pur di per sé dannoso per la società interessa-ta 4, ma occorrerebbe tener conto dei ritorni di utilità connessi all’apparte-nenza al gruppo, che possono comportare, in una valutazione globale, un so-stanziale riequilibrio di vantaggi e svantaggi patrimoniali 5.

Sul punto, la giurisprudenza civile si è pronunciata di recente con la sen-tenza n. 27547 del 30 dicembre 2014 6), secondo cui: «Nel caso in cui una società abbia prestato fideiussione in favore di un’altra società il cui ammi-nistratore sia contemporaneamente amministratore della prima, l’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società garante ed il suo amministratore, ai fini dell’annullabilità del contratto, non può essere fatta discendere generi-camente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di ammini-stratore delle due società, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società che ha prestato la garanzia ed il suo amministratore. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha con-fermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la sussistenza del conflitto d’interessi, rientrando le garanzie concesse da una società in favo-re di una propria controllata tra gli atti strumentali alla conservazione del valore della partecipazione azionaria di cui la garante è titolare, e, dunque,

4 Si pensi all’esempio classico della concessione di garanzie senza corrispettivo a favore di altra società del gruppo.

5 Cfr. per un’esemplificazione della casistica ravvisabile in concreto COCCO, citato in Riv. trim. di dir. pen. e dell’economia, 2014, 2, 440, nota 10 del commento di Daniela Falci-nelli a Cass. pen 5 giugno 2013, n. 49787, di cui infra.

6 Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2014 n. 27547, Rv. n. 634052; conforme: Cass. civ., sez. I, 17. ottobre 2008 n. 25361, Rv. n. 605375, in Mass. Giur. It., 2008.

484 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

nell’interesse della stessa garante e del gruppo societario nel suo insieme)». Nello stesso senso si è pronunciata anche la sentenza n.9475 del 30 aprile

2014 7, che ha affermato: «Ai fini della valutazione della pertinenza di un at-to degli amministratori di una società di capitali all’oggetto sociale, il crite-rio da seguire è quello della strumentalità, diretta o indiretta, dell’atto ri-spetto all’oggetto sociale, e tale strumentalità va ravvisata non solo sulla base della generica appartenenza dell’atto ad un tipo espressamente indica-to tra le operazioni strumentali, ma anche sulla base dell’interesse della so-cietà. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la fideiussione rilasciata da una società a garanzia di un debito di altra società appartenente al medesimo gruppo rientrasse tra le operazioni strumentali utili o necessarie al conse-guimento dell’oggetto sociale, anche in ragione dell’interesse della società garante a salvaguardare la partecipazione nella società garantita e, quindi, il patrimonio della partecipante e del gruppo cui entrambe le società appar-tenevano)».

Significativo è, altresì, il riferimento all’applicazione del criterio dei van-taggi compensativi nell’ambito dei piani diretti alla prevenzione ed alla ri-strutturazione delle crisi d’impresa che coinvolgano realtà di gruppo 8.

Vale la pena sottolineare, sin d’ora, sotto questo specifico profilo il rilie-vo dato al fenomeno del gruppo dallo schema di disegno di legge delega re-cante “Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, elaborato dalla Commissione ministeriale isti-tuita dal Ministro della Giustizia con decreto 28 gennaio 2015 (e successive integrazioni), laddove – con l’intento di colmare un’evidente lacuna dell’at-tuale fallimentare 9 – viene attribuita rilevanza e riconosciuta la fattibilità del c.d. concordato di gruppo, con una specifica disciplina positiva, a fronte di recenti decisioni della giurisprudenza di legittimità e di merito sul punto 10

7 Cass. civ., sez. I, 30 aprile 2014 n. 9475, Rv. n. 631122. 8 Sul punto, cfr. N. ABRIANI-L. PANZANI, Crisi e insolvenza nei gruppi di società parte

II, in Il Nuovo diritto delle società, 2015, n. 18, par. 10, 71 ss., e par. 14, 88 ss., ed ivi note di richiamo.

9 Come enunciato dalla stessa Corte di Cassazione, la quale – chiamata ad occuparsi di un caso di concordato preventivo proposto da un gruppo di società – nella sentenza 13 otto-bre 2015, n. 20559 ha evidenziato che «l’attuale sistema del diritto fallimentare … non co-nosce il fenomeno e non detta alcuna disciplina al riguardo che si collochi sulla falsariga di quella in tema di amministrazione straordinaria … o sulla ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza o con riguardo ai gruppi bancari o assicurativi insol-venti».

10 Cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 13 ottobre 2015, n. 20559, in Dir. Fall. 2015, 6, 639,  

485 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

secondo cui «Il concordato c.d. di gruppo non è proponibile, innanzi al me-desimo tribunale, in assenza di una disciplina positiva che si occupi di rego-larne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, nonché la formazione delle classi e delle masse, sicché, in base alla disciplina vigente, il concordato preventivo può essere proposto unicamente da ciascuna delle società appartenenti al gruppo davanti al tribunale territorialmente compe-tente per ogni singola procedura, senza possibilità di confusione delle masse attive e passive, per essere, quindi, approvato da maggioranze calcolate con riferimento alle posizioni debitorie di ogni singola impresa»; nel senso dell’ammissibilità a certe condizioni, si veda quanto statuito dal tribunale di Teramo, nel provvedimento del 5 gennaio 2016 11.

Il fenomeno dei “gruppi” assume notevole rilevanza anche in campo penale. Innanzitutto, si vuole sottolineare il rischio, in generale, di condotte ille-

cite, che possono trarre origine e giovarsi dell’appartenenza al “modello gruppo”, in quanto esso potrebbe costituire sia un fattore di oscuramento ri-spetto al compimento di operazioni fraudolente (si pensi all’utilizzo, nella pratica, dello strumento di “aggregazione societaria” per favorire oppure na-scondere, a seconda dei punti di vista, operazioni depauperative dei patri-moni dei singoli enti e dannose per i soci di minoranza e per i creditori), sia uno strumento agevolativo di condotte infedeli da parte degli amministratori o, ancora, uno schermo relativamente ad attività distrattive realizzate nella fase di decozione dell’impresa.

Più nello specifico, sotto l’aspetto penale, come si è già detto, con la ri-forma dei reati societari ad opera del d.lgs. n. 61 dell’11 aprile 2002, è stato introdotto, nel nostro ordinamento giuridico, all’art. 2634 c.c., il reato di “in-fedeltà patrimoniale”.

In particolare, ai fini di interesse, la norma prende in considerazione il caso in cui il trasferimento patrimoniale venga realizzato dall’amministra-tore in favore di altra società collegata o, comunque, facente parte del grup-po, a cui appartiene anche quella depauperata. In siffatta ipotesi, il terzo comma dell’art. 2634 c.c. esclude l’ingiustizia del profitto della società col-legata o del gruppo allorquando questo sia «compensato da vantaggi, conse-guiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’apparte-nenza al gruppo».

Ci si domanda, dunque, se la citata norma, in coordinamento con la ri-chiamata disciplina civilistica in materia di gruppi, sia tale da attribuire alla

nota di Santagata, in Foro It. 2016, 4, 1, 1367; in Fallimento 2016, 2, 142, nota di Poli; Giur. It. 2016, 2, 395, nota di Di Majo.

11 Pres. Cappa – Est. Cirillo, in www.ilcaso.it, 28 gennaio 2016.

486 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

“teoria dei vantaggi compensativi” la natura di clausola generale, immanente al sistema e valevole ed operativa, pertanto, in tutte le branche dell’ordina-mento giuridico, poiché con la disciplina in tema di attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497 e ss. c.c. e con l’introduzione della clau-sola di esonero dalla responsabilità per infedeltà patrimoniale in materia di gruppi di cui all’art. 2634, comma 3, c.c., il legislatore ha senz’altro ricono-sciuto un più ampio margine di liceità delle operazioni infragruppo.

Il citato art. 2634, comma 3, c.c., infatti, attribuisce indubbiamente rilie-vo in campo penale alla teoria dei c.d. vantaggi compensativi, già ricono-sciuta dalla giurisprudenza civile di legittimità 12.

Anche il legislatore penale, dunque, (anzi per primo) ha riconosciuto co-me l’obiettivo del perseguimento dell’interesse di gruppo che, talvolta, in-fluisce sulle scelte dell’amministratore anche a scapito della singola società da lui gestita, non costituisca sempre e necessariamente un abuso o, comun-que, una deviazione dalla corretta esecuzione della propria funzione.

In questo ambito sono individuabili i limiti di liceità “penale” dei trasfe-rimenti patrimoniali infragruppo, relativamente al necessario contempera-mento tra gli effetti positivi che questi producono sul gruppo, inteso nel suo complesso (o sulla singola collegata destinataria del trasferimento), e gli esi-ti che siffatto arricchimento può determinare sulla società inizialmente de-pauperata.

Più nel dettaglio, si ritiene tuttavia che il vantaggio compensativo non possa andare oltre la sfera dell’“infedeltà patrimoniale” per la quale è stato espressamente previsto e regolamentato, con le conseguenti ricadute per quanto riguarda altri reati e, in particolare, i reati fallimentari.

La bancarotta fraudolenta infragruppo. In seguito all’introduzione degli artt. 2497 ss. c.c. e, soprattutto, dell’art.

2634, comma 3, c.c., è sorto il dibattito, in dottrina e giurisprudenza, circa

12 Cfr., in particolare, Cass. civ., sez. I, 5 dicembre 1998, n. 12325, in Notariato, 1999, 2, 109, con nota di Briganti e De Cristofaro; in Notariato, 1999, 4, 324, con nota di Rizzo Atti gratuiti della controllata in favore della controllante tra interesse sociale e interesse di gruppo; in Giur. It., 1999, 2317/8, con nota di MONTALENTI, Operazioni intragruppo e van-taggi compensativi: l’evoluzione giurisprudenziale; in Fallimento, 1999, 5, 562, con nota di Fasolino; in Foro It., 2000, I, 2936, con nota di La Rocca; v. anche SBISÀ, Responsabilità della capogruppo e vantaggi compensativi, in Contratto e impresa, 2003, 598; ABRIANI, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, in Giur. Comm., 2002, 613 ss.; Cass. civ., sez. I, 12 marzo 2008, n. 6739, in Riv. Dir. Civ., 2009, 2, 2, 201 nota di Bozzi; Cass. civ., sez. I, n. 25361 del 17 ottobre 2008, Rv. n. 605375 in Obbl. e Contr. 2009, 3, 268 con nota di Gennari; da ultimo, le sentenze sopra citate n. 27547 del 30 dicembre 2014, Rv. n. 634052 e n. 9475 del 30 aprile 2014, Rv. n. 631122.

487 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

l’estensibilità o meno della teoria dei vantaggi compensativi ai reati falli-mentari ed, in particolare, al reato di bancarotta per distrazione.

In ambito fallimentare, per distrazione, nel senso voluto dal legislatore nell’art. 216 n. 1 prima ipotesi R.D. 16 marzo 1942, n. 267, deve intendersi qualunque fatto diverso dall’occultamento, dissimulazione, distruzione, dis-sipazione di beni e dalla fraudolenta esposizione di passività inesistenti, me-diante il quale l’imprenditore faccia coscientemente uscire dal proprio pa-trimonio uno o più beni al fine di impedirne l’apprensione da parte degli or-gani del fallimento, e cioè qualsiasi operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo.

Infatti, la condotta sanzionata dal reato di bancarotta non è quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento della so-cietà, bensì quella di avere depauperato l’impresa attraverso la destinazione delle risorse ad impieghi estranei alla dinamica imprenditoriale, con la con-seguenza che non è necessario che la rappresentazione e la volontà dell’a-gente investano il fallimento o il dissesto aziendale, essendo sufficiente che si riferiscano alla sua diminuzione patrimoniale. Il legislatore non ha inteso sanzionare il mero distacco del bene dall’azienda, bensì la destinazione in-giustificabile dello stesso, parametrata sugli interessi dei creditori dell’im-presa, con un ambito di applicazione ritagliato sul caso concreto e con acce-zione prettamente economica.

Così, a titolo esemplificativo, possono costituire casi di distrazione pe-nalmente rilevante le ipotesi di concessioni a terzi di prestiti o finanziamenti – attività di per sé lecite – allorquando il tasso di interesse risulti incongruo o non venga apprestata una garanzia adeguata, di modo che l’operazione presenti uno squilibrio con il sacrificio temporaneo del mutuante tanto da far desumere, in concreto, e alla luce del dato economico complessivo, il carat-tere lesivo dell’atto rispetto all’obbligo di conservazione dell’integrità pa-trimoniale.

Parimenti, potrebbe qualificarsi distrattiva la condotta di rilascio di ga-ranzie o di fideiussioni a favore di terzi senza alcun corrispettivo, che es-ponga il garante a rischi abnormi per l’integrità della garanzia patrimoniale; o, ancora, ad esempio la stipula di un contratto di locazione effettuata con l’intento di sottrarre l’azienda all’esecuzione fallimentare – qualora questa sia imminente – o, comunque, allo scopo di trasferire la disponibilità di tutti o dei principali beni aziendali ad altro soggetto.

Il criterio per stabilire l’offensività del fatto risiede, in siffatte ipotesi, nella valutazione dello squilibrio tra le prestazioni, in cui giocano un ruolo decisivo da un lato, la razionalità economica della scelta calcolata alla stre-gua della situazione dell’attivo e del passivo aziendale globale al momento

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del compimento dell’atto; dall’altro, l’obiettivo specificatamente perseguito con l’atto dispositivo in questione, vale a dire se lo stesso sia unicamente fi-nalizzato alla speculazione in pregiudizio ai creditori o se sia, piuttosto, sog-gettivamente ed oggettivamente indirizzato a scopi di vantaggio per l’azien-da, risultando, pertanto, lecito.

Sorgono difficoltà di carattere interpretativo allorquando l’operazione de-pauperativa realizzata dall’amministratore della società controllata (e poi fallita), connotata – almeno in apparenza – dai caratteri della distrazione, sia stata effettuata a vantaggio di un’altra società del medesimo gruppo.

Tra le più frequenti e significative operazioni infragruppo integranti fatti di bancarotta si possono individuare 13:

1) i prestiti o finanziamenti non adeguatamente remunerati; 2) i finanziamenti onerosi, allorché determinino per la società finanziata, in

ragione del tasso di interesse o delle garanzie prestate, un danno al patri-monio e non si individui alcuna finalizzazione a precise operazioni eco-nomiche;

3) il rilascio di garanzie, allorché soprattutto la società garantita sia decotta, sicché l’operazione assume il significato di una regalia;

4) le vendite a prezzo di favore non giustificate da particolari condizioni del contratto o, addirittura, senza un effettivo corrispettivo;

5) la concentrazione di società di cui una con un consistente patrimonio so-ciale e l’altra senza un patrimonio valutabile economicamente a causa del dissesto, così diminuendo la garanzia dei creditori della prima a vantaggio di quelli della seconda;

6) il prelevamento di una somma di denaro da una società per eseguire l’aumento di capitale di un’altra.

La giurisprudenza penale, fatta salva qualche sporadica eccezione 14, ha tradizionalmente sostenuto la rilevanza penale dell’operazione squilibrata

13 BRICCHETTI, Bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice e operazioni infragruppo, citata in nota 2 da E. Corucci, commento a Cass. 22 ottobre 2008 ud. 15 luglio 2008, n. 39546, in Dir. pen. e proc., 8/2009, 1011.

14 Ci si riferisce, ad esempio, alla sentenza della Cass. pen., 25 febbraio 1959, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, p. 939 con nota di Stella, in materia di conflitto di interessi; fino alla più recente Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2006 ud. 24 maggio 2006, n. 36764, Rv 234606, Bevilacqua, in Riv. it. dir. proc. pen. 2007, 421 ss. con nota di Benussi, La Cassazione ad una svolta: la clausola dei vantaggi compensativi è esportabile nella bancarotta per distra-zione, in Fallimento, 2007, 3, 349; ove in un obiter dictum la Corte sembra ammettere l’e-stensibilità della clausola dei vantaggi compensativi prevista dall’art. 2634, terzo comma, c.c. anche in ambito fallimentare – v. infra nel testo.

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infragruppo (essendo tutta orientata per la tesi affermativa), ovverosia ha ri-condotto le condotte suindicate al reato di bancarotta.

Muovendo dal presupposto che il fenomeno dell’aggregazione societaria abbia natura meramente economica e non scalfisca il principio dell’autono-ma personalità giuridica di ciascuna società, la Corte di Cassazione ha, in più occasioni, ribadito – quasi fosse una clausola di stile – che gli atti di di-strazione patrimoniale privi di seria contropartita eseguiti dagli amministra-tori a favore di una società dello stesso gruppo realizzano il delitto di banca-rotta fraudolenta per distrazione.

È stato, infatti, affermato dalla più risalente giurisprudenza della Corte che: «il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione sussiste anche nel caso di imprese collegate tra loro, qualora gli atti di disposizione patrimo-niale, privi di seria contropartita, siano eseguiti a favore di una società del medesimo gruppo, poiché il collegamento societario ha natura meramente economica e non scalfisce il principio di autonomia della singola persona giuridica» 15. Si è ritenuto, in particolare, che «la diversità degli interessi tu-telati dalla legge penale fallimentare e dalla nuova disciplina dei reati so-cietari, introdotta dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, impedisce che alla mate-ria fallimentare possa applicarsi la norma prevista dall’art. 2634 c.c., comma 3, secondo cui non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza allo stesso gruppo societa-rio» 16.

Sicché «integra la distrazione rilevante L. Fall., ex art. 216 e art. 223, comma 1, (bancarotta fraudolenta impropria) la condotta di colui che tra-sferisca, senza alcuna contropartita economica, beni di una società in diffi-coltà economiche – di cui sia socio ed effettivo gestore – ad altra del mede-simo gruppo in analoghe difficoltà, considerato che, in tal caso, nessuna prognosi positiva è possibile e che, pur a seguito dell’introduzione nel vi-gente ordinamento dell’art. 2634 c.c., comma 3, la presenza di un gruppo societario non legittima per ciò solo qualsivoglia condotta di asservimento di una società all’interesse delle altre società del gruppo, dovendosi, per contro, ritenere che l’autonomia soggettiva e patrimoniale che contraddi-stingue ogni singola società imponga all’amministratore di perseguire prio-

15 Cass. 1 luglio 2002, n. 29896, Rv. n. 222387, Arienti; Cass. 14 dicembre 1999, Tondu-ti, m. 215668, in Cass. Pen., 2001, 661; Cass. 9 marzo 1999, Spinelli, m. 213116, Cass. 17 marzo 1995, Degli Antoni, m. 201318, in Cass. Pen., 1997, 218.

16 Cass. 5 giugno 2003, n. 36629, Longo, Rv. 227149, in Cass. Pen., 2005, p. 1359 con nota di Giovanardi.

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ritariamente l’interesse della specifica società cui sia preposto e, pertanto, di non sacrificarne l’interesse in nome di un diverso interesse, ancorché ricon-ducibile a quello di chi sia collocato al vertice del gruppo, che non procurereb-be alcun effetto a favore dei terzi creditori dell’organismo impoverito» 17.

E, ancora, sulla stessa linea avevano sottolineato l’idoneità delle condotte su esaminate a pregiudicare gli interessi dei creditori della singola erogante:

• Cass. pen., sez. V, 8 gennaio 1996, Cozzi, in Cass. pen., 1997, p. 2234; • Cass. pen., sez. V, 8 aprile 1999, n. 4424, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999,

p. 1203; • Cass. pen., sez. V, 6 ottobre 1999, n. 12897, Tassan Din e altri, in Riv.

pen., 2000, p. 153; • Cass. pen., sez. V, 3 aprile 2001, n. 13169, Cardinali, in Riv. trim. dir. pen.

ec., 2001, p. 759; • Cass. pen., sez. V, 24 aprile 2003 n. 23241, Tavecchia, in Diritto pen. e

proc., 2005, fasc. 6, p.750.

secondo le quali l’esistenza del gruppo non influisce minimamente sull’autonomia patrimoniale delle aggregate e, quindi, sulla garanzia (rap-presentata dal patrimonio sociale) della loro solvibilità, neppure allorquando questa venga intaccata, ridotta od annullata per il conseguimento dell’inte-resse di gruppo” e che la “diversità degli interessi tutelati” dalla legge penale fallimentare e dalla nuova disciplina dei reati societari, introdotta dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, impedisce che alla materia fallimentare possa appli-carsi la norma prevista dall’art. 2634, comma 3, c.c., secondo cui non è in-giusto il profitto della società collegata o del gruppo se compensato da van-taggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza allo stesso gruppo societario.

In aggiunta a tali considerazioni e a fronte del silenzio della legge, dun-que, la più risalente giurisprudenza della Corte ha negato rilevanza giuridica all’“interesse di gruppo”, considerandolo un interesse di mero fatto, non di per sé idoneo a giustificare condotte di distrazione in mancanza di una con-tropartita “adeguata” ed “immediatamente percepibile”, e ciò in quanto, co-me già detto, «il collegamento societario ha natura meramente economica e non scalfisce il principio di autonomia della singola persona giuridica» 18.

17 Cfr. anche Cass. Pen., Sez. V, 8 novembre 2007, Belleri, m. 239108, in Fall., 2008, 845 e Cass. Pen., 2009, 291; Cass. Pen., Sez. V, 4 dicembre 2007, Spedicati, m. 238237, in Fall., 2008, 466.

18 Cfr. ancora Cass. Pen., 1. Luglio 2002, n. 29896, Rv. n. 222387 Arienti, in Riv. Pen.,  

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Nei gruppi di società, invero, è latente una situazione di conflitto di interesse tra i soci che detengono la maggioranza di controllo della società etero gesti-ta ed i soci estranei al controllo, i quali vestono gli stessi panni dei creditori. La società controllante, infatti, può agire per realizzare le politiche di gruppo tramite la controllata, sacrificandone allo scopo gli interessi e le sorti. Il so-cio di controllo non subirà danni da simili operazioni perché sommerà al sa-crificio imposto alla società controllata (che è anche proprio in quanto pur sempre vi partecipa) un beneficio ottenuto al di fuori di essa, mentre, al con-trario, risulta evidente il pericolo che grava sui soci estranei al controllo e sui creditori, i quali non partecipano dei vantaggi conseguiti altrove 19.

Dunque, anche dopo la novella, la Corte – pur avendo preso atto della ri-levanza del fenomeno dell’aggregazione societaria riconosciuta dall’art. 2634 c.c. in materia di infedeltà patrimoniale – ha sempre unanimemente negato, per le ragioni sopra accennate, la possibilità di estendere automati-camente il principio in esso contenuto ai casi di bancarotta 20.

Ciò premesso, tuttavia, si è giunti ad un’apertura, con la sentenza della Cassazione n. 36764 del 24 maggio 2006 21.

Detta sentenza ha, infatti (per la prima volta) riconosciuto – in astratto – la possibile operatività del meccanismo tipicizzato dall’art. 2634, comma 3, c.c. rispetto allo schema della bancarotta fraudolenta infragruppo per distra-zione.

La pronuncia ed i tratti essenziali fondanti il ragionamento della Corte sono, poi, stati in parte confermati dalla sentenza della Cass. pen., sez. V, 25 settembre 2008, n. 41293, Mosca 22 in cui si afferma, dapprima, che «i bene-fici di ritorno “connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo” debbano essere idonei “a compensare efficacemente gli effetti immediatamente nega-

2003, 3630; Cass. Pen., Sez. V, 26 gennaio 2001, n. 13169, Cardinali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2001, 759.

19 Così E. CORUCCI, commento a Cass., 22 ottobre 2008 ud. 15.7.2008, n. 39546, in Dir. pen. e proc., 8/2009, 1011.

20 Siffatto orientamento di “chiusura” è seguito in dottrina, come già detto, da: GIOVA-

NARDI, Sull’impossibilità di estendere i “vantaggi compensativi” ai reati fallimentari, in Cass. Pen., 2005, 1366 ss.; BRICCHETTI-TARGETTI, Bancarotta e reati societari, Milano, 2003, 141; SCHIAVANO, Riflessioni sull’infedeltà patrimoniale societaria, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2004, 834; BERSANI, Operazioni infragruppo e vantaggi compensativi nel diritto penale societario e fallimentare, in Il fisco, 2004, 6630; RONCO-AMBROSETTI-MEZZETTI, Diritto penale dell’impresa, Bologna, 2009, 179.

21 BEVILACQUA, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, con nota di Benussi, già sopra citata. 22 In Fall., 2009, 6, 740.

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tivi dell’operazione compiuta” e che “non è sufficiente, al fine di escludere la riconducibilità di un’operazione di diminuzione patrimoniale senza appa-rente corrispettivo ai fatti di distrazione o dissipazione incriminabili, la me-ra ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati benefici indiretti della fallita risultino non solo effettivamente con-nessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma, altresì, idonei a compen-sare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione com-piuta».

Inoltre, successivamente, dopo aver invocato il rispetto del principio dell’autonomia patrimoniale, si statuisce che «il pregiudizio arrecato alla singola società non può (…) ritenersi ‘compensato’ nell’ambito di una vi-cenda concorsuale da un vantaggio di altra società del gruppo, neppure se si tratta della controllante, giacché può riconoscersi valore compensativo solo al vantaggio che refluisca sulla società cui afferisce l’atto dispositivo” e che “non può (…) sostenersi (…) che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti benefici compensativi».

Pertanto, pur non negando le diversità strutturali tra infedeltà patrimonia-le e bancarotta fraudolenta per distrazione, con la citata sentenza la Corte di Cassazione ha riconosciuto che la clausola di esonero di cui all’art. 2634, comma 3, c.c. conferisce valenza ‘normativa’ a principi già desumibili dal sistema, in punto di necessaria considerazione della reale offensività della condotta tanto gravemente sanzionata dalle norme fallimentari 23.

23 Si riportano alcune parti estrapolate dalla sentenza in esame: «… L’offesa sanzionata dalla fattispecie incriminatrice in esame, insita nella nozione di “distrazione”, consiste, in-fatti, nel distoglimento si parlava di “sviamento” e di “stornamento” nelle precedenti codi-ficazioni di attività alla loro naturale funzione di garanzia dei creditori, i fatti di distrazione avendo, come è stato detto, essi in sé stessi, la sostanza della frode» Cass., sez. V, 28 no-vembre 2000, n. 12241. Sicché la “fraudolenza”, intesa come connotato interno alla distra-zione, implica che non può esistere distrazione costitutiva di bancarotta se non quando la diminuzione della consistenza patrimoniale, che in se stessa potrebbe anche costituire legit-timo esercizio del potere di disposizione del titolare dell’impresa in bonis, comporti uno squilibrio tra attività e passività, capace di porre in pericolo l’interesse protetto le ragioni dei creditori cfr., tra le molte, Cass., sez. V, n. 7555 del 30 gennaio 2006, De Rosa. Ed, ancora: … Così, se da un lato deve escludersi che le condotte materiali descritte dall’art. 2634 c.c. e dalla l. fall., art. 216, comma 1, n. 1, coincidano, essendo interna alla nozione di distrazione in “frode” ai creditori una connotazione tipizzante che non può cogliersi nel mero atto di di-sposizione patrimoniale cagionativo di danno in genere alla società, e se dall’altro la fatti-specie dell’art. 2634 c.c. presuppone un evento di danno, un dolo intenzionale e una situa-zione soggettiva di conflitto che non consentono di ritenerla generale, così che è da escludere tra di esse ogni rapporto di specialità/consunzione, non può non riconoscersi, sotto altro ver-sante, che la previsione dell’art. 2634 c.c., comma 3, conferisce valenza “normativa” a prin- 

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Ribadendosi, sempre nella sopra citata sentenza n. 41293 del 25 settem-bre 2008 24, che il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione (effettuata a favore di società del medesimo gruppo), conseguente alla operazione di di-minuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo, sussiste solo a condi-zione che gli ipotizzati benefici indiretti della fallita non risultino effettiva-mente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo e non siano idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’opera-zione compiuta.

Nello stesso filone giurisprudenziale, in una nuova prospettiva, secondo la quale i collegamenti della società fallita nell’ambito del gruppo possono essere rilevanti anche nell’ambito dei reati fallimentari, avuto riguardo all’indicazione normativa di cui all’art. 2634, comma 3, c.c., che, comunque, conferisce rilievo agli eventuali vantaggi compensativi in un’ottica sistema-tica riferibile al giudizio sulla correttezza della gestione societaria si inseri-scono le pronunce della Cass. n. 1137 del 17 dicembre 2008 25; n. 48518 del 6 ottobre 2011 26 n. 4458 del 10 novembre 2011 27.

cipi già desumibili dal sistema, in punto di necessaria considerazione della reale offensività della condotta tanto gravemente sanzionata dalle norme fallimentari. A conferma della ne-cessità di inserire come è stato rilevato dalla dottrina il rapporto di gruppo «nella lista delle circostanze da ponderare in sede di verifica della sussistenza della condotta tipica di distra-zione, non potendo, in materia, l’analisi giuridica andare, comunque, distinta dall’analisi economica» della vicenda. Ed ancora: … Tuttavia, proprio il fatto che siffatta analisi ha lo scopo di verificare l’offensività in concreto della condotta rende evidente che non è suffi-ciente, al fine di escludere la riconducibilità di un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo ai fatti di distrazione o dissipazione incriminabili, la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati benefici in-diretti della fallita risultassero non solo effettivamente connessi ad un vantaggio complessi-vo del gruppo ma, altresì, idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente ne-gativi dell’operazione compiuta: in guisa tale da non renderla capace d’incidere perlomeno nella ragionevole previsione dell’agente sulle ragioni dei creditori della società. Ed ancora: … Le valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme non possono, dunque, mai comportare che “vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società”» Cass. n. 16707/2004 cit. e, per quel che precipuamente rileva ai fini dei reati fallimentari, dei creditori di ciascuna di loro: il pregiudizio arrecato alla singola società non può, dunque, ritenersi “compensato” nell’ambito di una vicenda concorsuale da un vantaggio di altra società del gruppo, neppure se si tratta della controllante, giacché può riconoscersi valore compensativo solo al vantaggio che refluisca sulla società cui afferisce l’atto dispositivo.

24 Rv. n. 241599, ric. Mosca. 25 Rv. n. 242546, Vianello. 26 Rv. n. 251536. 27 In Società, 2012,7, 841, con nota di Scoletta.

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Significativa appare, altresì, la sentenza della Cass. n. 29036 del 9 mag-gio 2012 28, secondo cui: «In tema di bancarotta fraudolenta, qualora il fatto si riferisca a rapporti intercorsi fra società appartenenti al medesimo grup-po, solo il saldo finale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, nel qual caso è l’interessato a dover fornire la prova di tale circostanza» 29.

Anche in recenti pronunce si è statuito che, in « … tema di bancarotta fraudolenta per distrazione infragruppo, l’interesse che può escludere l’ef-fettività della distrazione non può ridursi al fatto stesso della partecipazione al gruppo, né identificarsi nel vantaggio della società controllante, doven-dosi escludere l’esistenza di una distrazione solo se la mancanza di corri-spettivo sia meramente apparente, in considerazione dei concreti vantaggi compensativi, che l’amministratore ha l’onere di allegare e provare» 30. In

28 Rv. n. 253031, Cecchi Gori. 29 In motivazione: “… anche la giurisprudenza di legittimità in sede penale ha finito per farsi

carico, in linea generale, una volta che si è avuto il riconoscimento della valenza anche giuridica del gruppo ad opera della riforma delle norme societarie del codice civile del 2003, del principio secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, nel valutare come distrattiva un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo per una delle società collegate, occorre tenere conto del rapporto di gruppo. Infatti, in tale ottica e salvo il rispetto di tutti i parametri del caso, potrebbe anche ipotizzarsi la esclusione del reato se l’operazione fosse apparsa incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società concedente in tal senso vedi Rv. 234606, Bevilacqua; Rv. 241599, Mosca; Rv. 239108 Belleri; Rv. 242546, Vianello; Rv. 238237, Spedicati in motivazione; rv 245136 Bossio. Ovviamente, un simile tipo di analisi non può certo valere a mettere in discussione ne’ può essere messa in rotta di collisione col principio della necessaria tutela spettante ai creditori della singola società del gruppo, dichiarata fallita, tutela che non può in alcun modo essere limitata o reinterpretata alla luce dell’interesse del gruppo o di uno dei soggetti del gruppo diverso dalla fallita: e ciò, per l’evidente ragione che i creditori sociali sono terzi rispetto alla singola società e sono portatori dell’interesse all’integrità del patrimonio sociale su cui vantano le proprie pretese, come bene sottolineato anche dalla dot-trina. La proporzione così impostata non fa venire meno dunque il principio che solo il saldo fi-nale positivo delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo, può consentire di ritenere legittima l’operazione temporaneamente svantaggiosa per la società sacrificata, quando si verifichi cioè che per questa vi è stato un ritorno di utilità. E però, specularmente, è la stessa giurisprudenza a sottolineare che la prova degli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta non può restare nel limbo delle presunzioni connesse alla esi-stenza del gruppo. Essa deve essere data in concreto dall’interessato, sul quale incombe dunque il relativo onere.».

30 Cass. pen., Sez. I, 26 ottobre 2012, n. 48327, in Dir. & Giust., 14 dicembre 2012.

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termini ancora più restrittivi, la Cassazione si è pronunciata affermando, in fattispecie relativa a finanziamenti all’interno di un gruppo societario da par-te di una delle società, dichiarata fallita, a favore di altra società impossibili-tata alla restituzione del prestito, che di fronte a condotte distrattive non è dato rendere inoperante, sul piano penale, il principio dell’autonoma tutela delle ragioni creditorie specificamente riferibili alla società fallita pregiudi-cate da trasferimenti di risorse ingiustificatamente effettuati dalla società in questione in favore di altre, seppur comprese nello stesso gruppo, afferman-do che «In tema di reati fallimentari, integra distrazione rilevante ai fini della bancarotta fraudolenta la condotta di finanziamento di ingenti somme in favore di società dello stesso gruppo, effettuato dalla società fallita quan-do già si trovava in situazione di difficoltà finanziaria, in mancanza di ga-ranzie e senza vantaggi compensativi sia per il gruppo nel suo complesso che per la stessa società fallita» 31.

Da citare ancora Cass. 10 dicembre 2013, n. 49787 32 che – rifacendosi ai principi generali in materia di necessario accertamento della reale offensività della condotta – afferma che in tema di reati fallimentari, «la previsione di cui all’art. 2634 cod. civ. – che esclude, relativamente alla fattispecie incri-minatrice dell’infedeltà patrimoniale degli amministratori, la rilevanza pe-nale dell’atto depauperatorio in presenza dei c.d. vantaggi compensativi dei quali la società apparentemente danneggiata abbia fruito o sia in grado di fruire in ragione della sua appartenenza a un più ampio gruppo di società – conferisce valenza normativa a principi – già desumibili dal sistema, in pun-to di necessaria considerazione della reale offensività – che sono senz’altro applicabili anche alle condotte sanzionate dalle norme fallimentari e, se-gnatamente, a fatti di disposizione patrimoniale contestati come distrattivi o dissipativi. Ne consegue che, se si accerta che l’atto non risponde all’inte-resse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammet-tersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assu-mere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi».

È onere, dunque, dello stesso amministratore dimostrare l’esistenza di una realtà di gruppo, alla luce della quale quell’atto assuma un significato

31 Cass. n. 20039 ud. del 21 febbraio 2013 dep. il 9 maggio2013, Rv. n. 255646, in Dir. & Giust., 2013, 602.

32 Rv. n. 257562, in Riv. trim. dir. pen. e econom., 2014, fasc. 2, 435, con nota di D. Fal-cinelli.

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diverso, sì che i benefici indiretti della società fallita risultino non solo effet-tivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma altresì ido-nei a compensare efficacemente gli effetti immediati negativi dell’opera-zione compiuta, di guisa che nella ragionevole previsione dell’agente non sia capace di incidere sulle ragioni dei creditori della società, aggiungendo che proprio il fatto che siffatta analisi abbia lo scopo di verificare l’offensività in concreto della condotta, rende evidente che non è sufficiente, al fine di escludere la riconducibilità di un’operazione di diminuzione patrimoniale senza apparente corrispettivo ai fatti di distrazione o dissipazione incrimina-bili, la mera ipotesi della sussistenza di vantaggi compensativi, ma occorre che gli ipotizzati benefici indiretti della società fallita, che l’amministratore ha l’onere di allegare e provare, risultino non solo effettivamente connessi ad un vantaggio complessivo del gruppo, ma altresì idonei a compensare ef-ficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta: in guisa tale da non renderla capace di incidere (perlomeno nella ragionevole previsione dell’agente) sulle ragioni dei creditori della società.

Negli stessi termini, sostanzialmente, Cass., sez. V, 5 agosto 2014, n. 34505, secondo cui «L’operazione infragruppo effettuata nel periodo di dif-ficoltà finanziaria della società che procede all’atto dispositivo può concre-tare gli estremi del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per di-strazione ove l’operazione commerciale non preveda vantaggi compensativi per il gruppo intero e, direttamente, per la società che proceda alla dazio-ne».

Da ultimo, si possono citare alcune recenti pronunce, tra cui Cass. pen., sez. V, sent. (ud. 17 marzo 2015) 4 giugno 2015, n. 23997 33 in cui la Corte, a fronte della richiesta riqualificazione della contestata bancarotta per distra-zione in bancarotta da infedeltà patrimoniale, nel rigettare la richiesta ha, comunque, ribadito la rilevanza della teoria dei vantaggi compensativi anche nella bancarotta per distrazione, nei limiti sopraevidenziati, in linea con l’o-rientamento che va consolidandosi a seguito della citata pronuncia del 2006, e Cass. pen. Sez. V, sent. 1 dicembre 2015 (ud. 16 settembre 2015) n. 47545 34 in fattispecie riguardante una condotta di distrazione di ingenti somme di denaro provenienti da un finanziamento erogato da parte di un privato, versato ad una s.r.l. collegata in cambio di obbligazioni ventennali emesse da una terza società di capitali facente parte del medesimo gruppo, anch’essa successivamente fallita, in cui la Corte di Cassazione, oltre ad

33 In Dir. e Giust., fasc. 22, 2015, 42, con nota di Fontana. 34 In Dir. & Giust., fasc. 43, 2015, 5.

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aver escluso la sussistenza di ‘vantaggi compensativi’ infragruppo, idonei ad escludere la rilevanza penale della condotta contestata, in presenza di una ‘contropartita anomala’ rappresentata dalle obbligazioni ventennali emesse da altra società del gruppo – anch’essa successivamente fallita – senza la previsione di una remunerazione superiore rispetto a quella relativa al finan-ziamento utilizzato, ha confermato il proprio consolidato orientamento se-condo cui nel reato di bancarotta fraudolenta l’elemento soggettivo si riduce al dolo generico, essendo sufficiente la consapevolezza di dare ai beni della società fallita «una destinazione diversa da quella dovuta secondo la funzio-nalità dell’impresa, privando quest’ultima di risorse e di garanzie per i cre-ditori».

La (cauta) apertura giurisprudenziale, che pur indubbiamente si riscontra laddove in astratto si ammetta la possibilità di verificare se le operazioni contestate abbiano prodotto uno specifico vantaggio per la società fallita, anche indirettamente derivante da quello riferibile al gruppo nel suo com-plesso, idoneo a compensare efficacemente gli effetti immediatamente nega-tivi delle operazioni stesse, risulta comunque mitigata dalle ulteriori precisa-zioni di cui in motivazione, laddove si afferma – nel solco tracciato dalle precedenti pronunce – che l’onere probatorio incombe sull’imputato, ed in seconda istanza, con riferimento al caso concreto, che, comunque, il vantag-gio compensativo non può essere ravvisato nel mero spostamento di dispo-nibilità fra società dello stesso gruppo che si trovino tutte in situazione di difficoltà economica, in modo tale da escludere la prognosi di un risultato favorevole dell’operazione.

Da menzionare, altresì, la pronuncia della Cass., sez. V, 13 ottobre 2015 (dep. 23 febbraio 2016), n. 7079 35, secondo cui «In tema di bancarotta fraudolenta, i cd. vantaggi compensativi per la società fallita facente parte di una realtà di “gruppo” non possono essere successivi al fallimento né possono consistere in una diminuzione dell’entità del passivo, conseguente a concordato preventivo cui venga ammessa altra società controllante, appar-tenente allo stesso gruppo, grazie a mutui fondiari concessi per la destina-zione del patrimonio immobiliare della società fallita. (Fattispecie riferita alla cessione di tutto il patrimonio immobiliare di una società prima del suo fallimento alle altre società del gruppo che, successivamente fallite anch’esse, avevano in tal modo visto accrescere l’entità del proprio attivo fllimentare)».

Dunque, mentre parte della dottrina riconosce l’applicabilità della clauso-

35 Rv. n. 266512.

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la dei vantaggi compensativi espressamente prevista per la fattispecie di in-fedeltà patrimoniale anche ai reati fallimentari 36 la giurisprudenza, anche quella più “aperta”, sembra essere ancora molto cauta, pretendendosi per l’applicabilità del principio che, comunque, il depauperamento abbia trovato bilanciamento in una qualche corrispettiva utilità per la società impoverita e, quindi, fallita, mantenendo saldi alcuni principi:

• l’esclusione della rilevanza tout court dell’art. 2634 c.c. (pur attribuendosi alla clausola dei vantaggi compensativi, a certe condizioni, valenza di principio generale);

• il riconoscimento della rilevanza di un eventuale vantaggio diretto per la società etero gestita derivante dall’operazione infragruppo, che tuttavia non passa automaticamente attraverso la norma di cui all’art. 2634 c.c. e, dunque, dall’elemento soggettivo del reato (venendo meno il carattere di ingiustizia del profitto oggetto del dolo specifico dell’agente), ma esclude a certe condizioni la sussistenza stessa dell’atto distrattivo, in quanto un’effettiva mancanza di danno (e non certo la recuperabilità ex post) po-trebbe rendere irrilevante l’atto dispositivo, allorché si escluda in concreto la lesività dello stesso rispetto all’interesse patrimoniale dei creditori della società fallita e, dunque, l’offensività della condotta.

Infatti, non pare dubbio che in tema di bancarotta distrattiva ciò che rile-va sia solo il vantaggio compensativo effettivamente ottenuto, non quello meramente prevedibile (considerato che anche la tutela civilistica del ceto creditorio della controllata è ancorata in ragione dell’art. 2497, comma 1, c.c. alla mancanza del danno alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento, ovvero alla sua integrale eliminazione, per cui a conclusioni analoghe deve giungersi in riferimento alla tutela delle ragioni creditorie in sede penale), mentre il comma 3 dell’art. 2634 cc parla di van-taggi – compensativi – non solo conseguiti, ma anche fondatamente preve-dibili, laddove quest’ultimo elemento potrebbe eventualmente rilevare, sotto il versante della valutazione del dolo, solo in tema di bancarotta impropria

36 Cfr. MUCCIARELLI, Il ruolo dei vantaggi compensativi nell’economia del delitto di in-fedeltà patrimoniale degli amministratori, in Giur. Comm., 2002, I, 631, che addirittura con-figura il c.d. vantaggio compensativo come una vera e propria scriminante; D’AVIRRO-DE

MARTINO, La bancarotta fraudolenta impropria: reati societari e operazioni dolose, Milano, 2007, 112 ss.; cfr., altresì, gli ampi richiami operati da FALCINELLI, Riflessioni in progress: la clausola dei vantaggi compensativi infragruppo e i principi di sistema dell’offensività pe-nale, nota a Cass. n. 49787 del 10 dicembre 2013, in Riv. trim. di dir. pen. e dell’economia, 2014, fasc. 2, 435 ss., nota 1 e nota 3.

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da reato societario (art. 223, comma 2, l. fall.), con riferimento al dissesto cagionato da infedeltà patrimoniale (art 2634 c.c.).

Si ricorda ancora, sul punto, che l’art. 216 l. fall. è destinato a tutelare i creditori sociali, mentre l’art. 2634 c.c. mira a garantire il patrimonio socia-le, il che spiega perché la seconda fattispecie sia punibile a titolo di banca-rotta ex art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. soltanto quando abbia determinato il dissesto, ciò che finisce per incidere sulle ragioni creditorie.

Conclusivamente, però, non ci si può esimere da una notazione: il conflit-to di interessi di cui all’art 2634 c.c. è quello tra gli amministratori ed i soci o, se si vuole, quello tra i soci controllanti (che hanno interesse cioè anche nella società controllante) e gli altri soci. Nei loro confronti potrà valere il c.d. vantaggio compensativo.

Ma nei confronti dei “puri” creditori della società depauperata, come po-trebbe rilevare tale vantaggio?

Se dell’operazione si è avvantaggiato il gruppo (e, quindi, la società lea-der che, in ipotesi, non è quella di cui i soggetti in questione sono creditori), quale compensazione ne deriverà per questi ultimi?

Solo un’effettiva mancanza di danno (e non certo la recuperabilità ex post) potrebbe rendere, dunque, irrilevante l’atto dispositivo.

  

Diritto ed economia dell’impresa

ascicolo 6|2016

Saggi

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La nuova disciplina dell’approvazione del concordato preventivo Valentina Ferraro-Federico Restano

SOMMARIO

Premessa. – 1. Le proposte concorrenti: cenni procedurali. – 2. La discussione della proposta di concordato – 3. La rinuncia alla proposta di concordato. – 4. L’approvazione delle proposte di concordato e le nuove maggioranze. – 4.1. L’individuazione della proposta “approvata” in caso di proposte concorrenti. – 4.2. Il superato meccanismo del silenzio assenso e la modifica del vo-to. – 4.3. I soggetti legittimati a votare. – 4.4. Il voto plurimo. – 5. Considerazioni conclusive.

Premessa 1

Le riforme della legge fallimentare attuate con il d.l. n. 83/2015 (conver-tito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 132) ed il d.l. 3 maggio 2016, n. 59 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 giugno 2016, n. 119) hanno introdotto significative modifiche alla disciplina del concordato preventivo 2.

1 Il presente scritto è lo schema della relazione esposta al convegno “Alcune novità in te-ma di concordato preventivo” tenutosi in Torino, il 9 febbraio 2016 e organizzato dall’As-sociazione Commercialisti Piemonte e Valle d’Aosta.

2 Cfr. JORIO, Orizzonti prevedibili e orizzonti improbabili del diritto concorsuale, in cor-so di pubblicazione (alla cortesia dell’Autore si deve la preventiva consultazione del dattilo-scritto), nonché AMBROSINI, La disciplina della domanda di concordato preventivo nella “miniriforma” del 2015, in IlCaso.it; LAMANNA, La miniriforma (anche) del diritto concor-suale secondo il decreto “contendibilità e soluzioni finanziarie n. 83/2015’: un primo com-mento, in ilfallimentarista.it; PANZANI, Osservazioni al disegno di legge n. 3201 di conver-sione in legge del decreto-legge 27 giugno 2015, n.83, recante misure urgenti in materia fal-limentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministra-zione giudiziaria, in Nuovo. Dir. Soc., 2015, 53 ss.

In merito alla disciplina transitoria, si rinvia LAMANNA, Norme transitorie della miniri- 

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L’indagine che ci accingiamo a compiere è focalizzata sulla disciplina dell’approvazione del concordato preventivo, alla luce delle prime proble-matiche emerse in dottrina e giurisprudenza 3.

1. Le proposte concorrenti: cenni procedurali

Riferimenti Normativi: Art. 163 l. fall. “IV. Uno o più creditori che, anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda di cui all’articolo 161, rappresentano almeno il 10 per cento dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale depositata ai sensi dell’articolo 161, secondo comma, lettera a), possono presentare una proposta concorrente di concordato preventivo e il rela-tivo piano non oltre trenta giorni prima dell’adunanza dei creditori. Ai fini del computo della percentuale del dieci per cento, non si considerano i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo. La relazione di cui al comma terzo dell’art. 161 può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale, e può essere omessa qualora non ve ne siano”

Le maggiori novità in materia di approvazione del concordato preventivo

riguardano la disciplina delle c.d. proposte concorrenti e, pertanto, è opportu-no prendere lo mosse, ai fini dell’analisi che ci interessa, da questo istituto 4.

Onde offrire ai creditori uno strumento ulteriore rispetto alla tradizionale alternativa tra l’approvazione della proposta concordataria e l’espressione del voto negativo 5, è stata prevista la possibilità, per una maggioranza quali-

forma di cui al D.L. 83/15: il significato di “procedimenti introdotti” dopo la legge di con-versione, in ilfallimentarista.it.

3 Per attente e puntuali indicazioni in merito ai riflessi operativi della novella del 2015, si veda la Circolare Operativa n. 2/16 del Tribunale di Bergamo (3 marzo 2016).

4 Cfr., per un inquadramento generale del tema, le puntuali riflessioni di MANGANELLI, Discussione e approvazione della proposta concordataria e delle eventuali proposte concor-renti, in dirittobancario.it.

5 Si legge nella relazione illustrativa alla legge 6 agosto 2015, n. 132, «le finalità sono quelle di massimizzare la recovery dei creditori concordatari e di mettere a disposizione dei creditori concordatari una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore.  

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ficata di creditori, di presentare una proposta concorrente di concordato preventivo e il relativo piano. Nell’attuale contesto normativo, dunque, l’im-prenditore che promuova la procedura concordataria dovrà mettere in conto di perderne il controllo 6, tanto che l’istituto delle proposte concorrenti è sta-to qualificato come una sorta di espropriazione dell’impresa in crisi, con conseguenti dubbi di legittimità costituzionale 7. Si tratta, d’altronde, di un intervento decisamente invasivo e che travalica le sorti del patrimonio del-l’impresa in concordato; infatti, quando il debitore in concordato sia orga-nizzato in forma societaria (S.p.A. o S.r.l.) la proposta concorrente può spin-gersi sino a prevedere un aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto d’opzione (andando così a intaccare i diritti di tutti so-ci della società in concordato) 8.

Tale intervento è funzionale a due importanti obiettivi: a) offrire ai creditori strumenti per impedire che il debitore presenti proposte che non ri-

specchiano il reale valore dell’azienda (appropriandosi, così, integralmente del surplus di ristrutturazione, ossia del maggiore valore creato dalla riorganizzazione rispetto all’alter-nativa della liquidazione fallimentare), anche quando ai creditori non sia offerta l’integrale soddisfazione dei loro crediti, benché riscadenzati;

b) creare i presupposti per la nascita, anche in Italia, di un mercato dei distressed debt, già da tempo sviluppatosi in altri Paesi (tra cui, in particolare, gli Stati Uniti d’America) in modo da consentirne un significativo smobilizzo. Eventuali investitori interessati a compiere un’operazione di acquisto e risanamento di un’impresa in concordato, per poter presentare una proposta alternativa, dovrebbero infatti acquistare crediti nei confronti dell’impresa in concordato per un valore pari almeno al 10 per cento dell’indebitamento di quest’ultima. Se poi l’investitore volesse assicurarsi il successo della propria proposta la percentuale di cre-diti che dovrebbe essere acquistata sarebbe molto maggiore».

È stato osservato che nel richiamato ordinamento nordamericano si guarda, in realtà, «con sospetto ad uno strumento che pare aver sottratto potere negoziale al debitore in crisi a favore dei creditori che già erano dotati di una considerevole capacità di intervento e go-devano di ampia libertà di negoziare» (cfr. CHIAVES-MORONA, Le proposte concorrenti di concordato preventivo, in dirittobancario.it).

6 È possibile eliminare il rischio in esame, con conseguente dichiarazione di inammissibi-lità della proposta concorrente, se nella relazione di cui all’art. 161, comma 3, l. fall. il pro-fessionista incaricato attesta che la proposta del debitore assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di concordato con con-tinuità aziendale di cui all’articolo 186-bis, di almeno il trenta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari (cfr. art. 163, V, l. fall.). La diversa percentuale è sintomatica del favor per il concordato in continuità espresso che caratterizza la novella del 2015.

7 Cfr. RATTI, Ammissione alla procedura e proposte concorrenti, in AA.VV., La nuova riforma del diritto concorsuale, Torino, 2015, 137.

8 Cfr. ABRIANI, Proposte concorrenti, operazioni straordinarie e dovere della società di adempiere agli obblighi concordatari, in Giust. Civ., 2016, 365; GUERRERA, La ricapitalizzazione ‘‘forzosa’’ delle società in crisi: novità, problemi ermeneutici e difficoltà operative, in Dir. Fall.,  

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La legittimazione a proporre è stata riservata ai creditori che, singolar-mente o cumulativamente, rappresentino – anche per l’effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda del debitore – almeno il 10% del ceto creditorio, con l’esclusione dei crediti facenti capo al gruppo cui appartiene l’imprenditore in concordato (la norma fa riferimento, ai fini del computo della percentuale, al montante dei crediti risultanti dalla relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa che il debitore deve depositare unitamente alla proposta di concordato ai sensi dell’art. 161, comma 2, lett. a), l. fall.).

Sotto il profilo procedurale, le proposte concorrenti possono essere depo-sitate sino a trenta giorni prima della data fissata per l’adunanza dei creditori e, onde consentire l’esercizio di tale facoltà, è stato previsto un espresso di-ritto di accesso dei creditori alle informazioni utili per la presentazione delle proposte concorrenti (art. 165, I, l. fall.).

Alla presentazione di una o più proposte concorrenti consegue l’onere per il commissario di depositare una relazione integrativa per riferire in merito ad esse (art. 172, II, l. fall..) da depositarsi almeno dieci giorni prima del-l’adunanza dei creditori.

