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SACRAMENTARIA SPECIALE. I. Battesimo, confermazione, eucaristia

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Abbreviazioni e sigle

AA CONCILIO VATICANO II, decreto Apostolicam actuositatem, 18.11.1965

AAS Acta Apostolicae Sedis, Città del Vaticano 1909ss

AGO Acta Conciliorum Oecumenicorum, E. Schwartz, Berolini 1914ss

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BZ Biblische Zeischrift, Freiburg i.Br./Paderborn

Bibl Biblica, Roma

CC Corpus Christianorum, Tunhout-Paris 1953ss

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CD CONCILIO VATICANO II, decreto Christus Dominus, 28.10.1965

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Conc Concilium (ed. it. Brescia)

CIC Codice di Diritto Canonico, Roma 1983

CSCO Corpus Scriptorum christianorum Orientalium, Paris 1903ss

CSEL Corpus Scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, Wien 1866ss

CT Concilium Tridentinum, Freiburg 1901ss

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Div Divinitas, Roma

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DSp Dictionnaire de Spiritualité, Paris 1936ss

DT Dizionario teologico, Brescia 1966-1968

DTAT Dizionario teologico delVAT,Torino 1978

DTh Divus Thomas, Freiburg

DThC Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1903ss

DV CONCILIO VATICANO II, costituzione dogmatica Dei Verbum, 18.11.1965

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EThL Ephemerides Theologicae Lovanienses, Lovanio 1924ss

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GCS Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte,

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GS CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium etspes, 28.10.1965

Greg Gregorianum, Roma 1920ss

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HThR The Harvard theological Review, Cambridge

IGRM «Institutio Generalis» del Messale Romano, editio typica del 27 marzo 1975

(III edizione 2004)

JLw Jahrbuch für Liturgiewissenschaft, München 1921-1941

LG CONCILIO VATICANO II, costituzione dogmatica Lumen gentium, 21.11.1964

LKT Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg 1957-1962

MD La Maison-Dieu, Paris 1945ss

NT Nouvelle Revue Théologique, Paris 1979ss

OT CONCILIO VATICANO II, decreto Optatam totius, 28.10.1965

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PG Patrologia graeca, Migne, Paris 1857-1866

PL Patrologia latina, Migne, Paris 1878-1890

PO CONCILIO VATICANO II, decreto Presbyterorum ordinis, 7.12.1965

SC CONCILIO VATICANO II, costituzione Sacrosanctum concilium, 4.12.1963

SCh Sources Chrétiennes, Paris 1941ss

ST Studi e testi, Roma 1900ss

TU Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur,

Berlin 1882ss

UR CONCILIO VATICANO II, decreto Unitatis redintegratio, 21.11.1964

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PRESENTAZIONE

Il corso di teologia sistematica è stato accolto in questi anni con notevole interesse dai docenti

e dagli studenti, se è vero, come è vero, che ogni volume è stato riedito più volte. L’esigenza di poter

usufruire di manuali di sintesi in grado di esporre organicamente le singole parti del sapere dog-

matico rimane vìva, oggi più che mai. La presente opera si situa in questo ambito essenziale.

Fin dal 1989 è stato pubblicato il volume Sacramentaria fondamentale, ristampato più volte e

utilizzato in molti istituti di teologia.1 Mancava il volume di Sacramentaria speciale. Per diverse

ragioni non era stato possibile pubblicarlo, e ciò rappresentava una lacuna nell’economia globale

del corso. Finalmente tale lacuna è stata colmata. Il 2003 ha visto la pubblicazione del volume

Sacramentaria speciale. IL Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio ad opera di diversi

autori.2 Adesso viene pubblicato il volume Sacramentaria speciale. I. Battesimo, confermazione,

eucaristia, curato da due autori: i sacramenti del battesimo e della confermazione dal prof. Mario

Florio; il sacramento dell’eucaristia dal prof. Carlo Rocchetta. Pur con le diversità di linguaggio e

di impostazione che caratterizzano ognuno dei due autori, l’opera conserva una medesima pro-

spettiva di fondo, quella di OT 16: premettere, ad ogni sacramento, una breve contestualizzazione

antropologica, trattare l’origine biblica del sacramento e i suoi specifici fondamenti neotestamentari,

riferirsi alla tradizione e presentare lo sviluppo storico del dogma, offrire un inquadramento

dogmatico che compendi i dati essenziali della fede cattolica, proporre infine gli aspetti liturgico-

pastorali più significativi. Per ciascuno dei tre sacramenti viene dunque offerta un’esposizione

sufficientemente articolata e completa, adeguata agli utenti del primo ciclo teologico e diretta- mente

fruibile per i loro studi. Uauspicio che mi permetto di fare è che anche questo volume, come gli altri,

possa ricevere una buona accoglienza e costituisca un valido strumento di studio e di riflessione

credente a servizio della comunità cristiana e di quanti amano la teologia e ne frequentano i corsi.

CARLO ROCCHETTA DIRETTORE DEL CORSO DI TEOLOGIA SISTEMATICA

1 C. ROCCHETTA, Sacramentaria fondamentale. Dal «mysterion» al «sacramentum», EDB, Bologna 1989,598 pp. 2 M. FLORIO - S.R. NKINDJI - G. CAVALLI - R. GERARDI, Sacramentaria speciale. II. Penitenza, unzione degli infermi, ordine,

matrimonio, EDB, Bologna 2003, 366 pp.

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PRIMA PARTE IL SACRAMENTO DEL BATTESIMO

Mario Flori

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INTRODUZIONE LO SFONDO ANTROPOLOGICO: NASCITA E RINASCITA

Nella società complessa e tendenzialmente sempre più globalizzata nella quale si trova a

vivere l’uomo contemporaneo accadono taluni fatti che interrogano profondamente la prassi delle

comunità cristiane, specialmente nei paesi di antica tradizione cristiana dell’Occidente ricco e

fortemente tecnologizzato. Da una parte l’ingegneria biogenetica mette in opera tentativi sempre più

azzardati di manipolazione della vita umana fino alla possibilità (effettuale, se non effettiva) della

clonazione, dall’altra accade che via internet arrivi a chi è incaricato del servizio del catecumenato in

una grande metropoli la richiesta a diventare cristiano da parte di un giovane o un adulto.3 Due

tecnologie (biogenetica e informatica) si fanno interpreti, con modalità ed effetti certo diversi, di due

fatti fondamentali: il primo attinente a un evento naturale quale l’essere concepiti e il nascere, il

secondo a un fatto religioso così radicale, quasi una nuova nascita, quale il diventare cristiano.

Guidato all’essenziale l’occhio coglie in questi due fenomeni un singolare darsi di due fatti

fondamentali della vita umana: l’essere iniziati alla vita come vita umana in questo pianeta e l’essere

iniziati a una religione con i suoi riti, le sue dottrine e la sua prassi di vita. Nascita e rinascita sono al

cuore dei due complessi fenomeni.4

Vale la pena cominciare a indagare sulla regia all’opera dietro questa singolare configurazione

dei due fenomeni. In un caso pare non si possa non riconoscere la spericolata e incauta manipolazione

dell’uomo : la sua mano nel segreto della vita. Scienza e tecnologia si misurano su frontiere inedite

alla ricerca dei limiti del poter fare e investite dalle domande etiche più radicali. Nell’altro caso si

cerca di sondare ogni motivazione antropologica che può spingere a chiedere il battesimo fino ad

accorgersi che è all’opera la mano di Dio.

L’essere iniziati alla fede cristiana, con grande sorpresa e spaesa- mento di ogni prassi

pastorale tradizionale, dipende dall’iniziativa divina, prima di tutto. La persona che avverte, nella

società multimediale, mul- tietnica e religiosamente pluralista, l’appello alla fede in Gesù Salvatore,

riporta fulmineamente la comunità cristiana alla coscienza della sua origine: essa è assemblea,

chiamata, convocata da Dio Padre, per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Ed è proprio questo

postulante {rudis nel linguaggio di sant’Agostino) che solleva in modo inedito lo sguardo della

comunità dalla terra al cielo, un po’ come accade a Pietro nell’incontro con il pagano Cornelio (cf.

At 10).

Poniamo tuttavia la debita attenzione allo stretto rapporto che vi è tra il nascere e il ri-nascere.

Il Dio che suscita in un adulto di questo mondo secolarizzato l’appello alla vita cristiana non è anche

il Dio che suscita l’appello a essere? Chi presiede a questa radicale iniziazione a essere e a essere

qualcuno (persona)? Chi è all’origine dell’essere e della dignità della persona?

È strano notare come il nesso nascere-rinascere rimandi sia ai riti religiosi di tipo iniziatico

(la teologia liturgica e sacramentale insieme) sia alla domanda metafisica più radicale e universale

legata al mistero dell’essere (la filosofia e le scienze umane).

Ebbene, il nascere si colloca da sempre in una cultura specifica e nel suo tipico modo di aprirsi

sul mistero dell’essere e della vita.5 Il processo iniziatico attraversato dal neofita cristiano mostra tutta 3 È questa l’esperienza narrata da P. Guy Cordonnier, direttore fino a pochi anni fa del Service national du catéchuménat della

Chiesa cattolica in Francia: cf. ID., Dei nouveaux chrétiens, Desclée de Brouwer, Paris 1995. Per la situazione in Italia, cf. W. Ruspi,

«Il catecumenato oggi in Italia», in Rivista di pastorale liturgica 34(1996)3, 3-21. Per la situazione in Europa, cf. Gruppo europeo dei

catecumenati (ed.), Agli inizi della fede. Pastorale catecumenale oggi in Europa, Paoline, Roma 1991. 4 Per la rilevanza del rito da un punto di vista antropologico-culturale e antropologico-reli- gioso, cf. V. TURNER, Il processo

rituale. Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia 1972 (ed. or. Chicago 1969); A.N.TERRIN, Il rito. Antropologia e fenomenologia

della ritualità, Morcelliana, Brescia 1999,29.217-256. 5 Su questo punto si vedano le pertinenti e acute osservazioni elaborate da Z. BAUMAN da un punto di vista sociologico, cf. ID,,

Una nuova condizione umana, presentazione di M. Magatti, Vita e Pensiero, Milano 2003, 115-120 (l’autore riprende gli studi sui riti

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la sua peculiarità (specialmente nel caso dell’adulto) perché ristruttura nella luce della fede e del

messaggio evangelico una comprensione del rapporto tra natura e cultura già preesistente. Esso ri-

legge, ri-vede e reimposta un dato previo e lo configura (secondo il modo tipico dell’efficacia

sacramentale) in un nuovo ordine simbolico senza distruggerlo ma purificandolo e perfezionandolo

nella grazia della pasqua di Gesù (gratia non destruit naturam sed supponit et perficit eam). Ora,

mentre in varie culture del pianeta l’evento della nascita è ancora connotato e contestualizzato in un

ambito rituale pregnante di significato antropologico (e spesso anche religioso), nelle ampie aree

sociali tipiche della cultura occidentale la nascita non sembra godere di questo supporto di

significazione e il registro rituale, con tutta la sua evocativa capacità simbolica (ed estetica), sembra

come dormiente per non dire rimosso o del tutto cancellato.6 Tutto ciò ha un’immediata ricaduta

sull’impianto iniziatico cristiano, particolarmente evidente nel caso del pedobattesimo.7 Perché?

L’evento della nascita sembra essere stato deprivato di una lettura simbolica. I genitori sono

stati privati di questo orizzonte dal momento che le pratiche sociali relative al nascere sono delegate

sempre più alla società e alle sue diverse istituzioni. In realtà la famiglia è come deprivata del modo

rituale/simbolico di dire il proprio rapporto con questo fatto assolutamente unico che è la nascita di

un figlio. La famiglia è stata espropriata di questa competenza che ha radici ancestrali e cosmiche

così misteriose e profonde. La domanda del battesimo del neonato sembra, a mio avviso, prestarsi a

colmare un vuoto, un’afasia, uno stato di quasi totale disorientamento dei genitori. L’impianto

iniziatico cristiano deve così supplire al vuoto iniziatico antropologico-culturale. Tale supplenza crea

un ibrido dove non si riesce a dire la differenza tra i due eventi del nascere e del rinascere. Essi sono

legati certo in una continuità (essere ed essere cristiano), ma anche segnati da una profonda

discontinuità dal momento che la grazia della giustificazione per fede e il battesimo pongono in gioco

un orizzonte soprannaturale. Non è un caso che l’evento battesimale si trovi gravato di tutta una serie

di riti, esterni al tipico dinamismo celebrativo, che la famiglia cura di eseguire per dire più ciò che

non è tipicamente cristiano che ciò che lo è. Il segnale più appariscente di questo strano procedere del

celebrare è il riferimento debole alla comunità cristiana (nella sua determinazione storico-concreta) e

forte alla comunità parentale o più ampiamente amicale. I vincoli di sangue prevalgono su quelli della

grazia. Poco si avverte dell’essere generati a vita nuova quali figli di Dio ma ancor meno si avverte

l’inserimento nella comunità cristiana e l’appartenenza a un vincolo nuovo di fraternità. Tutto è

organizzato a misura del clan.

Il pedobattesimo fa riflettere molto anche per questo strano modo di sovrapporsi del fatto

cristiano al fatto creaturale. Occorrerebbe che la famiglia e i genitori potessero dire in modo

rituale/simbolico il loro rapporto con la nascita. Tale humus manca e purtroppo la sua carenza non è

dovuta alle forti convinzioni cristiane della famiglia, tali dunque da fornire un’immediatezza di

sguardo cristiano al nascere di un figlio, ma al concorrere di due fatti: una carenza sul piano

antropologico e una carenza sul piano dell’evangelizzazione. Non sta a noi rilevarne qui le cause. Ma

gioverebbe restituire a ciascun piano la sua autonomia, come a dire che, anche se non si prospetta la

domanda del battesimo, già la nascita costituisce una grazia, un dono da leggere o saper leggere in un

quadro non solo biotecnologico ma denso di mistero: il mistero della vita umana nel grande mistero

dell’universo. Per l’Occidente e per i suoi fondamenti culturali si rinnova a questo proposito

l’esigenza di una rilettura critica delle matrici filosofiche e ideologiche della secolarizzazione che

escludono a priori l’originalità del fatto religioso.

Questa impasse viene completamente superata quando sono gli adulti a chiedere di essere

iniziati alla fede cristiana. Il «cristiani si diventa» fa allora da contrappunto al porgersi forse troppo

di passaggio elaborati da Van Gennep e Turner). 6 Anche se, come osserva BAUMAN: «Si nasce, per così dire, nella “cittadinanza di uno stato”. La nudità del neonato non ancora

aggrovigliato nelle trappole legali/giuridiche, fornisce il luogo su cui la sovranità del potere dello stato si costruisce, si ricostruisce

perpetuamente e si assesta», in Una nuova condizione umana, 116. 7 Per una bibliografia ragionata relativa alla complessa nozione liturgico-sacramentale di iniziazione cristiana, cf. P. SORCI (ed.),

«Invito alla lettura», in Credere oggi 15(1995), 127-139 (tutto il numero monografico è dedicato al tema dell’iniziazione cristiana).

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scontato del «cristiani si nasce» e pone in luce l’esigenza di un vero e proprio cammino di iniziazione.

Ogni iniziazione mira a comunicare al singolo, mediante una precisa espressione rituale, un

nuovo senso dell’esistenza nel contesto di una nuova esperienza di appartenenza. L’interlocutore

storico del candidato all’iniziazione, il catecumeno, si autopresenta non come soggetto singolo ma

come comunità.

La realtà storica di questa comunità è il luogo nel quale viene realizzandosi un’esperienza di

fede. Nell’iniziazione del catecumeno si opera un incontro tra la sua fede e quella della comunità

cristiana. Questo livello storico è l’ambito sacramentale nel quale Dio Padre opera la sua

comunicazione di vita, quella del suo Figlio morto e risorto. È il venire incontro di Dio all’uomo, è

l’irruzione del dono della vita divina nel grembo fecondo della Chiesa. È lo Spirito Santo che tesse la

logica di questo incontro. Egli suscita e prepara il movimento della fede nel catecumeno, pone le

condizioni dell’incontro con la Chiesa e nell’ambito di questo incontro attualizza il dono pasquale

della vita nuova.

L’iniziazione cristiana, colta in profonda unità con tutta la realtà del catecumenato, è lo

«spazio» dell 'irruzione della grazia, dono gratuito e trascendente del Padre che chiama gli uomini

alla comunione con sé per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il rito deìì’inizi azione cristiana

è Vinterruzione delle condizioni dell’ordinario svolgersi della storia per accogliere la forma definitiva

del nuovo eone nella vita del chiamato. In ciò il rito cristiano è vera iniziazione perché trasgredisce il

consueto (lo interrompe, lo sospende) e lo abilita a divenire luogo dell’inedito (la novità).

Non si può non notare la forte analogia tra i misteri dell’iniziazione cristiana e il mistero

dell’incarnazione del Verbo. Il grembo della Chiesa appare in stretta dipendenza, genetica e formale,

dal grembo di Maria. L’irruzione dell’annunciazione è il fondamento e il prototipo dell’interruzione

nella quale, per ritus et preces, si opera la nascita a vita nuova «ex aqua et Spiritu Sancto» (Gv 3,5).

«Per mezzo dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, gli uomini, uniti con Cristo nella sua morte,

nella sua sepoltura e risurrezione, vengono liberati dal potere delle tenebre, ricevono lo Spirito di

adozione a figli e celebrano, con tutto il popolo di Dio, il memoriale della morte e risurrezione del

Signore» (RICA, Introduzione generale, 1; cf. LG 9).

L’essere rinati dall’acqua e dallo Spirito Santo attualizza dunque nel catecumeno la novità del

mistero pasquale quale nuovo senso dell’esistenza, quale nuova direzione del proprio vissuto spazio-

temporale secondo il destino del primogenito dai morti, Gesù, il Messia crocifisso. L’effetto visibile

di questa rinascita è la nuova condizione di appartenenza. D’ora in poi, senza possibilità di revoca da

parte di Dio, il chiamato è inserito vitalmente nel popolo di Dio.

«Per mezzo del Battesimo, essi [gli uomini], ottenuta la remissione di tutti i peccati, liberati

dal potere delle tenebre sono trasferiti allo stato di figli adottivi; rinascendo dall’acqua e dallo Spirito

Santo diventano nuova creatura: per questo vengono chiamati e sono realmente figli di Dio. Così,

incorporati a Cristo, sono costituiti in popolo di Dio» (RICA, Introduzione generale, 2).

L’evento battesimale cristiano introduce il candidato, catecumeno adulto o neonato, a una

realtà ontologica nuova, unica e irrepetibile: l’identità di figlio di Dio. Occorre insieme precisare che

tale novità si lascia specificare attraverso il riferimento alla nozione di adozione. La condizione nuova

alla quale si accede è dunque quella di figli adottivi.

Dal punto di vista della rivelazione cristiana la pienezza dell’identità filiale appartiene

essenzialmente solo alla divina persona del Figlio unigenito del Padre. Attraverso l’incarnazione

l’uomo Gesù di Nazaret riceve tale pienezza per comunicarla agli uomini (la dottrina di Calcedonia).

L’umanità di Gesù è dunque l’umanità del Figlio unigenito e la sua eterna figliolanza si lascia dire in

modo unico, irrepetibile e definitivo nella vicenda del Messia crocifisso e risorto.

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Con il battesimo ogni uomo entra in comunione con la persona di Gesù assumendone

sacramentalmente lo stesso destino di morte e risurrezione. Tale innesto nel centro cristologico della

storia della salvezza attua dunque, per grazia, nella persona del credente, una vera partecipazione a

ciò che è solo di Gesù, Figlio eterno del Padre. La categoria dell’adozione filiale, con il suo sfondo

biblico sia vetero che neo-testamentario, è dunque la metafora pregnante di tale nuova condizione

ontologica operata dal sacramento (la partecipazione alla vita di Gesù morto e risorto).8 Si può dire

in sintesi che la categoria di figlio adottivo non è che una peculiare espressione, genuinamente biblica,

della più complessa nozione teologica di partecipazione (cf. Col 1,13). Questa dunque attinge da

quella il suo mondo di significato e allo stesso tempo la libera da un connotazione eccessivamente

giuridica esplicitandone insieme una radicalità che appartiene al piano dell’essere (cf. Gal 4,1-7).

Questa dignità filiale del battezzato è dunque al centro di tutto lo sviluppo della sua esistenza

di credente. Il suo destino è quello di essere pienamente conformato a Gesù, il primogenito tra molti

fratelli (cf. Rm 8,29; Col 1,18). Da qui il senso dinamico del battesimo: alla partecipazione fa seguito

la conformazione. Sia l’una che l’altra implicano l’opera della grazia e chiamano in causa, a titolo

diverso, l’azione della Chiesa, la prassi sacramentale e la risposta di fede del chiamato.

In tale contesto si pone più specificamente la questione del rapporto tra fede e battesimo e

sullo sfondo quella dell’inizio della conversione e dell’iniziativa salvifica del Padre verso tutti gh

uomini e verso ciascun uomo. Nella dottrina cattolica la via ordinaria per essere introdotti nel-

l’esperienza viva e salvifica della Nuova Alleanza è l’adesione di fede al Dio di Gesù Cristo unita al

battesimo, anche se lo stesso Dio può realizzare la sua opera di salvezza, in via straordinaria,

attraverso una forma non esplicitamente sacramentale (cf. CCC 1257.1281).9 Emerge così la

peculiarità e la necessità dell’evangelizzazione affinché ogni uomo, conoscendo il nome di Gesù e il

suo vangelo, possa aprirsi al dono della filiazione adottiva mediante la fede e il battesimo. Il gesto

battesimale cristiano appartiene dunque all’essenza della missione della Chiesa nel mondo e, a questo

titolo, esso mostra il suo carattere di necessità in ordine alla salvezza.

Il primo capitolo intende mettere in luce l’originalità, la necessità e il fondamento cristologico-

pasquale del battesimo cristiano. Nel secondo capitolo si tratterà di vagliare come la tradizione

liturgico-teologico- pastorale della Chiesa ha sviluppato la prassi e la teologia battesimale, attestate

dall’articolata vicenda della Chiesa primitiva. Nell’ultimo capitolo si proporrà una sintesi facendo

particolare attenzione alla lex or aridi quale è espressa nei nuovi libri rituali elaborati dalla riforma

liturgica promossa dal concilio ecumenico Vaticano II (cf. SC 65-71).

8 Cf. E. SCHWEIZER, «mó<;, moGeoia», in GLNT, Paideia, Brescia 1984, XIV, 247-254. 9 Nella Chiesa antica si afferma il valore salvifico del battesimo «di desiderio» e del battesimo «di sangue», cf. E. RUFFINI,

«Iniziazione cristiana», in Nuovo Dizionario di Teologia, EP, Roma 21979, 674-677.

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CAPITOLO PRIMO I FONDAMENTI BIBLICI

1. Battezzare nel nome di Gesù

Due testi balzano in evidenza dal Nuovo Testamento come stretta- mente connessi a fondare

la prassi e il senso del battesimo cristiano: Mt 28,16-20 e Mc6,14-18. Ad essi vanno inoltre aggiunti

tutti gli altri testi tanto di Luca come di Giovanni nei quali esplicitamente si parla del battesimo

cristiano.10

Le due pericopi appena richiamate pongono il mandato battesimale nella luce delle apparizioni

del Risorto agli undici. L’opera iniziata da Gesù e culminata negli eventi della sua passione, morte e

risurrezione deve continuare. Essa è affidata agli «undici» quali plenipotenziari del Risorto e araldi

della buona notizia. Il mandato di battezzare ha come destinatari «ogni creatura» (Mc6,15), «tutte le

nazioni» (Mt 28,19). Nella pericope matteana il gesto battesimale si colloca a mo’ di inclusione nel

contesto dell’azione di «ammaestrare» e «insegnare ad osservare tutto ciò che Gesù ha comandato

agli undici». Esso è dunque al centro della missione evangelizzatrice di cui gli undici sono investiti

dall’alto. L’essere battezzati si lascia ultimamente determinare da un’azione trascendente designata

esplicitamente come un essere battezzati «nel nome del Padre, del Figlio e dello Sprito Santo» (Mt

28,19). Nella pericope mar- ciana il contesto dell’azione missionaria e dunque anche dell’evento bat-

tesimale - «chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mc6,16) - è connotato esplicitamente da una

forte consapevolezza escatologica (l’essere salvati o condannati) a cui sono legati determinati fatti di

natura carismatica, espressivi della manifestazione della vittoria attuata da Dio nella risurrezione del

suo Figlio Gesù che, quale Signore, rende partecipi i battezzati/credenti del suo potere vittorioso

contro le forze del male. «Il battesimo che conferma il credere e lo significa all’esterno è anche

l’accesso a una serie di altre realtà donate».11

Il battesimo cristiano unito alla fede in Gesù è dunque capace di introdurre nel nuovo eone,

inaugurato definitivamente dal Padre negli eventi pasquali del suo Figlio. È alla luce di questa novità

che si rivela il significato profondo di tutta una serie di detti, legati al ministero prepasquale di Gesù

(si veda il riferimento al battesimo e al Battista), nei quali si parla di un battesimo che non è più solo

di acqua ma di acqua e Spirito Santo (cf. Mc,9-11; Mt 3,13-17; Lc,16; Gv 1,33). L’economia salvifica

nella quale prende rilievo il battesimo cristiano è fortemente contras- segnata dalla missione dello

Spirito Santo, inviato dal Risorto (cf. Gv 7,37-39; 14,15-26; 20,19-23).

Nell’opera lucana, in particolare nella seconda parte destinata a porre in rilievo l’opera dello

Spirito nella Chiesa primitiva e nella testimonianza degli apostoli fino agli estremi confini della terra,

la prassi battesimale cristiana è attestata in una serie articolata di episodi.12 L’analisi di questi testi

mostra il formarsi di una realtà più ampia di cui l’evento battesimale è una cellula fondamentale ma

non esclusiva.

All’interno del primo discorso di Pietro nel giorno di Pentecoste il battesimo, al quale, dopo

il pentimento/conversione, sono chiamati gli «nomini d’Israele» (At 2,22), è designato come un farsi

battezzare «nel nome di Gesù Cristo» (At 2,38).13 Essere battezzati nel nome di Gesù e anche invocare

il nome di Gesù sono espressioni icastiche della rilevanza centrale e decisiva della persona e della

storia di Gesù in ordine alla partecipazione alla salvezza escatologica offerta da Dio Padre. Il

battesimo cristiano nelle sue prime modulazioni all’interno della Chiesa primitiva raccoglie e attesta,

insieme ad altri riti e alla predicazione, tale concentrazione cristologica. Alla luce del retroterra

10 Cf. E. MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana nel Nuovo Testamento», in Iniziazione cristiana degli adulti oggi, Atti

della XXVI Settimana di studio dell’APL (Seiano di Vico Equense, NA; 31-08/5-09-1997), presentazione di Silvano Maggiani, CLV-

Ed. Liturgiche, Roma 1998,107-146. 11 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 112. Si può parlare di «iniziazione» anche se non in senso religionistico, cf.

ibidem, 108-109. 12 Cf. MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 116-130. 13 Cf. Atti degli Apostoli, traduzione e commento di R. FABRIS, Boria, Roma 1977,235-240.

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ebraico della teologia del nome di Dio si può pervenire a comprendere quale passaggio unico e

straordinario si effettua in chi, affidandosi completamente (battesimo e/o invocazione) al nome di

Gesù, pone se stesso sotto il suo potere salvifico e ne diviene partecipe. Affidarsi al nome di Gesù

libera dai peccati, dal potere della morte e consente di sperimentare le realtà messianiche espressive

della signoria di YHWH (cf. Lc,16-30). Lasciarsi battezzare nel nome di Gesù significa dunque

credere a e in lui, riconoscerlo come l’inviato di Dio, convertirsi al suo progetto di amore sulla storia.

La professione di fede cristologica forma così una cosa sola con l’evento battesimale. Osserva Dupont

come «secondo gli Atti il battesimo che ricevono i credenti in Gesù, il Signore, è essenzialmente il

segno salvifico della loro fede e dell’appartenenza al nuovo popolo messianico che gode già le

primizie della salvezza nel perdono dei peccati e nell’effusione dello Spirito Santo».14

2. Il retroterra giudaico

Il gesto battesimale cristiano emerge nella sua originalità dallo sfondo di altre pratiche rituali

dell’ambiente giudaico del tempo di Gesù e delle comunità cristiane primitive. Questa peculiarità è

tutta intrisa della novità degli eventi pasquali accaduti al Messia crocifisso. I testi appena considerati,

uniti ad altri riferimenti neotestamentari al battesimo cristiano, lasciano infatti scoprire come tale

novità si sia venuta sviluppando attraverso una presa di distanza da riti analoghi. Si tratta

fondamentalmente di tre contesti rituali: 1) i riti di purificazione praticati dalla comunità di Qumran;

2) i riti battesimali dei proseliti praticati dal giudaismo; 3) il battesimo praticato da Giovanni e dai

suoi discepoli.15

Per quanto concerne i primi si possono evincere dalle fonti - i testi di Qumran e il Bellum

Iudaicum di Giuseppe Flavio (cf. Bell. 11,8) - alcuni dati importanti per valutare somiglianze e

differenze con il battesimo cristiano.

1. Esistono presso i Qumranici dei riti che potremmo chiamare «battesimali» in quanto ci si

immerge completamente nell’acqua; 2. Questi riti sono di carattere iniziatico in quanto segnano

l’ingresso nella comunità, ma sono anche ripetitivi o per l’accesso a gradi successivi dell’ordine della

comunità o per purificazioni prima di momenti significativi della giornata, per esempio i bagni prima

del pasto o per contrazione di varie impurità secondo la legge; 3. Questi riti battesimali non sono

amministrati da altri, ma la persona è soggetto e oggetto del rito: non si viene immersi, battezzati da

qualcuno, ma ci si immerge; 4. Non si compie il rito «nel nome» di qualcuno, nemmeno nel nome del

«maestro di giustizia»; 5. Giuseppe

Flavio non usa mai per questi riti il verbo baptó o baptizó ma usa sempre verbi come louó,

apolouó e i sostantivi loutron, hagneia, cioè bagno, purificazione. Del resto nei testi di Qumran non

è attestato il verbo tabal che corrisponde a baptizó, come invece ricorre nei riti dei proseliti...16

Per i secondi la prassi è attestata dal Talmud babilonese la cui redazione pur tardiva (VI sec.

d.C.) offre, secondo l’opinione di S. Légasse, «testimonianze sicure sull’esistenza dei riti battesimali

giudaici [...] della fine del I sec. d.C.».17 Da questi testi «risulta un rito di iniziazione a carattere

battesimale cioè per immersione nell’acqua preceduto da una adesione alla dottrina giudaica, centrata

sul monoteismo, ma con forte accentuazione sulla legge».18 Su questi riti battesimali dei proseliti

(tevilat ghe- rim) si sofferma ampiamente A. Kaplan il quale, dopo averne precisato il rapporto con

l’istituto della circoncisione, giunge alla conclusione che «è innegabile che il battesimo cristiano

14 Atti degli Apostoli, traduzione e commento di R. FABRIS, 240. 15Per uno sguardo d’insieme, cf. G. MIOLA, «Riti battesimali giudaici e Battesimo cristiano», in

Il Battesimo come fondamento dell’esistenza cristiana, introduzione di D. Bonifazi, Massimo, Milano 1998,76-96. 16 MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 80-81. Cf anche H. STEGEMANN, Gli Esserti, Qumran, Giovanni Battista e Gesù. Una

monografia, EDB, Bologna 1995,274-277. 17 MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 84. 18 MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 84.

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attinge gran parte del suo rituale, della sua terminologia e della sua teologia dal battesimo dei proseliti

dell’ebraismo».19 Pur osservando tale continuità l’A. sottolinea al contempo come vi siano forti

elementi di discontinuità. Al centro emerge la portata decisiva della prassi di Gesù e della sua

posizione di compimento e novità rispetto alle attese più profonde del popolo ebraico. Diversamente

da S. Légasse, Kaplan ritiene che il battesimo dei proseliti «non può essere definito un autobattesimo,

dato che per la sua validità è essenziale la presenza di tre testimoni».20

Con la terza tipologia battesimale, legata alla prassi di Giovanni e dei suoi discepoli, le fonti

neotestamentarie e Giuseppe Flavio (cf. Anti- quitates Iudaicae, 18,5,2) conducono a porre in

evidenza un dato fonda- mentale. Giovanni il Battista ha assunto dei riti di immersione, già presenti

nel mondo giudaico, rileggendoli «in chiave profetica e non rituale e quindi con una forte intonazione

etica».21 Tali fonti non concordano sul significato teologico di tale battesimo: per Giuseppe Flavio

esso mira alla purificazione corporale, per gli evangelisti esso è penitenziale ed è rivolto alla

«conversione per il perdono dei peccati» (Mc,4). In tale ambito si pone anche il problema del rapporto

tra Gesù e Giovanni all’interno delle prime comunità cristiane (si veda l’episodio di Paolo a Efeso

dove esiste a 25 anni circa dalla morte-risurrezione di Gesù una comunità di giovanniti) e quello

dell’eventualità di un prosecuzione del battesimo di Giovanni da parte di Gesù e dei suoi discepoli

(cf. Gv 3,25-26; 4,1-3).

3. Giovanni il Battista e Gesù

L’attestazione sinottica del battesimo di Gesù da parte di Giovanni permette di riconoscere

all’interno della successiva rielaborazione pasquale un chiaro riferimento a un fatto di carattere

storico. Gesù si è sottoposto al battesimo di penitenza praticato da Giovanni. Partecipando a questo

rito egli ha così inaugurato il suo ministero pubblico (cf. Lc,23; At 1,1; 10,37). L’assoluta novità di

quanto accaduto negli eventi pasquali porta a considerare questo fatto come l’inaugurazione di un

tempo nuovo dell’economia salvifica, quello escatologico. In esso Dio porta a compimento la sua

promessa di salvezza e tutto ciò in, e a partire da, Gesù di Nazaret. Il battesimo al Giordano costituisce

così un luogo privilegiato della teofania di Dio e della rivelazione dell’identità filiale di Gesù.

La profondità cristologica connota a tal punto la narrazione del compiersi di tale rito da

lasciare sullo sfondo la sua scarna dimensione storica (cf. Mc,9). In realtà lo svolgersi della trama del

ministero pubblico di Gesù mostra a più riprese come la persona di Giovanni e la sua prassi

battesimale e di discepolato abbiano costituito un elemento di persistente interrogazione sulla stessa

identità di Gesù e del suo ministero. I vangeli portano a considerare le cose in modo esattamente

opposto: Gesù deve crescere e Giovanni diminuire (cf. Gv 3,30). Sono la prassi e la predicazione del

Nazareno a interrogare il Battista e i suoi seguaci (cf. Lc,18-20). Sotto rimane però la traccia di un

nesso di continuità tra Giovanni e Gesù tanto da portare ad assimilare o ricomprendere il discepolato

gesuano alla luce di quello giovannita (cf. Gv 3,25-26; 4,1-3). Lo stacco da questo non deve essere

stato così automatico da parte dello stesso Gesù. La sua inserzione nel numero dei penitenti al

battesimo al Giordano solo gradatamente si è lasciata comprendere per la sua discontinuità con la

prassi del Battista.22

Nel procedere del ministero gesuano lo schema penitenziale è stato sostituito da una

prospettiva soteriologica nella quale l’iniziativa misericordiosa di Dio anticipa e fonda ogni altra

possibilità di iniziativa umana (cf. Mc,15). La manifestazione escatologica della signoria di YHWH

si attesta in Gesù come luogo e occasione di offerta di grazia, allo stesso tempo unilaterale e gratuita.

Di questa pienezza i discepoli faranno esperienza solo con la risurrezione e con il compiersi della 19 A. KAPLAN, Le acque dell’Eden. Il mistero della mikvah: rinnovamento e rinascita, ED, Roma 1996, 117. Cf. ibidem, 105-140.

Diverse le conclusioni di Légasse riportate nello studio di G. Miola (cf. MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 86). 20 KAPLAN, Le acque dell’Eden, 117. 21 MIOLA, «Riti battesimali giudaici», 95. 22 Per l’uso dell’appellativo «Nazareno» nel senso di «Battezzatore», cf. STEGEMANN, Gli Esserti, Qumran, 315.

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promessa del dono dello Spirito Santo. In questa luce lo stesso battesimo di Giovanni resta tutto legato

a un’economia che è penitenziale ancorché carica di una sua peculiare pregnanza salvifica. «Come

ha detto lo stesso Gesù, nel caso di Giovanni si trattava di qualcosa di più della semplice profezia; si

trattava di un’efficace mediazione della salvezza».23 Il lavacro di acqua non è capace di liberare dai

peccati ma solo di significare l’invito a un cammino di conversione e di assicurare i battezzati di

essere preservati da Dio nel giorno del giudizio ormai imminente per i peccati commessi prima del

battesimo. Nello Spirito Santo donato dal Risorto l’acqua diviene suscettibile di una capacità nuova,

quella di rigenerare alla vita nuova dei figli di Dio. La valenza salvifica dell’acqua si configura come

tale solo nel quadro della missione del Figlio e dello Spirito. Tale nuova destinazione del simbolo

acquatico e del lavacro battesimale non fa tuttavia scomparire il significato penitenziale/salvifico

annesso all’uso giovannita.24 Esso diviene tuttavia secondario e riformulato nell’ottica della

remissione dei peccati che Dio attua nel suo Figlio dato a morte e nello Spirito datore di vita nuova.

All’imperativo penitenziale di Giovanni fa seguito l’indicativo salvifico di Gesù: «Il regno di Dio è

vicino. Convertitevi e credete al vangelo» (Mc,15). La metànoia richiesta da Gesù nella sua

predicazione è tutta sospesa alla certezza della salvezza come dono escatologico che Dio Padre attua

qui e ora nella sua persona e nel suo ministero.

Il distinguersi della trama gesuana da quella del Battista trova la sua densa formulazione nelle

parole di Gesù: «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista;

tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,11).

Per quanto riguarda lo sviluppo successivo del rito cristiano del battesimo è tuttavia decisivo

il riferimento alla prassi del Battista.

In realtà, fino al momento dell’entrata in scena di Giovanni non era mai accaduto né nel

giudaismo né nel mondo circostante che qualcuno avesse battezzato altre persone. [...] Giovanni fu il

primo a comportarsi in questo modo. Alla fine forse Gesù stesso, e non solo la cerchia dei suoi

discepoli, ha ripreso e praticato autonomamente questo rito battesimale (Gv 3,25-26; 4,1-3). Sarebbe

comunque questo il modo più semplice per spiegare la nascita del battesimo nelle comunità cristiane

(cf. Mt 28,19).25

La presentazione del battesimo nel nome di Gesù, dopo le pagine dedicate all’ambiente

giudaico intertestamentario e al confronto con la prassi battesimale giovannita, spinge la ricerca ad

allargare lo sguardo all’ampia e complessa testimonianza offerta dai testi del Nuovo Testamento.

La persona di Gesù e la sua opera di salvezza sono al crocevia di un’autentica comprensione

della realtà battesimale cristiana (cf. At 2,22- 38). La conversione, sollecitata dalla predicazione degli

apostoli e dall’azione dello Spirito Santo, è un entrare completamente dentro questa nuova e definitiva

dimensione di salvezza (cf. Gv 14,6; lTm 2,5-6; Eb 8,6). Il discorso di Gesù con Nicodemo (cf. Gv

3) restituisce, nella luce degli eventi pasquali, il senso dinamico dell’attuarsi della conversione come

un «nascere dall’alto» (Gv 3,3), come un «nascere da acqua e da Spirito» (Gv 3,5). Ora il lavacro

battesimale (ad es. per immersione totale, cf. At 8,38) esprime e realizza, nella fede del credente e

della Chiesa che lo genera e lo accoglie, una novità di vita tale da essere designata come un «essere

rigenerati» (cf. Tt 3,5; Ef 26), un «essere appena nati» (cf. lPt 2,2), un «essere stati generati da Dio»

(Gv 1,13).

E nell’ambito della missione degli apostoli che questo «essere generati da Dio per mezzo dello

Spirito Santo» trova la sua concreta esplici- tazione. Il «venire alla fede» dei pagani e dei giudei, sia

come singoli (cf. At 8,28-40; 9,10-19) sia come gruppo (cf. At 2,4; 10,44-48), è chiaramente avvertito

essere opera di Dio e nel contempo esso implica un’azione poliedrica di evangelizzazione da parte

23 STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, 317. 24 Cf. STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, 305-318. 25 STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, 314.

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della comunità cristiana di Gerusalemme e delle altre Chiese che via via sorgeranno dall’impulso

missionario di Paolo e degli altri apostoli.

L’incontro con il vangelo si opera sempre attraverso la mediazione di testimoni qualificati e

ha come suo esito l’essere aggregati al numero dei salvati nell’ambito della Chiesa (cf. At 2,48). La

mediazione umana percorre dunque da un capo all’altro, con modulazioni diverse, l’esperienza storica

dell’accoglienza della salvezza attuata una volta per sempre in Gesù morto e risorto. Il rito battesimale

si inserisce con le sue peculiarità nell’alveo di questa azione di trasmissione e accoglienza della buona

notizia.

Le testimonianze NT che si propongono subito all’attenzione sono quelle offerte dagli Atti

degli apostoli. Il quadro si completa attraverso il rilevante contributo teologico sul battesimo

elaborato da Paolo nelle sue lettere. Meritano infine particolare attenzione anche altri scritti NT

appartenenti alla tradizione paolina (Col, Ef, Tt, Eb) e non (lPt), dai quali emergono ulteriori aspetti

significativi per comprendere in modo più integrale tanto la teologia come la prassi battesimale delle

Chiese cristiane del primo secolo.

La sequenza delle testimonianze presenti negli Atti degli apostoli parte dalle prime

conversioni dei giudei a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste (At 2,41) per arrivare a Efeso con il

battesimo dei dodici discepoli di Giovanni (At 19,1-7). Al rito cristiano si fa riferimento circa venti

volte mediante l’uso del verbo baptizó (= immergere, con il significato originario di

«immergere/affondare», «fare un bagno»).26 Nel ripercorrere questa sequenza verranno messi in

evidenza alcuni tratti decisivi che delineano, secondo la prospettiva dell’evangelista Luca, lo sviluppo

della primitiva prassi battesimale.

L’ottica di fondo è enunciata già in At 1,5 laddove il Risorto, richiamando il battesimo di

Giovanni, annuncia come prossimo il «battesimo in Spirito Santo». Non è qui in causa la designazione

di un rito battesimale preciso quanto la più fondamentale indicazione dell’irruzione della salvezza

escatologica nella storia. Il rinvio al battesimo di Giovanni serve a indicare la conclusione del tempo

dell’attesa (battesimo con acqua) per attestare l’arrivo della pienezza dei tempi (battesimo in Spirito

Santo e fuoco, cf. Lc,16).

È a partire da questa cesura che prende corpo anche il rito battesimale cristiano. Al battesimo

dei tremila giudei a Gerusalemme da parte di Pietro (cf. At 2,41) fa seguito un’analoga situazione per

i samaritani convertiti da Filippo (cf. At 8,12) per arrivare all’episodio del battesimo dell’eunuco sulla

strada di Gaza sempre da parte di Filippo (cf. At 8,36- 38), unico caso nel quale il rito battesimale è

descritto nei suoi vari momenti. Un caso particolare e in parte analogo a quello dell’eunuco è la

vicenda del battesimo di Saulo da parte di Anania (cf. At 9,18; 22,16). Una speciale risonanza assume

il primo battesimo di un pagano, Cornelio, e di coloro che sono nella sua casa (cf. At 10,48). Luca

connota questo evento come lo svolgersi di una «seconda» Pentecoste che apre l’accesso effettivo dei

pagani alla salvezza offerta da Dio nel suo Figlio Gesù, morto e risorto (cf. At 10,44).

L’opera evangelizzatrice realizzata da Paolo è punteggiata da episodi nei quali emerge anche

l’amministrazione del battesimo. È il caso di Lidia, del carceriere e dei loro rispettivi familiari nella

città di Filippi (cf. At 16,11-15.27-34). Anche nella città di Corinto il venire alla fede è legato a

un’esplicita prassi battesimale (cf. At 18,8; cf. anche ICor 1,16). A Efeso l’opera evangelizzatrice

dell’apostolo è rivolta anche a un gruppo di discepoli di Giovanni ai quali viene amministrato il

battesimo a cui segue l’imposizione delle mani e il dono dello Spirito Santo (cf. At 19,1- 7). Si tratta

con tutta evidenza di un processo di iniziazione che sfocia nella piena aggregazione alla vita della

Chiesa.27

26 Cf. FABRIS, Atti degli apostoli, traduzione e commento, 235. 27 Cf. MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 129.

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Dall’insieme dei testi considerati appare come il battesimo cristiano non sia un fatto isolato

ma sia sempre connesso con un insieme di altri elementi (annuncio della Parola, professione di fede,

gesti rituali quali l’immersione e l’imposizione delle mani prima o dopo il lavacro, carismi suscitati

nei battezzati dalla presenza dello Spirito) che lo precedono e lo seguono.28

Il rito del battesimo non viene mai presentato da solo, ma sempre integrato da diversi

momenti quali l’imposizione delle mani di Pietro e Giovanni (i samaritani) oppure di Paolo (i

discepoli di Giovanni a Efeso), che causa la ricezione dello Spirito Santo. Gli strumenti del percorso

di ingresso pieno nella Chiesa sono per lo più la predicazione (i giudei a Pentecoste, i samaritani,

Cornelio, Lidia), ma anche la spiegazione della Sacra Scrittura (cf. soprattutto il caso dell’etiope),

l’integrazione delle conoscenze precedenti (cf. i discepoli di Giovanni a Efeso) o il dialogo personale

(Anania che battezza Paolo).29

Giunti a questo punto può sorgere spontanea la domanda sulla comprensione del significato

sacramentale del battesimo cristiano. Esso si limita ad attestare un passaggio tra un prima e un dopo?

Ha solo valore di segno che marca un limite nel cammino di conversione? È corretto porsi la domanda

se tali testimonianze NT non autorizzino anche a riconoscere al battesimo cristiano una specifica

valenza di tipo causativo? Pur dovendo ancora completare la fisionomia del battesimo cristiano con

l’esame degli altri testi NT significativi a tale riguardo, si può già sottolineare come l’emergere del

rito battesimale cristiano abbia negli Atti degli apostoli una connotazione fortemente iniziatica e

pneumatica. Esso non è solo un atto umano e religioso nel quale il convertito dice il suo venire alla

fede, il suo essere aggregato alla Chiesa; non si limita a sancire ciò che è già accaduto ma mediante

esso e insieme ad altri elementi (annuncio della Parola, imposizione delle mani,...) la Chiesa

attraverso un suo testimone qualificato porta a compimento l’iniziativa salvifica di Dio Padre per

mezzo di Gesù sotto la potente azione dello Spirito Santo.

L’apporto paolino alla comprensione del battesimo si rivela particolarmente prezioso più sul

piano della teologia che su quello della prassi. I testi più rilevanti esplicitamente connessi alla

terminologia del «battezzare» sono rappresentati da Rm 6,1-11; Gal 3,26-28; ICor 12,13. Sullo sfondo

sono da tenere presenti quelle testimonianze che permettono di comprendere il battesimo nel quadro

della più ampia azione missionaria e di edificazione della Chiesa che vedono Paolo come attore

principale (lTs 4,1-2; ICor 1,17; 10,1-13; 11,23-25; 15,3-7; Rm 10,13-18; 12,7; 15,4).

Considerando il primo gruppo di testi si è condotti a considerare l’evento battesimale come

suscettibile di almeno tre diverse e complementari ermeneutiche di fede. Nel primo caso (cf. Rm 6,1-

11) ciò che spicca è la concezione del rito del battesimo come «duplice passaggio attraverso una

“somiglianza”»:30 innanzitutto con la morte di Gesù (il battesimo come essere con-sepolti) e poi con

la sua risurrezione (battesimo come un camminare già ora in novità di vita e infine come un

partecipare anche corporalmente alla risurrezione di Gesù).

Paolo vede dunque il battesimo come un rito di iniziazione nel senso forte del termine:

nell’immersione nell’acqua il credente viene iniziato nella morte subendo una specie di sepoltura,

così come nell’emersione da essa comincia ed esperimen- ta la risurrezione ed è in grado di iniziare

una vita da risorto.31

Nel secondo testo (cf. Gal 3,26-28) il cambiamento radicale operato per mezzo del battesimo

è descritto come un «rivestirsi di Cristo». Esso dà luogo a quella realtà nuova che è l’essere uno in

Cristo (cf. Gal 3,28) e dichiara superata ogni altra condizione o appartenenza: giudeo/greco,

28 Cf. FABRIS, Atti degli apostoli, traduzione e commento, 236. 29 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 130. 30 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 133. 31 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 133.

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schiavo/libero, uomo/donna. «Più che un cammino che precede e/o segue il rito battesimale, questo

testo insiste sull’incredibile stacco avvenuto nel battesimo cristiano rispetto a tutto ciò che precede e

che, nel presente, è puramente terreno» 32 L’ultimo testo (cf. ICor 12,13) pone infine in risalto il valore

di unità del corpo di Cristo al quale si è aggregati mediante il battesimo. La diversità dei carismi che

lo Spirito suscita in tale corpo non può nuocere a quell’unità che è effettuata dall’azione del medesimo

Spirito. Il battesimo, inteso in questa prospettiva pneumatica ed ecclesiale, assume l’aspetto di un

«abbeverarsi a un solo Spirito» (cf. anche Ef 1,13 e 2Cor l,21s).

Gli altri testi aiutano a situare questa poliedrica lettura teologica nell’ambito di altri fattori

fondamentali per restituire il senso globale del battesimo nell’ambito della più ampia opera di

evangelizzazione. Paolo innanzitutto si attribuisce un ruolo prevalente nel campo della prima

evangelizzazione (cf. ICor 1,17; Rm 10,13-18) piuttosto che nella fase successiva caratterizzata dal

rito battesimale (si veda però ICor 1,13-16 dove l’apostolo allude a battesimi da lui amministrati).

Questa osservazione autobiografica offerta da Paolo rivela indirettamente come la prassi battesimale

fosse già ben radicata nelle comunità paoline. Nella fase successiva alla prima evangelizzazione si

collocano alcuni fatti significativi che formano con il rito battesimale una realtà organica:

l’insegnamento (cf. Rm 6,17), l’istruzione (cf. Rm 12,7; 15,4), la consegna di tradizioni già ben

formulate (cf. ICor 11,23-25; 15,3-7), l’indicazione di precetti (lTs 4,1-2). Infine è dato come

acquisito (cf. ICor 10,1-13) che ai battezzati è aperta la condivisione della stessa mensa eucaristica,

con tutto ciò che questo comporta a livello di coerenza con il proprio stile di vita cristiana ed

ecclesiale. «L’avviamento della vita cristiana non è dunque legato semplicemente al rito battesimale

e a ciò che fa immediatamente contesto con esso, ma prevede anche il mangiare la Cena del

Signore».33

Dall’insieme di queste testimonianze emerge come il rito del battesimo sia inserito in un

insieme di altri elementi portanti e tali da formare un vero e proprio complesso iniziatico, già ben

stabilizzato nelle comunità paoline. Esso segna un passaggio chiaro e marcato tra un prima e un dopo,

libera dal peccato, dà accesso allo stesso destino di Gesù, implica l’azione dello Spirito, introduce

alla vita ecclesiale creando un vincolo nuovo con tutti coloro che sono divenuti cristiani, comporta

uno stile di vita nuovo conforme a quello di Gesù, apre alla partecipazione alla cena del Signore.

La comprensione dell’evento battesimale riceve ulteriori approfondimenti alla luce di alcuni

testi deuteropaolini come la Lettera ai Colos- sesi (cf. Col 2,11-15), la Lettera agli Efesini (cf. Ef 4,5;

5,26) e la Lettera a Tito (cf. Tt 3,4-7). Nel primo caso il battesimo assume per i pagani un valore

analogo a quello della circoncisione per gli ebrei e insieme, richiamando la teologia di Rm 6, opera

nel credente la partecipazione alla potenza liberatrice del mistero pasquale di Gesù. Nel secondo esso

assurge, insieme ad altri due elementi, a designare i tratti essenziali dell’esperienza cristiana: «Un

solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5). Attraverso il ricorso a un’altra terminologia

il battesimo appare inoltre come atto di Cristo che ha purificato la Chiesa «per mezzo del lavacro

dell’acqua accompagnato dalla parola» (Ef 5,26). È probabile che in questo caso esso sia avvicinato

al lavacro nuziale «che la sposa doveva fare per prepararsi alle nozze».34 In ultimo, utilizzando

nuovamente il riferimento al lavacro (loutron) e incastonato nella sequenza di un breve inno, il

battesimo emerge come atto della misericordia divina che giusti- fica per mezzo di Gesù Cristo, come

«un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo» (Tt 3,5).

In alcuni passaggi della Lettera agli Ebrei si evidenzia una chiara conoscenza del battesimo

(cf. Eb 6,2), descritto come «illuminazione» (cf. Eb 6,4) ben inquadrata in tutta una serie precisa di

altri fatti significativi connessi con l’inizio della vita cristiana (cf. Eb 6,4-5) e come «purificazione

del cuore» e «lavacro del corpo con acqua pura» (cf. Eb 10,22). «Il battesimo è il luogo in cui il corpo

32 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 134. 33 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 132-133. 34 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 136.

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viene lavato, ma più importante ancora è l’azione contemporanea sull’interiorità profonda

dell’uomo».35

L’ultimo testo è la preziosa catechesi battesimale offerta dalla Prima lettera di Pietro nella

quale il battesimo (cf. lPt 3,21) è letto alla luce della storia della salvezza, in particolare come antitipo

della salvezza di otto persone nell’arca attraverso le acque del diluvio. L’efficacia salvifica del

battesimo, fortemente evocata dall’acqua purificatrice (in analogia al diluvio purificatore), è fondata

nella persona di Gesù risorto e nel connesso esercizio del suo potere salvifico. Il battesimo è dunque

«invocazione» di salvezza che il credente rivolge a Dio per poter dinamicamente esperimentare la

liberazione dal potere del male e la vita nuova in Cristo. Proprio per l’inizio nuovo che pone

efficacemente in essere, esso può essere validamente interpretato come «rigenerazione» sia in senso

attivo che passivo (cf. lPt 1,3.23) a cui fa seguito la nuova condizione di «bimbi appena nati» e come

tali bisognosi del nutrimento offerto dal «latte spirituale» (cf. lPt 2,2). «Il passo indicherebbe allora

che al rito battesimale fa seguito un ulteriore processo di iniziazione, espresso addirittura con un

linguaggio ripreso in parte (pur nelle essenziali trasformazioni) da concetti dei misteri della religiosità

ellenistica» 36 Tale dinamismo implica dunque nel battezzato un processo di crescita alla quale Dio

presiede per mezzo di Gesù risorto nell’offerta «vitale» e «vitalizzante» di un nutrimento non

adulterato e pieno di energia spirituale.

La rassegna di questo ultimo gruppo di testimonianze NT radica ulteriormente la

comprensione dell’evento battesimale nel quadro della iniziativa salvifica della Trinità. È dunque

appropriato esplicitare la valenza causativa del rito battesimale in ordine alla «novità» cristiana 37

Esso non solo l’attesta ma la pone in essere nel dinamismo vivo di correlazione tra la fede suscitata

dall’evangelizzazione e la risposta misericordiosa da parte di Dio all’invocazione di salvezza espressa

dal credente.

Fede e battesimo sono mutuamente interrelati all’interno di una sequenza rituale attraversata

da un capo all’altro dall’operazione gratuita della grazia misericordiosa e fedele di Dio. Il lavacro

battesimale non è dunque un’opera umana ma un’opera divina; non appartiene all’economia dell’i-

niziativa umana ma all’economia del dono della vita divina, quella di Gesù morto e risorto. In virtù

dell’azione dello Spirito la Chiesa emerge nella sua peculiare funzione materna. I battezzati non sono

allora che dei bimbi appena nati, degli infanti.

35 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 138. 36 MANICARDI, «Battesimo e iniziazione cristiana», 139. 37 Cf. F. COURTH, I Sacramenti. Un trattato per lo studio e per la prassi, Queriniana, Brescia 1999,116.

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CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE DELLA CHIESA

1. Il battesimo nella Chiesa antica

Gli sviluppi della prassi e della teologia del battesimo nel periodo subapostolico e nei secoli

successivi della storia della Chiesa antica sono legati al presentarsi di due fenomeni fondamentali: il

sorgere di itinerari di tipo catecumenale per gli adulti che chiedono di diventare cristiani, e

l’affermarsi di un modello di iniziazione cristiana nel quale il battesimo è strettamente legato, anche

dal punto di vista della celebrazione liturgica, ai sacramenti della confermazione/crismazione e

dell’eucaristia. Il sacramento del battesimo si lascia dunque inquadrare nel più ampio alveo del

processo di iniziazione cristiana.

Gli elementi iniziatici già attestati nel NT vengono gradatamente disposti in una forma sempre

più chiara e ordinata. Il catecumenato, con tutti i suoi riti, assume una forma stabile e condivisa nelle

sue linee portanti. Esso diviene una vera e propria istituzione che coinvolge in primo luogo la Chiesa

locale nelle sue articolazioni fondamentali: il vescovo e uniti a lui i presbiteri e i diaconi, i catechisti

e coloro che più direttamente accompagnano i catecumeni (garanti e padrini), tutta la comunità

ecclesiale e gli stessi catecumeni attraverso i diversi gradi fino al tempo tutto speciale della

mistagogia. La Chiesa locale spicca per l’esercizio della sua poliedrica ministerialità e per la sua

sollecitudine «materna»: nel suo grembo Dio Padre opera la «rigenerazione» dei catecumeni a figli

di Dio.

La coscienza ecclesiale è caratterizzata da una spiccata coscienza della testimonianza che i

cristiani, realtà di minoranza da un punto di vista socio-culturale, devono rendere al mondo della loro

fedeltà al Signore Gesù. Tale testimonianza è incoraggiata dal luminoso esempio di tanti martiri che,

nell’effusione del sangue, hanno perfezionato la loro unione e conformazione battesimale al mistero

di Cristo morto e risorto (battesimo di sangue).38 Talvolta si tratta di catecumeni che, attraverso la

testimonianza eroica del martirio, giungono alla fede e all’incorporazione alla Chiesa senza il rito

sacramentale del battesimo (battesimo di desiderio). La situazione si modifica quasi completamente

con l’avvento della pace costantiniana e l’assurgere della fede cristiana da superstitio nova a religio

licita nell’impero romano per arrivare infine alla consacrazione della fede cristiana cattolica a unica

religione ufficiale dell’impero romano. La cesura costantiniana incide non poco nella comprensione

dell’essere cristiani: si passa sempre più dal «cristiani si diventa» al «cristiani si nasce». In tale nuovo

contesto la prassi del pedobattesimo, già affermata e nota anche nel periodo precostantiniano, diviene

sempre più la prassi ordinaria di accesso alla vita cristiana.

Fino al VI secolo circa la prassi iniziatica delle Chiese dell’Oriente e dell’Occidente è

contrassegnata da una forte omogeneità.39 L’assetto si differenzia notevolmente con il diffondersi del

cristianesimo nelle zone rurali, l’evangelizzazione dei popoli barbari con la prassi del battesimo «di

massa» attraverso la conversione e il battesimo del sovrano, la sempre più ampia diffusione del

pedobattesimo. In Occidente tali fattori comportano un graduale distacco del rito battesimale

dall’azione diretta del vescovo, il rinvio degli altri riti sacramentali (confermazione, eucaristia) a una

fase successiva nella quale emerge nuovamente il peculiare legame con l’azione del vescovo (in

particolare per la confermazione), la decadenza dell’istituto catecumenale, il decentramento del rito

battesimale dal battistero prossimo alla cattedrale alle sedi delle diverse Chiese rurali nelle quali è in

primo piano l’azione del presbitero.

Nel tratteggiare lo sviluppo del battesimo nella Chiesa antica occorre pertanto procedere

tenendo conto di queste variazioni di fondo che, introdottesi sul piano della prassi, hanno influito non 38 Cf. Tradizione apostolica, c. 19. 39 Per questa parte della trattazione: cf. V. SAXER, Les rites de ¡’initiation chrétienne du IIe au VIe siècle. Esquisse historique et

signification d’après leurs principaux témoins, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto (PG) 1988,1992 (ristampa

anastatica); per un’antologia ragionata di testi patristici, cf. L’iniziazione cristiana, testi raccolti e presentati da A. HAMMAN,

introduzione di J. Danielou, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1982.

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poco anche sul piano della riflessione teologica. Il percorso proposto vuole visualizzare in forma

sintetica i seguenti passaggi: 1) il periodo che va dai padri apostolici al III secolo, erede diretto della

prassi delle Chiese del NT; 2) il periodo del consolidamento e del massimo prestigio del catecumenato

come istituto strettamente legato alla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana (dal IV al

VI secolo); 3) la decadenza del catecumenato e la prassi battesimale in Occidente fino al periodo della

teologia scolastica (secoli XI-XII). L’attenzione sarà concentrata per quanto possibile sul battesimo

ben sapendo che, almeno fino al VI secolo, esso si dà ordinariamente in una stretta unità celebrativa

con altri riti post-battesimali tra i quali due dotati di una speciale densità sacramentale (la consi-

gnatio e l’eucaristia).

1.1. Il BATTESIMO FINO AL III SECOLO

Nei primi secoli la vicenda rituale del battesimo, in Oriente come in Occidente, è caratterizzata

da un’omogeneità di fondo. In particolare, come già accennato, risulta «difficilissimo distinguere, a

livello rituale, il battesimo e la confermazione così come sono distinguibili ai nostri giorni».40

Per quanto concerne il II secolo ci troviamo di fronte a una liturgia battesimale non codificata

ed essenziale nei suoi elementi portanti. Il gesto principale che caratterizza la prassi battesimale è

certamente l’abluzione, in analogia ad altre prassi battesimali di cui si è detto sopra. Essa è

strettamente connessa con tre elementi fondamentali che ne offrono un più preciso quadro di

comprensione. Innanzitutto tale gesto rituale si trova al termine di una fase precedente nella quale è

dominante l’annuncio della parola di Dio e rappresenta anche il punto di arrivo di una risposta di fede

che si è venuta maturando nel frattempo. Il senso dinamico e responsoriale della fede è reso più

esplicito dal ricorrere di precise interrogazioni alle quali il candidato è chiamato, contestualmente

all’abluzione, a dare la sua risposta. In secondo luogo tale dialogo assume il volto di una precisa

professione di fede formulata in chiave trinitaria e ben ancorata nella storia della salvezza. Il

battezzato fa sua la fede della Chiesa e questa a sua volta trasmette e comunica al neofita in forma

sintetica il nucleo portante della rivelazione cristiana. Infine, il candidato non emerge dal nulla, ma è

accompagnato al battesimo da un gruppo di credenti, «segno sufficiente della dimensione comunitaria

della celebrazione».41

Alcune significative testimonianze di questo periodo in ordine alla prassi liturgica sono offerte

dalla Didachè, dalla I Apologia di Giustino e dalla Tradizione apostolica. Negli scritti di altri padri

(Ireneo, Clemente Alessandrino, Origene) la considerazione della prassi liturgica è unita a una più

approfondita riflessione teologica.42 Il De baptismo di Tertulliano presenta «il primo trattato

completo, eco della catechesi battesimale».43 Sono rilevanti per questo periodo anche le antiche

figurazioni battesimali dell’arte paleocristiana presenti nelle catacombe romane e nei rilievi sui

sarcofagi.44

Nel caso della Didachè (c. 7), tenendo conto delle diverse ipotesi sulla datazione della

redazione finale (bassa: 50/70 d.C. e comunque entro il I secolo d.C.; tardiva 100/150 o fine del II

secolo/inizi del III) e sull’ambiente ecclesiale di riferimento (Egitto o Palestina o Siria, in particolare 40 RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 664. 41 RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 664. 42 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 65ss (Clemente Alessandrino), 145ss (Origene). Gli apporti di questi due scrittori sono

importanti per conoscere la situazione della prassi battesimale in Egitto, in particolare ad Alessandria (e anche a Cesarea di Palestina,

se si tiene conto del periodo dell’esilio passatovi da Origene nella parte finale della sua vita), dalla metà del II secolo alla metà del III

nel contesto del confronto con lo gnosticismo, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 99. Per il confronto con lo gnosticismo in ordine alla

precisazione del significato teologico del battesimo si veda il contributo di IRENEO DI LIONE, in particolare ct Demostratio apostolica,

41-42. Per la discussione su un’eventuale prassi rituale iniziatica nell’ambito dello gnosticismo, cf. G. FILORAMO, L’attesa della fine.

Storia della gnosi, Laterza, Bari 1987,276-277 (per il battesimo, cf. 277). 43 A. HAMMAN, «Battesimo», in Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983,1,501. Per la

prassi battesimale nel contesto dell’iniziazione cristiana in questo primo periodo patristico Saxer presenta anche le testimonianze

contenute nella Epistola di Barnaba e nel Pastore di Erma, cf. Les rites de l’initiation, 41ss. 44 Cf. E. DASSMANN, «Battesimo - Iconografia», in Dizionario patristico e di antichità cristiane, 1,503-507.

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Antiochia),45 si è informati su una prassi già essenzialmente strutturata attorno a tre elementi: il bagno

battesimale da compiersi preferenzialmente nell’acqua viva (si vedano i richiami a Lv 14,5-6; Nm

19,17 e alla prassi della tevilat gherim) oppure in altra acqua (fredda o eventualmente anche calda)

oppure con triplice infusione sul capo (se non si danno le precedenti possibilità), la formula di fede

trinitaria associata all’atto di battezzare (in stretta dipendenza dal testo di Mt 28,19), la preparazione

immediata al battesimo implicante, oltre il compimento di «ogni premessa», anche il digiuno (due o

tre giorni prima) del battezzante, del battezzato e degli «altri se possono».

Passando alla I Apologia di Giustino (scritta verso il 150 circa), si ha una breve presentazione

degli usi battesimali (cf. c. 61), i quali concordano essenzialmente con quanto espresso nella Didachè.

Di rilievo una prima elaborazione teologica, in chiave apologetica, del significato del rito battesimale

con particolare riferimento al rapporto tra il nascere/essere generati e il rinascere/essere rigenerati.

«Ora, per non rimanere figli dell’ignoranza e della necessità, ma per divenire capaci di

scegliere e capire, nell’acqua otteniamo la remissione dei peccati commessi». Si ha inoltre notizia che

il lavacro battesimale «è chiamato “illuminazione”, perché chi accoglie queste verità riceve un’il-

luminazione interiore».

L’illuminato viene poi ammesso «nell’assemblea dei fratelli» (c. 65) per la preghiera e la

celebrazione dell’eucaristia.46

Con la Tradizione apostolica (compilata intorno al 215) il rito battesimale appare ben inserito

in una realtà più ampia e articolata che forma l’i- ter mediante il quale si è aggregati alla comunità

cristiana (cf. cc. 15-21). Con tale documento si è dinanzi al primo rituale «praticamente completo

dell’iniziazione cristiana».47 Tutta una serie di indicazioni sono relative ad alcune esigenze di fondo

che caratterizzano la preparazione dei catecumeni (cc. 15-16).48 La durata dell’istruzione

catecumenale è di tre anni anche se il giudizio di ammissione del catecumeno al battesimo più che

dal tempo dipende dalla valutazione del suo comportamento (c. 17). Alle istruzioni impartite dai

dottori ai catecumeni segue la preghiera per loro, l’imposizione della mano e il congedo. Il tutto

avviene nell’assemblea liturgica e in modo tale che i catecumeni stiano in disparte dai fedeli (cc. 18-

19). Nel congedarsi dalla preghiera non è loro concesso di salutarsi con il bacio della pace, «perché

il loro bacio non è ancora santo» (c. 18). L’ultima fase della preparazione è segnata dalla scelta di

«coloro che dovranno ricevere il battesimo» (c. 20). L’esame della vita dei candidati assume la forma

di uno scrutinio al quale concorre anche la testimonianza di coloro che li hanno presentati. Occorre

verificare in particolare se essi «hanno vissuto devotamente nel periodo del catecumenato, onorando

le vedove, visitando gli ammalati, praticando opere buone» (ibidem). Una volta «scelti e separati,

ogni giorno si imponga loro la mano per esorcizzarli» (ibidem). Il venerdì gli eletti devono praticare

il digiuno, il sabato (prima della vigilia pasquale o più genericamente domenicale) il vescovo compie

l’ultimo esorcismo mentre i battezzandi pregano in ginocchio, segue la veglia notturna accompagnata

da «letture e istruzioni» (ibidem).49 Il lavacro battesimale si compie al canto del gallo (cf. c. 21). Esso

comporta una preghiera sull’acqua, sia che essa «scorra in una fonte o che fluisca dall’alto» o, in caso

di necessità, è permesso usare «l’acqua che si trova». Il rito prevede che i candidati, spogliati delle 45 A. Quacquarelli, nell’introduzione alla Didachè, opta per la seconda metà del I secolo, avvicinando dunque la composizione del

testo al periodo apostolico più che attribuirlo a quello subapostolico, cf. A. QUACQUARELLI, I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 21978,26. Cf. anche W. RORDORF, «Didachè», in Dizionario patristico e di antichità cristiane, 1,947-948 (egli pone in evidenza la

stratificazione di materiali di provenienza diversa). 46 Sull’uso dell’appellativo «illuminato» piuttosto che «neofita», cf. A. HAMMAN, «Neofita», in Dizionario patristico e di

antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1984, II, 2355. 47 P. Tena - D. Borobio, «I sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo e confermazione», in La celebrazione nella Chiesa,

2:1 sacramenti, ElleDiCi, Leumann (TO) 1994, II, 50. 48 II testo è citato secondo la traduzione italiana a cura di R. TATEO, EP, Roma 21979. Cf. A. HAMMAN, «Catecumeno», in

Dizionario patristico e di antichità cristiane, 1,627-629. 49 II testo prevede anche «di prendere il bagno e di lavarsi il quinto giorno della settimana», Trad. ap., c. 20. Per le donne che

hanno il ciclo mestruale, il battesimo deve essere rinviato, cf. Trad. ap., c. 20. Saxer sottolinea come la vigilia sia collegata a una

domenica imprecisata, cf. SAXER, Les rites de Vinitiation, 126.