La nuova formulazione dell’art. 172, II l. fall.. chiarisce, infine, che tutte le proposte (dunque sia quella del debitore, che quelle concorrenti) possono essere modificate sino a fino a quindici giorni prima dell’adunanza dei creditori 9.

2. La discussione della proposta di concordato

Riferimenti normativi Art. 175 l. fall.. «Discussione della proposta di concordato» Art. 175, comma 1, l. fall. «Nell’adunanza dei creditori il commissario giudiziale illustra la sua relazione e le proposte definitive del debitore e

2016, I, 420; RANIELLI, Proposte di concordato preventivo concorrenti, trasferimento del control-lo ed esenzione dall’obbligo di OPA per salvataggio “ostile”, in dirittobancario.it.

9 Nel regime anteriore al d.l. 27 giugno 2015, n. 83, l’art. 175, comma 2, l. fall. stabiliva espressamente che la proposta potesse essere modificata sino all’inizio delle operazioni di voto. Parte della giurisprudenza aveva ritenuto ammissibile modifiche della proposta anche successivamente all’adunanza e sino all’omologazione, purché “migliorative”, sino all’inter-vento della Suprema Corte, secondo la quale il divieto di apportare modifiche dopo l’inizio delle operazioni di voto vale anche per quelle modifiche qualificate dal debitore come mi-gliorative: ciò al fine di evitare che il piano su cui i creditori hanno espresso il voto risulti diverso da quello che verrà effettivamente eseguito (Cass. 28 aprile 2015, n. 8575).

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quelle eventualmente presentate dai creditori ai sensi dell’articolo 163, comma quarto». Art. 175, comma 3, l. fall. «Ciascun creditore può esporre le ragioni per le quali non ritiene ammissibili o convenienti le proposte di concordato e sol-levare contestazioni sui crediti concorrenti. Il debitore può esporre le ra-gioni per le quali non ritiene ammissibili o fattibili le eventuali proposte con-correnti. Quando il tribunale ha disposto che l’adunanza sia svolta in via telematica, la discussione sulla proposta del debitore e sulle eventuali proposte concorrenti è disciplinata con decreto, non soggetto a reclamo, reso dal giudice delegato almeno dieci giorni prima dell’adunanza». Art. 175, comma 5, l. fall. «Sono sottoposte alla votazione dei creditori tutte le proposte presentate dal debitore e dai creditori, seguendo, per queste ultime, l’ordine temporale del loro deposito».

Il Tribunale con il decreto di ammissione ai sensi dell’art. 163 l. fall. fissa la data dell’adunanza, in occasione della quale il commissario giudiziale espone il contenuto della propria relazione e delle proposte (ossia di quella del debitore e delle eventuali proposte concorrenti), i creditori possono chiede-re i chiarimenti necessari o esprimere pareri sulla proposta concordataria, il debitore ha facoltà di rispondere alle osservazioni delle parti interessate e di contestare i crediti dei partecipanti.

A seguito della riforma del 2015, dunque, anche la disciplina della di-scussione della proposta di concordato è stata implementata in ragione dell’eventuale presentazione di proposte concorrenti.

L’intento della riforma è quello di garantire un ampio contraddittorio e, pertanto, non solo commissario giudiziale è chiamato a relazionare sulla proposta del debitore e sulle proposte concorrenti, ma al debitore è consenti-to intervenire onde illustrare le ragioni di inammissibilità delle proposte concorrenti e a ciascun creditore è consentito formulare, sulle proposte pre-sentate, rilievi di merito (es. fattibilità economica del piano) o di ammissibi-lità ovvero sollevare contestazioni sui crediti concorrenti.

Come è stato osservato, tuttavia, i poteri che il Giudice Delegato potrà eser-citare all’esito di detta discussione sono rimasti quelli di cui all’art. 176 l. fall. (dunque ammettere, provvisoriamente, i creditori alla votazione), mentre sulle ulteriori contestazioni potrà pronunziarsi il Tribunale o in sede di revoca ex art. 173 l. fall. o in fase di omologazione 10. Si tratta dunque di un contradditorio che è destinato a restare “sospeso” sino all’adozione dei predetti provvedimenti.

10 Cfr. BOZZA, Le proposte e le offerte concorrenti, in Fallimenti e Società, 2015, 56.

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Esaurita la discussione, come previsto dall’art. 175, comma 5, l. fall. vengono messe ai voti la proposta presentata dal debitore e, successivamen-te, quelle dei creditori, avuto riguardo, per quest’ultime, all’ordine cronolo-gico del loro deposito.

3. La rinuncia alla proposta di concordato

L’iter di approvazione del concordato può subire una battuta di arresto ove il debitore proponente intenda rinunziare alla procedura concordataria. Il tema della rinunzia alla domanda di concordato è, come noto, assai contro-verso, anche alla luce dell’utilizzo che, nella pratica, è stato riservato alla ri-nunzia e alla riproposizione della domanda in occasione di riforme normati-ve più favorevoli al debitore 11.

Abbiamo già riferito della facoltà di modifica della proposta e del nuovo termine cui essa è soggetta. In questa sede è interessante notare che, se sul piano dogmatico la distinzione tra modifica e rinunzia appare chiara, nella pratica non è sempre agevole distinguere le due ipotesi. E così, una modifica sostanziale della proposta potrebbe essere riqualificata quale una rinunzia alla domanda di concordato con la formulazione di una nuova proposta, pre-supponendo invero la modifica il mantenimento delle caratteristiche qualifi-canti della proposta originaria 12.

Avendo riguardo alla disciplina processuale, la rinunzia 13 alla domanda può qualificarsi come mera rinuncia agli atti del giudizio, allorché il debi-tore intenda semplicemente esprimere una volontà abdicativa della singola procedura concordataria 14, ovvero come rinuncia all’azione, allorché il de-bitore intenda esprimere la (definitiva) rinunzia al diritto sostanziale ad

11 Cfr. BONSIGNORE-RAINELLI, Abuso del diritto nel concordato preventivo “con riser-va”, in Giur. Comm., 2014, II, 474.

12 Cfr. con riferimento ad una modifica di tipo sostanziale, che prevedeva “elementi del tutto nuovi quali la formazione di classi, l’ingresso di un garante, la soddisfazione mediante datio in solutum, la costituzione di una newco, l’assegnazione del bene in leasing, la diversa percen-tuale offerta ai chirografari”, Trib. Asti, 11 febbraio 2016, Est., T.M. FRANCIOSO, in IlCaso.it.

13 Cfr. Cass. 28 aprile 2015, n. 8575, come massimata ne IlCaso.it., per cui «la rinuncia alla domanda di concordato preventivo … si traduce sostanzialmente in un abbandono della relativa proposta, atteggiandosi come revoca della stessa».

14 Si è quindi ritenuto che la stessa sia sottoposta alla disciplina di cui all’art. 306 c.p.c. (e che pertanto la rinunzia sia operante in presenza di accettazione da parte dei creditori): Trib. Torino, 27 novembre 2014, in Il Fallimento, 2016, 33 ss.

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avanzare la proposta di concordato e chiederne l’omologazione. Occorre interrogarsi sulle sorti delle proposte concorrenti in presenza di

rinunzia della domanda di concordato operata dal debitore, ossia verificare se, ad una simile iniziativa, consegua o meno l’automatica caducazione delle proposte concorrenti. Entrambe le soluzioni sono state proposte in sede di interpretazione delle nuove norme.

I fautori della caducazione automatica 15 hanno escluso che il debitore possa restare “prigioniero” della procedura concordataria, enfatizzando così il rappor-to di dipendenza della proposta concorrente rispetto a quella del debitore. Chi 16 invece ha preferito la tesi per cui, la revoca della domanda non spiegherebbe ef-fetto sulle proposte concorrenti ha fatto riferimento l’art. 2910 c.c. 17, norma che attribuirebbe ai creditori un’amplissima legittimazione ad attivare tutti i rimedi che l’ordinamento mette a disposizione per la tutela del credito, inclusa la nuova forma di “espropriazione” portata dalle proposte concorrenti. Le prime indica-zione pratiche dei Tribunali paiono orientate per la prosecuzione della procedu-ra concordataria, in presenza di proposte concorrenti, in caso di revoca ex art. 173 l. fall. ovvero di rinuncia ad opera del debitore 18.

Tale ultima posizione sembra più aderente allo spirito della riforma, ani-mata dall’intenzione di aprire le procedure concorsuali al mercato: del resto, superato il vaglio di ammissibilità da parte della proposta del creditore concor-rente, sembrerebbe irragionevole che questa segua le sorti della rinuncia da par-te del debitore, dal momento che il ceto creditorio resterebbe così “ostaggio” delle valutazioni di convenienza del debitore (al quale la Legge già attribui-sce la chance di porsi al riparo dalle proposte concorrenti garantendo la sod-disfazione dei creditori secondo le percentuali di cui abbiamo detto supra) 19.

15 Cfr. FABIANI, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contamina-zioni ideologiche, in IlCaso.it; AMBROSINI, La disciplina della domanda di concordato pre-ventivo nella miniriforma del 2015, in IlCaso.it.

16 Cfr. ad es., VAROTTI, Appunti veloci sulla riforma del 2015 della legge fallimentare, in IlCaso.it, 14; VITIELLO, Le proposte concorrenti nel concordato preventivo: le possibili so-luzioni alle primissime questioni interpretative, in Il Fallimentarista.it.

17 Dispone l’art. 2910 c.c., al comma 1, che «il creditore, per conseguire quanto gli è do-vuto, può far espropriare i beni del debitore, secondo le regole stabilite dal codice di proce-dura civile”. Il secondo comma dispone che: “possono essere espropriati anche i beni di un terzo quando sono vincolati a garanzia del credito o quando sono oggetto di un atto che è stato revocato perché compiuto in pregiudizio del creditore».

18 Cfr. Trib. Bergamo, Circolare operativa 2/2016, cit., 9. 19 Cfr. sul punto anche RIMATO, Proposte concorrenti e mercati delle proposte nel nuovo

concordato preventivo¸ in Fallimenti e Società, 2015, 11.

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4. L’approvazione delle proposte di concordato e le nuove maggio-ranze

Riferimenti normativi Art. 177 l. fall. «Maggioranza per l’approvazione del concordato» Art. 177, comma 1, l. fall. «Il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano pre-viste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggio-ranza si verifica inoltre nel maggior numero delle classi. Quando sono poste al voto più proposte di concordato ai sensi dell’articolo 175, quinto comma, si considera approvata la proposta che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità, prevale quella del debitore o, in caso di parità fra proposte di creditori, quella presentata per prima. Quando nessuna delle proposte concorrenti poste al voto sia stata approvata con le maggioranze di cui al primo e secondo periodo del pre-sente comma, il giudice delegato, con decreto da adottare entro trenta gior-ni dal termine di cui al quarto comma dell’articolo 178, rimette al voto la sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti am-messi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai creditori e il ter-mine a partire dal quale i creditori, nei venti giorni successivi, possono far pervenire il proprio voto con le modalità previste dal predetto articolo. In ogni caso si applicano il primo e secondo periodo del presente comma». Art. 177, comma 4, l. fall. «Sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto grado la società che controlla la società debitrice, le società da questa con-trollate e quelle sottoposte a comune controllo, nonché i cessionari o aggiu-dicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta di concor-dato».

La disciplina dell’approvazione deve oggi farsi carico della circostanza che tutte le proposte (anche quelle concorrenti) che hanno superato il vaglio di ammissibilità sono sottoposte al voto dei creditori.

Di seguito verranno analizzate le principali novità che la riforma del 2015 ha inteso apportare alla disciplina dell’approvazione della proposta di con-cordato e delle “nuove maggioranze” necessarie per l’approvazione nel caso di proposte concorrenti.

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4.1. L’individuazione della proposta “approvata” in caso di proposte con-correnti

La riforma si è posta il problema di risolvere il caso (forse più teorico che pratico) di votazione con esito paritario, prevendo che (i) in caso di parità tra proposta del debitore e una o più proposte concorrenti prevalga quella del debitore e (ii) in caso di parità tra proposte concorrenti, prevalga quella de-positata per prima (adottando dunque un criterio che non pare rispondere ad altra logica, se non l’esigenza pratica di proclamare un “vincitore”).

Una volta individuata la proposta “prevalente” il Giudice Delegato è chiamato a verificare se essa abbia raggiunto le maggioranze di cui all’art. 177 l. fall. In caso positivo, essa potrà passare direttamente alla fase di omo-loga; in caso negativo, alla proposta che abbia ricevuto il maggior gradimen-to viene concessa una “seconda possibilità”, dovendo il Giudice Delegato porla nuovamente ai voti, con decreto da emanarsi entro trenta giorni decor-renti dalla scadenza del termine di venti giorni per raccogliere le adesioni successivamente alla chiusura dell’adunanza ex art. 178, comma 4, l. fall. Stando alla lettera della norma, dunque, parrebbe che – nel caso in cui una proposta raggiunga la maggioranza di cui all’art. 177 l. fall. all’esito dell’adunanza – non sia necessario attendere lo spatium deliberandi di venti giorni concesso ai creditori che non abbiano votato in adunanza per esprime-re il loro voto; la soluzione può destare qualche perplessità, atteso che il vo-to post adunanza potrebbe anche ribaltare le sorti della competizione tra proposte.

La comparazione tra i risultati delle singole proposte non è un compito del tutto agevole, in quanto il Giudice Delegato potrà essere chiamato a con-frontare una proposta eventualmente priva di classi con una o più proposte che prevedano la divisione dei creditori in classi; non solo, ma la norma ri-chiede di individuare la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al vo-to, potendo il montante dei crediti ammessi al voto variare di proposta in proposta (ad esempio, per effetto della previsione del pagamento parziale dei creditori privilegiati ai sensi dell’art. 177, comma 3 l. fall.) 20.

20 Cfr. D’ATTORE, Le proposte di concordato preventivo concorrenti, in Fall., 2016, 1176.

510 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

4.2. Il superato meccanismo del silenzio assenso e la modifica del voto

Riferimenti normativi Art. 178 l. fall.. «Maggioranza per l’approvazione del concordato» Art. 178, comma 4, l. fall. «i creditori che non hanno esercitato il voto possono far pervenire lo stesso per telegramma o per lettera o per telefax o per posta elettronica nei venti giorni successivi alla chiusura del verbale. Le manifestazioni di voto sono annotate dal cancelliere in calce al verbale».

La riforma ha ribaltato il meccanismo previgente (introdotto nel 2012), per cui il mancato esercizio del diritto di voto in sede di adunanza, dovuto ad astensione o ad assenza determinava il meccanismo del silenzio-as-senso: in altre parole, il silenzio equivaleva ad un voto favorevole da con-teggiare ai fini della maggioranza concordataria: ora, invece, il mancato esercizio del diritto di voto equivale, di fatto, ad un voto negativo (c.d. “si-lenzio-diniego”).

Coerentemente, la norma prevede che – i creditori che non abbiano eser-citato il voto, possano farlo pervenire (sia esso favorevole e contrario) nei venti giorni successivi.

Come è stato messo in luce, «tornare al sistema del voto esplicito per manifestare il consenso rappresenti un chiaro indizio della sfiducia verso i concordati e, ancora una volta, una soluzione distonica col concordato fal-limentare; di sicuro vi saranno molti concordati che non risulteranno ap-provati perché ai creditori apatici tornerà comodo andare al traino dei cre-ditori più importanti» 21. Non sono neppure mancati dubbi in merito alla te-nuta costituzionale della norma, connessi all’iter di approvazione 22.

Secondo le prime letture giurisprudenziali, «la norma ha ristretto la pla-tea degli aventi diritto al voto nei venti giorni successivi alla chiusura del-l’adunanza, ai soli creditori che non abbiano ancora esercitato la loro fa-coltà, e ciò a prescindere dalla precedente manifestazione di voto.

Il legislatore ha quindi introdotto una duplice novità: da una parte ha escluso la possibilità di computare le adesioni di quelli che hanno modifica-to il voto negativo dato precedentemente, dall’altra ha consentito la possibi-lità di esprimere, per la prima volta, un voto sfavorevole dopo la chiusura del verbale.

21 Cfr. FABIANI, op. cit. 22 BOTTAI-SPADARO, Adesione alla proposta di concordato, in AA.VV., La nuova rifor-

ma del diritto concorsuale, Torino, 2015, 273.

511 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

La limitazione del novero degli aventi diritto al voto postumo ai soli cre-ditori che non hanno esercitato tale facoltà, evidenzia come sia stato di fatto introdotto il principio della non modificabilità del voto stesso» 23.

Il voto espresso quindi non sarebbe modificabile o revocabile fatto salvo il caso di cui all’art. 179, comma 2, l. fall., vale a dire nel caso in cui mutino le condizioni di fattibilità del piano, nell’intervallo temporale compreso tra l’approvazione del concordato e l’omologazione.

4.3. I soggetti legittimati a votare Abbiamo accennato al tema dei soggetti legittimati a votare. A monte del

tema cui si è fatto cenno (ossia la possibilità che la platea dei votanti si am-pli o si riduca a seconda del contenuto della proposta), la riforma ha dovuto sciogliere il nodo del conflitto di interessi, ossia della possibilità per il credi-tore che avanzi una proposta concorrente di esprimersi in sede di adunanza.

L’alternativa tra l’ammissione tout court al voto del creditore proponente e la sua drastica esclusione 24 è stata risolta seguendo una via mediana, ossia imponendo al preponente il c.d. autoclassamento pena l’esclusione dal voto (art. 163, comma 7, l. fall.). Ed invero, la soluzione più radicale sarebbe ri-sultata in contrasto con i principi (non esenti da critiche in dottrina) espressi dalla Suprema Corte in materia di votazione del concordato fallimentare 25; è altrettanto vero che la soluzione così adottata pare attribuire un diritto di cit-tadinanza (precedentemente negatogli) al tema del conflitto di interessi nella materia concordataria, 26 anche in ragione della peculiarità per cui il credito-re concorrente/votante assume contemporaneamente le vesti del proponente e dell’accettante.

L’obbligo di autoclassamento – cui non pare corrispondere un obbligo di

23 Cfr. Trib. Monza, 4 novembre 2016, Est. Nardecchia, in ilfallimentarista.it. Pare inve-ce esprimersi a favore di una libertà di ripensamento, BOZZA, Le proposte, cit., 61.

24 Come è stato osservato, con riferimento ad altri istituti la legge fallimentare ha previsto l’esclusione dal voto di determinati creditori, in ragione di una presunzione assoluta di con-flitto (cfr. ad es. artt. 28, 37-bis, 40 l. fall.). Cfr. RATTI, Ammissione alla procedura, cit., 153, nt. 76.

25 “Posto che non è configurabile il conflitto d’interessi tra i creditori “uti singuli” e quelli appartenenti alla massa in quanto, per un verso, il fallimento non è un soggetto giuri-dico autonomo di cui i creditori siano partecipi e, per l’altro, il complesso dei creditori è una comunità involontaria, va ammesso alla votazione anche il creditore che abbia formula-to la proposta di concordato” (cfr. Cass. 10 febbraio 2011, n. 3274).

26 Cfr. RIMATO, Proposte concorrenti, cit., 19.

512 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

prevedere per la classe un trattamento differenziato ai fini della soddisfazio-ne del credito 27 – è stato tuttavia percepito, nella prassi operativa, come un forte deterrente alla proposizione di una proposta concorrente. Non solo in-fatti essa comporta una diluizione del peso ponderale del credito del propo-nente, ma agevola le opposizioni in sede di omologa per effetto delle previ-sioni dell’art. 180, comma 4, l. fall.

Da ultimo, si pone il problema dell’estensione del divieto di voto, sancite dall’ultimo dell’art. 177 l. fall. per i soggetti “collegati” con il debitore (co-niuge, parenti, affini, società controllanti o controllate ecc.), ai soggetti che siano nella medesima relazione con il creditore preponente.

Pur non mancando autorevoli voci favorevoli all’estensione del divieto 28, la lettera della norma e la circostanza che il tema del conflitto di interessi par risolversi nella sola imposizione del classamento del creditore concorrente paiono far propendere per l’esclusione dell’operatività del divieto in parola ai soggetti “collegati” al creditore concorrente.

4.4. Il voto plurimo L’offerta di più opzioni al ceto creditorio porta con sé la problematica

dell’ammissibilità di un voto plurimo. L’interpretazione prevalente è orientata a favore della possibilità di

esprimere il voto favorevole nei confronti di più proposte 29 (ben potendo il creditore ritenerle tutte preferibili all’alternativa fallimentare), nonché della facoltà di poter mutare – da contrario a favorevole o viceversa – il proprio voto nel caso di seconda votazione (in caso di proposta prevalente che non abbia, in prima istanza, raggiunto il quorum) 30.

Come detto, dubbi sono stati espressi in merito alla modifica del voto già espresso.

27 Cfr. D’ATTORE, Le proposte, cit.. 1177, nt. 42. 28 Cfr. BOZZA, Le proposte, cit., 64. 29 Cfr. FABIANI, L’ipertrofica legislazione concorsuale fra nostalgie e incerte contamina-

zioni ideologiche, in IlCaso.it; VAROTTI, Appunti veloci sulla riforma 2015 della legge fal-limentare – III parte, in IlCaso.it.

30 Cfr. D’ATTORE, Le proposte, cit., 1176.

513 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

5. Considerazioni conclusive

La novella del 2015 ha innovato la disciplina dell’approvazione del con-cordato preventivo operando lungo due direttive principali: la prima, di por-tata generale, ha riguardato l’abolizione del meccanismo del silenzio assenso avrà senz’altro un impatto decisivo sulla sorte delle procedure soggette alla nuova disciplina, la seconda ha riguardato invece la necessità di coordinare questa fase della procedura con l’istituto delle proposte concorrenti, istituto le cui future fortune appaio ad oggi ancora incerte.

514 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Crowdfunding: esame della disciplina e ruolo dei gestori dei portali per la raccolta dei fondi Gianluca Quaranta

SOMMARIO

1. Introduzione. – 2. Le principali fonti normative del crowdfunding. – 2.1. Le principali di-rettive ed i regolamenti europei applicabili al crowdfunding. – 2.2. Le fonti normative dell’equity-based crowdfunding. – 2.2.1. L’equity crowdfunding nel TUF. – 2.2.1.1. La nor-mativa dei gestori di portali di equity crowdfunding. – 2.2.1.2. Le offerte tramite portali di raccolta capitali. – 2.2.2. I Regolamenti Consob sull’equity crowdfunding. – 2.3. Cenni sulle fonti normative del donation-based, reward-based e del royalty-based crowdfunding. – 2.3.1. Cenni sulle fonti normative del donation-based crowdfunding. – 2.3.2. Cenni sulle fonti normative del reward-based crowdfunding. – 2.3.3. Cenni sulle fonti normative del royalty-based crowdfunding. – 2.3.4. Cenni sulle fonti normative del social lending crowdfunding. – 3. I gestori dei portali di crowdfunding. – 3.1. I gestori dei portali di equity crowdfunding nella pratica. – 3.1.1. Tipologie e caratteristiche dei gestori di portali di equity crowdfunding. – 3.1.1.1. Domanda per diventare gestore di un portale di equity crowdfun-ding. – 3.1.2. Informazioni che i gestori dei portali di equity crowdfunding devono fornire. – 3.1.3. Obblighi dei gestori dei portali di equity crowdfunding. – 3.1.4. La gestione degli or-dini di adesione degli investitori da parte dei gestori di portali di equity crowdfunding. – 3.2. I gestori dei portali di reward crowdfunding nella pratica. – 3.3. I gestori dei portali di social lending nella pratica. - 4. Conclusioni. – Riferimenti bibliografici.

1. Introduzione

Il crowdfunding 1 rappresenta il “finanziamento della folla” dall’inglese “crowd” (folla) e “funding” (finanziamento), si tratta – in sostanza – di un particolare tipo di finanziamento collettivo che, sfruttando le potenzialità di Internet, consente a coloro che hanno idee o delle necessità, ma – rispetti-vamente – non i tutti i fondi per realizzarle o soddisfarle, di provare ad acce-dere a risorse economiche di terzi attraverso specifiche piattaforme online.

1 La definizione fa riferimento a: www.crowd-funding.cloud/it/definizione-139.asp.

515 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

In letteratura esistono varie tipologie di crowdfunding 2. Innanzitutto ci sono quattro modelli base codificati – per la prima volta – da un rapporto Massolution 3 del 2012: donation-based, equity-based, reward-based e so-cial lending. Il donation 4 rappresenta essenzialmente una donazione, in cui il proponente la campagna di raccolta fondi riceve il denaro e, al massimo, offre – in cambio – ricompense simboliche. L’equity 5, dal canto suo, è un classico finanziamento da parte di soggetti che investono il proprio denaro in azioni o quote di una società. Il reward 6, invece, è un tipo di crowdfunding in cui si riceve una ricompensa (ossia un prodotto o un servizio) sulla base dell’importo che si è investito nella campagna che si sostiene. Il social len-ding 7, infine, è un modello di crowdfunding corrispondente ad un prestito di

2 Per un approfondimento sul tema si vedano: COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FI-

NANZA-SOTTOGRUPPO “START-UP E CROWDFUNDING” (a cura di), Start-up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfunding, 2016; G. QUARANTA, Crowdfun-ding. Il finanziamento della folla, o dei “folli”?, in Diritto ed Economia dell’Impresa, Fasci-colo n. 5, G. Giappichelli Editore, Torino, 2016; AA.VV., Diventare imprenditori innovativi, in Le Guide di Corriere Imprese, 2015; I. CULTERA, Crowdfunding e Regolamentazioni. La Tassazione in Italia: il quadro generale, Upspringer International LLC, 2015; R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, Fondazione Nazionale dei Commercialisti, 2015; I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collabora-tiva all’imprenditorialità, Egea, Milano, 2014 e U. PIATTELLI, Il Crowdfunding in Italia. Una regolamentazione all’avanguardia o un’occasione mancata?, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013.

3 Il documento a cui si fa riferimento è CROWDSOURCING.ORG, Massolution Report. Crowdfunding Industry Report 2012, Market trends, Composition and Crowdfunding Plat-forms, Research Report, Abridged Version, 2012, 19 ss.

4 Si vedano in particolare: COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO

“START-UP E CROWDFUNDING” (a cura di), Start-up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfunding, 34 ss.; G. QUARANTA, Crowdfunding. Il finanziamento della folla, o dei “folli”?, 221 ss.; AA.VV., Diventare imprenditori innovativi, p. 205 ss.; I. CULTERA, Crowdfunding e Regolamentazioni. La Tassazione in Italia: il quadro generale e I. PAIS-P. PE-

RETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, 10 ss. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Oltre al sito www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/p2plending-224.html e a CROW-

DSOURCING.ORG, Massolution Report. Crowdfunding Industry Report 2012, Market trends, Composition and Crowdfunding Platforms, si vedano le fonti della nota precedente. Giova al-tresì sottolineare che il social lending è un modello che racchiude nella sua definizione, oltre al microlending, anche le seguenti tipologie di crowdfunding: crowdlending, lending, peer-to-business e peer-to-peer. Il crowdlending è unicamente una denominazione alternativa a social lending. Il lending, invece, rappresenta il ricorso al crowdfunding per ottenere un prestito di  

516 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

denaro cd. peer-to-peer ed in particolare si fa riferimento ai prestiti senza in-termediazione sia per le organizzazioni sia per i privati, in cui chi impresta denaro sceglie autonomamente dove allocarlo.

Esistono poi tre principali modelli riconducibili ai quattro originari: mi-crolending, pre-selling e royalty. Il microlending 8 è una particolare tipolo-gia di social lending crowdfunding in cui viene offerto credito a soggetti con un reddito piuttosto basso che difficilmente avrebbero accesso al settore bancario. Il pre-selling 9, invece, rappresenta, fondamentalmente, una pre-vendita di un bene o di un servizio (in genere, per le sue peculiarità, è consi-derato una sotto-categoria del reward). Infine, si parla di royalty 10 crowd-funding quando chi lancia una campagna offre delle quote dei guadagni futu-ri del singolo prodotto o servizio che viene finanziato (a volte è considerato come una sotto tipologia dell’equity).

Dalla combinazione di due dei quattro modelli di base è anche nato un modello ibrido: il pre-purchase 11, ossia un incrocio tra il reward e l’equity, in cui chi sostiene una campagna del tipo reward potrà godere, in futuro, di un diritto di opzione sull’eventuale emissioni di azioni (equity) da parte della società che lancia tale campagna reward.

Negli ultimi anni sono sorte tre nuove forme di crowdfunding che, nella pratica, si declinano in uno qualsiasi dei modelli descritti fin qui (donation, equity, reward, social lending, microlending, pre-selling, royalty e pre-pur-chase) ed essi sono: civic, corporate e do-it-yourself. Al civic 12 si ricorre per

denaro senza intermediazione, in cui chi impresta denaro sceglie autonomamente dove allocar-lo (come si evince la definizione è pressoché la stessa adottata per il social lending). Il peer-to-business, al contrario, rappresenta un prestito di denaro peer-to-peer solo per organizzazioni (e quindi non per i privati) senza intermediazione, in cui chi impresta denaro sceglie autonoma-mente dove allocarlo. Infine il prestito peer-to-peer, fondamentalmente, corrisponde al social lending, solo che non prevede un vero e proprio “finanziamento della folla”.

8 COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA-SOTTOGRUPPO, START-UP E CROWDFUN-DING (a cura di), Start-up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfun-ding, 34 ss.

9 I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprendito-rialità, 10 ss.

10 Si vedano in particolare: COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO

“START-UP E CROWDFUNDING” (a cura di), Start-up innovative e i nuovi strumenti di svilup-po e crescita: il crowdfunding, 34 ss.; G. QUARANTA, Crowdfunding. Il finanziamento della folla, o dei “folli”?, 221 ss.; AA.VV., Diventare imprenditori innovativi, 205 ss. e I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, 10 ss.

11 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 5 ss. 12 Si vedano in particolare: COMMISSIONE DI STUDIO UNGDCEC FINANZA – SOTTOGRUPPO

 

517 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

il finanziamento di opere di vario genere e progetti di pubblica utilità da par-te dei cittadini stessi. Il corporate 13, al contrario, è una tipologia di crowd-funding che, partendo dal concetto di CRS (Corporate Social Responsibili-ty), può aiutare le aziende nella progettazione di prodotti o servizi, coinvol-gendo direttamente i clienti in tale fase. Infine, con il do-it-yourself 14 si rea-lizza una campagna di crowdfunding all’interno del sito stesso dell’organiz-zazione che lancia tale progetto, senza dover passare su di un’altra piatta-forma esterna.

A conclusione di questa disamina giova ricordare che, recentemente, si è iniziato a ricorrere al crowdfunding anche per l’anticipo fatture e, pertanto, è possibile riferirsi a questa nuovissima tipologia come invoice crowdfun-ding 15 o, con il termine più diffuso in letteratura, “invoice trading”.

Ognuna di queste tipologie di crowdfunding fa riferimento a fonti norma-tive differenti che si riflettono, poi, in maniera diversa sull’operatività dei gestori delle piattaforme e dei backer, ossia dei sostenitori dei vari progetti.

2. Le principali fonti normative del crowdfunding

L’Italia è stato il primo Paeseeuropeo ad aver introdotto una disciplina specifica per il crowdfunding 16. In particolare il legislatore italiano ha creato una normativa dedicata unicamente all’equity-based crowdfunding, mentre per gli altri modelli (donation, reward, royalty e social lending) – ad oggi – si usa riferirsi alla regolamentazione già esistente per modalità di finanzia-mento simili, anche se – in alcuni casi – non vi è assoluta certezza sulle norme applicabili.

In ogni caso i provvedimenti di maggiore interesse per il crowdfunding possono essere così riassunti 17: Testo Unico sulla Finanza (TUF) 18, Testo

“START-UP E CROWDFUNDING” (a cura di), Start-up innovative e i nuovi strumenti di sviluppo e crescita: il crowdfunding; G. QUARANTA, Crowdfunding. Il finanziamento della folla, o dei “fol-li”? e I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità.

13 Ibidem. 14 Oltre al sito www.starteed.com, si vedano le fonti della nota precedente. 15 Si vedano il sito www.crowd-funding.cloud e l’articolo CORRIERE DELLA SERA, Facto-

ring Ora i crediti vanno all’asta online, in Corriere della Sera, 26-09-2016 (www.corriere.it /digitaledition/ECONOMIAFC_NAZIONALE_WEB/2016/09/26/38/factoring-ora-i-crediti-vanno-allasta-online_U4323021047484YXH.shtml).

16 Il riferimento è il sito ufficiale della Consob. 17 Per un approfondimento sul tema si invita alla consultazione del capitolo terzo del te-

 

518 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Unico Bancario (TUB) 19, Direttiva AIFMD (Alternative Investment Fund Managers) 20, Payment Services Directive 1 e 2 21, Direttive contro il rici-claggio e contro il finanziamento del terrorismo, Codice della Privacy 22 – oltreché, ovviamente, il Codice Civile9 italiano e le due direttive MiFID 23.

2.1. Le principali direttive ed i regolamenti europei applicabili al crowdfunding Per quanto riguarda le direttive ed i regolamenti europei, un recente stu-

dio dell’Unione Europea sullo stato dell’arte del crowdfunding in Europa 24, ricordando una precedente ricerca 25 dell’UE, ha indicato le principali fonti normative dell’UE in tema di crowdfunding.

In tal senso si possono anzitutto ricordare le seguenti direttive:

• «Direttiva sul commercio elettronico», ossia la Direttiva 2000/31/CE del Par-lamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno, per la quale rilevano soprattutto gli aspetti re-lativi al commercio elettronico – l’e-commerce – all’interno del mercato intero;

• Direttiva 2006/114/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 di-cembre 2006 concernente la pubblicità ingannevole e comparativa, che prevede l’armonizzazione delle pratiche volte a contrastare le pratiche di marketing fuorvianti – in particolar modo nel mercato business-to-business (ossia per servizi e prodotti offerti da organizzazioni ad altre organizzazioni);

sto U. PIATTELLI, Il Crowdfunding in Italia. Una regolamentazione all’avanguardia o un’oc-casione mancata?.

18 D.lgs. n. 58 del 24 febbraio 1998. 19 D.lgs. n. 385 del 1° settembre 1993. 20 Direttiva 2011/61/UE. 21 Direttiva 2007/64/CE (PSD1) e 2015/2366/UE (PSD2). 22 D.lgs. n. 196 del 30 giugno 2003. 23 Markets in Financial Instruments Directive, 2004/39/CE – che recentemente è stata

aggiornata con la MiFID 2. 24 La ricerca a cui ci si riferisce è la seguente: A. DELIVORIAS, Crowdfunding in Europe.

Introduction and state of play, European Parliamentary Research Service (ERPS), 2017. 25 CONSIGLIO EUROPEO, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al

Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni in merito alla possibilità di Sfruttare il potenziale del crowdfunding nell’Unione europea, Unione Eu-ropea, 2014 (COM/2014/0172 final).

519 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

• «Direttiva sulle pratiche commerciali sleali», ossia la Direttiva 2005/29/CE dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parla-mento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, che risulta di fondamentale importan-za per quanto riguarda la tutela dei consumatori contro pratiche di crowd-funding aggressive e fuorvianti;

• Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clau-sole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, in merito alla tutela dei sostenitori di progetti di crowdfunding di fronte ad eventuali clausole vessatorie e/o abusive all’interno di contratti o termini e condizioni di siti Internet relativi al crowdfunding;

• Direttiva AIFMD, «Alternative Investment Fund Managers», ossia la Di-rettiva 2011/61/UE sui gestori di fondi di investimento alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regolamenti (CE) n. 1060/2009 e (UE) n. 1095/2010 26;

• Direttiva MiFID, Markets in Financial Instruments Directive, ossia la Di-rettiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le diretti-ve 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio (recentemente aggiornata con la MiFID 2) 27;

• Payment Services Directive 1 e 2, ossia – rispettivamente – la Direttiva 2007/64/CE e la Direttiva 2015/2366/UE in tema di sistemi di pagamento.

Esistono, poi, direttive e regolamenti europei specifici per due tipi di crowdfunding il social lending e l’equity-based:

a) Direttiva 2003/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 no-vembre 2003 relativa al prospetto da pubblicare per l’offerta pubblica o l’ammissione alla negoziazione di strumenti finanziari e che modifica la direttiva 2001/34/CE;

b) Direttiva 2007/64/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 no-vembre 2007 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, recante

26 Le Direttive AIFMD e MiFID sono state aggiunte, rispetto al documento originario dell’UE, sulla base delle informazioni presenti in U. PIATTELLI, Il Crowdfunding in Italia. Una regolamentazione all’avanguardia o un’occasione mancata?.

27 Ibidem.

520 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

modifica delle direttive 97/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE e 2006/48/CE, che abroga la direttiva 97/5/CE;

c) Direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio;

d) Direttiva 2013/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giu-gno 2013 sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza pru-denziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE;

e) Direttiva 2011/61/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giu-gno 2011 sui gestori di fondi di investimento alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regolamenti (CE) n. 1060/2009 e (UE) n. 1095/2010;

f) Direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 apri-le 2008 relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la diret-tiva 87/102/CEE;

g) Direttiva 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 set-tembre 2002, concernente la commercializzazione a distanza di servizi fi-nanziari ai consumatori e che modifica la direttiva 90/619/CEE del Consi-glio e le direttive 97/7/CE e 98/27/CE;

h) Regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le im-prese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012;

i) Regolamento (UE) n. 345/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2013 relativo ai fondi europei per il venture capital;

j) Regolamento (UE) n. 346/2013 del 17 aprile 2013 relativo ai fondi euro-pei per l’imprenditoria sociale.

2.2. Le fonti normative dell’equity-based crowdfunding L’Italia, come detto, vanta il primato, in Europa, di aver introdotto una

disciplina specifica dell’equity-based crowdfunding, ossia del sistema che «consente alle imprese di raccogliere capitale finanziario attraverso Internet, offrendo in cambio quote della proprietà dell’impresa e quindi la possibilità di compartecipare agli utili e alla creazione di valore nel lungo termine» 28.

28 I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 22.

521 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Esiste, infatti, una normativa organica ad hoc, solo per la regolamentazione del fenomeno dell’equity crowdfunding 29, introdotta 30 «in deroga alla disci-plina sulle offerte pubbliche di sottoscrizione, dal d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012 («Decreto Crescita 2.0» 31)» 32 che, inizialmente, apriva il ricorso al fi-nanziamento tramite crowdfunding solo alle imprese con la qualifica di “start-up innovative”. Successivamente, il d.l. n. 3 del 24 gennaio 2015 («Decreto Investment Impact» 33) ha consentito l’accesso al crowdfunding anche alle aziende qualificate come “PMI innovative”, oltre a dare la possi-bilità anche a organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR) e alle società che investono prevalentemente in start-up/PMI innovative di col-locare online – tramite, appunto, l’equity crowdfunding – i propri capitali 34. Ad oggi, inoltre, le norme in vigore prevedono il ricorso al crowdfunding so-lo per finanziamenti in capitale proprio per le aziende, mentre resta esclusa la possibilità di emissione di titoli di debito o titoli ibridi 35. Più di recente, la nuova Legge di Bilancio 2017 del Senato, all’art. 1, comma 70, ha concesso la quotazione tramite portali di crowdfunding anche alle PMI, non innovati-ve, ma costituite nella forma di società per azioni (S.p.A.). Tale provvedi-mento dovrebbe quindi, potenzialmente, allargare le aziende che possono of-frire le loro quote o azioni su portali autorizzati – anche se va detto che in Italia la maggioranza delle PMI è costituita nella forma di Società a respon-sabilità limitata (S.r.l.) e non tanto come S.p.A.

L’equity crowdfunding presenta, quindi, alcune analogie con un’Offerta Pubblica Iniziale – un’IPO (Initial Pubblic Offernig) – e in tal senso, l’ac-cesso di un’impresa ai finanziamenti tramite una campagna di crowdfunding potrebbe, in un secondo momento, spianare la strada per ricevere capitali anche su mercati regolamentati di maggiore importanza. Nella pratica l’e-quity crowdfunding si configura come un aumento di capitale a pagamento.

29 G. QUARANTA, Crowdfunding. Il finanziamento della folla, o dei “folli”?, 260 ss. 30 Per un approfondimento sul tema si veda: AA.VV., Diventare imprenditori innovativi,

205 ss. 31 Nel Decreto in questione – definito talvolta anche «Decreto Crescita Bis» – rilevano in

particolare gli articoli gli artt. 25, 26, 27, 28, 29 e il 31 che riguardano le start-up innovative, oltreché l’art. 30 che riguarda i gestori di piattaforme di crowdfunding.

32 AA.VV., Diventare imprenditori innovativi, cit., 207. 33 Nel Decreto in questione – definito talvolta anche «Decreto Crescita 3.0» – rileva in

particolar modo l’art. 4. 34 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 12 ss. 35 Ibidem.

522 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Esiste, quindi, un potenziale rischio di “diluizione”, in termini percentuali, nel caso in cui la società in cui si è investito lanci – in futuro – altre campa-gne di equity crowdfunding 36.

Volendo analizzare la disciplina dell’equity crowdfunding in modo più approfondito bisogna sottolineare come, nell’ordinamento italiano, rivestono particolare rilevanza l’art. 50-quinquies e l’art. 100-ter del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (Testo Unico sulla Fi-nanza, TUF), oltreché il Regolamento Consob n. 18592 del 2013 (con i suoi aggiornamenti). Bisogna però va osservare che 37 sebbene i nuovi articoli del TUF trattino quello che nella sostanza e nell’uso comune viene definito, ap-punto, come “equity crowdfunding”, tuttavia il legislatore italiano non è an-dato a definirlo all’interno di alcun provvedimento, limitandosi, invece, uni-camente a disciplinare il suo funzionamento. Giova, poi, sottolineare che l’investimento in equity crowdfunding comporta alcune esenzioni e sgravi fiscali di cui si dirà più avanti.

Si può, infine, ricordare che il legislatore italiano, nel tentativo di suppor-tare lo sviluppo economico del Paese, ha cercato – con la normativa esisten-te – da un lato di tutelare l’investitore (soprattutto nel caso di investitori non qualificati – come, ad esempio, i privati cittadini) e dall’altro il corretto fun-zionamento del mercato 38, ottenendo però un risultato che, ad oggi, sembre-rebbe frenare la crescita dell’equity crowdfunding in Italia.

2.2.1. L’equity crowdfunding nel TUF

Il Testo Unico sulla Finanza è il principale provvedimento italiano in ma-teria di mercati finanziari ed è altresì fortemente connesso alla normativa bancaria. Relativamente al crowdfunding vi sono due articoli di particolare rilevanza: l’art. 50-quinquies e l’art. 100-ter.

2.2.1.1. La normativa dei gestori di portali di equity crowdfunding

L’art. 50-quinquies del TUF disciplina la gestione di portali per la raccol-ta di capitali per le start-up innovative 39, le PMI innovative 40, le PMI nella

36 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 19 ss. 37 I. CULTERA, Crowdfunding e Regolamentazioni. La Tassazione in Italia: il quadro ge-

nerale, Upspringer International LLC, 2015. 38 P. ALOVISI, Equity crowdfunding: uno sguardo comparatistico, Rivista di Diritto Ban-

cario, Dottrina e Giurisprudenza Commenta, 2014. 39 In base al «Decreto Crescita 2.0» per “start-up innovativa” (A.A.VV., Diventare im-

 

523 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

prenditori innovativi, 113 ss.) si intende un’azienda che opera nel campo dell’innovazione tecnologica e che possiede determinati requisiti, così riassumibili:

Di nuova costituzione o attiva da non più di cinque anni; Con sede principale sul territorio italiano, dell’Unione Europea o di un Paese aderente allo

Spazio Economico Europeo a patto che abbia una sede produttiva o una sussidiaria in Italia; Fatturato annuo inferiore a 5 milioni di Euro; Utili non distribuiti; Non sia nata a seguito di fusioni, scissioni societarie o di cessioni di (rami di) azienda; Oggetto sociale prevalente: sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti o

servizi innovativi ad alto contenuto tecnologico; Il contenuto innovativo dell’impresa deriva dal possesso di almeno uno dei seguenti re-

quisiti: Almeno il 15% del maggiore tra fatturato e costi annuali sia imputabile alla ricerca e del-

lo sviluppo; La forza lavoro complessiva sia costituita da almeno 1/3 di dottorandi, dottori di ricerca

o ricercatori, oppure da 2/3 dei soci o da collaboratori a qualsiasi titolo che siano in possesso di laurea magistrale;

L’impresa sia titolare, depositaria o licenziataria di una privativa industriale o di un pro-gramma per elaboratore originario registrato.

Esistono, inoltre, le cd. SIAVS, ossia le “start-up innovative a vocazione sociale”, la cui “vocazione sociale” è regolamentata dall’art. 2, del D. L. 155/2006 (G. BARTOLOMEI-A. MARCOZZI, Come finanziare una start-up innovativa, EPC Editore, 2015, pp. 49 ss.).

40 Per “PMI innovative” (A.A.VV., Diventare imprenditori innovativi, 113 ss.), ovvero per piccole e medie imprese innovative, si intendono aziende attive nel campo dell’inno-vazione tecnologica, indipendentemente dalla data di costituzione, dall’oggetto sociale e del livello di maturazione. I requisiti, simili a quelli delle start-up innovative, sono così sintetiz-zabili:

Impegno di meno di 250 persone; Fatturato inferiore ai 50 milioni di Euro; Costituite in forma di società di capitali o in forma cooperativa; Con sede principale sul territorio italiano, dell’Unione Europea o di un Paese aderente allo

Spazio Economico Europeo a patto che abbiano una sede produttiva o una sussidiaria in Italia; Ultimo bilancio d’esercizio certificato (con l’eventuale bilancio consolidato redatto ad

opera di un revisore contabile o da una società di revisione); Titoli azionari non quotati su di un mercato regolamentato; Non iscritte alla sezione speciale del Registro Imprese per le start-up innovative; Contenuto innovativo dell’impresa deriva dal possesso di almeno due dei tre seguenti re-

quisiti: Volume di spesa in R&S ed innovazione in misura almeno pari al 3% della maggiore en-

tità fra costo e fatturato; Impiego come dipendenti o collaboratori per almeno 1/5 della forza lavoro totale di per-

sonale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o in possesso di laurea e che abbia svolto (da almeno tre anni) attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca, oppure di persona-le in possesso di laurea magistrale per almeno 1/3 della forza lavoro complessiva;  

524 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

forma di Società per Azioni (S.p.A.), gli organismi di investimento colletti-vo del risparmio (OICR) e le società che investono prevalentemente in start-up/PMI innovative.

La gestione di portali di equity crowdfunding – sulla base del comma 2 – può, dunque, essere svolta da due tipi di soggetti:

• Dai cd. “gestori di diritto”, ossia le banche e le imprese di investimento che non hanno bisogno di un’autorizzazione particolare, ma vengono iscritti nella sezione speciale del registro Consob (Regolamento Consob n. 18592 del 2013);

• Dai cd. gestori “autorizzati”, la cui disciplina si torva prevalentemente all’interno dell’art. 50-quinquies del TUF e nel Regolamento Consob n. 18592 del 2013, che vengono iscritti nella sezione ordinaria del registro Consob 41.

I gestori autorizzati godono dell’esenzione dell’applicazione di parte del-la direttiva MiFID, ma devono rispettare requisiti più stringenti, come il di-vieto di detenere somme di denaro e l’obbligo di trasmettere gli ordini alle banche o alle SIM (Società di intermediazione immobiliare). Al contrario i gestori di diritto non sono esentati dall’applicazione della direttiva MiFID, ma possono gestire direttamente la raccolta dei capitali delle aziende 42.

Al terzo comma l’art. 50-quinquies, elenca i requisiti (di cui si dirà dopo) per i quali è necessario che un soggetto sia inserito o escluso da suddetto re-gistro. Mentre il comma 4 sottolinea come i gestori di portali di equity crowdfunding devono essere iscritti in un registro tenuto dalla Consob (sulla base del Regolamento Consob n. 18592/2013) e tali soggetti non possono “detenere somme di denaro o strumenti finanziari di pertinenza di terzi” 43. Il settimo ed ultimo comma dell’art. 50-quinquies ricorda, poi, quali sono le sanzioni da mettere in atto per i soggetti che non si attengono alle disposi-zioni previste.

Giova ancora ricordare che la Consob – sulla base dell’art. 50-quinquies, comma 6 – esercita il compito di vigilanza sui gestori di portali ed esatta-mente come avviene per i soggetti che operano sulle borse valori può anche

L’impresa sia titolare, depositaria o licenziataria si una privativa industriale o di un pro-gramma per elaboratore originario registrato.

41 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti operativi, 14 ss.

42 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 23 ss. 43 La citazione riprende parte del quarto comma dell’art. 50-quinquies del TUF.

525 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

richiedere “la comunicazione di dati e di notizie e la trasmissione di atti e di documenti, fissando i relativi termini, nonché effettuare ispezioni” 44.

2.2.1.2. Le offerte tramite portali di raccolta capitali

L’art. 110-ter del TUF, con le sue disposizioni, è volto a disciplinare le offerte attraverso portali per la raccolta di capitali. Il suo primo comma sta-tuisce che le offerte sui portali di equity crowdfunding «possono avere ad oggetto soltanto la sottoscrizione di strumenti finanziari emessi dalle start-up innovative, dalle PMI innovative, dagli organismi di investimento collettivo del risparmio o altre società di capitali che investono prevalentemente in start-up innovative e in PMI innovative» 45, oltreché – grazie alle nuove di-sposizioni previste dalla Legge di Bilancio 2017 del Senato – strumenti fi-nanziari emessi da PMI costituite nella forma di Società per Azioni (S.p.A.). Tali offerte “devono avere un corrispettivo totale inferiore a quello determi-nato dalla Consob” 46. Infatti, sulla base della normativa vigente, in merito alle regole speciali delle offerte online di strumenti finanziari emessi da start-up innovative, è stato stabilito che l’ammontare massimo di un’offerta è pari a 5 milioni di Euro 47 – soglia stabilita dalla Direttiva Prospetto e dall’art. 34-ter, comma 1, lettera c), del Regolamento Emittenti Consob 48 – e che, per essere valida 49, una campagna di crowdfunding deve essere sotto-scritta per almeno il 5% dell’importo da parte di investitori istituzionali (banche, fondi di investimento, fondazioni, incubatori e simili).

Il comma 2-bis ed i seguenti disciplinano il regime alternativo di trasfe-rimento delle quote, che offre delle altre possibilità, rispetto “a quanto stabi-lito dall’articolo 2470, comma 2, c.c. e dall’articolo 36, comma 1-bis, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 ago-sto 2008, n. 133” 50, per la sottoscrizione, l’acquisto o la successiva aliena-

44 La citazione riporta parte del comma 6 dell’art. 50-quinquies del TUF. 45 La citazione riprende parte del comma 4 dell’art. 100-ter del TUF. 46 Ibidem. 47 La fonte di tale informazione è il sito ufficiale della Consob. 48 Si vedano: CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa

e aspetti operativi, pp. 14 ss. e U. PIATTELLI, Il Crowdfunding in Italia. Una regolamenta-zione all’avanguardia o un’occasione mancata?, 27 ss.

49 Si vedano il comma 2 dell’art 24 del Regolamento Consob n. 18592/2013 e A.A. VV., Diventare imprenditori innovativi, 207 ss.

50 La citazione è tratta dal comma 2-bis dell’art. 100-ter del TUF.

526 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

zione di quote del capitale di start-up/PMI innovative a responsabilità limi-tata. La deroga all’art. 2470 c.c. fornisce, quindi, «un importante incentivo alla formazione di un mercato secondario» 51.

2.2.2. I Regolamenti Consob sull’equity crowdfunding

Relativamente alla normativa dell’equity crowdfunding sono di particola-re rilievo alcuni regolamenti della Consob.

In tal senso di primaria importanza è il Regolamento Consob sulla raccol-ta di capitali di rischio tramite portali on-line, adottato con la delibera n. 18592 del 26 giugno 2013, successivamente aggiornato con le modifiche apportate dalla delibera Consob n. 19520 del 24 febbraio 2016.

Per quanto concerne i gestori dei portali, nel suddetto Regolamento Con-sob n. 18592 del 2013, vengono anzitutto stabilite le caratteristiche, la for-mazione ed il contenuto, nonché la pubblicità da effettuarsi per l’istituzione del registro (artt. 4, 5 e 6) all’interno del quale vengono inseriti coloro che 52 esercitano professionalmente il servizio di gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative, per le PMI innovative, per gli organi-smi di investimento collettivo del risparmio e per le società di capitali che investono prevalentemente in start-up innovative e in PMI innovative, oltre-ché per le PMI nella forma di Società per Azioni. Vige altresì in capo alla Consob, sulla base delle disposizioni dell’art. 50-quinquies del TUF, il com-pito di vigilanza sui gestori dei portali di equity crowdfunding.

La Consob, in base a quanto stabilito nell’art. 50-quinquies del TUF, ha anche inserito, all’interno del Regolamento n. 18592/2013, alcune norme specifiche per i gestori di portali di equity crowdfunding andando a regola-mentare in particolare: il procedimento di autorizzazione per l’iscrizione al Registro (art. 7), i requisiti di onorabilità dei soggetti che detengono il con-trollo (art. 8) e quelli di onorabilità e professionalità dei soggetti che svolgo-no funzioni di amministrazione, la direzione ed il controllo all’interno delle società che gestiscono le piattaforme di equity crowdfunding (art. 9), oltre-ché gli effetti conseguenti alla perdita di tali requisiti (art. 10), alla sospen-sione dalla carica dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di-rezione e controllo (art. 11), alla decadenza dall’autorizzazione (art. 11-bis) ed alla cancellazione dal registro (art. 12). La Consob ha altresì dettato una serie di regole di condotta che riguardano gli obblighi del gestore (art. 13) e

51 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, cit., 14. 52 I riferimenti, in questo caso, sono ritrovabili nell’art. 50-quinquies del TUF e nella

Legge di Bilancio 2017 del Senato.