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loro vesti, prima i bambini, poi gli uomini e infine le donne, ricevano il battesimo dal vescovo (o dal

sacerdote), dopo aver dichiarato dinanzi al sacerdote di abiurare a satana ed essere stati unti dai

diaconi con l’olio dell’esorcismo. La professione di fede trinitaria, proposta in forma interrogativa,

viene resa dal candidato contestualmente alla triplice immersione (o infusione dell’acqua) mentre

«colui che battezza» scandisce ogni interrogazione/risposta tenendo la sua mano sul capo del

battezzato. Nel caso dei bambini che non sono in grado di rispondere da sé, prendono la parola i

genitori o qualcuno della famiglia (abiura, professione di fede, cf. ibidem). Segue una seconda

unzione effettuata dal sacerdote con l’olio consacrato dal vescovo prima del rito battesimale, «Folio

del rendimento di grazie» (ibidem). Il sacerdote dice: «Ti ungo con l’olio santo nel nome di Gesù

Cristo» (ibidem). Tutti i battezzati, asciugati e rivestiti, possono allora entrare in chiesa dove il

vescovo li accoglie, impone la mano su ciascuno di loro e così prega: «Signore Dio, che li hai resi

degni di meritare la remissione dei peccati mediante il lavacro di rigenerazione dello Spirito Santo,

infondi in essi la tua grazia, affinché ti servano secondo la tua volontà, poiché a te è gloria, al Padre,

e al Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei secoli. Amen» (ibidem). Ha

luogo una terza unzione, compiuta dal vescovo, con l’olio santificato versato sul capo del

neobattezzato il quale viene poi segnato sulla fronte per ricevere infine il bacio di pace (cf. ibidem).50

Ora possono scambiare il bacio santo con gli altri fedeli, prendere parte alla preghiera comune e

partecipare all’eucaristia (cf. ibidem), unendo anche la propria offerta (cf. c.19). Ricevono la

comunione in questo modo: prima il pane eucaristico poi il calice con l’acqua (segno della

purificazione interiore), il calice con il miele e il latte mescolati (segno della partecipazione ai beni

messianici) e infine il calice con il vino eucaristico. I riti battesimali formano con altre dottrine (la

santa offerta, la risurrezione della carne,...) il contenuto di una tradizione custodita dal segreto e

pertanto non comunicabile agli infedeli (cf. c. 21): vi è un chiaro richiamo a una trasposizione

cristiana della «disciplina dell’arcano».

Da questa descrizione particolareggiata degli usi battesimali in vigore nella Chiesa di Roma

attraverso Tertulliano veniamo a conoscere la situazione del Nordafrica agli inizi del terzo secolo,

come appare dal suo trattato De baptismo (198/200).51 II trattato ha una chiara connotazione polemica

e antieretica volendo confutare chi, come Quintilla, mette in dubbio l’efficacia del lavacro

battesimale. Tertulliano si sofferma dunque a porre in rilievo il valore della mediazione sacramentale

legata all’acqua battesimale, «acqua, che lava i peccati del nostro accecamento originale e ci libera

per la vita eterna!» (c. 1) e ne presenta una rilettura tipologica ripercorrendo i diversi momenti della

storia della salvezza. Solo il martirio (battesimo di sangue) può derogare alla necessità salvifica del

battesimo d’acqua (cf. c. 16). Dalla terminologia utilizzata per descrivere il bagno battesimale si può

desumere che avvenisse normalmente per immersione completa.52 Il tempo precedente è

caratterizzato dai diversi gradi di preparazione: catecumenato (la durata non appare chiaramente

determinata), la preparazione prossima (la terminologia per designare tale situazione è ancora fluida),

la celebrazione del battesimo unitamente ai riti prebattesimali e postbattesimali (preferibilmente in

occasione della celebrazione annuale della Pasqua e nel periodo della cinquantina pasquale ma anche

in altro periodo e comunque alla fine della veglia notturna), la partecipazione alla sinassi eucaristica

50 Questa unzione è accompagnata dalla preghiera: «Ti ungo con l’olio santo nel Signore Padre onnipotente e in Gesù Cristo e nello

Spirito Santo», Trad. cip., c. 21. Tale sequenza di interventi analoghi del vescovo e/o del sacerdote, insieme ad altri elementi di

incongruenza posti in evidenza dalla critica testuale, hanno fatto supporre l’esistenza di due fonti combinate insieme dal redattore

finale (Ippolito), cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 118-119. Per l’insieme cf. ibidem, 109-118. Per le fonti successive alla Tradizione

ap. nell’intervallo che precede la comparsa dei sacramentari più antichi e degli Ordines sono rilevanti le Lettere dei papi, cf. ibidem,

570-584. 51 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 121-132. L’A. presenta anche i dati sull’iniziazione cristiana che emergono dalla Passio

Perpetuae et Felicitatis (dello stesso periodo del trattato di Tertulliano) e quelli emergenti dal confronto con alcune epigrafi pagane

rilevanti per cogliere la compenetrazione tra usanze profane (riferite alle terme e agli usi balneari) e usanze cristiane, cf. ibidem, 132-

138. 52 Si vedano però gli studi di E. STOMMEL, ripresi da Saxer, in base ai quali gli antichi usi battesimali più che l’immersione completa

comportavano o un essere immersi nell’acqua al massimo fino al ventre per ricevere da parte del celebrante tre volte l’acqua sul capo

(con la mano o una conchiglia) oppure il triplice passaggio sotto un getto d’acqua di una fonte dopo avere dato risposta alla triplice

interrogazione (professione di fede). Per la testimonianza tertullianea Saxer rimane dell’opi- nione che si tratti di immersione completa

(lat.: mergere), cf. ibidem, 130.

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(conclusione di tutta l’iniziazione). Saxer osserva come nella testimonianza offerta da Tertulliano il

catecumenato «cerca ancora le sue regole, è in pieno periodo di organizzazione, su certi punti le sue

strutture sono ancora fluide, anzi da creare».53 I riti connessi direttamente con il battesimo

comportano: la benedizione dell’acqua, la rinuncia a satana, l’atto battesimale, l’unzione, la

signazione, l’imposizione della mano (postbattesimale), la sinassi eucaristica. La formula battesimale

è trinitaria (cf. c. 6), verosimilmente nella modalità della triplice interrogazione/risposta. «Ogni

articolo concerne una persona divina, l’ultimo comporta inoltre la menzione della Chiesa».54 Il

battesimo può essere amministrato anche da laici (cf. c. 17). Non appare favorevole al battesimo dei

bambini, salvo il caso di necessità assoluta, perché essi non possono esprimere ancora la loro risposta

di fede: «Sì, vengano pure, ma quando saranno più grandi, vengano quando saranno in grado di essere

istruiti, quando avranno imparato a conoscere colui al quale vengono» (c. 18). Su questo punto si

registra successivamente la posizione diversa di Cipriano per il quale nessuno può essere escluso dal

battesimo, neanche il neonato (cf. Epist. 64, 2-5). Come Tertulliano e in linea con una serie di sinodi

riuniti a Cartagine (255 e 256 d.C.), sotto la sua presidenza egli non volle riconoscere la validità del

battesimo conferito dagli eretici, dando luogo su questo punto a una disputa aperta con la posizione

presa da papa Stefano (254-256 d.C.).55 La struttura della liturgia battesimale che si può desumere

dai suoi scritti rimane sostanzialmente uguale a quella del tempo di Tertulliano.56 Per quanto riguarda

la prassi battesimale a Roma verso la metà del III secolo si ritrova la stessa sequenza presente in

Africa. Essa comporta molto probabilmente alcuni esorcismi prebattesimali, l’atto battesimale (anche

per infusione), i riti postbattesimali tra i quali «la sphragis episcopale come rito dello Spirito».57

1.2. Il BATTESIMO: DALL’ETÀ D’ORO DEL CATECUMENATO ALLA SUA DECADENZA (III-VI

SEC. D.C.)

L’arco temporale che si presenta ora al nostro sguardo, ben a ragione denominato per la sua

parte centrale (IV-V sec.) l’età d’oro dell’iniziazione cristiana,58 richiederebbe lo studio analitico di

un così vasto repertorio di testimonianze tale da non poter essere affrontato nel contesto di questa

presentazione necessariamente sintetica. L’abbondanza di fonti è ulteriormente arricchita dalla

varietà dei generi letterari che solo considerati nel loro insieme possono dare un quadro della prassi

battesimale in tale scorcio di storia della Chiesa antica. I tratti peculiari del catecumenato e

dell’iniziazione cristiana emergono da scritti di indole catechetica, da testimonianze di carattere

liturgico legate ad ambienti diversi (Milano, le Gallie, Roma, la Spagna, Cartagine e il Nordafrica, la

Cap- padocia, la Siria, l’Egitto, l’Illirico...), da veri e propri trattati sui sacramenti, da sermoni relativi

ad alcuni tempi dell’anno liturgico e alle diverse tappe dell’iniziazione, da disposizioni canoniche e

magisteriali (sinodi locali, concili ecumenici, lettere dei papi), dalle testimonianze epigrafiche e da

quelle monumentali sia in Occidente come in Oriente (lo sviluppo dell’architettura relativa ai diversi

spazi celebrativi, l’arte musiva, la scultura...)

Dallo studio delle fonti spicca un dato di grande rilievo: «Quando si considera l’insieme di

questi riti, si è colpiti dalla loro precoce e rapida fissazione in un complesso di gesti e di parole;

quando se ne confrontano le realizzazioni regionali, esse mostrano una grande varietà».59 La struttura

rituale del percorso iniziatico è dunque contrassegnata da una stabilità di fondo dei suoi elementi

fondamentali unita a una grande varietà di adattamenti locali.

Non si può non ricordare che questo periodo è anche caratterizzato dalle grandi dispute 53 SAXER, Les rites de l’initiation, 122 (mia trad. dal francese). 54 SAXER, Les rites de l’initiation, 129 (mia trad. dal francese). 55 Cf. J. QUASTEN, Patrologia, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983,1,577. 56 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 139-142. 57 SAXER, Les rites de l’initiation, 143 (mia trad. dal francese). Per queste conclusioni è rilevante anche la testimonianza contenuta

nella Lettera del papa Cornelio (251-253 d.C.) a Fabio di Antiochia sul battesimo di Novaziano, amministratogli nel suo letto durante

la malattia, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 142-143. 58 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 105. 59 SAXER, Les rites de l’initiation, 107 (mia trad. dal francese).

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cristologiche e pneumatologiche che attraversano da un capo all’altro tutte le Chiese. Nel passaggio

dal III al IV secolo il diventare cristiani viene inoltre a collocarsi non più nel contesto delle

persecuzioni ma nel clima di pace caratterizzato dal nuovo status di riconoscimento della religione

cristiana nella vita dell’impero romano. Le migrazioni dei popoli provenienti dal nord e dall’est

dell’Europa porranno alle Chiese locali (Roma in particolare quale emergente sede patriarcale

principale in Occidente) l’esigenza di un nuovo stile di evangelizzazione del quale risentirà anche la

prassi battesimale (battesimo del sovrano o del capo e conversioni collettive dei sudditi).60

Mano a mano che si va, tanto in Occidente come in Oriente, verso l’affermarsi e il consolidarsi

della societas christiana, strettamente legata alle sorti politico-religiose del potere imperiale, tanto

più si passa dal diventare cristiani per scelta all’esserlo per nascita. In tale contesto il battesimo dei

bambini diviene un fenomeno prevalente sul battesimo degli adulti e l’apprendistato catecumenale

perde tutta la sua carica iniziatica sia sul piano dei riti che sul piano esistenziale.

Prima di prendere in considerazione alcune testimonianze relative al periodo d’oro

dell’iniziazione cristiana, è importante porre in risalto un dato teologico-sacramentale che ne anima

profondamente tutto lo sviluppo (dal precatecumenato passando per il battesimo per arrivare alla

mistagogia): è la Chiesa locale che mediante la sua poliedrica espressione ministeriale (vescovo,

presbiteri, diaconi e diaconesse, catechisti e padrini) gioca un ruolo centrale nell’intero processo di

iniziazione. Il battistero e il fonte battesimale non sono che l’eloquente espressione archi- tettonica di

questa profonda autocoscienza che la Chiesa locale ha della sua funzione materna. Tale

consapevolezza non è certamente una novità legata a questo periodo dal momento che, anche quando

l’istituto cate- cumenale «non esisteva in quanto tale», la Chiesa «esercitava con serietà ed efficacia

la sua funzione materna».61 Nel periodo d’oro tale dimensione emerge in modo particolarmente

evidente.

Chiaramente il responsabile ultimo del discernimento sull’idoneità dei candidati al battesimo

è il vescovo. La sua azione pastorale si svolge attraverso il concorso dei catechisti ai quali, sotto la

sua vigilanza, è affidata l’istruzione nel periodo catecumenale ma è egli stesso che si riserva il

compito di una formazione costante e sistematica, attraverso una predicazione ricca di contenuto

scritturistico in corrispondenza degli snodi rituali più significativi sia dell’apprendistato catecumenale

come della parte conclusiva dell’iniziazione.

Per la formazione dei catechisti e il tempo del precatecumenato lo scritto di sant’Agostino, De

catechizandis rudibus (400 circa), svela in modo efficace la passione pastorale del vescovo nell’

accompagnamento personale dei catecumeni ai primi passi del loro itinerario di postulanti (lat. rudes).

Lo stile catechetico raccomandato al diacono Deogratias mostra come il vescovo d’Ippona conosca

direttamente la situazione assai diversificata di coloro che vogliono diventare cristiani. Il postulante

o principiante va avvicinato nella sua condizione esistenziale concreta scrutando le vere motivazioni

che lo spingono a chiedere di diventare cristiano (cf. cc. 5 e 17). Con gradualità a lui vanno offerte a

partire da alcuni riferimenti essenziali della storia della salvezza le grandi verità della fede cristiana

(cf. per es. il caso di postulanti di estrazione culturale elevata, c. 8) e in particolare il mistero di Gesù

Cristo (cf. c. 22,40) quale pienezza della rivelazione dell’amore di Dio (cf. c. 4,8). Tutte le abilità

retoriche, ben conosciute e praticate da Agostino, devono essere poste a servizio della catechesi ma

«la preoccupazione più grande deve essere quella di trovar il modo di catechizzare gioiosamente» (c.

2,4).62 La gioiosità (lat. hilaritas) deve abitare il cuore del catechista il quale con umiltà (cf. cc. 10,15)

sa avvicinare tutti, anche le persone colte (il caso dei retori, cf. c. 9) rendendole capaci di «apprezzare

di più chi evita gli errori di comportamento che gli errori di grammatica, e a preferire il cuore buono 60 Cf. E. SASTRE SANTOS, La vita religiosa nella storia della Chiesa e della società, Ancora, Milano 1997,129-143 («La vita

religiosa nei regni barbari-romani»). 61 M. DUJARIER, «La funzione materna della Chiesa nella pratica catecumenale dell’antichità», in G. CAVATI .OTTO (edIniziazione

cristiana e catecumenato. Diventare cristiani per essere battezzati, EDB, Bologna 1996,125; cf. anche ibidem, 128-145. 62 II testo è citato secondo la tr. it. a cura di G. GIUSTI, EDB, Bologna 1981.

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alla lingua sciolta» (c. 9,13). L’attenzione alla varietà dei candidati mostra lo spirito di adattamento

richiesto dalla situazione così fluida e incerta che caratterizza chi si affaccia sulla soglia della vita

cristiana. «Non è la stessa cosa se gli ascoltatori sono molti o pochi, se sono dotti o ignoranti, oppure

qualcosa dell’uno e qualcosa dell’altro; cittadini o campagnoli, o mescolati insieme, o gente di ogni

categoria» (c. 15,23; cf. anche c. 13). Il fine di tutta l’istruzione non può che essere la manifestazione

dell’amore di Dio: «Già abbiamo detto che il discorso catechistico dovrà iniziare da dove si dice che

Dio fece tutte le cose molto buone (Gen 1) e giungere al tempo presente della Chiesa: in modo da

spiegare il senso di tutti i fatti e gli avvenimenti, e da riferire tutto al fine dell’amore, da cui non si

deve mai staccare l’attenzione di chi parla e di chi opera» (c. 6,10). Questo primo tempo di istruzione,

postulandato o precatecumenato, si conclude con una verifica alla quale, se positiva, fa seguito

l’entrata nel catecumenato vero e proprio: «Al termine dell’istruzione catechistica, verifica se il

candidato è disposto ad accogliere i tuoi insegnamenti e intende metterli in pratica. Se risponde

affermativamente, come prescrive il rito, lo segnerai con il segno della croce e lo tratterai secondo le

consuetudini della Chiesa» (c. 26,50).63 II catecumeno da questo momento comincia a essere istruito

sulla natura dei riti sacramentali: «Riguardo al sacramento che riceve, gli si deve spiegare bene che i

riti sono anzitutto segno visibile delle cose divine; ma queste cose invisibili anche le contengono, e

ciò che viene santificato con la benedizione non è più quel che era prima per l’uso comune» (ibidem).

Se attraverso questo testo agostiniano si è potuto avere un saggio significativo sulla fase del

pre-catecumenato, ora attraverso il confronto con alcune testimonianze patristiche dell’Occidente

(Ambrogio di Milano, Cromazio e Rufino di Aquileia) e dell’Oriente (Costituzioni apostoliche,

Teodoro di Mopsuestia, Basilio Magno) andiamo a delineare il percorso successivo per mettere in

evidenza in modo più specifico l’evento battesimale. Nelle diverse Chiese locali si è intanto venuta

già affermando attraverso il III secolo una chiara successione tra precatecumenato, entrata nel

catecumenato, tempo del catecumenato, celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana e

tempo della mistagogia. Il catecumenato comporta a sua volta due grandi verifiche: la prima, di cui

si è appena detto sopra, all’inizio di tale periodo e relativa al discernimento e alla purificazione delle

motivazioni della richiesta di voler diventare cristiani, la seconda al momento della candidatura

ufficiale per l’entrata nel gruppo degli eletti, inizio dell’ultima fase di preparazione più immediata

all’iniziazione cristiana vera e propria (il tempo di Quaresima). In questo contesto si è venuto

consolidando un ministero particolare di accompagnamento dei catecumeni: l’istituto del padrinato.64

I catecumeni stessi formano una realtà distinta (lat. ordo) nella comunità cristiana con precisi diritti

e doveri in seno alla ekklésia e come tali hanno una loro specifica collocazione nell’assemblea

eucaristica, secondo la loro peculiare posizione nell’itinerario catecumenale (katéchoumenoi o

audientes, phó- tizomenoi o electi, competentes).65 L’itinerario catecumenale è scandito da scrutini,

unzioni ed esorcismi e nella parte conclusiva da alcuni riti particolari di trasmissione della fede

(traditio/redditio del Simbolo di fede e del Padre Nostro). In Spagna il concilio di Elvira (300/303)

interviene sulle modalità di accesso al catecumenato, al battesimo e di amministrazione dello stesso

in casi particolari (canoni 38 e 77) e stabilisce in due anni la durata normale del catecumenato fino a

un massimo di cinque per altri casi particolari (cf. canoni 4.11.42.72) 66

Della prassi del catecumenato e dell’iniziazione cristiana a Milano nel periodo dell’episcopato

di sant’Ambrogio (373-397) si ha notizia attraverso tre suoi scritti fondamentali: Explanatio symboli

ad initian- dos, De mysteriis, De sacramentis. Il periodo del catecumenato comporta all’inizio una

signatio a forma di croce e si conclude con la nomenda- tio (in Oriente si parla di onomatographia) 63 Si allude al rito della signatio della croce sulla fronte in occasione dell’entrata nel catecumenato - cf. Saxer, Les rites de

l’initiation, 380-399 (in particolare 383-384) - da distinguere dalla signatio post-battesimale mediante unzione crismale da parte del

vescovo, cf. ibidem, 393. 64 Cf. DUJARIER, «La funzione materna della Chiesa nella pratica catecumenale dell’antichità», in Iniziazione cristiana e

catecumenato, 136-141. Per la figura del «garante» (gr.: avàSo%oq), cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 247.458.462. 65 Cf. G. CAVALLOTTO, «Il catecumenato nei primi secoli: origine, evoluzione, struttura e identità», in Iniziazione cristiana e

catecumenato, 33-44. Interessante la denominazione utilizzata da Tertulliano per i catecumeni chiamati «novicioli», in analogia al

servizio militare, cf. ibidem, 36. 66 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 532-533.

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mediante la quale i catecumeni, dopo l’appello solenne del vescovo (per es. in occasione dell’Epi-

fania) a entrare tra i competentes, si iscrivono (dando il loro nome) all’inizio della Quaresima per

quest’ultima fase della preparazione in vista del battesimo. Questo ultimo periodo comporta un più

serio impegno ascetico e morale, una più intensa istruzione sulla fede e la storia della salvezza, riti

particolari (unzioni, esorcismi, traditio/redditio symboli) in concomitanza con le varie domeniche

prima di Pasqua e una più mirata predicazione del vescovo. Dopo la redditio symboli il Sabato santo

si arriva alla veglia battesimale (in coincidenza con la veglia pasquale) nella quale i riti si svolgono

secondo una particolare sequenza: apertura dei sensi (apertio, ephpheta), benedizione dell’acqua

battesimale, unzione su tutto il corpo dei candidati, rinuncia a satana, lavacro battesimale, unzione

della testa, lettura di Gv 13,4-11, lavanda dei piedi, consegna della veste bianca, signazione,

eucaristia. Vi erano anche altri riti? Saxer sottolinea: «Il silenzio di Ambrogio a loro riguardo non

permette una risposta né affermativa né negativa».67 Per lo svolgimento dei riti battesimali, alle

testimonianze letterarie si devono aggiungere quelle archeologiche relative al battistero paleocristiano

dalle quali emerge un profondo radicamento dell’azione liturgica in un orizzonte che è biblico e

cosmico allo stesso tempo (entrata nella vasca battesimale da ovest per la rinuncia e uscita da est dopo

la triplice immersione e professione di fede). In questa trasformazione del battezzando per ritus et

preces occupa un posto centrale il mistero della morte e risurrezione di Gesù (a ciò si richiamano

anche le iscrizioni del battistero e la forma ottagonale della vasca battesimale).68

Con le testimonianze di Cromazio (t 407) e Rufino (f 410) i dati letterari sono arricchiti dalla

più ampia e consistente testimonianza archeologica relativa al complesso episcopale di Aquileia.69

Del primo, vescovo di Aquileia nel periodo tra il 387-407 (circa), sono rilevanti per l’iniziazione

cristiana tanto l’opera omiletica come i due (o tre) trattati sul Vangelo di Matteo;70 del secondo le

reminescenze degli usi liturgici della Chiesa di Aquileia filtrate attraverso scritti successivi (in

particolare: Expositio symboli e Apologia contra Hieronymum) e utili per integrare la testimonianza

di Cromazio.

Cromazio ritiene ormai consolidata la distinzione tra le due fasi della preparazione del

catecumeno: il catecumenato (per i catechumeni), la Quaresima precedente l’iniziazione cristiana (per

i competentes). Come catecumeni, avendo ricevuto sulla fronte la signatio cruciforme, essi fanno

parte del popolo cristiano e sono invitati (come nel caso di Ambrogio a Milano) ad affrettarsi verso

la grazia del battesimo il quale libera dalle sozzure del peccato e rende perfettamente puri (cf. Hom.

XV, 6). Nelle sue omelie Cromazio non parla di una nomendatio anche se è plausibile supporla. Saxer

nota come alcune reminescenze lessicali di un’omelia dedicata alla passione del Signore (cf. Hom.

XIX, 6) lascino supporre la pratica di esorcismi prebattesimali in collegamento con le formule di

esorcismo di cui parla nei suoi scritti Cipriano di Cartagine.71 E attraverso la Expositio symboli di

Rufino che si può conoscere il tenore della professione di fede in uso ad Aquileia verso la seconda

metà del IV secolo e dalle due apologie (contra Hieronymum e ad Anastasium) si ha notizia indiretta

dell’uso della tradìtio/reddìtìo symboli (forse è la red- ditio che si conclude con un segno in forma di

croce sulla fronte, signacu- lum fidei, cf. Apoi. c. Hier., 1,4.5 ed Expositio symboli, 41).72 A sua volta

Cromazio fa esplicito riferimento al rito della traditio orationis dominicae (cf. Expositio orationis

dominicae, l).73 Dall’esame di queste fonti non si hanno notizie esplicite su altri riti prebattesimali

(per es. degli scrutini). Per quanto concerne il battesimo, esso si trova inserito in una sequenza di riti

che vengono celebrati nel contesto della vigilia pasquale: la rinuncia a satana, la lavanda dei piedi, il

battesimo, la crismazione postbattesimale, l’imposizione della mano, la consegna della veste bianca

(altri riti non sono specificati). Sul lavacro battesimale le notizie offerte da Cromazio a partire dai

67 Les rites de l’initiation, 343 (mia trad, dal francese). 68 Cf. Les rites de l’initiation, 346. 69 Cf. Les rites de l’initiation, 363-364. 70 Cf. Les rites de l’initiation, 349-364. 71 Cf. Les rites de l’initiation, 352. 72 Cf. Les rites de l’initiation, 355 (nota 279). Cf. anche ibidem, 363. 73 Cf. Les rites de l’initiation, 355-356.

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suoi sermoni sono indirette e conducono a ritenere che esso avvenisse per triplice immersione, segno

del lavacro spirituale e di rigenerazione a opera del mistero della Trinità (cf. Hom. XIX, 2).74

Passiamo ora alle testimonianze provenienti dall’Oriente, tenendo conto che esse sono

molteplici e che possiamo offrirne solo un saggio.75 Le Constitutiones apostolorum, inquadrate da

Saxer nel gruppo dei testi canonico-liturgici siriani (insieme alla Didascalia apostolorum e al Testa-

mentum Domini), rappresentano una raccolta composita in otto libri di materiali provenienti da varie

fonti precedenti (principalmente: Didachè, Didascalia apostolorum, Traditio apostolica) redatta

verso la fine del IV secolo. Nel libro VII (cc. 1-28.39-45) sono presentati due rituali del battesimo. Il

primo (cc. 1-28) ha come base quanto già stabilito nella Didachè, il secondo riprende invece la

Traditio apostolica. Dall’esame del primo si evince una sequenza in tre fasi: la catechesi

prebattesimale (sulle due vie), il battesimo (e altri riti annessi, cf. c. 22,3), l’eucaristia con i neofiti.

Nel secondo rituale (cc. 39-45) si evidenziano due fasi di preparazione al battesimo: la prima di durata

indeterminata, la seconda nell’imminenza dell’iniziazione cristiana. La prima fase è segnata dallo

svolgersi della catechesi sul mistero e sull’opera di Dio fino ad arrivare, gradata- mente, alla catechesi

su Gesù Cristo, immediatamente preceduta dal rito di esorcismo (cf. cc. 39,4-5). Si entra dunque nel

tempo che prepara i noniniziati ai riti battesimali. Anche qui ha luogo una catechesi attenta a pre-

sentarne i vari aspetti: la rinuncia a satana e l’adesione a Cristo (apotaghe e syntaghe), la professione

di fede (quella nicena con alcuni elementi di quelle di Antiochia e di Gerusalemme), altri riti

prebattesimali (l’unzione con l’olio e la relativa benedizione, la benedizione dell’acqua), il lavacro

battesimale, l’unzione crismale (e l’imposizione delle mani), la preghiera del Padre Nostro e una

preghiera di rendimento di grazie da parte del neofita.76 La situazione ecclesiale descritta dal redattore

delle Con- stitutiones sembra essere «nella giurisdizione di Antiochia, se non è nella città di

Antiochia».77 Nell’insieme tale documento come le altre due fonti liturgico-canoniche siriane danno

testimonianza di usanze rituali tradizionali che nella loro relativa omogeneità appaiono ben radicate

nel contesto specifico delle Chiese locali (soprattutto del patriarcato di Antiochia), attraversate nel

contempo dalle spinte separatiste connesse con il manifestarsi delle varie eresie (ariana in particolare).

«La capacità di resistenza del rituale è stata superiore agli urti dottrinali. Laddove, in compenso, la

flessibilità è stata nuovamente più grande, è nell’utilizzazione e adattamento delle fonti liturgiche» 78

Con Teodoro di Mopsuestia (f 428) il quadro si arricchisce di ben sedici Omelie catechetiche

tenute quando egli era ancora prete ad Antiochia (prima del 392). Di queste un primo gruppo di dieci

è relativo alla presentazione del simbolo niceno (secondo una recensione antiochena) e un altro

gruppo di sei concerne la spiegazione dei sacramenti. «Il loro insieme costituisce, [...] una

testimonianza preziosa sulla liturgia dell’iniziazione cristiana nella metropoli della provincia

d’Oriente alla fine del IV secolo» 79 Nell’insieme esse sono riferite, a parere quasi unanime, al periodo

prebattesimale (salvo forse le ultime due sull’eucaristia). I destinatari sono i catecumeni nel tempo

più impegnativo della loro immediata preparazione al battesimo (circa trenta giorni prima di Pasqua

a partire dalla onomatographia, prassi già attestata da Giovanni Crisostomo). Di elevato contenuto

teologico, tali testi sono invece piuttosto limitati nella descrizione dei riti, salvo quelli relativi alle

consegne del Simbolo e del Pater. Nell’iscrizione del nome in vista del battesimo, dal significato

analogo all’atto dello straniero che chiede la cittadinanza, è richiesta una testimonianza da parte di un

garante sullo stile di vita del candidato durante il precedente tempo del catecumenato (cf. XII, 14-

15). Di grande espressività retorica il «processo intentato a satana» durante il rito d’esorcismo che

74 Saxer annota che gli usi di Aquileia si possono ritenere, anche in assenza di informazioni più dirette e precise (per es. sulla

modalità della professione di fede), simili a quelli di Milano, di Gerusalemme o di Antiochia nello stesso periodo, cf. SAXER, Les rites

de l’initiation, 361. 75 Dopo Origene occorrerebbe prendere in considerazione anche VItinerarium di Egeria, le omelie e catechesi di Giovanni

Crisostomo e le catechesi di Cirillo (e di Giovanni) di Gerusalemme, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 145ss. 76 Cf. Les rites de l’initiation, 221-232. 77 Les rites de l’initiation, 232 (mia trad. dal francese). 78 Les rites de l’initiation, 239 (mia trad. dal francese). 79 Les rites de l’initiation, 268 (mia trad. dal francese). Perl’insieme cf.ibidem, 267-296.1 testi

delle catechesi sonocitati secondo l’ed. di R. TONNEAU e di R. DEVREESSE, cf.ibidem, 19.

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segue l’iscrizione. Gli esorcisti fanno valere la vittoria di Cristo morto e risorto contro gli ingiusti

diritti accampati da satana a partire del peccato di Adamo. I catecumeni sono svestiti e a piedi nudi

per attestare la loro condizione di prigionieri al servizio del diavolo (cf. XII, 24) e come tali si

rimettono mediante l’azione degli esorcisti alla pietà di Dio. Spetta agli esorcisti durante tale

«processo» smascherare satana e mostrare come egli ha usurpato i diritti di Dio su Adamo e su ogni

uomo. Ad esso seguiranno anche altri esorcismi sviluppati sullo stesso filo conduttore. Le due

consegne (del Credo e del Pater) non vengono descritte sotto l’aspetto rituale e sono date per acquisite

(cf. I-XI). La redditio sym- boli, fatta in presenza del vescovo (cf. XII), conclude Viter catecumenale

ed è posta come a cerniera della preparazione più immediata al battesimo. Dall’omelia catechetica

sul battesimo (cf. XIII) si ha notizia della rinuncia a satana, della professione di fede (in forma di

voto) e dell’unzione frontale del catecumeno fatta dal vescovo a significare la condizione di libertà e

dignità dinanzi a Dio del catecumeno nella sua nuova condizione di familiare e soldato di Gesù Cristo.

Nella veglia battesimale (cf. XIV) hanno luogo l’unzione del corpo, il lavacro battesimale, la

consegna della veste bianca, la signado postbattesimale. La formula battesimale, in forma indicativa,

proclama che il tale catecumeno «è battezzato» nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Il vescovo pone la mano sul capo del battezzando e, dopo l’invocazione del nome di ciascuna persona

della Trinità, lo fa immergere nell’acqua, precedentemente benedetta. Il tema sviluppato dalla

catechesi battesimale riprende da vicino i testi di Gv 3,1-8 e di Rm 6,3-4, ponendo bene in evidenza

che il lavacro per mezzo dell’acqua comporta una vera rigenerazione che è operata dallo Spirito e una

partecipazione al mistero della morte-sepoltura-risurrezio- ne di Gesù. La vasca battesimale è al

contempo tomba dell’uomo vecchio e grembo fecondo per l’inizio della vita nuova che ora il neofita

è chiamato a vivere. L’uso della formula indicativa (anche per la signatio mediante unzione sulla

fronte da parte del vescovo) è l’esplicita manifestazione della consapevolezza che i riti sono compiuti

«nel nome» delle persone divine da cui unicamente proviene la grazia della salvezza. I battezzati

vengono quindi ammessi alla mensa eucaristica per ricevere mediante la partecipazione al sacrificio

di Cristo morto e risorto il nutrimento loro appropriato (cf. XV, 1). Teodoro «mette così in un parallelo

estremamente suggestivo battesimo ed eucaristia, tutti e due memoriale della morte, della sepoltura e

della risurrezione del Cristo».80

Con Basilio di Cesarea (f 379) ci spostiamo in Cappadocia, luogo geografico rilevante per il

collegamento fra l’Oriente e l’Occidente e per conoscere gli sviluppi della prassi battesimale. La sua

testimonianza, come quella degli altri padri cappadoci (Gregorio di Nazianzo f 379 e Gregorio di

Nissa t 394), emerge soprattutto da scritti strettamente legati alla predicazione.81 Nel caso di Basilio

Magno si tratta fondamentalmente del De baptismo (datato verso gli ultimi anni della sua vita) e di

un’omelia sul battesimo (cf. Hom. XIII) 82 II primo scritto ha la natura di un trattato composto da due

libri distintamente dedicati a commentare i due aspetti del mandato di Gesù in Mt 28,1: insegnare e

battezzare. Dal primo libro si può riconoscere che Basilio riprende la sequenza dell’iniziazione

cristiana in tre parti: catechesi, battesimo, eucaristia. Per i catecumeni la catechesi implica una

dimensione morale e ascetica necessaria per abbandonare le abitudini di questo mondo e volgersi al

Dio vivente.