527 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

quelli volti – in particolar modo – alla tutela dei consumatori (artt. 17, 18, 19 e 20), le informazioni da fornire (artt. 14, 15 e 16), nonché le comunicazioni alla Consob stessa (art. 21) ed infine i provvedimenti sanzionatori e cautelari (artt. 22 e 23). Fra queste informazioni quelle di maggiore interesse attengo-no all’art. 13, in cui:

• Il comma 2 si statuisce che il gestore deve rendere “disponibili agli investi-tori, in maniera dettagliata, corretta, chiara, non fuorviante e senza omis-sioni, tutte le informazioni riguardanti l’offerta che sono fornite dall’of-ferente affinché gli stessi possano ragionevolmente e compiutamente com-prendere la natura dell’investimento, il tipo di strumenti finanziari offerti e i rischi ad essi connessi e prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole” 53;

• Il comma 3 viene ribadito che: il gestore deve richiamare “l’attenzione de-gli investitori diversi dagli investitori professionali sull’opportunità che gli investimenti in attività finanziaria ad alto rischio siano adeguatamente rapportati alle proprie disponibilità finanziarie” 54; non deve diffondere “notizie che siano non coerenti con le informazioni pubblicate sul porta-le” 55 e si deve astenere “dal formulare raccomandazioni riguardanti gli strumenti finanziari oggetto delle singole offerte atte ad influenzare l’an-damento delle adesioni alle medesime” 56.

La delibera Consob n. 19520 del 24 febbraio 2016, andando ad intergare alcune disposizioni del Regolamento Consob n. 18592/2013, ha posto parti-colare attenzione alla disclosure (ossia alla divulgazione e diffusione delle informazioni).

In conclusione va detto che tutte le disposizioni della Consob sono, quin-di, volte a garantire che l’investitore sia adeguatamente informato su tre principali aspetti 57 dell’equity crowdfunding: i gestori dei portali, le caratte-ristiche ed i rischi delle offerte (in particolar modo per gli investitori retail).

53 Art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 54 Ibidem. 55 Ibidem. 56 Ibidem. 57 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 24 ss.

528 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

2.3. Cenni sulle fonti normative del donation-based, reward-based e del royalty-based crowdfunding

Verranno qui di seguito esposte le principali fonti normative per quattro modelli di crowdfunding molto diffusi: donation, reward, royalty e social lending.

2.3.1. Cenni sulle fonti normative del donation-based crowdfunding

Per la disciplina del donation crowdfunding è utile fare riferimento, in genere, alla disciplina delle donazioni contenuta nel Codice Civile (c.c.). In particolare si può ricordare che sulla base dell’art. 769 c.c. «la donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, di-sponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione» 58.

Nel caso in cui la donazione si rivolta verso una Onlus (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale) è possibile per il donatore 59 godere di alcune agevolazioni per dedurre le somme versate all’ente, proprio in virtù delle ca-ratteristiche dell’istituto Onlus.

2.3.2. Cenni sulle fonti normative del reward-based crowdfunding

Nel reward crowdfunding si annovera la disciplina sia del classico mo-dello della ricompensa sia, ovviamente, della tipologia pre-selling (pre-ordine). Perciò «quando parliamo di reward e non di donazione pura di tipo solidaristico, […] abbiamo tre categorie giuridiche che possiamo usare per definire e disciplinare il crowdfunding» 60. La prima è, per l’appunto, il pre-ordine, ossia un’operazione che il Codice Civile definisce di e-commerce, che riguarda una compravendita futura che si perfeziona con la realizzazione del bene, alla quale si applica l’IVA e si emette fattura. La seconda, sempre sulla base del Codice Civile, è una donazione modale in cui viene data una ricompensa (il “reward”) non di valore monetario e di importo inferiore alla somma donata che, quando riguarda valori ingenti, richiederebbe l’inter-

58 Si è citato l’art. 769 del codice civile. 59 Tali temi possono essere approfonditi su I. CULTERA, Crowdfunding e Regolamenta-

zioni. La Tassazione in Italia: il quadro generale. 60 L’approfondimento qui descritto fa riferimento all’intervista all’Avv. A.M. Lerro dello

Studio Lerro & Partners presente in I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, 15 ss.

529 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

vento di un atto notarile. La terza ed ultima tipologia è il royalty crowdfun-ding che sarà trattato nel prossimo paragrafo.

Risulta, quindi, evidente che, mancando un orientamento univoco, risulta complesso identificare anche una corretta disciplina fiscale del reward crowd-funding 61. In tal senso le ipotesi potrebbero portate a ritenere che, a livello fisca-le, il reward-based crowdfunding sia trattato come: un finanziamento a fondo perduto, una donazione modale oppure un vero e proprio ricavo. Per dissipare questi dubbi sarebbe auspicabile un intervento del legislatore sulla falsariga di quanto – per altro – già avvenuto per l’equity crowdfunding.

2.3.3. Cenni sulle fonti normative del royalty-based crowdfunding

Per la disciplina del royalty crowdfunding, in genere, si può fare riferi-mento alle norme sull’associazione in partecipazione (artt. 2549 ss. c.c.), nella quale «chi finanzia partecipa in quota agli utili generati» 62. Infatti il finanziatore, in questo particolare modello di crowdfunding, percepisce – appunto – delle royalties sulla base dell’importo investito.

Nella sostanza, «si tratta di un’associazione agli utili e alle perdite, nei limiti del conferimento effettuato dall’investitore, che prevede l’associa-zione di un numero aperto ed indeterminato di investitori. Il rapporto deve essere contrattualizzato in modo adeguato per evitare l’applicazione supple-tiva di norme di legge non propriamente compatibili con il tipo di crowdfun-ding. Le esperienze internazionali generalmente prevedono la fissazione di un termine, e ciò è compatibile con l’ordinamento giuridico italiano. L’asso-ciato in partecipazione non ha i diritti del socio, ma ha poteri di controllo che devono essere definiti contrattualmente e che in genere si limitano al-l’analisi del rendiconto. L’aspetto più problematico [...] è l’indeducibilità fi-scale degli utili attribuiti agli associati in partecipazione, che finisce per pe-sare notevolmente sulla redditività netta del progetto imprenditoriale» 63.

Va, però, sottolineato che, a oggi, a detta degli operatori del settore 64, la

61 Il tema è ampiamente approfondito in su I. CULTERA, Crowdfunding e Regolamenta-zioni. La Tassazione in Italia: il quadro generale.

62 I. PAIS-P. PERETTI-C. SPINELLI, Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità, cit., 16.

63 La citazione fa riferimento a A. M. LEORRO, Il reward-based crowdfunding, Crowd-funding in Italy, 2013 (www.crowdfundinginitaly.com). Il testo integrale è consultabile gra-tuitamente presso questo link. Tale citazione è peraltro riportata in I. CULTERA, Crowd-funding e Regolamentazioni. La Tassazione in Italia: il quadro generale.

64 CROWDFUNDING CLOUD, BandBackers, il pioniere del royalty crowdfunding in Italia,  

530 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

definizione di royalty crowdfunding è meramente teorica e, quindi, tale mo-dello è spesso considerato come una forma derivata dall’equity o dal reward crowdfunding, circostanza che – per ora – ne complica ulteriormente l’in-quadramento giuridico.

2.3.4. Cenni sulle fonti normative del social lending crowdfunding

Per il social lending, in generale, la norma alla base della sua disciplina è il contratto di mutuo «definito dall’art. 1813 c.c. come “il contratto nel qua-le una parte consegna all’altra una quantità determinata di denaro o di al-tre cose fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie o qualità” con l’aggiunta, ai sensi dell’art. 1815 c.c., degli interessi, se espressamente previsti dal contratto» 65.

3. I gestori dei portali di crowdfunding

Nell’ordinamento italiano la definizione “gestore di portali” è circoscritta ai soggetti che coordinano, amministrano e organizzano piattaforme di equi-ty crowdfunding, tuttavia – nell’uso comune – si possono considerare tali anche i soggetti che gestiscono piattaforme di altre tipologie. In questo para-grafo saranno, quindi, approfondite le caratteristiche dei gestori dei portali di crowdfunding dei modelli: equity, reward e social lending.

I gestori dei portali di equity crowdfunding devono possedere una serie di requisiti per poter essere inseriti all’interno del registro che viene tenuto dalla Consob. In particolare, l’iscrizione è subordinata al sussistere delle se-guenti condizioni 66:

a) forma di società per azioni, di società in accomandita per azioni, di socie-tà a responsabilità limitata o di società cooperativa;

b) sede legale e amministrativa o, per i soggetti comunitari, stabile organiz-zazione nel territorio della Repubblica;

c) oggetto sociale 67 conforme con l’esercizio professionale del servizio di

www.crowd-funding.cloud, 23/03/2017. L’articolo è visualizzabile presso questo link: https:// www.crowd-funding.cloud/it/bandbackers-il-pioniere-del-royalty-crowdfunding-in-italia-616.asp.

65 La citazione è tratta dal paragrafo La disciplina giuridica del social lending nel seguen-te su Borsa Italiana (www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/p2plending-224.htm).

66 Si riporta il terzo comma dell’art. 50-quinquies del TUF. 67 Il riferimento è al comma 1 dell’art. 50-quinquies del TUF.

531 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

gestione di portali per la raccolta di capitali per le start-up innovative, per le PMI innovative, per gli organismi di investimento collettivo del rispar-mio e per le società di capitali che investono prevalentemente in start-up innovative e in PMI innovative, oltreché per le PMI nella forma di Società per Azioni;

d) possesso da parte di coloro che detengono il controllo e dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo dei requisiti di onorabilità stabiliti dalla Consob – ovvero, essenzialmente, «gli elementi previsti per le banche e le imprese di investimento, che consistono essen-zialmente nella piena disponibilità dei propri diritti;

e) possesso da parte dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo, di requisiti di professionalità stabiliti dalla Con-sob» 68.

Il venir meno dei requisiti di onorabilità 69 – sub d) – comporta la deca-denza dall’autorizzazione, a meno che tali requisiti non siano ricostituiti en-tro il termine massimo di due mesi, periodo durante il quale la piattaforma di equity crowdfunding non potrà pubblicare altre campagne e ci sarà la so-spensione di quelle in corso (che potrebbero essere chiuse nel caso in cui il gestore, entro i due mesi previsti, non ricostituisca tali requisiti, ma che – in ogni caso – potranno essere riproposte su di un altro portale 70).

Inoltre – sulla base del punto sub e) – i soggetti che intendo diventare ge-stori di portali di equity crowdfunding sono scelti secondo “criteri di profes-sionalità e competenza fra persone che hanno maturato una comprovata esperienza di almeno un biennio nell’esercizio di:

a) attività di amministrazione o di controllo ovvero compiti direttivi presso imprese;

b) attività professionali in materie attinenti al settore creditizio, finanziario, mobiliare, assicurativo;

c) attività d’insegnamento universitario in materie giuridiche o economiche; d) funzioni amministrative o dirigenziali presso enti privati, enti pubblici o

pubbliche amministrazioni aventi attinenza con il settore creditizio, finanzia-rio, mobiliare o assicurativo ovvero presso enti pubblici o pubbliche am-

68 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, cit., 22.

69 Si riporta quanto previsto dall’art. 10 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 70 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 23

ss.

532 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

ministrazioni che non hanno attinenza con i predetti settori purché le funzio-ni comportino la gestione di risorse economico-finanziarie” 71.

In aggiunta – secondo alcuni autori 72 – al fine di favorire la concorrenza tra gli operatori, «possono far parte dell’organo che svolge funzioni di am-ministrazione anche soggetti, in ruoli non esecutivi, che abbiano maturato una comprovata esperienza lavorativa di almeno un biennio nei settori in-dustriale, informatico o tecnicoscientifico, a elevato contenuto innovativo, o di insegnamento o ricerca nei medesimi settori, purché la maggioranza dei componenti possieda i requisiti» 73 di cui si è detto sopra. Per di più, “i sog-getti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso un gestore iscritto nel registro non possono assumere o esercitare analoghe cariche presso altre società che svolgono la stessa attività, a meno che tali società non appartengano al medesimo gruppo” 74. Dunque per chi ha ruoli chiave in una piattaforma è preclusa la possibilità di ricoprire gli stessi inca-richi in portali concorrenti.

Può ancora essere utile ribadire, come precedentemente accennato, che i soggetti iscritti nel registro tenuto dalla Consob non possono neanche “dete-nere somme di denaro o strumenti finanziari di pertinenza di terzi” 75 e sono soggetti a sanzioni 76 nel caso in cui non si attengono alle disposizioni previ-ste.

3.1.1.1. Domanda per diventare gestore di un portale di equity crowdfun-ding

Per essere inseriti all’interno del registro dei gestori di portali di equity crowdfunding è necessario presentare una domanda alla Consob 77. Tale do-manda, oltre a dover essere sottoscritta dal legale rappresentante della socie-tà, deve indicare “la denominazione sociale, la sede legale e la sede ammini-strativa della società, la sede della stabile organizzazione nel territorio della

71 Si è citato il comma 2 dall’art. 9 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 72 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 23

ss. 73 Si è citato il comma 2 dall’art. 9 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 74 Ibidem. 75 La citazione riprende parte del comma 4 dell’art. 50-quinquies del TUF. 76 Ulteriori informazioni in merito alle sanzioni ed ai provvedimenti cautelari possono ri-

trovarsi all’interno del Titolo IV del Regolamento Consob n. 18592/2013. 77 Si veda l’Allegato 1 al Regolamento Consob n. 18592/2013.

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Repubblica per i soggetti comunitari, l’indirizzo del sito Internet del portale, il nominativo e i recapiti di un referente della società” 78. È necessario alle-gare anche 79 copia dell’atto costitutivo e dello statuto societario, l’elenco dei soggetti che detengono il controllo della società ed il valore delle partecipa-zioni di ognuno di essi, la documentazione che attesti la verifica dei requisiti di onorabilità dei soggetti che detengono il controllo della società, i nomina-tivi dei soggetti che svolgono le funzioni di amministrazione direzione e controllo, il verbale della riunione nel corso della quale l’organo di ammini-strazione ha verificato il possesso dei requisiti di professionalità e di onora-bilità per ciascuno dei soggetti chiamati a svolgere funzioni di amministra-zione, direzione e la relazione sull’attività d’impresa. A tal proposito il ri-chiedente deve descrivere in maniera dettagliata le attività che intende svol-gere. In particolare, il gestore deve indicare le informazioni relative 80:

1. All’attività di impresa, fornendo le seguenti informazioni:

a) “Le modalità per la selezione delle offerte da presentare sul portale; b) L’attività di consulenza eventualmente prestata in favore delle start-up

innovative e delle PMI innovative in materia di analisi strategiche e valu-tazioni finanziarie, di strategia industriale e di questioni connesse;

c) Se intende pubblicare informazioni periodiche sui traguardi intermedi raggiunti dalle start-up innovative e dalle PMI innovative i cui strumenti finanziari sono offerti sul portale e/o report periodici sull’andamento delle medesime società;

d) Se intende predisporre eventuali meccanismi di valorizzazione periodica degli strumenti finanziari acquistati tramite il portale ovvero di rilevazione dei prezzi delle eventuali transazioni aventi ad oggetto tali strumenti fi-nanziari;

e) Se intende predisporre eventuali meccanismi atti a facilitare i flussi in-formativi tra la start-up innovativa o la PMI innovativa e gli investitori o tra gli investitori” 81;

f) La descrizione delle procedure interne finalizzate alla verifica, per ogni

78 La citazione fa riferimento alla parte A, al numero 1, dell’Allegato 1 al Regolamento Consob n. 18592/2013.

79 Il riferimento è il punto 2 della parte A dell’Allegato 1 al Regolamento Consob n. 18592/2013.

80 L’Allegato 2 che si riporta qui di seguito si riferisce all’50-quinquies, comma 5, lett. a) del TUF.

81 Si è citata la parte A dell’Allegato 2 al Regolamento Consob n. 18592/2013.

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ordine di adesione alle offerte ricevuto, che il cliente abbia il livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere le caratteristiche es-senziali e i rischi che l’investimento comporta, in particolare sul rischio di illiquidità, qualora intenda per ogni ordine di adesione alle offerte ricevu-to 82;

g) Altre eventuali attività;

2. Alla struttura organizzativa, fornendo in maniera dettagliata almeno le seguenti informazioni:

a) “Una descrizione della struttura aziendale (organigramma, funzionigram-ma ecc.) con l’indicazione dell’articolazione delle deleghe in essere all’in-terno dell’organizzazione aziendale e dei meccanismi di controllo predi-sposti nonché di ogni altro elemento utile ad illustrare le caratteristiche operative del gestore;

b) L’eventuale piano di assunzione del personale e il relativo stato di attua-zione, ovvero l’indicazione del personale in carico da impiegare per lo svolgimento dell’attività 83;

c) Le modalità, anche informatiche, per assicurare il rispetto degli obblighi previsti 84 [...];

d) I sistemi per gestire gli ordini raccolti dagli investitori ed in particolare per assicurare il rispetto delle condizioni previste 85 [...];

e) Le modalità per la trasmissione a banche e imprese di investimento degli ordini raccolti dagli investitori;

f) Una descrizione della infrastruttura informatica predisposta per la ricezio-ne e trasmissione degli ordini degli investitori (affidabilità del sistema, se-curity, integrity, privacy ecc.);

g) Il luogo e le modalità di conservazione della documentazione; h) La politica di identificazione e di gestione dei conflitti di interesse;

82 Oltre all’Allegato 2, i riferimenti – in questo caso – sono agli artt. 13 (al comma 5-bis) e 15 (al comma 2, lett. b) del Regolamento Consob n. 18592/2013.

83 La parte B dell’Allegato 2 al Regolamento Consob n. 18592/2013 ricorda anche che: “in tale sede, andrà altresì specificata l’eventuale presenza di dipendenti o collaboratori che abbiano svolto attività professionali o attività accademiche o di ricerca certificata presso Università e/o istituti di ricerca, pubblici o privati, in Italia o all’estero, in materie attinenti ai settori della finanza aziendale e/o dell’economia aziendale e/o del diritto societario e/o mar-keting e/o nuove tecnologie e/o in materie tecnico-scientifiche, con indicazione dei relativi ruoli e funzioni svolti all’interno dell’organizzazione aziendale”.

84 Il riferimento è agli artt. 13, 14, 15 e 16 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 85 Ai sensi dell’art. 17, comma 1 del Regolamento Consob n. 18592/2013.

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i) La politica per la prevenzione delle frodi e per la tutela della privacy; j) L’eventuale affidamento a terzi:

• Della strategia di selezione delle offerte da presentare sul portale, speci-ficando l’ampiezza e il contenuto dell’incarico;

• Di altre attività o servizi; • In particolare, andranno specificate le attività affidate, i soggetti incarica-

ti, il contenuto degli incarichi conferiti e le misure per assicurare il con-trollo sulle attività affidate e per mitigarne i rischi connessi;

k) L’eventuale presenza di incarichi di selezione delle offerte ricevuti da al-tri gestori, indicando l’ampiezza e il contenuto degli stessi;

l) La struttura delle commissioni per i servizi offerti dal gestore” 86.

3.1.2. Informazioni che i gestori dei portali di equity crowdfunding devo-no fornire

I gestori dei portali di equity crowdfunding devono divulgare e diffondere vari tipi di informazioni. Innanzitutto è necessario fornire ai potenziali investito-ri informazioni riguardanti le aziende che offrono i propri capitali sui portali. In tal senso, infatti, è stato sancito che le start-up innovative e le PMI innovative, relativamente alle loro offerte, devono produrre una documentazione – plasmata su un apposito modello standard previsto dalla Consob – che racchiuda, fra le altre cose, il business plan dell’offerente, il curriculum vitae dei promotori, i ri-schi specifici dell’offerta, l’informativa contabile e così via 87. Si tratta di una documentazione che ricorda quella da presentare agli organi di Borsa Italiana in fase di IPO (Offerta Pubblica Iniziale) e che, ancora una volta, sottolinea come l’equity crowdfunding possa rappresentare un primo passo verso la quotazione in borsa. Tuttavia 88 “le informazioni sull’offerta non sono sottoposte ad appro-vazione da parte della Consob” 89: ciò semplifica notevolmente la redazione ed i costi per la stesura di tale documentazione. Giova ancora sottolineare che per rendere le campagne più accattivanti è consentito ricorrere «a strumenti multi-mediali tramite immagini, video e pitch: [...] si tratta di presentazioni che de-scrivono la società, la sua idea di business, i soci fondatori e i piani di sviluppo che intendono implementare» 90.

86 Si è citata la parte B dell’Allegato 2 al Regolamento Consob n. 18592/2013. 87 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, 15 ss. 88 Si veda l’Allegato n. 3 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 89 La citazione fa riferimento all’Allegato n. 3 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 90 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, cit., 15.

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In particolar modo vi sono tre tipologie di informazioni che i gestori dei portali devono divulgare:

1. Informazioni relative al gestore stesso, ivi compresi i recapiti telefoni-ci e di posta elettronica, in merito:

a) “ai soggetti che detengono il controllo ovvero, in mancanza, ai soggetti che detengono partecipazioni almeno pari al venti per cento del capitale sociale;

b) ai soggetti aventi funzioni di amministrazione, direzione e controllo; c) alle attività svolte, ivi incluse le modalità di selezione delle offerte o

l’eventuale affidamento di tale attività a terzi; d) alla data di inizio, interruzione o riavvio dell’attività; e) alle modalità per la gestione degli ordini relativi agli strumenti finanziari

offerti tramite il portale, specificando se il gestore procede direttamente al-la verifica di cui all’articolo 13, comma 5-bis o se vi procedono le banche e le imprese di investimento ai sensi dell’articolo 17, comma 328;

f) agli eventuali costi a carico degli investitori; g) alle misure predisposte per ridurre e gestire i rischi di frode; h) alle misure predisposte per assicurare il corretto trattamento dei dati per-

sonali e delle informazioni ricevute dagli investitori ai sensi del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e successive modifiche;

i) alle misure predisposte per gestire i conflitti di interessi; j) alle misure predisposte per la trattazione dei reclami e l’indicazione

dell’indirizzo cui trasmettere tali reclami; k) ai meccanismi previsti per la risoluzione stragiudiziale delle controversie; l) ai dati aggregati sulle offerte svolte attraverso il portale e sui rispettivi esi-

ti; m) alla normativa di riferimento, all’indicazione del collegamento iperte-

stuale al registro nonché alla sezione di investor education del sito Internet della Consob e alla apposita sezione speciale del Registro delle Imprese prevista all’articolo 25, comma 8, del d.l. n. 179/2012;

n) agli estremi degli eventuali provvedimenti sanzionatori e cautelari adottati dalla Consob;

o) alle iniziative, che il gestore si riserva di adottare nei confronti degli emit-tenti in caso di inosservanza delle regole di funzionamento del portale; in caso di mancata predisposizione, l’indicazione che non sussistono tali ini-ziative” 91;

91 Così viene sancito dall’art. 14 del Regolamento Consob n. 18592/2013.

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2. Informazioni relative all’investimento in strumenti finanziari tramite portali, riguardanti almeno:

a) “il rischio di perdita dell’intero capitale investito; b) il rischio di illiquidità; c) il divieto di distribuzione di utili previsto per le start-up innovative 92 [...]; d) il trattamento fiscale di tali investimenti (con particolare riguardo alla

temporaneità dei benefici ed alle ipotesi di decadenza dagli stessi); e) per le start-up innovative le deroghe al diritto societario 93 [...] nonché al

diritto fallimentare 94 [...]; f) per le PMI innovative le deroghe al diritto societario 95 [...]; g) i contenuti tipici di un business plan e del regolamento o statuto di un

OICR” 96; h) il diritto di recesso che il gestore assicura agli investitori diversi dagli in-

vestitori professionali (ossia quelli retail) per poter, appunto, recedere dal-l’ordine di adesione, senza alcuna spesa, tramite comunicazione rivolta al gestore medesimo, entro sette giorni decorrenti dalla data dell’ordine 97;

3. Informazioni relative alle singole offerte, fornite anche in modalità multimediale, in merito a 98:

a) le informazioni della singola offerta ed i relativi aggiornamenti forniti dal-l’offerente, anche in caso di significative variazioni intervenute o errori materiali rilevati nel corso dell’offerta, portando contestualmente ogni ag-giornamento a conoscenza dei soggetti che hanno aderito all’offerta – os-sia, nello specifico:

i) descrizione dei rischi specifici dell’offerente e dell’offerta, ovvero: ◦ per le start-up innovative e PMI innovative: la descrizione del progetto

industriale e l’informativa contabile, oltreché la descrizione delle clau-sole predisposte dalle start-up innovative o dalle PMI innovative con riferimento alle ipotesi in cui i soci di controllo cedano le proprie par-

92 Si veda l’art. 25 del d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012. 93 Si veda l’art. 26 del d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012. 94 Si veda l’art. 31 del d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012. 95 Si veda l’art. 26 del d.l. n. 179 del 18 ottobre 2012. 96 Si è citato il primo comma dell’art. 15 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 97 Si veda l’Allegato 3 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 98 Si riporta l’art. 16 del Regolamento Consob n. 18592/2013 e l’Allegato 3 al Regola-

mento Consob n. 18592/2013.

538 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

tecipazioni a terzi successivamente all’offerta (come, ad esempio, le modalità per la way out dall’investimento, presenza di eventuali patti di riacquisto, eventuali clausole di lock up e put option a favore degli investitori e così via) con indicazione della durata delle medesime 99;

◦ per gli OICR che investono prevalentemente in start-up innovative e in PMI innovative: il collegamento ipertestuale al regolamento o statuto e alla relazione semestrale dell’OICR e al documento di offerta conte-nente le informazioni messe a disposizione degli investitori;

◦ per le società che investono prevalentemente in start-up innovative e in PMI innovative: la politica di investimento e l’indicazione delle società nelle quali detengono partecipazioni con indicazione del collegamento ipertestuale ai rispettivi siti Internet, oltreché la descrizione degli orga-ni sociali e del curriculum vitae degli amministratori;

◦ descrizione degli strumenti finanziari oggetto dell’offerta, della percen-tuale che essi rappresentano rispetto al capitale sociale dell’offerente, dei diritti amministrativi e patrimoniali ad essi connessi e delle relative modalità di esercizio;

ii) condizioni generali dell’offerta, ivi inclusa l’indicazione dei destinatari, di eventuali clausole di efficacia e di revocabilità delle adesioni;

iii) informazioni sulla quota eventualmente già sottoscritta da parte degli investitori professionali o delle altre categorie di investitori 100, con indi-cazione della relativa identità di questi ultimi;

iv) indicazione di eventuali costi o commissioni posti a carico dell’inve-stitore, ivi incluse le eventuali spese per la successiva trasmissione degli ordini a banche e imprese di investimento;

v) indicazione di ogni corrispettivo, spesa o onere gravante sul sottoscrittore in relazione all’eventuale regime alternativo di trasferimento delle quote 101;

vi) descrizione delle modalità di calcolo della quota riservata agli investi-tori professionali o alle altre categorie di investitori 102, nonché delle mo-dalità e della tempistica di pubblicazione delle informazioni sullo stato delle adesioni all’offerta;

vii) indicazione delle banche e delle imprese di investimento cui saranno trasmessi gli ordini di sottoscrizione degli strumenti finanziari oggetto del-l’offerta e descrizione delle modalità e della tempistica per l’esecuzione

99 Questo nel rispetto dell’art. 24 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 100 In base a quanto stabilito dall’art. 24 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 101 Sulla base di quanto previsto all’art. 100-ter, comma 2-bis del TUF. 102 Categorie previste dall’art. 24 del Regolamento Consob n. 18592/2013.

539 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

dei medesimi, nonché della sussistenza di eventuali conflitti di interesse in capo a tali banche e imprese di investimento;

viii) informazioni in merito al conto indisponibile acceso presso una banca o un’impresa di investimento 103 ed alla data di effettivo addebito dei fondi sui conti dei sottoscrittori;

ix) informazioni in merito alle modalità di restituzione dei fondi nei casi di legittimo esercizio dei diritti di recesso o di revoca, nonché nel caso di mancato perfezionamento dell’offerta;

x) termini e condizioni per il pagamento e l’assegnazione/consegna degli strumenti finanziari sottoscritti;

xi) informazioni sui conflitti di interesse connessi all’offerta, ivi inclusi quelli derivanti dai rapporti intercorrenti tra l’offerente e il gestore del portale, coloro che ne detengono il controllo, i soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione e controllo nonché gli investitori professionali o le altre categorie di investitori 104, che hanno eventual-mente già sottoscritto la quota degli strumenti finanziari ad essi riservata;

xii) informazioni sullo svolgimento da parte dell’offerente di offerte aventi il medesimo oggetto su altri portali;

xiii) la legge applicabile e il foro competente; xiv) la lingua o le lingue in cui sono comunicate le informazioni relative

all’offerta.

b) “gli elementi identificativi delle banche o delle imprese di investimento che curano il perfezionamento degli ordini nonché gli estremi identificativi del conto 105;

c) le modalità di esercizio del diritto di revoca 106; d) la periodicità e le modalità con cui verranno fornite le informazioni sullo

stato delle adesioni, l’ammontare sottoscritto e il numero di aderenti; e) l’indicazione dell’eventuale regime alternativo di trasferimento delle quo-

te rappresentative del capitale di start-up innovative e di PMI innovative costituite in forma di società a responsabilità limitata 107 e le relative moda-lità per esercitare l’opzione di scelta del regime da applicare” 108.

103 Ai sensi dell’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013. Per maggiori informa-zioni si legga la sezione dedicata alla gestione degli ordini.

104 Sulla base di quanto stabilito dall’art. 24 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 105 Si veda l’art. 17, comma 6 del d.l., n. 179 del 18 ottobre 2012. 106 Si veda l’art. 25, comma 2 del d.l., n. 179 del 18 ottobre 2012. 107 Ai sensi previsto dell’art. 100-ter, comma 2-bis del TUF. 108 Si è citato l’art. 16 del Regolamento Consob n. 18592/2013.

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3.1.3. Obblighi dei gestori dei portali di equity crowdfunding

In merito agli obblighi 109 in capo ai gestori di piattaforme di equity crowdfunding, bisogna anzitutto ricordare che il gestore deve operare “con diligenza, correttezza e trasparenza evitando che gli eventuali conflitti di in-teresse che potrebbero insorgere nello svolgimento dell’attività di gestione di portali incidano negativamente sugli interessi degli investitori e degli emittenti e assicurando la parità di trattamento dei destinatari delle offerte che si trovino in identiche condizioni” 110. Deve altresì rendere “disponibili agli investitori, in maniera dettagliata, corretta, chiara, non fuorviante e sen-za omissioni, tutte le informazioni riguardanti l’offerta che sono fornite dall’offerente affinché gli stessi possano ragionevolmente e compiutamente comprendere la natura dell’investimento, il tipo di strumenti finanziari offer-ti e i rischi ad essi connessi e prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole” 111. Ma non solo. Infatti, il gestore deve richiamare “l’attenzione degli investitori diversi dagli investitori professionali sull’op-portunità che gli investimenti in attività finanziaria ad alto rischio siano ade-guatamente rapportati alle proprie disponibilità finanziarie” 112 e non deve diffondere “notizie che siano non coerenti con le informazioni pubblicate sul portale e si astiene dal formulare raccomandazioni riguardanti gli strumenti finanziari oggetto delle singole offerte atte ad influenzare l’andamento delle adesioni alle medesime” 113. Inoltre è fondamentale che il gestore assicuri che le informazioni fornite tramite il proprio portale “siano aggiornate, ac-cessibili almeno per i dodici mesi successivi alla chiusura delle offerte e rese disponibili agli interessati che ne facciano richiesta per un periodo di cinque anni dalla data di chiusura dell’offerta” 114.

Particolare tutela deve poi essere garantita dai gestori agli investitori re-tail (ovvero quelli non professionali), sia tramite la comunicazione del-l’esistenza di eventuali patti parasociali all’interno della società che richiede un finanziamento tramite il portale di equity crowdfunding, sia attraverso il cd. “diritto di ripensamento” 115, ovvero il «diritto di recedere dall’ordine di

109 Si vedano nello specifico i commi 2 e 3 dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013.

110 Si è citato il comma 1 dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 111 Si è citato il comma 2 dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 112 Si è citato il comma 3 dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 113 Ibidem. 114 Si è citato il comma 4 dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 115 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, 17 ss.

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adesione, senza alcuna spesa, tramite comunicazione rivolta al gestore me-desimo, entro sette giorni decorrenti dalla data dell’ordine» 116. In questo modo viene garantita la possibilità di exit dall’investimento e la tutela della posizione di minoranza all’interno della società da finanziarsi. In aggiunta, proprio a tutela degli investitori retail, vi è l’obbligo, per il gestore del porta-le, di far «effettuare un “percorso di investimento consapevole” da cui risulti la presa visione delle informazioni e la comprensione delle caratteristiche e dei rischi dell’investimento» 117 agli investitori prima della possibilità di sot-toscrizione di un ordine sulla propria piattaforma.

Il gestore deve poi verificare, per ogni singolo ordine di adesione alle of-ferte, che il “cliente abbia il livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere le caratteristiche essenziali e i rischi che l’investimento comporta” 118, in particolar modo sul rischio di illiquidità.

Altri obblighi, infine, riguardano la gestione degli ordini di adesione de-gli investitori 119, la tutela degli investitori connessa ai rischi operativi 120 e la riservatezza 121 nei confronti degli investitori relativamente alle informazioni acquisite. Inoltre è molto importante che il gestore comunichi alla Consob eventuali cambiamenti che intervengono al suo interno 122.

3.1.4. La gestione degli ordini di adesione degli investitori da parte dei ge-stori di portali di equity crowdfunding

Il gestore di portali di equity crowdfunding deve adottare delle misure 123 volte ad assicurare che gli ordini di adesione alle offerte ricevuti dagli inve-stitori: vengano trattati in maniera rapida, corretta ed efficiente, siano regi-strati in modo pronto e accurato e vengano trasmessi – indicando gli estremi identificativi di ciascun investitore – sulla base della sequenza temporale con la quale sono stati ricevuti.

Da un punto di vista operativo, l’aspetto più interessante relativo alle sin-

116 Si è citato il comma 5 dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 117 CONSOB-CNDCEC, L’equity-crowdfunding. Analisi sintetica della normativa e aspetti

operativi, 15 ss. 118 Si è citato parte del comma 5-bis dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 119 Si veda l’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 120 Si veda l’art. 18 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 121 Si veda l’art. 19 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 122 Il riferimento è l’art. 21 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 123 Il riferimento è il primo comma dell’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013.

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gole campagne di equity crowdfunding, è che il gestore del portale, una volta che avrà recepito la volontà dell’investitore a finanziare una società sulla sua piattaforma, dovrà «trasmettere l’ordine di adesione a una banca o una im-presa di investimento, che provvederà a perfezionare la sottoscrizione» 124 delle azioni/quote di tale società, raccogliendo – in genere, al decorrere di sette giorni, ossia alla fine del periodo legato al diritto di ripensamento – «le somme corrispondenti in un conto indisponibile a favore dell’emittente» 125. Quindi, il perfezionamento 126 degli ordini non avviene materialmente sulla piattaforma di equity crowdfunding, bensì in un sistema gestito da una banca o un’impresa di investimento. Tuttavia è il gestore del portale che ha il com-pito di assicurare che, per ciascuna offerta, “la provvista necessaria al perfe-zionamento degli ordini sia costituita nel conto indisponibile destinato all’offerente acceso presso le banche e le imprese di investimento a cui sono trasmessi gli ordini” 127. A tal fine è necessario che il gestore comunichi alla banca o all’impresa di investimento, presso la quale è versata la provvista, le informazioni relative al perfezionamento dell’offerta 128.

Le banche e le imprese di investimento che ricevono gli ordini operano nei confronti degli investitori nel rispetto delle disposizioni applicabili con-tenute nella Parte II del TUF, qualora ricorrano le seguenti condizioni 129:

a) Gli ordini impartiti dalle persone fisiche e il relativo controvalore sia su-periore a € 500,00 per singolo ordine e a € 1.000,00 considerando gli ordi-ni complessivi annuali;

b) Gli ordini siano impartiti da persone giuridiche e il relativo controvalore sia superiore a € 5.000,00 per singolo ordine e a € 10.000,00 considerando gli ordini complessivi annuali.

Tuttavia tali previsioni non si applicano 130, qualora il gestore verifichi di-rettamente, per ogni singolo ordine di adesione alle offerte che riceve, che “il cliente abbia il livello di esperienza e conoscenza necessario per com-prendere le caratteristiche essenziali e i rischi che l’investimento compor-

124 R. DE LUCA, Il crowdfunding: quadro normativo, aspetti operativi e opportunità, cit., 16. 125 Ibidem. 126 Il riferimento è il comma 2 dell’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 127 Si è citato parte del comma 6 dell’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 128 I riferimenti sono gli artt. 17 (al comma 6) e 25 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 129 Il riferimento è il terzo comma dell’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 130 I riferimenti sono gli artt. 13 (al comma 5-bis) e 17 (al comma 4) del Regolamento

Consob n. 18592/2013.

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ta” 131, in particolar modo sul rischio di illiquidità. Qualora il gestore ritenga che lo strumento non sia appropriato per il cliente deve prontamente avver-tirlo di tale situazione, anche attraverso sistemi di posta elettronica 132. Al contrario, è necessario che il gestore che non effettua direttamente tale veri-fica proposta, acquisisca “dall’investitore, con modalità che ne consentano la conservazione, un’attestazione con la quale lo stesso dichiara di non aver superato, nell’anno solare di riferimento, le soglie” 133 di cui si è detto sopra e rilevano sia gli importi che l’investitore ha investito sul portale gestito dal gestore sia quelli investiti attraverso altre piattaforme equity-based 134.

3.2. I gestori dei portali di reward crowdfunding nella pratica Per i gestori di portali di reward crowdfunding 135 rileva in particolar mo-

do l’applicazione o meno della Direttiva 2007/64/CE, nota come Payment Service Directive (PSD) 136.

Da un lato, infatti, il gestore della piattaforma potrebbe non entrare in possesso delle somme versate, offrendo unicamente uno strumento (il porta-le di crowdfunding) sul quale finanziatori e progettisti si incontrano e, rispet-tivamente, offrono denaro e propongono idee all’interno di campagne di crowdfunding. In questo caso il pagamento non avviene tramite la piattafor-ma, ma attraverso un servizio ausiliario (come, ad esempio, PayPal). Pertan-to, in questa prima interpretazione, il gestore del portale non rientrerebbe nell’attività descritte dalla PSD.

Dall’altro lato, invece, qualora il gestore del portale trattenesse le somme versate per un certo periodo di tempo (coincidente con il periodo di durata di una campagna) per poi erogarle nel caso in cui la campagna di crowdfunding abbia successo ovvero restituirle ai finanziatori in caso di insuccesso, si do-vrebbe parlare di “servizio di pagamento” ai sensi della PSD. Tuttavia esi-stono delle eccezioni basate su alcune casistiche che prevedono l’esclusione dell’applicabilità della PSD a determinati ambiti e, dunque, qualora fossero applicabili anche in questa particolare circostanza, si prefigurerebbe una non

131 Si è citato parte del comma 5-bis dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 132 Il riferimento è il comma 5-bis dell’art. 13 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 133 Si è citato parte del comma 5 dell’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 134 Il riferimento è il quinto comma dell’art. 17 del Regolamento Consob n. 18592/2013. 135 Tali riflessioni sono state riadattate sulla base di U. PIATTELLI, Il Crowdfunding in Ita-

lia. Una regolamentazione all’avanguardia o un’occasione mancata?, 41 ss. 136 Si segnala che a seguito della PSD1 è stata recentemente introdotta la PSD2.

544 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

applicabilità della disciplina dettata dalla PSD ai gestori di portali di reward crowdfunding.

3.3. I gestori dei portali di social lending nella pratica I gestori di portali di crowdfunding nella forma di social lending sono co-

loro che coordinano, amministrano e organizzano piattaforme 137:

a) Rappresentati il luogo d’incontro tra finanziatori e richiedenti il prestito; b) Sulle quali avviene il “matching”, ossia l’abbinamento, tra domande ed

offerte di prestiti (a volte senza creare un legame diretto tra prestatore e mutuatario).

Oltre a queste attività 138, di solito, i gestori si occupano anche del recupe-ro crediti e – ovviamente – dell’organizzazione dei flussi di pagamento.

È d’obbligo, poi, sottolineare che, ad oggi, mancando un intervento del legislatore italiano volto ad eliminare ogni dubbio, la disciplina da applicare ai gestori di portali di social lending non è univoca, anche perché i vari ge-stori di tali piattaforme (e dei portali collegati) sono identificati in modo dif-ferente nell’ordinamento italiano sulla base della loro attività o di quella del-la società che li controlla. Per tale ragione, secondo alcuni autori 139, la di-sciplina dei gestori di portali di social lending che, in ogni caso è riferibile al Testo Unico Bancario 140 (TUB), potrebbe riguardare:

• Concessione di finanziamenti (art. 106 del TUB) sotto qualsiasi forma, at-tività riservata agli intermediari finanziari autorizzati, iscritti in un apposi-to albo tenuto dalla Banca d’Italia;

• Microcredito (art. 111 del TUB) sia per l’attività di impresa (con importo massimo pari a € 25.000,00) sia per scopi sociali a favore di singole per-sone fisiche (con importo massimo pari a € 10.000,00) in deroga alle di-sposizione del primo comma dell’art. 106 del TUB;

137 Tali riflessioni sono state riadattate sulla base di U. PIATTELLI, Il Crowdfunding in Ita-lia. Una regolamentazione all’avanguardia o un’occasione mancata?, 33 ss.

138 Ibidem. 139 Per un approfondimento sul tema si invita alla consultazione del capitolo quinto di U.

PIATTELLI, Il Crowdfunding in Italia. Una regolamentazione all’avanguardia o un’occa-sione mancata?.

140 Il Testo Unico Bancario corrisponde al d.lgs. n. 385 del 1° settembre 1993 e riguarda le leggi in materia bancaria e creditizia. Gli articoli di maggior interesse per il crowdfunding sono l’art. 106 a 172, l’art. 111 a l’art. 114-sexies.

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• Istituti di pagamento (art. 114-sexies del TUB) autorizzati ai sensi del d. lgs. n. 11 del 2010 – attuativo della Direttiva 2007/64/CE, nota come Payment Service Directive (PSD) – alla prestazione di servizi di pagamento.

Anche per il social lending, dunque, vi sono numerose incertezze sull’in-quadramento dei gestori dei singoli portali.

4. Conclusioni

Attualmente lo stato dell’arte della normativa del crowdfunding in Italia risulta diviso in due filoni: quello dell’equity-based crowdfunding e quello degli altri modelli.

L’equity è un settore estremamente regolamentato e ricco di vincoli, al punto che – spesso – si trasforma in uno strumento di difficile accesso alla vera “folla” di Internet. I dati delle ricerche 141 più recenti sul crowdfunding parrebbero dimostrare questa tesi. Infatti, nel 2015, il crowdfunding italiano – nel suo complesso – valeva all’incirca 56 milioni di Euro e di questi solo 1,6 milioni di Euro erano imputabili al modello equity.

Al contrario, il secondo filone normativo, ossia quello per le tipologie di crowdfunding non equity, presenta una maggiore libertà operativa, che – pe-rò – talvolta genera un po’ di confusione e di incertezza. Si consideri, ad esempio, il caso del reward crowdfunding che – sulla base della letteratura esistente – parrebbe essere riferibile a differenti istituti giuridici. O, ancora, si pensi al royalty crowdfunding che gli stessi operatori del settore defini-scono come uno strumento ben chiaro a livello teorico, ma piuttosto difficile da definire e inquadrare a livello pratico.

Alla luce di tutti gli elementi analizzati, potrebbe – dunque – rivelarsi es-senziale riflettere sui seguenti punti per consentire un processo di sviluppo del crowdfunding in Italia:

a) In generale ci vorrebbe un’attenzione maggiore delle Istituzioni e magari anche dei media su tale fenomeno, in quanto risulta ancora poco conosciu-to in Italia;

b) Per l’equity crowdfunding bisognerebbe cercare di incentivare ulterior-mente l’investimento (soprattutto dei piccoli risparmiatori), cercando – pe-

141 I. PAIS (coordinatrice), Il Crowdfunding in Italia. Report 2015, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, 2015 sviluppato con il supporto della piattaforma di crowdfun-ding di Telecom Italia (WithYouWeDo) e del portale Starteed.

546 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

rò – di mantenere elevata la tutela degli investitori retail ed in questo i por-tali autorizzati giocano un ruolo chiave;

c) Per il donation, il reward, il royalt ed il social lending crowdfunding po-trebbe essere d’estrema utilità l’apertura di un tavolo di confronto tra i vari player del settore nell’ottica di dare un orientamento più chiaro ai consu-matori, ai gestori stessi e, magari, anche alle Istituzioni.

In conclusione, quindi, il crowdfunding è un settore relativamente giova-ne in Italia nel quale restano aperte ancora molte opportunità e altrettanti ri-schi. Ma se il “finanziamento della folla” sarà ben amalgamato all’interno del sistema economico del Paese, ci sono tutte le chance affinché diventi una fonte di finanziamento da affiancarsi a quelle classiche: autofinanziamento, borse valori e banche.

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Le vendite dei complessi aziendali nelle procedure concorsuali L.M. Quattrocchio-B.M. Omegna-A. Avataneo

SOMMARIO

1. Introduzione. – 2. Il trasferimento d’azienda e la sua disciplina civilistica. – 2.1. Premessa. – 2.1.1. L’ambito d applicazione. Le nozioni di azienda e di ramo d’azienda. – 2.1.2. Dispo-sizioni normative in tema di “trasferimento di personale”. – 2.2. Nozione di azienda. – 2.3. Gli elementi costitutivi dell’azienda. – 2.4. La circolazione dell’azienda. Profili di carattere generale. – 2.5. Il trasferimento d’azienda. – 2.5.1. Aspetti generali. – 2.5.2. Il divieto di concorrenza. – 2.5.3. La successione nei contratti. – 2.5.3.1. Disciplina generale. – 2.5.3.2. Il contratto di locazione. – 2.5.4. La successione nei crediti e nei debiti. – 2.5.4.1. La sorte dei crediti. – 2.5.4.2. La sorte dei debiti. – 2.6. I segni distintivi. – 2.7. L’affitto e l’usufrutto d’azienda. – 2.7.1. La disciplina. – 2.7.2. La cessazione del contratto d’affitto. – 2.7.2.1. Premessa. – 2.7.2.2. Il dato normativo. – 2.7.2.3. Le cause di cessazione del contratto. – 2.7.2.4. L’individuazione dei beni oggetto di retrocessione. – 2.7.2.5. Segue: l’avviamento. – 2.7.2.6. La valutazione dei beni oggetto di retrocessione. – 2.7.2.7. La determinazione delle differenze d’inventario. – 2.7.2.8. Il risarcimento dei danni. – 2.7.2.9. La disciplina del divie-to di concorrenza. – 2.7.2.10. Gli effetti della cessazione sui rapporti di lavoro. – 2.8. Il se-questro e il pegno d’azienda. – 2.9. La successione e l’azienda. – 3. Il trasferimento d’azienda nel fallimento. – 3.1. Premessa. – 3.2. Il programma di liquidazione. – 3.3. L’esercizio provvisorio, l’affitto d’azienda o di singoli rami. – 3.3.1. L’esercizio provvisorio. – 3.3.2. L’affitto dell’azienda o di singoli rami. – 3.4. La cessione dei beni fallimentari. – 3.4.1. Il subentro del curatore nelle procedure esecutive. – 4.2. La vendita dei beni. – 3.4.3. Le modalità competitive. – 3.4.4. Il potere di sospensione. – 3.5. La vendita dell’azienda o di singoli rami. – 3.6. La cessione di partecipazioni. – 4. Il trasferimento d’azienda nel concor-dato con continuità aziendale. – 4.1. Individuazione della fattispecie. – 4.2. La continuità aziendale indiretta. – 4.3. Gli strumenti di monitoraggio. – 4.4. Gli strumenti di reazione. – 4.5. Il tema dell’affitto-ponte. – 5. I profili penali nel trasferimento d’azienda. – 5.1. La posi-zione della giurisprudenza. – 6. I metodi di valutazione dell’azienda nell’ambito delle proce-dure concorsuali (in continuità). – 6.1. Individuazione dei metodi di valutazione dell’a-zienda. – 6.1.1. Breve disamina dei metodi valutativi. – 6.1.2. Il metodo patrimoniale sem-plice. – 6.1.3. Il metodo patrimoniale complesso. – 6.1.4. Il metodo reddituale. – 6.1.5. Il metodo misto con stima autonoma dell’avviamento. – 6.1.6. Il metodo misto con valutazione controllata delle immobilizzazioni. – 6.1.7. Il metodo misto EVA. – 6.1.8. Il metodo Di-scounted Cash Flow. – 6.1.9. I metodi dei multipli. – 6.2. La valutazione delle aziende in esercizio. – 6.3. La valutazione del canone d’affitto d’azienda. – 6.3.1. Considerazioni teori-che. – 6.3.2. La prassi applicativa.

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1. Introduzione

Un sistema, nel suo significato più generico, è un insieme di elementi o sottosistemi interconnessi tra di loro o con l’ambiente esterno tramite reci-proche relazioni, ma che si comporta come un tutt’uno, secondo proprie re-gole generali. Più in particolare, può essere definito come l’unità fisica e funzionale, costituita da più parti o sottosistemi interagenti (od in relazione funzionale) tra loro (e con altri sistemi), formando un’entità unitaria, in cui ogni parte dà il proprio contributo per una finalità comune od un obiettivo identificativo di quel sistema 1.

La caratteristica di un sistema è l’equilibrio complessivo che si crea fra le singole parti che lo costituiscono; tuttavia, l’equilibrio diventa instabile nel caso in cui il sistema appartenga alla categoria dei sistemi complessi.

In fisica un sistema complesso è un sistema in cui le singole parti sono interessate da interazioni locali, che provocano cambiamenti nella struttura complessiva. Maggiore è la quantità e la varietà delle relazioni fra gli ele-menti di un sistema, maggiore è la sua complessità 2.

Un’altra caratteristica di un sistema complesso è che può produrre un comportamento emergente, cioè un comportamento complesso non prevedi-bile e non desumibile dalla semplice sommatoria degli elementi che lo com-pongono.

Il comportamento emergente è la situazione nella quale un sistema esibi-sce proprietà inspiegabili sulla base delle leggi che governano le sue compo-nenti prese singolarmente 3.

Un comportamento emergente o proprietà emergente può comparire quan-do un numero di entità semplici (agenti) operano in un ambiente, dando origi-ne a comportamenti più complessi in quanto collettività. La proprietà stessa non è predicibile e non ha precedenti, e rappresenta un nuovo livello di evo-luzione del sistema.

Infatti, come affermato Philip Warren Anderson, premio Nobel per la fisica nel 1977, «More is different». L’insieme è, spesso, più della somma delle sue parti; ciò perché presenta, normalmente, proprietà che non sono la semplice somma delle proprietà delle sue parti: presenta cioè proprietà emergenti, diffi-cilmente prevedibili studiando le sue singole componenti. Egli, più in partico-

1 Wikipedia, voce “Sistema”. 2 Wikipedia, voce “Sistema complesso”. 3 Wikipedia, voce “Comportamento emergente”.

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lare, osserva: «Prendete una molecola di questo comunissimo liquido (n.d.r. l’acqua). In essa non c’è nulla di particolarmente complicato. C’è un grosso atomo, l’ossigeno, legato a due piccoli atomi di idrogeno. Il comportamento di una molecola d’acqua è descritto (con qualche difficoltà di carattere prati-co) da note equazioni della meccanica quantistica. Ma mettiamo insieme mi-liardi e miliardi di molecole di acqua in un recipiente, a temperatura e pres-sione ambiente. Vedremo questo collettivo di molecole che inizia a gorgoglia-re, a gocciolare, a luccicare. Le molecole hanno acquistato una proprietà col-lettiva: sono diventate un liquido. Nessuna di esse, presa singolarmente, può essere definita una molecola liquida. Lo stato liquido – conclude Anderson – è una proprietà emergente. Una proprietà che è sola dell’insieme di molecole».

Il biologo Herbert Simon ha proposto che devono essere considerate emergenti quelle caratteristiche dei sistemi nel loro insieme che «non posso-no (nemmeno in teoria) essere dedotte dalla più completa conoscenza delle componenti, prese separatamente o in altre combinazioni parziali».

L’azienda, di cui si avrà modo di parlare diffusamente, è un sistema complesso con proprietà emergenti: come vedremo, infatti, l’azienda è qual-cosa di più delle singole parti che la compongono ed in quanto tale è un si-stema. Inoltre, possiede proprietà emergenti, che la rendono un sistema complesso; come è noto, le proprietà emergenti possono essere racchiuse nell’unitaria nozione di avviamento (v. infra).