Se crediamo a queste cose, liberati prima dall’oppressione del diavolo, con l’astensione da

ogni cosa bramata dal diavolo - per grazia di Dio mediante Gesù Cristo nostro Signore, a meno che

non abbiamo ricevuto invano tale grazia - e in seguito avendo rinunciato non soltanto al mondo e alle

sue concupiscenze, ma anche alle giuste convenienze reciproche, anzi anche alla nostra stessa vita,

quando una di tali cose ci distolga dalla irremovibile e rapida ubbidienza dovuta a Dio, a quel punto

siamo ritenuti degni di diventare discepoli del Signore (De bapt. 1,1).

80 Saxer, Les rites de l’initiation, 295 (mia trad. dal francese). Per un confronto con gli usi battesimali antiocheni testimoniati da

Giovanni Crisostomo, cf. ibidem, 291-296. 81 Per un quadro sinottico dei dati sul catecumenato e sugli usi battesimali negli scritti dei padri cappadoci, cf. SAXER, Les rites de

l’initiation, 314 -315. 82 Per il testo dell’omelia basiliana, cf. PG 31,423-446. Il testo del De baptismo è citato secondo l’edizione in lingua italiana curata

da U. NERI, Opere ascetiche di Basilio di Cesarea, Utet, Torino 1980,513ss.

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Essa comporta in seguito anche una più specifica introduzione alle verità della fede a partire

dalla s. Scrittura, sviluppate sulla falsariga del testo del simbolo (cf. ibidem). La seconda parte del

primo libro è dedicata al battesimo al quale si può essere candidati solo essendo prima diventati

discepoli (cf. 1,2). Con il lavacro battesimale si ha accesso al regno di Dio essendo generati «di nuovo

[...] da acqua e Spirito» 83 Al confronto con il battesimo «secondo Mosè e quello di Giovanni» Basilio

fa dunque seguire sulla base delle testimonianze del NT (in particolare: Gv 3,3.5; Mt 28,19; Rm 6,3-

11) la presentazione del battesimo cristiano il quale «ha natura superiore a ogni realtà umana, e gloria

più alta di ogni brama e voto d’uomo, e superiorità di grazia e potenza più grande di quanto non abbia

il sole rispetto alle stelle» (ibidem). All’evento battesimale si è condotti dalla stessa grazia di Dio la

quale opera come grazia preveniente (cf. ibidem) e conduce i catecumeni a quel lavacro che li

trasforma, come il fuoco che tempera e rende duttile il ferro nelle mani dell’artista. Il battesimo in

acqua è battesimo nel fuoco della parola dell’insegnamento che purifica e nella potenza del sangue di

Cristo che redime dai peccati (cf. ibidem). Esso è battesimo nella morte del Signore (cf. TRm 6,3, cf.

ibidem) e finalmente esso spalanca le porte della vita nuova in Cristo risorto (cf. ibidem) nell’attesa

della gloriosa risurrezione (cf. ibidem 545). L’evento battesimale è così il fondamento sacramentale

della vita di grazia secondo la fede, la carità e la speranza e, come annota Saxer, «la responsabilità

morale ha dunque una radice battesimale, ciò vale anche per i pastori, e le sue conseguenze ultime

possono essere talvolta estreme».84 Un’ultima sezione della seconda parte del primo libro è tutta

dedicata al rapporto tra ciascuna persona divina e il lavacro battesimale, cominciando dallo Spirito

Santo, passando al Figlio per arrivare al Padre (cf. ibidem). Lo Spirito rende capaci di vivere secondo

Cristo e questi dà il potere di diventare figli di Dio Padre: l’opera trinitaria nel battesimo è congiunta

e allo stesso tempo caratterizzata dal distinto operare di ciascuna persona divina in relazione a un

particolare effetto della grazia battesimale. Ne viene una visione antropologica animata da una

dimensione soprannaturale fortemente radicata nel mistero della comunione e dell’unità delle persone

divine. L’ultima parte del primo libro, come accennato sopra, passa a trattare l’eucaristia (i santi

misteri in senso liturgico-sacramentale) come nutrimento per la crescita del neofita (cf. 1,3). Tutto il

libro secondo prosegue la riflessione sul battesimo alla luce di tredici questioni che toccano diversi

aspetti della vita cristiana (cf. II).85 Sul modo di amministrazione del battesimo possono venire in

aiuto alcune immagini che Basilio utilizza per parlare del lavacro battesimale: la lana che «immersa

nella tintura, si trasforma nel colore» (cf. 1,2), il ferro immerso nel fuoco e reso duttile per essere

lavorato «dalle mani dell’artista» (cf. ibidem). Le due immagini fanno pensare all’immersione 86

L’omelia sul battesimo, brevemente presentata da Saxer, offre alcuni dati ulteriori sulla prassi

battesimale: la preferenza da accordare alla Pasqua per la celebrazione del battesimo, il solenne

appello al battesimo da farsi in tempo previo (Epifania? inizio della Quaresima?), la prassi da parte

di alcuni catecumeni di rimandare il battesimo da un anno all’altro, la richiesta di iscriversi tra i

candidati (onomatographia), il battesimo in pericolo di morte come caso estremo di cui non

approfittare per evitare di prendere in tempo utile la decisione di essere battezzati.87 Tenendo conto

anche di altri scritti di Basilio (De Spiritu Sancto, Contra Euno- mium) e anche di Gregorio di Nissa

(in particolare dell’omelia Adversus eos qui differunt baptismum, pronunciata il giorno dell’Epifania

del 383),88 il quadro dello svolgimento del rito battesimale in Cappadocia sulla fine del IV secolo si

arricchisce di altri dati utili: l’illuminando emette la professione di fede, è immerso nell’acqua

precedentemente benedetta mentre a ogni immersione è legata la proclamazione del nome di ognuna

83 Chiaro il richiamo a Gv 3,3.5. 84 Saxer, Les rites de l’initiation, 299 (mia trad. dal francese). 85 Cf. NERI (ed.), Opere ascetiche di Basilio di Cesarea, 22-23. In particolare la prima riprende un tema esplicitamente

battesimale, «Se chiunque è stato battezzato nel battesimo che è nel vange

lo del nostro Signore Gesù Cristo sia tenuto a essere morto al peccato, e a vivere per Dio in Cristo Gesù», 11,1, in ibidem, 574-576. 86 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 301-302. 87 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 302-304. 88 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 308-312. Non riprendiamo il confronto con le testimonianze di Gregorio di Nazianzo relative

agli usi battesimali di Costantinopoli, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 304-308 (il testo fondamentale è l’Orario XL in sanctum

baptisma)323-328.

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delle tre persone divine (come ad Antiochia), viene segnato sulla fronte e, rivestito dell’abito del

neofita, può partecipare ai santi misteri. L’unzione con olio benedetto, senza parlare esplicitamente

di crismazio- ne, fa pensare in Basilio al rito dell’unzione prebattesimale, ad essa è allora collegata la

rinuncia a satana di cui tuttavia egli non dà l’esatta formulazione.89

Gli sviluppi successivi della prassi battesimale sono marcati dall’intervento autorevole di

alcuni papi. Si tratta di lettere che come tali «sono destinate a fare giurisprudenza, esse si riferiscono

spesso le une alle altre e riceveranno in seguito il nome di decretali» 90 Tra queste Saxer annovera

una lettera del papa Damaso (o Siricio?) ai vescovi delle Gallie, una lettera di Siricio al vescovo

Imerio di Tarragona (10 febbraio 385), la lettera di papa Innocenzo I al vescovo di Gubbio Decenzio

(16 marzo 416), un’altra di papa Gelasio I ai vescovi della Lucania, dell’Abruzzo e della Sicilia, una

di papa Vigilio al vescovo di Braga Profuturo (databile all’anno 538) e alcune lettere di papa Gregorio

Magno. Un posto a parte meritano i sermoni di papa Leone Magno (440-461) dai quali più che atten-

dersi informazioni sulla prassi rituale si può ricavare una ricca teologia dell’iniziazione cristiana,

esposta nella predicazione rivolta «a un’assemblea di fedeli iniziati da lunga data»,91 in occasione dei

tempi forti dell’anno liturgico (Natale, Quaresima, Settimana santa, Pasqua). Per la conoscenza

dell’antica liturgia romana, e dunque della relativa prassi battesimale, un posto di rilievo spetta alla

lettera del diacono di Roma Giovanni indirizzata a Senario di Ravenna, databile verso l’anno 500.92

Accostiamoci più da vicino ad almeno due di queste testimonianze: la lettera di papa Siricio a Imerio

di Tarragona e la lettera del diacono Giovanni, appena menzionata.93

Dal primo documento si viene a conoscenza del diffondersi della prassi dei battesimi

«collettivi» (da intendersi con la presenza di molti candidati) praticati senza alcuna autorizzazione in

date liturgiche non conformi agli usi stabiliti che limitano tale possibilità alla domenica di Pasqua e

alla cinquantina pasquale e sempre secondo una prassi ordinata (iscrizione al battesimo almeno

quaranta giorni prima, riti di esorcismo, preghiere quotidiane e digiuni). In alcune situazioni di

emergenza (sia per i neonati come per gli adulti in pericolo di vita) la grazia del battesimo, necessaria

per la salvezza, non deve essere né procrastinata, né tanto meno negata, anzi «si venga in soccorso

con tutta prontezza» (Denz 184). In questi casi viene meno l’esigenza di rispettare la solennità dei riti

prevista per le situazioni ordinarie del battesimo individuale e per quelle straordinarie del battesimo

«collettivo».94 Del tutto priva di fondamento è poi la prassi di «battezzare di nuovo» coloro che hanno

ricevuto il battesimo da ministri eretici (gli empi ariani), «ciò non è lecito» (Denz 183). Già in questo

senso si era pronunciato precedentemente Agostino nel contesto dell’accesa disputa con i donatisti,

dirimendo la questione con l’introduzione della distinzione tra battesimo valido e fruttuoso. Il primo

ha la sua validità, anche se amministrato da un ministro eretico (o scismatico), perché celebrato nella

fede della Chiesa ed essendo Cristo il ministro del sacramento. Se ricevuto da un eretico (o

scismatico), esso diviene fruttuoso solo quando egli abbandona i suoi errori e si riconcilia con la

Chiesa mediante l’imposizione delle mani da parte del vescovo.95 Non è dunque concepibile un

secondo battesimo dato che quello amministrato ha già prodotto un vincolo permanente con la Trinità

al punto da segnare profondamente e irrevocabilmente il battezzato (il «carattere» battesimale). Il

tema della «fruttuosità» del sacramento approfondisce il senso dell’efficacia della grazia battesimale

evitando ogni automatismo e ponendo in luce l’esigenza di una fede personale retta e di una conver-

sione autentica che il battesimo (anche dei bambini), celebrato nella fede della Chiesa, viene a

sostenere e ad esigere. La celebrazione del battesimo è da ritenersi valida quando conforme alla

89 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 319-320. 90 Saxer, Les rites de l’initiation, 570 (mia trad. dal francese). 91 Saxer, Les rites de Vinitiation, 585 (mia trad. dal francese). 92 Per l’approccio a tale documento, cf. anche A. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», in Anamnesis 3/1,

Marietti, Genova 1986,41-43. 93 Omettiamo di passare in rassegna tutta un’altra ampia raccolta di testimonianze: Cesario e le Gallie, Isidoro e la Spagna

visigotica, VEucologio di Serapione e l’Egitto, cf. SAXER, Les rites de l’i- nìtiation, 489ss. 94 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 576. Il battesimo «collettivo» vede la partecipazione di così tanti candidati da essere

descritto come battesimo di folle innumerevoli. 95 È la via seguita da papa Stefano I nella disputa con Cipriano di Cartagine, cf. Courth, I Sacramenti, 132.

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struttura del segno sacramentale contenuta nella regula ecclesiastica: l’elemento rappresentato

dall’acqua unito alla parola che lo qualifica e determina (elementum et verbum; cf. Agostino, In Jo.

Ev. 80,3). Anche un cristiano laico, osservando queste condizioni, può celebrare validamente il

battesimo.96 Sulla stessa linea di Agostino si situa in parte anche il concilio di Costantinopoli (381)

(cf. canone VII).97 Solo se il battesimo non è stato corretta- mente amministrato (sia per il modo: una

sola immersione; sia per difetto della formula battesimale) tali eretici, di cui si specifica la tipologia,

devono essere accolti «come se fossero dei gentili» (ibidem) e avviati al catecumenato e dunque al

battesimo.

Nel secondo documento il diacono Giovanni (identificato da M. Andrieu con papa Giovanni

I, 523-526), rispondendo ad alcuni quesiti tratta senza intento sistematico anche delle questioni

relative alla prassi battesimale: il significato del catecumenato e il suo fondamento scritturi- stico, il

significato degli scrutini in generale e in particolare nel rito previsto per i fanciulli, il diritto riservato

solo al vescovo di consacrare il crisma, l’uso di mettere latte e miele nel calice durante l’eucaristia

pasquale. La prima questione è svolta con una certa ampiezza e attraverso la risposta si può avere

un’idea della liturgia battesimale a Roma all’inizio del VI sec. È riproposta la tripartizione nota:

catecumenato, preparazione dei competenti, riti battesimali. Rispetto al periodo d’oro il catecumenato

appare povero di istruzione specifica e manca una vera e propria entrata nel catecumenato dal

momento che i candidati sono nella maggior parte dei neonati. I riti da una parte si sviluppano unendo

elementi tra loro prima distinti (imposizione del sale con il quale si segna il catecumeno, in Agostino

la signazione cruciforme è distinta dall’imposizione del sale) e dall’altra nel loro insieme

diminuiscono. Per la celebrazione del battesimo vengono sottolineati alcuni riti: la deposizione degli

abiti e delle calzature prima del lavacro, la triplice immersione, la consegna della veste bianca, la

crismazione del capo (unito alla copertura dello stesso con un velo bianco). A ognuno di questi riti è

unita una particolare lettura in chiave simbolica (l’immersione in particolare è letta in riferimento alla

risurrezione di Gesù il terzo giorno). Tale prassi battesimale vale per gli adulti e per i fanciulh con

l’annotazione che per questi ultimi le risposte sono date da coloro che li hanno presentati per il

battesimo (genitori o altre persone).98

Nel corso del V-VI secolo la situazione politico-religiosa nell’Europa occidentale si è venuta

modificando radicalmente a causa della fine dell’impero romano d’occidente e dell’arrivo di nuovi

popoli che attraverso migrazioni dal nord e dall’est si stabilizzano nel continente europeo creando

realtà politiche nuove che domandano di integrarsi - non sempre pacificamente se si pensa al martirio

degli evangelizzatori del centro e nord Europa e alla difficile missione verso il continente dei monaci

provenienti dalla Gran Bretagna e dall’Irlanda - con la religione cristiana senza tuttavia lasciare

definitivamente le pratiche e gli usi pagani. Sempre più spesso si assiste al fenomeno della

conversione e del battesimo di un capo (re, principe, signore locale) al quale è associato anche il

«battesimo» dei sudditi. La ricerca dell’unità politica va di pari passo con quella dell’unità religiosa.

A ciò si deve aggiungere che nei territori occupati dalle nuove popolazioni le comunità cristiane

precedentemente fondate sono ormai per lo più costituite da cristiani battezzati da neonati o da

fanciulli (anche a causa dell’alta mortalità infantile il battesimo, necessario alla salvezza dell’anima,

viene amministrato quanto prima). Il duplice fenomeno della conversione di massa e della prevalenza

del pedobattesimo mette in ombra l’istituto del catecumenato e causa di riflesso anche una nuova

comprensione del battesimo.99 Di tale situazione si può avere un’idea più concreta nel prendere in

considerazione più da vicino il battesimo del re Clodoveo (498 o 499) e la realtà delle Gallie in quel

periodo. Se i gallo-romani residenti sono per lo più già divenuti cristiani cattolici mediante il

battesimo ricevuto da bambini, i franchi non tardano a unirsi al loro re e a fondare così le premesse

per un nuova unità politico-religiosa. Annota Saxer: «I soli non-battezzati finiranno per essere gli 96 Per la validità di un battesimo amministrato da un non cristiano, Agostino è perplesso e ritiene che tale problema dovrebbe

essere affrontato da un concilio, cf. COURTH, I sacramenti, 134. 97 Cf. COD, 35. 98 Cf. SAXER, Les rites de Vinitiation, 593-594. 99 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 529.

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ebrei».100 In tale contesto il battesimo viene amministrato in luoghi decentrati dal battistero della

cattedrale e non più ordinariamente dal vescovo ma da preti ai quali è affidata la cura d’anime della

plebs di un determinato vicus. Sempre più a decidere della data della celebrazione è il pericolo di vita

per i neonati e non una scadenza liturgica fissa (la Pasqua o la cinquantina successiva). L’intervento

costante di vescovi come Cesario di Arles nel sottolineare la funzione educativa dei genitori, dei

padrini e delle madrine diviene necessario per assicurare uno stile di vita cristiana di alto profilo

spirituale e morale, avendo perso di fatto il catecumenato la sua peculiare funzione catechetica e di

apprendistato della vita cristiana.101 Per i riti postbattesimali si assiste da una parte al richiamo

costante di vescovi e sinodi locali sull’unzione postbattesimale da farsi con il crisma consacrato dal

vescovo e dall’altra al fatto sempre più generalizzato dello slittamento della confermazione e

dell’eucaristia in una data successiva al lavacro battesimale.102 Nell’insieme tutto l’assetto dei riti

legati all’iniziazione cristiana viene a risentire negativamente della povertà della catechesi, ormai

sempre più limitata ai genitori, ai padrini e alle madrine in occasione del battesimo dei neonati o dei

fanciulli.103

Sullo sfondo dell’evoluzione della prassi rituale intervengono anche dispute teologiche e

dottrine eretiche che attraversano in profondità la vita delle Chiese nel V-VI secolo: sul piano

cristologico la diffusione del- Farianesimo nell’area germanica e visigotica, sul piano soteriologico il

pelagianesimo e il semipelagianesimo, legati più al Nordafrica e alla Gal- lia del sud. Le questioni

sorte in ambito semipelagiano sulla necessità, gratuità e prevenienza della grazia in rapporto alla fede

e ai suoi primi inizi nella vita dell’uomo portano il II concilio di Orange (529), presieduto da Cesario

di Arles, a stabilire che è avversario degli insegnamenti apostolici chi dice che come la crescita, così

anche l’inizio della fede e della stessa inclinazione a credere, con la quale crediamo in colui che

giustifica l’empio e perveniamo alla [ri]generazione del sacro battesimo, è in noi non per il dono

della grazia, cioè per ispirazione dello Spirito Santo che corregge la nostra volontà dall’incredulità

alla fede, dall’empietà alla pietà, ma per natura (can. 5, in Denz 375; cf. anche can. 8, in Denz 378).

Sul finire del VI secolo il battesimo comincia a presentarsi, almeno nella prassi delle Chiese

dell’Occidente, come realtà sempre più a sé stante rispetto a tutto il complesso dell’iniziazione

cristiana (in particolare rispetto all’unzione crismale conferita dal vescovo e all’eucaristia). La

confermazione con la signatio sulla fronte tende ad assumere la fisionomia di un rito autonomo

riservato al vescovo e differito a una data successiva al battesimo ricevuto da adulti e bambini in sedi

decentrate dal battistero della cattedrale e in occasioni diverse dalle ricorrenze liturgiche della Pasqua

e della Pentecoste.104 Al presbitero compete l’unzione sulla nuca dopo il battesimo con il crisma

consacrato dal vescovo: tenue legame con la prassi antica che associava o fondeva i due riti in

un’unica celebrazione presieduta dal vescovo con i presbiteri e i diaconi. I candidati sono in numero

crescente neonati o fanciulli e anche quando sono adulti il cammino di conversione non riesce a

mantenere il livello impegnativo del catecumenato dei secoli precedenti.105 La conversione collettiva

o in massa delle nuove popolazioni, insediate ormai da tempo nel territorio dell’antico impero

romano, non può che costituire un ulteriore fattore di indebolimento dell’istituto catecumenale.

Da un altro versante le dispute sulla grazia e sugli inizi della fede intervengono nella

comprensione del battesimo ponendone in risalto la natura di dono che viene gratuitamente da Dio.

100 Saxer, Les rites de l’initiation, 505 (mia trad. dal francese). 101 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 512-525.632-633. 102 II sacramentario gelasiano del VI secolo offre uno spaccato liturgico degli usi della Chiesa di Roma dove l’unzione

postbattesimale è compiuta prima dal prete e poi dal vescovo, cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 621. 103 Cf. SAXER, Les rites de l’initiation, 635. 104 Cf. O. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana? Dall’età dei padri all’epoca carolingia», in Iniziazione cristiana

degli adulti oggi, 95-96. 105 Cf. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 96. L’Autore mette in evidenza come il diventare cristiani assuma

nel periodo tardo-antico e poi nell’alto medioevo la duplice valenza civile ed ecclesiastica: si diventa membri di una societas e della

Chiesa. «Si perviene ad una forma di laicizzazione del battesimo, per cui i fedeli laici sono poco coscienti, a motivo di un siffatto

battesimo, del loro vero ruolo nella Chiesa», ibidem, 96.

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Prassi e dottrina battesimale sembrano convergere nella medesima accentuazione dell’iniziativa

divina lasciando di fatto cadere ciò che il catecumenato, pur con i suoi limiti, tendeva a sottolineare

nell’offrire ai candidati un vero apprendistato alla vita cristiana ben radicato nell’ascolto della parola

di Dio e nelle esigenze concrete di conversione che essa poneva sul piano esistenziale. Dal «cristiani

si diventa» si va sempre più verso il «cristiani si nasce». La lunga gestazione della conversione nel

grembo della Chiesa madre non è più avvertita in tutta la sua ricca realtà ministeriale e sacramentale

legata al vivace dinamismo della Chiesa locale. Il rito battesimale non è più presieduto ordinariamente

dal vescovo ma da un presbitero in una sede parrocchiale decentrata rispetto al battistero della

cattedrale: la qualità della formazione prebattesimale ne risente notevolmente ed è sempre più legata

ai genitori o a chi presenta i bambini per il battesimo (l’istituto del padrinato si consolida e si rafforza

notevolmente).106 I riti prebattesimali tendono ad affastellarsi e a perdere la loro genuina com-

prensione storico-salvifica.107

La tematica battesimale della salvezza dell’anima diviene prevalente su altre dimensioni

fondamentali che strutturano già nella storia la novità di vita del neofita. La salvezza eterna va

assicurata quam primum ai neonati che, vista l’alta frequenza di mortalità infantile, rischiano di

morire nel peccato originale, senza aver ricevuto la grazia della giustificazione.108 Temi battesimali

come la liberazione dal peccato originale e la salvezza dell’anima, ricorrenti anche nella precedente

tradizione teologica, assumono un ruolo di primo piano. Nel frattempo è cominciata a sorgere anche

una nuova prassi penitenziale che dal rigore della non reite- rabilità tipico dell’iter di riconciliazione

della penitenza canonica va verso la reiterabilità della confessione dei peccati in vista dell’assoluzione

secondo il modello insulare della penitenza tariffata. Non è un caso che la decadenza dell’istituto

catecumenale vada di pari passo con la crisi della penitenza canonica. In tutte e due le situazioni viene

meno il profilo di un iter di conversione ben strutturato nell’alveo della comunità ecclesiale. Il

battesimo da magna indulgentia (Agostino d’Ippona),109 che l’adulto riceve per tutti i peccati

commessi nella vita precedente (originale e personali) in vista di una nuova testimonianza di vita,

diviene, soprattutto a causa del graduale prevalere del pedobattesimo, liberazione dal peccato

originale in vista di una vita nella quale la conversione deve effettuarsi dopo il sacramento,

avvalendosi anche dell’aiuto offerto dalle nuove forme della disciplina penitenziale. Il battesimo non

è quasi più collocato alla svolta di un iter di conversione ma o la presuppone senza verificarne la reale

serietà (le conversioni collettive o in massa) o ne rappresenta l’inizio (il pedobattesimo) che la Chiesa

(la parrocchia) cercherà di sviluppare attraverso l’educazione cristiana dei fanciulli, dei loro genitori

e dei padrini.

2. La via orientale dell’iniziazione cristiana

Nel corso dello sviluppo e dei cambiamenti della prassi dell’iniziazione cristiana le Chiese

dell’Oriente cristiano hanno mantenuto ferma la stretta unità celebrativa dei tre sacramenti che la

caratterizzano: battesimo/ crismazione/eucaristia.110 Il neofita, sia egli adulto, bambino o neonato,

entra nella vita della Chiesa attraverso una celebrazione liturgica nella quale è dapprima battezzato,

poi crismato e infine introdotto alla comunione eucaristica.

Questa unità celebrativa rivela la sua profonda coerenza con la riflessione teologica della

prima tradizione della Chiesa che vede nel battesimo la porta d’ingresso della vita cristiana, nella

crismazione (conferita dal presbitero con il crisma consacrato dal vescovo) il dono plenario dello 106 Cf. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 98. 107 Si veda a questo proposito la tendenza allegorizzante dello Pseudo-Dionigi, cf. Saxer, Les rites de Vinitiation, 451ss. 108 Sulla dottrina del «peccato originale» e sui suoi riflessi nella dottrina battesimale, cf. A. TRAPÈ, «Peccato originale», in Dizionario

patristico e di antichità cristiane, II, 2725-2729. Cf. anche PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 96-97 (sul

quamprimum in epoca precarolingia e carolingia). 109 Cf. PL 40, 262. 110 Per una sintesi sull’evoluzione dell’iniziazione cristiana in Oriente, cf. R. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», in A.G. MARTIMORT

(ed.), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla Liturgia, 3:1 sacramenti, Queriniana, Brescia 1987, 96-103. Cf. anche TENA -

BOROBIO, «I sacramenti dell’iniziazione cristiana», 69-71.

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Spirito, nell’eucaristia la piena partecipazione al mistero della salvezza nella comunione ecclesiale.

Posta al vertice dell’iniziazione l’eucaristia ne rappresenta il compimento e al tempo stesso introduce

al dinamismo di crescita della vita cristiana e si manifesta come vero sacramento della maturità.

Ora è chiaro che anche in Oriente la diffusione e la graduale prevalenza del pedobattesimo

comportano una rivisitazione dell’istituto cate- cumenale e in parte anche una sua decadenza, analoga

alla situazione che si verifica con sue proprie peculiarità in Occidente.111 Tuttavia tale passaggio non

viene a incidere sull’unità del complesso iniziatico battesimale: l’ordine mantiene la sua struttura

ternaria e in particolare il rito della crismazione non diviene un rito autonomo separato dal battesimo

e dalla prima partecipazione all’eucaristia. Nelle Chiese dell’Occidente lo stretto legame tra il rito

della confermazione e il suo conferimento da parte del vescovo portano invece a desituare tale rito

dal legame originario con il lavacro battesimale e l’eucaristia112 II venire meno di tale raccordo nel-

l’unità celebrativa spinge a non avvertire più i tre sacramenti come parti integranti dell’unità

sacramentale dell’iniziazione cristiana, anche se, come osserva giustamente Ruffini, «siamo ancora

lontani da una riflessione teologica che distingue nettamente il sacramento della confermazione da

quello del battesimo».113 Anzi, a dispetto della prassi che in Occidente va prendendo la strada della

separazione, tanto neìYOrdo romanus XI come nel Sacramentario Gelasiano «l’iniziazione si

realizza con l’amministrazione dei tre sacramenti in un’unica celebrazione, in cui si susseguono

battesimo, confermazione ed eucaristia».114

Per l’insieme dei riti dell’iniziazione le diverse famiglie liturgiche orientali offrono un quadro

di stretta somiglianza con gli usi liturgici occidentali (liturgia romana, ispanica, gallicana, milanese).

Le differenze, rimarcate da Nocent, sono le seguenti:

L’olio per l’unzione prebattesimale è benedetto in ogni battesimo, così pure l’acqua

battesimale. Fino ad oggi è rimasto l’uso quasi esclusivo del battesimo per immersione con la formula.

N... è battezzato nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. L’Oriente ha sempre posseduto

una liturgia della Parola unita alla celebrazione dell’iniziazione, e la scelta dei brani biblici era fatta

in modo tale da facilitare la spiegazione dei riti che si celebravano. [...] Il rito comprende un’unzione

prebattesimale: si unge il capo e tutto il corpo. Per gli orientali questo rito significa che il candidato

acquista la qualità di re e sacerdote. [...] Nel rito bizantino l’unzione post-battesimale, compiuta

abitualmente dallo stesso sacerdote, è ritenuta il sacramento della confermazione. Anche l’eucaristia

viene data al battezzato, pur trattandosi di un neonato.115

Ed è questa unità dei tre sacramenti che in Occidente verrà gradatamente a perdersi prima

nella prassi, poi nella stessa codificazione liturgica e anche nella riflessione teologico-sacramentale.

Ripercorrendo le testimonianze dei padri e della liturgia della tradizione bizantina fino alla

riflessione teologica di Nicola Cabasilas (1322- 1391/1398) il teologo ortodosso contemporaneo

Sava-Popa sottolinea la fedeltà e continuità delle Chiese dell’Oriente con la prassi dell’iniziazione

cristiana della Chiesa antica: «La stessa regola è rispettata fino ad oggi in tutte le Chiese orientali

(comprese le Chiese non-calcedonesi). [...] La Chiesa primitiva ha concepito, sentito e praticato

sempre e dovunque l’iniziazione cristiana come una sola e grande azione sacramentaria, indivisibile

nella sua essenza, ma realizzata in tre momenti consecutivi».116 Si tratta dunque di una fedeltà

111 Cf. A. NOCENT, «Iniziazione cristiana», in Nuovo Dizionario di Liturgia, Edizioni Paolino, Roma 21984,685-686. 112 Sulla comparsa della terminologia «confirmatio» in Occidente, cf. RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 669. 113 RUFFINI, «Iniziazione cristiana», 669. 114 NOCENT, «Iniziazione cristiana», 684. 115 Nocent, «Iniziazione cristiana», 685-686. Cf. anche il saggio di L. Ligier, La Confermazione. Significato e implicazioni

ecumeniche ieri e oggi, ED, Roma 1990 (ed. or.: Paris 1973). 116 G. SAVA-POPA, Le Baptème dans la tradition Orthodoxe et ses implications oecuméniques (Cahiers CEcuméniques 25), Éd. Univ.

de Fribourg (Suisse) 1994,153 (mia trad, dal francese). L’opera fondamentale di N. CABASILAS, De vita in Christo, offre indirettamente

uno spaccato sui tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, cf. J. MEYENDORFF, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali,

Marietti, Casale Monferrato (AL) 1984,231. Cf. più avanti Excursus.

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disciplinare (la taxis della celebrazione) strettamente raccordata e radicata con un dato teologico-

sacramentale ben preciso e fortemente ancorato nella tradizione della Chiesa indivisa dei primi secoli.

Solo da questa articolazione unitaria si può sviluppare in modo appropriato e fecondo la teologia di

ciascuno dei tre sacramenti, evitando l’errore di isolare tanto la crismazione/confermazione e soprat-

tutto l’eucaristia dall’insieme dell’iniziazione cristiana.117

La rigenerazione battesimale si compie mediante l’amministrazione del sacramento del

battesimo, seguito dalla crismazione. È lo Spirito Santo, effuso a Pentecoste, che opera nell’uomo

questa rigenerazione secondo la sua azione vivificante e unificante. Nel battesimo lo Spirito genera

l’uomo nuovo rendendolo partecipe del Corpo mistico di Cristo e nella crismazione si effonde sul

battezzato per riempirlo della sua presenza e renderlo partecipe dell’unzione di Cristo al Giordano.

Questa prospettiva fortemente pneumatologica dà luogo a una comprensione particolarmente

dinamica della crismazione in rapporto al battesimo: l’unzione crismale fa infatti vivere e agire nel

battezzato il Cristo unto di Spirito Santo dall’alto. Tutto è operato dallo Spirito in modo da far tendere

il neofita verso una pienezza che è personale e comunionale al contempo. Ed è proprio in tale tensione

pneumatica verso la maturità cristiana operata mediante il battesimo/crismazione che si inserisce

l’eucaristia, vero compimento della novità battesimale/crismale e nutrimento spirituale capace di

sviluppare nei rinati da acqua e Spirito Santo tutta l’energia vitale del Risorto.118

Va infine tenuta presente, per il suo profondo significato ecclesiologico, l’eventualità della

celebrazione della crismazione separata dal battesimo. Come annota Meyendorff tale situazione si dà

solo nei casi di riconciliazione con la Chiesa di certe categorie di eretici e scismatici elencate nel

canone 95 del concilio Trullano. Il suo significato è in questo caso di convalidare, mediante «il

sigillo dello Spirito Santo» (formula pronunciata dal celebrante durante l’unzione), un battesimo

cristiano compiuto in circostanze irregolari - cioè al di fuori dei limiti canonici della Chiesa.119

3. Il battesimo, primo sacramento del settenario

Con la riforma liturgica del periodo carolingio si assiste anche a un tentativo di recupero del

catecumenato antico. Per arginare l’anarchia liturgica ereditata dai secoli VII e Vili e conferire

maggiore unità politico-religiosa al suo regno, Carlo Magno, su proposta di Alcuino, chiede al papa

Adriano una copia del sacramentario autentico (libero dalle interpolazioni e adulterazioni dei

sacramentari gelasiani del secolo Vili e conforme all’antico modello gregoriano) per uniformare ad

esso gli usi e la prassi liturgica delle Chiese del regno. «Il progetto, finalizzato all’unità liturgica, è di

fare adottare alle chiese di Francia YOrdo Romanus».120

La prassi battesimale è tuttavia ormai considerevolmente cambiata e tale riforma non riesce a

scall’irla se non superficialmente sul piano dei riti. La dimensione civile è ormai così intima alla

prassi battesimale che lo stesso giuramento al re implica la fedeltà alle promesse battesimali. Da

un’inchiesta promossa da Carlo Magno presso i metropoliti del suo territorio (811/812) si ha notizia

della necessità di conoscere come si preparano e si celebrano i battesimi. Il risultato a cui mira

l’inchiesta è quello di realizzare «l’unità liturgica dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana nel

segno della tradizione romana, quale maggiore garanzia di salvezza eterna».121 L’istanza della

celebrazione unitaria dei sacramenti promossa da Carlo Magno si prolunga nei Pontificali successivi

fino al XII secolo, «quale espressione della profonda, teologica unità che lega tra loro battesimo,

117 Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 154. Cf. anche 156-165 («L’unité entre le Baptème et la Chrismation»), 165-175 («Baptème et

Eucharistie»), 118 Cf. SAVA-POPA, La Baptème 166.173. 119 MEYENDORFF, La teologia bizantina, 236. Cf. anche canone 7 del concilio di Costantinopoli in COD, 35. 120 PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana? Dall’età dei padri all’epoca carolingia», 93. 121 PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 93. Cf. anche A. CAPRIOLI, »L’evoluzione del catecumenato e

l’iniziazione cristiana nel medioevo (secoli VII-XVI)», in Iniziazione cristiana e catecumenato, 148. Entrambi gli studiosi si rifanno

alle ricerche di STENZEL, cf. ibidem 149.