2. Il trasferimento d’azienda e la sua disciplina civilistica

2.1. Premessa

2.1.1. L’ambito d applicazione. Le nozioni di azienda e di ramo d’azienda

Per azienda – sebbene tale locuzione sia impropriamente utilizzata, anche in ambito professionale, come sinonimo di impresa o società – si intende il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività di impresa, sia individuale sia collettiva: è uno strumento dell’imprenditore, suscettibile di autonoma valorizzazione e circolazione, nel quale normal-mente si configura un quid pluris rispetto agli elementi che lo compongono, dato dall’organizzazione e qualificato tecnicamente come “avviamento”.

La disciplina giuridica dell’azienda è stata introdotta dal Codice Civile del 1942 e non ha formato oggetto di alcuna rilevante innovazione legislati-va sino ad oggi. Una recentissima Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha stabilito che l’azienda deve essere considerata come un be-

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ne distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente pos-seduto e – se concorrono gli elementi indicati dalla legge – usucapito 4.

La disciplina dell’azienda si applica ad ogni forma di impresa, a prescindere dal tipo di attività svolta (commerciale, agricola, artigiana o – qualora ritenuta ammissibile – civile). Non può essere invece applicata al complesso di beni or-ganizzato dal professionista per lo svolgimento della propria attività, in quanto non sussiste uno dei requisiti per la configurazione di un’azienda, ossia l’attività di impresa.

L’azienda, in quanto complesso di beni organizzato, può formare oggetto di autonomo trasferimento.

Come precisato dalla giurisprudenza, è possibile affermare di essere di fronte ad ipotesi di trasferimento d’azienda « … ogni qual volta venga cedu-to un insieme di elementi costituenti un complesso organico e funzionalmen-te adeguati a conseguire lo scopo in vista del quale il loro coordinamento è stato posto in essere, essendo necessario e sufficiente che sia stata ceduta un’entità economica ancora esistente, la cui gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa dal nuovo titolare con le stesse o analoghe attività eco-nomiche [...]» 5; la giurisprudenza ha, inoltre, aggiunto « … che la nozione di trasferimento di azienda rilevante ai fini dell’art. 2112 c.c. novellato si identifica con qualsiasi operazione che comporti, indipendentemente dal trasferimento di proprietà dei beni aziendali, il mutamento, anche parziale, nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità» 6.

In sostanza, la Suprema Corte ha individuato l’esistenza del trasferimento d’azienda ogni qualvolta:

• muti il titolare dell’attività (nella sostanza, il datore di lavoro); • siano trasferiti i beni facenti parte del complesso aziendale; • siano ceduti i contratti con la clientela; • il personale continui a lavorare per il nuovo datore, o comunque venga

riassunto, senza soluzione di continuità tra i due rapporti di lavoro; • vengano mantenuti lo stabile ed il luogo di lavoro. • venga svolta la medesima precedente attività del cedente.

Nel caso in cui l’impresa – individuale o collettiva – svolga più attività

4 Cass. S.U. 5 marzo 2014, n. 5087, in www.dirittoegiustizia.it. 5 Cass. 12 luglio 2002, n. 10193. 6 Cass. 17 luglio 2002, n. 10348.

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distinte, l’azienda si scompone in più rami d’azienda caratterizzati da auto-nomia funzionale ed organizzativa.

La Circolare Ministeriale n. 9/9/252 del 21 marzo 1980 individua quale condicio sine qua non al fine di identificare un “ramo d’azienda” l’esistenza di un collegamento tra gli elementi che la compongono, tale da costituire un’organizzazione produttiva; deve, cioè, trattarsi di un complesso di beni idoneo all’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico scopo, nonché al soddisfacimento delle esigenze tecniche ri-chieste dall’attività produttiva.

Occorre, inoltre, rammentare come la Corte di Cassazione – nel tempo – si sia più volte pronunciata sul concetto di “ramo d’azienda”, precisando in particolare che: « … per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’art. 2112 c.c., su-scettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità. Il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del nego-zio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come firma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fa loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’impren-ditore e non dall’inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo di azienda già costituito … ».

Ne discende che si applica la disciplina dettata dall’art. 2112 c.c., anche in caso di cessione di parte dell’azienda, purché si tratti di un insieme orga-nicamente finalizzato all’esercizio dell’attività di impresa, con autonomia funzionale di beni e strutture.

Da ultimo, si ritiene utile richiamare la recente pronuncia della Suprema Corte, la quale ha ribadito l’insindacabilità, nonché la liceità, dell’operazio-ne, qualora l’oggetto del trasferimento sia costituito da un’entità economica con propria identità, ovvero organizzata in modo stabile, e non destinata all’esecuzione di una sola opera, bensì costituente un legame funzionale tale da rendere l’attività dei lavoratori interagenti e capaci di tradursi in beni o servizi determinati 7.

La Corte di Giustizia Europea 8, discostandosi dall’orientamento della Corte di Cassazione, ha affermato che l’art. 1, par. 1, lett. a) e b), della diret-

7 Cass. 24 ottobre 2014, n. 22688. 8 Corte Giust. 6 marzo 2014 n. C-458/12.

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tiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normati-va nazionale la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impre-sa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento. Per-tanto, si deve ritenere che rientri nella fattispecie del trasferimento di ramo d’azienda anche l’ipotesi in cui quest’ultimo non sia preesistente alla cessione.

2.1.2. Disposizioni normative in tema di “trasferimento di personale”

Con l’espressione “trasferimento d’azienda” – a norma dell’art. 2112, comma 5, c.c. – si intende «qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro».

Come è noto, il d.lgs. n. 28 del 2001 ha modificato l’art. 2112 c.c. preve-dendo che:

• in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con il ces-sionario, ed il lavoratore conserva tutti i diritti che derivano dallo stesso;

• il cessionario è tenuto all’applicazione dei trattamenti economici e norma-tivi, previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali, vi-genti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che gli stes-si siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del ces-sionario. Il lavoratore conserva, pertanto, tutti i diritti derivanti dall’anzia-nità raggiunta anteriormente al trasferimento;

• il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento; • cedente e cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti esistenti ante-

riormente alla data del trasferimento. A questo proposito – come chiarito dalla Corte di Cassazione 9 – con il trasferimento non vi è un’estensione automatica della responsabilità dell’acquirente circa i debiti contratti dall’alienante nei confronti degli Istituti Previdenziali, per omesso versamento di contributi ob-bligatori dei lavoratori dipendenti esistenti al momento del trasferimento, in quanto gli stessi costituiscono debiti inerenti l’attività d’azienda verso terzi e non nei confronti dei dipendenti. Per quanto concerne i debiti INAIL, ai sensi dell’art. 15 del d.p.r. n. 11241/1965 – in caso di trasferimento d’azienda – l’acquirente è solidalmente obbligato con il venditore per i premi riferiti al-l’anno di trasferimento ed ai due antecedenti. Tale responsabilità sussiste a prescindere dall’iscrizione dei debiti suddetti nei libri contabili obbligatori.

9 Cass. 16 giugno 2001, n. 8179.

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Il Legislatore, con l’art. 2112 c.c., ha quindi voluto evitare che il trasfe-rimento del c.d. “ramo d’azienda” si trasformi in un semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro con un altro, sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sia sul piano della solvibilità, sia dell’attitudine a proseguire con continuità l’attività produttiva 10.

Parte della dottrina, seguita dalla giurisprudenza prevalente, afferma che l’azienda è l’organizzazione non solo di beni, ma anche di servizi; che sono parte integrante della stessa i rapporti di lavoro con il personale, nonché tutti i rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impresa, anche se aventi ad oggetto beni non attualmente impiegati nell’azienda. «Poiché l’azienda è un complesso di beni e di servizi (capitale, fisso e circolante, e lavoro) unifi-cati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono or-ganizzati e coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazioni diverse, nella specie, per la chiusura dell’esercizio di vendita, la rimozione delle merci e delle attrezzature e la restituzione al proprietario del locale» 11.

In tale prospettiva, la giurisprudenza giunge al limite di «(…) legittimare in maniera finalmente certa ed inequivocabile una nozione di trasferimento di impresa con più attenuati caratteri di materializzazione e che cioè – in linea con un assetto produttivo diretto a dare sempre maggiore rilevanza alla capacità professionale e alle conoscenze tecniche dei lavoratori – con-sideri “attività economica” suscettibile di figurare come oggetto di detto trasferimento anche i soli lavoratori, che per essere stati addetti ad un ramo della impresa e per avere acquisito una complesso di nozioni e di esperien-ze, siano capaci di svolgere autonomamente – e, quindi, pur senza il suppor-to di beni immobili, macchine, attrezzi di lavoro o di altri beni – le proprie funzioni anche presso il nuovo datore di lavoro» 12.

Pertanto, secondo la ricostruzione prevalente sia in dottrina sia in giurispru-denza, si può affermare che l’azienda è un complesso di beni in senso lato – ivi compresi i servizi dei prestatori di lavoro – nella disponibilità o nel godimento attuale dell’imprenditore, in virtù di diritti eterogenei – reali o di credito – stru-mentalmente coordinati dall’imprenditore in vista di un fine unitario – produtti-vo o di scambio – che è proprio l’esercizio dell’attività di impresa.

Inoltre, in merito all’autonomia del ramo d’azienda trasferito si è espressa la Corte di Cassazione, precisando « … che il trasferimento a un altro dato-

10 Cass. 9 maggio 2014, n. 10128. 11 Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giur. Comm., 1981, 1, 2942. 12 Cass. 23 luglio 2002, n. 10761, in Leg. e giust., 2003, 19.

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re di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, […] rappresenta cessione di ramo d’azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessio-nario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione» 13. Elemento qualificante dun-que, ai fini del riconoscimento dell’operazione come “trasferimento di ra-mo” e non come mera delocalizzazione – o accentramento del personale –, risulta essere la preesistenza di un segmento aziendale autonomo oggetto di cessione.

Da ultimo, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha confermato il pro-prio orientamento, ribadendo che il requisito dell’autonomia produttiva e funzionale del ramo d’azienda oggetto del trasferimento deve essere preesi-stente all’atto del trasferimento stesso, non potendosi creare una struttura produttiva ad hoc al momento della cessione 14.

Per contro, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che l’art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale la quale, in presenza di un trasferimen-to di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento. Pertanto, si deve ritenere che rientri nella fattispecie del trasferimento di ramo d’azienda anche l’ipotesi in cui quest’ultimo non sia preesistente alla cessione; in ciò assecondando il disposto di cui all’art. 2112, comma 5, c.c., secondo cui si avrebbe trasferimento d’azienda anche per quell’attività economica organizzata identificata come tale «dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento» 15.

Concludendo, secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza – per così dire “domestica” – è necessaria la preesistenza del segmento azien-dale oggetto di cessione, nonché la sua autonoma e unitaria organizzazione, quali corollari del principio della conservazione dell’identità del ramo cedu-to; al contrario, la giurisprudenza comunitaria ritiene che si rientri nella fat-tispecie del trasferimento d’azienda anche quando il ramo d’azienda mede-simo sia di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed eco-nomica volta ad uno scopo unitario.

13 Cass. 4 dicembre 2013, n. 21711. 14 Cass. S.U. 15 aprile 2014, n. 8756. 15 Corte Giust. 6 marzo 2014 n. C-458/12.

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2.2. Nozione di azienda L’art. 2555 c.c. fornisce la nozione di azienda, stabilendo che essa è costi-

tuita dal complesso di beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio del-l’Impresa.

La definizione lascia intendere che l’azienda non è identificabile con l’attività di Impresa.

In particolare, l’impresa è l’attività (commerciale ai sensi dell’art. 2195 c.c., o agricola ai sensi dell’art. 2135 c.c.) esercitata dall’imprenditore, in forma sia individuale ai sensi degli artt. 2082 e 2083 c.c., sia collettiva se-condo le forme previste dai Titoli V, VI e VII del Libro Quinto del Codice Civile.

Di tutt’altra natura è l’azienda, definibile come lo strumento attraverso il quale l’imprenditore esercita l’attività di impresa, composto da un comples-so di beni materiali – ad esempio lo stabilimento in cui viene svolta l’attività, la scrivania e le altre strumentazioni – ovvero immateriali – quali le licenze, i brevetti, le conoscenze tecnologiche o personali dell’impren-ditore stesso –.

Nella nozione di azienda, particolare rilevanza deve essere data all’orga-nizzazione: l’azienda è un insieme di beni eterogenei che subisce modifica-zioni qualitative e quantitative nel corso dello svolgimento dell’attività d’impresa, pur restando un complesso caratterizzato da unità di tipo funzio-nale, tenuto conto del coordinamento e del rapporto di complementarietà tra gli elementi costitutivi, nonché dell’unitaria destinazione a uno specifico fi-ne produttivo ad opera dell’imprenditore.

L’esercizio dell’impresa presuppone pertanto tre elementi: uno soggettivo – l’imprenditore –, uno oggettivo – l’azienda – e uno fattuale – l’attività di impresa. Gli elementi devono necessariamente concorrere al fine dell’eserci-zio effettivo dell’attività.

La dottrina evidenzia come «sarebbe possibile immaginare un’azienda senza imprenditore, o un imprenditore senza azienda, o, ancora, un’impresa senza imprenditore. Ma anche una pluralità di aziende esercitate da un’uni-ca impresa o al contrario una pluralità di imprese con una sola azienda. Imprenditore, impresa e azienda sono momenti distinguibili tra di loro e quindi, al limite, possono presentarsi separatamente. Non è detto peraltro che ciò sia sempre e comunque ipotizzabile con facilità. Può esservi – tem-poraneamente ed eccezionalmente – imprenditore senza impresa e senza azienda, come è accaduto negli anni 1962-1963 in conseguenza della nazio-nalizzazione delle imprese elettriche nel periodo di tempo intercorso tra l’esproprio degli imprenditori elettrici con la riserva dell’attività all’ENEL

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e la modifica da parte degli imprenditori espropriati del loro statuto per da-re alla loro attività un oggetto diverso. Può esservi azienda senza imprendi-tore e senza impresa, ad esempio per il periodo di tempo che segue alla so-spensione dell’attività in conseguenza della morte o della interdizione o del fallimento del titolare. In questo caso l’azienda non può sopravvivere inde-finitamente, ma sino a che si mantiene nella sua unità produttiva ed orga-nizzativa e sino a che conserva la funzionalità all’esercizio dell’impresa, ri-sponde ai requisiti dell’art. 2555 e può formare oggetto di negozio traslati-vo o essere riattivata.

Non può sussistere invece un’impresa senza azienda. L’attività non si esercita se non vi sono beni con i quali esercitarla. Il nucleo aziendale può essere minimo ed elementare, ma deve esserci. Più delicato è il quesito se possa ipotizzarsi un’impresa senza imprenditore. L’impresa senza imprendi-tore sembra a prima vista una contraddizione in terminis. Come può esservi esercizio dell’impresa — la domanda sorge spontanea — se non vi è qual-cuno (Stato o ente pubblico o privato o persona fisica o collettività di lavo-ratori) che metta in moto, o a cui ricondurre, il processo economico? L’ipotesi non può tuttavia essere esclusa in modo assoluto allorché l’attività sia svolta da un imprenditore individuale e, morto questo, essa prosegua nelle more dell’accettazione dell’eredità da parte degli aventi diritto nel nome di un titolare che non c’è più» 16.

2.3. Gli elementi costitutivi dell’azienda L’azienda, come si è detto, è un complesso di beni; pare logico, quindi,

domandarsi quali siano i beni che la compongono. Parte della dottrina li individua in tutti i beni, di qualsiasi natura – mobili

e immobili, materiali ed immateriali, fungibili ed infungibili – «organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa».

Secondo tale orientamento, per qualificare un dato bene come bene azien-dale rileva soltanto la destinazione funzionale, mentre è irrilevante il titolo giuridico (reale od obbligatorio) che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo. «Pertanto, un bene di proprietà dell’im-prenditore che non sia da questi effettivamente destinato allo svolgimento dell’attività di impresa, non è da considerarsi come bene aziendale. Per contro, la qualifica di bene aziendale compete anche ai beni di proprietà di terzi, di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridi-

16 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-va, 2001, 608 ss.

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co, a condizione che li utilizzi nello svolgimento dell’attività di impresa» 17. Al fine di individuare con precisione i beni che compongono l’azienda è

dunque necessario scomporre in tre passaggi logici la definizione dell’istitu-to: con l’aggettivo “tutti” vanno intesi i beni di titolarità sia dell’imprendi-tore sia di terzi; nell’ambito dell’universalità dei beni, così individuati, i beni ricompresi nell’azienda sono quelli che rientrano nel possesso dell’impren-ditore, il quale li organizza, li amministra e gode dei benefici derivanti dal loro utilizzo; il terzo passaggio, fondamentale al fine dell’individuazione, è il complemento di scopo della definizione «per l’esercizio dell’impresa» e cioè la destinazione funzionale della citata universalità di beni.

L’analisi della definizione conduce all’identificazione dei criteri necessa-ri per valutare quali siano i beni da ricomprendere nell’azienda: tutti quei beni, siano essi di proprietà dell’imprenditore o di terzi, che l’imprenditore utilizza al fine di esercitare l’attività di impresa. Sono invece esclusi dal pe-rimetro aziendale tutti i beni di proprietà dello stesso (o di terzi), utilizzati per fini estranei all’attività di impresa.

Pare quindi potersi affermare che, affinché un bene possa essere qualifi-cato come “bene aziendale” è necessario e sufficiente che lo stesso sia desti-nato all’esercizio dell’attività di impresa, ossia che il bene stesso sia inserito nel ciclo produttivo-economico volto alla produzione ed allo scambio di be-ni e servizi.

Controverso è invece, quale sia il significato da attribuire alla parola “be-ni” di cui all’art. 2555 c.c. e che cosa, quindi, debba ritenersi ricompreso in tale nozione.

La dottrina minoritaria sostiene che fanno parte dell’azienda, ai sensi dell’art. 2555 c.c., solo i beni di cui all’art. 810 c.c. e quindi i beni in senso proprio di cui l’imprenditore si avvale per l’esercizio dell’attività di impresa. «Trattasi di una tesi fedele al dato letterale della norma: poiché, dal punto di vista giuridico, i beni sono solo le res che possono formare oggetto di di-ritti e la disciplina dell’azienda non pare offrire alcun valido argomento per affermare che nell’art. 2555 c.c. il termine “beni” sia stato utilizzato in un significato diverso e più ampio, la conclusione alla quale si può giungere è che elementi costitutivi dell’azienda sono solo i beni in senso proprio» 18.

Altra parte della dottrina, seguita anche dalla giurisprudenza prevalente, tende ad ampliare la nozione di “bene aziendale” e a ricomprendere tra gli elementi costitutivi dell’azienda ogni elemento patrimoniale utilizzato dal-

17 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 140 ss. 18 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 13.

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l’imprenditore nell’esercizio della propria attività e, più in generale, tutto ciò che può costituire oggetto di tutela giuridica.

Si afferma, quindi, che l’azienda è l’organizzazione non solo di beni, ma an-che di servizi; che sono parte integrante della stessa i rapporti di lavoro con il personale, nonché tutti i rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’impre-sa, anche se aventi ad oggetto beni non attualmente impiegati nell’azienda. «Poiché l’azienda è un complesso di beni e di servizi (capitale, fisso e circolan-te, e lavoro) unificati dalla unitaria destinazione produttiva, in funzione della quale sono organizzati e coordinati dall’imprenditore, essa cessa di esistere quando i vari elementi siano stati dispersi, assumendo i singoli beni destinazio-ni diverse, nella specie, per la chiusura dell’esercizio di vendita, la rimozione delle merci e delle attrezzature e la restituzione al proprietario del locale; per-tanto, in tale situazione, non è configurabile una misura cautelare (nella specie: sequestro conservativo) sull’azienda stessa, ormai cessata di esistere» 19.

La successione nei contratti previsti dall’art. 2558 c.c., nel caso di cessio-ne di azienda, è istituto diverso dalla cessione del contratto di cui agli art. 1406 ss. c.c., in quanto può intervenire in qualsiasi fase del rapporto contrat-tuale, purché non del tutto esaurito, e quindi anche nella fase contenziosa, inerente ad una domanda di esatto adempimento, di garanzia per vizi o di ri-soluzione per inadempimento, con la conseguenza che il cessionario dell’a-zienda assume la posizione di successore a titolo particolare nel diritto con-troverso, ai sensi ed agli effetti dell’art. 111 c.p.c. 20.

In una posizione intermedia si colloca poi parte della dottrina che, pur ri-conoscendo l’estraneità dei rapporti giuridici alla nozione di azienda, ritiene che gli stessi rapporti siano considerati dalla legge come pertinenziali ad essa.

Si afferma in particolare che: « … per quanto attiene ai rapporti giuridici posti in essere per l’esercizio dell’azienda non sarebbero parti di essa né del diritto su di essa, come confermerebbe un confronto tra gli artt. 2558 e 2555; perterrebbero ed accederebbero però ad essa e tali sarebbero consi-derati dalla legge. Di questo rapporto pertinenziale la norma darebbe rico-noscimento e sanzione formale affermando la stretta inerenza dei contratti al complesso aziendale oggetto di trasferimento ed essenzialmente preoccu-pandosi di stabilire per quali di essi non si abbia subingresso e sotto quali condizioni si possa recederne. Sicché l’imprenditore, che ne è il titolare, può disporne separatamente, staccandoli dal tutto» 21.

19 Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, in Giur. Comm., 1981, 1, 2942. 20 Cass. 11 agosto 1990, n. 8219, in Mass. Foro it., 1990, 979. 21 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-

va, 2001, 619.

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Concludendo, secondo la ricostruzione prevalente sia in dottrina sia in giuri-sprudenza, si può affermare che l’azienda è un complesso di beni in senso lato – ivi compresi i servizi dei prestatori di lavoro – nella disponibilità o nel godimen-to attuale dell’imprenditore, in virtù di diritti eterogenei – reali o di credito – strumentalmente coordinati dall’imprenditore in vista di un fine unitario – pro-duttivo o di scambio – che è proprio l’esercizio dell’attività di impresa.

I beni, i diritti e gli altri rapporti sono strettamente funzionali all’orga-nizzazione dei beni stessi, così che questo “collante funzionale” rende l’a-zienda diversa dalla mera somma dei singoli beni.

Rimane ancora da verificare se siano ricompresi nel compendio aziendale anche gli altri fattori produttivi.

La dottrina economica individua l’azienda nell’unità economica in cui si svolge il processo produttivo. Gli elementi fondamentali della sua attività sono: i fattori produttivi da essa impiegati, il prodotto che risulta da tale im-piego e il reddito, ossia la differenza tra il valore del prodotto (ricavo) e il valore dei fattori (costo).

In tal senso, la dottrina classica economica individua i fattori produttivi dell’azienda in “terra”, “capitale” e “lavoro”, in cui i beni classificabili come “terra” o “capitale” e il “lavoro” possono essere forniti dall’imprenditore stesso, ovvero da altri soggetti con i quali l’imprenditore stipula contratti di servizio (lavoro dipendente, collaborazioni, fornitura di energia elettrica ecc.).

L’esercizio dell’attività attraverso l’organizzazione dei beni e delle risor-se aziendali genera – almeno nella teoria ed in contesti di “normalità” dei mercati – risultati di natura monetaria, qualora l’attività abbia scopo di lucro, o di qualsiasi altra natura. Sulla base di tale presupposto, l’azienda ha un va-lore differente rispetto alla semplice somma dei valori di alienazione dei singoli componenti.

Questa differenza è denominata “avviamento”, che si estrinseca nella ca-pacità dell’azienda di generare un risultato economico o di altra natura, posi-tivo o negativo. In tal senso, potrebbe quindi configurarsi un avviamento ne-gativo (o “disavviamento”), dovuto all’assorbimento di risorse che l’attività genera con il suo esercizio attraverso detto strumento.

L’avviamento (positivo) può essere, quindi, definito come l’attitudine dell’organismo produttivo a realizzare profitti (ricavi eccedenti i costi) mag-giori di quelli raggiungibili attraverso l’utilizzazione isolata dei singoli ele-menti che la compongono.

L’avviamento, poi, può essere di tipo oggettivo o soggettivo. «L’avviamento oggettivo deriva dalla stessa organizzazione dei beni aziendali ed è ricollegabi-le a fattori suscettibili di permanere anche se muta il titolare dell’azienda, in quanto insiti nel coordinamento funzionale esistente tra i diversi beni (si pensi

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alla capacità di un complesso industriale di consentire una produzione a costi competitivi sul mercato). Tale forma di avviamento si trasferisce con l’azienda e, quindi, l’acquirente dell’azienda lo consegue automaticamente, per il solo fatto di avere acquistato l’azienda. L’avviamento soggettivo, invece, dipende dalle qualità personali e dall’abilità operativa dell’imprenditore: esso indica la capacità personale del titolare dell’azienda di utilizzare al meglio i mezzi di cui dispone, competendo con successo sul mercato, procacciandosi e conservando la clientela; esso, per sua natura, è intrasferibile» 22.

In dottrina e giurisprudenza si è largamente discusso circa la natura del-l’avviamento: taluni lo identificano come bene ricompreso nel compendio aziendale, altri come una qualità di quest’ultimo.

Più precisamente, la dottrina tradizionale, unitamente a qualche pronun-cia di merito, sul riflesso che il complesso aziendale «costituisce una univer-sitas rerum, comprendente cose corporali (mobili e immobili), cose immate-riali, compreso l’avviamento, rapporti di lavoro con il personale, crediti e debiti (anche litigiosi) con la clientela, elementi, questi, tutti unificati, in senso funzionale, dalla volontà del titolare, in vista della loro destinazione al comune fine della perseguita attività commerciale» 23, identifica l’avvia-mento di un’azienda con la sua clientela: l’azienda è bene avviata e, quindi, ha un buon avviamento quando chi la gestisce può contare su una valida, so-lida ed affezionata clientela. L’avviamento allora, secondo tale ricostruzio-ne, costituirebbe un bene aziendale di carattere immateriale.

La dottrina prevalente e la Suprema Corte, invece, negano che l’avvia-mento possa essere considerato come un bene autonomo e distinto, argo-mentando sulla base del fatto che esso non è suscettibile di autonomo trasfe-rimento. L’avviamento, quindi, non è né un bene, né un diritto facente parte dell’azienda, ma costituisce una semplice qualità dell’azienda, anche se do-tato di un proprio distinto valore patrimoniale ed oggetto di autonoma, sia pure parziale, tutela giuridica. In particolare: «L’azienda, quale complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, si distingue nettamente dai beni che la compongono e prescinde dalla titolarità di questi ultimi. Essendo poi l’avviamento una qualità dell’azienda, il maggior valore economico che esso fa acquisire agli elementi che la compongono spetta a chi li abbia organizzati ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi» 24.

22 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 17. 23 Trib. Catanzaro, 15 marzo 2011. 24 Cass. 6 dicembre 1995, n. 12575, in www.dirittoegiustizia.it.

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La consolidata giurisprudenza indica che «l’avviamento, costituendo una qualità dell’azienda, non può farsi rientrare tra le consistenze che costitui-scono, invece, elementi (materiali o immateriali) della sua struttura, e non fruisce, perciò, della indennizzabilità prevista dall’ultimo comma dell’art. 2561 c.c. (solo) per gli incrementi di queste ultime prodotti dall’usufrut-tuario o, ex art. 2562, dall’affittuario» 25; inoltre, la Suprema Corte ha preci-sato che «non essendo l’avviamento un bene compreso nell’azienda e del quale si possa ipotizzare un vizio nel senso in cui tale nozione è intesa nell’art. 1490 c.c. in tema di vizi della cosa venduta, ma soltanto una qualità immateriale dell’azienda, che può essere dedotta in contratto e dar luogo alla fattispecie d’inadempimento descritta nell’art. 1497 c.c. in tema di mancanza di qualità promesse, la sua mancanza, o il suo valore inferiore alle pattuizioni del contratto non sono oggetto della speciale garanzia per vizi della cosa venduta prevista dalla legge e non possono essere poste a fondamento di un’azione di riduzione del prezzo» 26.

L’avviamento poi non si identifica con la clientela; esso, al contrario, ri-sulta dal concorso di vari elementi, quali ad esempio il rapporto con i forni-tori, il grado di capacità dei lavoratori dipendenti e degli altri collaboratori, l’organizzazione della produzione, l’ubicazione dell’azienda, ecc.

«La clientela è, invece, il veicolo necessario attraverso il quale l’impren-ditore realizza il suo profitto, identificandosi semplicemente come una delle componenti – seppur probabilmente la più importante – dell’avviamento dell’azienda» 27.

«La possibilità di attribuire un distinto valore patrimoniale all’avvia-mento è confermata anche dal dato codicistico (così come modificato dal D. Lgs. 9 aprile 1991 n. 127), infatti l’art. 2424, 1° comma, c.c. statuisce di in-dicare nell’attivo dello stato patrimoniale del bilancio il valore dell’avvia-mento e l’art. 2426, n. 6, c.c. indica i criteri per la valutazione economica dell’avviamento» 28.

Oggetto di ampio dibattito è altresì la natura dell’azienda stessa, ove si ri-scontra il vivo contrasto tra le teorie unitarie e le teorie atomistiche.

La teoria unitaria considera l’azienda come un bene unico: un bene nuovo e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. Si è così affermato che l’azienda è un bene immateriale, rappresentato dall’organizzazione stessa.

25 Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in www.dirittoegiustizia.it. 26 Cass. 8 marzo 2013, n. 5845, in www.dirittoegiustizia.it. 27 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 18. 28 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 19.

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Nella stessa prospettiva, l’azienda è stata qualificata come un’universalità di beni: opinione quest’ultima che riscuote ancora oggi largo seguito soprattut-to in giurisprudenza.

La giurisprudenza ha precisato che: «L’acquisto da parte di un terzo di una quota ideale dell’azienda, già gestita, a scopo di profitto, dall’originario im-prenditore individuale, determina tra le parti, in difetto di espressa pattuizione contraria, l’insorgere non già della comunione di godimento di cui l’art. 2248 c.c. – la quale non è configurabile nel caso in cui l’oggetto di comune utilizza-zione sia costituito non dai vari beni che costituiscono l’azienda, ma da questa stessa, secondo la sua strumentale destinazione all’esercizio dell’impresa – bensì di una società di fatto, col corollario che la successiva alienazione della quota è suscettibile di dimostrazione anche attraverso la prova testimoniale, in applicazione delle norme che disciplinano la società irregolare e con esclusio-ne dell’applicabilità dell’art. 2556 c.c. che impone la prova scritta per il trasfe-rimento della proprietà o del godimento dell’azienda» 29.

Sulla base di tale teoria, pertanto, il titolare dell’azienda ha sulla stessa un vero e proprio diritto di proprietà unitario, destinato a coesistere con i diritti (reali o obbligatori) che vanta sui singoli beni.

Il titolare dell’azienda può dunque tutelare il suo diritto sul complesso aziendale con gli strumenti che l’ordinamento concede al titolare del diritto di proprietà, anche se non vanta tale diritto su taluni beni aziendali.

«La teoria atomistica concepisce invece l’azienda come una semplice pluralità di beni, funzionalmente collegati tra loro e sui quali l’imprenditore può vantare diritti diversi (proprietà, diritti reali limitati, diritti personali di godimento). Si esclude perciò che esista un “bene” azienda formante ogget-to di autonomo diritto di proprietà o di altro diritto reale unitario e, quindi, si attribuisce un significato atecnico alle norme che parlano di proprietà o di proprietario dell’azienda e di usufrutto della stessa» 30.

La questione pare ora risolta dalla Cassazione a Sezioni Unite, la quale nella sentenza già citata, ha affermato che, «ai fini della disciplina del pos-sesso e dell’usucapione, l’azienda, quale complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli componenti, suscettibile di essere unitariamente posseduto e, nel con-corso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapito» 31.

29 Cass. 3 aprile 1993 n. 4053, in Dir. fall., 1993, 1078. 30 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 143. 31 Cass. S.U. 5 marzo 2014, n. 5087, in www.dirittoegiustizia.it.

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2.4. La circolazione dell’azienda. Profili di carattere generale Come si è detto, l’azienda è un bene suscettibile di autonoma valutazione

economica, distinto dai singoli componenti; pertanto, può sia circolare sia formare oggetto di diritti reali o di godimento.

Il titolare dell’azienda ha la facoltà di compiere atti di disposizione ri-guardanti l’intera azienda ovvero singoli beni aziendali.

Gli atti di disposizione possono avere diversa natura: e, così, l’azienda può essere venduta, conferita in società, donata, conferita in trust, oppure possono essere costituiti sulla stessa diritti reali, come l’usufrutto, o diritti personali di godimento, come l’affitto.

Allo stesso modo, il titolare può trasferire uno o più beni aziendali: pos-sono essere alienati singoli beni, quali i macchinari, i prodotti o i locali; pos-sono anche essere ceduti – a vario titolo – i diritti di credito, i contratti o i debiti.

Naturalmente è di grande importanza stabilire, nel caso concreto, se il negozio compiuto dal titolare dell’azienda sia da qualificarsi come trasferi-mento di azienda (o di un suo ramo) o come cessione di singoli beni azien-dali, dal momento che solo nel primo caso si applica la disciplina sulla cir-colazione dell’azienda di cui agli artt. 2555 ss. c.c.

La distinzione affrontata a livello teorico non è però sempre agevole nella pratica, soprattutto quando l’atto di disposizione comprende solo una parte dei beni aziendali. Inoltre, può verificarsi che le parti ricorrano ad espedien-ti, quali il frazionamento del trasferimento dell’azienda in più atti separati, per sottrarsi agli effetti nei confronti dei terzi che, ex lege, conseguono al trasferimento di un’azienda (ad esempio il subingresso dell’acquirente nei contratti di lavoro e la responsabilità dello stesso per i debiti aziendali).

Come precisato dalla dottrina, « … è principio consolidato che la qualifi-cazione di una data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda (complesso di beni organizzati) o come trasferimento di singoli beni azien-dali deve essere operata secondo criteri oggettivi, ponendo lo sguardo sul risultato realmente perseguito e realizzato e non sul nomen dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva. Ciò in quanto il trasferimento di azienda produce effetti che incidono anche sulla posizione dei terzi» 32.

«È tuttavia altrettanto pacifico che, per aversi trasferimento di azienda, non è necessario che l’atto di disposizione comprenda l’intero complesso aziendale: si resta in tale ambito anche quando l’imprenditore trasferisce un ramo particolare della azienda, purché dotato di organicità operativa;

32 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 147.

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tale aspetto incide anche sul piano fiscale, poiché vi è diversità di imposi-zione tra la cessione di azienda o di un suo ramo e la cessione di singoli be-ni della stessa» 33.

In termini più generali, la Corte di Giustizia Europea è giunta alla conclusio-ne che «la legislazione italiana non è contraria alla direttiva europea in mate-ria di trasferimento di azienda ove consente la cessione di rami privi di entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento» 34.

2.5. Il trasferimento d’azienda

2.5.1. Aspetti generali

La prima e più comune tipologia di trasferimento di azienda (o di un suo ramo) è la cessione della medesima.

Il contratto di trasferimento dell’azienda, ai sensi dell’art. 2556 c.c., è va-lido solo se stipulato con l’osservanza «delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la partico-lare natura del contratto».

É stato affermato che: «Mancando un’autonoma ed unitaria disciplina della circolazione dell’azienda, il trasferimento di ciascun bene aziendale segue il regime dettato in via generale. Così, per il trasferimento della pro-prietà degli immobili aziendali all’acquirente è necessaria la forma scritta a pena di nullità (art. 1350, n. l, c.c.). Devono essere altresì rispettate le rego-le di forma previste per il particolare tipo di negozio traslativo posto in es-sere; ad esempio, il conferimento dell’azienda in una società di capitali de-ve sempre avvenire per atto pubblico (art. 2328 c.c.)» 35.

L’art. 2556, comma 1, c.c., pur non richiedendo una specifica forma per la validità dei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda, fa tuttavia espressamente salve, da una parte, le forme prescritte ad substantiam per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda e, dall’altra, quelle richiesta dalla particolare natura del contratto di volta in volta adottato.

Avendo quindi riguardo alla natura dei beni che compongono il comples-so aziendale, mentre nessun problema di forma si pone qualora l’azienda sia composta solo da beni mobili, nell’ipotesi in cui l’azienda comprenda anche

33 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 34. 34 Corte Giust. C458/12, in www.europa.eu. 35 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 148 ss.

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beni immobili, affinché l’eventuale atto di cessione dell’azienda sia piena-mente valido ed efficace, è necessaria la forma scritta, prevista a pena di nul-lità dall’art. 1350 c.c., comma 1, n.1.

É bene, al riguardo, precisare che la forma scritta è richiesta per la validi-tà dell’alienazione dei beni immobili, mentre la trascrizione è necessaria al fine di rendere opponibile il loro trasferimento ai terzi ex art. 2644 c.c., non-ché ai creditori ex art. 2914, n. 1, c.c.

Se nell’azienda non vi sono beni per cui è prescritta una forma particola-re, la cessione può anche avvenire in forma orale, prevalendo, in mancanza di diversa previsione legislativa, il principio della libertà di forma.

Come accennato, ai sensi dell’art. 2556, comma 1, c.c., al fine di stabilire quale sia la forma necessaria per la validità del contratto di cessione di azienda, occorre avere riguardo, oltre che al tipo di beni ceduti, anche alla particolare natura del contratto concluso dalle parti. Devono quindi essere rispettate le regole formali previste per il tipo di negozio traslativo di volta in volta posto in essere.

L’art. 2556, comma 1, c.c., dispone altresì che, per le imprese soggette a registrazione, ogni atto di disposizione deve essere provato per iscritto.

«Si tratta di una fattispecie di forma scritta ad probationem: la sua man-canza comporta come unico effetto che, in un’eventuale controversia giudi-ziaria, le parti (ma non i terzi) non potranno avvalersi della prova per te-stimoni per dimostrare l’esistenza di un contratto (art. 2725, 10° comma, c.c.)» 36.

La regola formale-probatoria non ha alcun riflesso sul piano sostanziale della valida ed efficace circolazione dell’azienda: essa ha un valore esclusi-vamente processuale, in quanto risponde soltanto ad una esigenza di certezza nei rapporti tra le parti contraenti.

Più precisamente, l’esigenza della forma scritta non impedisce il trasfe-rimento, che – pur in assenza della scrittura – rimane valido, efficace e di-mostrabile in giudizio con ogni mezzo dai terzi e nei loro confronti, ma le parti del negozio perdono la possibilità di ricorrere alla prova testimoniale per dimostrare, nei rapporti reciproci, l’esistenza del contratto traslativo.

Vi è dibattito giurisprudenziale e dottrinale in ordine all’ambito di appli-cabilità della disposizione in esame, essendo controversa l’interpretazione dell’espressione “imprese soggette a registrazione”. Ciò sul riflesso che l’art. 8, legge 29 dicembre 1993, n. 580 ha previsto forme di pubblicità, oltre che per le imprese commerciali, anche per gli imprenditori agricoli di cui

36 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 149.

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all’art. 2083 c.c. e per le società semplici, stabilendo che essi siano iscritti in sezioni speciali del Registro delle Imprese, attribuendo a tale iscrizione la funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia.

In tale contesto, non è chiaro se la categoria delle “imprese soggette a re-gistrazione” di cui all’art. 2556 c.c. comprenda le sole imprese soggette a registrazione nella sezione ordinaria del registro o se invece, a seguito delle modifiche legislative di cui sopra, annoveri anche le imprese che prima era-no certamente escluse dalla categoria, ossia quelle assoggettate (ora) ad iscrizione nelle sezioni speciali.

La dottrina prevalente ritiene che la previsione di cui all’art. 2556 c.c. continui a non riguardare le piccole imprese e le imprese agricole individuali o costituite in forma di società semplice: in definitiva, l’istituzione – nel Re-gistro delle Imprese – di apposite sezioni speciali non ha sortito alcun effetto sulla determinazione dell’ambito applicativo dell’art. 2556 c.c. Secondo tale impostazione – peraltro condivisa dalla giurisprudenza – la cessione del-l’azienda facente capo a imprese piccole o svolgenti attività agricola non ri-chiede la forma scritta, neppure ad probationem, con la conseguenza che l’esistenza del contratto può essere provato con ogni mezzo, anche mediante presunzioni o testimoni.

«A norma dell’art. 2556 c.c., è da escludere che per il trasferimento di un’azienda mobiliare sia richiesta la prova scritta a pena di nullità; non è inoltre necessaria per il combinato disposto degli art. 2556, 2202 e 2083 c.c., prova scritta nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della pro-prietà o del godimento di un’azienda di piccolo commercio, non essendo la stessa soggetta a registrazione» 37.

Il secondo comma dell’art. 2556 c.c. stabilisce che i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda “in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l’iscrizione nel registro delle imprese”.

Nel nuovo testo introdotto dalla legge 12 agosto 1993, n. 310, la norma prescrive che, a tal fine, il contratto di trasferimento deve essere sempre re-datto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e deve essere depo-sitato (non più a cura delle parti ma) a cura del notaio per l’iscrizione, nel termine di trenta giorni.

La norma pone quindi per le parti contraenti un onere di forma e, per il notaio rogante, un obbligo di deposito e registrazione.

«Con questo meccanismo, basato su un incentivo per le parti ad utilizza-

37 Cass., 4 giungo 1997, n. 4986, in www.dirittoegiustizia.it.

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re una determinata forma e sull’obbligo per il pubblico ufficiale coinvolto di curare il compimento di determinate formalità, il legislatore ha predisposto le condizioni affinché gli atti di trasferimento dell’azienda siano adeguata-mente pubblicizzati» 38.

«La disposizione, cosi come oggi formulata, persegue anche finalità di ordine pubblico (prevenire e reprimere operazioni di riciclaggio di danaro); ciò spiega perché, forzando la lettera della norma, qualcuno ritiene che l’ob-bligo di registrazione sussista anche quando l’alienante e l’acquirente sono imprenditori tenuti soltanto all’iscrizione nelle sezioni speciali del Registro delle Imprese (piccoli imprenditori, imprenditori agricoli individuali e so-cietà semplice)» 39.

«Resta tuttavia fermo che solo l’iscrizione nella sezione ordinaria del re-gistro, se dovuta, produce la funzione dichiarativa (opponibilità del trasfe-rimento) nei confronti dei terzi» 40.

La pubblicità di cui all’art. 2556, comma 2, c.c. ha – secondo la dottrina prevalente – valore di mera pubblicità dichiarativa, senza che da essa possa-no scaturire effetti sostanziali.

«Si nega, in particolare, che l’iscrizione nel Registro delle Imprese sia idonea a risolvere eventuali conflitti tra una pluralità di acquirenti dello stesso bene: l’iscrizione di cui all’art. 2556 c.c. non costituisce un sistema per stabilire, al pari della trascrizione degli atti relativi a beni immobili, quale soggetto prevalga nell’eventualità in cui una stessa azienda sia stata acquistata da due o più acquirenti, ciascuno dei quali abbia regolarmente proceduto all’iscrizione del proprio titolo di acquisto» 41.

Il problema di antinomia delle forme rimane, comunque, superato nella pratica: infatti, la forma del contratto di trasferimento d’azienda utilizzata è generalmente quella scritta, e più in particolare la forma della scrittura priva-ta autenticata o dell’atto pubblico, in quanto richieste ai fini della (obbligato-ria) iscrizione presso i pubblici registri.

2.5.2. Il divieto di concorrenza

Il primo effetto del trasferimento della titolarità dell’azienda comporta, ai sensi dell’art. 2557 c.c., l’astensione, da parte dell’alienante – per un periodo

38 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 43. 39 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 43 ss. 40 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 149. 41 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 45.

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di cinque anni dal trasferimento –, «dall’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia tale da sviare la clientela del-l’azienda ceduta».

In ordine al fondamento di tale divieto, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato numerose tesi, le più importanti delle quali possono essere sinte-tizzate come segue.

Parte della dottrina ritiene che il divieto di concorrenza costituisce espres-sione dell’obbligo per l’alienante di consegnare all’acquirente dell’azienda la clientela, intesa come uno degli elementi costitutivi del complesso aziendale.

Più precisamente, partendo dal presupposto – sopra evidenziato – che la clientela non è un elemento estrinseco dell’azienda, ma, al contrario, è uno dei beni che concorrono a formarla (avviamento), si giunge alla conclusione che essa, con la cessione di azienda, viene trasferita insieme a tutti gli altri suoi elementi costitutivi.

Secondo tale impostazione (definita come teoria dell’esplicitazione del principio della irrevocabilità unilaterale degli atti negoziali), il divieto di concorrenza di cui all’art. 2557 c.c. costituisce lo strumento atto ad evitare che l’alienante, concluso il contratto di trasferimento di azienda, possa suc-cessivamente “riprendersi” un bene già alienato, ponendo in essere compor-tamenti concorrenziali volti a realizzare di fatto tale sottrazione.

Altra dottrina afferma, invece, che la ratio del divieto di concorrenza è costituita dall’obbligo dell’alienante dell’azienda di garantire il compratore contro l’evizione ed i vizi cui può andare incontro in seguito alla cessione.

La dottrina prevalente, seguita dalla giurisprudenza, ritiene che il divieto di concorrenza di cui all’art. 2557 c.c. costituisca un effetto “normale” del negozio di trasferimento dell’azienda, che trova la sua fonte nella legge e non nella volontà delle parti e si traduce in obbligo di non fare, posto in capo all’alienante, in applicazione del generale principio di buona fede nell’ese-cuzione dei contratti di cui all’art. 1375 c.c.

«L’azione di concorrenza sleale e quella di contraffazione della ditta o del marchio si distinguono nettamente l’una dall’altra, per la loro diversa natura, oggetto e presupposti; tuttavia, quando l’attività, nella quale si af-ferma concretizzarsi la concorrenza sleale, viene ricollegata alla contraffa-zione di detti segni distintivi, l’insussistenza di detta contraffazione importa, altresì, come necessaria conseguenza, l’esclusione di concorrenza sleale proposta sotto tale aspetto» 42.

La norma contempera due opposte esigenze: da un lato, quella dell’ac-

42 Cass. 13 febbraio 1975 n. 225, in Giur. Comm., 1975, 1427.

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quirente dell’azienda di trattenere la clientela dell’impresa e quindi di gode-re dell’avviamento (soggettivo), del quale di regola si è tenuto conto nella pattuizione del prezzo di vendita; dall’altro lato, quella dell’alienante a non vedere compressa la propria libertà di iniziativa economica oltre un determi-nato arco di tempo (legislativamente ritenuto) sufficiente per consentire all’acquirente di consolidare la propria posizione nel mercato.

Il divieto di concorrenza – in quanto disposto a tutela dell’interesse dell’acquirente onde evitare un indebito sviamento di clientela – è derogabi-le e ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova attività di impresa dell’alienante sia “idonea a sviare clientela all’azienda ceduta”. Le parti possono anche ampliare la portata dell’obbligo di astensione (ad esempio, ad attività non direttamente concorrenziali), purché non sia impedita ogni atti-vità all’alienante (art. 2557, comma 2, c.c.). È in ogni caso vietato prolunga-re oltre i cinque anni la durata del divieto (art. 2557, comma 3, c.c.).

«La disposizione contenuta nell’art. 2557 c.c (secondo cui chi aliena l’azienda deve astenersi, per un periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela del-l’azienda ceduta, appropriandosi nuovamente dell’avviamento) non ha il carattere dell’eccezionalità, in quanto con essa il legislatore non ha posto una norma derogativa del principio di libera concorrenza, ma ha inteso di-sciplinare nel modo più congruo la portata di quegli effetti connaturali al rapporto contrattuale posto in essere dalle parti. Pertanto, non è esclusa l’estensione analogica del citato art. 2557 c.c. all’ipotesi di cessione di quo-te di partecipazione in una società, ove il giudice di merito, con un’indagine che tenga conto di tutte le circostanze e le peculiarità del caso concreto, ac-certi che tale cessione abbia realizzato un “caso simile” all’alienazione di azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda» 43.

«Il divieto è da ritenersi applicabile non solo alla vendita volontaria di azienda, ma anche quando la vendita è coattiva. Il divieto graverà perciò in capo all’imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco dell’azienda da parte degli organi fallimentari, dal momento che la vendita ha pur sempre per oggetto l’azienda del fallito e non possono che ricadere sullo stesso tutti gli effetti ex lege ricollegati alla vendita. Ciò anche se il negozio è posto in essere dagli organi preposti alla procedura» 44.

L’art. 2557 c.c. non si limita a prevedere un generico divieto di concor-

43 Cass. 23 settembre 2011 n. 19430, in Soc., 2011, 1340. 44 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 150.

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renza a carico del soggetto alienante, ma provvede anche a disciplinare tale divieto ponendo limiti alla sua estensione.

In primis la norma in esame determina in cinque anni la durata del divie-to legale di concorrenza. Si tratta di un lasso di tempo offerto all’acquirente affinché egli possa consolidare il rapporto con la clientela già facente capo all’azienda acquistata, sostituendosi nei rapporti in essere con l’alienante.

La disposizione offre, peraltro, ulteriori elementi di specificazione: chi aliena l’azienda deve astenersi dall’iniziare attività di impresa «che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta».

La nuova impresa eventualmente iniziata dall’alienante non deve, quindi, avere un oggetto tale da poter determinare lo sviamento di clientela. Dalla lettura della disposizione pare che, affinché possa dirsi violato il divieto di concorrenza, non è necessario che l’oggetto della nuova azienda sia intera-mente identico a quello dell’azienda ceduta; costituisce violazione del divie-to di concorrenza anche il comportamento dell’alienante il quale dia inizio ad una impresa che produce beni, seppur non identici, in qualche modo simi-li, tanto da poter essere considerati succedanei, avvantaggiandosi della sua posizione sul mercato e dei suoi precedenti rapporti con i clienti.

«Esiste violazione del patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2596 c.c. quando l’obbligato intraprenda un’attività economica nell’ambito dello stesso mercato in cui opera l’imprenditore, che sia idonea a rivolgersi alla clientela immediata di questi, offrendo servizi che, pur non identici, siano parimenti idonei a soddisfare l’esigenza sottesa alla domanda che la clientela chiede di soddisfare» 45.

Tuttavia, la produzione di beni identici può non essere sufficiente ad in-tegrare una violazione del divieto di concorrenza: può, infatti, accadere che venga destinata ad un ambito territoriale del tutto differente rispetto a quello dell’azienda ceduta, in modo tale da evitare che si realizzi uno sviamento della clientela. Nel mondo economico globalizzato di oggi, potrebbe essere più difficile tutelare il divieto “territoriale” di concorrenza: l’alienante po-trebbe, infatti, vendere i prodotti attraverso un sito localizzato anche dal-l’altra parte del mondo, attraendo i suoi vecchi clienti.

Dall’analisi della disciplina del divieto di concorrenza contenuta nell’art. 2557 c.c., discende che tale divieto ha carattere relativo: l’operatività del di-vieto rimane subordinata ad un giudizio di idoneità della nuova impresa a sviare la clientela di quella ceduta.

45 Cass. 21 gennaio 2004, n. 988, in Arch. Civ., 2004, 1318.

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Il carattere relativo del divieto di concorrenza trova conferma nella pos-sibilità offerta alle parti di derogare, sia pure entro certi limiti, alla disciplina di legge.

A tale proposito, il secondo comma dell’art. 2557 c.c. prevede espressa-mente la validità del patto con il quale le parti convengono un’astensione dalla concorrenza in termini più ampi rispetto a quelli previsti dal primo comma. Tale derogabilità convenzionale incontra però due limiti: in primo luogo l’ampliamento eventuale del divieto di concorrenza non può essere comunque tale da impedire ogni attività dell’alienante; in secondo luogo l’ampliamento non può riguardare la durata massima del divieto; infatti, nel caso in cui venga convenzionalmente fissato un termine superiore ai cin-que anni, il termine stesso si riduce automaticamente a quello massimo di legge.

Nessun limite sussiste invece, secondo la dottrina, per la restrizione dei limiti del divieto di concorrenza.

«In ogni caso, in applicazione del principio generale stabilito dall’art. 2596 c.c., il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscrit-to» 46.

«Atteso il principio generale della libertà delle forme, la clausola di esclusiva inserita in contratti di vendita o di somministrazione, per i quali non sia richiesta la forma scritta, resta soggetta alla medesima disciplina formale del contratto nel suo complesso, talché non soggiace all’operatività dell’art. 2596 c.c. che impone tale forma, ad probationem per il patto che limita la concorrenza» 47.

Da ultimo si rammenta che l’art. 2557 c.c. prevede l’espressa applicabili-tà del divieto di concorrenza non solo per il caso di alienazione dell’azienda (comma 1), ma anche per i casi di costituzione di usufrutto sull’azienda o di concessione in affitto della stessa.

«Inoltre, il divieto continua ad operare anche se l’azienda viene ulte-riormente alienata: esso vale dunque verso tutti coloro che, nel quinquen-nio, ne diverranno titolari» 48.

«Per il caso di violazione del divieto di concorrenza il legislatore non prevede alcuna sanzione particolare: alla violazione consegue il diritto al risarcimento del danno eventualmente subito, il diritto di risoluzione del

46 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 59. 47 Cass. 18 dicembre 1991, n. 13623, in Guida dir., 1991, 132. 48 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-

va, 2001, 151.

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contratto di cessione e la facoltà di chiedere l’inibitoria dell’attività vieta-ta» 49.

2.5.3. La successione nei contratti

2.5.3.1. Disciplina generale

L’art. 2558 c.c. stabilisce che l’acquirente dell’azienda subentra nei con-tratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale, salvo diversa pattuizione tra le parti.