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confermazione ed eucaristia».122 Il catecumenato, quale emerge dal questionario dell’inchiesta,

appare concentrato in Quaresima con sette scrutini. Emerge inoltre il richiamo al battesimo «solenne»

a Pasqua o a Pentecoste, di norma presso un solo battistero per ogni città o pieve rurale.123 Di fatto la

scansione del catecumenato antico non viene recuperata e la preparazione dei catecumeni viene a

contrarsi e a coincidere con il solo tempo della preparazione immediata riservata in antico ai compe-

tentes. Ne è segno l’unificazione dei due rituali del catecumenato antico (quello per l’entrata nel

catecumenato e quello per l’ammissione tra i competentes) in una sola celebrazione. Il risultato è 1

’affastellamento dei riti dei due tempi con l’effetto di un ritualismo esasperato e dannoso alla valenza

pastorale dei singoli riti.124

L’insuccesso del tentativo carolingio di reintroduzione del catecumenato antico va di pari

passo con una prassi dove è sempre più ricorrente il battesimo di necessità «praticato

indifferentemente ogni giorno dell’anno, quodlibet tempore, come documentano i rituali del

tempo».125 La teologia che supporta questa prassi concentra l’attenzione sul battesimo dei bambini

onde evitare che muoiano senza di esso. Tale tema si ritrova nelle ammonizioni che i teologi carolingi

rivolgono a genitori e padrini per richiamarli alla grave responsabilità di presentare quam pri- mum i

bambini per il battesimo.

Il fenomeno di una progressiva separazione della stessa confermazione dal rito battesimale,

benché contrastata a livello di principio dagli intenti riformatori, tende sempre più a diffondersi fino

a essere sancita ufficialmente prima negli antichi sacramentari romani per poi passare agli Ordines e

finire attestata come dato ormai consolidato nei Pontificali medievali.126

Nel contesto della christianitas medievale il battesimo emerge sempre più come un fattore di

integrazione socio-religiosa che permette di accedere al contempo allo status di buon cittadino e di

cristiano in una societas sempre più gerarchicamente organizzata attorno ai due poli del potere

ecclesiastico e civile. Il battesimo è ormai «concesso a tutti, senza distinzioni di condizione e di età,

quale fondamento della stessa titolarità di appartenenza alla società».127

Nel XII secolo la riflessione teologica della scolastica è intanto venuta delineando la

comprensione del battesimo nel quadro del più ampio orizzonte sistematico della nozione di

sacramento (materia e forma quali parti essenziali del signum sacramentale o sacramentum tantum)

e della più precisa configurazione del settenario sacramentale. Nel Liber Sententiarum di Pietro

Lombardo (f 1160) si legge: «Iam ad sacramenta novae legis accedamus; quae sunt baptismus,

confirmatio, panis benedictio id est eucaristia, paenitentia, unctio estrema, ordo, coniugium» (IV, d.

II: PL 192, 841-842). Nel Tractatus de Sacramentis di Maestro Simone, del XII secolo ma precedente

a quello di Pietro Lombardo, il battesimo compare come primo dei sette sacramenti ed è

sinteticamente descritto come appartenente ai sacramenti comuni da distinguersi da quelli che non lo

sono (matrimonio e ordine sacro), come necessario rispetto a quelli che sono volontari (come il

matrimonio, l’ordine sacro e anche la penitenza solenne) e, nell’ambito di quelli comuni (sono cinque:

oltre al battesimo, l’imposizione della mano, la penitenza, il corpo e sangue di Cristo, l’unzione

solenne degli infermi), esso è il sacramento che «pollutos mundat» (purifica i contaminati).128 122 CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 150. Si deve supporre che fossero allora i pievani, nel ruolo di corepiscopi, ad

amministrare la confermazione, cf. ibidem (tale prassi è attestata nel rito ambrosiano, si vedano gli studi di Borella citati in ibidem). 123 Nel 803, Carlo Magno istituisce un esame liturgico per i parroci: le domande vertono anche sulla conoscenza dei riti battesimali,

cf. PASQUATO, «Quale tradizione per l’iniziazione cristiana?», 93. Nella cosiddetta missione presso i sassoni ai tempi di Carlo, missione

segnata dall’insuccesso, Alcui- no richiama il valore di una più accurata istruzione prebattesimale e soprattutto del battesimo volon-

tario, cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 149. 124 Per alcune esemplificazioni, cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 150-152. 125 CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 152. 126 Cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 153-155. 127 CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 158. È in questa prospettiva socio-religiosa (più che per l’effettivo pericolo di

morte) che sembra spiegarsi il dilatarsi della prassi del battesimo dei bambini, quam primum, cf. ibidem, 159. 128 II trattato, secondo l’edizione curata da H. WEISWEILER, è citato nel saggio di G. MOIOLI, Il quarto sacramento. Note

introduttive, Ed. Glossa, Milano 1996,248-249.

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Nell’opera di Ugo di San Vittore (t 1141), De sacramentis christianae fidei, la classificazione

dei sacramenti viene effettuata secondo criteri diversi. Se si prende il primo criterio, la materia, si può

dire che alcuni sacramenti consistono in cose mentre altri consistono in azioni, altri infine in parole.

Nella prima distinzione rientra anche il battesimo in quanto esso si compie con l’acqua santificata:

l’accento per definire il segno esteriore cade sull’acqua e non sull’uso di essa nell’abluzione da parte

del ministro. Se si guarda al rapporto che i sacramenti hanno con la salvezza, ebbene tra questi alcuni,

come l’acqua del battesimo e il ricevere il corpo e il sangue di Cristo, costituiscono e procurano

principalmente la salvez- /a (cf. De sacr. 1,9,7: PL 176,327A).129 La dottrina ugoniana sul battesimo

viene diffusamente presentata al capitolo sesto del secondo libro del De sacramentis (cf. PL 176,441-

460).

Pietro Lombardo e Ugo di San Vittore sono gli unici teologi posteriori al Mille che Tommaso

d’Aquino richiama esplicitamente nella parte della Summa Theologiae dedicata ai sacramenti del

battesimo e della cresima (cf. STh III, qq. 66-72). La trama dell’Aquinate ha la sua originalità nel

valorizzare anche nel discorso sul battesimo l’articolata nozione di causalità (già chiarita nella parte

precedente dedicata ai sacramenti in ocnere: cf. STh III, q. 64) per distinguere appropriatamente i vari

aspetti del segno sacramentale. Completando la concezione ugoniana unilateralmente centrata

sull’elemento materiale dell’acqua egli afferma che Tacci uà santificata risponde alla natura di

causalità materiale (cf. STh III, q. 6ft, aa. 3 e 4) se rapportata all’abluzione - ormai sempre più nella

forma dell’aspersione o infusione mentre l’immersione, rimasta peculiare della prassi delle Chiese

dell’Oriente, non è per Tommaso indispensabile per porre validamente il segno esteriore del

battesimo (cf. ibidem aa. 7 e 8) - da parte del ministro (cf. STh III, q. 66, aa. 1 e 5). Il segno si completa

nella formula battesimale che rappresenta la causalità formale del sacramento, essendo la Trinità

operante sul piano della causalità efficiente principale e il ministro sul piano della stessa causalità ma

strumentale (cf. STh III, q. 66, a. 5).

Il sacramento si struttura nella sua realtà di segno esteriore (sacra- mentum tantum:

l’aspersione con l’acqua da parte del ministro accompagnata dalla formula battesimale), nel suo

effetto intermedio (res et sacra- mentum: il carattere) e nell’effetto ultimo e invisibile (res

sacramenti: la grazia della giustificazione). Ora mentre il carattere, quale res «significata

dall’abluzione esterna e segno sacramentale della giustificazione interiore», permane in modo

indelebile, «la santificazione [res sacramenti^ può anche perdersi» (STh III, q. 66, a. 1). Per questa

dottrina del carattere Tommaso rimanda a Giovanni Damasceno: «Il Damasceno dunque ha definito

il battesimo, non rispetto al rito esteriore che è sacramentum tantum, ma rispetto all’elemento

interiore. Ha usato infatti due parole che si riferiscono al carattere: “suggello” e “tutela”, perché di

suo il carattere, per quanto dipende da esso, custodisce l’anima nel bene» (ibidem).130 Sempre

rispondendo all’obiezione che vorrebbe che il battesimo non si identifichi con l’abluzione, secondo

le parole del Damasceno che parla di rigenerazione, suggello e tutela e illuminazione (cf. STh III, q.

66, a. 1, ad 1), il Dottore angelico, dopo aver riconosciuto nella coppia sigillum/custodia la

designazione della res et sacramentum (il carattere battesimale), commenta le altre due espressioni

(regeneratio/illuminatio) come tali da significare la res sacramenti sotto due punti di vista

complementari.

Gli altri due termini si riferiscono all’ultimo effetto del sacramento, ossia alla «rigenerazione»,

perché l’uomo per il battesimo incomincia la nuova vita di giustizia; e alla «illuminazione», che

riguarda in particolare la fede, con la quale l’uomo consegue la vita soprannaturale, secondo le parole

della Scrittura: «Il giusto vivrà per la sua fede»; e il battesimo è una professione di fede. Per questo 129 Battesimo, confermazione ed eucaristia sono trattati di seguito, cf. De Sacr. 2, 6-8: PL 176, 441-472. Cf. D. POIREL, Ugo di San

Vittore. Storia, scienza, contemplazione, Istem-Jaca Book, Milano 1997,96. 130 In latino: sigillum e custodia. Il testo del Damasceno non è indicato con precisione ma vi si può riconoscere un passo tratto dal

De fide orthodoxa, IV, 9. Cf. introduzione a cura di T. CENTI, in TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, Ed. Studio Domenicano,

Bologna 1986, XXVII, 182.

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viene denominato «sacramento della fede» (ibidem).

Per la questione del ministro la posizione di Tommaso arriva fino ad ammettere oltre la

possibilità in caso di necessità di un cristiano laico, uomo o donna che sia, anche l’estrema situazione

di un battesimo conferito anche da chi non è battezzato (cf. ibidem, q. 67, a. 5), chiarendo così la

posizione lasciata sospesa da Agostino. «Chi battezza si limita a prestare esteriormente il suo

ministero, ma chi battezza interiormente è Cristo, che può servirsi di tutti gli uomini per tutto ciò che

vuole» (ibidem, ad 1). Il ministro non battezzato appartiene alla Chiesa non sacramentalmente ma

«per l’intenzione e la somiglianza dell’atto che compie, cioè in quanto intende fare ciò che fa la stessa

Chiesa e osserva nel battezzare la forma della Chiesa» (ibidem, ad 2).

Per ciò che riguarda la necessità del battesimo la linea dell’Aquina- te si articola in tre

passaggi: 1) tutti gli uomini sono tenuti a ciò che è indispensabile per conseguire la salvezza, questa

si dà per volontà di Cristo attraverso il battesimo e dunque senza di esso non ci può essere salvezza

(cf. Ili, q. 68, a. 1); 2) si può di fatto essere senza battesimo, senza avere avuto il proposito di

escluderlo, in questo caso si perviene alla grazia invisibile della giustificazione mediante il desiderio

del battesimo «il quale nasce “dalla fede che opera mediante la carità”, attraverso la quale l’uomo

viene santificato interiormente da Dio» (ibidem, a. 2); 3) il battesimo non va differito nel caso dei

bambini mentre nel caso degli adulti «è bene differirlo» (ibidem, a. 3). Le ragioni di tale prassi

particolare nei confronti degli adulti mostrano la ripresa di alcuni elementi dell’antica tradizione

catecumenale. Innanzitutto si fa la distinzione tra il momento della conversione e il necessario periodo

di discernimento da parte della Chiesa della serietà delle intenzioni dei candidati, in tale periodo «la

loro fede e i loro costumi vengono esaminati» (ibidem; 1 ’accompagnamento per gradi da parte della

Chiesa attraverso gli scrutini e gli esorcismi); ai candidati è poi necessario un tempo opportuno per

ricevere l’istruzione nella fede ed esercitarsi nella pratica della vita cristiana (l’apprendistato del

catecumenato); la dilazione è richiesta anche per una ragione liturgica: la celebrazione del battesimo

deve essere fatta di norma nella solennità di Pasqua e di Pentecoste (cf. ibidem; la centralità della

relazione tra la Pasqua e il battesimo che la riforma carolingia aveva tentato di ripristinare). Queste

tre ragioni (propter cautelam Ecclesiae, ad utilitatem eorum qui baptizantur, ad quandam

reverentiam sacramenti) cadono e la dilazione non si giustifica quando la preparazione ha avuto luogo

e i candidati sono pronti e quando intercorre un caso di infermità o un pericolo mortale. In questo

ultimo caso, se la morte repentina rende impossibile il battesimo, il candidato si salva «sebbene

“attraverso il fuoco”» (ibidem), dal momento che «non ottiene subito la vita eterna» (ibidem, a. 2)

dovendo scontare la pena dovuta ai suoi peccati (salvo il caso che la morte non sia dovuta al martirio).

Il battesimo non può essere conferito a chi ha la volontà di peccare e a chi si propone di

persistere nel peccato: il rito sacramentale viene reso falso dal momento che il segno esteriore

dell’abluzione non corrisponde alla realtà interiore significata (cf. ibidem, a. 4). Da questi testi emerge

come, nel caso degli adulti, l’elemento della conversione interiore sia fondamentale per conferire

autenticità al lavacro battesimale: «... in sacra- mentalibus signis non debet esse aliqua falsitas»

(ibidem). Per ricevere il battesimo occorre dunque il distacco dal peccato e la positiva manifestazione

dell’intenzione di volerlo ricevere (cf. ibidem, a. 7). Tra le disposizioni del battezzando la vera fede

è necessaria per ricevere la grazia (la res sacramenti), essa non è invece necessaria né in lui, né nel

ministro, per ricevere il carattere battesimale (la res et sacramentum) «purché ci siano tutte le altre

cose necessarie alla validità del sacramento» la quale «dipende non dalla santità di chi lo amministra,

o di chi lo riceve, ma dalla virtù di Dio» (ibidem, a. 8).

Dopo aver discusso e mostrato le ragioni a favore del battesimo dei bambini - la liberazione

dal peccato originale come ragione di necessità salvifica, l’introduzione alla vita cristiana fin

dall’infanzia come ragione di convenienza pastorale e pedagogica (cf. ibidem, a. 9) - e aver conside-

rato alcune particolari situazioni di battezzandi (dal battesimo dei bambini figli di giudei o di altri

«infedeli» per passare al caso del feto nel grembo materno e arrivare ai «pazzi furiosi» e ai «dementi»:

aa. 10-12), Tommaso arriva all’ultima questione riguardante gli effetti del battesimo (cf. ibidem, q.

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69).

Nel passare in rassegna i vari articoli (in tutto dieci) di questa ultima questione si deve notare

come il tema degli effetti sia svolto con uno sguardo sistematico e al contempo attento a rispondere

alle obiezioni provenienti dal contesto teologico-culturale contemporaneo a Tommaso. La dottrina

esposta ha dunque il merito di offrire una ricchezza di impostazione che permane attuale senza

dimenticare che per molti aspetti essa è profondamente legata al suo tempo. Solo la lettura per esteso

delle obiezioni alle quali l’Aquinate risponde può permettere di valutare adeguatamente l’insieme

della discussione sugli effetti del battesimo al tempo della grande scolastica.

I primi tre articoli concernono l’effetto di liberazione dal peccato (qualsiasi peccato: originale

e volontario, a. 1) e dalle pene derivanti dal peccato (perché uniti alla passione e morte di Cristo che

ha operato una soddisfazione piena per tutti i peccati, a. 2) anche se il battezzato continua a

confrontarsi con le penalità della vita presente che rimangono in attesa della completa liberazione che

i santi sperimenteranno nel giorno della risurrezione (il battesimo ha la virtù di liberare anche da

queste pene, distinte da quelle dovute al peccato, ma esse rimangono per permettere al battezzato di

partecipare alla passione di Cristo, di esercitarsi nella lotta in vista della vittoria, per guardare al

premio della vita eterna quale vero fine del battesimo, a. 3). Gli altri articoli considerano soprattutto

gli effetti positivi del battesimo: per mezzo di esso si ricevono la grazia e le virtù (a. 4; anche i bambini

ricevono questi doni soprannaturali: a. 6), l’incorporazione a Cristo, l’illuminazione per mezzo della

conoscenza della verità e la fecondità nel fare il bene per mezzo dell’infusione della grazia (a. 5), il

battesimo apre effettivamente la porta del regno dei cieli essendo tolto l’ostacolo del peccato (colpa

e debito di pena: culpa et rea- tus poenae) che si frapponeva (a.7), ha in tutti lo stesso effetto

principale o essenziale (la rigenerazione spirituale) mentre l’effetto secondario (la vita di grazia)

dipende dalla discrezione della provvidenza divina nella vita di ogni singolo battezzato (a. 8), è

impedito nel suo effetto se posto con la finzione - mostrare di volere ciò che non si vuole e quindi

anche il voler rimanere legati al peccato mortale, (a. 9); il carattere è tuttavia conferito anche in tale

battesimo come si deduce chiaramente da In IV Sen- tentiarum, d. IV, q. 3, art. 2, qc. 3 - sempre che

la finzione non sia tolta, dando modo allora al sacramento di raggiungere il suo effetto a partire dal

carattere che opera come causalità dispositiva (si richiama la dottrina della reviviscenza del

sacramento di ascendenza agostiniana, a. 10).

Lo sviluppo così articolato della teologia battesimale ha il pregio di mostrare come su di essa

venga a fondarsi anche tutto l’edificio dell’antropologia teologica. La vita spirituale e morale del

cristiano appare chiaramente illuminata dalla sua peculiare radice battesimale. La rigenerazione è

colta nel suo dinamismo di novità che sana ed eleva la facoltà conoscitiva e volitiva dell’uomo

permettendogli di sperimentare già ora, pur nella fragilità della lotta con la concupiscenza e con il

male, la beatitudine della figliolanza divina ricevuta per grazia. Si avverte, nelle ritornanti distinzioni

in merito, che l’Aquinate guarda al candidato adulto come al bambino, elaborando quasi una teologia

battesimale duplice, ovvero attenta a porre nella debita luce il distinto modularsi del rapporto fra

grazia e responsabilità, fra dono e compito nelle due situazioni antropologiche. Sull’orizzonte domina

il paradigma della conversione dell’adulto che accede al battesimo. Anche nella complicata casistica

della «finzione» Tommaso, riprendendo il discorso agostiniano, ripropone la dottrina della

reviviscenza: quando la finzione verrà a cessare, la grazia battesimale potrà finalmente liberare tutta

la fecondità alla quale il carattere impresso nell’anima, nonostante la finzione, faceva appello. L’unità

dei sacramenti dell’iniziazione non è più così evidente come negli scritti dei padri anche se occorre

notare come la trattazione della confermazione segua quella del battesimo formando con essa una

stessa unità tematica (con l’esplicitazione del rapporto tra il carattere conferito dal battesimo e quello

conferito dalla cresima, cf. STh III q. 72, aa. 5-6). La prassi liturgica, come si è già detto, si è andata

nel frattempo modificando notevolmente. Ne è un chiaro segno lo specificarsi di una dottrina sempre

più elaborata per rispondere alle diverse obiezioni sul pedobattesimo, ormai decisamente prevalente

sul battesimo degli adulti.

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La dottrina battesimale del Dottore angelico rappresenta per il magistero successivo un punto

di riferimento essenziale a cui riferirsi per dirimere le controversie via via suscitatesi. Una prima

espressione di questa ricezione si ha al concilio di Firenze nel Decretum prò armenis (1439) fina-

lizzato a ristabilire l’unione con la Chiesa armena.131 Nel testo del decreto si presenta in forma

sintetica la dottrina sui sacramenti in genere e poi si passa a ciascun sacramento cominciando dal

battesimo. Esso è «porta d’ingresso alla vita spirituale» (Denz 1314) e mediante esso si è incorporati

a Cristo e alla Chiesa suo corpo. La materia «è l’acqua pura e naturale, non importa se calda o fredda»

(ibidem). La forma è costituita dalla formula in prima persona: «Io ti battezzo nel nome del Padre,

del Figlio e dello Spirito Santo». Si ammette che anche altre formule (o in terza persona: il tale viene

battezzato; o in forma deprecativa: sia battezzato il tale...) in uso presso le Chiese orientali sono valide

per conferire il vero battesimo, fondandosi sulla differenza tommasiana tra causa principale e causa

strumentale nel comprendere l’efficacia sacramentale. Il ministro, operante sul piano della causalità

strumentale, è il sacerdote al quale il battezzare compete ex officio (cf. Denz 1315). In via straordinaria

(in causa necessitatisi può essere ministro chiunque (anche pagano o eretico) «purché usi la forma

della Chiesa e intenda fare ciò che fa la Chiesa» (ibidem). In ultimo, come nella trattazione della

Summa, si precisano gli effetti: la remissione di ogni colpa (originale e attuale) e relativa pena per cui

non può essere richiesta ai battezzati «nessuna penitenza per i peccati precedenti al battesimo» (Denz

1316) e, in caso di morte prima di commettere qualche colpa, sono accolti nel regno dei cieli e

ammessi alla visione beatifica. Rispetto alla visione organica di Tommaso d’Aquino la dottrina

battesimale viene ricondotta a pochi elementi dottrinali: il segno sacramentale (materia e forma) e

l’annessa concezione bipartita dell’efficacia sacramentale (causalità principale: la Trinità; causalità

strumentale: il ministro), il ministro (ordinario e straordinario), gli effetti (in verità si specifica solo

un effetto). Nella parte dedicata ai sacramenti in genere il battesimo, che insieme alla confermazione

e all’ordine imprime nell’anima un carattere indelebile (cf. Denz 1313), rientra tra i primi cinque

sacramenti ordinati alla perfezione individuale (l’ordine e il matrimonio sono rispettivamente ordinati

al governo e alla moltiplicazione di tutta la Chiesa). In forma lapidaria se ne descrive l’essenza

affermando che mediante esso «noi rinasciamo spiritualmente» (Denz 1311).

Benché nel testo del decreto segua la breve esposizione della dottrina della confermazione e

dell’eucaristia, non emerge in modo evidente la chiara connessione unitaria dei sacramenti

dell’iniziazione cristiana tipica della Chiesa antica e delle stesse Chiese orientali alle quali il decreto

si rivolge. La perdita dell’unità liturgica nella prassi non si riscontra tuttavia sul piano

dell’esposizione teologica che, anche se tratta separatamente i tre sacramenti, ne vede la profonda e

intima connessione specialmente quando ne descrive gli effetti (in particolare per il rapporto

battesimo/eu- caristia). La confermazione è in vista della testimonianza e conferisce il dono dello

Spirito Santo «per rendere forti» (Denz 1319): il rimando al battesimo non è esplicitato in modo

chiaro, è come sottinteso se si ricorda quanto detto nella parte sui sacramenti in genere, «con la

confermazione cresciamo nella grazia e ci irrobustiamo nella fede» (Denz 1311). La confermazione

è conferita, secondo la visione di Fausto di Riez, in vista dell’accrescimento della grazia battesimale

(augmentum gratiae) e della forza necessaria per la testimonianza (robur ad pugnam). Il tema della

crescita è in chiara connessione con le esigenze poste nel fondamento battesimale. L’eucaristia è

infine il nutrimento di coloro che sono rinati (cf. Denz 1311). Il rimando al battesimo è chiaro: «E

poiché per la grazia l’uomo viene incorporato al Cristo e unito alle sue membra, ne consegue che

questo sacramento, in coloro che lo ricevono degnamente, aumenta la grazia e produce nella vita

spirituale tutti gli effetti che il cibo e la bevanda materiale producono nella vita del corpo...» (Denz

1322).

Sul piano dei libri liturgici si assiste in Occidente al prevalere del Pontificale romano-

germanico del X secolo il quale «accanto al suo rituale battesimale con i sette scrutini, prevede un

131 Cf. Concilio di Firenze, Bolla sull’unione con gli armeni «Exsultate Deo», 22 novembre 1439, cf. Denz 1310ss.

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rituale nel quale i riti e i formulari sono uniti al battesimo stesso».132 Questo secondo rituale attesta il

consolidamento ormai avvenuto e la relativa codificazione di quella prassi di concentrazione e

affastellamento dei riti di iniziazione cristiana che risale all’alto medioevo e alla grande crisi

dell’istituto catecumenale. Il lavacro battesimale forma nella prassi liturgica ordinaria una realtà a se

stante ed è celebrato non più per immersione ma per infusione, la confermazione segue un suo rito

separato, la prima partecipazione alla mensa eucaristica, specialmente per il prevalere del

pedobattesimo, è ampiamente distanziata dall 'atto battesimale, essendo rimandata all’età di ragione

(come stabilisce il concilio Lateranense IV del 1215: cf. Denz 812).133 Al concilio di Trento si arriva

a sancire definitivamente per tutto l’Occidente la prassi della comunione all’età di ragione nel decreto

De comunione sub utraque specie et parvulorum (1562) con un’interessante annotazione sulla prassi

antica di comunicare subito i bambini appena battezzati: essa è stata opportuna in quei tempi ma non

è necessaria alla salvezza (cf. Denz 1730). La motivazione che spinge i padri del concilio a difendere

e sancire ufficialmente la prassi di escludere dalla comunione sacramentale i bambini che non hanno

l’uso della ragione è strettamente dipendente dal tema battesimale: «Rigenerati, infatti, dal lavacro

del battesimo (cf. Tt 3,5) e incorporati a Cristo, non possono, a quell’età, perdere la grazia di figli di

Dio, che hanno acquistato» (Denz 1730).

Il battesimo, inteso dalla teologia sacramentale scolastica come primo dei sette sacramenti e

dalla prassi e codificazione liturgica come atto a sé stante di inizio della vita cristiana, entra con questa

fisionomia nella prassi di evangelizzazione verso le popolazioni delle Americhe, dell’Asia e

dell’Africa, a seguito delle nuove scoperte geografiche e dell’impresa colonizzatrice dei vari regni

europei all’inizio dell’epoca moderna. Tenendo conto della dottrina comune sulla dannazione eterna

dei non battezzati come degli eretici (cf. Denz 1351), l’azione missionaria è fortemente caratterizzata

dalla necessità di battezzare il maggior numero possibile di pagani, con il presentarsi di nuove

riedizioni del fenomeno già noto nella tarda antichità e nell’alto medioevo delle conversioni «collet-

tive» e dei battesimi «di massa», in un clima di scarsa evangelizzazione e spesso di costrizione.134

Tale prassi e tale dottrina passano, specialmente attraverso l’azione missionaria degli ordini religiosi

antichi e nuovi, dal modello cristiano dei regni cattolici europei agli altri continenti. Il battesimo è

sempre più un atto puntuale spesso slegato da un solido itinerario di preparazione (sul modello di

quello catecumenale) e separato dalla sua appartenenza al complesso iniziatico colto nella sua

interezza (confermazione, eucaristia).

4. Battesimo e giustificazione: la Riforma e il concilio di Trento

Con Martin Lutero e gli altri grandi riformatori del XVI secolo (Melantone, Calvino, Zwingli),

la cristianità europea viene spinta, in modo fortemente polemico e talvolta violento (si pensi alle

guerre di religione), a riconsiderare il fondamento, il significato e il valore di tutto l’organismo

sacramentale rispetto alla vita cristiana. È in questo ambito che si collocano anche i vari movimenti

«anabattisti» del XVI-XVII secolo che in vaste aree dell’Europa (Svizzera, Tirolo, Germania del

nord, Mora- via, Paesi Bassi, Inghilterra) propugnano il solo battesimo degli adulti «credenti»

(battesimo dei credenti) quale unica e vera pratica fondata sulla sacra Scrittura, rifiutano il battesimo

dei bambini e per questo vengono accusati di «ribattezzare» (anabattisti quale termine polemico usato

dagli accusatori). Questa tendenza riformistica di tipo popolare e spesso caratterizzata da toni esaltati

ed entusiastici viene condannata già a partire dalla stessa Confessio Augustana del 1530 (cf. artt.

9,12,14,16-17). In particolare si dice per la questione del battesimo:

Quanto al battesimo, insegnano che è necessario alla salvezza e che, mediante il battesimo,

viene offerta la grazia di Dio, e che i fanciulli devono essere battezzati perché, offerti a Dio con il

battesimo, essi sono accolti nella grazia di Dio. Condannano gli anabattisti, i quali rifiutano il

132 Nocent, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 67. 133 Su questo punto cf. CAPRIOLI, «L’evoluzione del catecumenato», 162-164. 134 Cf. P. GIGLIONI, Inculturazione. Teoria e prassi, LEV, Città del Vaticano 1999,71-83.

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battesimo dei fanciulli e affermano che i fanciulli sono salvati senza battesimo (art. 9).135

In generale il dato che emerge è la riscoperta della dinamica fidu- ciale della fede, colta

soprattutto nella sua essenziale dipendenza dalla predicazione della parola di Dio conosciuta

attraverso una nuova relazione con la sacra Scrittura (il libero esame). Il primato della grazia di Dio

che giustifica gratuitamente l’uomo peccatore ponendolo in una condizione di paradossale grandezza

(simul iustus) e umiltà (et peccator) porta nuovamente in evidenza la questione degli inizi della fede

nell’uo- mo, della sua libera cooperazione (il tema della predestinazione) e, per ciò che più

direttamente ora ci interessa, del rapporto tra il sacramento del battesimo e la grazia della

giustificazione.

La rilettura luterana della fisionomia del sacramento alla luce della sacra Scrittura conduce a

riconsiderare in modo nuovo sia il rapporto della salvezza divina con la realtà sacramentale come la

sua istituzione da parte di Gesù Cristo. Sul primo fronte domina sia nel Lutero giovane come in quello

più maturo la consapevolezza che l’uomo non si salva per le sue opere ma per quella grazia che Dio

gli dona nella predicazione del verbum crucis, grazia alla quale si può accedere solo con l’abbandono

fiducioso, senza poter dunque contare su alcun mezzo creato (nullum medium habeo). Ogni

sacramento, e quindi anche il battesimo, riprende questa impostazione nell’essere concepito come

realtà strutturata nell’articolazione di due elementi: il segno esteriore unito alla promessa di grazia.

L’istituzione da parte di Gesù di un sacramento si ha quando nel Nuovo Testamento si possono

ritrovare attestati con chiarezza tutti e due questi elementi. In questa luce solo l’eucaristia, il battesimo

e, a suo modo, anche la penitenza sono riconosciuti come gli unici veri sacramenti istituiti da Gesù e

dunque fondamentali per la vita della Chiesa." Il terzo elemento, decisivo per l’efficacia del

sacramento, è la fede nella promessa di grazia.

Nel Sermon von dem heiligen und hochwurdigen Sacrament der Taufe (1519) il giovane

Lutero sottolinea come l’acqua sia il segno esteriore e la promessa di grazia (realtà significata) sia la

vita nuova in Cristo.136 Mentre al segno esteriore sono dedicati solo i primi due paragrafi del sermone

(l’acqua è considerata in rapporto all’immersione intesa letteralmente come un essere completamente

tuffati), alla realtà significata è riservata un’ampia sezione di ben otto paragrafi dove si tratta

ampiamente della rigenerazione che Dio opera nel battesimo dalla sua celebrazione fino a estendere

la sua efficacia salvifica a tutta la vita del battezzato.

Il sacramento, ossia il segno del battesimo, si compie in un istante, sotto i nostri sguardi;

ma la cosa significata, ossia il battesimo spirituale, l’affogamento del peccato, dura finché viviamo,

e viene consumata soltanto nella morte; allora l’uomo è veramente tuffato nel battesimo, e si compie

ciò che il battesimo significa. Perciò tutta questa vita non è altro che un incessante battesimo

spirituale, fino alla morte.137

Alcuni paragrafi successivi sono dedicati al terzo aspetto fondamentale del battesimo: la fede.

Mediante essa il battezzato crede nel dono della vita nuova non solo come condizione futura (la morte

e la risurrezione nell’ultimo giorno) ma crede fermamente che il sacramento è anche l’inizio reale di

tutto ciò, la sua effettuazione, e che ci stringe in un patto con Dio, in virtù del quale noi ci impegnamo

a uccidere il peccato e a combattere contro di esso fino alla nostra morte, e Dio si impegna a prendere

ciò in buona parte, a dimostrarci la sua grazia, a non giudicarci secondo il suo rigore, poiché non

siamo senza peccato in questa vita, fino a quando saremo purificati attraverso la morte. [...] Questa

fede è di tutte la cosa più necessaria, poiché è il fondamento di ogni consolazione.138

135 Cf. Confessioni di fede delle Chiese cristiane, a cura di R. FABBRI, EDB, Bologna 1996,19-20. 136 II testo è citato secondo l’edizione in lingua italiana curata da V. VINAY, Scritti religiosi di Martin Lutero, Utet,Torino 21986,279-

296. Cf. anche: «“Enchiridion” il piccolo catechismo per pastori e predicatori indotti» (1529), in ibidem, 687-689. 137 Vinay, Scritti religiosi di Martin Lutero, 282. 138 Vinay, Scritti religiosi dì Martin Lutero, 288. La fededifende il battezzatoda ogni falsa

sicurezza nelle sue proprie forze e deve essere unita al timore di Dioper non approfittaredel per

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Il patto battesimale è il fondamento per ricevere da Dio la grazia necessaria per affrontare il

duro cammino della conversione (cf. la prima delle 95 tesi) e non disperare mai della sua misericordia

confidando sempre nel fatto che «in esso Dio si lega con te e diventa uno con te in un consolante patto

di grazia».139 Il peccato, inteso come «la cattiva inclinazione», rimane nel battezzato, «deve essere

riconosciuto come vero peccato» ed «è un grave errore pensare, come alcuni fanno, che col battesimo

siamo diventati completamente puri». Lo stato di innocenza battesimale va dunque compreso

«unicamente a motivo della misericordia di Dio che le ha dato inizio, e sopporta con pazienza il

peccato, e ci considera come se fossimo senza peccato».140

Nel De captivitate babylonica ecclesiae (1520) con tono decisamente più polemico la

questione del battesimo è affrontata dopo l’ampia sezione dedicata all’eucaristia e alla messa.