Il legislatore ha previsto il subingresso dell’acquirente nella trama dei rap-porti contrattuali in corso di esecuzione – che l’alienante ha stipulato in prece-denza con fornitori e clienti – al fine di favorire il mantenimento dell’unità economica dell’azienda.

Mediante la successione nei contratti il cessionario dell’azienda ha la possibilità di assicurarsi i fattori produttivi necessari all’organizzazione del-l’impresa, allo svolgimento dei cicli produttivi, nonché a dare sbocco ai pro-dotti dell’azienda.

La disposizione di cui all’art. 2558 c.c. si applica ai soli contratti a pre-stazioni corrispettive ancora non completamente eseguiti. Qualora, invece, uno dei contraenti abbia già interamente eseguito la propria prestazione, an-che se residua esclusivamente un credito o un debito dell’alienante, si appli-cano rispettivamente l’art. 2559 o l’art. 2560 c.c.

«Questa previsione normativa speciale tutela l’interesse dell’acquirente a subentrare nei contratti già in corso di esecuzione, rispetto alla disciplina generale della cessione dei contratti di cui agli artt. 1406 ss. c.c. Sotto quest’ultimo aspetto, il consenso del contraente ceduto non è necessario al fine del trasferimento del contratto: l’effetto successorio si produce dal mo-mento stesso in cui diventa efficace il trasferimento dell’azienda, con la conseguenza che da questo momento il terzo contraente deve eseguire le proprie prestazioni nei confronti del nuovo titolare dell’azienda» 50.

Per contro, come specificato dalla giurisprudenza, «La cessione del con-tratto si configura essere contratto plurilaterale, che si perfeziona quando il proponente (o i proponenti, nel caso di proposta comune tra cedente e ces-sionario) ha notizia dell’accettazione dell’ultimo dei due destinatari, assu-mendo pertanto imprescindibile rilievo al riguardo (pure) il consenso del contraente ceduto, che, così come quello delle altre parti, può essere espres-

49 COLOMBO, L’azienda e il suo trasferimento, in Trattato Galgano, Padova, 1979, 220 ss. 50 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 70.

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so anche tacitamente (salvo che per il contratto ceduto siano richiesti parti-colari requisiti di forma, in tal caso da osservarsi anche per la cessione del contratto, e, quindi, anche da parte del ceduto medesimo), pure successiva-mente (ma sempre che non sia venuto meno) all’accordo tra cedente e ces-sionario, l’accertamento della cui sussistenza costituisce peraltro indagine di fatto, rimessa al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivata» 51.

Nel trasferimento d’azienda, per impedire il passaggio dei contratti al-l’acquirente occorre, invece, stipulare un patto contrario contemporanea-mente all’atto di vendita, con il limite che l’esclusione di alcuni beni e/o contratti non incida sui connotati fisionomici dell’azienda ceduta. Qualora, infatti, i contratti esclusi dal trasferimento riguardino beni e/o contratti il cui impiego è essenziale all’organizzazione aziendale, la qualificazione del con-tratto in termini di cessione d’azienda potrebbe essere posta in discussione; trattandosi più verosimilmente, in tale caso, di cessione di beni atomistica-mente intesi e non di azienda. Potrebbero, per contro, essere esclusi senza limitazione i contratti non essenziali per l’esercizio dell’attività d’impresa.

«Il contraente ceduto è comunque tutelato, non attraverso il suo consen-so, ma con la previsione in suo favore della facoltà di recesso, che può esse-re esercitata nel termine di tre mesi dalla notizia del trasferimento, sempre-ché sussista una giusta causa e salvo in questo caso la responsabilità del-l’alienante ex art. 2558, 2° comma, c.c.» 52.

E, come osservato dalla giurisprudenza, «In caso di cessione d’azienda, che comporta la successione ope legis nei contratti stipulati per l’esercizio della stessa, il cedente risponde del buon fine di tali contratti soltanto nei confronti del cessionario, ai sensi dell’art. 2558, 2° comma, c.c., e non an-che nei confronti del contraente ceduto, al quale la legge accorda quale unica forma di tutela il diritto di recesso. Il cessionario d’azienda, infatti, si trova obbligato a subire le eventuali conseguenze economiche pregiudizie-voli derivanti dalla caducazione dei rapporti contrattuali già rientranti nel patrimonio dell’azienda e sui quali aveva fatto affidamento, mentre il ceduto non può vantare alcun titolo di responsabilità contrattuale od aquiliana nei confronti del cedente, in ragione, nel primo caso, dell’intervenuta novazione soggettiva del negozio e, nel secondo caso, della liceità in sé della cessione» 53.

Il terzo contraente dovrebbe dimostrare che chi acquista l’azienda (perso-

51 Cass. 15 marzo 2004, n. 5244, in Nuova giur. civ. comm., 2005, 183 ss. 52 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 70. 53 Cass. 15 settembre 2009, n. 19870, in Mass. giur. it., 2009.

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na fisica o giuridica) non ha una situazione patrimoniale sufficiente a garan-tire l’esecuzione del contratto. In altri termini, la giusta causa non può sor-reggersi su valutazioni di ordine soggettivo, ma deve porre le sue radici su dati oggettivi. D’altro canto, il terzo contraente non può pretendere di conti-nuare il contratto con l’alienante e, in tal senso, riaffiora il concetto di uni-versitas: accetta l’acquirente come controparte oppure – se vi sono i presup-posti – recede dal contratto.

«Tuttavia, il terzo contraente ha facoltà di richiedere i danni al venditore ai sensi dell’art. 1223 c.c., qualora ne sussistano i presupposti» 54.

Allo stesso modo, succedono ipso iure i rapporti contrattuali pendenti – purché non abbiano carattere personale – senza che rilevi il consenso del contraente ceduto.

Conseguenza inevitabile è che l’acquirente all’atto di acquisto dell’a-zienda subentra anche nei contratti di cui ignora l’esistenza.

Vi è però la possibilità per l’acquirente di tutelarsi antecedentemente con-tro il pericolo di succedere in contratti di cui ignori l’esistenza mediante un’espressa pattuizione scritta.

Alcuni esempi di contratti che possono essere considerati personali sono: l’associazione in partecipazione, per quel che riguarda la posizione dell’as-sociante; la vendita con esclusiva e divieto di cessione dell’esclusiva; il mandato; l’appalto; ecc. In ogni caso occorre valutare di volta in volta le sin-gole situazioni, dando rilievo all’infungibilità che in concreto ha o ha assun-to l’attività personale dell’imprenditore (anche collettivo: l’intuitus può va-lere nei confronti di qualsiasi organizzazione imprenditoriale).

«In tema di cessione d’azienda (…), trova applicazione il principio, ai sensi dell’art. 2558 c.c., del trasferimento al cessionario dei contratti stipu-lati, potendo le parti, in forza del patto derogatorio previsto in detta norma, eccettuare il passaggio di alcuni contratti, ma non anche di alcuni rapporti negoziali, determinandosi con la cessione il subentro dell’acquirente d’a-zienda nel rapporto contrattuale nella sua interezza, cioè per il complesso di prestazioni, obblighi e diritti dal medesimo scaturenti; ne consegue l’inop-ponibilità alla stazione appaltante pubblica del patto, intercorso fra l’ap-paltatore cedente e il cessionario d’azienda, in forza del quale il primo con-serva i diritti di credito relativi a riserve iscritte in contabilità sui lavori ese-guiti» 55.

54 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-va, 2001, 637.

55 Cass. 23 gennaio 2012, n. 840, in www.dirittoegiustizia.it.

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Particolare importanza riveste la questione dei contratti di lavoro subor-dinato.

«Se si ritiene applicabile il 2° comma dell’art. 2558 c.c. in presenza della disciplina particolare di cui all’art. 2112 c.c. (come modificato dal D. Lgs. 2 febbraio 2001 n. 18), viene da chiedersi quale utilità presenti per i lavorato-ri la prospettiva, recedendo, di perdere il posto di lavoro. La questione sor-ge in realtà solo per i lavoratori che si trovano ad un certo grado di qualifi-cazione e sicurezza professionale; nasce cioè per chi sia in posizione di mi-nor debolezza e può diventare drammatica per determinate categorie la cui attività tocchi direttamente i nodi delle libertà individuali. La cessione di una testata e il conseguente mutamento negli orientamenti di un giornale sono, ad esempio, tali da creare gravi problemi di coscienza e di sopravvi-venza, ai giornalisti che ne dipendono» 56.

Il trasferimento dell’azienda comporta, in capo al cedente e al cessiona-rio, l’obbligo – nel caso in cui siano impiegati più di quindici dipendenti nel trasferimento – di compiere una serie di adempimenti, aventi la finalità di dare alle associazioni sindacali l’opportunità di valutare l’operazione che si ha in animo di compiere e i riflessi che essa può avere sui diritti, nonché le posizioni dei lavoratori interessati, così da proporre eventualmente misure da adottare per salvaguardare tali diritti e posizioni.

«In particolare, l’art. 47, 1° comma, legge 29 dicembre 1990, n. 428, stabilisce che cedente e cessionario, intenzionati a trasferire un’azienda o un ramo della medesima, devono dare comunicazione per iscritto di tale vo-lontà, almeno venticinque giorni prima che sia perfezionato l’atto da cui de-riva il trasferimento o che sia raggiunta una intesa vincolante tra le parti (se precedente), alle rispettive rappresentanze sindacali unitarie, ovvero al-le rappresentanze sindacali, costituite a norma dell’art. 19, legge 20 maggio 1070, n. 300 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”) nelle unità produttive interessa-te, nonché ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto colletti-vo applicato nelle imprese interessate al trasferimento» 57.

L’informativa, in particolare, deve essere fornita in ordine alla data di tra-sferimento, ai motivi dell’operazione, alle sue conseguenze giuridiche, eco-nomiche e sociali per i lavoratori e alle misure previste nei confronti degli stessi.

«Nell’ipotesi (non espressamente prevista dall’art. 2112 c.c) di trasferi-mento di una sola parte dell’azienda, anziché di questa nella sua interezza,

56 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-va, 2001, 638.

57 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014. 102.

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il datore di lavoro cedente, che continui un’attività economica nel comples-so dei residui beni organizzati, ha il potere sia di recedere in tempo utile (sussistendone le ragioni giustificative) dai rapporti di lavoro con i dipen-denti che già prestavano la propria opera nell’ambito dei beni trasferiti, sia di trattenere tali lavoratori presso di sé, impiegandoli (nel rispetto delle re-lative aspettative di professionalità e salva l’infrazionabilità dell’anzianità) nel complesso dei beni non ceduti senza che la prosecuzione del detto rap-porto di lavoro con l’imprenditore alienante necessiti del consenso del lavo-ratore (…)» 58.

Ed ancora, «in caso di conferimento di un’azienda individuale ad una so-cietà – sia essa di persone o di capitali – si verifica un fenomeno traslativo non soggetto alla disciplina dell’art. 2498 c.c. (concernente esclusivamente il caso di trasformazione di società da un tipo in un altro, con conseguente passaggio ipso iure dalla prima alla seconda di diritti ed obblighi), ma ben-sì, ove il trasferimento investa l’intera struttura aziendale o parti di essa idonee a costituire autonome unità organizzative e produttive, alle disposi-zioni dettate, per gli aspetti generali del fenomeno stesso, dagli art. 2558 ss. c. c. e, per quelli particolari attinenti ai rapporti di lavoro, dall’art. 2112 c. c ., in applicazione del quale sussiste la solidale responsabilità – per i debiti contratti verso i lavoratori anteriormente al trasferimento (anche se al mo-mento di questo i relativi rapporti di lavoro non siano più in atto ed anche se detti debiti conseguano alla disposta integrazione giudiziale della retri-buzione ex art. 36 Cost. e 2099 c. c.) – del socio conferente e della società nonché, eventualmente, in relazione al tipo di questa, dei soci illimitatamen-te responsabili» 59.

2.5.3.2. Il contratto di locazione

La legge sull’equo canone 60, all’art. 36, regola la sublocazione e cessione del contratto di locazione. Tale norma prevede che «Il conduttore può su-blocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consen-so del locatore, purché venga insieme ceduta o locata l’azienda, dandone comunicazione al locatore mediante lettera raccomandata con avviso di ri-cevimento. Il locatore può opporsi, per gravi motivi, entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. Nel caso di cessione il locatore, se non ha liberato il cedente, può agire contro il medesimo qualora il cessionario non

58 Cass. 24 gennaio 1991, n. 671, in Mass. giur. lav., 1991, 78. 59 Cass. 10 marzo 1990, n. 1963, in Arch. Civ., 1990, 587. 60 Legge 29 luglio 1978, n. 392.

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adempia le obbligazioni assunte. Le indennità previste dall’articolo 34 sono liquidate a favore di colui che risulta conduttore al momento della cessazio-ne effettiva della locazione».

La cessione regolata dal citato art. 36 è una forma di cessione del contrat-to che trova negli art. 1406 c.c. l’istituto generale. I due istituti anche se si pongono in rapporto di genere a specie si distinguono perché l’istituto gene-rale (1406 c.c.) è un contratto, necessariamente, trilaterale, in quanto richie-de per il perfezionarsi il consenso del ceduto, cessionario e cedente, mentre la forma speciale di cessione (regolata dall’art. 36 della legge del 1978, n. 392) può essere realizzata anche senza il consenso del proprietario, ma solo se il contratto di locazione è ceduto con l’azienda; in altri termini, la cessio-ne dell’azienda determina anche il trasferimento del contratto di locazione, indipendentemente dal consenso del locatore.

2.5.4. La successione nei crediti e nei debiti

2.5.4.1. La sorte dei crediti

Gli artt. 2559 e 2560 c.c. disciplinano la sorte dei crediti e dei debiti aziendali.

Prima di affrontare gli effetti sugli stessi, è necessario comprendere il coordinamento che queste due norme hanno con l’art. 2558 c.c. e quali siano i confini esistenti tra il contratto e il credito/debito.

La dottrina è concorde sul fatto che l’art. 2558 c.c. si applichi ai contratti stipulati dall’imprenditore che cede l’azienda a prestazioni corrispettive non integralmente eseguite da entrambe le parti al momento della cessione del-l’azienda (contratti dai quali, dunque, derivano diritti ed obblighi reciproci, tuttora sussistenti); e che, viceversa, l’art. 2559 c.c. prenda in considerazione l’ipotesi in cui l’imprenditore cedente l’azienda abbia già eseguito la propria prestazione e residui a suo favore un credito nei confronti del terzo.

L’art. 2559, comma 1, c.c. disciplina l’efficacia della cessione dei crediti aziendali sia nei confronti dei terzi aventi causa e dei creditori del cedente, sia nei confronti del debitore ceduto, derogando alla disciplina di carattere generale dettata dagli artt. 1260 ss. c.c.

La norma, tuttavia, non stabilisce se questi siano automaticamente trasfe-riti in forza del contratto di cessione dell’azienda o se, invece, debbano esse-re trasferiti con un’apposita clausola inserita all’interno del contratto di tra-sferimento: sul punto la dottrina è discorde, mentre la giurisprudenza pro-pende per l’automaticità del trasferimento dei crediti con il contratto di ces-sione d’azienda.

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«L’azienda, quale complesso di elementi materiali ed immateriali organizza-ti in un’individualità oggettiva per la funzione imprenditoriale, può essere ogget-to di conferimento sociale, che comporta l’automatica cessione dei crediti relati-vi all’azienda trasferita, ivi compreso quello costituito dall’indennizzo da acces-sione invertita (per avvenuta esecuzione di opera pubblica su terreno già facente parte dell’azienda stessa), il quale è privo di quel carattere “personale” che, ai sensi dell’art. 2558 c.c. è preclusivo della suddetta cessione automatica» 61.

Ed ancora, «tra i crediti che, nel caso di cessione d’azienda, si trasferi-scono automaticamente al cessionario rientrano anche quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno dell’impresa cedente, a nulla rilevando che gli stessi consistano nella lesione di interessi legittimi pretensivi od opposi-tivi per condotta illegittima della P.A.» 62.

Pare quindi opportuno prevedere una clausola specifica che, innanzitutto, identifichi le diverse posizioni creditorie e debitorie e, successivamente, ne disciplini la sorte.

Il credito è considerato ceduto nel momento in cui il trasferimento è iscritto nel Registro delle Imprese. In ogni caso, è liberato dalla sua obbliga-zione il debitore che paghi – in buona fede – all’alienante.

2.5.4.2. La sorte dei debiti

Quanto ai debiti aziendali, occorre distinguere l’effetto del trasferimento per il cedente dall’effetto del trasferimento per l’acquirente: mentre in capo al primo sussiste la solidarietà per le somme dovute ai creditori dell’azienda ceduta – eccetto verso coloro i quali abbiano dato il consenso alla sua libera-zione – in capo al secondo sussiste la responsabilità dei debiti anteriori al trasferimento dell’azienda che risultino dai libri contabili.

Il regime fissato dall’art. 2560, comma 2, c.c., con riferimento ai debiti rela-tivi all’azienda ceduta, secondo cui dei debiti suddetti risponde anche l’acquirente dell’azienda allorché essi risultino dai libri contabili obbligatori, è destinato a trovare applicazione quando si tratta di debiti in sé soli considerati e non anche quando, viceversa, essi si ricollegano a posizioni contrattuali non an-cora definite, in cui il cessionario è subentrato a norma del precedente art. 2558 c.c. E infatti, in tal caso, la responsabilità si inserirà nell’ambito della più gene-rale sorte del contratto (purché, beninteso, non già del tutto esaurito), anche se in fase contenziosa al tempo della cessione dell’azienda 63.

61 Cass. 22 gennaio 1999, n. 577, in Cal. Giust., 1999, 302. 62 Cass. 31 luglio 2012, n. 13692, in www.dirittoegiustizia.it. 63 Cass. 16 giugno 2004, n. 11318, in www.dirittoegiustizia.it.

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La questione ampiamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza riguarda, al pari dei crediti, quali debiti siano da considerarsi trasferiti con l’azienda.

L’accoglimento dell’una o dell’altra impostazione discende dall’accogli-mento dell’una o dell’altra tesi in merito all’individuazione della natura giu-ridica dell’azienda e alla identificazione degli elementi costitutivi della stessa.

In particolare, se si accoglie la tesi che attribuisce all’azienda natura di universitas iuris, la responsabilità per i debiti aziendali, in caso di cessione dell’azienda, è dell’acquirente. Se i debiti, infatti (così come anche i crediti) sono annoverati tra gli elementi costitutivi dell’azienda, essi non possono che trasmettersi all’acquirente in caso di trasferimento del complesso azien-dale, senza che occorra un apposito patto, alla stessa stregua di ogni altro bene facente parte dell’azienda.

In altri termini, l’azienda così configurata sarebbe composta da beni im-mobili, mobili, crediti, debiti e rapporti giuridici; come conseguenza, in caso di alienazione, anche i debiti si trasferiranno in capo all’acquirente insieme con gli altri elementi costituenti l’azienda. In assenza di una diversa manife-stazione di volontà dei paciscenti, l’acquirente subentrerebbe nella comples-sa situazione giuridica, comprese le passività.

Tuttavia altra dottrina e soprattutto la giurisprudenza prevalente accolgo-no la tesi opposta. Si osserva, innanzitutto, che, in mancanza di una norma espressa, non può presumersi la successione nel debito, che resta comunque un fenomeno del tutto eccezionale. Si aggiunge, poi, che tale conclusione costituisce anche l’ovvio corollario della ricostruzione dell’azienda come una universitas facti, considerata più rispondente alle reali caratteristiche dell’istituto.

L’accoglimento di tale teoria esclude – quindi – che debiti e crediti, pos-sano essere considerati elementi costitutivi dell’azienda: quest’ultima risulta composta dalle sole res materiali (beni in senso proprio) destinate all’eser-cizio dell’attività. Di conseguenza, la cessione dell’azienda non comporta il trasferimento automatico dei debiti: questi restano a carico dell’alienante.

Fermo rimane, in ogni caso, il principio per cui – nei rapporti con i terzi – sull’acquirente grava la responsabilità solidale per tutti i debiti che risultano dalle scritture contabili obbligatorie; responsabilità che può essere fatta vale-re, nei limiti di legge, dal creditore ceduto.

«In tema di cessione d’azienda, la disposizione di cui all’art. 2560, 2° comma, c.c., secondo cui l’acquirente risponde dei debiti inerenti all’eser-cizio dell’azienda ceduta soltanto se essi risultino dai libri contabili, è detta-ta non solo dall’esigenza di tutelare í terzi creditori, già contraenti con l’impresa e peraltro sufficientemente garantiti pure dalla norma di cui al primo comma del medesimo art. 2560 c.c., ma anche da quella di consentire

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al cessionario di acquisire adeguata e specifica cognizione dei debiti assun-ti, specificità che va esclusa nell’ipotesi in cui i dati riportati nelle scritture contabili siano parziali e carenti nell’indicazione del soggetto titolare del credito, non potendosi in alcun modo integrare un’annotazione generica delle operazioni mediante ricorso ad elementi esterni di riscontro» 64.

«Naturalmente, all’interno di quest’ultima ricostruzione, nessuno esclude la possibilità che l’alienante e l’acquirente dell’azienda stipulino un espres-so patto di accollo interno, con il quale il secondo assume tutti o parte dei debiti aziendali del primo (art. 1273 c.c.). Tuttavia, per la dottrina e la giu-risprudenza prevalenti, in mancanza di un siffatto accordo, qualora l’acqui-rente abbia pagato a terzi un debito anteriore al trasferimento, avrà diritto di ripetere dall’alienante l’importo versato al creditore, non essendosi rea-lizzato il passaggio dei debiti aziendali» 65.

In considerazione dell’incertezza interpretativa e al fine di evitare succes-sivi contenziosi, pare opportuno identificare in un allegato (o in un’apposita relazione) l’ammontare e l’elenco dei debiti e dei crediti aziendali, per poi disciplinare, attraverso un’apposita clausola, la sorte dei medesimi.

2.6. I segni distintivi L’attività di impresa è costituita da relazioni sul mercato, dove ovviamen-

te coesistono più imprenditori che producono oppure distribuiscono beni o servizi spesso identici o simili tra di loro; per questo motivo ciascun im-prenditore utilizza segni distintivi che consentono di individuarlo sul merca-to e così di distinguerlo dai concorrenti.

I principali segni distintivi dell’imprenditore sono: la ditta, l’insegna e il marchio.

La ditta costituisce il nome commerciale dell’imprenditore, l’insegna con-traddistingue i locali dell’impresa e ha funzione di richiamo per la clientela, mentre il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa.

«Crescente rilievo va acquistando, inoltre, il nome a dominio che indivi-dua il sito internet aziendale» 66.

I segni distintivi, ditta, insegna e marchio, sono “collettori di clientela” in quanto consentono agli utenti del mercato di distinguere tra loro i vari opera-tori economici.

64 Cass. 21 dicembre 2012, n. 23828, in www.dirittoegiustizia.it. 65 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 122. 66 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 161.

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Nel contratto di trasferimento dell’azienda non può ovviamente non esse-re considerata la sorte dei segni distintivi.

Nel nostro ordinamento ditta, insegna e marchio sono disciplinati separa-tamente, con disposizioni in parte differenti e, soprattutto, di diversa portata.

La ditta individua l’imprenditore come soggetto di diritto nell’esercizio dell’attività di impresa: è un segno distintivo necessario, nel senso che «In mancanza di diversa scelta essa coincide col nome civile dell’imprenditore. (…) mentre l’omonimia tra nomi civili è sempre ammessa, non è invece con-sentita omonimia fra ditte di imprenditori in rapporto di concorrenza, quan-d’anche entrambe corrispondenti ai rispettivi nomi civili» 67.

Nella scelta della ditta l’imprenditore incontra due limiti, quello della ve-rità e quello della novità. La ditta sarà originaria se scelta ab origine dall’imprenditore ovvero derivata se trasferita da questo a un altro operatore economico In quest’ultimo caso non è necessaria un’integrazione della ditta con la propria o con il proprio nome.

«Quanto alla ditta, la dottrina ritiene che non possa essere trasferita se-paratamente dall’azienda, al fine di tutelare quanti (creditori, fornitori e clienti) possano avere avuto rapporti con l’originario imprenditore» 68.

Tuttavia, non è vero il contrario: l’azienda può essere alienata anche sen-za la relativa ditta.

Tale affermazione è confermata dalla disposizione di cui all’art. 2565, 2° comma, c.c., il quale stabilisce che, nel trasferimento dell’azienda per atto tra vivi, la ditta non si trasferisce all’acquirente senza il consenso – espresso – dell’alienante.

In caso di successione mortis causa la ditta è trasferita all’erede o al lega-tario, salvo che una diversa disposizione testamentaria preveda diversamente sul punto.

«Il trasferimento della ditta, pertanto, non costituisce un effetto naturale del contratto di cessione di azienda: è conseguenza del trasferimento del-l’azienda, ma è frutto di un espresso accordo, in mancanza del quale la ditta rimane in capo al cedente» 69.

In tale senso anche la giurisprudenza, secondo cui «con riguardo al trasfe-rimento di azienda per atto tra vivi, il contestuale trasferimento anche della dit-ta (ai sensi del secondo comma dell’art. 2565 c.c.) deve essere oggetto di una distinta manifestazione di volontà negoziale, che tuttavia non richiede un’e-

67 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 164 e 169. 68 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 131. 69 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 132.

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splicita menzione della ditta nell’atto di trasferimento, potendo la volontà di estendere quest’ultimo alla ditta ricavarsi dall’interpretazione dell’atto, sulla base dei criteri interpretativi indicati dagli artt. 1362 e s. c.c.» 70.

Per ciò che concerne l’insegna, questa contraddistingue i locali dell’im-presa e, comunque, l’intero complesso aziendale; in merito al suo trasferi-mento nulla è detto dal legislatore.

L’orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza è nel senso di considerare l’insegna strettamente collegata all’azienda e quindi il suo tra-sferimento congiuntamente alla stessa (e alla ditta). Altri orientamenti con-siderano pacifico che il diritto sull’insegna possa essere trasferito, ritenendo che in materia debba «(…) trovare applicazione la più permissiva disciplina prevista per il trasferimento del marchio, dato che l’insegna identifica pur sempre elementi materiali (locali e azienda) e non la persona dell’impren-ditore» 71.

Il marchio è il segno distintivo dei prodotti o dei servizi dell’impresa e trova la sua disciplina su tre piani: nazionale (artt. 2569-2574 c.c. e codice proprietà industriale-d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), comunitario (Regola-mento CE n. 40/94 del 20 dicembre 1993) e internazionale (Convenzione d’Unione di Parigi del 1983 e l’accordo di Madrid del 1981, integrato dal Protocollo di Madrid del 1989).

La disciplina della circolazione dei marchi prevede che gli stessi possano essere liberamente trasferiti, a titolo sia definitivo sia temporaneo (cd. licen-za di marchio), anche separatamente all’azienda, purché non sussista il ri-schio di inganni o dubbi sull’uso del marchio presso i consumatori.

«Si può anche trasferire o concedere in licenza per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato» 72.

Il trasferimento a titolo definitivo del marchio per una parte dei prodotti e con contitolarità dello stesso è possibile, ma rimane controverso se sia anche fattibile in caso di prodotti identici o affini a quelli che l’alienante, lecita-mente, continua a produrre.

Il principio cardine di ogni trasferimento o licenza del marchio è che «(…) non si generino inganni nei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico» 73.

In caso di licenza non esclusiva, il licenziatario è obbligato a utilizzare il

70 Cass. 26 marzo 2009, n. 7305, in www.dirittoegiustizia.it. 71 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 190. 72 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 188. 73 CAMPOBASSO, Diritto commerciale. 1. Diritto dell’impresa, Torino, 2010, 189.

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marchio per prodotti che abbiano caratteristiche – qualitativamente – uguali a quelle corrispondenti ai prodotti del concedente o degli altri licenziatari. Il titolare del marchio potrà avvalersi degli strumenti di tutela previsti (come l’inibitoria o l’azione di rimozione) e, in caso di violazione, la sanzione po-trebbe anche essere la decadenza totale o parziale, per sopravvenuto uso in-gannevole del marchio.

In assenza di una disciplina espressa in merito alla forma da adottarsi per il trasferimento del marchio, è da ritenersi che trovi piena applicazione il principio generale della libertà della forma negoziale, con la conseguenza che appare legittimo che la volontà delle parti, di trasferire il marchio, possa essere manifestata sia attraverso una dichiarazione espressa, sia per facta concludentia.

«A norma dell’art. 2573 c.c. non occorre che la cessione del marchio sia contestuale o contemporanea al trasferimento dell’azienda, in quanto la ra-tio del divieto di alienazione non esige la contemporaneità dell’un trasferi-mento rispetto all’altro, ma richiede che la cessione del marchio possa ri-collegarsi, secondo un rapporto di complementarità economica, alla cessio-ne dell’azienda, al fine di prevenire la possibilità di inganni e di frodi circa la provenienza del prodotto» 74.

2.7. L’affitto e l’usufrutto d’azienda

2.7.1. La disciplina

Sull’azienda possono essere costituiti diritti personali o reali di godimen-to, quali l’usufrutto e l’affitto di azienda, nelle speciali forme richieste dal-l’art. 2556 c.c.

Il primo istituto richiamato è regolato dall’art. 2561 c.c., il quale discipli-na alcune specifiche regole che si affiancano o derogano a quelle general-mente previste agli artt. 978 ss. c.c., date le peculiarità dell’azienda.

Al riguardo va innanzitutto sottolineato che è dubbio se il diritto reale in questione abbia ad oggetto tutti i beni ricompresi nell’azienda o, invece, non possa estendersi a quelli consumabili, che si diventerebbero di proprietà dell’usufruttuario ai sensi dell’art. 995 c.c. (c.d. “quasi usufrutto”); se si tie-ne conto dei caratteri di unitarietà che contraddistinguono l’azienda, sembra preferibile la prima soluzione, che corrisponde alla ricostruzione della più recente giurisprudenza di legittimità.

74 Cass. 20 novembre 1982, n. 6259, in Mass. giur. it., 1982.

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«La norma di cui all’art. 2561, 4° comma, c.c., che riconosce all’usufrut-tuario e, per effetto dell’art. 2562 c.c., all’affittuario l’indennizzo corrispon-dente alla differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio ed alla fine del rapporto, non è suscettibile di interpretazione analogica, essendo finalizzata esclusivamente ad evitare che colui che subentra ad altri nella titolarità dell’azienda abbia a conseguire indebiti vantaggi collegati all’altrui attivi-tà, per cui la relativa disciplina suppone una situazione in cui all’attività d’impresa del precedente titolare usufruttuario faccia seguito il trasferimen-to dell’azienda ad altro soggetto» 75.

L’usufruttario deve esercitare l’azienda dietro la ditta che la contraddi-stingue, senza che ne sia modificata la destinazione impressagli dal titolare, nonché conservando l’efficacia dell’organizzazione, degli impianti e delle normali dotazioni di scorte.

Nello svolgere tale attività di gestione – che lo rende a tutti gli effetti im-prenditore, in luogo del nudo proprietario – egli è libero di vendere qualsiasi bene aziendale (anche non consumabile) e di acquistarne di nuovi, che di-venteranno di proprietà del nudo proprietario a titolo originario; in deroga agli artt. 1005, 1006 e 1009 c.c. sull’affittuario, inoltre, incombe, ogni spesa, anche se straordinaria.

Il nudo proprietario per contro, ai sensi del quarto comma dell’art. 2557 c.c., è tenuto a non iniziare, per il periodo di durata del contratto, un’attività in concorrenza con quella svolta dall’azienda concessa in usufrutto.

Al termine dell’usufrutto l’azienda risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi da quelli originari. È pertanto previsto che venga redatto un inventario all’inizio e alla fine dell’usufrutto e che la differenza fra le due consistenze sia regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto (art. 2561, 4° comma). È dubbio se, invece, all’usufruttuario debba anche essere corrisposta un’indennità, ai sensi dell’art. 985 c.c., nei casi in cui la sua gestione abbia comportato un aumento di valore del-l’azienda in termini di maggiore avviamento; pur trattandosi di un miglio-ramento, la giurisprudenza ha escluso il riconoscimento di indennizzi ulte-riori rispetto a quelli previsti dall’art. 2561 c.c.

«L’avviamento dell’azienda, costituendone una qualità essenziale, non può farsi rientrare tra le consistenze, che costituiscono, invece, elementi (ma-teriali o immateriali) della sua struttura, e non fruisce, perciò, dell’inden-nizzabilità, previsto dall’ultimo comma dello art. 2561 c.c. solo per gli incre-

75 Cass. 9 agosto 2007, n. 17459, in Riv. dir. ind., 2008, 152.

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menti di queste ultime prodotti dell’usufruttuario o, ex art. 2562, stesso codice, dall’affittuario» 76.

La sorte dei contratti è regolata dal comma 3 dell’art. 2558 c.c., che com-porta la successione degli stessi, salvo patto contrario e tenuto conto delle considerazioni sopra effettuate. Tale disposizione si applica necessariamente anche in sede di cessazione del rapporto, non parendo esservi ragioni perché la successione nei contratti, prevista espressamente per la concessione in usufrutto, non valga anche per l’ipotesi – eguale e contraria – di retrocessio-ne dell’azienda nella disponibilità del nudo proprietario; occorre, tuttavia, precisare che, in questo caso, al terzo contraente, che era consapevole del-l’usufrutto, non dovrebbe essere riconosciuto il diritto di recesso.

Con la seguente precisazione: «A norma dell’art. 2558 c.c., l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stes-sa che non abbiano carattere personale dall’imprenditore. Il termine «ac-quirente» va inteso in senso proprio: è tale, pertanto, il cessionario del-l’azienda in virtù di contratto. Deriva, da quanto precede, pertanto, che gli eredi dell’imprenditore, suoi successori in tutti i suoi rapporti giuridici non rispondono, ai sensi dell’art. 2558 c.c., delle sue obbligazioni derivanti da contratti da lui stipulati per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carat-tere personale, solo se allegano e provano che l’imprenditore o essi stessi, dopo la sua morte, hanno trasferito a un terzo la proprietà o l’usufrutto del-l’azienda o l’abbiano a esso affittato, non essendo sufficiente che tale terzo abbia iniziato a possederla o a detenerla senza titolo» 77.

Quanto, invece, ai crediti ed ai debiti, essi si trasferiscono all’usufrut-tuario soltanto nel caso in cui ciò sia stato espressamente previsto. Per i pri-mi depone in tal senso il tenore letterale dell’art. 2559 c.c., in cui si prevede che le regole in ordine all’opponibilità ai debitori del trasferimento dell’a-zienda si applichino anche all’usufrutto nel solo caso in cui si estenda anche ai crediti della medesima; per i secondi, invece, l’impossibilità di riconosce-re un’automatica responsabilità dell’usufruttuario sembra discendere neces-sariamente dal mancato richiamo dell’art. 2560 c.c., norma speciale insu-scettibile di applicazione estensiva in via analogica. Ne consegue che, di es-si, non dovrà essere fatta necessaria menzione nell’inventario.

In occasione della cessazione dell’usufrutto, i crediti si trasferiscono in capo al nudo proprietario; non è così, invece, per i debiti, per i quali potrà rispondere unicamente l’usufruttuario.

76 Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in Giur. It., 1995, 852. 77 Cass. 18 aprile 2003, n. 6316, in Guida dir., 2003, 59.

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«Diverso è il discorso – e la giurisprudenza sul punto è concorde – in presenza di un rapporto di lavoro. La disciplina dell’art. 2112 c.c., (..), è in-fatti applicabile in ogni caso di sostituzione dell’imprenditore nell’esercizio dell’impresa, sia che l’azienda si trasferisca dal proprietario all’usufrut-tuario sia che ritorni dall’usufruttuario al (nudo) proprietario per cessazio-ne dell’usufrutto» 78.

Quanto all’affitto d’azienda – che si può considerare una species del più ampio genus della locazione – l’art. 2562 c.c. dispone che si applichino le norme relative all’usufrutto; vi sono, tuttavia, alcuni limiti alla completa estensione della disciplina richiamata, in quanto, nei casi di contrasto, essa può prevalere su quella dell’affitto di cui all’art. 1615 ss. c.c. solamente qua-lora non trovi unicamente ragione nei caratteri dell’usufrutto.

Nel caso, ad esempio, di mancato adempimento da parte dell’affittuario degli obblighi che gli sono imposti dalla legge in base alla disciplina del-l’usufrutto, troverebbe applicazione l’art. 1015 c.c.; secondo le regole del-l’affitto, invece, nelle ipotesi di inadempimento, vi sarebbe la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1618 c.c. La giurispru-denza ritiene preferibile la seconda soluzione.

«Ai fini della risoluzione del contratto di affitto d’azienda è sufficiente un inadempimento ai sensi dell’art. 1453 c.c., non richiedendo la normativa speciale in tema di legislazione vincolistica un inadempimento come per i contratti agrari» 79.

Al termine dell’affitto l’azienda risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi da quelli originari. È pertanto previsto che venga redatto un in-ventario all’inizio e alla fine dell’affitto e che la differenza fra le due consi-stenze sia regolata in danaro, sulla base dei valori correnti al termine del-l’affitto.

La giurisprudenza si è interrogata su come debba essere valorizzato l’indennizzo derivante dalla differenza tra le consistenze di inventario all’i-nizio e al termine del rapporto. L’orientamento prevalente, sia in giurispru-denza sia in dottrina, è nel senso che «la differenza fra le consistenze di in-ventario all’inizio ed alla fine del rapporto, che, a norma dell’art. 2562 c.c., vanno regolate in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’af-fitto, corrisponde alla differenza esistente fra l’entità e il modo di essere de-gli elementi che strutturano l’azienda all’inizio e alla fine dell’affitto, do-

78 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-va, 2001, 662.

79 Cass. 9 marzo 1984, n. 1640, in Giust. civ. mass., 1984, 3.

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vendosi valutare tali elementi non solo nel loro aspetto quantitativo, con ri-guardo, cioè, alle eventuali perdite e addizioni, ma anche nel loro aspetto qualitativo, con riferimento ai loro deterioramenti o miglioramenti»; d’al-tronde, l’azienda è «un organismo continuamente mutevole nei suoi elemen-ti, e le cui variazioni interne rispondono ad esigenze di competitività ed effi-cienza economiche» 80.

«L’avviamento dell’azienda, costituendone una qualità essenziale, non può farsi rientrare tra le consistenze, che costituiscono, invece, elementi (materiali o immateriali) della sua struttura, e non fruisce, perciò, dell’in-dennizzabilità, previsto dall’ultimo comma dello art. 2561 c.c. solo per gli incrementi di queste ultime prodotti dell’usufruttuario o, ex art. 2562, stesso codice, dall’affittuario» 81.

Discussa è, inoltre, nel caso di affitto, la sorte dei crediti relativi all’a-zienda, i quali non sono disciplinati né dall’art. 2561 c.c., né dall’ultimo comma dell’art. 2559 c.c., espressamente relativo alla sola ipotesi di usufrut-to d’azienda.

«In mancanza di un dato letterale certo, pare corretto ritenere che questi non si trasferiscano automaticamente in capo all’affittuario, a meno che ciò non sia stato espressamente previsto dal contratto di affitto, con applicazio-ne in tali casi della generale disciplina di cui all’art. 1260 c.c.» 82.

La giurisprudenza è stata, in diversi casi, chiamata a stabilire le differen-ze tra affitto d’azienda e la locazione di immobile con pertinenze, date le ri-levantissime differenze sussistenti tra le discipline regolanti le due ipotesi. Al riguardo, si sottolinea che, a prescindere dalla qualificazione giuridica data dalle parti al contratto: «(…) la locazione di immobile con pertinenze si differenzia dall’affitto di azienda perché la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene – l’immobile concesso in godimento – che viene con-siderato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto princi-pale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi, i quali assumono, co-munque, carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sul piano funzionale in una posizione di coordinazione-subordinazione. Per contro, nell’affitto di azienda, lo stesso immobile è considerato non nella sua indivi-dualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei

80 Cfr. Cass. 13 aprile 1977, n. 1388, in www.dirittoegiustizia.it; COTTINO, L’Impren-ditore. Diritto commerciale, vol. I, tomo 1, Padova, 2000, 262.

81 Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in Giur. it., 1995, 852. 82 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 255 ss.

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beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarità per il conseguimento di un determinato fine produttivo» 83.

L’affittuario ha l’obbligo di gestire l’azienda sotto la ditta originaria e ha il potere-dovere di gestire l’azienda medesima.

L’obbligo dell’affittuario di gestire l’azienda sotto la primitiva ditta è fi-nalizzato alla conservazione dell’avviamento e ad evitare possibili sviamenti di clientela in occasione della cessazione del contratto. Il potere-dovere di gestione si estrinseca – invece – nella facoltà di disporre di tutti i beni azien-dali la cui alienazione sia necessaria per consentire all’azienda di svolgere la sua vita normale, cioè dei beni e dei servizi prodotti dall’azienda; di consu-mare, per tale produzione, il capitale circolante; di sostituire il capitale fisso, quando ciò sia necessario o opportuno.

In altri termini, l’affittuario assume, da un lato, il dovere di gestire l’azienda e, dall’altro, il potere di disporre dei beni aziendali nei limiti se-gnati dalle esigenze della gestione. Tale potere di disposizione sussiste non soltanto rispetto al capitale circolante – ed in particolare alle scorte – ma an-che relativamente al capitale fisso – cioè immobili, impianti e macchinari – purché gli atti di disposizione non alterino l’identità e l’efficienza dell’a-zienda.

D’altronde, il proprietario ha interesse che sia conservata l’universalità dei beni che compongono l’azienda, non le singole parti: da tale circostanza deriva la facoltà dell’affittuario di disporre degli elementi dell’azienda che non siano strettamente necessari alla conservazione dell’azienda stessa.

Analogamente, l’affittuario assume il potere di acquistare e immettere nell’azienda nuovi beni, che diventano di proprietà del concedente e sui qua-li l’affittuario conserva il diritto di godimento e il potere di disposizione. La legittimazione alla sostituzione degli impianti è espressamente ammessa dal-la giurisprudenza, per la quale nel contratto di affitto di azienda l’avvenuta sostituzione ad opera dell’affittuario di parte delle attrezzature che la com-pongono non muta l’originaria consistenza aziendale del bene affittato.

In particolare, quanto ai macchinari e alle attrezzature, «(…) potendo il nuo-vo titolare dell’azienda modificarli o ampliarli rispetto ai precedenti (…)» 84.

In forza del dovere di gestione e del potere di disposizione che fa capo all’affittuario, l’azienda, al termine dell’affitto, come nel caso di usufrutto, potrà risultare composta in tutto o in parte da beni diversi rispetto a quelli originari.

83 Cass. 15 marzo 2007, n. 5989, in Giust. civ. mass., 2007, 3. 84 Cass. 28 maggio 2009, n. 12543, in www.dirittoegiustizia.it.

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Occorre quindi tenere conto, oltre che dei beni che componevano l’azien-da al momento della costituzione del diritto e che ancora ne fanno parte alla data della cessazione, dei seguenti elementi: a) i beni immessi dall’affit-tuario in attuazione del suo potere-dovere di gestire e conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti; b) i contratti già trasferiti e ancora in vita e i contratti stipulati dall’affittuario; c) i crediti consistenti in diritti per-sonali di godimento di beni aziendali e i crediti ai quali sia stata pattuita l’estensione dell’affitto, se ancora esistenti al cessare del contratto.

Circa i beni immessi dall’affittuario, non trova applicazione la distinzione fra spese ordinarie e straordinarie: infatti l’art. 2561, comma 4, c.c. impone di definire in denaro le differenze di inventario al termine dell’affitto:

«La disciplina dettata dagli artt. 1592 e 1593 c.c. in tema di migliora-menti e addizioni all’immobile apportate dal conduttore, non trova applica-zione nell’affitto di azienda, per il quale non è previsto uno “ius tollendi” in capo all’affittuario al termine del rapporto. Infatti, dal combinato disposto degli artt. 2561, quarto comma e 2562 c.c., emerge che la differenza tra le consistenze di inventario all’inizio e al termine dell’affitto è regolata in da-naro, sulla base dei valori correnti al termine dell’affitto, sia essa derivata da mutamenti quantitativi o soltanto qualitativi delle componenti aziendali» 85.

D’altronde, come è stato osservato, non potrebbe essere altrimenti, dal momento che soltanto tale corretta lettura della norma consente di «impedire la paralisi dell’azienda, posta altrimenti in una continua situazione di incer-tezza sulla natura, sull’opportunità e sull’entità di una spesa, nonché bloc-cata dai rapporti con i proprietari – per ragioni economiche oltre che giuri-diche – di agire rapidamente per salvaguardare e potenziare l’organizza-zione aziendale» 86.

Il comodato d’azienda dovrebbe essere possibile anche nel fallimento, nei casi in cui non sia possibile pattuire un canone, ma sia comunque preferibile garantire la continuità dell’attività di impresa. Al comodato di azienda si ap-plicano, per analogia, le norme sull’affitto, con esclusione di quelle che pre-suppongono la sinallagmaticità del contratto.

E, come osservato dalla giurisprudenza, «l’ipotesi di trasferimento di a-zienda ai sensi dell’art. 2112 c.c. ricorre non solo nei casi di vendita, affitto ed usufrutto di azienda ma anche in tutte le altre ipotesi in cui, ferma restando l’organizzazione del complesso dei beni destinati all’esercizio dell’impresa, si

85 Cass. 9 maggio 2007, n. 10623, in Mass. giust. civ., 2007, 9. 86 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-

va, 2001, 657.

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abbia la sostituzione della persona del titolare, quale che sia il mezzo tecnico giuridico attraverso cui tale sostituzione si verifica (nella specie, contratto di comodato)» 87.

2.7.2. La cessazione del contratto d’affitto

2.7.2.1. Premessa

La cessazione del contratto di affitto d’azienda è un tema poco esplorato ma che presenta diversi profili problematici, quali, ad esempio, l’indivi-duazione delle cause di cessazione del contratto, la valutazione dei beni og-getto di retrocessione e la determinazione delle differenze d’inventario, la disciplina del divieto di concorrenza, gli effetti della cessazione sui rapporti di lavoro.

Come è noto, l’affitto d’azienda determina una dissociazione, limitata nel tempo, fra la figura del proprietario dell’azienda, che non la esercita in pro-prio, e quella dell’affittuario che utilizza l’azienda di altrui proprietà per l’esercizio dell’impresa. L’affitto di azienda è, dunque, destinato a realizzare un trasferimento a titolo di godimento – e, dunque, a carattere temporaneo – dell’azienda. E la circostanza che il trasferimento abbia carattere tempora-neo comporta che al termine del contratto l’azienda concessa in affitto ritor-ni nella disponibilità del proprietario.

Un primo problema che occorre affrontare è se l’affitto dell’azienda com-porti necessariamente l’assunzione, in capo all’affittuario, della qualità di imprenditore, cioè se l’affitto d’azienda determini un obbligo di gestione in capo all’affittuario. La questione non è priva di rilevanza pratica poiché sol-tanto in caso di risposta affermativa si dovrà concludere che l’affittuario non possa rimanere inerte, ma anzi assuma l’obbligo di gestire l’azienda condot-ta in affitto.

La giurisprudenza non si è mai occupata della questione, mentre ha af-frontato, seppure indirettamente, l’opposto problema se il proprietario debba necessariamente assumere la qualità di imprenditore, risolvendo la questione in senso negativo.

Nelle svariate pronunce dedicate alla questione la giurisprudenza ha, in particolare, osservato che costituisce affitto di azienda il contratto con il quale viene dato in locazione un complesso di beni (locali, arredamenti e at-trezzature varie, servizi, ecc.) organizzati per l’esercizio di un’impresa, an-che se non funzionanti al momento del sorgere del contratto. Da tale pro-

87 Trib. Reggio Emilia 23 marzo 1998, in Orient. giur. lav., 1998, 125.

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nuncia si evince chiaramente che la ricorrenza di un contratto di affitto d’azienda presuppone la potenziale attitudine del complesso aziendale a rea-lizzare la finalità economica cui è destinato; e non necessariamente l’esi-stenza di una concreta produzione in atto, né la qualità d’imprenditore del concedente. Pertanto, alla configurabilità dell’affitto di azienda non è di ostacolo la circostanza che il concedente non abbia mai utilizzato il com-plesso aziendale in una propria attività imprenditoriale, e che l’esercizio del-l’impresa debba essere iniziato dall’affittuario.

Ad ulteriore precisazione dello stesso orientamento, la giurisprudenza ha, inoltre, osservato che ricorre l’affitto di azienda quando oggetto del contratto sia il complesso unitario di tutti i beni mobili ed immobili, materiali ed im-materiali, organizzati per la produzione di beni o di servizi, anche quando tale complesso sia trasferito nella sua fase statica, e, quindi, improduttivo al momento della conclusione del contratto. Non è, quindi, importante che la produttività non sussista ancora come realtà oggettiva, essendo sufficiente che essa costituisca una potenzialità del complesso aziendale; né assume rilie-vo la circostanza che non siano presenti, al momento della conclusione del contratto, tutti gli elementi dell’azienda, ben potendo alcuni di essi – specie quelli immateriali, quale l’avviamento – mancare, purché il loro difetto non comprometta l’unità economica dell’azienda e la sua potenzialità produttiva.

Da ciò discende anche che nell’ipotesi di impresa attiva solo in determi-nati periodi dell’anno (ad esempio: attività alberghiera stagionale) è ipotiz-zabile la fattispecie dell’affitto di azienda anche se il godimento dei beni co-stitutivi dell’azienda venga ceduto nel periodo di inattività dell’organismo produttivo, quando, cioè, i rapporti di lavoro ad esso inerenti siano risolti o sospesi e quando non avvenga attualmente la produzione di beni o la presta-zione di servizi in favore della clientela; sempre che il complesso di beni, temporaneamente inattivo, abbia l’intrinseca potenzialità alla produzione di beni o servizi e le parti contraenti abbiano considerato come oggetto del contratto non la semplice somma dei beni destinati al futuro esercizio del-l’impresa, ma l’insieme degli elementi costitutivi di un complesso organico, funzionalmente coordinati e intrinsecamente idonei alla gestione dell’uni-versalità aziendale.

La giurisprudenza, nelle sentenze richiamate, ha dunque ritenuto che il proprietario non debba necessariamente assumere la qualità di imprenditore, l’importante è che trasferisca all’affittuario un complesso di beni potenzial-mente idoneo alla produzione di beni o alla prestazione di servizi.

Al contrario, si deve ritenere che l’affittuario non può lasciare inattiva l’azienda; anzi, ad avviso della dottrina, egli deve «adottare tutte le misure idonee, sul piano economico e tecnico (anche, occorrendo, con sostituzione

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di impianti e macchinari nel quadro del normale esercizio dell’attività im-prenditoriale), alla preservazione del valore produttivo ed economico di es-so e del suo avviamento» 88 . D’altronde la norma è chiara sul punto: l’affittuario «deve gestire l’azienda … in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte» (art. 2561, 2° comma, c.c.).

La circostanza assume notevole portata sul piano pratico perché in caso di inerzia, come vedremo meglio in seguito, il proprietario potrà agire per la risoluzione del contratto. In altri termini, l’inattività dell’affittuario costitui-sce una delle cause di cessazione del contratto.

2.7.2.2. Il dato normativo

L’affitto d’azienda costituisce un contratto di durata, avente per oggetto il godimento dell’azienda, e, in conseguenza della cessazione del contratto, l’affittuario è tenuto a riconsegnare l’azienda immediatamente ovvero entro il termine pattuito.

L’art. 2561, comma 2, c.c. prevede che l’affittuario debba «gestire l’a-zienda senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficien-za dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte». L’affittuario assume dunque, come si è visto al paragrafo precedente, un do-vere di gestione dell’azienda e contestualmente un potere di disposizione sui beni aziendali. Di conseguenza, al termine dell’affitto, l’azienda risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi rispetto a quelli originari.

Ed è proprio al fine di identificare le differenze fra la consistenza iniziale e quella finale del complesso aziendale che si prevede la redazione di un in-ventario all’inizio e al termine dell’affitto. In particolare, a norma dell’art. 2561, ult. comma, c.c., concernente l’usufrutto d’azienda, richiamato dal-l’art. 2561, relativo all’affitto d’azienda, «la differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine dell’usufrutto (n.d.r. dell’affitto) è regola-ta in denaro, sulla base dei valori correnti al termine dell’usufrutto (n.d.r. dell’affitto)».

E come precisato dalla giurisprudenza, la differenza fra le consistenze di inventario all’inizio ed alla fine del rapporto, che, a norma dell’art. 2562 c.c., vanno regolate in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’affitto, devono essere considerate sia nel loro aspetto quantitativo, con riguardo, cioè, alle eventuali perdite e addizioni, sia nel loro aspetto qualita-tivo, con riferimento ai loro deterioramenti o miglioramenti. D’altronde,

88 COTTINO, L’imprenditore. Diritto commerciale4, vol. I, tomo 1, Padova, 2000, 257.

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l’azienda è «un organismo continuamente mutevole nei suoi elementi, e le cui variazioni interne rispondono ad esigenze di competitività ed efficienza economiche» 89.

2.7.2.3. Le cause di cessazione del contratto

Il contratto di affitto d’azienda può sciogliersi per una delle cause tipiche di cessazione del contratto di affitto, disciplinato dagli artt. 1615 ss.