Dapprima tutta l’attenzione di Lutero si concentra con acribia polemica a porre debitamente in luce

ciò che è trascurato nella predicazione e cioè la promessa di grazia legata al sacramento del

battesimo.141 Un secondo punto è invece riservato al segno «o sacramento, cioè l’immersione

nell’acqua».142 Sotto il primo aspetto il Riformatore sente di doversi prolungare più che su altre que-

stioni: «A che serve allora scrivere tanto sul battesimo e non insegnare ad aver fede nella promessa?

Tutti i sacramenti sono stati istituiti per nutrire la fede, ma questi empi teologi non parlano di essa, e

giungono a sostenere che l’uomo non deve esser certo della remissione dei peccati e della grazia dei

sacramenti...».143 Per quanto concerne il ministro la linea è quella già chiarita dall’Aquinate sulla

differenza tra causalità principale c strumentale: «L’autore del sacramento e il ministro sono diversi

ma l’opera di ambedue è la medesima, anzi, è di un autore unico per mezzo del mio servizio».144

Tornando aìYefficacia del battesimo e avendo ben chiaro che essa dipende dalla fede nella promessa

di grazia da parte di Dio, il battezzato deve guardarsi da quelli che ridussero questa forza del

battesimo [cioè la grazia della giustificazione] ad un tal punto di insignificanza da dire che con esso

si infonde, sì, la grazia, ma che poi questa svanisce a causa del peccato e allora si deve salire al cielo

usando un’altra via [...] il battesimo è strumento della tua morte e resurrezione, e perciò, per mezzo

della penitenza o per qualsiasi altra via, tu non puoi fare altro che tornare al valore del battesimo [la

penitenza sacramentale e altre forme penitenziali come recordatio baptismi], per compiere

nuovamente ciò che il battesimo significa e che dovevi fare in forza di esso.145

La trattazione del battesimo si conclude con la questione del battesimo dei bambini. Lutero,

pur osservando che in essi manca l’esercizio attuale della fede nella promessa di grazia dal momento

che non possono capirla, non conclude che il sacramento sia vano, è nella fede della Chiesa - «di

quelli che li offrono a Dio»146 - che essi vengono giustificali, come è affermato dall’opinione

teologica comune. Il bambino «viene mutato, purificato e rinnovato per fede infusa».147 Anzi tale fede

può ottenere da Dio la grazia della salvezza anche per un adulto empio che si 'ostina nel peccato.

Ammetto volentieri, perciò, che i sacramenti del nuovo testamento sono efficaci a dare la

grazia non solo a chi non pone ostacoli, ma anche a quelli che si oppongono con la maggiore

ostinazione. Quali ostacoli non può eliminare una preghiera elevata con fede dalla Chiesa, se si pensa

che Stefano ha convertito con essa l’apostolo Paolo? I sacramenti, allora, non operano per forza

propria, ma grazie alla fede, senza la quale non producono assolutamente nulla.148

dono di Dio, continuando a peccare, cf. ibidem, 296. 139 VINAY, Scritti religiosi di Martin Lutero, 285. 140 VINAY, Scritti religiosi di Martin Lutero, 289. 141 Cf. LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 105-110.112-114. 142 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 110, cf. ibidem, 110-111. 143 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 108.

i°8 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 109-110. 145 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 116. 146 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 120. 147 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 120. 148 LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 120.

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Pur in un’unità di fondo con la concezione luterana la posizione di Calvino e Zwingli in ordine

al battesimo manifesta delle peculiarità.149

Nel secondo caso si ha una forte accentuazione del valore della fede e dell’azione dello Spirito.

Occorre abbandonare tutto ciò che è sensibile e materiale per elevarsi a Dio che è Spirito. L’aspetto

esteriore del sacramento del battesimo ha il valore pedagogico di introdurre alla realtà spirituale ma

come tale non può comunicare lo Spirito. È la fede nella parola predicata che dà accesso a questa

realtà di salvezza. Per il primo tutta la dottrina sacramentale è caratterizzata dall’idea della gloria di

Dio. La realtà della vera Chiesa è una grandezza invisibile formata da coloro che sono predestinati

alla salvezza. Al servizio di questa realtà invisibile si pone la Chiesa come realtà visibile alla quale si

ha accesso mediante il battesimo. Questa appartenenza esteriore non dà comunque al singolo alcuna

sicurezza sulla sua condizione di salvezza dal momento che egli non sa se sarà in grado di perseverare

nella fede sino alla fine. «Dobbiamo dunque sapere e ricordare che siamo battezzati in vista della

mortificazione della nostra carne che ha avuto inizio sin dal battesimo e si prosegue tutti i giorni della

presente esistenza; ma raggiungerà la perfezione quando saremo passati da questa vita al Signore».150

Nelle varie sessioni del concilio di Trento l’approccio alla tematica battesimale è determinato

volta per volta dalle controversie sui punti nodali della dottrina dei riformatori: la giustificazione, il

peccato originale, il dinamismo della fede nel suo rapporto con i sacramenti, la vita di grazia in

relazione alle opere, il peccato nella vita del battezzato e il sacramento della penitenza. Dall’insieme

di questi testi non si può dunque ricavare una dottrina organica sul battesimo.151 Il quadro che ne

risulta pone tuttavia in evidenza alcuni dati teologici di fondo che occorre richiamare per il rilievo

che avranno nei successivi sviluppi della teologia e della prassi battesimale.

Non deve meravigliare innanzitutto che, proprio per la prassi liturgica prevalente ormai fin

dall’alto medioevo e la successiva elaborazione teologica della grande scolastica, il battesimo non è

più considerato nel suo rapporto con gli altri sacramenti della iniziazione cristiana (confermazione ed

eucaristia). Esso si propone all’attenzione del concilio e dei riformatori come realtà a se stante. Questa

prospettiva è rafforzata dalla trattazione tanto della confermazione come dell’eucaristia sotto un’an-

golatura polemica finalizzata a metterne in evidenza la natura di veri sacramenti, impugnata con toni

differenziati dall’insieme delle voci della Riforma. Il battesimo è invece comunemente riconosciuto

alla luce del fondamento biblico neotestamentario nella sua natura di vero sacramento istituito da

Cristo. Nondimeno questa condizione di autenticità sacramentale viene investita obliquamente dalle

provocazioni di fondo tipiche della Riforma.

Considerati nella loro stesura definitiva i documenti del concilio mostrano in sequenza

diacronica le implicazioni del battesimo con il peccato originale (1546, sessione quinta), con la

giustificazione (1547, sessione sesta), con l’insieme del settenario sacramentale (1547, sessione setti-

ma) e infine con il sacramento della penitenza (1551, sessione quattordicesima). In particolare è nel

Decreto sulla giustificazione (cf. Denz 1520- 1583) che il battesimo viene a essere collocato in una

visione dinamica che va dagli inizi della fede allo sviluppo integrale della vita cristiana (l'osservanza

dei comandamenti, la perseveranza, il recupero dei peccatori, le buone opere e il merito).

Il soggetto al quale si guarda è l’uomo adulto che, toccato «dalla grazia preveniente di Dio» 149 Cf. A.E. MCGRATH, Il pensiero della Riforma. Lutero, Zwingli, Calvino, Bucero. Una introduzione, Claudiana, Torino 21995,

237-257; J. LORTZ - E. ISERLOH, Storia della Riforma, Il Mulino, Bologna 1974,125-134 (per Zwingli) e 215-221 (per Calvino). 150 G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, a cura di G. Tourn, Utet, Torino 1971, II, 1529 (Libro quarto, c. XV, 11). Per il

battesimo, cf. ibidem, c. XV, 1519-1540. L’ampio capitolo XVI, dal titolo «Il battesimo dei bambini esprime molto bene l’istituzione

di Gesù Cristo e la natura del segno», è dedicato alla difesa della prassi del pedobattesimo, cf. ibidem, 1540-1578. Su questo punto

Calvino riprende le tesi già espresse da Zwingli e aggiunge «i suoi ricordi personali in materia di polemica battesimale durante il

soggiorno a Strasburgo», ibidem, 1541 (nota 1). 151 Cf. C. SCORDATO, «Il sacramento della fede. Teoria e prassi nelle Chiese», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Il sacramento

della fede. Riflessione teologica sul battesimo in Italia, a cura di M. ALIOTTA, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003,9-54.

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(Denz 1525), si volge «liberamente verso Dio» ( Denz 1526), crede vero «ciò che è stato divinamente

rivelato e promesso» (ibidem), si riconosce peccatore e inizia «quella penitenza che bisogna fare

prima del battesimo» (ibidem) e si propone infine di «ricevere il battesimo, di cominciare una nuova

vita e di osservare i comandamenti divini» (ibidem). Prima del battesimo gli uomini, quali discendenti

di Adamo, sono ingiusti e solo mediante il lavacro battesimale possono essere rigenerati da quella

grazia che, per il merito della passione di Crisi o, «li rende giusti» (Denz 1523). Questo passaggio

dallo stato di peccata allo stato di grazia, «dopo l’annuncio del vangelo, non può avvenire senza il

lavacro della rigenerazione o senza il desiderio di ciò, come sta scritto: “Se uno non nasce da acqua

e da Spirito Santo, non può entrare ìicl regno di Dio”» (Denz 1524; cf. anche ìbidem 1604.1617). Tale

rigeneri izione/giustificazione, diversamente da come espresso nella dottrina li'ùerana del simul iustus

etpeccator, non opera la sola remissione dei pecca d «ma anche santificazione e rinnovamento

dell’uomo interiore, mediante la libera accettazione della grazia e dei doni che l’accompagnano, per

cui da ingiusto diviene giusto e da nemico amico...» (Denz 1528). La giustificazione, come grazia

battesimale accolta con fede come dono gratuito di Dio (cf. Denz 1532), è suscettibile di uno sviluppo,

di una crescita, di un aumento (lat. incrementum iustitiae, cf. Denz 1535), può essere persa a causa

del peccato mortale (sia esso contro la fede o con qualsiasi altro peccato mortale, cf. Denz 1544) e

può essere recuperata mediante il sacramento della penitenza (cf. Denz 1542; sul rapporto tra

battesimo e penitenza, cf. la Dottrina sul sacramento della penitenza, Denz, 1671.1702).

L’opera della giustificazione viene considerata alla luce della dottrina della causalità ereditata

dalla scolastica. In particolare il battesimo si situa nell’ordine della causa strumentale in stretto

rapporto con la causa finale (la gloria di Dio e del Cristo e la vita eterna, cf. Denz 1529), la causa

efficiente (la misericordia di Dio, cf. ibidem), la causa meritoria (la passione di Gesù sul legno della

croce intesa come soddisfazione al Padre per gli uomini peccatori, cf. ibidem) e la causa formale (la

giustizia di Dio intesa come dono gratuito che rende giusti i peccatori mediante l’effusione dello

Spirito Santo che inerisce in coloro che sono giustificati, cf. Denz 1530). Causa strumentale è dunque

«il sacramento del battesimo, che è il “sacramento della fede”, senza la quale nessuno ha mai ottenuto

la giustificazione» (Denz 1532). In modo più diffuso il concilio torna sul sacramento del battesimo

colto nella sua specificità sacramentale nel Decreto sui sacramenti per condannare come erronee le

tesi desunte da alcuni scritti dei riformatori (principalmente il De captivitate babylonica, la Confessio

Augustana, VApologia Confessionis Augustanae). Dopo i canoni sui sacramenti in genere il testo

prosegue con quattordici canoni dedicati al sacramento del battesimo (cf. Denz 1614-1627). Il canone

quinto colpisce con l’anatema chi «afferma che il battesimo è libero, cioè non necessario alla

salvezza» (Denz 1618). Da questa posizione più estrema cara a coloro che ritenevano sufficiente la

fede per ottenere la salvezza i vari canoni riprendono i punti nodali delle posizioni dei riformatori sul

battesimo: l’uguale efficacia del battesimo di Cristo e di Giovanni, il significato solo metaforico della

necessità della vera acqua naturale per il lavacro, l’assenza nella Chiesa romana della vera dottrina

del sacramento del battesimo, ecc. La questione della validità ed efficacia salvifica del battesimo dei

bambini emerge negli ultimi due canoni (cf. Denz 1626-1627). Su tale punto il concilio si era già

pronunciato trattandone nel Decreto sul peccato originale (cf. Denz 1510ss, in particolare Denz 1513-

1515). Nei bambini il battesimo toglie «la macchia del peccato originale» (cf. Denz 1514, cf. anche

il Decreto sulla giustificazione, Denz 1523) mentre negli adulti questa remissione si completa con

quella degli altri peccati compiuti prima del battesimo (rimane la concupiscenza in quanto non è

peccato ma da esso ha origine e ad esso inclina, cf. Denz 1515). Se la dottrina del peccato originale

dà modo di porre nuovamente in rilievo Vefficacia salvifica del battesimo dei bambini (contro chi

nega o la presenza del peccato originale nei bambini o chi, pur affermando tale presenza, nega che il

battesimo operi efficacemente tale remissione), la questione della fede, trattata nel Decreto sulla

giustificazione, emerge nuovamente nella difesa della validità del battesimo amministrato dagli

eretici (cf. Denz 1617) e del pedobattesimo laddove è oggetto di anatema chi sostiene che «i bambini,

dopo aver ricevuto il battesimo, non devono essere annoverati tra i fedeli perché non hanno la capacità

di credere; e die per questo motivo devono essere battezzati di nuovo una volta ragli i unta l’età del

discernimento; o che è meglio non battezzarli affatto, piuttosto che battezzarli nella sola fede della

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Chiesa, senza un loro atto dj fede personale» (cf. Denz 1626). La posizione del concilio, pur avendo

di mira l’adulto che si converte e compie liberamente il suo atto di fede personale (tutto il Decreto

sulla giustificazione è in questa direzione), riconosce alla luce della tradizione come sufficiente per

la validità del battesimo la «sola fede della Chiesa» (cf. anche Denz 1514). La prassi da seguire con i

bambini battezzati che, «una volta cresciuti» (Denz 1627, si accenna al compito dei padrini al

momento del battesimo), non vogliono confermare gli impegni battesimali risente chiaramente, nella

posizione del concilio, di un contesto socio-pedagogico dove si ritiene plausibile una prassi coercitiva

suscettibile di critiche già allora (il canone mostra fra le righe il profilarsi di una prassi più libera in

dissonanza con la prassi di tipo coercitivo difesa dal concilio, cf. ibidem).

La prassi battesimale al tempo del concilio è rappresentata da contesa tra loro notevolmente

differenziati. Da una parte i paesi cristiani del- rZuropa nei quali il pedobattesimo costituisce la

situazione più ricorrente e il battesimo degli adulti riguarda ormai quasi solamente ebrei e musulmani

che desiderano farsi cristiani.152 Dall’altra la missione della Chiesa verso Oriente e Occidente, legata

alle nuove scoperte geografiche e alla relativa spinta colonizzatrice da parte delle varie potenze

europee. Su tale fronte «si dovette lottare contro la prassi, presto instauratasi, di spingere a farsi

cristiani e di battezzare in massa, per riaffermare che l’adesione al cristianesimo doveva essere una

scelta libera, che il battesimo doveva essere preceduto da un’adeguata preparazione dottrinale e

morale».153

Pur in presenza di una prassi che, almeno in Europa, è fortemente caratterizzata dal

pedobattesimo, nel Decreto sulla giustificazione il tipo di candidato a cui si guarda è l’adulto. La

dinamica della fede è descritta pensando dunque alla figura del catecumeno quale emerge dall’antica

tradizione apostolica.154 La fede, come la speranza e la carità, è uno dei doni infusi da Dio nel

giustificato mediante il battesimo. E questa fede «secondo la tradizione apostolica, è la fede che i

catecumeni chiedono alla Chiesa prima del sacramento del battesimo...» (Denz 1531). Nel testo

conciliare si presenta dunque una descrizione sintetica di questa richiesta che vede come protagonisti

dei catecumeni adulti e della risposta che essi ricevono (cf. ibidem). Nel Decreto sui sacramenti e

specificamente nei canoni sui sacramenti in genere si ribadisce la dottrina dell’ex opere operato per

sottolineare come per ricevere la grazia non sia sufficiente la sola fede ma occorrano anche i

sacramenti (cf.: Denz 1608: canone 8; Denz 1606: canone 6). Sempre in tale testo si ribadisce la

dottrina del carattere, «segno spirituale e indelebile» impresso nell’anima nei sacramenti del

battesimo, della confermazione e dell’ordine (cf. Denz 1609).

Il riconoscimento dell’istituzione divina del battesimo non è oggetto di critiche radicali nella

dottrina dei riformatori, diversamente da come avviene per altri sacramenti. Il concilio ribadisce tale

verità condannando l’affermazione di coloro che sostengono «che i sacramenti della nuova legge non

sono stati istituiti da Gesù Cristo, nostro Signore, o che sono più o meno sette: il battesimo, la

confermazione, l’eucaristia, la penitenza, l’estrema unzione, l’ordine e il matrimonio, o anche che

qualcuno di questi sette non è veramente e propriamente un sacramento...» (Denz 1601).

Nell’insieme la dottrina tridentina sul battesimo, rispondendo alle obiezioni e critiche dei

152 Cf. G. ZANON, «L’iniziazione cristiana secondo il rituale del Santori», in Iniziazione cristiana e catecumenato, 176-177. In tale

contesto sorgono le cosiddette «case dei catecumeni», cf. ibidem, 177-178. Per la comprensione del fenomeno della conversione di

persone ebree si deve tenere conto anche della nuova legislazione particolarmente restrittiva nei loro confronti airinterno dello Stato

pontificio a partire dalla seconda metà del XVI secolo, cf. ibidem, 178. 153 Zanon, «L’iniziazione cristiana», 176. L’A. fa cenno anche alle varie iniziative ecclesiastiche rivolte a regolare la prassi da tenere

nei confronti della conversione dei «pagani» alla fede cristiana, cf. ibidem, 176. Cf. anche Giglioni, Inculturazione, 71-74. 154 Si noti che il prevalere del pedobattesimo aveva reso desueto l’uso del termine catechu- meni a favore del termine infantes,

riservato invece nella Chiesa antica ai neofiti. Con il Rituale sacra- mentorum del card. Santori, ultimato nel 1602 e ripreso in larga

parte dopo la morte di Santori nel Rituale romanum promulgato da Paolo V nel 1614, si assiste alla reintroduzione del termine cate-

chumeni, cf. ibidem, 174. Santori aveva anche reintrodotto gli scrutini pre-battesimali ma questi come altro materiale da lui inserito

nel Rituale tra cui figurano un trattato sul catecumenato e un altro sulla mistagogia non furono recepiti nel Rituale romanum, cf. ibidem,

169. Per una ricognizione storica, liturgica e teologica del Rituale del card. Santori, cf. ibidem, 169-196.

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riformatori e condannando le affermazioni e posizioni eterodosse, riprende senza particolari novità la

dottrina sacramentale elaborata da san Tommaso d’Aquino, ripensata principalmente nel quadro

dell’accesa controversia sulla giustificazione. A questa ampia rielaborazione dogmatico-sacramentale

il concilio vuole inoltre far seguire anche un profondo rinnovamento della prassi pastorale. In gran

parte per il battesimo, come per gli altri sacramenti, tale intento è affidato fondamentalmente a due

grandi strumenti pensati per la vita delle comunità parrocchiali e il ministero del parroco: il

catechismo e il rituale romano.

Nel Rituale romanum, promulgato nel 1614 da Paolo V, la proposta elaborata dal card. Santori

di reintrodurre un vero itinerario catecume- nale segnato dalla celebrazione degli scrutini non viene

recepita. «Vi si trova un Ordo baptismi parvulorum seguito da un Ordo baptismi adulto- rum che

presentano ciascuno una sola celebrazione le cui tappe sono solamente segnate dall’introduzione del

catecumeno nella Chiesa prima del penultimo esorcismo, ed il cambiamento delle vesti del sacerdote,

dal viola al bianco, dopo l’unzione prebattesimale».155 Il battesimo viene celebrato all’interno di un

rito continuo nel quale si perde quasi completamente il senso pedagogico dell’itinerario

catecumenale.156 Questo fenomeno di contrazione e concentrazione di tutto il ricco rituale catecu-

menale/battesimale in un’unica celebrazione se da una parte ne ripropone molti elementi rituali

dall’altra non riesce più a offrire il senso dinamico dell’iniziazione come cammino di conversione e

di progressivo ingresso nel mistero della salvezza. E un rito confezionato soprattutto per i bambini

(da celebrarsi subito dopo la nascita) che diviene con qualche aggiustamento prassi ordinaria anche

per gli adulti (sia per i pagani nei paesi di missione come per gli ebrei o i musulmani presenti in

Europa).157

Questo stato di cose segnato congiuntamente dal prevalere del pedobattesimo (almeno in

Europa) e dal rito continuo rende maggiormente necessaria l’esigenza di una formazione cristiana da

offrire ai fanciulli e ai ragazzi attraverso la scuola parrocchiale di catechismo e agli adulti attraverso

una più intensa e sistematica predicazione della dottrina cattolica. «Gli stessi vescovi provvederanno

anche che almeno nelle domeniche e nelle altre feste in ogni parrocchia i bambini siano diligen-

temente istruiti nei rudimenti della fede e nell’obbedienza a Dio e ai genitori da parte di appositi

incaricati che, se sarà necessario, costringeranno anche con le censure ecclesiastiche» (sessione

XXIV: Decreto di riforma, canone 4).158 Strumento privilegiato di questa istruzione è il Catechismus

ad Parochos, pubblicato nel 1566 e noto come Catechismo romano, finalizzato a diffondere in modo

capillare la dottrina cattolica, a difenderla dagli attacchi delle eresie e a superare il clima di incertezza

dottrinale provocato dalla riforma protestante.159

Dopo il battesimo ricevuto da neonati i bambini aspettano l’età della discrezione (verso i sette

anni) per ricevere l’istruzione catechistica parrocchiale, strettamente legata al conferimento degli altri

due sacramenti dell’iniziazione cristiana (prima la confermazione verso i sette anni, poi l’eucaristia

nella forma della prima comunione solenne alla fine del ciclo catechistico verso gli undici, dodici

anni).160 Nel battesimo, accanto ai genitori assume sempre più rilevanza il ruolo svolto dai padrini.

Al parroco compete di istruire questi e quelli sia in vista del battesimo sia in relazione al compito

della successiva educazione cristiana dei fanciulli.

155 Cabié, «L’iniziazione cristiana», 91. 156 Tale prassi è già attestata nel Liber Sacerdotalis di Alberto Castellani, primo saggio di rituale romano pubblicato nel 1523, cf.

CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 91. 157 II Rituale romanum presenta VOrdo baptismi adultorum al c. IV (preceduto dal c. III dedicato alle note introduttive all’ Or do).

Per l’incidenza della mortalità infantile nello sviluppo della prassi del pedobattesimo, cf. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 90. 158 Cf. COL», 763. 159 Per una edizione recente del Catechismo romano, cf. L. ADRIANOPOLI, Il catechismo romano commentato. Con note di

aggiornamento teologico-pastorale, Ed. Ares, Milano 1990. Per il battesimo, cf. ibidem, 164-194. La materia è presentata nel modo

seguente: l’istituzione, i ministri, i padrini, il soggetto, le disposizioni, la virtù ed efficacia, le cerimonie che accompagnano il rito, cf.

ibidem, 194. 160 Cf. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 94.

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Se si eccettuano alcune spinte profetiche di ripresa della prospettiva dell’iniziazione cristiana

come quadro globale del battesimo,161 si può affermare che il modello battesimale, così impostato a

partire sia dal catechismo del 1566 come dal rituale del 1614, rimane invariato nelle sue linee portanti

fino al concilio Vaticano II.162

Il battesimo ha ordinariamente come destinatari i neonati. L’organizzazione parrocchiale è

l’ambito ecclesiale ordinario di «amministrazione» del battesimo. La celebrazione si svolge sul

modello del rito continuo: i riti prebattesimali sono celebrati poco prima del lavacro e questo si

compie per motivi di comodità attraverso l’infusione dell’acqua sulla testa del bambino.163 In primo

piano stanno i genitori e, per la loro parte di responsabilità, i padrini. Ministro ordinario è il parroco.

Il tempo della celebrazione appare slegato dalla ricorrenza pasquale (e dalla cinquantina) per

«assicurare quam primum ai neonati la grazia del sacramento».164 L’istruzione cristiana nella forma

del catechismo parrocchiale ha al centro il fanciullo che a partire dall’età della discrezione fino agli

undici/dodici anni completa anche la sua iniziazione cristiana (cresima e prima comunione, preceduta

dalla prima confessione). Il cristiano adulto che viene «generato» da questa prassi non ha

particolarmente viva la sua coscienza battesimale. Essa è invece al centro, insieme al primato della

fede, nella predicazione e negli scritti dei riformatori. La stessa istruzione cristiana degli adulti

assume una forte connotazione moralistica. Le virtù teologali, infuse nel battesimo, non emergono

come il fondamento della vita morale cristiana e questa non è avvertita come radicata nel dinamismo

della grazia battesimale ed è per questo che il Catechismo romano sente la necessità di dover

debitamente riprendere e illustrare lo si retto rapporto tra grazia battesimale, virtù infuse e

testimonianza cristiana.

La teologia del battesimo elaborata nel contesto della christianitas medievale (in particolare

la dottrina tomasiana) è fatta propria dal concilio di Trento, come era già precedentemente accaduto

nel concilio di Firenze. Essa viene tuttavia a collocarsi dentro il nuovo orizzonte caratterizzato dal

pensiero dei riformatori e dalle nuove problematiche da essi suscitate: il rapporto fede-parola-

sacramento, il rapporto giustificazione- battesimo, la questione degli effetti del battesimo in rapporto

al peccato (la questione della concupiscenza) e alla vita di grazia (la questione delle buone opere e

dei meriti). Rimane fuori da questo clima controversistico e spesso polemico una riconsiderazione

del battesimo nel quadro più ampio dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. In questo sia i riformatori

come i padri del concilio di Trento sono accomunati dalla prospettiva ereditata dalla teologia

scolastica che, diversamente dalla prassi e dalla teologia delle Chiese cristiane d’Oriente, si era

cristallizzata in un approccio separato ai tre sacramenti. Con la Riforma tale situazione si acuisce

ulteriormente a causa della messa in questione tanto della confermazione come sacramento istituito

da Cristo, quanto di alcuni punti fondamentali della dottrina eucaristica.

Una chiave di lettura unitaria del rapporto organico tra battesimo, confermazione ed eucaristia

sembra come smarrita e solo pallidamente attestata nei libri liturgici romani del periodo pretridentino.

Nella Chiesa cattolica della Controriforma essa riemerge nell’ambito della rielabora- xione dei riti (si

veda il Rituale del Santori) da prevedere per i catecumeni provenienti dall’ebraismo e dall’islam.

L’adulto che vuole o spesso «deve» diventare cristiano interpella la prassi sacramentale a confrontarsi

con il modello offerto dalla Chiesa antica per riprendere alcuni aspetti del catecumenato, anche se

concentrati e quasi contratti in un’unica sequenza celebrativa (cf. Rituale romanum, c. IV).165 La

solennità di questi riti viene spesso ripristinata in un contesto che risponde soprattutto all’intento

apologetico di conferire maggiore pubblicità possibile alla conversione di ebrei e musulmani alla fede

161 Cf. P. Caspani, La pertinenza teologica della nozione di iniziazione cristiana, Ed. Glossa, Milano 1999. 162 II decreto Quam singulari del 1910 (cf. Denz 3530-3536) abbassa l’età della prima comunione a sette anni, cf. CABIÉ,

«L’iniziazione cristiana», 95. 163 II battesimo per immersione rimane comunque indicato nelle rubriche, cf. CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 91. 164 Cabié, «L’iniziazione cristiana», 90. 165 II c. III, De baptismo adultorum, inizia con il seguente ammonimento: «Adultus, nisi sciens et volens probeque instructus, ne

baptizetur; insuper admonendus ut de peccatis suis doleat».

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cattolica.

L’autocoscienza dell’appartenenza alla Chiesa cattolica per mezzo del battesimo rappresenta

ancora, pur nel quadro della modernità incipiente, l’elemento fondamentale per un’adeguata

integrazione nella cosiddetta socìetas christìana. Con le guerre di religione e il successivo affermarsi

del principio della tolleranza religiosa il battesimo è invece sempre più legato a una specifica

appartenenza confessionale, divenendo così fattore di integrazione airinterno di un determinato stato

confessionale (cuius regio illius est religio) e di discriminazione politico-religiosa rispetto agli stati

di confessione cristiana diversa. Per ritrovare nel battesimo il comune fondamento dell’unità dei

cristiani, a prescindere dall’appartenenza politico-religiosa, occorrerà aspettare le svolte prodotte dal

movimento ecumenico e dal concilio ecumenico Vaticano II.

5. Evangelizzare e battezzare nel dinamismo missionario della Chiesa moderna

La questione della necessità della fede e del battesimo per la salvezza, già trattata dai grandi

maestri della scolastica (il battesimo di desiderio, la fede implicita), torna alla ribalta in modo inedito

con la scoperta delle Americhe (1492) e l’immenso compito missionario che ne deriva.166 In questo

quadro il grande assioma soteriologico della Chiesa antica extra Ecclesia nulla salus, riletto dalla

scolastica con alcuni significativi aggiornamenti, non può non confrontarsi con una rinnovata

comprensione dell’efficacia dell’universale volontà salvifica di Dio. Secondo il dettato del concilio

di Firenze (Decretum pro Iacobitis, 1442), le masse di uomini che non conoscono Cristo, i pagani, al

pari di ebrei, eretici e scismatici, «andranno nel fuoco eterno, [...] se prima della morte non saranno

stati ad essa [= alla Chiesa cattolica] uniti» (Denz 1351).167 Secondo questa interpretazione così rigida

dell’antico assioma si ha l’impressione che il concilio di Firenze consegni alla perdizione per

colpevole «infedeltà» anche tutti i pagani. Tuttavia risulta difficile applicare questo enunciato alle

vaste masse di pagani del nuovo mondo che, senza colpa, non conoscono il vangelo. La tradizione

teologica si vede allora costretta «a ripensare in maniera sostanziale le condizioni della salvezza per

quanti vivono privi della conoscenza del vangelo».168

È in questo contesto che si sviluppano posizioni teologiche che ammettono l’effettiva

possibilità della giustificazione dei pagani con la fede implicita e il desiderio del battesimo (D. Soto,

R. Bellarmino). Per J. de Lugo, insegnante anche lui al Collegio Romano (1621-1643) come pre-

cedentemente il Bellarmino, l’efficacia salvifica di Dio si estende non solo ai pagani che non

conoscono il vangelo, ma anche a eretici, ebrei e musulmani attraverso la loro fede sincera in Dio.169

Il desiderio del battesimo, sulla scia della dottrina dell’Aquinate (cf. STh III, q. 69, a. 4, ad 2), non

necessariamente deve essere esplicito e nell’opinione di questi teologi è comprensivo di un

concomitante votum ecclesiae.

Anche se il concilio di Trento, come si è visto più sopra, riconosce il valore salvifico del votum

baptismi (cf. Denz 1524), controbilanciando in tal modo l’affermazione così restrittiva del concilio di

Firenze, rimane comunque viva la presa di coscienza delle inedite sfide che le nuove scoperte

geografiche pongono alla Chiesa in ordine all’evangelizzazione. L’immenso campo della missione

ad gentes ripropone l’urgenza del mandato missionario (cf. Mt 28,16.20). La prassi battesimale si

misura in tale contesto con due tendenze di fondo: l’una, legata al metodo della tabula rasa, porta a

conferire il battesimo al maggior numero possibile di pagani dopo una rapida catechesi, l’altra è

attenta a conferire il battesimo solo dopo un’adeguata e profonda opera di evangelizzazione in dialogo

con le culture autoctone. In questo secondo caso la ripresa del modello catecumenale avviene non

solo sul piano nominale ma corrisponde a una effettiva ed articolata esperienza di introduzione

166 Cf. J. DUPUIS, Verso una teologia del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997,162ss; GIGLIONI, Inculturazione, 71ss. 167 Per alcune note di ermeneutica del testo, cf. DUPUIS, Verso una teologia, 129-131. 168 DUPUIS, Verso una teologia, 159. 169 Cf. DUPUIS, Verso una teologia, 160.

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graduale alla vita cristiana.170

Il nuovo quadro della missione ad gentes riporta quindi in primo piano sia alcuni nodi

fondamentali della teologia del battesimo in rapporto alla salvezza (necessità del battesimo, rapporto

con la fede, aggregazione alla Chiesa...), sia l’esigenza di una prassi battesimale meno centrata sul

pedobattesimo e più attenta alla situazione dell’adulto che desidera diventare cristiano. È la frontiera

dell’evangelizzazione delle culture e della persona, colta nella sua realtà storica concreta (cf. Paolo

VI, Lvangelii nuntiandi, n. 20). In questa prospettiva la grande eredità del catecumenato e

dell’iniziazione cristiana della Chiesa antica rappresenta ira tesoro al quale attingere per elaborare

adeguati itinerari di conversione a Cristo e di aggregazione alla Chiesa. La prassi e la teologia del

battesimo tornano così a confrontarsi con l’assioma: «cristiani non si nasce ma si diventa»

(Tertulliano, Apologeticum, 18,4).171

170 In tale contesto i riti battesimali vengono adattati in parte alle nuove situazioni socio-religiose (per es. l’omissione

dell’insufflazione e àeWeffatà con la saliva, ritenuti ripugnanti dagli indiani), cf. GIGLIONI, Inculturazione, 79. 171 Cf. C. ROCCHETTA, «Fare» i cristiani oggi. Il rito dell’iniziazione cristiana degli adulti forma tipica per il rinnovamento delle

nostre comunità, EDB, Bologna 1997.