In particolare, il contratto si scioglie alla sua scadenza naturale se questa è prevista nel contratto. E, se è prevista una durata, le parti non possono re-cedere in pendenza del contratto. Per contro, a norma dell’art. 1616 c.c., se le parti non hanno determinato la durata dell’affitto, ciascuna di esse può re-cedere dal contratto dando all’altra un congruo preavviso. E, nel caso di rin-novazione del contratto originariamente stipulato a tempo determinato, il contratto si rinnova non per la stessa durata originariamente pattuita dalle parti, ma a tempo indeterminato, con facoltà di ciascuna parte di recedere comunicando all’altra un congruo preavviso (come previsto dall’art. 1616 c.c.).

Secondo il disposto dell’art. 1615, comma 1, c.c., l’affittuario deve curare la gestione della cosa ricevuta in affitto in conformità alla sua destinazione economica e all’interesse della produzione. Tale disposizione è sostanzial-mente riprodotta nell’art. 2561, comma 2, c.c., a mente del quale l’affittuario «deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione e in modo da con-servare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dota-zioni di scorte». In caso di violazione di tale norma, ed in particolare se l’affittuario non adempie tale obbligo o cessa arbitrariamente la gestione dell’azienda, il proprietario può chiedere la risoluzione del contratto per ina-dempimento (comb. disp. dell’art. 2561, 3° comma, c.c. e dell’art. 1618 c.c.). Lo si ricava dall’art. 1618 c.c., secondo cui il proprietario può chiedere la risoluzione del contratto «se l’affittuario non destina al servizio della cosa i mezzi necessari per la gestione di essa, se non osserva le regole della buo-na tecnica, ovvero se muta stabilmente la destinazione economica della co-sa». E a tale fine si ritiene applicabile l’art. 1619 c.c., a norma del quale il proprietario «può accertare in ogni tempo, anche con accesso in luogo, se l’affittuario osserva gli obblighi che gli incombono».

La dottrina considera altresì probabilmente applicabile l’art. 1623 c.c., che costituisce un adattamento della risoluzione per eccessiva onerosità so-pravvenuta. In base a tale norma «se, in conseguenza di una disposizione di legge (…) o di un provvedimento dell’autorità riguardanti la gestione pro-

89 COTTINO, L’imprenditore. Diritto commerciale4, vol. I, tomo 1, Padova, 2000, 262.

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duttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio, può es-sere richiesto un aumento o una diminuzione del fitto ovvero, secondo le circostanze, lo scioglimento del contratto» (comma 1).

Le parti possono, poi, inserire nel contratto una clausola di scioglimento in caso di alienazione dell’azienda. In tale ipotesi, l’acquirente che voglia dare disdetta all’affittuario deve concedere a quest’ultimo un congruo pre-avviso (art. 1625 c.c.). La norma è volta a consentire all’affittuario la con-clusione di un nuovo contratto.

Il contratto si scioglie, inoltre, per l’insolvenza dell’affittuario, salvo che al proprietario sia prestata idonea garanzia per l’esatto adempimento degli obblighi dell’affittuario stesso (art. 1626 c.c.).

La dottrina considera, invece, dubbia l’applicabilità dell’art. 1626 c.c. nella parte in cui stabilisce che il contratto si scioglie per l’interdizione o l’inabilitazione dell’affittuario. La sua applicabilità contrasterebbe, infatti, con gli artt. 1330 e 1772, n. 4, c.c.

Infine, il contratto può sciogliersi per morte dell’affittuario. In particola-re, l’art. 1627 c.c. stabilisce che, nel caso di morte dell’affittuario, il proprie-tario e gli eredi dell’affittuario «possono, entro tre mesi dalla morte, recede-re dal contratto mediante disdetta comunicata all’altra parte con preavviso di sei mesi».

2.7.2.4. L’individuazione dei beni oggetto di retrocessione

Quanto all’individuazione dei beni oggetto di retrocessione è necessario tenere conto del fatto che, ai sensi dell’art. 2561 c.c., l’affittuario dell’a-zienda: a) deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue (comma 1); b) deve gestirla senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte (comma 2).

L’obbligo dell’affittuario di gestire l’azienda sotto la primitiva ditta è fi-nalizzata alla conservazione dell’avviamento. Il potere-dovere di gestione si estrinseca invece nella facoltà di disporre di tutti quei beni aziendali, la cui alienazione è necessaria per consentire all’azienda di svolgere la sua vita normale, cioè dei beni e servizi prodotti dall’azienda; di consumare, per tale produzione, il capitale circolante; di sostituire il capitale fisso, quando ciò sia necessario o opportuno.

In altri termini, l’affittuario assume – da un lato – il dovere di gestire l’azienda e – dall’altro – il potere di disporre dei beni aziendali nei limiti se-gnati dalle esigenze della gestione. E tale potere di disposizione sussiste non

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soltanto rispetto al capitale circolante – ed in particolare alle scorte – ma an-che relativamente al capitale fisso – cioè immobili, impianti e macchinari – purché gli atti di disposizione non alterino l’identità e l’efficienza dell’a-zienda.

D’altronde, il proprietario ha interesse che sia conservata l’universalità dei beni che compongono l’azienda, non le singole parti: da tale circostanza deriva perciò la facoltà dell’affittuario di disporre degli elementi dell’azienda, che non siano strettamente necessari alla conservazione dell’azienda stessa.

Analogamente, l’affittuario assume il potere di acquistare ed immettere nell’azienda nuovi beni, che diventano di proprietà del concedente e sui qua-li l’affittuario conserva il diritto di godimento ed il potere di disposizione. E la legittimazione alla sostituzione degli impianti è espressamente ammessa dalla giurisprudenza, secondo cui nel contratto di affitto di azienda, l’avve-nuta sostituzione da parte dell’affittuario di parte delle attrezzature che la compongono, non muta l’originaria consistenza aziendale del bene affittato.

In forza del dovere di gestione e del potere di disposizione che fa capo all’affittuario, l’azienda, al termine dell’affitto, risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi rispetto a quelli originari. Occorre quindi tenere con-to, oltre che dei beni che componevano l’azienda al momento della costitu-zione del diritto e che ancora ne fanno parte alla data della cessazione, dei seguenti elementi: a) i beni immessi dall’affittuario in attuazione del suo po-tere-dovere di gestire e conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti; b) i contratti già trasferiti e ancora in vita, ed i contratti stipulati dall’affittuario; c) i crediti consistenti in diritti personali di godimento di be-ni aziendali, ed i crediti ai quali sia stata pattuita l’estensione dell’affitto, se ancora esistenti al cessare del contratto.

Circa i beni immessi dall’affittuario, non trova applicazione la distinzione fra spese ordinarie e straordinarie: infatti l’art. 2561, comma 4, c.c., impone di definire in denaro le differenze di inventario al termine dell’affitto. D’al-tronde, come è stato osservato, una corretta lettura di tale norma consente di «impedire la paralisi dell’azienda, posta altrimenti in una continua situazio-ne di incertezza sulla natura, opportunità ed entità di una spesa e bloccata dai rapporti con i proprietari, pur nella necessità, per ragioni economiche ol-tre che giuridiche, di agire rapidamente per salvaguardare e potenziare l’or-ganizzazione aziendale».

Relativamente ai contratti, occorre precisare che quelli originari, ancora in corso al termine del rapporto, ritornano di nuovo automaticamente in capo al proprietario; del pari, quelli stipulati dall’affittuario durante la gestione dell’impresa, ed ancora in vita al termine dell’affitto, si trasferiscono in capo al proprietario. Naturalmente non si trasferiscono in capo al proprietario al

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termine dell’affitto i contratti stipulati ex novo dall’affittuario che abbiano carattere (strettamente) personale e quelli che siano pattiziamente esclusi dal trasferimento; con la precisazione che il mancato trasferimento di questi ul-timi è subordinato alla conservazione della potenzialità produttiva del com-plesso aziendale.

Con riferimento ai crediti, essi si trasferiscono in toto al proprietario, al termine dell’affitto, soltanto se il loro trasferimento è stato concordato fra le parti. In caso contrario, seguendo l’interpretazione di una parte della dottri-na, si trasferiscono – come si è detto – soltanto i crediti consistenti in diritti personali di godimento di beni aziendali, ed i crediti ai quali sia stata pattuita l’estensione dell’affitto, se ancora esistenti al cessare del contratto.

Tutti questi beni fanno parte delle “consistenze d’inventario” finale e de-vono essere confrontate con le “consistenze d’inventario” iniziale per stabili-re l’entità dell’eventuale differenza da regolare in denaro. Naturalmente si può stabilire, in ossequio al principio dell’autonomia contrattuale, che altri elementi attivi o passivi debbano venire ricompresi nei due inventari o in uno di essi: così, ci si può accordare nel senso che l’affittuario succeda nei debiti, ed in tale caso quei debiti dovranno risultare al passivo dell’inven-tario iniziale; del pari, le parti possono concordare che vi sia una successione anche per i debiti contratti dall’affittuario, e in tale ipotesi questi dovranno a loro volta risultare al passivo dell’inventario finale.

Come si è già avuto modo di sottolineare, nel caso di affitto di azienda, la differenza fra le consistenze d’inventario all’inizio e alla fine del rapporto – che, a norma dell’art. 2562 c.c., vanno regolate in denaro sulla base dei valo-ri correnti al termine dell’affitto – comporta che si debbano valutare tali elementi non solo nel loro aspetto quantitativo, con riguardo, cioè, alle even-tuali perdite o addizioni, ma anche nel loro aspetto qualitativo, con riferi-mento ai loro deterioramenti o miglioramenti.

In particolare, l’affittuario può apportare all’azienda i miglioramenti e le addizioni che rientrino nei limiti di una diligente gestione e non comportino una trasformazione dell’azienda. Tali miglioramenti daranno luogo – se rientrano nei limiti di una diligente gestione e non comportano una trasfor-mazione dell’azienda – ad una differenza finale d’inventario che dovrà esse-re saldata dal proprietario.

Quanto, infine, al logorio ed alla perdita di singoli componenti dell’azien-da, l’affittuario che non abbia provveduto alla riparazione od alla sostituzio-ne dovrà pagare la differenza finale d’inventario, salva l’eventuale possibili-tà per il proprietario di richiedere la più grave sanzione della risoluzione per inadempimento.

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2.7.2.5. Segue: l’avviamento

Come si è già riferito, l’art. 2561, comma 1, c.c., stabilisce che l’af-fittuario dell’azienda deve esercitarla sotto la ditta che la contraddistingue. Per l’affittuario l’uso della ditta costituisce non soltanto il contenuto di un diritto, ma anche e soprattutto oggetto di un obbligo specifico, considerato l’interesse del proprietario alla conservazione dell’avviamento, del quale la ditta è coefficiente essenziale. Sebbene, come osservato dalla giurispruden-za, l’affitto di azienda sia configurabile anche se l’avviamento manca, es-sendo sufficiente che abbia per oggetto un complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’impresa anche se, non essendo stato ancora iniziato detto esercizio, non può avere avuto luogo neppure l’acquisto della clientela.

L’obbligo di esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue trova, dunque, la propria ragion d’essere nell’esigenza di conservare intatto l’avviamento connesso all’azienda in capo al proprietario così da evitare che, al termine dell’affitto, si verifichi una sottrazione di clientela. L’affit-tuario deve, quindi, conservare l’azienda al proprietario «nella sua destina-zione, funzionalità, identità e capacità di richiamo della clientela» 90.

Peraltro, l’avviamento è generato od accresciuto da tutta una serie di va-riabili che in parte sono influenzabili dall’affittuario. Si pensi, ad esempio, alle spese per pubblicità, alle ricerche di mercato, ecc. L’avviamento, dun-que, può essere incrementato dall’affittuario nel corso dell’esecuzione del contratto.

É, tuttavia, ampiamente discusso in dottrina e in giurisprudenza se l’av-viamento prodotto debba dare luogo ad un indennizzo al termine dell’affitto.

La giurisprudenza prevalente è orientata nel senso che l’affittuario non ab-bia diritto ad alcun compenso o indennità per l’incremento apportato all’av-viamento. L’avviamento, infatti, non potendo essere concepito distintamente dall’azienda – cioè, non essendo un elemento autonomo bensì una qualità dell’azienda – subisce necessariamente le sorti di questa; pertanto, al termine dell’affitto esso rientra, con l’azienda, nel patrimonio del proprietario. Addi-rittura, sempre secondo la giurisprudenza, l’avviamento non deve essere considerato neppure se valutabile economicamente.

Le argomentazioni poste a fondamento della tesi sono molteplici. Così si dice che l’avviamento, costituendo una qualità essenziale dell’azienda insu-scettibile di esistenza separata dalla medesima, non dà diritto ad un compen-so; che il riconoscimento di un diritto al compenso comporterebbe il ricono-scimento della cosiddetta proprietà commerciale; che l’incremento di av-

90 COTTINO, L’imprenditore. Diritto commerciale4, vol. I, tomo 1, Padova, 2000, 257.

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viamento – almeno in taluni casi – debba imputarsi a circostanze oggettive e non all’opera dell’affittuario. Parte minoritaria della giurisprudenza ritiene, al contrario, che l’affittuario abbia diritto al rimborso del valore corrispon-dente all’incremento dell’avviamento; ovvero delle somme eventualmente erogate per l’incremento stesso.

La dottrina è, invece, orientata nel senso di riconoscere all’affittuario un diritto al compenso per l’incremento di valore dell’avviamento 91. In partico-lare, essa osserva che anche le maggiori scorte e i più costosi impianti im-messi dall’affittuario entrano a far parte del patrimonio aziendale, e per que-sti nessuno dubita che la loro aumentata consistenza dia luogo ad un credito dell’affittuario. Inoltre, la dottrina considera non sostenibile la tesi che l’avviamento costituisce un cespite «non inventariabile», sul presupposto che l’inventario di inizio e fine affitto è retto da regole in parte diverse da quelle sul bilancio d’esercizio e si deve piuttosto avvicinare ad un bilancio di cessione, in cui l’avviamento ha una posizione tutt’altro che trascurabile. La dottrina prosegue, poi, osservando che se si accogliesse la tesi criticata – e quindi l’avviamento non figurasse negli inventari iniziale e finale del rap-porto – non si saprebbe come valutare la eventuale minore «efficienza del-l’organizzazione» (art. 2561, comma 2, c.c.) al termine dell’usufrutto. La dottrina conclude ritenendo che l’incremento dell’avviamento, se dovuto a spese sostenute dall’affittuario, dia luogo ad un credito di quest’ultimo nei confronti del concedente.

Pare, dunque, corretto sostenere che è indennizzabile soltanto il maggior avviamento ricollegabile all’opera o alle spese dell’affittuario, con esclusio-ne di quello derivante da circostanze esterne. Il diritto all’indennità discende dall’applicazione dell’art. 1592 c.c. in tema di affitto, da interpretarsi nel senso che il potere di apportare miglioramenti è insito nel potere di gestione dell’affittuario dell’azienda. L’affittuario ha diritto di ricevere, per quel par-ticolare miglioramento dell’azienda che è l’incremento dell’avviamento, un’indennità nei limiti della minor somma tra aumento di valore dell’azienda e spese (di pubblicità, per indagini di mercato, ecc.) sostenute per tale incre-mento e non confluite nella determinazione del valore di singoli componenti.

E così come l’incremento di avviamento dà diritto ad indennizzo all’af-fittuario solo nei limiti delle spese da lui sostenute, del pari la diminuzione della consistenza dell’avviamento non dà luogo ad un debito dell’affittuario se essa non è imputabile a mancata o negligente attività di gestione.

91 COLOMBO, Usufrutto ed affitto dell’azienda, in Trattato di diritto commerciale e di di-ritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, vol. III, Padova, 1979, 280 ss. In senso contrario COTTINO, L’imprenditore. Diritto commerciale, vol. I, tomo 1, Padova, 2000, 262.

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2.7.2.6. La valutazione dei beni oggetto di retrocessione

I beni oggetto di retrocessione devono esser valutati sulla base dei valori correnti al momento della cessazione del contratto, affinché il confronto fra il valore dei beni inizialmente trasferiti all’affittuario e successivamente ri-trasferiti al proprietario sia fatto su basi omogenee.

Dunque, i criteri di valutazione da adottare nella stesura dell’inventario (iniziale e di quello) finale non sono quelli previsti per il bilancio d’eser-cizio. Infatti, il valore da assumere ai fini dell’inventario iniziale e finale è il «valore corrente» e non il «valore di costo» valido invece per il bilancio d’esercizio.

Il «valore corrente» è costituito – in entrambi gli inventari – dal valore at-tuale, anche se superiore al costo, tenuto conto degli ammortamenti, il cui onere è posto a carico dell’affittuario.

In particolare, le immobilizzazioni devono essere valutate in relazione al loro grado di utilizzabilità residua, cioè in base al loro valore di sostituzione, al netto degli ammortamenti, non rilevando invece il dal valore risultante dal costo storico. Infatti, come sancito dall’art. 2561, comma 2, c.c., l’affittuario deve conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti: dal che di-scende che l’affittuario stesso è obbligato a riparare o a sostituire gli impian-ti che hanno perduto la loro efficienza.

E gravano sull’affittuario i logorii anche nel caso che superino il totale dei guadagni di quest’ultimo. Infatti, l’affittuario in quanto imprenditore de-ve sopportare il rischio che i ricavi non coprano i costi, cioè il rischio d’im-presa.

Inoltre, come puntualizzato dalla giurisprudenza, la valutazione dei beni deve essere fatta avendo riguardo alla data di cessazione del contratto e non a quella di effettivo rilascio dell’azienda.

2.7.2.7. La determinazione delle differenze d’inventario

La differenza fra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine del-l’affitto deve esser regolata sulla base dei valori correnti al termine del-l’affitto (art. 2561, ult. comma., c.c.); tale differenza dà luogo ad un credito o a un debito nei confronti del proprietario.

Se non vi sono stati mutamenti nella composizione del patrimonio trasfe-rito o se i mutamenti si sono limitati alla sostituzione delle scorte consumate con scorte di uguale qualità e quantità, non emergerà una differenza d’inven-tario e pertanto nulla sarà dovuto né al proprietario né all’affittuario. In altri termini, i semplici mutamenti di valore dell’azienda non comportano per l’affittuario differenze d’inventario.

602 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Così, ad esempio, se all’inizio l’azienda comprendeva merci di una de-terminata qualità A per una quantità pari a 100 unità del valore unitario di mercato (di allora) di 100, ed alla fine l’azienda comprende la stessa quantità della merce A del valore unitario di mercato (attuale) di 120, nessuna varia-zione è intervenuta nella consistenza d’inventario e pertanto nulla è dovuto all’affittuario. Se, viceversa, alla fine l’azienda comprende una quantità pari a 150 unità, la differenza d’inventario ammonta a 6.000 (50 x 120).

L’affittuario può, inoltre, apportare all’azienda variazioni sostitutive ov-vero aggiuntive o diminutive: sono «variazioni sostitutive» gli incrementi di un elemento – ad esempio di qualità A – e le diminuzioni di un altro elemen-to – di qualità B – che lascino immutata l’entità dell’azienda; sono «varia-zioni aggiuntive» i mutamenti di quantità di elementi aziendali che comples-sivamente incrementino l’entità dell’azienda; sono «variazioni diminutive» quelle che complessivamente riducono l’entità degli elementi aziendali.

E, in caso di «variazioni aggiuntive», all’affittuario compete una diffe-renza pari al valore corrente delle addizioni. Così, se l’affittuario ha incre-mentato le consistenze iniziali affrontando una spesa di 1.000 e, all’atto del-la cessazione dell’affitto, quelle maggiori consistenze hanno un valore di 1.200, la differenza è pari a 1.200.

Del pari, in caso di «variazioni diminutive» l’affittuario deve corrispon-dere al proprietario una differenza pari la valore attuale delle minori consi-stenze.

Tali regole valgono sia per le scorte sia per gli altri elementi patrimoniali, sussistendo – come si è detto – in capo all’affittuario il potere-dovere di di-sporre, nei limiti della buona gestione, non solo delle scorte ma anche degli immobilizzi.

2.7.2.8. Il risarcimento dei danni

Diversi sono i casi in cui l’affittuario può incorrere in un’azione finaliz-zata al risarcimento dei danni.

In primo luogo, la mancata restituzione dell’azienda, alla scadenza del con-tratto di affitto, obbliga l’affittuario a risarcire i danni derivanti al locatore dalla ritardata consegna. Peraltro, come osservato dalla giurisprudenza, il mero fatto che l’affittuario dopo la scadenza del contratto non abbia restituito l’azienda al locatore, ed abbia continuato egli stesso a gestirla, può determinare l’insorgere di responsabilità dell’affittuario per violazione dello specifico obbligo di restitu-zione, ma non comporta violazione del divieto di concorrenza stabilito dal pe-nultimo comma dell’art. 2557 c.c., essendo tale ultima violazione configurabile solo dopo l’avvenuta restituzione dell’azienda al locatore.

603 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Un’ulteriore ipotesi di risarcimento del danno è costituito dal perimento fortuito delle scorte che, secondo la dottrina, grava sull’affittuario. Per con-tro, la dottrina è prevalentemente orientata nel senso che il perimento fortui-to delle immobilizzazioni gravi sul proprietario. Di conseguenza, il deterio-ramento (fisico ed economico) e la distruzione (fisica ed economica) costi-tuenti normali conseguenze della limitata vita degli impianti e della loro uti-lizzazione fanno carico all’affittuario, mentre i perimenti per cause diverse – purché non imputabili all’affittuario – sono a carico del proprietario. Pertan-to, dall’inventario iniziale rivalutato, in sede di confronto con l’inventario finale, dovranno venire detratte le immobilizzazioni eventualmente perite per caso fortuito, secondo il valore che esse avevano al momento del peri-mento.

Un caso particolare di risarcimento del danno è inoltre costituito dalle «variazioni illecite», quali ad esempio le riduzioni delle scorte al di sotto del livello normale per quell’azienda, gli acquisti di scorte in misura sicuramen-te eccedente le esigenze della gestione, le sostituzioni resesi necessarie per mancata manutenzione di preesistenti elementi aziendali, il mancato rim-piazzo di impianti necessario per la conservazione dell’efficienza dell’orga-nizzazione, la sostituzione di un elemento con altro inopportuno o negligen-temente scelto; l’ingiustificato incremento occupazionale. In tali casi, l’af-fittuario dovrà al proprietario «non la sola differenza tra i valori d’inven-tario, ma anche l’ulteriore somma corrispondente al maggior costo che i be-ni da acquistare per ristabilire l’equilibrio aziendale avranno nel momento in cui il proprietario riuscirà ad acquistarli, o l’ulteriore somma corrispon-dente ai costi di eliminazione dei beni indebitamente immessi (a meno che egli stesso li stralci dall’azienda), o la differenza tra il valore che hanno gli impianti e quello che essi avrebbero se fossero stati assoggettati alle dovute manutenzioni, ecc.» 92.

In generale, quindi, il risarcimento del danno può essere richiesto tutte le volte che non sia stata preservata, in termini economici, la rerum substantia da parte dell’affittuario.

2.7.2.9. La disciplina del divieto di concorrenza

L’art. 2557, 4° comma, c.c., stabilisce che sul proprietario incombe un divieto di concorrenza per tutta la durata dell’affitto. Il divieto di concorren-za si concretizza nell’obbligo, incombente sul proprietario, di astenersi dal-

92 COLOMBO, Usufrutto ed affitto dell’azienda, in Trattato di diritto commerciale e di di-ritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, vol. III, Padova, 1979, 278.

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l’iniziare una nuova impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circo-stanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta. La norma è volta a tutelare l’affittuario da iniziative che possono essere assunte dal proprietario volte a sottrarre la clientela dell’azienda affittata, quale, ad esempio, l’inizio di una nuova attività d’impresa nello stesso settore di attività e nella stessa zona dell’azienda affittata.

É stata sollevata la questione se il divieto di concorrenza faccia capo an-che all’affittuario al termine del contratto di affitto d’azienda. Infatti, come stabilito dal 1° comma dell’art. 2557 c.c., «chi aliena l’azienda deve aste-nersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall’iniziare una nuo-va impresa che per l’oggetto, l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta».

La giurisprudenza è orientata in senso favorevole all’applicazione del di-vieto di concorrenza alla scadenza del contratto di affitto d’azienda. In parti-colare la Suprema Corte ha sancito il principio secondo cui le disposizioni dell’art. 2557 c.c., concernenti il divieto di concorrenza in caso di trasferi-mento di azienda, trovano applicazione non soltanto con riguardo alle ipotesi di alienazione di questa, intesa in senso tecnico, ma anche a tutte quelle altre ove si avveri la sostituzione di un imprenditore all’altro nell’esercizio del-l’impresa, e, pertanto, anche in favore del proprietario di un’azienda nel caso che l’abbia data in affitto, allorché l’azienda gli sia stata trasferita dall’af-fittuario per scadenza del termine finale o per altra causa negozialmente pre-vista.

Pare corretto aderire a tale tesi giurisprudenziale e cioè ritenere che, in assenza di regolamentazione contrattuale, incomba sull’affittuario un divieto di concorrenza di durata quinquennale.

2.7.2.10. Gli effetti della cessazione sui rapporti di lavoro

L’art. 2112, comma 1, c.c. stabilisce che «in caso di trasferimento d’a-zienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano». Il comma 2 aggiunge che «il ceden-te ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavora-tore aveva al tempo del trasferimento».

La disposizione è molto chiara e dispone in sostanza che in caso di trasferi-mento d’azienda vi è, da un lato, la successione automatica del cessionario dell’azienda trasferita nei rapporti di lavoro in atto con il cedente al momento del trapasso, con la sostituzione soggettiva nella posizione del datore di lavoro; dall’altro, sorge una responsabilità solidale del cedente e del cessionario con ri-ferimento ai crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento.

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In tale modo viene assicurata al lavoratore la continuità del rapporto di lavoro – con la conservazione del posto e della posizione contrattuale pre-gressa – e viene accentuata a suo favore la garanzia del pagamento dei credi-ti maturati prima del trasferimento.

Tale disciplina vale certamente per il trasferimento dell’azienda dal pro-prietario all’affittuario in occasione della stipulazione del contratto di affitto. Occorre, peraltro, verificare se essa si applichi anche nel caso di retrocessio-ne del complesso aziendale all’atto della scadenza dell’affitto.

La dottrina e la giurisprudenza sono unanimemente orientate nel senso che tale forma trovi applicazione, sul riflesso che la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c. ricorre anche nell’ipotesi di cessazione dell’affitto d’azienda – quale che sia la causa di essa – poiché in tale occasione di attua un (ri)trasfe-rimento dell’azienda dall’affittuario al proprietario; ovviamente, a condizio-ne che il proprietario continui a utilizzare il complesso aziendale in funzione dell’esercizio della stessa attività imprenditoriale, nonostante il mutamento della persona dell’imprenditore.

La dottrina, in particolare, ritiene che il concetto di trasferimento assuma un significato atecnico molto ampio, non circoscritto al mero passaggio di proprietà, ma comprensivo di ogni negozio giuridico dal quale sorga la legit-timazione all’esercizio del potere di gestione aziendale; ed in tale nozione, ad evidenza, rientra anche l’ipotesi di retrocessione dell’azienda nella dispo-nibilità del proprietario.

La giurisprudenza dal canto suo ha osservato che il trasferimento espone il proprietario a responsabilità solidale per tutti i debiti dell’affittuario verso i dipendenti, correlati al rapporto di lavoro, ivi compresi i debiti di natura as-sicurativa o previdenziale; ed ha precisato che l’art. 2112 c.c. trova applica-zione, ove rimanga immutata l’organizzazione dei beni aziendali, anche qua-lora il proprietario, anziché proseguire l’attività in precedenza esercitata dal-l’affittuario, sostituisca a questi, senza soluzione di continuità, un altro sog-getto nella medesima posizione di affittuario, configurandosi in tal caso una indiretta utilizzazione del complesso aziendale da parte del concedente, a mezzo dell’affittuario.

La giurisprudenza, peraltro, nel ribadire che la norma trova applicazione indipendentemente dal mezzo tecnico-giuridico con il quale il trasferimento si sia in concreto realizzato, sottolinea la necessaria presenza di un ulteriore presupposto costitutivo della fattispecie: cioè l’immutazione strutturale ed organica dell’azienda.

In conclusione il rapporto di lavoro continua sia in caso di trasferimento dell’azienda dal proprietario all’affittuario all’inizio dell’affitto sia in caso di (ri)trasferimento dell’azienda dall’affittuario al proprietario al termine del-

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l’affitto; e sull’affittuario prima e sul proprietario dopo grava la responsabi-lità solidale per i debiti di lavoro.

La disposizione richiede dunque particolare attenzione, anche perché as-sume verosimilmente carattere imperativo e pertanto non è derogabile dalle parti. Richiede particolare attenzione perché il proprietario – se imprenditore commerciale (individuale o collettivo) – deve, in quanto solidalmente respon-sabile, non solo conservare in bilancio (nei conti d’ordine, trattandosi di ri-schio) l’esposizione dei debiti di lavoro nei confronti del personale dipendente trasferito, ma anche esporre il debito nel suo ammontare aggiornato di anno in anno (sempre nei conti d’ordine). Qualora poi l’affittuario manifesti l’inca-pacità di adempiere alle obbligazioni derivanti dai rapporti di lavoro, l’am-montare complessivo dei conti d’ordine deve essere trasferito dal sistema se-condario (conti d’ordine) al sistema principale (voce: debiti) di bilancio.

Occorre, inoltre, ricordare che il debito assistito da responsabilità solidale del proprietario si movimenta non soltanto per effetto dell’anzianità dei di-pendenti trasferiti, ma anche in conseguenza dell’assunzione di nuovi dipen-denti da parte dell’affittuario; sebbene con il temperamento per cui deve sus-sistere l’immutazione strutturale ed organica dell’azienda, cioè la consisten-za iniziale dell’azienda non deve essere stravolta dalla gestione spregiudica-ta dell’affittuario. Ferma restando tale condizione, il proprietario deve, quin-di, iscrivere in bilancio l’intero ammontare dei debiti derivanti da tutti i rap-porti di lavoro, con evidente aumento del rischio di regresso all’aumentare della dimensione occupazionale dell’impresa.

2.8. Il sequestro e il pegno d’azienda Il sequestro giudiziario dell’azienda è il classico strumento cautelare cui

si ricorre nei casi in cui vi sia una controversia circa la proprietà o il posses-so dell’azienda e sia opportuno provvedere alla loro custodia o gestione tem-poranea.

Come è stato osservato, «L’azienda è un complesso di beni funzional-mente organizzati in un insieme unitario e coordinato per l’esercizio del-l’impresa; tale nozione ed il rilievo che l’art. 670, n. 1, c.p.c., contempla il sequestro giudiziario di aziende o altre universalità di beni, costituiscono e-lementi sufficienti a legittimare la qualificazione dell’azienda come univer-salità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c.» 93.

Tale ultima esigenza si verifica, in particolare, nei casi in cui sussista il

93 App. Napoli 7 settembre 2007.

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rischio di deterioramento, sottrazione, alienazione dell’azienda o, comunque, ove possano verificarsi pregiudizi per l’integrità dell’avviamento.

In questo caso, il giudice che ha emesso il provvedimento di sequestro nomina un custode, stabilendone i criteri e i limiti della gestione di quanto sequestrato e le particolari cautele idonee a rendere più sicura la custodia e ad impedirne la divulgazione dei segreti aziendali.

«Se nulla è detto nel provvedimento che dispone il sequestro, si devono in via suppletiva ritenere operanti le norme dettate in tema di usufrutto di azienda» 94.

Si osserva, al riguardo, che: «L’azienda sottoposta al sequestro giudizia-rio continua ad essere un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, ai sensi dell’art. 2555 c.c. e titolare dell’azien-da sequestrata continua ad essere l’imprenditore, in quanto la gestione tem-poranea da parte del custode non produce alcun mutamento del centro di imputazione degli obblighi e dei diritti» 95.

Il sequestro ha, invece, natura conservativa quando è utilizzato come mi-sura cautelare e preventiva richiesta da un creditore, allorché vi sia un fonda-to motivo per temere la perdita della garanzia sottostante al proprio credito. Secondo l’opinione prevalente, non è possibile ottenere tale provvedimento conservativo: esso, infatti, costituisce una sorta di anticipato pignoramento, ma l’azienda, in sé considerata, non rientra tra i beni che possono costituire oggetto di pignoramento dal codice di procedura civile; minoritaria è, inve-ce, la tesi per cui sarebbe possibile ottenere un sequestro giudiziario del-l’azienda, pur nell’impossibilità di farla divenire successivamente oggetto di pignoramento.

«Infine, il sequestro può essere di natura convenzionale ai sensi dell’art. 1798 c.c., come contratto con il quale due o più persone affidano a un terzo una cosa rispetto alla quale sia nata una controversia, affinché questi la cu-stodisca e la restituisca alla persona a cui spetterà quando la controversia sarà conclusa. In questo caso può essere posta sotto sequestro l’intera a-zienda e la mancata indicazione dei singoli componenti destinati a formare oggetto specifico di sequestro non è causa di invalidità o di inefficacia dello stesso» 96.

Quanto al pegno d’azienda – ossia il diritto reale di garanzia riconosciuto

94 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 286. 95 Trib. Roma 15 dicembre 1992, in Dir. fall., 1993, 707. 96 FORTINO, Sequestro conservativo e convenzionale, in Enciclopedia del diritto, XLII,

Milano, 1990, 115.

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a un determinato creditore, sulla base di un accordo a garanzia del suo credi-to –, «l’art. 2784 c.c. risolve testualmente in senso affermativo la questione, nella parte in cui ammette il pegno dell’universalità di mobili. La dottrina prevalente, infatti, riconosce in maniera sostanzialmente pacifica che tra le universalità oggetto di pegno rientri anche l’azienda» 97.

Nella disciplina dello stesso art. 2784 c.c. sono esclusi in ogni caso dal pegno i beni immobili e i beni mobili registrati facenti parte del complesso aziendale, sui quali sarà piuttosto necessario costituire una ipoteca al fine di ottenere una garanzia prelatizia.

«La dottrina prevalente, ammettendo la sottoponibilità a pegno dell’a-zienda, ne modella la disciplina su quella dell’usufrutto d’azienda, con gli opportuni adattamenti suggeriti dalle norme dettate per il pegno. Ciò significa che il creditore pignoratizio ha poteri assimilabili a quelli dell’usufruttuario, con conseguente applicazione analogica delle regole dettate dall’art. 2561 c.c.: egli assume la gestione dell’azienda in nome proprio e spettano a lui i poteri e i doveri propri dell’usufruttuario; può gestire personalmente l’azienda, com-piendo tutte le operazioni necessarie a evitare che la stessa risulti compromes-sa, ovvero lasciarne la gestione al debitore. Gli utili della gestione, poi, vanno innanzitutto a coprire le spese della stessa, ma solo se riguarda atti di gestione ordinaria; le spese di straordinaria amministrazione gravano direttamente sul debitore; per il residuo, gli utili sono suscettibili di appropriazione da parte del creditore, ai sensi dell’art. 2791, c.c., salvo patto contrario» 98.

2.9. La successione e l’azienda In materia di trasferimento di azienda mortis causa, la disciplina codicistica

non fornisce alcuna indicazione. Il silenzio normativo non pare, tuttavia, gene-rare problemi per la successione a titolo universale, dal momento che la disci-plina stessa del fenomeno successorio, ove prevede che l’erede subentri in ogni posizione giuridica, attiva e passiva, precedentemente in capo al de cuius, sem-bra necessariamente sostituirsi a quella relativa alla circolazione dell’azienda.

Con riferimento ai debiti, occorre, peraltro, precisare che – nei rapporti esterni – di essi risponderanno tutti gli eredi anche nel caso in cui l’azienda sia stata assegnata ad uno solo di essi, trattandosi a tutti gli effetti di debiti ereditari. Ciò non vale, invece, nei rapporti interni, dal momento che questi graveranno solo sull’assegnatario.

97 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 292. 98 FERRENTINO-FERRUCCI, Dell’azienda, Milano, 2014, 293.

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«La successione determina inoltre l’applicazione di norme, quali l’art. 1330 e l’art. 1722 n. 4 c.c., di cui la prima sembra valere anche nel caso di alienazione, la seconda tende invece ad assicurare la continuità dell’im-presa e dei suoi rapporti esterni nei casi di sopravvenuta morte o incapacità dell’imprenditore mandante» 99.

Nel caso in cui l’azienda sia devoluta a due o più eredi, si forma una co-munione di azienda e non necessariamente una società – anche solamente di fatto – tra gli stessi. La successione ereditaria, infatti, non comporta necessa-riamente (a differenza di quanto avviene nelle ipotesi di trasferimento inter vivos) una successione nell’impresa.

«Infine, nelle ipotesi di legato d’azienda trova applicazione la disciplina dell’alienazione» 100.

E, come osservato dalla giurisprudenza, «sembra sussistere anche in tali casi l’obbligo di non concorrenza, almeno nei casi in cui si ritenga che esso trovi la sua ragion d’essere nel trasferimento e nell’esigenza che questo non sia caducato, sul piano economico, dall’alienante. Non manca, inoltre, il soggetto cui il divieto possa far capo, ossia il successore a titolo universale, il quale si immedesima – in quanto tale e nei limiti già visti per l’erede del-l’alienante – con la persona e con il patrimonio del suo autore. Il successo-re a titolo universale sarebbe quindi tenuto a non far concorrenza al legata-rio, così come sarebbe obbligato a non farla nei confronti degli altri succes-sori cui l’azienda fosse stata devoluta in sede di divisione» 101.

Secondo la dottrina, «se poi, attività imprenditoriali uguali o simili sa-ranno intraprese da soggetti legati da vincoli di parentela o da rapporti di collaborazione con l’imprenditore defunto, con pericolo di sviamento di clientela, la tutela del legatario potrebbe prospettarsi sotto il diverso profilo della concorrenza sleale, con applicazione dell’art. 2598 c.c.» 102.

In mancanza di una specifica disposizione testamentaria, sorge il proble-ma di individuare la sorte dei debiti dell’azienda legata; come è evidente, la soluzione a tale quesito è opposta a seconda che si ritenga che questa vada intesa come universitas facti o, piuttosto, quale universitas iuri, dal momen-to che solo nel secondo caso si può ritenere che vi sia un automatico trasfe-

99 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-va, 2001, 654.

100 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-va, 2001, 654.

101 Cass. 8 giugno 1957, n. 2314. 102 BONFANTE-COTTINO, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, vol. I, Pado-

va, 2001, 655.

610 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

rimento dei debiti, di cui il legatario può, tuttavia, essere chiamato a rispon-dere solamente nei limiti di cui all’art. 671 c.c.

In ogni caso, il legatario risulta, nei rapporti esterni e dunque nei confron-ti dei terzi, responsabile in solido per tutti i debiti risultanti dalle scritture contabili, ai sensi dell’art. 2560 c.c.

«Il legatario di azienda (…) è responsabile dei debiti esistenti permanen-do la responsabilità (solidale) dell’erede universale del dante causa; tutta-via la mancata conoscenza e la mancata menzione dei debiti esistenti nel-l’istituzione di legato, esonerano il legatario da ogni responsabilità, resi-duando però la legittimazione passiva dell’erede universale nei cui confron-ti gli aventi titolo potranno rivalersi» 103.

3. Il trasferimento d’azienda nel fallimento

3.1. Premessa La liquidazione dell’attivo fallimentare consiste nella conversione in denaro

del patrimonio dell’impresa fallita. Lo scopo di tale attività è duplice: da un lato, realizzare le somme necessarie al soddisfacimento dei creditori; dall’altro, con-servare i valori dell’impresa (qualora meritevoli). In tal senso la legge fallimen-tare prevede che il curatore possa esercitare provvisoriamente l’attività, conce-dere in affitto l’azienda e cedere l’intero complesso aziendale o singoli rami ov-vero, soltanto da ultimo, i beni atomisticamente intesi.

Rispetto al testo originario del 1942, la disciplina in tema di liquidazione dell’attivo è stata profondamente innovata a partire dal 2006: l’intero Capo VI della legge fallimentare è stato sostituito, con l’introduzione – tra l’altro – dell’obbligo di predisposizione del programma di liquidazione e della vendita tramite procedure competitive. Da ultimo, il d.l. 23 dicembre 2013, n. 145, c.d. “Destinazione Italia”, ha stabilito – sempre nell’ottica di preser-vare la continuità – che la cooperativa formata dai dipendenti dell’impresa fallita abbia diritto di prelazione sull’affitto e sull’acquisto del complesso aziendale.

Il campo di applicazione degli istituti dell’esercizio provvisorio e della liquidazione dell’attivo è la procedura fallimentare, ma quest’ultima trova parziale applicazione anche nel concordato preventivo, ove questo abbia na-tura liquidatoria o mista.

103 App. Catania 14 settembre 1993, in Dir. giur. agr. e amb., 1995, 435.

611 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

3.2. Il programma di liquidazione Il programma di liquidazione è una delle novità di maggiore rilievo della

riforma della legge fallimentare, che ha previsto la “programmazione condi-visa” della liquidazione dell’attivo fallimentare, quale premessa per un effi-cace controllo a consuntivo della gestione liquidatoria del curatore.

É un atto tipico della procedura fallimentare, redatto a cura del curatore ed approvato dal comitato dei creditori; esso costituisce – come si è detto – l’atto di pianificazione e di indirizzo della liquidazione del patrimonio falli-mentare.

«La liquidazione va dunque programmata. Ma, nella mente del legislato-re, la programmazione della liquidazione non deve essere un «manifesto» di buone intenzioni, cioè una mera elencazione di atti che il curatore si propo-ne di compiere, ma un articolato piano che consacra precisi ed analitici im-pegni operativi e scansioni temporali, da rassegnare al giudizio del comita-to dei creditori ed all’approvazione del giudice delegato» 104.

Il programma di liquidazione costituisce un vero e proprio “contratto” con i creditori concorsuali, il cui inadempimento può essere – per il curatore – fonte di responsabilità per danni e motivo di eventuale revoca della carica.

Il programma deve essere:

• tempestivo, in quanto deve essere redatto entro sessanta giorni dalla chiu-sura delle operazioni di inventariato;

• analitico, poiché devono essere dettagliati le modalità – anche pubblicitarie – ed i tempi di realizzo dei beni che compongono il patrimonio del fallito. Il programma deve quindi indicare se la vendita avverrà ad opera del cura-tore o a mezzo di commissionario, secondo modalità mutuate dal processo di esecuzione per le vendite senza incanto o con incanto ovvero in altro modo;

• prudente, in quanto deve indicare ed illustrare attentamente gli aspetti criti-ci, valutandone il peso e prevedendone, ove possibile, gli esiti favorevoli e sfavorevoli;

• realizzabile nei modi e secondo le modalità previste, in relazione ai beni che compongono il patrimonio fallimentare e alle prospettive di utile con-tinuazione dell’attività d’impresa;

• finalizzato ◦ alla conservazione del valore dell’azienda, o di rami di essa, previa veri-

104 QUATRARO, Il Programma di liquidazione. Profili generali, in AA.VV., Il nuovo dirit-to fallimentare, Bologna, 2007.

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fica dell’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa o di stipulare un contratto d’affitto;

◦ alla verifica della possibilità di cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami della stessa, di beni o di rapporti giuridici individuabili in blocco;

◦ in difetto, alla vendita di singoli beni. L’attività liquidatoria si articola in due momenti:

• l’approvazione del programma di liquidazione, nella predisposizione del quale il curatore ha piena libertà di scelta in ordine alle modalità liquidato-rie;

• l’esecuzione di quanto indicato nel programma, al quale il curatore sarà vincolato.

Ai sensi dell’art. 104-ter, comma 1, l. fall., il programma di liquidazione deve essere predisposto dal curatore entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario, termine da considerarsi ordinatorio. Il termine per la presen-tazione del programma è relativamente breve: entro tale termine il curatore deve acquisire i dati e gli elementi necessari all’individuazione del patrimo-nio fallimentare e definire le modalità di realizzo dello stesso.

Dal momento che, ai sensi dell’art. 87 l. fall. (rimasto invariato anche do-po la riforma) l’inventario deve essere redatto nel più breve termine possibi-le dalla rimozione dei sigilli ovvero dal primo accesso, si comprende come il termine a partire dal quale inizia il computo dell’arco temporale, seppure piuttosto stretto, sia nella pratica variabile da caso a caso.

«La terminologia utilizzata dal legislatore (testualmente la «redazione dell’inventario») rende inoltre evidente che il dies a quo parte dal momento in cui la redazione dell’inventario sia stata terminata» 105.

L’art. 104-ter l.f. prescrive il contenuto minimo del programma di liqui-dazione, che deve indicare ed illustrare (in senso positivo o negativo):

• l’opportunità di disporre l’esercizio provvisorio; • l’eventuale sussistenza di proposte di concordato; • le azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie esperibili ed il loro esito; • la cessione unitaria dell’azienda o dei singoli beni e le relative modalità di

effettuazione.

Il programma di liquidazione è, dunque, un documento strutturato e pro-grammatico della gestione del patrimonio fallimentare posta in essere dal curatore.

105 QUATRARO, Il Programma di liquidazione. Profili generali, in AA.VV., Il nuovo dirit-to fallimentare, Bologna, 2007, 1663.

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Trattandosi di un atto di gestione, il programma di liquidazione deve es-sere approvato dal comitato dei creditori, il quale è chiamato a valutare nel merito l’opportunità e la convenienza delle scelte operate dal curatore.

«Al giudice delegato, in sede di autorizzazione dei singoli atti esecutivi contenuti nel programma di liquidazione approvato dal comitato dei credi-tori, non spetta entrare nel merito delle scelte operate dal curatore, dovendo esercitare il proprio potere di controllo con riferimento alla c.d. regolarità formale ed alla c.d. legittimità sostanziale» 106.

Redatto il programma, il curatore deve dunque ottenere l’approva-zione dello stesso da parte del comitato dei creditori, il quale – prima di pronunciarsi – può chiedere al curatore di apportare eventuali modifiche. E, poiché non vi sono strumenti per costringere il comitato dei creditori a prendere posizione (favorevole) su questioni di merito, il curatore dovrà recepire le modifiche proposte oppure redigere un altro programma oppu-re dimettersi.

Il comitato, in ogni caso, deve pronunciarsi entro quindici giorni dalla ri-chiesta del parere (art. 41, comma 3, l. fall.) oppure entro il termine fissato dal giudice delegato.

Ottenuta l’approvazione, il programma dovrà essere attuato, previa auto-rizzazione di ogni singolo atto esecutivo ad opera del giudice delegato.

Si può, pertanto, affermare che il programma di liquidazione è «il frutto della condivisione necessaria tanto del curatore, che del comitato dei credi-tori, che del giudice delegato, in quanto viene predisposto dal curatore fal-limentare, quale motore della intera procedura ma, affinché assuma carat-tere di definitività, è necessario che vi sia l’approvazione del comitato dei creditori e che il giudice delegato “autorizzi l’esecuzione degli atti ad esso conformi”» 107.

Il programma di liquidazione può constare di un solo documento, oppure, qualora il curatore ravvisi particolari ragioni di urgenza che possano giusti-ficare la necessità di proporre l’eventuale continuazione dell’esercizio del-l’impresa o l’affitto dell’azienda, le specificazioni di cui al comma 2 dell’art. 104 ter, l. fall. possono essere contenute in più documenti successivi al pro-gramma di liquidazione, per poi confluire in esso una volta autorizzato l’e-sercizio provvisorio.

Le ragioni di urgenza che si possono prospettare sono, ad esempio, i se-guenti:

106 App. La Spezia, 31 maggio 2010, in Fall., 2010, p. 1215. 107 ESPOSITO, Il programma di liquidazione nel decreto correttivo, in Fall., 2007, 1078.

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• rapporti di lavoro in corso, di natura subordinata e non, la cui precaria con-dizione necessita di provvedimenti immediati da parte della curatela;

• contratti di fornitura in corso, il cui inadempimento o non puntuale adem-pimento da parte del fallimento può legittimare gli acquirenti a chiederne la risoluzione o a far operare le penali pattuite, ritardando od evitando i pagamenti dovuti, con comprensibile danno per i creditori dell’impresa fallita;

• rapporti giuridici pendenti che, non sciogliendosi ex lege per effetto della dichiarazione di fallimento, possono comportare un rilevante onere per la massa fallimentare, dovendo essere soddisfatti in prededuzione;

• questioni riguardanti i prodotti semilavorati, i quali estrapolati da un de-terminato contesto produttivo potrebbero non avere valore alcuno.

Il curatore, pertanto, dovrà anteporre tale incombenza ad ogni altra e dovrà verificare la ricorrenza dei presupposti per la continuazione dell’esercizio del-l’impresa, al fine di evitare la produzione di un danno grave e non più riparabi-le, quale effetto dell’interruzione improvvisa dell’attività imprenditoriale.

In tali circostanze, il curatore – acquisito il parere favorevole del comita-to dei creditori – può proporre al giudice delegato di autorizzare la continua-zione temporanea dell’esercizio dell’impresa.

Per porre il giudice delegato nella condizione di decidere con cognizione di causa sulla richiesta, il curatore deve predisporre una dettagliata e docu-mentata relazione (art. 33 l. fall.) che deve far luce in particolare:

• sulla situazione patrimoniale, finanziaria e gestionale dell’impresa fallita; • sulla prospettiva di un’utile continuazione dell’esercizio dell’impresa; • su elementi prettamente tecnici, quali la disponibilità di risorse finanziarie

e di personale dipendente da utilizzare; • sulle condizioni operative e quindi sui cicli di lavoro, sui contratti da man-

tenere o disdire, sui nuovi contratti da stipulare; • sui costi certi e su quelli preventivabili; • sui ricavi ragionevolmente attendibili; • sull’opportunità di continuare l’attività di impresa, anche alla luce di tratta-

tive in corso, per la più proficua liquidazione dei beni che compongono l’azienda;

• sulla presumibile durata dell’esercizio provvisorio.

«L’urgenza di disporre la continuazione dell’esercizio dell’impresa, per preservare o non pregiudicarne il valore, nell’interesse dei creditori, porta a ritenere che l’elaborazione della suddetta complessa relazione non debba essere necessariamente contenuta nel programma di liquidazione, ma possa

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essere anticipata alla elaborazione dello stesso per poi confluire in esso una volta autorizzato l’esercizio provvisorio» 108.

Tuttavia, la possibilità di presentare il programma di liquidazione in più documenti non significa – a parere della giurisprudenza – che tale program-ma possa essere approvato in momenti separati, infatti «è inammissibile l’approvazione parziale del programma di liquidazione essendo l’istituto fondato sull’esigenza di pianificazione delle attività» 109.

Infine, il programma di liquidazione potrebbe avere natura “negativa”, qualora il curatore intenda proporre la chiusura del fallimento in caso di pre-visione di un insufficiente realizzo.

In tale ipotesi, se il curatore – effettuate le operazioni inventariali – giun-ge alla conclusione che non vi sia attivo acquisibile, redige una relazione ove illustra le ragioni che consigliano di chiudere la procedura fallimentare ai sensi dell’art. 118, n. 4, l. fall., chiedendo contestualmente al tribunale, con istanza depositata almeno venti giorni prima dell’udienza di verifica, di non dar luogo all’accertamento dei crediti.

Parte della dottrina, sostiene che «la «relazione sulle prospettive della li-quidazione» altro non sia che un programma di liquidazione nel quale il cu-ratore espone agli altri organi della procedura la mancanza di beni da li-quidare nonché l’impossibilità di instaurare quelle azioni risarcitorie, recu-peratorie o revocatorie che consentirebbero di realizzare l’attivo» 110.

Qualora si verifichi questa evenienza, il tribunale “dispone in conformi-tà”; contro tale decreto i creditori che abbiano presentato domanda di am-missione al passivo possono opporre reclamo avanti la corte d’appello, che decide in camera di consiglio sentito il reclamante, il curatore, il comitato dei creditori e il fallito.

3.3. L’esercizio provvisorio, l’affitto d’azienda o di singoli rami

3.3.1. L’esercizio provvisorio

La riforma della legge fallimentare, intervenuta a partire dal 2006, ha modificato profondamente le modalità con le quali avviene la liquidazione

108 QUATRARO, Il Programma di liquidazione. Profili generali, in AA.VV., Il nuovo dirit-to fallimentare, Bologna, 2007, 1667.

109 Trib. Roma, 28 aprile 2009, in Fall., 2010, 361. 110 QUATRARO, Il Programma di liquidazione. Profili generali, in AA.VV., Il nuovo dirit-

to fallimentare, Bologna, 2007, 1669.

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dell’attivo fallimentare, assegnando alla stessa uno scopo ulteriore rispetto alla semplice realizzazione delle somme utili alla soddisfazione dei creditori: conservare il valore dell’impresa e del suo patrimonio, al fine di poter riallo-care l’azienda (o parti di essa), preservandone le qualità e la funzionalità.

Le modifiche apportate al Capo VI dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (G.U. 16.1.2006) già riflettevano un diverso approccio del legislatore alle fasi pro-cedurali della liquidazione e della ripartizione dell’attivo. In linea con la ra-tio dell’intera riforma e con i principi dettati dalla legge delega – tesi a favo-rire l’accelerazione delle procedure concorsuali attraverso un’opera di sem-plificazione delle stesse – le nuove disposizioni sulla realizzazione e conse-guente ripartizione dell’attivo si ispirano, inoltre, a criteri di efficienza e semplificazione operativa.

La novità di maggior rilievo portata dalla riforma consiste nella puntuale disciplina della continuità d’impresa, che può essere attuata dal curatore sia in prima persona – attraverso l’esercizio provvisorio dell’impresa fallita – sia mediante l’affitto d’azienda, prodromico al trasferimento della stessa. In particolare, con la riforma è stata introdotta la disciplina dell’esercizio – di-retto o indiretto – dell’impresa fallita, quale strumento di salvaguardia dei li-velli occupazionali, del valore e della funzione produttiva dell’impresa, oltre che di tutela della garanzia patrimoniale nell’interesse dei creditori.

Il nuovo testo dell’art. 104 l. fall. prevede la possibilità, in capo al tribu-nale, di autorizzare l’esercizio provvisorio già nella sentenza dichiarativa di fallimento, qualora dall’interruzione possa “derivare un danno grave” e sem-pre che “non si arrechi pregiudizio ai creditori”.

Questi due requisiti devono coesistere, unitamente all’oggettiva constata-zione che l’impresa sia funzionante al momento della decisione e, quindi, nel corso dell’istruttoria: in questo caso è lo stesso tribunale a disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa.

La continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa può, inoltre, es-sere autorizzata dal giudice delegato successivamente, prima dell’approva-zione del programma di liquidazione ex art. 104-ter l. fall.; può essere dispo-sta contestualmente all’approvazione del programma di liquidazione ex art. 104-ter, comma 2, lett. a), l. fall.; oppure mediante una modifica dello stes-so, qualora tale opportunità si presenti come un’esigenza sopravvenuta.

In particolare, il giudice delegato può disporre la continuazione tempora-nea dell’esercizio dell’impresa a seguito di proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori. È proprio in questa previsione che si coglie l’aspetto più innovativo dell’istituto, funzionale non più al solo interesse privatistico, volto a conseguire un miglior realizzo in sede di liqui-dazione dell’attivo, ma aperto altresì a quello pubblicistico di utile conserva-

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zione dell’impresa ceduta nella sua integrità o in parte, sempre che i credito-ri non ne subiscano nocumento.

«L’evidente differenza fra esercizio provvisorio e continuazione tempo-ranea dell’attività di impresa non deriva, peraltro, esclusivamente dal di-verso momento in cui è previsto che l’organo rilasci la relativa autorizza-zione, ma è sottolineata anche dallo stesso iter informativo previsto dal ter-zo comma dell’art. 104-ter, laddove si precisa che, durante il periodo di esercizio provvisorio, il comitato debba essere convocato, con cadenza tri-mestrale, perché sia informato dell’andamento della gestione e possa, quin-di, pronunciarsi sulla opportunità di una continuazione che, di contro, se disposta dal giudice delegato, avrà già una sua scadenza in ragione della prevista sua temporaneità» 111.

L’esercizio provvisorio e la continuazione temporanea dell’impresa sono quindi strumenti conservativi del patrimonio, preparatori della liquidazione e di carattere temporaneo, con la differenza – rispetto all’affitto – che la ge-stione provvisoria spetta direttamente al curatore e non ad un terzo.

L’esercizio provvisorio dell’impresa può continuare soltanto in presenza dei presupposti che lo hanno determinato, in quanto non deve recare pregiudizio ai creditori: poiché l’impresa è un’entità economica soggetta a continui cambia-menti, occorre quindi procedere ad un monitoraggio continuo dello svolgimento dell’attività. Per questo motivo il legislatore ha previsto che, durante il periodo di esercizio provvisorio, il curatore convochi il comitato dei creditori al fine di informarlo circa l’andamento della gestione, in modo tale che quest’ultimo pos-sa pronunciarsi sull’opportunità di continuare l’esercizio dell’impresa.

Il curatore inoltre deve predisporre, con cadenza semestrale, un rendicon-to dell’attività – sostanzialmente un bilancio intermedio d’esercizio – e de-positarlo in cancelleria.

L’esercizio provvisorio può cessare per diverse ragioni e, in particolare, qualora:

• il comitato dei creditori, nell’ambito delle riunioni trimestrali, ritenga inop-portuna la continuazione temporanea dell’attività: la cessazione è disposta dal giudice delegato con apposito decreto;

• il tribunale – previo parere del curatore e del comitato dei creditori – ne ravvisi l’inopportunità: la cessazione è disposta dal tribunale, riunito in camera di consiglio, con decreto non soggetto a reclamo;

• sia decorso il termine fissato dal giudice delegato nel decreto che dispone la continuazione temporanea dell’attività su proposta del curatore.

111 CAIAFA, Le procedure concorsuali, Padova, 2011, 895 ss.

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La gestione provvisoria da parte del curatore, inoltre, comporta la prose-cuzione dei contratti pendenti, salvo che lo stesso non intenda sospenderne l’esecuzione ovvero scioglierli.

È evidente che, se l’esercizio provvisorio è stato autorizzato unitamente alla sentenza dichiarativa di fallimento, tutti i contratti proseguono senza di-stinzione; se invece l’autorizzazione interviene successivamente ad opera del giudice delegato, o addirittura nell’ambito del programma di liquidazio-ne, il regime degli artt. 72 ss. l. fall. ha già avuto esecuzione e, quindi, i con-tratti che – per legge – si sciolgono automaticamente con la declaratoria di fallimento, si sono già dissolti. In questi casi è evidente che l’esercizio prov-visorio determina la prosecuzione soltanto dei rapporti che sono ancora pen-denti in quel momento e non invece di tutti quelli che lo erano al momento della dichiarazione di fallimento.

Per quanto concerne i crediti sorti nel corso dell’esercizio provvisorio, ad essi spetta la prededucibilità ai sensi dell’art. 111 l. fall.: si tratta di una con-dizione fondamentale per l’effettiva prosecuzione dell’attività di impresa, in quanto ai soggetti che consentono tale continuazione viene assicurato di es-sere preferiti rispetto ai creditori concorsuali, contenendo così il rischio che si rifiutino di trattare con l’impresa fallita.

Dello stesso orientamento risulta essere la giurisprudenza, la quale affer-ma che i crediti maturati nell’esercizio provvisorio devono essere ammessi e soddisfatti in prededuzione, mentre i crediti sorti anteriormente alla dichia-razione di fallimento o successivamente alla chiusura dell’esercizio provvi-sorio sono soggetti alle regole generali inerenti i contratti 112.

L’esercizio provvisorio da parte del curatore determina una serie di re-sponsabilità in capo allo stesso, al punto che questi, soprattutto ove sia privo delle conoscenze tecniche e di mercato indispensabili per la continuazione dell’impresa, può essere indotto a preferire soluzioni alternative che consen-tano di accollare ad un terzo i rischi della gestione, piuttosto che chiedere l’autorizzazione alla continuazione temporanea dell’attività, nel caso in cui essa non sia stata disposta dal tribunale con la sentenza che apre il concorso. Egli sarà, quindi, più propenso a ricorrere all’affitto d’azienda.

Ove non si possa fare ricorso all’affitto, la procedura assumerà i rischi dell’esercizio provvisorio dell’impresa e la responsabilità per tutte le obbliga-zioni contratte nella gestione; con l’aggiunta che i crediti sorti in costanza di procedura saranno in prededuzione. Nell’affitto, invece, è l’affittuario-impren-ditore ad assumersi rischi ed obblighi derivanti dalla gestione dell’azienda ed il

112 Cass., 19 marzo 2012, n. 4303, in Fall., 2013, 122.

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fallimento rimane indenne da qualsivoglia responsabilità, correndo rischi assai più limitati.

3.3.2. L’affitto dell’azienda o di singoli rami

Il ricorso all’affitto di azienda è volto – al pari dell’esercizio provvisorio – ad evitare la dispersione delle attività aziendali e l’esodo dei lavoratori, preservando il valore costituito dalla loro professionalità. E tale strumento si rivela utile soprattutto nei casi in cui l’azienda sia ancora in funzionamento e sia possibile procedere alla liquidazione dell’attivo nel suo complesso, e non già atomisticamente, preservandone così il valore.

«Con la riforma il legislatore ha previsto l’affitto come evento naturale del-l’attività di amministrazione dell’attivo medesimo e come strumento prodromi-co ad una sua migliore liquidazione, tanto che la norma vincola l’adozione del-lo strumento dell’affitto espressamente alla circostanza che lo stesso “appaia utile al fine della più proficua vendita dell’azienda o di parti di essa”» 113.

Parte della dottrina ritiene che dall’adozione generalizzata dello strumento dell’affitto non si possa concepire l’esistenza di un “mercato secondario di aziende”, ma è certo che «la legge di riforma potrà consentire ad imprenditori e professionisti – avvezzi a dialogare con le procedure e non intimoriti dalle rigidità che le stesse comunque in qualche misura sono obbligate ad avere – di dar corso ad interventi collettivi nelle procedure dichiarate, anche al fine di recuperare in secondo momento l’interesse di operatori di settore» 114.

La decisione di ricorrere all’affitto d’azienda rappresenta uno dei mo-menti più significativi non solo della fase iniziale della procedura, ma anche di quelli che saranno i compiti del curatore. L’iniziativa è in capo al curato-re, il quale – ai sensi del primo comma dell’art. 104-bis l. fall. – ha la facoltà di presentare tale proposta: diversamente da quanto accade per l’esercizio provvisorio, l’iniziativa non può derivare motu proprio dal Tribunale.

L’iniziativa del curatore rappresenta il momento di sintesi di un complesso iter al termine del quale egli deve fare una scelta e, in particolare, deve chie-dersi se – ai fini di una corretta e proficua liquidazione – sia più opportuno:

• proseguire o revocare – ove esistente – il contratto di affitto stipulato ante-riormente alla dichiarazione di fallimento;

113 GALLONE-RAVINALE, L’affitto e la cessione d’azienda nella riforma fallimentare, Milano, 2008, 21.

114 GALLONE-RAVINALE, L’affitto e la cessione d’azienda nella riforma fallimentare, Mi-lano, 2008, 20.

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• continuare l’esercizio provvisorio previsto dal tribunale ex art. 104, comma 1, l.f., ovvero chiederne la revoca per accedere ad altra diversa soluzione;

• richiedere la continuazione dell’impresa ex art. 104, comma 2, l. fall.; • procedere all’affitto dell’azienda o ad uno dei suoi rami; • dar corso immediatamente alla vendita dell’azienda o di uno dei suoi rami; • optare per lo smembramento dell’attività dell’impresa e dar corso alla ven-

dita parcellizzata; • optare per forme diverse di liquidazione ex art. 105, comma 8, l. fall.

Per valutare i diversi profili di convenienza, in questa fase il curatore non può prescindere da una sommaria indagine delle cause del dissesto, antici-pando in tal modo il contenuto della relazione ex art. 33 l. fall.

Poiché compito del curatore è quello di valorizzare l’attivo fallimentare per il suo migliore realizzo, deve tener conto del rischio di un esito infausto dell’affitto, che può derivare sì da eventi imponderabili o da una inadegua-tezza dell’affittuario, ma anche conseguire a fattori intrinseci.

Ne consegue che il curatore formulando l’istanza di autorizzazione all’af-fitto deve esprimere – almeno implicitamente – un giudizio sull’economicità della gestione.

È necessario, sin da subito, sottolineare che la scelta del curatore può es-sere sempre revocata da una successiva iniziativa in senso diametralmente opposto.

La norma parla di recesso e dalla sua astratta formulazione pare che l’istituto non si discosti molto da quello previsto dall’art. 1373 c.c., il quale dispone che convenzionalmente si possa attribuire ad una o ad entrambe le parti il diritto di sciogliersi dal vincolo contrattuale.

Tuttavia, il recesso del curatore differisce dall’istituto generale in talune caratteristiche, ritenute dalla giurisprudenza tipiche del recesso unilaterale ordinario: in particolare, «il diritto di recesso ex art. 1373 c.c. – insuscettibi-le di interpretazione estensiva per la sua natura di eccezione al principio generale della irrevocabilità degli impegni negoziali – non può essere svin-colato da un termine preciso o, quanto meno, sicuramente determinabile, in assenza del quale l’efficacia del contratto resterebbe indefinitamente subor-dinata all’arbitrio della parte titolare di tale diritto, con conseguente irrea-lizzabilità delle finalità perseguite con il contratto stesso» 115.

Il diritto di recesso deve essere necessariamente inserito nel contratto di affitto.

115 Cass. 22 dicembre 1983, n. 7579, in Giur. civ. mass., 1983, fasc. 11.

621 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Si tratta di un diritto del fallimento per il cui esercizio non viene richiesta l’esplicitazione di alcuna particolare motivazione: l’esercizio del diritto di recesso è l’espressione di una facoltà del fallimento e l’affittuario, che lo ac-cetta al momento della stipulazione del contratto, non può opporre alcuna eccezione. Tuttavia il curatore dovrà adeguatamente motivare al comitato dei creditori la propria decisione di recedere attraverso considerazioni in senso contrario a quelle che lo avevano indotto ad instare per la stipulazione del contratto di affitto.

Se viene esercitato il diritto di recesso, è necessario corrispondere all’af-fittuario un equo indennizzo prededucibile ex art. 111 l. fall., che viene sta-bilito in misura convenzionale ovvero, in caso di disaccordo tra le parti, dal giudice delegato.

Da ultimo, è necessario sottolineare che, mentre l’autorizzazione alla sti-pula dell’affitto viene concessa dal giudice delegato previo parere favorevo-le del comitato dei creditori, in via autonoma o in sede di approvazione del programma di liquidazione, il recesso viene esercitato “sentito il comitato dei creditori” ex art. 104-bis, comma 3, l.f.

Il processo che porta alla sottoscrizione del contratto di affitto d’azienda può essere schematizzato come segue:

• il curatore identifica lo strumento dell’affitto di azienda come strumento necessario alla migliore liquidazione dell’attivo;

• il comitato dei creditori approva dando parere favorevole a tale scelta nel caso di affitto ex art. 104-bis, comma 1, l. fall., ovvero approvando il pro-gramma di liquidazione che lo contempla;

• il giudice delegato, ai sensi dell’art. 104-bis, comma 1, l. fall. o 104-ter, comma 8, l.f., autorizza l’adozione dello strumento;

• il curatore sceglie l’affittuario sulla base dell’iter procedimentale e dei pa-rametri di cui all’art. 104-bis, comma 2, l. fall.

L’istanza del curatore deve contenere talune indicazioni, svolte in adempi-mento al più generale dovere di informazione e di svolgimento secumdum le-gem dell’attività professionale che ai sensi dell’art. 38 l. fall. deve essere adem-piuta “con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico”, che devono risultare coerenti con i motivi che stanno alla base della scelta dello strumento.

Nell’istanza devono essere indicati la consistenza dell’azienda e i contrat-ti che si intende trasferire all’affittuario; allo stesso modo, qualora l’affitto non comprenda l’intera azienda, deve essere identificato il ramo di azienda che si intende concedere in affitto, scorporandolo da altri rami per i quali si opti per una destinazione differente.

622 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Non è necessario che nell’istanza sia già indicato con certezza l’ammon-tare del canone, ma è opportuno invece indicare il termine dell’affitto, poi-ché la limitazione temporale del godimento del terzo è fondamentale per comprenderne l’utilità ai fini della proficua liquidazione dell’attivo fallimen-tare.

Fondamentale è altresì la specificazione delle forme di pubblicità che verranno adottate, in quanto il rispetto dei principi di cui all’art. 104-bis, comma 2, l. fall., può essere verificato soltanto ove il curatore indichi nel dettaglio il percorso che intende seguire.

Il curatore deve necessariamente indicare (seppur in modo sommario) i livelli occupazionali che l’affitto intende garantire.

Da ultimo, è necessario che il curatore dia conferma della previsione di inserimento all’interno del contratto delle clausole legali di cui all’art. 104-bis, comma 3, l. fall.

Qualora vengano a modificarsi talune delle condizioni sopra esposte, sarà onere del curatore riattivare il percorso di approvazione ed autorizzativo, astenendosi dalla stipulazione del contratto; occorrerà, quindi, presentare un’istanza integrativa ex art. 104-bis, comma 1 o depositare un supplemento al programma di liquidazione ex art. 104-ter, comma 5, l. fall.

Qualora non vi siano validi motivi di ostacolo a tale istanza del curatore, il comitato dei creditori provvederà a comunicare il proprio parere favorevo-le e l’affitto di azienda sarà autorizzato dal giudice delegato.

Per la scelta dell’affittuario, la legge fallimentare prescrive che venga bandita una procedura competitiva, nelle forme di cui all’art. 107 l. fall. ga-rantendo la massima informazione e partecipazione degli interessati, sulla base di stime del complesso aziendale ad opera di uno o più esperti; in que-sta fase il giudizio di solvibilità può «fondarsi sulle garanzie prestate (oltre che sulla valutazione della garanzia generica della offerente) senza necessi-tà che le stesse coprano gli obblighi nascenti dal contratto, occorrendo che questa esigenza sia soddisfatta in sede di stipulazione del contratto, stante la disposizione dell’art. 104 bis, 3° comma, L. fall., che individua un conte-nuto minimo inderogabile dello stesso» 116.

Le formalità in parola ricalcano quelle stabilite per la vendita, il che ap-pare coerente con l’obiettivo di evitare che l’affittuario possa acquisire una posizione di privilegio che ostacoli la successiva cessione (cui l’affitto è fi-nalizzato), consentendo a tutti i soggetti potenzialmente interessati all’acqui-sto di partecipare alla gara.

116 Trib. Roma, 22 gennaio 2008, in Giur. it., 2008, 1714.

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La necessità di prevedere un procedimento di scelta che assicuri traspa-renza e pluralità di concorrenti e che permetta di inserire clausole contrattua-li idonee a garantire che l’affitto endofallimentare sia giuridicamente ed eco-nomicamente compatibile con le finalità liquidatorie della procedura, discen-de dal carattere negoziale dell’istituto, che a differenza della vendita è meno soggetto a regole coattive discendenti dalla cessione definitiva.

La giurisprudenza ha avuto modo di affermare che «l’affitto di azienda, anche nell’ipotesi in cui venga utilizzato un sistema idoneo ad assicurare al fallimento la più ampia possibilità di scelta del contraente mediante adesione del partecipante alla gara proposta dal curatore, non può essere inquadrato nell’ambito delle regole dettate per il procedimento espropriativo ed, in parti-colare, dell’inadempienza, ma resta disciplinato dalle disposizioni dettate in materia contrattuale. Pertanto, mentre da un lato la successiva stipulazione del contratto non incide sul nucleo essenziale dell’accordo raggiunto con l’adesione del miglior offerente e la pattuizione di ulteriori clausole inizial-mente non previste attiene ad aspetti secondari e di garanzia per il fallimen-to locatore, dall’altro, in caso di inadempimento dell’offerente, l’incame-ramento della cauzione prestata resta assimilabile agli effetti della caparra confirmatoria e l’indagine del giudice resta ancorata all’accertamento della gravità di tale inadempimento ed alla fondatezza dei rilievi sollevati sulla validità ed efficacia della pattuizione» 117.

Di assoluto rilievo è la precisazione che l’individuazione dell’affittuario deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, anche delle garanzie prestate e dell’attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali: in questa previsione riecheggia il disposto di cui all’art. 63, comma 3, d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, in tema di amministrazione straordinaria.

Per quanto riguarda l’individuazione dei tratti caratteristici del potenziale affittuario, prima di procedere con la selezione, il curatore deve effettuare opportuni accertamenti che diano agli organi del fallimento le necessarie ga-ranzie di affidabilità in ordine all’osservanza degli obblighi tipicamente con-nessi al contratto di affitto, alle disponibilità finanziarie, nonché alle capaci-tà di esercitare la stessa attività economica di cui era titolare il fallito, al fine di salvaguardare l’avviamento, la struttura e la funzionalità del complesso aziendale.

L’istituto – al di là del procedimento autorizzativo e selettivo – esige, al

117 Trib. Roma 5 gennaio 1996, in Fall., 1996, 402.

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fine di evitare che una gestione fraudolenta o comunque sciagurata possa far perdere all’azienda ogni valore di avviamento e deteriorarla nella sua strut-tura e nella sua funzionalità, che il contratto venga stipulato adottando una serie di altre misure di sicurezza, sia nella scelta dell’affittuario sia nella previsione di un contenuto contrattuale minimo obbligatorio e cioè di clau-sole, condizioni e regole finalizzate ad una corretta e proficua utilizzazione dell’istituto. Alcune di queste sono direttamente previste dall’art. 104-bis l. fall. a guisa di clausole legali.

In tale prospettiva, «i due principali eventi negativi, la dispersione dei beni (mediante cattivo utilizzo degli impianti, storno mascherato della clien-tela, perdita irreversibile di avviamento) e la mancata ottemperanza degli obblighi adempitivi (pagamento del canone, manutenzione ordinaria e, so-prattutto, riconsegna in caso di mancata aggiudicazione, comunque, non acquisto definitivo), vanno attentamente scongiurati mediante idonee caute-le appunto contrattuali che la perizia degli organi concorsuali dovrà saper collocare nel patto con l’affittuario» 118.

La legge detta una serie di criteri tra loro disomogenei, senza stabilire una gerarchia precisa, da cui possono discendere incertezze in sede di valutazio-ne comparativa delle offerte, anche in considerazione del fatto che non viene specificato su quali basi debba essere valutata l’attendibilità del piano di continuazione dell’attività.

Ciò che resta indubbio è che l’ammontare del canone costituisce soltanto uno degli elementi di cui tener conto nella scelta dell’affittuario, in coerenza con la circostanza per cui l’affitto, pur essendo preordinato alla liquidazione, non costituisce, di per sé, un momento di monetizzazione dell’attivo.

In altre parole, in questa fase la procedura persegue l’interesse a che la gestione del compendio aziendale da parte del terzo si traduca in un incre-mento (o, quanto meno, in una conservazione) del valore rappresentato dal-l’azienda nel suo complesso, in vista di una più proficua alienazione, sicché la valutazione comparativa deve appuntarsi essenzialmente su questo aspet-to, con la conseguenza che un maggiore importo del canone rileva, più che sotto il profilo dell’entrata assicurata al fallimento, quale indice della solidità patrimoniale dell’offerente.

Al fine di agevolare la scelta dell’affittuario, potrebbe essere opportuno predisporre una tabella che preveda l’attribuzione di pesi percentuali agli elementi oggetto di valutazione; la tabella dovrebbe opportunamente essere

118 FERRO, Il fallimento delle società: I soggetti; il procedimento, in AA.VV., Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, vol. IV, 1999, 462.

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resa pubblica attraverso il suo inserimento nel bando, così da agevolare i soggetti potenzialmente interessati.

Un esempio di tabella, con relativa attribuzione dei pesi, è di seguito ri-portata:

PERCENTUALI

Ammontare del canone offerto 20%

Garanzie prestate 5%

Attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali

5%

Conservazione dei livelli occupazionali

50%

Prezzo di acquisto dell’azienda 20%

TOTALE 100%

Da ultimo, al curatore compete anche la necessaria autonomia per defini-

re al meglio i termini del contratto, per un’adeguata composizione dei reci-proci interessi, pur nei limiti di quanto approvato ed autorizzato.

Infine, eseguite le procedure di identificazione dell’affittuario, definito lo schema contrattuale e stipulato il contratto, il curatore dovrà depositare copia del contratto nel fascicolo fallimentare e dovrà informare di tale deposito il co-mitato dei creditori ed il giudice delegato, affinché il primo possa esplicare i propri compiti di vigilanza sull’operato del curatore ex art. 41 l. fall. e il secondo possa esplicare i propri compiti di controllo sulla regolarità del procedimento.

In ordine al contenuto minimo del contratto di affitto d’azienda, si deve osservare che l’art. 104-bis l. fall. stabilisce che il contratto, oltre ad essere redatto nelle forme di cui all’art. 2556 c.c. – ossia in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, con deposito presso il registro delle imprese –, deve contenere la regolamentazione del diritto di ispezione dell’azienda da parte del curatore, deve prevedere la prestazione di idonee garanzie per le obbligazioni derivanti dal contratto e dalla legge, nonché il diritto di recesso del curatore, salva la corresponsione di un equo indennizzo. Anche se non è

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previsto legislativamente, nella prassi spesso vengono disciplinati altri profi-li, quali l’assicurazione dei beni aziendali, le spese straordinarie, le giacenze di magazzino, nonché la sorte del contratto in caso di revoca del fallimento.

In particolare, in primo luogo deve essere ben delimitato il perimetro del bene concesso in godimento, ossia dell’azienda, cosi come definita ai sensi dell’art. 2555 c.c., al cui commento si rinvia.

L’art. 104-bis l fall. stabilisce inoltre che il contratto deve prevedere il di-ritto del curatore di procedere all’ispezione dell’azienda, la prestazione di idonee garanzie per tutte le obbligazioni che l’affittuario sia tenuto ad adem-piere, nonché il diritto di recesso del curatore.

Illustrato il contenuto minimo del contratto, pare opportuno richiamare alcune delle clausole convenzionali di più ampia diffusione, spesso introdot-te a maggior tutela della procedura fallimentare.

Partendo dal presupposto che scopo ultimo dell’affitto è la conservazione dell’azienda al fine di salvaguardare il valore dei beni che la compongono, scongiurando i rischi cui essi sono generalmente sottoposti, è opportuno che l’affittuario si impegni ad assicurarli.

Si è altresì suggerita l’opportunità di inserire disposizioni che stabilisca-no che le spese straordinarie gravino sull’affittuario nella loro interezza.

Normalmente al ramo d’azienda è connessa la disponibilità di un magaz-zino merci: qualora sia ricompreso nell’oggetto del contratto, esso entra nel-la disponibilità dell’affittuario, con la conseguenza che, al termine del rap-porto, si rende necessario regolare le differenze di inventario.

Tuttavia, al fine di procurare al fallimento maggiori garanzie contro even-tuali sottrazioni o dispersioni della merce, è invalsa la pratica di escludere il magazzino dal compendio aziendale, stipulando con l’affittuario un contratto di vendita (se del caso a consegne ripartite) della merce da impiegarsi nel-l’esercizio dell’impresa.

Ha infine una certa diffusione la prassi di inserire una clausola di scio-glimento del contratto per il caso di revoca del fallimento, al fine di evitare che l’imprenditore tornato in bonis si trovi nell’impossibilità di disporre del-la propria azienda, salvo che egli non ritenga preferibile subentrarvi.

Per quanto attiene ai contratti pendenti, la legge fallimentare nulla dispo-ne, laddove la disciplina ordinaria dell’affitto d’azienda prevede che l’affit-tuario succeda nei contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa, di carattere non personale.

Inoltre, nulla è previsto con riferimento ai contratti sospesi all’atto della concessione in affitto, i quali si ritiene opportuno che formino oggetto di una regolamentazione espressa in sede negoziale, attraverso l’elencazione anali-tica dei rapporti oggetto di trasferimento; elencazione che tiene luogo della

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dichiarazione di subingresso ai sensi dell’art. 72 l. fall., posto che la proce-dura ha facoltà di cedere esclusivamente i contratti in cui sia subentrata.

A tale proposito, la giurisprudenza ha formulato il principio secondo cui «tenuto conto che il subentro nei contratti ex artt. 2558 c.c. e 72 ss. l.f. è ef-fetto soltanto naturale dell’affitto, salvo che per alcuni contratti funzional-mente inscindibili dall’azienda, sarà legittimo, e specie in sede fallimentare opportuno, inserire una clausola che limiti il subentro soltanto a quei rap-porti contrattuali risultanti dalla documentazione comunicata all’affittua-rio» 119.

Nel caso in cui, per qualsiasi ragione, l’affittuario si trovi obbligato a re-trocedere l’azienda al fallimento, la decisione circa il subentro o lo sciogli-mento dei contratti pendenti spetta al curatore.

Con riguardo ai rapporti di lavoro subordinato, la relativa prosecuzione (rectius sospensione) a seguito di retrocessione è indirettamente sancita da una norma imperativa nell’interesse del lavoratore, per cui la pattuizione contraria sarebbe inopponibile al terzo, vista l’assenza di espressa deroga, contemplata dalla novella solo per i debiti derivanti da tale rapporto.

Quanto ai crediti ed ai debiti, poiché gli artt. 2559 c.c. – che disciplina gli effetti del trasferimento d’azienda sui crediti – e 2560 c.c. – che regola gli effetti del trasferimento d’azienda sui debiti – non sono richiamati dagli artt. 2561 c.c. e 2562 c.c. – in tema di usufrutto e di affitto d’azienda –, è opinio-ne corrente che l’affitto d’azienda non comporti il loro trasferimento. Per-mane tuttavia in capo all’affittuario la responsabilità solidale per i debiti ver-so i dipendenti, salvo che gli stessi non acconsentano alla sua liberazione.

All’affittuario dell’azienda può essere concesso il diritto di prelazione sulla vendita della stessa, previo parere del comitato dei creditori ed autoriz-zazione del giudice delegato. In tale caso, esaurito il procedimento di deter-minazione del prezzo di vendita dell’azienda o del singolo ramo, il curatore – entro dieci giorni – lo comunica all’affittuario, il quale può esercitare il di-ritto di prelazione entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione.

Poiché, come si è più volte detto, la finalità dell’affitto d’azienda è quella della conservazione dei valori e della funzionalità della stessa sino alla sua cessione, frequentemente l’offerta per l’affitto contiene l’impegno irrevoca-bile a partecipare alla procedura di vendita che verrà esperita dal curatore.

L’impegno a partecipare alla procedura di vendita, onde evitare di incor-rere nell’eccezione di nullità per indeterminatezza dell’oggetto, deve indica-re il prezzo offerto (nel quale spesso, in concreto, vengono computati i ca-

119 Cass., 19 giugno 1996, n. 5636, in Not., 1997, 145 ss.

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noni di affitto già versati) o, per il caso in cui esso non possa essere indicato immediatamente, i criteri per la sua determinazione, dovendosi ritenere am-missibile anche la rimessione della quantificazione ad un soggetto terzo, conformemente a quanto previsto dall’art. 1349, comma 1, c.c.

Il contratto di affitto dell’azienda di titolarità di un fallimento deve essere stipulato secondo le forme previste dall’art. 2556 c.c., come scrittura privata autenticata o atto pubblico, e depositato entro trenta giorni presso il registro delle imprese.

3.4. La cessione dei beni fallimentari

3.4.1. Il subentro del curatore nelle procedure esecutive

Il curatore, ex art. 107, comma 6, l. fall., ha la facoltà di subentrare nelle procedure esecutive in corso, con conseguente applicazione della disciplina del codice di procedura civile.

Ne consegue «un generale regime di improcedibilità dichiarata dal giu-dice su istanza del curatore, per l’ipotesi che il curatore non eserciti tale fa-coltà di subentro. In particolare, nella riscrittura operata dal legislatore della novella, il subentro dismette così ogni condizione di automaticità pri-ma insita nel previgente art. 107 per assumere gli estremi della valutazione strategica rimessa per intero al curatore: l’improcedibilità colpirà pertanto tanto la procedura esecutiva che abbia provveduto ai primi adempimenti quanto la procedura esecutiva che abbia proceduto alla vendita dei beni con il perfezionamento degli atti traslativi, determinando così la devoluzione al riparto fallimentare di ogni somma acquisita» 120.

Quindi il curatore deve valutare se il subentro consenta di beneficiare de-gli effetti sostanziali del pignoramento, con conseguente inopponibilità degli atti dispositivi realizzati in danno dei beni oggetto dello stesso, dell’assun-zione del processo nello stato in cui si trova all’atto della dichiarazione di fallimento con le relative preclusioni maturate; in tal caso, deve richiedere la revoca della sospensione, proseguendo nella procedura esecutiva in forza di un atto di riassunzione (nei limiti della stessa).

120 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1793.

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4.2. La vendita dei beni «Nel sistema previgente, «le vendite fallimentari erano parificate alle ven-

dite effettuate in sede di espropriazione forzata: l’ombra del processo involgeva ogni atto e non vi era alcuno spazio per un concreto operare dell’autonomia contrattuale. Infatti, la legge fallimentare del 1942 mirava ad assicurare una disciplina in grado di fornire, in una situazione di deconfiture dell’impresa, una tutela esecutiva dei creditori in una forma che assicurasse nel maggior grado la par condicio. L’opzione di fondo seguita dal legislatore della riforma è stata invece quella di perseguire, anche nel corso del fallimento, per quanto possibi-le, la sopravvivenza dei valori organizzativi residui dell’impresa insolvente» 121.

Il legislatore della riforma non opera più alcun richiamo diretto al codice di rito (ma v. infra): prevede tuttavia che il curatore – quale soggetto deputa-to all’attività di liquidazione in via esclusiva – debba provvedere alle vendite e agli altri atti di liquidazione tramite procedure competitive (anche avva-lendosi di soggetti specializzati).

Il riferimento alle procedure competitive risulta decisamente innovativo rispetto alle difficoltà sistematiche riscontrate con la previgente disciplina «difficoltà ed inadeguatezza superati in nuce dal legislatore della competiti-vità con il rinvio ad un modello per sua natura aperto e per ciò stesso for-temente uniformante» 122.

Con la nozione di procedura competitiva si intende una selezione, a base competitiva, dell’aggiudicatario.

«Alla luce delle caratteristiche di dinamicità, flessibilità, rapidità che la modalità competitiva offre, si è riconosciuto che oggi effettuare le vendite in sede fallimentare con le modalità dettate dal codice di procedura civile co-stituisce sì un’opzione legittima ma di grado subordinato, che non trova quasi più riscontro nella prassi, risultando molto meno allettante in termini di tempi, costi e realizzo. Questo secondo tipo di vendite, che viene effettua-to da parte del giudice delegato e non del curatore, nelle forme dell’ese-cuzione forzata, si ritiene un retaggio del previgente sistema: non si condi-vide infatti l’opinione di chi afferma che tali modalità costituiscano proce-dure competitive juris et de jure» 123.

121 SARACINO, Le vendite fallimentari “competitive” tra autonomia contrattuale e pro-cesso, in Nuovo dir. soc., 2013, 58.

122 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1785.

123 SARACINO, Le vendite fallimentari “competitive” tra autonomia contrattuale e pro-cesso, in Nuovo dir. soc., 2013, 59.

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Al riguardo, tuttavia, è stato osservato «come la mancata adozione del modello di selezione dell’aggiudicatario proprio delle procedure esecutive non ha significato per il legislatore l’abbandono di ogni «evidenza pubbli-ca» del sistema di selezione dell’aggiudicatario, in quanto: – con riferimento alla vendita di beni immobili, il 2° comma dell’art. 107

espressamente impone al curatore di procedere alla notificazione a cia-scuno dei creditori ipotecari, o comunque muniti di privilegio, della noti-zia relativa allo stato delle operazioni di vendita, in corso di completa-mento;

– con riferimento alla generalità delle vendite, il curatore ha facoltà di so-spendere la vendita “ove pervenga offerta irrevocabile di acquisto miglio-rativa per un importo non inferiore al dieci per cento del prezzo offerto”;

– il giudice delegato ha un potere generale di sospendere per gravi e giusti-ficati motivi su istanza del fallito, del comitato dei creditori o di altri inte-ressati, ovvero di impedire il perfezionamento della vendita quando il prezzo offerto «risulti notevolmente inferiore a quello giusto tenuto conto delle condizioni di mercato» 124.

Nell’attuale contesto normativo, il curatore è tenuto a indicare nel pro-gramma di liquidazione le condizioni di vendita, definendo per i beni – sia unitariamente sia singolarmente considerati – le modalità competitive che risultino più consone al valore reale dei beni della procedura, con l’onere di fornire adeguate forme di pubblicità (esclusi i beni di modesto valore).

Alcuni elementi fondamentali della procedura competitiva si ritrovano – genericamente – nell’art. 107 l. fall.

Elemento essenziale è sicuramente la simmetria informativa, che deve es-sere garantita da adeguate forme di pubblicità, con l’utilizzo anche di stru-menti informatici.

Quanto alla stima, questa deve essere effettuata da parte di operatori esperti, che imprimano alla relazione connotati di affidabilità necessari per una “sana” competizione economica.

La selezione degli offerenti avviene in base al maggior prezzo, primo timone nell’individuazione dell’aggiudicatario. Infatti, la finalità della procedura è il realizzo del miglior prezzo nelle condizioni di mercato di riferimento.

L’utilizzo delle procedere competitive di selezione dell’acquirente deve sussistere anche nei casi in cui ci si avvalga di soggetti specializzati per i singoli atti di vendita. E, al proposito, l’art. 107 l. fall.. prevede l’estensione

124 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1786.

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della possibilità da parte del curatore di avvalersi di soggetti specializzati nella realizzazione delle procedure competitive con riferimento a qualsiasi bene e non più solo ai beni mobili.

«L’art. 107 l. fall. disciplina oggi in maniera unitaria le modalità delle ven-dite e degli altri atti di liquidazione dei beni posti in essere in esecuzione del programma di liquidazione, così rivoluzionando il momento attuativo della fase di liquidazione fallimentare, legato in passato al modello dell’espropriazione forzata, ed affidato oggi alle capacità gestorie del curatore» 125.

3.4.3. Le modalità competitive

L’obbligo di procedure competitive di vendita caratterizza la fase della liquidazione dell’attivo in termini di concretezza e concorrenza del mercato, laddove la vendita per trattativa privata è ammessa dal legislatore in via im-plicita e del tutto residuale per i beni di modesto valore.

Nella vendita mobiliare a offerte private «la migliore dottrina e la prassi pressoché costante riconoscevano al giudice delegato margini di discrezio-nalità nel decreto autorizzativo quanto a determinazione più o meno estesa di modalità specifiche della vendita, con connessa maggior o minore esten-sione dei poteri del curatore quanto ad autonoma articolazione e conduzio-ne della fase di individuazione dell’acquirente» 126.

Nel modello precedente (art. 106 l. fall. previgente) il giudice poteva an-che devolvere al curatore la ricerca informale e la scelta dell’acquirente, sta-bilendo solo il prezzo e il tempo del suo pagamento.

Oggi, invece, la procedura competitiva è la via maestra per l’individua-zione dell’aggiudicatario, ed è basata su una gara tra gli offerenti, eventual-mente selezionati all’esito di una precedente fase esplorativa.

Rispetto alle trattative informali della vendita a trattativa privata, la pro-cedura in oggetto si basa su una gara tra i partecipanti, che «presuppone la coincidenza di luogo e di tempo nella manifestazione delle offerte e la possi-bilità di successione incrementale nelle offerte medesime» 127.

Nel bando di gara, è necessario prevedere le modalità di vendita (con in-canto o senza incanto), l’eventuale partizione in lotti, la previsione di un

125 SARACINO, Le vendite fallimentari “competitive” tra autonomia contrattuale e pro-cesso, in Nuovo dir. soc., 2013, 64.

126 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1789.

127 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1790.

632 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

prezzo base d’asta, la forma scritta per la formulazione dell’offerta, una qualche previsione che assicuri l’impegno preso (come un anticipo o una ca-parra), il luogo di apertura delle buste e dell’eventuale gara tra più offerenti, la misura minima degli aumenti di prezzo, il termine per il versamento del prezzo e le relative modalità di pagamento.

L’aggiudicazione, nell’accezione propria delle procedure esecutive quale potestà giurisdizionale ad eseguire atti conclusivi della vendita, non rientra in questa procedura.

Corollario è l’impossibilità per il curatore di invocare forme di autotutela proprie del processo esecutivo (es. dichiarazione di decadenza dall’aggiudi-cazione, confisca della cauzione, ecc.), potendo invece disporre di forme di tutela «(...) originariamente dedotte nella procedura di individuazione del-l’acquirente, quali ad esempio quelle ordinarie di cui all’art. 1385 c.c.» 128.

Del pari non può considerarsi implicitamente richiamato il meccanismo della diserzione degli incanti, con i suoi automatismi relativi alla riduzione del prez-zo, dovendo invece la disciplina «(..) di tali ipotesi essere per intero rimessa al programma di liquidazione e alle determinazioni autorizzative del giudice dele-gato. In particolare, va ricordato come la diserzione si pone come strumento di qualificazione negativa della fase di selezione dell’acquirente, con incidenza diretta sulle condizioni di vendita: tali condizioni devono essere preventivamen-te autorizzate dal giudice delegato ovvero essere oggetto di un supplemento del programma di liquidazione a norma dell’art.104 ter, 6° comma» 129.

Quando si tratti di cessione d’azienda, non è possibile ricorrere al decreto di trasferimento, ma occorre sottoscrivere un apposito contratto che produrrà l’effetto traslativo e sarà assoggettato alla relativa disciplina, integrata dal regime degli effetti sostanziali della vendita coattiva.

Il curatore, prima della stipulazione del contratto, deve provvedere – se presenti beni immobili, – alla notificazione degli esiti delle procedure di se-lezione dell’acquirente a ciascuno dei creditori ipotecari o muniti di privile-gio speciale, e al deposito della documentazione comprovante gli esiti delle procedure adottate, al fine di rendere possibile l’istanza di sospensione di cui all’art. 108, comma 1, l.f.

Si ritiene che il dogma delle procedure competitive valga anche nell’e-ventuale fase di liquidazione dei beni operata dal curatore prima dell’appro-vazione del programma, su autorizzazione del giudice delegato.

128 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1791.

129 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1792.

633 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

3.4.4. Il potere di sospensione

Come previsto relativamente al potere del giudice delegato, la disciplina fallimentare riconosce, mutatis mutandis, al curatore una facoltà – limitata – di sospensione della vendita, nel caso pervenga un’offerta irrevocabile di acquisto superiore del dieci per cento del prezzo offerto.

«In un’ottica sistematica, appaiono evidenti le affinità della sospensione in esame rispetto alla figura, per molti versi problematica, dell’aumento di quinto: si assiste così, sia pur nell’assenza di un paradigma processuale certo, alla trasposizione nell’ambito delle procedure competitive di un isti-tuto quale quello dell’aumento successivo al perfezionamento di una proce-dura di selezione dell’acquirente, senza che l’introduzione sia accompagnata:

– dalla definizione di una dimensione temporale di certezza, quale quella con-seguente ai dieci giorni successivi alla aggiudicazione ex art. 584 c.p.c.;

– dalla definizione di comportamenti certi e doverosi da parte dell’offerente, ad es. per cauzione, e conseguentemente, da parte del curatore, la cui so-spensione appare assolutamente discrezionale, difficilmente collocabile in via preventiva nell’ambito del meccanismo di scelta dell’acquirente» 130.

Sembra quindi che il potere di ripensamento del curatore si estenda anche al caso in cui si trovi di fronte ad un’offerta migliorativa, anche quando – in presenza di immobili – abbia già proceduto alla notificazione dell’esito delle procedure competitive.

Relativamente ai criteri che sorreggono la sospensione della vendita ex art. 108 l.f., la Cassazione ha affermato che «in tema di liquidazione del-l’attivo fallimentare, al giudice delegato è attribuito, ai sensi dell’art. 108, comma 3, legge fall. (nel testo “ratione temporis” applicabile), il potere di-screzionale di disporre la sospensione della vendita anche ad aggiudicazio-ne avvenuta, purché sia esplicitato un coerente criterio idoneo a sorreggere l’esercizio di tale potere, con riguardo alle finalità cui la sua attribuzione risponde – la realizzazione del massimo valore pecuniario in vista del mas-simo risultato utile per la massa dei creditori – risolvendosi il suo difetto in una violazione di legge; il giudizio deve pertanto riguardare la inadeguatez-za del prezzo offerto in sede di aggiudicazione rispetto a quello ritenuto giu-sto, per essere il primo notevolmente inferiore al secondo, ciò implicando non una mera comparazione tra prezzo offerto e ipotetico astratto valore del bene (nella specie, desunto solo da una nuova perizia), bensì la constatata

130 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, p. 1795.

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esistenza di elementi idonei a far seriamente ritenere il prezzo di aggiudica-zione notevolmente inferiore a quello giusto (quali nuove offerte di acquisto, indebite interferenze, modalità di attuazione della vendita precedente)» 131.

Ed ancora, l’affittuario di azienda di impresa assoggettata a fallimento, che eserciti il diritto di prelazione non si trova, rispetto alle vicende della procedura, in una posizione di terzietà, tale da non subire l’incidenza del-l’eventuale sospensione della vendita disposta dal giudice delegato ex art. 108, comma 3, l.f. Egli, infatti, per effetto dell’esercizio del diritto di prela-zione, subentra nella posizione dell’aggiudicatario, non essendo scindibili gli effetti favorevoli di tale sua posizione, quale l’aspettativa al trasferimento del bene, da quelli sfavorevoli, tra cui anche l’eventualità che un terzo pre-senti un’offerta in aumento 132.

3.5. La vendita dell’azienda o di singoli rami Il legislatore, assegnando all’esercizio provvisorio ed all’affitto d’azienda

una funzione strumentale e cautelare per il miglior realizzo dell’attivo, ha privilegiato il preventivo esperimento di tentativi di vendita in blocco; ciò sia per la necessità di tutelare, ove possibile, i valori produttivi ed umani in-trinseci all’azienda, sia per la consapevolezza che il complesso aziendale, unitariamente considerato, generalmente mantiene e conserva, pur a seguito dell’apertura della procedura concorsuale, un valore maggiore rispetto agli elementi che la compongono.

La possibilità di procedere alla vendita dei singoli beni aziendali è presa in considerazione solo quando risulta prevedibile che la cessione in blocco dell’intero complesso aziendale o di suoi singoli rami non consente una maggiore soddisfazione dei creditori.

Tale disposizione è coerente con la scelta di fondo operata dal riformato-re, mirante alla conservazione dell’impresa assoggettata alla procedura con-corsuale, quasi come se questa debba sopravvivere al fallimento dell’im-prenditore ed il procedimento concorsuale debba assurgere a strumento di conservazione dell’organizzazione produttiva nella sua unitarietà, al fine di consentirne il risanamento, anche se nei limiti di compatibilità con la fase dell’insolvenza in corso.

Questo, ovviamente, non significa che nel fallimento la liquidazione uni-taria sia sempre la migliore soluzione, né che essa abbia come unica alterna-

131 Cass., 5 dicembre 2008, n. 28836. 132 Cass., 31 gennaio 2013, n. 2316, in www.dirittoegiustizia.it.

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tiva l’alienazione parcellizzata delle singole componenti: è possibile imboc-care strade differenti, come, ad esempio, la vendita di taluni beni previamen-te scorporati con la cessione in blocco del residuo patrimonio aziendale, op-pure la vendita di rami autonomi o ancora l’alienazione di uno o più gruppi omogenei di beni, come macchinari, crediti, semilavorati, materie prime.

Il criterio che deve stare alla base della scelta tra le differenti soluzioni è, di regola, quello della convenienza economica, da apprezzarsi avendo ri-guardo alla presumibile entità del realizzo al netto delle spese di conserva-zione e di vendita.

La Suprema Corte ha tuttavia ritenuto che – ai fini della valutazione della maggior convenienza e a parità di offerte economiche – ben può essere presa in considerazione l’incertezza circa la situazione giuridica che, per effetto di una delle scelte alternativamente possibili, si determina; in ogni caso, «di fronte ad offerte omogenee è legittimo che il giudice delegato abbia preferi-to la soluzione che comportava meno problemi e che quindi garantiva me-glio l’interesse dei creditori» 133.

Peraltro, con riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali, già in passato parte della giurisprudenza aveva sostenuto che – ai fini della valuta-zione comparativa delle offerte in sede di vendita di beni dell’impresa fallita – l’impegno ad assumere un certo numero di lavoratori costituisce «legittimo elemento di preferenza quanto meno a parità di condizioni» 134.

La dottrina ribadisce, peraltro, che la cessione d’azienda, «benché idonea a salvaguardare istanze ulteriori rispetto a quelle della massa, resta peral-tro inserita in una procedura il cui obiettivo è il conseguimento del miglior realizzo, in vista di incrementare al massimo le percentuali di riparto» 135.

Ne discende che, a differenza di quanto stabilito per l’amministrazione straordinaria, l’interesse alla conservazione dei complessi produttivi e dei livelli occupazionali non prevale su quello dei creditori ad ottenere un prez-zo più alto, pur potendo contemperarsi con esso.

Anche in questo caso, così come in tutta la fase della liquidazione del-l’attivo, deve trovare applicazione ogni forma ed ogni mezzo che finisca per raggiungere il duplice obiettivo del massimo realizzo e della possibile con-servazione dei nuclei ancora produttivi.

La cessione dell’azienda avviene secondo le modalità di cui agli artt. 107

133 Cass., 3 marzo 1997, n. 1850, in Fall., 1997, 1100 ss. 134 Trib. Savona, 19 ottobre 1978, in Giur. comm., 1979, 250. 135 AMBROSINI-JORIO-CAVALLI, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale, Padova,

2009.

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l.f. e 2556 c.c.: la scelta dell’acquirente deve avvenire attraverso una proce-dura competitiva, bandita sulla base di stime effettuate da parte di esperti, che garantisca la massima informazione e partecipazione degli interessati.

Al riguardo, pare utile precisare che la crisi economica degli ultimi anni ha ormai assunto carattere strutturale e ha condotto ad un disallineamento sempre più marcato fra valori di stima e valori di mercato, a maggior ragione nell’am-bito della liquidazione fallimentare. In particolare, sulla base delle risultanze statistiche, l’aggiudicazione dei beni avviene in media fra la quinta e la sesta asta, con un abbattimento del valore che si colloca fra il 70% e l’80%, e, nel contempo, le procedure competitive determinano il sostenimento – a carico del-la massa fallimentare – di ingenti costi pubblicitari. è invalsa, quindi, la prassi di richiedere preventivamente al “mercato” la presentazione di manifestazioni di interesse, accompagnate da offerte irrevocabili e cauzionate, sulla base delle quali dare poi corso – previo apprezzamento dell’offerta da parte degli organi della procedura – ad apposite procedure competitive.

La vendita dell’azienda è autorizzata dal giudice delegato, in conformità al programma di liquidazione.

Il contratto di cessione deve essere stipulato in forma scritta ai fini proba-tori ed in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata ai fini del-l’iscrizione nel registro delle imprese.

La vendita dell’azienda che comprenda beni immobili può avvenire nelle forme di cui all’art. 107 l.f. e quindi con incanto o, qualora il giudice delega-to lo ritenga più vantaggiosa, senza incanto.

Il riferimento alla vendita senza incanto – secondo la giurisprudenza – non comprende ogni tipo di vendita forzata che prescinda dalle forme di quella all’incanto, ma «implica il richiamo delle norme dettate dal codice di rito per tale tipo di vendita forzata, le quali vanno inderogabilmente osservate anche in sede fallimentare, entro i limiti di cui all’art. 105 c.p.c.; deve conseguentemente escludersi che la previsione dell’art. 108 citato si estenda alla vendita a tratta-tiva privata e a quella a licitazione privata al miglior offerente» 136.

Sul piano degli effetti della vendita fallimentare, in passato si è sostenuto che la procedura concorsuale, «dando luogo a trasferimenti di carattere coattivo, non dovrebbe soffrire l’assoggettamento a disposizioni dettate per la circola-zione negoziale dell’azienda, in quanto solo la cessione volontaria è fondata su un atto di disposizione da parte del titolare del diritto trasmesso» 137.

Le vendite fallimentari – secondo la dottrina e parte della giurisprudenza – non essendo il risultato di un incontro di due volontà negoziali «non

136 Cass., 7 maggio 1999, n. 4584, in Dir. fall., 1999, 449. 137 RAGUSA MAGGIORE, Diritto fallimentare, Milano, 1974, 662.

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avrebbero natura contrattuale in senso proprio, e andrebbero configurate come vendite coattive giudiziarie, anche quando sono (n.d.r. erano) effettua-te a trattativa privata» 138.

In realtà, in nessun dato positivo è ravvisabile una volontà del legislatore diretta a distinguere il tipo di circolazione dell’azienda ai fini della disciplina applicabile.

In tale contesto, la giurisprudenza più recente ha affermato che la vendita forzata, attuando un trasferimento coattivo che prescinde dalla volontà del debi-tore proprietario del bene, «non è equiparabile alla vendita volontaria, onde de-ve ritenersi il carattere eccezionale delle norme codicistiche che, per taluni aspetti, quanto alla disciplina, equiparano i due tipi di vendita. Pur non essen-do ravvisabile un incontro di consensi, tra l’offerente ed il giudice, produttivo dell’effetto traslativo, essendo l’atto di autonomia privata incompatibile con l’esercizio della funzione giurisdizionale, l’offerta di acquisto del partecipante alla gara costituisce il presupposto negoziale dell’atto giurisdizionale di vendi-ta; con la conseguente applicabilità delle norme del contratto di vendita non incompatibili con la natura dell’espropriazione forzata, quale l’art. 1477 c.c.» 139.

Peraltro, anche sul piano della natura giuridica, «il trasferimento coattivo non rompe il nesso che caratterizza l’acquisto a titolo derivativo, traducen-dosi comunque nella trasmissione dello stesso diritto del fallito» 140.

La novella non ha provveduto a coordinare la disciplina civilistica del-l’art. 2558 c.c. e, più in generale dell’art. 1406 c.c. per la cessione del con-tratto con la disciplina fallimentare dei contratti pendenti contenuta negli artt. 72 ss. l. fall.

«Nonostante tale mancato richiamo, tuttavia, non si dubita che l’art. 2558 c.c. sia applicabile alla liquidazione concorsuale e, pertanto, in caso di possibile mancata diversa pattuizione convenzionale, la cessione del-l’azienda determina la successione automatica dell’acquirente dell’azienda nei contratti aventi ad oggetto prestazioni corrispettive, non ancora eseguite o compiutamente eseguite da entrambe le parti al momento del trasferimen-to, non aventi carattere personale, conclusi nell’esercizio dell’attività di im-presa e nei quali il curatore sia subentrato ex lege o per volontà espressa-mente manifestata prima del perfezionamento della cessione» 141.