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CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO SISTEMATICO

1. Il battesimo alla luce del magistero del concilio Vaticano II e dei nuovi rituali.

Aspetti teologici e liturgici

A partire dal nuovo contesto ecclesiologico emerso dal concilio ecumenico Vaticano II e dalla

riforma liturgica voluta dallo stesso concilio si è voluta costituendo e sviluppando una visione

rinnovata del battesimo ni l’interno della realtà organica dell’iniziazione cristiana approdata poi a

quel nuovo libro liturgico da considerarsi come forma tipica della formazione cristiana: il Rito della

iniziazione cristiana degli adulti. A questa nuova visione teologica, liturgica e pastorale del battesimo

è dedicata questa ultima parte della trattazione.

1.1. La TEOLOGIA DEL BATTESIMO NELLA PROSPETTIVA DEL MAGISTERO CONCILIARE

La nuova prospettiva ecclesiologica del concilio ecumenico Vaticano II centrata sulla nozione

di popolo di Dio (cf. LG c. II) ha permesso e determinato una vera svolta nella considerazione del

sacramento del battesimo. Per mezzo del battesimo e della fede il cristiano diviene partecipe della

novità escatologica iscritta dal Signore Gesù morto e risorto nella storia del popolo della nuova

alleanza. Il battesimo abilita a una nuova fraternità universale, essendo tale per vocazione il popolo

al quale il cristiano è unito per mezzo dei vincoli della fede e dei sacramenti.

Il battesimo è dunque la porta d’ingresso (cf. CCC 1213) alla realtà della salvezza di cui la

Chiesa è, in Cristo, «come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità

di tutto il genere umano...» (LG 1). La novità cristiana implica per il neofita sia l’essere costituito,

irrevocabilmente (il carattere battesimale), nella dignità di figlio di Dio, sia l’essere introdotto nella

comunità dei salvati, radunata nel nome della Trinità. La dimensione verticale viene integrata nella

dimensione orizzontale colta sia nella direzione tradizionale dell’incorporazione alla Chiesa (cf. LG

7-8,14-16) sia nella prospettiva storico-escatologica della Chiesa pellegrinante (cf. LG 2, 9, 13 e c.

V). In questa luce il battesimo appare situato nella sua originaria tensione tra l’essere fondamento di

aggregazione/appartenenza alla comunità dei salvati nella sua realtà visibile e l’essere stigma

permanente dell’universalità del popolo di Dio chiamato da tutte le genti. Il battesimo separa

aggregando ma anche aggrega accogliendo e come tale esso non è destinato solo ad alcuni, a una

minoranza, ma deve essere offerto a tutti come via ordinaria per ricevere la salvezza radicata nel

nome di Gesù. È in questa luce universale che esso ritrova il suo posto peculiare e irrinunciabile nella

più ampia azione evangelizzatrice della Chiesa. «Un unico popolo di Dio si inserisce dunque in tutte

le nazioni della terra, di mezzo alle quali prende i suoi cittadini, per un regno che non è terreno ma

celeste» (LG 13).

Questa natura allo stesso tempo esclusiva e inclusiva del sacramento del battesimo rappresenta

in qualche modo la stessa vicenda del battezzato. Occorre innanzitutto che sia riconosciuta l’iniziativa

divina della chiamata alla salvezza. Il candidato al battesimo appare fin dall’inizio, nella fase del

precatecumenato, come un simpatizzante nel quale lo Spirito è intervenuto, muovendolo alla

conversione. I primi passi verso la fede cristiana appartengono a una gestazione di cui non è mai

possibile dare un quadro esaustivo. Alla Chiesa, per sua natura essenzialmente missionaria, compete

l’attuazione dell’opera dell’evangelizzazione (nelle sue molteplici forme) tesa a creare le condizioni

storiche di accoglienza, riconoscimento, discernimento e accompagnamento dei chiamati alla fede.

Nel tempo del catecumenato il battezzando fa esperienza, per ritus et preces, della natura esclusiva

della proposta cristiana (il dinamismo della conversione nelle sue esigenze concrete) e nel contempo

egli deve poter sperimentare che la sua realtà personale e culturale viene accolta, purificata e

finalmente elevata a quella perfezione che è donata nella partecipazione al mistero pasquale. La

tensione catecumenale e poi battesimale tra l’essere vagliati/purificati (dimensione esclusiva) e

l’essere accolti/innestati (dimensione inclusiva) risponde alla natura paradossale sia della

predicazione come del rito cristiano: è il paradosso pasquale della morte e risurrezione di Gesù. Il rito

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battesimale nel suo rapporto dinamico tra parola annunciata e gesto liturgico realizza qui e ora nel

contesto di una Chiesa particolare l’essere presi, separati per morire all’uomo vecchio, per essere

rigenerati e rivestiti dell’uomo nuovo (cf. Ef 4,22-24; Col 3.9-10). Mediante la confermazione e la

partecipazione alla mensa eucaristica il battezzato riceve ciò che è proprio dei figli di Dio: lo Spirito

settiforme e le «cose sante» (sancta sanctis). Durante il tempo della mistagogia il neofita, pur

consapevole di essere un «bambino appena unto» (infans), deve poter cominciare a sperimentare in

Cristo e nella Chiesa il compimento integrale della sua stessa realtà umana. Cristo «proprio rivelando

il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua

altissima vocazione» (GS 22). Torna nuovamente il paradosso cristiano ben esemplificato nello scritto

A Diogneto. Quale membro del popolo di Dio il neobat- t e zzato è attraversato sia sul piano essenziale

(dimensione ontologica) come esistenziale (dimensione storica) da questa mutua relazione tra

singolarità e universalità dell’evento cristiano.

Il dinamismo sacramentale tipico del battesimo cristiano chiama in causa la realtà della Chiesa

nella sua funzione materna (cf. CD 13; PO 6; LG 14 e 64). Gli antichi battisteri mediante la sapiente

convergenza dei diversi codici estetici offrono questa efficace visione del grembo materno della

Chiesa. Questa appare nella sua struttura di Chiesa particolare, riunita sotto la presidenza del vescovo

e articolata secondo quella tipica ministerialità che con funzioni diverse interviene nello sviluppo del

processo di iniziazione cristiana (dal catecumenato alla mistagogia). L’aggregazione alla Chiesa

particolare e, mediante essa, alla Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, pone l’evento battesimale

al di sopra di altre valenze di carattere socio-antropologico. La famiglia naturale, il clan o il gruppo

sociale di provenienza del catecumeno non sono l’asse portante del processo iniziatico. La

celebrazione del battesimo si propone nella sua specifica natura di evento ecclesiale in grado di

accogliere, purificare ed elevare tutto l’umano che il battezzando porta con sé. Nell’evento bat-

tesimale, così compreso, si compie una vera e propria esperienza di incul- turazione della fede. In

questa luce la Chiesa fa emergere la portata universale della sua missione salvifica in mezzo a tutti i

popoli come ricapitolazione di «tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità del suo

Spirito» (LG 13).

Questo quadro ecclesiologico della teologia e della prassi battesimale suppone evidentemente

una situazione diversa da quella in cui si dà la prevalenza quasi totale del pedobattesimo. Il candidato-

tipo a cui si guarda è l’adulto al quale è rivolta la chiamata alla fede. La gestazione della risposta da

parte del chiamato richiede pertanto un vero e proprio itinerario di accompagnamento. Guardando in

questa direzione il concilio ha esplicitamente richiesto il ripristino del catecumenato degli adulti (cf.

SC 64).172 La riforma del rito battesimale (cf. SC 65-70) suppone questo primo passo. «Siano riveduti

ambedue i riti del battesimo degli adulti, sia quello semplice sia quello più solenne, tenendo conto

della restaurazione del catecumenato» (SC 66). Nel caso particolare delle terre di missione si specifica

che, tenuto conto dei criteri relativi all’adattamento dei riti liturgici (cf. SC 37-40), «sia consentito

accogliere, oltre agli elementi che si hanno nella tradizione cristiana, anche quegli elementi di

iniziazione in uso presso ogni popolo...» (SC 65). Queste disposizioni risentono chiaramente di

un’impostazione ecclesiologica aperta al dialogo con le culture secondo lo spirito autenticamente

cattolico e universale della missione evangelizzatrice della Chiesa (cf. AG 14-15).

L’apertura ecumenica fatta propria dal concilio Vaticano II rappresenta un ulteriore fattore di

rinnovamento della teologia del battesimo. Ogni cristiano può infatti ritrovare nel battesimo e nella

fede cristologico- trinitaria ad esso strettamente legata il fondamento comune dell’unità tra tutti i

cristiani e Cristo (cf. LG 15 e UR 22). A partire da questo fondamento i fratelli cristiani separati sono

uniti alla Chiesa cattolica in modo da realizzare con essa «una certa comunione, sebbene imperfetta»

172 Per uno sguardo sintetico sul catecumenato nei documenti conciliari, cf. G. CAVALLOTTO, «Il nuovo rito di iniziazione cristiana

degli adulti: origine, struttura e scelte pastorali», in Iniziazione cristiana e catecumenato, 228-234. Cf. in particolare ibidem, 228-229

dove nella formulazione definitiva di SC 64 si mostra la richiesta del ripristino del catecumenato secondo una prospettiva organica

fatta di istruzione e di riti liturgici.

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(UR 3).173 Per il cristiano cattolico la piena appartenenza alla Chiesa cattolica per mezzo del battesimo

e degli altri vincoli della comunione ecclesiastica (professione di fede, sacramenti, governo

ecclesiastico) non deve dare luogo a una presunzione di sicurezza della propria salvezza se egli «non

perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col “cuore”» (LG 14). Si

può considerare la grazia battesimale come il fondamento sacramentale della comunione ecclesiale

sia sul piano visibile (dalla piena comunione alla comunione imperfetta con la Chiesa cattolica) che

su quello invisibile (la carità, dono soprannaturale infuso da Dio nel battesimo, quale anima di tutta

la vita cristiana). In questa seconda prospettiva la riscoperta della comune dignità battesimale pone

in risalto la presenza di una comunione invisibile (quella che deriva dalla carità), radicata nel

sacramento (il battesimo) e insieme capace di articolarsi e di svilupparsi secondo un movimento

nascosto che solo lo Spirito conosce. Il sacramento mostra qui il suo fine ultimo: introdurre

efficacemente a quella carità che l’eucaristia viene ad alimentare in vista dell’edificazione della

Chiesa quale strumento di salvezza per tutto il genere umano.

Un altro contributo del concilio Vaticano II allo sviluppo della teologia battesimale viene dalla

riscoperta della funzione del laicato cristiano nella vita della Chiesa e nel mondo. Il battesimo,

fondamento della dignità filiale di ogni membro del popolo di Dio, evidenzia nel laico cristiano la

sua radicale e permanente partecipazione alla triplice funzione sacerdotale, profetica e regale di

Cristo. I fedeli laici «dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e,

nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo. per la loro

parte compiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano» (LG 31).

Questa partecipazione è da considerarsi per i fedeli laici come la sorgente della vocazione alla santità

e come la premessa soprannaturale per la santificazione del mondo (cf. AA 6-7).Tutto inizia con la

grazia battesimale e tutto ciò che segue come dinamismo di crescita della maturità laicale non è che

espansione di questo inizio posto da Dio una volta per sempre. La stessa spiritualità del laicato deve

poter attingere da qui la sua peculiare fisionomia sia per l’edificazione della Chiesa che per la

testimonianza nel mondo secondo lo stile di Gesù (cf. LG 33-36). Ed è proprio nella prospettiva

cristologica dei dono di sé per amore che la vita battesimale si illumina fin dal suo sorgere come una

riposta d’amore al Padre per la salvezza del mondo. La vitalità di questa dimensione oblativa è nel

contempo chiaramente radicata nell’azione dello Spirito il quale nel battesimo configura a Cristo

sacerdote-profeta-re tutta la realtà personale del battezzato (cf. AA 3).

I. 'essere costituiti figli nel Figlio comporta per il fedele laico questa profonda trasformazione

che lo chiama per tutta la vita a rispondere, con l'aiuto della grazia, alle esigenze della conversione al

vangelo.

II.

L’insieme di queste prospettive teologiche (ecclesiologica, liturgica, ecumenica, cristologica)

rappresenta certamente sul piano teorico una visione profondamente rinnovata della realtà del

battesimo anche se sul piano della prassi si deve misurare, specialmente nei paesi di antica tradizione

cristiana, con un soggetto battezzato nella gran maggior parte dei casi da bambino/neonato. In questo

orizzonte il catecumenato e l’iniziazione cristiana sono più un rito straordinario per una minoranza di

persone che da adulte accolgono la chiamata alla fede cristiana che una realtà viva di cui si è fatta

realmente esperienza. La mente del concilio risente di questa discrasia tra teologia e pastorale quando

da una parte propone il ripristino del catecumenato pensando soprattutto alle terre di missione e

dall’altra rielabora con rinnovata freschezza una teologia battesimale che nell’ambito delle Chiese di

antica tradizione cristiana ha come destinatario un cristianesimo più convenzionale o sociologico che

«convinzionale» e veramente iniziatico. In questo secondo contesto la consapevolezza

dell’appartenenza a Cristo e alla Chiesa non dipende da un’opzione, da una scelta, da un dinamismo

di conversione previo all’evento sacramentale. Questo sembra giustificarsi più sul piano dell’inte-

grazione sociale che su quello del discepolato, più su un piano genericamente religioso e sacrale che

su quello di incontro con la novità cristiana. Il paradosso inscritto nel battesimo come evento 173 II testo precisa che tale vincolo sussiste là dove vi è la fede in Cristo unita al battesimo «ricevuto debitamente» (UR 3).

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iniziatico, fondativo dell’etere cristiano, si stempera in un ossequio alla tradizione cristiana come

tradizione religiosa prevalente. La società multietnica e fortemente segnata dal pluralismo culturale e

religioso pone tuttavia fortemente in discussione questo tipo di iniziazione incentrata sul

pedobattesimo. Non è in causa il valore teologico del battesimo dei bambini quanto il modello socio-

culturale nel quale esso di fatto è venuto a essere contestualizzato. Non a caso al cristiano adulto (da

un punto di vista anagrafico) sfuggono quasi completamente le linee portanti della sua dignità

battesimale. Sul piano pastorale la gran parte della sfida della nuova evangelizzazione si colloca

proprio sul fronte della «coscientizzazione» negli adulti (e nei giovani) di questa radice battesimale

trascurata e quasi dimenticata. Il cristiano battezzato da bambino sembra essere come impegnato a

vivere una paradossale gestazione dopo il parto, dopo l’essere stati rigenerati per rìtus et preces nel

grembo della Chiesa. In questa direzione si è venuto costruendo l’itinerario catechistico e di

completamento dell’iniziazione cristiana (confermazione, prima comunione) dai sette anni alla prima

adolescenza, anche se in tale itinerario proprio il battesimo non è avvertito in tutta la sua rilevanza

iniziatica.

1.2. La TEOLOGIA E LA PRASSI BATTESIMALE ALLA LUCE DEI NUOVI RITUALI

Questo stato di cose sembra essere messo completamente in discussione non solo dalla ripresa

del catecumenato in Europa ma, a partire dal 1972, dalla pubblicazione ufficiale, approvata da Paolo

VI, della editio typica del nuovo Ordo initiationis christianae adultorum (OICA).174

Era la concreta ed efficace risposta alla volontà conciliare di ripristinare il catecumenato degli

adulti. Di fatto questo nuovo Ordo assume una rilevanza pastorale di primaria importanza. In primo

luogo con esso viene proposto autorevolmente per il nostro tempo il cammino da seguire per formare

i nuovi credenti, soprattutto adulti, e accompagnarli alla rinascita battesimale. Più in generale il nuovo

Ordo sollecita le chiese a coraggiose scelte pastorali: una rinnovata presa di coscienza della vocazione

missionaria delle comunità e dei singoli cristiani, il primato dell’evangelizzazione, la responsabilità

di tutta la comunità ecclesiale nella trasmissione della Parola e nell’educazione alla fede, un legame

vitale fra catechesi e liturgia, la priorità formativa degli adulti.175

Scorrendo i paragrafi della Introduzione al RICA (i Praenotanda dell’OICA) si arriva, dopo il

capitolo primo dedicato alla «Struttura dell’iniziazione degli adulti» (cf. 4-40), al capitolo secondo

riguardante i «Ministeri e uffici» (cf. 41-48) nel quale si ha una chiara visione della nuova prospettiva

ecclesiologica e sacramentale che alla luce del concilio innerva la complessa articolazione

dell’iniziazione cristiana.176 L’insieme dei ministeri chiamati in causa nel cammino catecumenale

verso l’iniziazione cristiana - il garante, il padrino, il vescovo, i sacerdoti, i diaconi, i catechisti -

emerge dalla realtà concreta della Chiesa particolare colta nel suo dinamismo di mediazione salvifica

e nell’esercizio della sua funzione materna (cf. 41).

Oltre a quanto è stato detto nell’introduzione generale (n. 7), il popolo di Dio, rappresentato

dalla Chiesa locale, dev’esser sempre convinto e deve mostrare concretamente che l’iniziazione degli

adulti è compito suo e impegno di tutti i battezzati. Rispondendo alla sua vocazione apostolica, mostri 174 Per una breve storia della sua preparazione e del risveglio del catecumenato nel periodo preconciliare, cf. CAVALLOTTO, «Il nuovo

rito di iniziazione cristiana degli adulti», 223-228.234-235. La traduzione ufficiale in lingua italiana d&ÌVOlCA è del 30 gennaio 1978:

Rito della iniziazione cristiana degli adulti (RICA), obbligatorio dal 4 marzo 1979. Nell’edizione italiana il rito è preceduto dal testo

delle due introduzioni de\V editio typica (Praenotanda generalia, nn. 1-35; Praenotanda, nn. 1-67) tradotte in italiano (Introduzione

generale, Introduzione), alle quali è premessa una presentazione della CEI con il titolo di «Premesse». Per il battesimo dei bambini,

la nuova editio typica dell’Ordo baptismi parvulorum (OBP) è stata promulgata il 15 maggio 1969 (il 29 agosto del 1973 è stata

promulgata una seconda edizione tipica con alcune variazioni e aggiunte rispetto alla precedente), la traduzione italiana, Rito del

battesimo dei bambini (RBB), è del 1970. Per una presentazione dei due nuovi libri rituali cf: NOCENT, «Battesimo» in Nuovo

Dizionario di liturgia, 148-156; ROCCHETTA, «Fare» i cristiani oggi, 57ss. 175 CAVALLOTTO, «Il nuovo rito di iniziazione cristiana degli adulti», 223. 176 I restanti capitoli della Introduzione trattano: il terzo del «Tempo e luogo della iniziazione»,

il quarto degli «Adattamenti di competenza delle conferenze episcopali», il quinto delle «Competenze del Vescovo», il sesto degli

«Adattamenti che competono al ministro».

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dunque sempre la massima disponibilità a prestare aiuto a coloro che ricercano Cristo (41).

Questa impostazione è rilevante anche per il battesimo dei bambini (cf. Introduzione generale,

7) e trova esplicitazione in quelle disposizioni del rito che favoriscono la partecipazione di tutta la

comunità ecclesiale all’evento battesimale. Esso non coinvolge solo la famiglia del neonato

battezzando ma porta in luce, liturgicamente (scelta del tempo, del luogo...) e dunque

sacramentalmente, i legami ecclesiali di quella determinata porzione del popolo di Dio. «Per quanto

è possibile, tutti i bambini nati entro un dato periodo di tempo siano battezzati nello stesso giorno con

una sola celebrazione comune. Non si celebri due volte il sacramento nella medesima chiesa e nello

stesso giorno, se non per giusta causa» (27). Con il battesimo ha luogo una ri-generazione e con essa

una nuova appartenenza che accoglie, purifica ed eleva ogni altro legame di tipo naturale-culturale. I

vincoli di sangue, parentali, socio-culturali fanno spazio a quel nuovo vincolo, a quel nuovo patto di

alleanza nel quale il bambino è inserito attraverso la fede dei genitori, dei padrini e più ampiamente

della Chiesa. Questa disposizione non è che l’attuazione di quanto affermato più sopra in linea di

principio:

Ed è bene che nella celebrazione del Battesimo il popolo di Dio, rappresentato non solo dai

genitori, padrini e congiunti, ma possibilmente anche da amici, conoscenti, vicini di casa e membri

della comunità locale, prenda parte attiva al rito: in tal modo si manifesta visibilmente la fede e la

gioia con la quale tutti accolgono i neobattezzati nella Chiesa (7; anche il RBB nelle Premesse pone

nel debito rilievo questo aspetto ecclesiale, cf. 4.10).177

La dimensione orizzontale dell’inserimento del battezzato nella vita della comunità ecclesiale

non può essere solo affermata a livello teorico come uno tra gli effetti del sacramento del battesimo.

Essa, attraverso l’attuazione liturgica, riceve la sua peculiare fisionomia di aggre-

gazione/incorporazione alla Chiesa locale, presieduta dal vescovo. L’inserimento nel popolo di Dio

della nuova alleanza manifesta così la sua visibilità sacramentale. Troppo spesso questo vincolo di

comunione visibile è stato come relativizzato dalla preminenza di altri effetti soprannaturali (la

remissione del peccato, originale e personale, l’adozione filiale...), quasi che il neobattezzato possa

concepire il sorgere del vincolo ecclesiale come secondario o addirittura accidentale. In realtà il regi-

stro sacramentale predisposto dal dispositivo liturgico del RICA non consente questa

separazione/subordinazione: ogni passo del catecumeno è personale ed ecclesiale al contempo, così

anche per il neobattezzato. La grazia battesimale è radicalmente in antitesi con una concezione indi-

vidualistica dell’esistenza cristiana: essa è filiale (l’adozione) ed ecclesiale (la comunione fraterna)

al contempo. Se si segue il cammino della formazione del catecumeno, secondo i gradi previsti dal

RICA, tale intreccio balza in evidenza con particolare chiarezza. Il dono della vita nuova in Cristo

incontra la fede del catecumeno sempre nella mediazione viva, seppure storicamente imperfetta, di

una comunità ecclesiale e reciprocamente la domanda del battesimo da parte del catecumeno suscita

nella comunità ecclesiale la manifestazione effettiva della sua intima vocazione missionaria. È per

questo che VOrdo dell’iniziazione cristiana degli adulti rappresenta non solo un rito sacramentale tra

gli altri ma acquista valore di forma tipica per la formazione cristiana. Così si è espressa la CEI nella

premessa all’edizione ufficiale in lingua italiana: «È importante quindi richiamare l’attenzione sul

fatto che l’itinerario, graduale e progressivo, di evangelizzazione, iniziazione, catechesi e mistagogia

è presentato àdlVOrdo con valore di forma tipica per la formazione cristiana» (RICA, p. 12). L’evento

battesimale, situato nel più ampio contesto dell’iniziazione cristiana, diviene evento emblematico e

paradigmatico della struttura essenziale della vita cristiana. Esso è iniziazione alla dignità filiale nella

fraternità ecclesiale, per mezzo di essa e in vista di essa. Non basta dirlo ma liturgicamente - lex orandi

- si deve agire così.

177 Cf. Premesse al Rito del battesimo dei bambini, 12-13 ove la possibilità del battesimo in case private è limitata al pericolo di

morte e la stessa possibilità nelle cliniche è ristretta ai casi di necessità o ad altra ragione pastorale «davvero impellente». Di norma la

celebrazione deve avere luogo «nella chiesa parrocchiale», 10.

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In questa luce ecclesiale lo stesso segno sacramentale viene a dilatarsi dal rito essenziale

dell’abluzione con l’acqua unita alla formula trinitaria a tutto l’insieme dei riti pre e postbattesimali.

«La celebrazione del Battesimo, il cui momento culminante è l’abluzione con l’acqua unita

all’invocazione della Ss. Trinità, è preparata con la benedizione dell’acqua e con la professione di

fede, che sono strettamente collegate con il rito dell’acqua» (RICA 28; cf. 23). Anche il luogo della

celebrazione, il battistero o un altro ambiente in cui è collocato il fonte battesimale (cf. RICA 25),

deve rispondere a una precisa funzionalità che ribadisce nuovamente la natura ecclesiale del

battesimo. «Il fonte battesimale può essere collocato in una cappella, situata in chiesa o fuori di essa,

o anche in altra parte della chiesa visibile ai fedeli; in ogni caso dev’essere disposto in modo da

consentire la partecipazione comunitaria» (RICA 25). Tale indicazione rituale non suona come un

suggerimento ma come un dovere («dev’essere»): è in gioco nuovamente la partecipazione della

comunità di fede. Per non parlare infine del tempo liturgico raccomandato per la celebrazione del

battesimo, unitamente agli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana (confermazione, eucaristia),

rappresentato dalla veglia pasquale (cf. RICA 8.49.55) o eventualmente dalla domenica (cf. 59).

Tempi, luoghi e riti congiurano tutti verso la manifestazione dell’incontro tra il battezzando e la

comunità ecclesiale. È questa la situazione ordinaria prevista dal nuovo rito.

La definizione del battesimo offerta dal RICA acquisisce in questo orizzonte una sua più piena

intellegibilità: «Per mezzo del Battesimo, essi [gli uomini], ottenuta la remissione di tutti i peccati,

liberati dal potere delle tenebre sono trasferiti allo stato di figli adottivi; rinascendo dall’acqua e dallo

Spirito Santo diventano nuova creatura: per questo vengono chiamati e sono realmente figli di Dio.

Così, incorporati a Cristo, sono costituiti in popolo di Dio» (2).

La grazia battesimale viene a realizzare nel neobattezzato una novità che si opera

irrevocabilmente e indelebilmente sul piano ontologico: si tratta del carattere. È il sigillo della

profonda appartenenza del neofita alla condizione soprannaturale di «figlio nel Figlio» (l’adozione

filiale). Tale modificazione ontologica per sua natura invisibile è legata a un segno visibile. Nella

tradizione teologica della Chiesa cattolica il carattere è infatti sinteticamente descritto come «segno

distintivo spirituale che non si cancella mai».178 Rimane da precisare quale sia il segno che sul piano

della celebrazione sacramentale significa questa nuova condizione ontologica. Partendo dal quadro

dell’iniziazione cristiana proposto dal RICA, si deve tenere presente che il neobattezzato riceve la

confermazione subito dopo il battesimo. In questo caso l’unzione crismale non si colloca tra i riti

postbattesimali (cf. RICA 224) ma propriamente nell’ambito della celebrazione della confermazione

(cf. 227-231). Il carattere battesimale non può dunque essere significato da un gesto liturgico (l’un-

zione crismale) relativo al sacramento della confermazione. Tale gesto viene infatti a significare in

questo contesto la particolare specificazione del carattere battesimale tipica della confermazione.

Nella formula della confermazione si fa chiaro riferimento al tema del carattere attraverso l’immagine

biblico-patristica del «sigillo» (cf. 231). Nel caso in cui la celebrazione della confermazione sia

invece celebrata separatamente dal battesimo è prevista una unzione postbattesimale con il crisma

(sul capo di ogni battezzato, cf. 224) da farsi subito dopo il battesimo (come nel caso più ricorrente

del battesimo dei neonati, cf. RBB 71.118; il gesto si omette quando ricorre il pericolo di morte, cf.

132-133; il gesto è invece previsto nel caso del rito di accoglienza in Chiesa di un bambino già

battezzato, cf. 143). Nell’orazione che precede tale unzione si dice: «Dio onnipotente, Padre del

Signore Gesù Cristo, vi ha fatto rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo e vi ha dato il perdono di

tutti i peccati unendovi al suo popolo; egli stesso vi consacra con il crisma di salvezza, perché inseriti

in Cristo, sacerdote, re e profeta, siate membra del suo corpo per la vita eterna» (224). Il lavacro

battesimale richiede dunque questo segno dell’unzione postbattesimale con il crisma per esplicitare

il conferimento del carattere? Se fosse così, in assenza di questo gesto come nel caso dell’immediata

celebrazione della confermazione, verrebbe meno il segno sacramentale che significa quanto è

specificamente relativo al carattere battesimale. Sembra più corretto pensare che l’unzione

postbattesimale con il crisma rappresenti ritualmente (il segno) la tensione dell’evento battesimale 178 Cf. E. RUFFÌNI, Il battesimo nello Spirito. Battesimo e confermazione nell’iniziazione cristiana, Marietti, Torino 1975,336.

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verso il suo completamento nella confermazione. Che le cose stiano così risulta dairomissione di tale

gesto nel caso della confermazione dopo il battesimo. Rimane dunque da considerare lo stesso lavacro

(mediante abluzione per infusione o immersione) come segno sintetico in grado di significare anche

il conferimento del carattere battesimale (la cosa è evidente nel caso del battesimo di un bambino in

pericolo di morte ove il gesto viene omesso, cf. RBB 132-133). In realtà mediante il lavacro si è già

configurata l’appartenenza irrevocabile a Cristo e alla Chiesa. Ed è proprio nella direzione di questo

vincolo nuovo operato dalla grazia battesimale che va cercato il significato specifico del carattere

battesimale. Esso costituisce, riprendendo la terminologia della scolastica, la res et sacramentum

dell’evento battesimale: questa realtà intermedia tra l’effetto ultimo e invisibile del battesimo (res) e

il segno sacramentale (sacramentum tantum) non può che essere l’appartenenza alla Chiesa.179 Questa

è infatti realtà visibile (il sorgere del vincolo della fraternità ecclesiale) tutta protesa verso il

compimento escatologico non ancora pienamente visibile (la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo

nella piena manifestazione escatologica della gloria dei figli di Dio). Ai neofiti prima della

confermazione il celebrante è invitato a rivolgersi con le seguenti parole: «Carissimi neofiti, che nel

Battesimo siete rinati alla vita di figli di Dio e siete diventati membra del Cristo e del suo popolo

sacerdotale [il corsivo è mio], vi resta ora di ricevere il dono dello Spirito Santo,...» (RICA 229). La

specificazione del riferimento ecclesiale nella direzione del «popolo sacerdotale» offre

un’indicazione importante per cogliere il senso peculiare del carattere battesimale come appartenen-

za/consacrazione.180 Su questo torna anche l’eucologia dell’unzione postbattesimale mentre

l’eucologia della confermazione ne approfondisce il risvolto pneumatologico (230).

Tuttavia nell’Introduzione generale al RICA il nesso tra il battesimo e il carattere battesimale

(legato al tema del sacerdozio comune) viene esplicitato in stretta connessione con il segno

dell’unzione postbattesimale e non del lavacro. «Il Battesimo è il sacramento che incorpora gli uomini

alla Chiesa, li edifica come abitazione di Dio nello Spirito, li rende regale sacerdozio e popolo santo,

ed è vincolo sacramentale di unità fra tutti quelli che lo ricevono. Il Battesimo produce un effetto

permanente e definitivo, che nella liturgia latina è posto in rilievo nel momento in cui

i battezzati, alla presenza del popolo di Dio, ricevono l’unzione del crisma [il corsivo è

mio]» (4). Tale riferimento a\Veffetto permanente e definitivo, chiara allusione al tema del carattere,

si lascia dunque leggere, anche alla luce dell’orazione che precede l’unzione postbattesimale (cf.

224), come strettamente relativo a un segno in cui si evidenzia l’attuazione di una consacrazione.

Questa riceve la sua intellegibilità da tutto il retroterra biblico legato all’unzione messianica e alla

sua triplice configurazione (regale, sacerdotale, profetica). L’unzione con il crisma di salvezza realiz-

za una realtà che è al contempo cristologica ed ecclesiologica: l’inserimento in Cristo sacerdote, re e

profeta come fondamento della permanente appartenenza ecclesiale. Il testo latino dell’edizione tipica

esprime questo rapporto in modo efficace: «... ut, eius aggregati populo, Christi sacerdotis, prophetae

et regis membra permaneatis in vitam aeternam» (OICA 224; cf. OBP 62.98). La traduzione ufficiale

in lingua italiana scioglie il testo latino mostrando che Dio Padre consacra con il crisma di salvezza

«perché [il corsivo è mio] inseriti in Cristo, sacerdote, re e profeta, siate sempre membra del suo

corpo» (RICA 224). Tale effetto permanente, rimanere inseparabilmente inseriti in Cristo e aggregati

al suo popolo, risulta dunque significato dal gesto dell’unzione postbattesimale. Tenendo conto che

la consacrazione designa tutte e tre le dimensioni, sacerdotale/regale/profetica, e non si limita a una

sola di esse (quella sacerdotale), la comprensione del carattere battesimale va letta non limitatamente

a una di esse (l’essere deputati al culto religioso cristiano, cf. CCC 1273), ma all’insieme delle tre

così come si danno in Cristo quale capo del corpo che è la Chiesa (il culto a cui si è abilitati a partire

dal sigillo battesimale va dalla celebrazione liturgica alla testimonianza della vita come esercizio del

sacerdozio battesimale, cf. ibidem). Come si vede chiaramente, la lettura attenta dei dati offerti dal

rituale, tanto nelle premesse come nel rito, unita alla specificazione offerta dal CCC (cf. 1272- 1274),

converge nel porre debitamente in rilievo i seguenti aspetti: lo stretto nesso tra l’inserimento in Cristo

179 Cf. RUFFINI, Il battesimo nello Spirito, 335-338. 180 Cf. CCC1273, ove si sottolinea il rapporto tra il carattere battesimale e la dimensione sacerdotale/cultuale.

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e l’appartenenza alla Chiesa, la permanenza di questo duplice e unico legame, la visibilizzazione

rituale di questo legame mediante il segno che più efficacemente significa una consacrazione

(l’unzione), le conseguenze esistenziali che tale sigillo/consacrazione comporta nella vita del

battezzato (la triplice funzione sacerdotale, regale e profetica nell’edificazione della Chiesa, nell’unità

con tutti i battezzati, nella santità della vita).