138 Cass., 5 aprile 1977, n. 1299, in Giur. comm., 1977, 1169. 139 Cass., 18 giugno 2010, n. 14760, in Fall., 2010, 1142. 140 Cass., 9 novembre 1982, n. 5888, in Fall., 1983, 485. 141 STEFANI, Il trasferimento di azienda nella procedura fallimentare e il ruolo del no-

taio, in www.ilfallimentarista.it.

638 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Per quanto attiene ai contratti di lavoro, l’art. 105 l. fall. precisa che il Curatore, l’acquirente e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifiche del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti, at-traverso consultazioni sindacali.

Al proposito, occorre peraltro precisare che la dichiarazione di fallimento non determina il trasferimento coattivo della titolarità dell’azienda dal fallito al curatore, in quanto l’apertura della procedura comporta soltanto lo spos-sessamento dei beni e non il mutamento della titolarità degli stessi.

Pertanto l’art. 2112 c.c., che disciplina la sorte dei rapporti di lavoro e degli oneri connessi in caso di trasferimento volontario dell’azienda, non è da ritenersi applicabile a seguito della dichiarazione di fallimento ed in que-sto caso i rapporti di lavoro proseguono in virtù delle disposizioni di cui all’art. 2119, comma 2, c.c., il quale precisa che il fallimento in sé non costi-tuisce giusta causa di risoluzione dei contratti come non la determina il tra-sferimento d’azienda.

L’imprenditore dunque è spossessato dei beni e privato del potere di ge-stione, ma i rapporti di lavoro non si interrompono per effetto della dichiara-zione di fallimento, entrando al contrario in una fase di sospensione ex art. 72 l. fall.; tali rapporti, peraltro, possono eventualmente continuare con il curatore.

Il problema, invece, si pone nel caso in cui l’azienda sopravviva alla di-chiarazione di insolvenza e venga messa in circolazione. In tale ipotesi, in-fatti, la verifica della compatibilità della fattispecie con le norme di cui all’art. 2112 c.c. è assai rilevante, considerate le conseguenze che l’applica-zione di tali norme può comportare rispetto alla commerciabilità del bene (in parte analoghe a quelle legate all’applicazione della disciplina di cui all’art. 2560 c.c.), e rispetto alla tutela dei profili occupazionali.

Dalla lettura combinata delle varie disposizioni, e tenuto conto che la procedura di informazione e consultazione è prevista per le imprese social-mente rilevanti (cioè qualificate quantitativamente sul piano lavoristico), emerge che solo in presenza dei requisiti dimensionali e dell’accordo sinda-cale non si applica l’art. 2112 c.c. In tutti gli altri casi di circolazione con-corsuale dell’azienda, in cui la disciplina speciale non è applicabile perché non sussistono i requisiti dimensionali, ovvero nell’ipotesi in cui al termine delle consultazioni non sia stato raggiunto alcun accordo, la norma rimane applicabile.

Come osservato dalla dottrina: «La novella, sul punto, è intervenuta col nuovo art. 105, comma 3, l. fall., disponendo che nell’ambito delle consulta-zioni sindacali relative al trasferimento di azienda, il curatore, l’acquirente

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e i rappresentanti dei lavoratori possono convenire il trasferimento solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente e le ulteriori modifi-che del rapporto di lavoro consentite dalle norme vigenti. Non è nuovamen-te questa la sede per un’analisi del dato normativo e della sua ratio, specie con riferimento alla deroga automatica al principio dell’accollo cumulativo di cui all’art. 2112 c.c.: in linea con la posizione di chi ritiene che si sia ac-centuata la preferenza per l’interesse alla salvaguardia del credito da lavo-ro rispetto all’interesse di incentivare la circolazione dell’azienda, salvo il caso di impresa in crisi socialmente rilevante 142, e in attesa di un intervento chiarificatore del legislatore piuttosto che di un orientamento consolidato della giurisprudenza, il notaio dovrà come sempre preferire una posizione di prudenza, tentando di coinvolgere, quando possibile, tutte le parti in gio-co, e cioè organizzazioni sindacali e singoli lavoratori non iscritti, in modo da assicurare la massima stabilità al contratto.

Tale posizione, peraltro, è in linea con l’orientamento secondo il quale l’esclusione della responsabilità dell’acquirente dell’azienda per i debiti di lavoro è subordinata al raggiungimento dell’accordo sindacale e alle altre condizioni poste dall’art. 47, comma 5, l. 428/1990 al fine di conseguire la disapplicazione dell’art. 2112 c.c., e rende senza dubbio assai difficoltoso il fenomeno circolatorio dell’azienda nell’ambito del fallimento: ma il legisla-tore nazionale, per quanto attiene al fenomeno traslativo aziendale in ambi-to fallimentare, non ha inteso derogare alla normativa giuslavorista, nono-stante l’assenza di controindicazioni nell’ordinamento comunitario» 143.

I debiti sorti anteriormente alla cessione non vengono trasferiti; possono, invece, essere trasferiti i crediti, e la cessione degli stessi ha effetto dal mo-mento dell’iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese, ancorché non si dia corso alla notifica al debitore, fatta salva la liberazione di quest’ul-timo se paga in buona fede al fallimento.

Più in particolare, per quanto riguarda i crediti l’art. 105, comma 6, l. fall. prevede che la cessione dei crediti relativi alle aziende cedute, anche in man-canza di notifica al debitore o di sua accettazione, abbia effetto nei confronti dei terzi dal momento dell’iscrizione o del trasferimento nel registro delle im-prese; tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede al cedente.

«La norma ripropone in ambito fallimentare il testo integrale dell’art. 2559, comma 1, c.c. recependo nel dato positivo la tesi sostenuta da dottrina

142 F. FIMMANÒ, La vendita fallimentare dell’azienda, cit. 143 STEFANI, Il trasferimento di azienda nella procedura fallimentare e il ruolo del no-

taio, in www.ilfallimentarista.it.

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e giurisprudenza prevalenti ante riforma circa la compatibilità dello stesso art. 2559 c.c., in materia di crediti di natura extracontrattuale ovvero deri-vanti da contratti a prestazioni corrispettive già eseguite da una delle parti o da prestazioni unilaterali, con la struttura e le finalità della liquidazione fallimentare, anche per quanto riguarda il regime pubblicitario cui è con-nessa l’efficacia della cessione nei confronti dei terzi» 144.

La dottrina ha peraltro affermato che, specie in sede fallimentare, il pas-saggio dei crediti all’acquirente dell’azienda non avviene automaticamente «ma solo in virtù di un apposito patto con il quale le parti possono anche limitare la cessione ad alcuni crediti soltanto (singolarmente individuati o per categorie) e precisare se la cessione avviene pro soluto oppure pro sol-vendo, operando in assenza di specifica previsione l’art. 1267 c.c.» 145.

La questione circa la sorte dei debiti relativi all’esercizio delle aziende cedute, sorti prima del trasferimento, è stata espressamente risolta dal legi-slatore della riforma, il quale con il nuovo art. 105, comma 4, l.f., ha sancito che, salva diversa convenzione, è esclusa la responsabilità dell’acquirente.

«L’art. 2560 c.c. sancisce, come noto, che l’alienante non è liberato dai debiti aziendali anteriori al trasferimento se non risulta che i creditori vi ab-biano consentito e che dei debiti aziendali risultanti dai libri contabili ob-bligatori risponde anche l’acquirente dell’azienda; con particolare riferimen-to a questo secondo aspetto, è da sottolineare che la norma non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica e, pertanto, è principio ormai conso-lidato in dottrina e giurisprudenza quello secondo il quale l’iscrizione nei li-bri contabili obbligatori dell’azienda è un elemento costitutivo essenziale del-la responsabilità dell’acquirente dell’azienda per i debiti ad essa inerenti» 146.

Ed ancora, «Per quanto riguarda i debiti tributari, invece, il quadro norma-tivo di riferimento è dato dall’art. 14, d. lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il quale nell’ambito dei principi generali del sistema sanzionatorio tributario non penale disciplina la cessione di azienda e la relativa responsabilità solidale del cessionario per le imposte e sanzioni dovute dal cedente.

Il cessionario dell’azienda, in sostanza, è responsabile in solido col cedente, nei limiti del valore dell’azienda ceduta e fatto salvo il beneficio della preventi-va escussione del cedente, per il pagamento delle imposte e delle sanzioni rela-

144 STEFANI, Il trasferimento di azienda nella procedura fallimentare e il ruolo del no-taio, in www.ilfallimentarista.it.

145 FIMMANÒ, La vendita fallimentare dell’azienda, in Contr. impr., 2007, 551. 146 STEFANI, Il trasferimento di azienda nella procedura fallimentare e il ruolo del no-

taio, in www.ilfallimentarista.it.

641 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

tive alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuto il trasferimento e nei due precedenti, seppur non contestate o non irrogate alla data della cessione, nonché alle violazioni già contestate e alle relative sanzioni già irrogate nel medesimo periodo, anche se commesse in epoca anteriore. L’obbligazione del cessionario è limitata al debito risultante, alla data del trasferimento, dagli atti degli uffici dell’amministrazione finanziaria e degli enti preposti all’accerta-mento dei tributi di loro competenza, i quali, su richiesta dell’interessato, sono tenuti a rilasciare, su richiesta dell’interessato, un certificato sull’esistenza di contestazioni in corso e di quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti: il certificato negativo o il mancato rilascio entro 40 giorni dalla ri-chiesta hanno pieno effetto liberatorio del cessionario» 147.

L’art. 105, ultimo comma, l. fall., prevede che il pagamento del prezzo possa essere effettuato mediante accollo di debiti da parte dell’acquirente so-lo se non viene alterata la graduazione dei crediti.

«In concreto, tuttavia, il ricorso a tale strumento offerto dal legislatore non è agevole per il curatore, dal momento che da un lato è oggettivamente compli-cato immaginare un accollo dei debiti, anche decurtati, che non alteri la gra-duazione e, dall’altro lato, richiede una difficile se non impossibile prognosi sulla ripartizione finale dell’attivo» 148.

«È, pertanto, previsto che l’acquirente possa dedurre dal prezzo, esclusi-vamente, i crediti verificati, atteso che, diversamente, questi si troverebbe ad affrontare un rischio, peraltro non calcolato – né calcolabile preventi-vamente – superiore alla valutazione fatta al momento dell’acquisto, ove fosse riconosciuta a tutti la possibilità di poter soddisfare le loro ragioni di credito al di fuori delle regole del concorso» 149.

Al riguardo occorre prestare particolare attenzione, giacché la Suprema Cor-te ha recentemente individuato un’ipotesi di abuso del diritto – nell’ambito dell’imposta di registro – nella cessione separata (ma nello stesso giorno e a fa-vore del medesimo cessionario) dell’azienda e delle rimanenze. Infatti, l’abuso del diritto, a norma dell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973, non può essere escluso per il solo fatto che la vicenda si sia svolta sotto la sorveglianza dell’Autorità giudiziaria, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo.

Intervenendo in una fattispecie affine (frazionamento di un’operazione

147 STEFANI, Il trasferimento di azienda nella procedura fallimentare e il ruolo del no-taio, in www.ilfallimentarista.it.

148 STEFANI, Il trasferimento di azienda nella procedura fallimentare e il ruolo del no-taio, in www.ilfallimentarista.it.

149 CAIAFA, Le procedure concorsuali, Padova, 2011.

642 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

unitariamente considerata in una pluralità di negozi) i Giudici di legittimità hanno chiarito che «la prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul loro titolo e sulla loro forma apparente vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma; id est, il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici, rispet-to a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti. Con la conseguenza di doversi riferire l’imposizione al risultato di un comportamento sostanzialmente unitario, rispetto ai risultati parziali e stru-mentali di una molteplicità di comportamenti formali» 150.

Infine, il Legislatore ha previsto che la cessione dell’azienda possa avve-nire, anziché contro un corrispettivo in danaro, tramite il conferimento in una società, sia essa esistente o di nuova costituzione, e la successiva ces-sione delle relative partecipazioni: ciò determina la trasformazione del pa-trimonio fallimentare da bene di c.d. “primo livello” a bene di c.d. “secondo livello”, costituito dalle partecipazioni derivanti dal conferimento in società dell’azienda.

Il curatore potrebbe trovarsi nell’impossibilità di cedere il compendio fal-limentare unitariamente, sotto forma di azienda o di ramo aziendale (il com-plesso dei beni e/o dei rapporti giuridici deve consentire l’esercizio di una attività di impresa), ovvero tale soluzione potrebbe non soddisfare gli inte-ressi dei creditori; in questo caso, dovrà procedere alla vendita in blocco di classi di beni ovvero alla loro cessione atomistica.

Qualora non sia possibile cedere l’azienda, prima di addivenire alla liqui-dazione atomistica dei singoli beni il curatore può altresì optare per la ces-sione di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco.

La disposizione è rilevante sul piano sistematico in quanto è diretta a conser-vare l’unitarietà anche quando ciò che circola non è configurabile compiuta-mente come azienda (o suo ramo). Si tratta di un’ipotesi di sale of asset, piutto-sto che di sale of business, che potrebbe rendersi funzionale all’obiettivo del cessionario di riorganizzare un complesso aziendale venuto meno (e da riorga-nizzare) ovvero di integrazione di un’azienda già organizzata.

Come è stato osservato: «Il riferimento alla “cessione delle attività e del-le passività dell’azienda” individua una fattispecie non coincidente con la cessione di azienda o di un suo ramo ed anche in questo caso tale previsione appare confermativa di una prassi procedurale ampiamente utilizzata dalle procedure concorsuali: la novità, tuttavia, consisterebbe nel riconoscimento

150 Cass. 5 giugno 2013, n. 14150.

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espresso che la procedura, unitamente alle attività aziendali, possa cedere le passività aziendali» 151.

Normalmente la vendita in blocco dell’azienda o di un suo ramo dovreb-be portare – in termini economici – ad una maggiore valorizzazione, in quanto l’insieme degli elementi aziendali, uniti dal collagene dell’attività e con l’aggiunta dell’avviamento, conduce alla realizzazione di un plusvalore, rispetto alla mera sommatoria del valore dei singoli beni.

Poiché il curatore deve scegliere la soluzione migliore per la procedura, deve optare per la vendita in blocco o per la vendita atomistica solo nel caso di maggiore soddisfazione dei creditori.

Potrebbe anche capitare che si giunga ad un risultato ottimale intersecan-do le due soluzioni di vendita, attraverso l’enucleazione dell’insieme di ele-menti che costituiscano un ramo aziendale e la vendita atomistica degli altri beni (magari raggruppati per caratteristiche omogenee).

3.6. La cessione di partecipazioni L’art. 106 l. fall. prevede la vendita di quote di s.r.l., richiamando la di-

sciplina dell’art. 2471 c.c. Occorre, al proposito, operare una distinzione fra quote liberamente tra-

sferibili e quote non liberamente trasferibili in base a clausole statutarie o dell’atto costitutivo.

«Nel primo caso il curatore potrà procedere alla vendita ex artt. 2469 e 2470 c.c. con la libertà di forme che caratterizza la nuova liquidazione fal-limentare e l’adempimento degli oneri pubblicitari di cui all’art. 2470 c.c. ai soli fini dell’opponibilità del trasferimento alla società ed ai terzi. Ove invece la quota non sia liberamente trasferibile, l’art. 2471, 3° comma, c.c. prevede il previo tentativo del curatore di accordarsi con la società: soltan-to se l’accordo non viene raggiunto la vendita avviene all’incanto, ma è pri-va di effetto se entro dieci giorni dall’aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente che offra lo stesso prezzo» 152.

In tale ultimo caso, rimane dubbio se l’accordo con la società debba o meno essere inserito nel programma di liquidazione, originario o modificato, o comunque autorizzato dal giudice delegato, o ancora se il rinvio all’art. 2471 c.c. consenta di prescindere del tutto dalle forme dell’art. 104 ss. l. fall.

151 STEFANI, Il trasferimento di azienda nella procedura fallimentare e il ruolo del no-taio, in www.ilfallimentarista.it.

152 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1778.

644 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Ma, come è stato osservato, «sembra preferibile ritenere che le disposi-zioni dell’art. 2471 c.c. debbano, in quanto compatibili, essere coordinate con i principi generali della liquidazione fallimentare: di qui la necessità di approvazione dell’accordo tra curatore e società e quindi del suo inseri-mento nel programma di liquidazione o quanto meno la soggezione di detto accordo al residuo potere di autorizzazione da parte del giudice delegato previsto dall’art. 104 ter. In questo caso l’inosservanza delle su menzionate modalità di vendita deve ritenersi sanzionabile con la nullità dell’atto» 153.

In ordine al procedimento regolato dall’art. 2480, comma 3, c.c. in mate-ria di vendita della quota di società a responsabilità limitata sottoposta a pi-gnoramento o appartenente al socio dichiarato fallito, si è osservato che esso «trova applicazione allorché le limitazioni alla libera disponibilità della quota siano poste nell’interesse della società, e non anche in presenza di li-mitazioni poste soltanto nell’interesse dei soci» 154.

Ed ancora «In sede espropriativa concorsuale della quota sociale, il cu-ratore, a norma dell’art. 2480 c.c., non è vincolato da un prezzo determina-to, ma – quale amministratore del patrimonio del fallito e nel contempo ga-rante degli interessi della massa – deve pervenire ad un accordo con la so-cietà (che va, a sua volta, garantita dall’ingresso di terzi estranei), in man-canza del quale la vendita ha luogo all’incanto, con facoltà di presentazione di altro acquirente che, tuttavia, offra lo stesso prezzo di aggiudicazione provvisoria. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui una società ceda alcune quote di propria partecipazione in altra società a soci che quelle quote ac-quistano, in esercizio del loro diritto di prelazione, al prezzo predeterminato e pari al valore dell’ultimo bilancio approvato, l’atto di cessione è soggetto a revocatoria fallimentare, se si accerta che il valore delle quote è superiore a quello pagato, visto che lo “eventus damni” è verificabile nel fatto che il curatore non sarebbe stato vincolato a quel prezzo» 155.

Per quanto riguarda invece le partecipazioni azionarie, manca nell’art. 106 l. fall. ogni riferimento espresso, salvo la mera indicazione contenuta nella rubrica della norma.

La dottrina prevalente aveva già colmato la lacuna, affermando che il principio ex art. 2471 c.c. ha portata generale e, pertanto, dovrebbe – analo-gicamente – applicarsi anche alle società per azioni.

153 LICCARDO-FEDERICO, Commento sub art. 106 l.f., in JORIO A. (a cura di), Il nuovo di-ritto fallimentare, II, Bologna-Torino, 2007, 1779.

154 Cass., 3 aprile 1991, n. 3482, in Giur. it., 1992, 1570. 155 Cass., 14 marzo 2000, n. 2909, in Fall., 2001, 568.

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A differenza di quanto accade nelle società di capitali, nelle società di persone l’art. 2288 c.c. – norma dettata in tema di società semplice, ma ap-plicabile anche alle società in nome collettivo e a quelle in accomandita semplice – prevede che il socio dichiarato fallito sia escluso di diritto dalla società, di talché non si pone il problema del relativo realizzo.

4. Il trasferimento d’azienda nel concordato con continuità aziendale

4.1. Individuazione della fattispecie Il tema del trasferimento d’azienda emerge in tutta la sua portata nell’am-

bito del concordato con continuità aziendale. Come è noto l’art. 186-bis l. fall. il quale reca la rubrica “Concordato con

continuità aziendale”, al comma 1 stabilisce che «Quando il piano di con-cordato di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prose-cuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azien-da in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presen-te articolo. Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzio-nali all’esercizio dell’impresa».

Da tale formulazione si può evincere che esistono tre forme di concordato:

• il concordato liquidatorio • il concordato con continuità aziendale • il concordato misto

Nell’ambito del concordato con continuità aziendale, è necessario poi di-stinguere fra continuità aziendale diretta e continuità aziendale indiretta.

Tuttavia, poiché il trasferimento d’azienda può essere una modalità attua-tiva sia del concordato liquidatorio – e, in tal caso, si dovrebbe più corretta-mente parlare di liquidazione universalistica – sia del concordato con conti-nuità aziendale indiretta, occorre interrogarsi su quali siano le differenze.

Pare corretto ritenere che la risposta debba essere ricercata nei differenti criteri di generazione della provvista al servizio del concordato:

• se il prezzo di cessione dell’azienda è pagato istantaneamente dal terzo ac-quirente, ci si troverà nell’ambito del concordato liquidatorio universalistico;

• ove invece il prezzo venga pagato attraverso i flussi di cassa (cash flow) generati per effetto dell’esercizio dell’azienda trasferita da parte della new company, si rientrerà nell’ambito del concordato con continuità aziendale indiretta.

646 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Tale ipotesi interpretativa trova conforto nella previsione di cui all’art. 186-bis, comma 2, lett. a), l. fall., ove si prevede che «il piano di cui al-l’articolo 161, secondo comma, lettera e), deve contenere anche un’anali-tica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie neces-sarie e delle relative modalità di copertura».

Infatti, se il prezzo fosse immediatamente pagato, non avrebbe senso ri-chiedere un business plan dei flussi generati dall’azienda trasferita.

Limitando l’indagine alle ipotesi di continuità aziendale, è possibile ope-rare la seguente classificazione:

• continuità totale o parziale (liquidazione dei beni non funzionali all’eser-cizio dell’impresa);

• continuità diretta; • continuità indiretta.

4.2. La continuità aziendale indiretta Nell’ambito della continuità indiretta si possono prospettare due ipotesi:

• esercizio diretto dell’azienda da parte della old legal entity in crisi (o bad company), cui faccia seguito la cessione o il conferimento;

• esercizio indiretto (temporaneo) dell’azienda – tramite un contratto d’af-fitto o un contratto preliminare, anche stipulato anteriormente all’accesso al-la procedura – da parte di una new legal entity in bonis (o good company), cui faccia seguito la cessione o il conferimento: occorre, al proposito, ram-mentarre che la norma parla di cessione o conferimento di “azienda in fun-zionamento” e non di “impresa in funzionamento”.

Pare opportuno operare una distinzione fra continuità indiretta tipica e continuità indiretta atipica, nei seguenti termini:

• continuità indiretta tipica con cessione d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui il prezzo – che costituisce la

provvista per il pagamento dei creditori concorsuali – sia pagato rateal-mente ed origini dai cash-flow della cessionaria;

◦ per assicurare l’efficacia dei rimedi di cut off è necessario che la cessione sia sottoposta a condizione risolutiva ovvero che sia prevista la riserva di proprietà e siano contemplati adeguati meccanismi di controllo;

• continuità indiretta tipica con conferimento d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui la provvista per il pagamento dei

647 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

creditori concorsuali consista in un flusso di dividendi ed origini dai cash-flow della conferitaria;

◦ l’efficacia dei rimedi di cut off è limitata dalla circostanza che il conferi-mento non può essere sottoposto a condizione risolutiva o a riserva di proprietà, mentre è possibile contemplare adeguati meccanismi di con-trollo;

• continuità indiretta atipica con cessione d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui il prezzo sia pagato all’atto del

trasferimento o sia comunque garantito, ma la società cessionaria intenda comunque beneficiare della previsione secondo cui i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbli-che amministrazioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della pro-cedura; nonché della norma in base alla quale l’ammissione al concorda-to preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal debitore di cui all’art. 67 l. fall. ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento; ed infi-ne della disposizione per cui il giudice delegato, all’atto della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni;

◦ in caso contrario non si può parlare di concordato con continuità azienda-le, ma di concordato liquidatorio di universalità;

• continuità indiretta tipica con conferimento d’azienda (in esercizio): ◦ la fattispecie si realizza nel caso in cui la partecipazione sia venduta ed il

prezzo sia pagato all’atto del trasferimento o sia comunque garantito, ma la società conferitaria intenda beneficiare della previsione secondo cui i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura; nonché della norma in base alla quale l’ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal debitore di cui all’art. 67 l.f. ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento; ed infine della disposizione per cui il giudice delegato, all’atto della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni;

◦ in caso contrario non si può parlare di concordato con continuità azienda-le, ma di concordato liquidatorio di universalità trasformata in bene di secondo grado (la partecipazione).

La distinzione fra concordato liquidatorio e concordato con continuità aziendale si riverbera anche sul contenuto del piano e sulla relazione del professionista.

648 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

Con riferimento al contenuto del piano:

• concordato liquidatorio: ◦ il piano deve contenere la descrizione analitica delle modalità e dei tempi

dell’adempimento;

• concordato con continuità: ◦ il piano deve contenere la descrizione analitica delle modalità e dei tempi

dell’adempimento;

◦ il piano deve contenere l’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa: business plan economico;

◦ il piano deve contenere l’analitica indicazione delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura: business plan finanzia-rio.

Relativamente al contenuto della relazione del professionista: • concordato liquidatorio: ◦ la relazione deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità

del piano;

• concordato con continuità: ◦ la relazione deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità

del piano;

◦ la relazione deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; la comparazione dovrebbe essere fatta avendo riguardo all’alternativa liquidatoria, eventualmente concordataria.

Non pare sia necessaria una disclosure sulle eventuali azioni risarcitorie o recuperatorie esercitabili in sede fallimentare: infatti, nell’ipotesi di concor-dato liquidatorio tale disclosure non è prevista.

4.3. Gli strumenti di monitoraggio È necessario richiamare anche gli strumenti di monitoraggio (o assuran-

ce) dell’esecuzione del piano, nei seguenti termini:

• concordato liquidatorio: controllo diretto da parte del commissario giudi-ziale;

• concordato con continuità: ◦ continuità diretta: controllo diretto da parte del commissario giudiziale

(verosimile non necessità del liquidatore giudiziale); ◦ continuità indiretta:

649 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

▪ Cessione d’azienda: - strumenti contrattuali (follow up): bilanci infrannuali (secondo OIC

6), covenant, ecc. ▪ Conferimento d’azienda:

- strumenti ad efficacia reale: previsione statutaria; - strumenti ad efficacia obbligatoria: patti parasociali; - se la conferitaria è una s.r.l.: controllo del socio (art. 2476 c.c.); - strumenti contrattuali (follow up): bilanci infrannuali (secondo OIC

6), covenant, ecc.

4.4. Gli strumenti di reazione Quanto agli strumenti di reazione (cut off) potrebbe essere operata la se-

guente distinzione:

• Concordato liquidatorio: controllo diretto del commissario giudiziale; ◦ prima dell’omologazione: revoca del concordato; ◦ dopo l’omologazione: risoluzione in caso di inadempimento di non

scarsa rilevanza; legittimazione esclusiva dei creditori; • concordato con continuità diretta: controllo diretto del commissario giudi-

ziale; ◦ prima dell’omologazione: revoca del concordato ove si accerti che l’e-

sercizio dell’attività d’impresa è cessato o risulta manifestamente danno-so per i creditori;

◦ dopo l’omologazione: comunicazione del commissario giudiziale a tut-ti i creditori di inadempimento di non scarsa rilevanza; legittimazione esclusiva dei creditori alla risoluzione;

• Concordato con continuità indiretta: controllo del commissario giudiziale (bilanci infrannuali secondo OIC 6, covenant, ecc.). ◦ Cessione d’azienda: ▪ prima dell’omologazione: il rimedio della revoca con retrocessione

dell’azienda può realizzarsi soltanto nel caso in cui nel contratto di cessione sia stata apposta una condizione risolutiva ovvero sia stata prevista la riserva di proprietà;

▪ dopo l’omologazione: il rimedio della risoluzione del concordato in ca-so di inadempimento di non scarsa rilevanza con retrocessione del-l’azienda può realizzarsi soltanto nel caso in cui nel contratto di ces-sione sia stata apposta una condizione risolutiva ovvero sia stata previ-sta la riserva di proprietà.

650 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

◦ Conferimento d’azienda: ▪ prima dell’omologazione: il rimedio della revoca con retrocessione

dell’azienda è sterilizzato dalla circostanza che il conferimento non può essere sottoposto a condizione risolutiva o a riserva di proprietà;

▪ dopo l’omologazione: il rimedio della risoluzione del concordato in ca-so di inadempimento di non scarsa rilevanza con retrocessione del-l’azienda è sterilizzato dalla circostanza che il conferimento non può essere sottoposto a condizione risolutiva o a riserva di proprietà.

4.5. Il tema dell’affitto-ponte

Altra questione sottoposta all’interprete è se un piano concordatario che muova da un contratto di affitto-ponte, stipulato prima della cessione defini-tiva dell’azienda faccia venire meno la natura di concordato con continuità aziendale, per consolidarsi nell’ambito del concordato liquidatorio.

La questione è stata recentemente affrontata dal Tribunale di Roma 156, che ha affermato il principio secondo cui le operazioni straordinarie (cessio-ne, affitto, conferimento d’azienda), seppure volte a un mutamento della ori-ginaria compagine aziendale, non possono dirsi prive del requisito della «continuità» in caso di risanamento traslativo indiretto. In altri termini, il concordato con continuità indiretta è ascrivibile alla categoria del concorda-to con continuità aziendale.

Il Tribunale prende le distanze dalla prassi giurisprudenziale e dalla dot-trina che qualifica il piano di concordato contenente l’“affitto-ponte” come un concordato prettamente liquidatorio, escluso dall’alveo del concordato con continuità aziendale perché mancante del requisito fondamentale della continuità diretta. In via diametralmente opposta, i giudici affermano che l’introduzione nell’ordinamento dell’art. 186-bis della legge fallimentare non consente di aderire all’orientamento sopra richiamato: sia il concordato con ristrutturazione (o, meglio, con continuità diretta) sia il concordato con cessione o con continuità indiretta sono ascrivibili alla categoria del concor-dato con continuità aziendale. Quest’ultimo modello, viceversa, ipotizza proprio una continuazione fisiologica della vita dell’azienda, sia che essa si trovi in capo all’originario imprenditore sia che si trovi in capo a terzi affit-tuari-acquirenti.

Secondo il Tribunale, una visione liquidatoria legittimerebbe un compor-tamento volto a disfarsi, per via giuridica, di un’azienda ancora in vita e po-

156 Decreto in data 24 marzo 2015.

651 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

tenzialmente attiva, ivi compresa la forza lavoro che verrebbe messa da par-te senza il rispetto della normativa giuslavoristica.

Il Tribunale ritiene che la qualificazione come concordato con continuità aziendale sia inoltre coerente con i principi generali dettati dal Codice civile in materia di lavoro, nonché con le disposizioni previste in materia di azien-da e del relativo trasferimento. Norme che delineano una evidente continuità giuridica, non solo ideale, nei rapporti tra l’azienda ceduta e quella suben-trante.

5. I profili penali nel trasferimento d’azienda

5.1. La posizione della giurisprudenza Pare opportuno richiamare i principali orientamenti in tema di rilevanza pe-

nale del trasferimento d’azienda, sotto il profilo della bancarotta fraudolenta di-strattiva. In particolare, constano le recentissime pronunce di seguito richiamate:

• La Suprema Corte ha affermato che la cessione del ramo d’azienda attuata a condizioni svantaggiose per la cedente è idonea a provare l’operazione distrat-tiva. Inoltre, la Corte ha ritenuto che in tema di bancarotta fraudolenta distrat-tiva, il recupero del bene distratto a seguito di azione revocatoria non spiega alcun rilievo sulla sussistenza dell’elemento materiale del reato di bancarotta, il quale, perfezionato al momento del distacco del bene dal patrimonio del-l’imprenditore, viene a giuridica esistenza con la dichiarazione di fallimento, mentre il recupero della res rappresenta solo un posterius, equiparabile alla restituzione della refurtiva dopo la consumazione del furto, avendo il legisla-tore inteso colpire la manovra diretta alla sottrazione, con la conseguenza che è tutelata anche la mera possibilità di danni per i creditori 157.

• La Corte di Cassazione ha affermato che se l’imprenditore non richiede i canoni d’affitto dell’azienda è responsabile per bancarotta fraudolenta per distrazione. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto che – nel caso di specie – gli affitti non riscossi non rappresentino solo una conseguenza dovuta alla negligenza, soprattutto ove si tratti di somme ingenti e che rappresentano l’unica fonte di entrata della società fallita 158.

• La Corte di Cassazione ha affermato che l’affitto di beni aziendali ad un

157 Cass., 30 aprile 2015, n. 182018. 158 Cass., 8 aprile 2015, n. 7004.

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canone incongruo integra – ai sensi dell’art. 216 l. fall. – l’ipotesi di ban-carotta fraudolenta. Pertanto, rileva l’atto negoziale per mezzo del quale l’imprenditore – successivamente fallito – si priva della disponibilità dal bene; e l’eventuale recupero dei beni attraverso l’esercizio delle azioni consentite dalla curatela non incide sull’elemento oggettivo, che può veri-ficarsi in qualsiasi forma e modalità 159.

• La Corte di Cassazione, nel solco delle precedenti pronunce, ha affermato l’irrilevanza della distrazione dell’avviamento commerciale dell’azienda per integrare la fattispecie di cui all’art. 216 l. fall. in quanto l’avviamento commerciale rappresenta un potenziale reddito, sperato ma non realizzato finanziariamente né realizzabile in futuro quale credito, essendo necessa-riamente attività inscindibile dalla stessa azienda, seppur suscettibile di au-tonoma valutazione economica (Cass. 19 giugno 2014, n. 26452).

• La Corte di Cassazione ha escluso – contrariamente al filone interpretativo sin ad allora maggioritario – l’integrazione della condotta di bancarotta fraudolenta per distrazione in capo all’amministratore, il quale – in seguito al fallimento – abbia proseguito l’attività, mantenendo così alcuni dei pre-cedenti clienti, e “distraendo” il c.d. avviamento commerciale dell’impresa fallita 160.

6. I metodi di valutazione dell’azienda nell’ambito delle procedure concorsuali (in continuità)

6.1. Individuazione dei metodi di valutazione dell’azienda

6.1.1. Breve disamina dei metodi valutativi

Di seguito vengono succintamente esaminati i principali metodi di valu-tazione, al fine di individuarne la compatibilità con il caso di specie.

6.1.2. Il metodo patrimoniale semplice

Il metodo patrimoniale semplice consiste nella valutazione di beni compo-siti, tenuto conto degli elementi dell’attivo e del passivo che li compongono.

159 Cass., 11 novembre 2014, n. 46475. 160 Cass., 19 marzo 2014, n. 6405.

653 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.1.3. Il metodo patrimoniale complesso

Il metodo patrimoniale complesso costituisce un’integrazione del metodo patrimoniale semplice, in quanto consente di attribuire un valore separato a taluni beni intangibili. Esso assume particolare significato in presenza di in-genti valori di beni immateriali, ammesso che la relativa stima possa essere effettuata autonomamente, attraverso moltiplicatori di mercato o processi simili; oppure ove ricorra la necessità di determinare, con riferimenti ogget-tivi, il concorso di taluni beni intangibili nella formazione del valore. Attra-verso tale metodo il valore del capitale economico è determinato sommando il valore degli elementi intangibili (non risultanti dalla situazione patrimo-niale di riferimento) al patrimonio netto rettificato:

ove: W = valore del capitale economico PNR = valore del patrimonio netto rettificato V.IMM = valore delle immaterialità non contabilizzante, aventi o non

aventi valore di mercato.

6.1.4. Il metodo reddituale

Utilizzando il metodo reddituale puro, il valore di un bene è determinato unicamente in funzione dei redditi che, in base alle attese, esso sarà in grado di produrre.

Tale metodo è indicato per beni ed aziende operanti in condizioni di equi-librio economico stabile e duraturo, senza particolari problemi finanziari e che sfruttano adeguatamente la loro capacità produttiva. Eventuali beni e-stranei al processo produttivo debbono ovviamente essere separatamente va-lutati mediante metodi appropriati.

A seconda delle prospettive future e dei dati di cui si dispone, i metodi reddituali possono trovare applicazione secondo tre modalità di calcolo dif-ferenti, che possono essere sintetizzate come segue:

• attualizzazione del reddito medio normale atteso: tale processo corrisponde all’ipotesi di durata indefinita nel tempo del reddito atteso e si traduce in una formula valutativa che corrisponde al valore attuale di una rendita perpetua;

• attualizzazione del reddito medio normale atteso per un periodo definito di anni: essa poggia sull’ipotesi di una durata limitata nel tempo del reddito e

IMMVPNRW .

654 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

conduce, in buona sostanza, al valore attuale di una rendita annua postici-pata di durata pari ad un numero limitato di anni;

• attualizzazione dei redditi analiticamente previsti per un certo numero di anni, completata dalla determinazione di un valore terminale stimato sulla base del reddito atteso al termine del periodo oggetto di previsione analiti-ca: si tratta, come è agevole rilevare, di un metodo di valutazione composi-to rispetto a quelli in precedenza indicati.

6.1.5. Il metodo misto con stima autonoma dell’avviamento

Il metodo in questione si fonda sul presupposto che il reddito prospettico comprenda una quota di sovra-reddito (o sotto-reddito) destinata a venire meno nel tempo.

6.1.6. Il metodo misto con valutazione controllata delle immobilizzazioni

Tale metodo è indicato per la valutazione di aziende in difficoltà o appar-tenenti a settori in crisi, per le quali il rinnovo degli impianti non è conve-niente. In queste condizioni, l’investitore si pone, infatti, quale limite tempo-rale di sfruttamento, quello della vita utile degli impianti; momento a partire dal quale gli stessi – non presentando più alcuna utilità – perdono ogni signi-ficativo valore. Si tratta di un metodo compatibile solo con le realtà azienda-li che non sono in grado di ripristinare un’adeguata redditività.

6.1.7. Il metodo misto EVA

Il metodo EVA (Economic Value Added) nasce come metodo di determi-nazione delle performance aziendali e, successivamente, viene applicato an-che come criterio di valutazione. Il risultato della valutazione differisce da quanto determinabile sulla base del risultato di bilancio in quanto essa:

• muove dalla grandezza di reddito residuale (Nopat: Net Operating Profit After Tax) al fine di tenere conto del costo derivante dall’uso di tutti i capi-tali investiti, sia propri sia di terzi;

• fa riferimento ad una nozione di reddito normalizzato, vale a dire corretto al fine di minimizzare le distorsioni derivanti dall’applicazione dei principi e delle convenzioni contabili.

Costituisce una variante del metodo EVA, il metodo RAB (Regulated As-set Base) che trova applicazione nei segmenti di attività soggetti a regola-mentazione, per i quali il volume dei ricavi riconosciuti è determinato in ba-se al capitale riconosciuto dall’autorità di regolamentazione.

655 Diritto ed economia dell’impresa Fascicolo 2| 2017

6.1.8. Il metodo Discounted Cash Flow

Il metodo finanziario – conosciuto con il nome di DCF (Discounted Cash Flow) – è il metodo di valutazione più diffuso, consistente nell’attualizza-zione dei flussi di cassa. Si tratta di un metodo di generale applicazione, in grado di attribuire un valore a qualsiasi bene, indipendentemente dalle sue caratteristiche. È, infatti, indubbio che il valore effettivo di ogni bene o complesso di beni corrisponde ai flussi di cassa che questo genererà in futuro.

Per converso, l’affidabilità delle stime circa la misura e il tempo in cui le risorse finanziarie si genereranno deve, nella pratica, fare i conti con la diffi-coltà di previsione dei flussi finanziari ed impone pertanto l’attenta verifica del risultato attraverso metodi di controllo.

6.1.9. I metodi dei multipli

Il metodo dei multipli consente di determinare il valore di una società sulla base dei prezzi negoziati per titoli rappresentativi di quote del capitale di imprese comparabili in base al rapporto tra la loro capitalizzazione borsi-stica e parametri diversi, quali, a seconda dei casi, l’utile netto, l’EBIT, l’EBITDA, il Cash Earning, il fatturato, il Book Value.

Le valutazioni così condotte si fondano su due ipotesi principali:

• la sussistenza di un rapporto di proporzionalità diretta tra le variazioni del valore della società e quelle della grandezza economica scelta come para-metro di performance;

• la sostanziale analogia dei saggi di crescita attesi, dei flussi di cassa aziendali e del tasso di rischiosità tra la realtà oggetto di valutazione e quelle comparabili.

Quando entrambe le due ipotesi siano verificate, il metodo dei multipli fornisce una misura del prezzo addirittura più attendibile rispetto a quella ot-tenuta con i metodi basati sui flussi finanziari (DCF), poiché evita le stime proprie del metodo finanziario e assume direttamente dal mercato, attraverso appunto i multipli, le attese di crescita dei risultati e l’apprezzamento del ri-schio.

Il suo momento critico risiede nell’elevata variabilità dei risultati che ne derivano, in conseguenza della volatilità dei corsi di borsa. Al fine di atte-nuare tale volatilità occorre porre una particolare attenzione nella selezione e nel calcolo dei multipli, distinguendosi tra:

• multipli correnti (multipli spot), determinati confrontando il corso medio di borsa con le grandezze dell’ultimo bilancio disponibile;

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ove: ETO = utili per azione dell’ultimo esercizio

• multipli trailing, determinati confrontando il corso medio di borsa del-l’ultimo anno con i risultati desunti dai dodici mesi precedenti alla data di riferimento assunta ai fini del calcolo degli indici. Essi vengono ricavati dai dati diffusi dalle società quotate mediante la disamina delle ultime quattro relazioni finanziarie trimestrali o dell’ultima relazione finanziaria semestrale;

 

ove: ELTM = (LTM: Last Twelve Months) utili per azione del periodo relativo ai

12 mesi precedenti;

• multipli leading, determinati confrontando il corso medio di borsa con i ri-sultati attesi per l’esercizio successivo ed i seguenti, sulla base dei consen-si delle previsioni degli analisti. Trattasi in genere di consensus forecast pubblicati da associazioni di analisti finanziari come l’IBES (International Brokers Estimate Service) e Datastream. Questi multipli però sono sogget-ti a una seria restrizione, in quanto non riconoscono la differenza fra cre-scita che genera valore e crescita che non ne genera e presentano, pertanto, una difficoltà applicativa sotto il profilo logico. L’unico contesto in cui es-si possono assumere significato riguarda le società c.d. Value per le quali è prevista crescita degli utili senza reinvestimento degli stessi;

 

ove: ETI = utili per azione attesi per l’esercizio successivo Occorre distinguere infine tra:

• multipli che si riferiscono al valore di mercato del solo capitale (Equity Va-lue), quali il P/E (Price/Earning), il P/CE (Price/Cash Earning), il P/BV (Price/Book Value);

TOO EP

LTMO EP

TIO EP

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• multipli che hanno quale punto di riferimento il valore totale dell’impresa (EV: Enterprise Value), quali l’EV/EBIT, l’EV/EBITDA, l’EV/Sales.

È opportuno ancora osservare che il fatturato e il Book Value, non rappre-sentano di per sé la capacità di creare valore e, diversamente dalle grandezze riferite ai risultati economici, sono in grado di determinare il valore della so-cietà solo in via indiretta e, pertanto, quando non si presentino rilevanti asimmetrie di redditività tra le diverse realtà comparate.

In ogni caso, occorre osservare che i multipli di mercato risentono sia della crescita attesa, sia dei livelli di payout e di ROE.

6.2. La valutazione delle aziende in esercizio L’art. 63 del decreto n. 270 del 1999, in tema di vendita dell’azienda in

esercizio di società sottoposte ad amministrazione straordinaria prevede che l’individuazione del prezzo di vendita da parte degli esperti nominati dal commissario straordinario debba essere effettuata tenendo conto della reddi-tività, anche se negativa, all’epoca della stima e nel biennio successivo. In altre parole, al valore dell’impresa al momento della stima deve essere sot-tratto, il cd. badwill, ossia l’eventuale e probabile perdita di gestione che si verificherà nel biennio successivo, sebbene questa possa essere individuata soltanto in via astratta. A fronte di questa riduzione del prezzo l’acquirente deve obbligarsi a proseguire per almeno un biennio le attività imprenditoriali e a mantenere per il medesimo periodo i livelli occupazionali stabiliti nel-l’atto di vendita.

Sulla base di tale disposizione si è posta la questione se una volta deter-minato il prezzo seguendo questo criterio, esso costituisca un vincolo per la legittimità dell’operazione di vendita oppure se l’organo gestore della pro-cedura possa individuare come accettabili anche prezzi inferiori, qualora ciò sia ritenuto indispensabile per salvaguardare l’unità operativa dei complessi aziendali e l’unità dell’operazione.

Secondo un orientamento dottrinale, la finalità dell’indicazione del meto-do di determinazione del prezzo mediante la considerazione del badwill biennale non sarebbe tanto quella di fissare un limite al di sotto dal quale il prezzo di vendita non possa scendere, quanto piuttosto quella di individuare sin da subito un prezzo realistico che tenga conto della necessità di mantene-re l’occupazione per un certo tempo e, dunque, della probabile perdita d’e-sercizio che ne potrebbe derivare. Qualora a fronte del prezzo così indivi-duato non si rinvenissero potenziali acquirenti sarebbe più ragionevole de-terminare un prezzo inferiore, piuttosto che cessare l’azienda e vendere ato-

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misticamente i beni, ricavandone verosimilmente una somma ancora più bassa da ripartire tra i creditori.

Sul punto la giurisprudenza, tuttavia, si è espressa in modo contrario os-servando come essendo poste a tutela di interessi generali, quali quelli dei creditori, quello dei lavoratori, nonché quello della conservazione del patri-monio produttivo, le disposizioni contenute negli artt. 62 e 63 del decreto n. 270 del 1999 assumono il carattere di norme imperative e rappresentano un limite inderogabile al potere discrezionale sia del commissario straordinario che dell’autorità ministeriale. In quanto tali, la loro violazione determina la nullità dell’attività negoziale conclusiva della procedura di vendita e l’ille-gittimità degli atti ad esse prodromici.

Assonime, prendendo le mosse dalle novità introdotte dal decreto legge “Destinazione Italia” n. 145/2013, ha precisato che il decreto Legge mede-simo è «intervenuto, infine, sulla disciplina delle operazioni di vendita del-l’impresa soggetta alla procedura di amministrazione straordinaria, preve-dendo che l’articolo 63 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 deve in-terpretarsi nel senso che il valore determinato ai sensi del primo comma dello stesso articolo non costituisce un limite inderogabile ai fini della legit-timità della vendita».

La norma in commento interviene, dunque, per dirimere la questione aderendo all’orientamento dottrinale su indicato e chiarendo che il valore determinato secondo il criterio del badwill, sebbene debba ritenersi il valore al quale le operazioni di vendita debbano almeno tendere, non rappresenti un limite inderogabile dalla cui violazione far derivare l’illegittimità della vendita stessa.

Per espressa previsione della norma rimane, però, fermo l’obbligo del-l’acquirente di proseguire per un biennio l’attività e di mantenere per lo stesso periodo i livelli occupazionali previsti dall’atto di vendita, nonché quello per il commissario di scegliere l’acquirente tenendo conto, oltre che dell’ammontare del prezzo offerto, dell’affidabilità dell’offerente e del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, anche con riguardo alla ga-ranzia del mantenimento dei livelli occupazionali» 161.

161 Assonime, Circolare n. 12/2014.

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6.3. La valutazione del canone d’affitto d’azienda

6.3.1. Considerazioni teoriche

La stima di un canone “congruo” nell’ipotesi di affitto d’azienda rappre-senta una tematica già affrontata in passato dalla letteratura economico-aziendale, la quale ha proposto a tal fine vari approcci.

In particolare alcuni Autori 162 hanno affermato che il valore del canone “congruo” di affitto risulta pari al prodotto tra il valore del capitale econo-mico dell’azienda (o ramo d’azienda) concessa in affitto e un tasso di remu-nerazione del capitale investito nell’azienda medesima. Allo scopo di deter-minare il valore del capitale economico, tali Autori sostengono che i metodi fondati su grandezze flusso, quali i metodi finanziari, reddituali e misti, sia-no di scarsa utilità in quanto nell’applicazione della formula di determina-zione del canone “congruo” i flussi attesi rappresentano proprio l’incognita da determinare, generando conseguentemente problemi di circolarità. Per ta-le ragione essi sostengono la necessità di stimare il valore economico dell’azienda ricorrendo ai metodi patrimoniali complessi, ovvero sommando al patrimonio netto rettificato il valore dei beni immateriali non contabilizza-ti. In merito al tasso di remunerazione, tali Autori affermano che debba esse-re calcolato sommando un tasso risk free e un risk premium rappresentativo del rischio economico d’impresa, determinato utilizzando la tecnica del Ca-pital Asset Pricing Model (CAPM) o tramite la regola empirica cosiddetta di Stoccarda. Qualora l’affitto sia concesso nel corso del concordato preventi-vo, il valore del capitale economico o dell’attivo operativo dovrebbe essere determinato sempre ricorrendo alle metodologie sopra esposte prevedendo tuttavia, allo scopo di tener conto che la società si trova in situazione di de-fault e quindi incapace di remunerare in maniera “congrua” il capitale inve-stito, di sottrarre dal valore così stimato l’ammontare di una correzione red-dituale quantificata attualizzando i differenziali tra i redditi giudicati “con-grui” e i redditi normalizzati che verranno realizzati nei successivi 3-5 eser-cizi.

Un altro Autore 163, facendo riferimento all’operazione di affitto decisa dagli organi della procedura di concordato preventivo, afferma che il cano-

162 Cfr. M. LACCHINI-R. TREQUATTRINI, Sulla individuazione del canone «congruo» in ipotesi di affitto d’azienda (con particolare riguardo alle imprese in fallimento), in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, luglio-agosto 1998.

163 Cfr. A. DANOVI, Fallimento, valutazione e affitto d’azienda, in Rivista dei Dottori Commercialisti, n. 4, 2000, 510.

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ne, qualora sia determinato in misura fissa, debba essere pari al prodotto tra il valore dell’azienda (o del ramo d’azienda) concessa in affitto e una per-centuale α. Più precisamente, secondo l’Autore in parola il valore dell’a-zienda deve essere calcolato facendo ricorso al metodo patrimoniale mentre la percentuale α risulta essere inversamente proporzionale alla deperibilità delle componenti immateriali d’azienda e deve essere determinata conside-rando, quale limite superiore, il concetto di redditività normale del settore e scendendo, a seconda delle ipotesi, a valori tendenti a zero.

Infine un altro Autore 164 ancora propone di determinare il canone di affit-to come prodotto tra il valore d’uso del patrimonio aziendale e un tasso di congrua remunerazione dell’investimento effettuato. Il valore d’uso viene identificato nel capitale economico, determinato attualizzando i risultati atte-si dall’impiego del capitale dell’azienda (o del ramo d’azienda) oggetto del contratto d’affitto. Si nota sul punto una differenza rispetto alle impostazioni seguite dagli altri Autori i quali, come sopra specificato, al fine di stimare il canone “congruo” suggeriscono di calcolare il valore dell’azienda applican-do il metodo patrimoniale. In relazione alla stima del tasso di “congrua” re-munerazione, tale Autore afferma che deve essere innanzitutto considerato il rischio di insolvenza dell’affittuario, ovvero il rischio che non sia in grado di rispettare gli impegni di pagamento derivanti dal contratto. Il tasso deve per-ciò riflettere il rischio di default dell’affittuario, che dipenderà dalla sua si-tuazione economico-finanziaria e dall’eventuale presenza di garanzie che as-sistono il contratto. Inoltre è da tenere in considerazione che, se le differenze inventariali non sono determinate sulla base della variazione del capitale economico tra l’inizio e la fine del contratto, bensì solamente riferendosi alle modifiche intervenute nelle consistenze patrimoniali, l’affittuario sostiene in aggiunta il rischio di riduzione del valore dell’avviamento relativo all’azien-da oggetto del contratto di locazione. In tal caso il tasso di remunerazione deve comprendere, oltre alla componente che riflette il rischio di default, una percentuale aggiuntiva che rappresenti il rischio che si verifichi una va-riazione inattesa del capitale economico nel corso della durata dell’affitto.

Pur presentando differenze nelle modalità di rilevazione dei singoli pa-rametri rientranti nella formula di stima, si rileva che gli approcci sopra rias-sunti sono sostanzialmente concordi nell’affermare che il canone cosiddetto “congruo” può essere quantificato moltiplicando il capitale economico del-l’azienda per un tasso di remunerazione. In definitiva, secondo i citati Auto-

164 Cfr. A. MECHELLI, La stima del valore congruo del canone di locazione nell’ipotesi di affitto d’azienda, in Rivista dei Dottori Commercialisti, n. 5, 2007.

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ri, il valore così calcolato rappresenterebbe l’ammontare che giustifica la realizzazione di un’operazione di affitto d’azienda da parte di un imprendi-tore, oppure la decisione di un curatore di subentrare in un contratto stipula-to prima dell’accesso alla procedura di fallimento o di concedere in affitto l’azienda successivamente all’apertura del fallimento.

6.3.2. La prassi applicativa

L’affitto dell’Azienda, teso ad evitare l’interruzione della continuità aziendale, salvaguardando al meglio la clientela e di conseguenza la forza lavoro della società dichiarata fallita, si presenta normalmente con le caratte-ristiche dell’affitto “minimale”, senza trasferimento di crediti e debiti, di magazzino, con spese di manutenzione ordinaria a carico dell’affittuario e di quelle straordinarie eventualmente sostenute dall’affittuario, a carico della concedente.

Alla luce delle sopra richiamate considerazioni teoriche, il valore del congruo canone di affitto visto in funzione del valore economico dell’azien-da concessa in affitto può essere individuato con la seguente espressione:

FR = W x R dove: FR = Fair Rent (Congruo canone di affitto); W = Valore economico dell’Azienda; R = Tasso di congrua remunerazione del capitale investito che tenga con-

to del rischio sottostante.