Da un punto di vista rituale sembra dunque si possa concludere che il carattere battesimale,

con tutto ciò che esso implica nella sua specificità rispetto al perfezionamento dello stesso carattere

operato nel sacramento della confermazione (cf. CCC 1304-1305), sia significato dall’unzione

postbattesimale nel caso della celebrazione separata della confermazione (come nel caso ricorrente

del battesimo dei neonati) e dallo stesso lavacro nel caso della celebrazione unitaria di battesimo e

confermazione (come previsto dal RICA 208-234). A questa seconda conclusione sembra condurre il

fatto che il lavacro, meno espressivo dell’unzione in ordine al significato della consacrazione, essendo

segno dell’inserimento in Cristo e dell’appartenenza alla Chiesa rimane del tutto idoneo a significare

anche l’irrevocabilità e la permanenza di tale sigillo/vincolo: il carattere battesimale trova qui la sua

peculiare esplicitazione. Sia in un caso come nell’altro (mediante il lavacro seguito dalla

confermazione oppure dalla sola unzione crismale postbattesimale) è dal segno visibile

deli’appartenenza alla Chiesa che si attesta efficacemente l’irrevocabile inserimento in Cristo: è

attraverso questa aggregazione visibile (la fraternità ecclesiale) che si manifesta l’inizio di una novità

invisibile (l’essere costituiti figli nel Figlio morto e risorto). La distinzione interna al carattere

battesimale va vista eventualmente nella considerazione da una parte dell’inserimento in Cristo,

connotato dall’irrevocabihtà/definitività, e dall’altra della appartenenza/aggregazione alla Chiesa,

connotata dalla permanenza (cf. CCC 1272-1273). La prima appare più relativa al piano ontologico,

la seconda più a quello storico: «... inseriti in Cristo, [...] siate sempre membra del suo corpo» (RICA

224). Nella prima è inclusa la seconda, nella seconda è in gioco la prima (nell’editio typica: «... eius

aggregati populo, Christi sacerdotis, prophetae et regis membra perma- neatis», OICA, 224)! Anche

il catecumeno è istruito a desiderare il battesimo come l’accadere di questa unica grazia, eristica ed

ecclesiale al contempo.181

Questa rilettura cristico/ecclesiale del carattere battesimale riprende una pista di riflessione

già percorsa dalla riflessione teologico-sacra- mentaria contemporanea. Nel saggio sul battesimo e la

confermazione il teologo E. Ruffini accostando questa tematica valorizza la dimensione di segno

visibile implicita nella «definizione diventata comunissima e che parla del carattere come di un

“segno distintivo spirituale che non si cancella mai”». Il carattere non può a suo avviso essere inteso

come uno degli effetti del battesimo «nell’ambito della pura spiritualità invisibile; ambito nel quale

erano fatti rientrare tutti i doni di giustificazione soprannaturale». Esso deve essere ricompreso nella

luce del fatto sacramentale individuando la natura specifica di segno che lo attesta sul piano visibile.

«Sembra quindi del tutto opportuna la prospettiva della teologia contemporanea che intende affermare

la indelebilità e la funzione significativa (il suo essere segno) del carattere, partendo dalla sua

visibilità».

Si tratta di riprendere una linea di riflessione già inaugurata nel contesto della riflessione

patristica «nella quale la dottrina del carattere ha trovato la sua prima elaborazione teologica». Il

riferimento principale è la dottrina elaborata da sant’Agostino per il quale «è il battesimo stesso - non

certo come rito - ma come primo e fondamentale evento di salvezza, che costituisce un contrassegno

indelebile e visibile».182 Nelle riflessioni proposte più sopra si è voluto in realtà sviluppare la

riflessione sul carattere (conferito nel battesimo) considerando più da vicino la stessa sequenza

rituale, sollecitati in questa direzione dalle stesse indicazioni teologico- liturgiche dei prenotanda e

181 Sul tema della Ecclesia Mater, cf. H. DE LUBAC, Meditazioni sulla Chiesa, Jaca Book, Milano 1979,161-192. «Ogni vero cattolico

proclama, con san Cipriano e sant’Agostino: “Non può avere Dio per Padre, colui che non ha la Chiesa per madre”», in ibidem 183

(riferimenti a testi patristici in ibidem, note 104.105). 182 Ruffini, Il battesimo nello Spirito, 336.

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dall’eucologia. È in gioco il principio della fedeltà all’economia sacramentale nel suo concreto

attuarsi liturgico- rituale. In questa prospettiva risulta essere ancora più coerente l’assunzione del

rapporto tra carattere battesimale e segno visibile. È in questa prospettiva che, a nostro avviso, trovano

più completa e convincente giustificazione alcune conclusioni a cui perviene il Ruffini.

Il gesto salvifico divino che si realizza nel battesimo e che inserisce l’individuo nella storia e

nella comunità di salvezza, è un gesto che, per quanto dipende da Dio, è di sua natura irrevocabile.

D’altra parte l’irrevocabilità dell’azione salvifica divina è significata all’individuo che ne è raggiunto

e agli altri uomini mediante l’aggregazione del battezzato alla comunità e alla storia di salvezza, che

sono realtà visibili. L’evento salvifico che fa dell’uomo un battezzato, lo pone in una relazione

perenne con la Chiesa (ne fa per natura un suo membro, un cittadino del Popolo di Dio) e fa di questa

relazione un dato del tutto visibile. Quand’anche il battezzato rinnegasse il suo battesimo e cessasse

di vivere visibilmente la sua esistenza cristiana ed ecclesiale, resterà sempre, per nascita

soprannaturale, un cittadino del Popolo di Dio. Nella misura in cui il battezzato dice relazione alla

Chiesa è un contrassegnato e, nella misura in cui il battesimo stabilisce una prima relazione con la

Chiesa, suscettibile di altre più profonde e più specifiche relazioni, fa di quello battesimale un

carattere aperto ad altre caratterizzazioni capaci di esprimere in forma visibile l’organicità strutturale

della Chiesa. [...] Facendo del carattere una relazione visibile con la Chiesa, la teologia non sottrae

nulla all’oggettività e alla soprannaturalità di questo particolare effetto del battesimo e, in compenso,

abbandona quelle descrizioni eccessivamente misticizzanti che si adattano male ad una realtà che, pur

appartenendo ad un mondo soprannaturale, deve anche essere tanto incarnata da poter essere un

segno.183

Il battesimo, nell’insieme dell’iniziazione cristiana così come prospettata dal RICA, non

appare più come fatto isolato regolato nel quadro della prassi socio-religiosa della socìetas christiana

ma mostra tutto il suo intrinseco dinamismo ecclesiale. Come osserva il teologo Rocchetta, «una delle

indicazioni essenziali del RICA consiste nell’aver sottratto i sacramenti dell’iniziazione cristiana

dall’isolamento entro cui sono abitualmente collocati, per affermare la profonda unità esistente tra

comunità cristiana e itinerario di iniziazione».184

La performance rituale tipica e dunque più idonea a esprimere sia la specificità come la

profonda unità tra il sacramento del battesimo e quello della confermazione (e dell’eucaristia) è

certamente quella prevista dal OICA/RICA. La mancanza dell’unità celebrativa dei sacramenti

dell’iniziazione cristiana (e dunque anche dell’eucaristia) è invece il dato ricorrente nel caso del

battesimo dei bambini. La teologia è qui chiamata a raccordare a posteriori quanto sul piano liturgico

si è venuto di fatto separando (come nel caso della teologia del carattere). Nella prassi pastorale

attuale delle Chiese in Italia la situazione si complica ulteriormente per la modificazione della stessa

sequenza dei sacramenti dell’iniziazione cristiana: al battesimo del neonato segue con l’età della

discrezione (sette/otto anni) la prima comunione (preceduta dalla prima confessione) e verso l'età

della preadolescenza (dodici/tredici anni) la confermazione.185 La prassi liturgica della Chiesa

ortodossa ha mantenuto invece nel pedobattesimo la stessa unità e sequenza celebrativa prevista per

l’iniziazione cristiana degli adulti, rimanendo così ancorata alla prassi liturgica della Chiesa antica

dei primi secoli e alla comprensione teologica del senso proprio dei sacramenti dell’iniziazione

cristiana, considerati sia singolarmente sia nel loro insieme unitario, a partire dall’evento liturgico.

Una volta riportata in luce l’esigenza dell’unità celebrativa e della debita sequenza dei

sacramenti dell’iniziazione cristiana rimane del tutto aperto l’altro compito segnalato da Rocchetta

come indicazione essenziale del RICA: la profonda unità tra l’itinerario d’iniziazione cristiana e la

comunità cristiana. Quando anche nelle Chiese di antica tradizione cristiana, nelle quali il

pedobattesimo è la prassi prevalente (spesso quasi esclusiva), si viene a presentare la domanda del 183 Ruffini, Il battesimo nello Spirito, 336-337. 184 Rocchetta, «Fare» i cristiani oggi, 100. 185 La recente nota pastorale, L’iniziazione cristiana. 2. Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni

(21 maggio 1999), del Consiglio episcopale permanente della CEI, nilre anche per i fanciulli e i ragazzi un percorso di tipo

catecumenale, cf. nota pastorale, c. II.

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battesimo da parte di uno o più adulti (o anche di fanciulli), la strada da prendere è quella del-

OICA.186 È questa un’occasione propizia per un vero cambiamento di mentalità e di stile pastorale. È

proprio a partire dalla proposta di itinerari catecumenali e infine dalla stessa celebrazione liturgica

dei sacramenti dell’iniziazione cristiana che la Chiesa locale viene a essere interpellata nel suo

insieme a una riscoperta della sua nativa funzione materna articolata nel suo molteplice impianto

ministeriale. In questo nuovo contesto anche la stessa teologia del battesimo potrebbe conoscere una

più adeguata riformulazione in almeno tre direzioni: quella teologico- sacramentale (la partecipazione

al mistero pasquale di Cristo; il rapporto dinamico con gli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana),

quella ecclesiologica (l’appartenenza al popolo di Dio; l’esercizio della funzione

profetica/sacerdotale/regale; il carattere battesimale), quella pneumato- logica (il rapporto tra la

grazia battesimale e la spiritualità di comunione quale esplicitazione dell’essere edificati nello Spirito

come abitazione di Dio, cf. RICA, Introduzione generale, 4). Il modello di Chiesa che può derivare

da questa nuova impostazione della teologia battesimale non è certamente di tipo sociologico, esso

appare fortemente radicato nel mistero pasquale come espressione distintiva del paradosso cristiano.

Il rinnovamento della prassi liturgica e della forma ecclesiale indotto dal RICA è ancora ai suoi inizi,

solo un suo più radicato e convinto consolidamento potrà permettere di delineare la figura di

battezzato che ne potrà risultare. Sembra tuttavia che il cosiddetto cristianesimo di massa debba

cedere il passo non tanto a un cristianesimo esclusivo di tipo elitario (e tanto meno settario) quanto a

un cristianesimo dove prende nuovamente rilievo l’essere fermento nella pasta, lievito nella storia. Il

tratto escatologico-profetico come un essere nel mondo ma non del mondo, stando alla visione del

battesimo che emerge dal RICA (e fatte le dovute differenze anche dal RBB), appartiene genuinamente

all’esordio battesimale e non può essere declinato solo come un elemento peculiare di un determinato

stato di vita nella Chiesa (la vita religiosa).

Va detto a questo punto che un tale nuovo impianto liturgico/ecclesiale dei sacramenti

dell’iniziazione cristiana e nella fattispecie del battesimo comporta una nuova considerazione del

compito dell’evangelizzazione e della dinamica della fede in essa operante. Il battesimo, denominato

per antica tradizione sacramentum fidei (sacramento della fede), non può che essere l’esito

sacramentale di un percorso di evangelizzazione che lo ha preceduto. Così inteso l’evento

sacramentale «lungi dal “sovrapporsi” alla fede in maniera estrinseca, rappresenta la modalità

attraverso cui la fede giunge a essere compiutamente se stessa».187 Il fatto che mediante il battesimo

(unito alla confermazione e all’eucaristia battesimale) si viene iniziati alla fede non significa dunque

un passaggio da un prima «del sacramento» a un poi «della fede» quanto il compimento di un

cammino di fede già iniziato e ancora destinato a svilupparsi fino alla piena maturità. In tale

prospettiva si deve riconoscere al sacramento, per la sua tipicità di azione efficace di salvezza da parte

della Trinità nella e mediante la Chiesa (ex opere operato), e al battesimo in particolare, la posizione

di vero e proprio evento di passaggio da un prima a un dopo della stessa dinamica della fede. «I

sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo di Cristo, e infine

a rendere culto a Dio; in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non solo suppongono

la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobusticono e la esprimono; perciò

vengono chiamati sacramenti della fede» (SC 59).

Seguendo l’itinerario catecumenale previsto dal RICA si può notare come ai candidati al

catecumenato in occasione del rito di ammissione si domanda prima il nome e poi il celebrante chiede:

«Che cosa domandi alla Chiesa di Dio?». Il rito, pur lasciando libertà nel modulare sia l’in-

terrogazione che la risposta in vari modi, prevede un esempio tipico di dialogo nel quale il candidato

risponde all’interrogazione dicendo: «La fede» (RICA 75; cf. anche RBB 37). Alla domanda

successiva: «E la fede che cosa ti dona?», egli nuovamente risponde: «La vita eterna». Il dono 186 Si veda la nota pastorale precedente: L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti (30 marzo 1997).

Per i testi delle note pastorali, cf. Ufficio Catechistico Nazionale - Servizio nazionale per il catecumenato (edd.), L’iniziazione

cristiana. Documenti e orientamenti della Conferenza Episcopale Italiana, ElleDiCi, Leumann (TO) 2004. 187 P. CASPANI, «LO sviluppo dei trattati: dal “De sacramento baptismi” alla “iniziazione cristiana”», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA

ITALIANA, Il sacramento della fede, 113.

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escatologico della grazia battesimale, come appartenenza al popolo dei salvati nella partecipazione

alla dignità filiale di Gesù morto e risorto, appare come realtà donata e richiesta allo stesso tempo.

Essa è ancora desiderata - siamo all’inizio del percorso catecumenale - e in tale desiderio la Chiesa

riconosce il germe della risposta all’iniziativa gratuita di Dio Padre che mediante il suo Spirito muove

il cuore dell’uomo verso la conversione. Prima del rito di ammissione, come anche prima dei due

gradi successivi (il rito di elezione, cf. RICA 133ss; la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione,

cf. 208ss), tale fede viene vagliata per discernere e affinare i veri motivi della conversione (cf. RICA

69). L’impulso divino della conversione va riconosciuto come tale: l’attestazione del precatecumeno

deve completarsi con l’intervento autorevole della Chiesa (il rito di ammissione al catecumenato).

La fede nel suo tipico dinamismo di chiamata (ex parte Dei) e risposta (exparte hominis) non

è che l’attuarsi qui ed ora nella storia di un individuo storicamente situato e determinato del colloquio

di salvezza che Dio Padre per mezzo del Figlio nello Spirito, gratuitamente, instaura (cf. DV 2). La

celebrazione del battesimo si colloca nell’alveo di questa relazione di dialogo tra l’uomo e Dio (la

fede come atto globale di adesione al Dio di Gesù Cristo). La tessitura di questa trama chiama in

causa la Chiesa ed è in essa che il catecumeno viene istruito nella fede cristiana (la fede nella sua

esplicitazione dottrinale sia dogmatica che morale) fino alla professione di fede che precede il lavacro

battesimale (cf. RICA 219).

In questa prospettiva il catecumenato trova la propria genuina fisionomia: esso non si

configura come ciò che «produce» l’iniziazione, con la conseguenza di ridurre i sacramenti a

momento di «ratifica» di una mèta raggiunta percorrendo tutte le tappe di un certo apprendistato.

L’itinerario catecumenale mira invece a far sì che il credente si disponga a essere iniziato - «fatto

cristiano» - attraverso un atto gratuito di Dio, attraverso l’azione rituale della Chiesa che celebra. [...]

In questa linea, non è fuori luogo considerare il catecumenato come il «dispiegamento cronologico

dell’azione battesimale», mentre i gesti rituali che lo ritmano si possono definire «tappe del

battesimo».188

Nel battesimo i diversi aspetti del dinamismo della fede trovano una loro peculiare

cristallizzazione che configura, per grazia (l’efficacia sacramentale), la novità irrevocabile

dell’inserimento in Cristo e dell’incorporazione al suo corpo che è la Chiesa. L’iniziativa salvifica di

Dio perviene nella celebrazione del battesimo (nell’hodie della celebrazione liturgi- co-sacramentale)

&W inizio del compimento della sua originaria intenzionalità: che tutti siano una cosa sola in Gesù,

unico salvatore del mondo (cf. RICA 76.146.213).

Da un punto di vista teologico questa considerazione della interrelazione tra fede e battesimo

pone nuovamente in luce alcuni aspetti rilevanti della soteriologia cristiana: il primato della grazia, il

rapporto intrinseco tra parola e sacramento, il dinamismo soprannaturale della fede come risposta

all’iniziativa gratuita di Dio. A questo riguardo la formulazione agostiniana del rapporto tra natura e

grazia elaborata nel contesto della controversia pelagiana torna a mostrare tutta la sua attualità e

fecondità. Tutto è opera di Dio che chiama alla salvezza, suscita la fede e giustifica l’uomo peccatore

mediante il lavacro battesimale (magna indulgentia). Il santo vescovo d’Ippona sa anche che questo

mistero di grazia non viola la libertà dell’uomo ma la interpella e la conduce dove essa, inferma a

causa del peccato, non sa di dover andare, né sapendolo potrebbe andarvi. Ed è proprio per venire

incontro a tale condizione di smarrimento dell’uomo peccatore che egli, convinto del primato della

grazia, non cessa di mettere in opera ogni attenzione pastorale per i catecumeni. In termini più attuali

ciò significa che il riconoscimento del primato della grazia si dà solo nel corrispondente impegno

concreto per l’evangelizzazione nelle sue diverse forme e nei diversi contesti. Tale riconoscimento

non può infatti che esplicitarsi in una comunicazione gratuita agli altri di quanto, nello stupore, è stato

avvertito come decisivo in ordine alla propria salvezza. La pedagogia del catecumenato non è che la

traduzione in termini ecclesiali e dunque sacramentali dell’introduzione progressiva della libertà nella 188 Caspani, «Lo sviluppo dei trattati: dal “De sacramento baptismi” alla “iniziazione cristiana”», 114.115.

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pienezza della novità cristiana. Tutto si onera nell’orizzonte della grazia e insieme tutto è affidato

all’iniziativa materna della Chiesa. È nella fede della Chiesa che i catecumeni vengo- no battezzati!

Tale principio sacramentale è fondamentale non solo per il battesimo dei neonati ma per ogni

battezzato: anche l’adulto viene battezzato nella fede della Chiesa. Non c’è un altro ambito che possa

permettere tale rigenerazione se non la fede della Chiesa verso il suo Sposo c Signore.

La grazia battesimale non è che l’attuazione sacramentale dell’incontro tra la grazia dello

Sposo (originante) con quella della Sposa (originata) nella vita dell’uomo (ri-generato, neofita).

Collocato in questo incontro sponsale l’atto battesimale assume per il battezzando il valore di inizio

della vita cristiana nel senso di introduzione, penitus et preces, alla novità escatologica della nuova

alleanza. Da questo momento in poi il battezzato trova la sua identità nell’ambito di questo patto: il

patto nuziale tra Dio e l’umanità stabilito una volta per sempre nell’oblazione pasquale di Gesù. Quale

battezzato egli prenderà parte, una volta completata l’iniziazione (confermazione ed eucaristia

battesimale), alla funzione materna della Chiesa verso coloro che ancora devono essere iniziati.

Le implicazioni soteriologiche contenute nella teologia del battesimo vanno a toccare anche

la delicata questione del rapporto tra il dono della salvezza e l’appartenenza alla Chiesa. Nella Chiesa

antica come nella teologia scolastica sia il battesimo di desiderio come il battesimo di sangue donano

la grazia giustificante e comportano, almeno implicitamente, il desiderio dell’aggregazione ecclesiale

(votum Ecclesiae). La rilettura contemporanea dell’adagio ciprianeo extra Ecclesia nulla salus si è

sviluppata in direzioni molto diversificate.189 Tra i due estremi opposti il battesimo e l’appartenenza

alla Chiesa non sono necessari alla salvezza dal momento che ogni autentica esperienza religiosa

essendo radicata in Cristo come fondamento ultimo della salvezza è via idonea per essere salvati, il

battesimo e l’appartenenza alla Chiesa sono assolutamente necessari per essere salvati - si collocano

una varietà di posizioni che nel loro insieme sembrano gravitare più verso il primo estremo che verso

il secondo. Occorre tenere presente che l’autorevole magistero conciliare ha ricollocato la Chiesa e i

sacramenti in un più ampio e comprensivo disegno salvifico universale da parte di Dio ove la

comunicazione della salvezza può avvalersi anche di altre mediazioni (extrasacramentali ed

extraecclesiali). Le discussioni che ne sono scaturite - si pensi alla cosiddetta teoria dei «cristiani

anonimi» - si sono riproposte di comprendere positivamente come riconoscere l’efficacia

dell’iniziativa salvifica universale di Dio, tenendo conto che l’appartenenza alla Chiesa mediante il

battesimo non riguarda se non una parte dell’umanità. Che rapporto vi è tra questa parte e il tutto:

questi dannati e gli altri salvati? Il suggerimento che viene dalla visione ecclesiologica del concilio

mira a riconoscere un legame intrinseco tra la portata sacramentale della Chiesa e il destino di

salvezza dell’umanità. Questa è chiamata a diventare Chiesa, a entrare nella condizione escatologica

del popolo della Nuova Alleanza.

Il battesimo è la porta d’ingresso. Ne viene allora per la Chiesa una rinnovata coscienza della

sua essenziale natura missionaria.190 Da questo compito essa non può, né potrà mai allontanarsi: ne

va della sua stessa identità. L’opera di evangelizzazione dei popoli e delle culture appare dunque

strettamente legata alla natura essenzialmente missionaria della Chiesa. Nel contesto di ogni Chiesa

locale tale opera assume forme diverse che vanno dal primo annuncio alla catechesi. Il battesimo non

può essere compreso adeguatamente sul piano teologico, né tanto meno può essere celebrato

fruttuosamente se non nell’alveo di questa molteplice azione evangelizzatrice (cf. Mt 28,18-20)

condotta nella forza dello Spirito Santo donato a Pasqua (cf. Gv 20,22). A questo proposito risultano

nuovamente pertinenti le considerazioni già esposte sul rapporto tra battesimo e fede.

Nella storia della prassi dell’iniziazione cristiana, quando l’evangelizzazione non è stata

189 Cf: G. ODASSO, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, Urba- niana Univ. Press, Roma 2002,31-

109; DUPUIS, Verso una teologia del pluralismo religioso, 241ss. 190 Cf. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio, 07.12.1990, c. IV: EV 12/610- 630; Congregazione per la Dottrina

della fede, dichiarazione Dominus Jesus, 06.08.2000, n. 22: EV 19/1195.

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profonda e capillare si è già visto come gli stessi riti, specialmente quelli del catecumenato, si siano

affastellati, abbiano perduto il loro autentico contesto ermeneutico e appesantito infine la stessa

celebrazione del battesimo, rendendosi scarsamente intellegibili. Il battesimo, così come gli altri

sacramenti dell’iniziazione cristiana, trova nelle diverse forme di evangelizzazione la premessa

necessaria e ineludìbile per manifestarsi come porta d’ingresso per la fede cristiana. In questa pro-

spettiva anche la necessità del battesimo in ordine alla salvezza, più volte affermata e ribadita sul

piano magisteriale, rivela una sua più profonda intelligibilità.191 Diversamente si rimane solo dinnanzi

a una affermazione di principio per cui si rimette alla sola azione sacramentale quanto dipende dal

legame dinamico tra parola da annunciare e sacramento da celebrare. È necessario annunciare il

vangelo, porgerlo agli uomini alla ricerca della salvezza: in tale ordine di necessità si colloca quella

più peculiare dello stesso battesimo. Anzi la stessa celebrazione sacramentale facendo e realizzando

quello che dice diviene in modo eminente annuncio del vangelo e appello alla fede in Gesù Cristo

quale unico Salvatore del mondo.

Detto questo la Chiesa ha sempre riconosciuto e riconosce come l’opera divina di salvezza,

compiutasi una volta per sempre in Gesù Cristo, possa realizzarsi, in via straordinaria, anche

attraverso vie che solo Dio conosce (l’obbedienza alla retta coscienza morale, le altre religioni per la

parte di verità e salvezza che esse contengono...). Da un punto di vista della visibilità storica esse non

sono espressione diretta dell’agire ecclesiale-sacramentale, anche se sul piano invisibile delle realtà

soprannaturali esse sono ordinate a trovare compimento in Cristo e ricevono dal suo mistero pasquale

la loro particolare efficacia salvifica. Considerate in se stesse esse si rivelano parziali e imperfette e

come tali sono un costante appello alla Chiesa affinché le accolga, le purifichi e le elevi alla perfezio-

ne del mistero pasquale. In quanto ordinate a essere ricapitolate in Cristo queste vie straordinarie di

salvezza sono anche ordinate a trovare nella Chiesa cattolica, Sposa di Cristo, la loro pienezza di

verità e di bene. Il battesimo riprende nel suo assetto celebrativo e teologico questo stesso paradosso:

tutta l’umanità del battezzato viene a essere assunta, purificata e perfezionata nel mistero pasquale al

quale si è iniziati una volta per sempre. Il catecumenato è il tempo nel quale il candidato fa esperienza,

insieme con la Chiesa locale, di questo processo di ricapitolazione nel mistero di Cristo della sua

concreta realtà storica impastata di natura e di cultura.

Questa tensione tra le vie e i mezzi straordinari di salvezza e il battesimo rivela più

profondamente il senso preciso della cattolicità della Chiesa.Tale nota ecclesiale dice il senso

profondo dell’affermazione della necessità del battesimo: tutto ciò che vi è di vero, di buono e di bello

è di Cristo, unico Signore della storia. Nel lavacro battesimale si opera, secondo la logica del

sacramento, la riconciliazione della storia e del cosmo con Cristo, Principio e Fine di tutte le cose. Il

frammento è riportato al suo lutto, in esso è tuffato per essere liberato dal peccato e dalla morte ed

essere trasfigurato (cf. Rm 8,18-25). In questa luce il battesimo dischiude una sua specifica operatività

simbolica: il ricongiungimento di ciò che era separato e diviso con la pienezza e il destino a cui fin

dalla fondazione del mondo tutto era stato promesso.

In questa prospettiva della ricapitolazione il battesimo cristiano dà inizio nella vita del

credente, secondo la peculiare efficacia tipica del sacramento, a un dinamismo di trasformazione e

comunione che risponde all’azione dello Spirito Santo donato a Pentecoste. Questo inizio mira al suo

compimento liturgico-sacramentale negli altri due sacramenti dell’iniziazione cristiana

(confermazione ed eucaristia) e solo allora si può parlare propriamente del credente come iniziato

alla fede cristiana mediante i sacramenti. Nell’ambito di questo processo unitario di iniziazione

(liturgico, teologico e possibilmente anche pastorale) tutta l’azione sacramentale è compiuta nello

Spirito Santo e nel contempo tale azione pneumatica si lascia specificare secondo le attuazioni

peculiari di ciascuno dei tre sacramenti. La conclusione che ne viene sul piano teologico è la necessità

di considerare innanzitutto l’azione dello Spirito nel suo insieme per collocare poi entro tale quadro

pneumatico unitario le tre specifiche attuazioni sacramentali. La dimensione pneumatica appare così 191 Sulla necessità del battesimo per la salvezza, cf. CCC 1257. Cf. anche Redemptoris missio nn. 46-47; Dominus Jesus, c. VI.

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quale tratto costitutivo di tutto il processo iniziatico così come lo è la dimensione eristica.

Non si può dunque trattare l’aspetto pneumatico del battesimo senza avvertire che esso tende

a compiersi nella crismazione/confermazione e nell’eucaristia battesimale, in vista di un cammino di

maturazione cristiana di cui l’eucaristia domenicale rappresenta la fonte e il culmine.192 Né tanto

meno si può concentrare la dimensione pneumatica dell’iniziazione nel solo sacramento della

crismazione/confermazione. Sarebbe come volere non tanto distinguere ma separare all’interno del

mistero pasquale la morte/resurrezione da una parte e la Pentecoste dall’altra, reduplicando tale

separazione in una trattazione del battesimo disgiunta da quella della confermazione. Il mistero

pasquale si dà invece nella complessa unità dinamica della duplice missione del Figlio e dello Spirito.

Non è dunque pertinente risolvere la teologia del battesimo sotto il segno della cristologia e quella

della confermazione sotto il segno della pneumatologia. Il battesimo cristiano è infatti nativamente

battesimo nello Spirito Santo (cf. At 2,38; 10,44-48)!

La distinzione delle due missioni salvifiche, quella del Figlio e quella dello Spirito, con i

rispettivi momenti salienti dell’unico mistero pasquale, la morte/risurrezione di Gesù e l’effusione

pentecostale dello Spirito, permette invece una lettura più appropriata della dimensione pneumatica

del battesimo.193 Essa può essere illustrata mettendo in evidenza il rapporto dello Spirito con il dato

centrale dell’evento battesimale: l’essere innestati una volta per sempre nel mistero della morte e

risurrezione di Gesù. «Infatti coloro che ricevono il Battesimo, segno sacramentale della morte di

Cristo, con lui sono sepolti nella morte e con lui vivificati e risuscitati» ( R K 'A . Introduzione

generale, 6; cf. anche 1). Questa configurazione (o conformazione) al Cristo morto e risorto, operata

nel lavacro battesimale, viene resa «più profonda» nella confermazione: «Nella Confermazione, che

li segna con lo Spirito Santo, dono del Padre, i battezzati ricevono una più profonda configurazione

a Cristo e una maggiore abbondanza dello stesso Spirito fino alla piena maturità del corpo di Cristo»

(2, il corsivo è mio). Nel battesimo viene dunque operata la configurazione a Cristo morto e risorto e

tale configurazione deve essere compresa come inclusiva di una prima donazione dello Spirito, quella

donazione che proviene dal!1 essere uniti a colui che è stato risuscitato nella potenza dello Spirito

Santo e che dona lo Spirito senza misura. Il mistero pasquale emerge nel suo nucleo cristocentrico

nel quale è custodita e implicata la stessa donazione pentecostale. Ed è questa stessa donazione che

viene a essere esplicitata e completata nel sacramento della confermazione («una maggiore

abbondanza di Spirito Santo»).194 La novità ontologica operata dal battesimo è dunque allo stesso

tempo eristica e pneumatica anche se è la prima a essere centrale: l’essere conformati al Figlio

crocifisso-risorto e nel contempo essere resi tempio/dimora dello Spirito Santo.

La dimensione pneumatica del battesimo si lascia cogliere nell’evento battesimale anche da

un altro punto di vista al quale si è già accennato quando si è detto che tutta l’azione liturgico-

sacramentale dell’iniziazione cristiana si realizza nella potenza dello Spirito Santo donato a Pasqua

(cf. SC 6). Riprendendo la terminologia della teologia scolastica la riflessione intende ora passare

dagli effetti del battesimo (la figliolanza adottiva e unita ad esso la prima e fondamentale donazione

dello Spirito) alla causalità sacramentale. Su questo piano lo Spirito emerge come Colui che opera

(causalità efficiente) per volontà del Padre la conformazione del battezzato al Figlio crocifisso e

risorto. In tale prospettiva tutta la celebrazione liturgica del sacramento del battesimo è apertamente

pneumatica.

In questa luce lo Spirito appare non solo come donato al battezzato in ragione della

192 «In ogni caso, ciò che si può dire “di principio” è che Battesimo e Confermazione sono i sacramenti che realizzano l’identità del

cristiano, il quale, nell’Eucaristia, si alimenta continuamente per vivere per/con/in Cristo nell’unità dello Spirito a gloria del Padre»,

in L. GIRARDI, «La celebrazione della Confermazione nel contesto della iniziazione cristiana», in La Confermazione dono dello Spirito

per la vita della Chiesa, introduzione di D. Bonifazi, Massimo, Milano 1998,72; cf. anche ibidem, 59-61. 193 Cf. D. BOROBIO, «La Confirmación como don del Espíritu Pentecostal», in Phase 38(1998)223,

55-70. 194 Su questo si veda il c. seguente.

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conformazione di questi al mistero della morte e risurrezione di Gesù ma anche come Colui che, in

obbedienza al Padre, opera la santificazione del catecumeno-eletto per renderlo dimora della Trinità.

Lo Spirito del Padre che conosce le profondità del mistero di Cristo e le profondità del cuore

dell’uomo realizza efficacemente l’immanenza (la teologia scolastica parla di grazia increata) del

mistero d’amore della Trinità nella persona del battezzato. La specificità battesimale di questa

operazione dello Spirito sta nel dare inizio nella vita del battezzando a quella identità filiale alla quale

egli è stato promesso fin dalla fondazione del mondo e della quale è stato reso erede per mezzo della

morte e risurrezione di Gesù.

La ricchezza di tale prospettiva pneumatica trova la sua esplicitazione nella prospettiva

ecclesiologica che pone in evidenza la funzione materna della Chiesa. Nel grembo della Chiesa (il

riferimento al fonte battesimale come utero), per mezzo dell’azione santificante dello Spirito (il

riferimento alla preghiera di benedizione dell’acqua, cf. RICA 215 c RBB 60), il lavacro battesimale

accede alla sua significatività propria di azione di rigenerazione alla novità della vita filiale nel Figlio

morto e risorto. La lettura pneumatica dell’efficacia sacramentale non è altro che la traduzione in un

linguaggio più concettuale del significato materno- generativo dell’impianto simbolico del lavacro

battesimale. Nella preghiera di benedizione dell’acqua battesimale è proprio questa fecondità che

viene a essere evocata richiamando i passaggi nodali della storia delki salvezza. L’acqua e lo Spirito

in tale testo appaiono mutuamente intrecciati nell’evocare l’accadere degli interventi divini fino al

compimento pasquale, come il susseguirsi di «inizi» successivi nel quale Dio si annuncia come Colui

che prende l’iniziativa per mezzo dello Spirito (creazione, diluvio, esodo, battesimo e

morte/risurrezione di Gesù). Ed è nel crescendo di questa economia salvifica che viene a collocarsi

lo stesso «inizio» della vita nuova nella vita dei battezzando

Ora, Padre,

guarda con amore la tua Chiesa e fa scaturire per lei la sorgente del Battesimo.

Infondi in quest’acqua,

per opera dello Spirito Santo,

la grazia del tuo unico Figlio,

perché con il sacramento del Battesimo

l’uomo, fatto a tua immagine,

sia lavato dalla macchia del peccato,

e dall’acqua e dallo Spirito Santo

rinasca come nuova creatura.

Il celebrante tocca l’acqua con la mano destra e prosegue:

Discenda, Padre, in quest’acqua,

per opera del tuo Figlio,

la potenza dello Spirito Santo,

perché tutti coloro

che in essa riceveranno il Battesimo,

sepolti insieme con Cristo nella morte,

con lui risorgano alla vita immortale.

Per Cristo nostro Signore (RICA 215 e RBB 60).

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SECONDA PARTE IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE

Mario Florio

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INTRODUZIONE

«Nella Confermazione, che li segna con lo Spirito Santo, dono del Padre, i battezzati ricevono

una più profonda configurazione a Cristo e una maggiore abbondanza di Spirito Santo, per essere

capaci di portare al mondo la testimonianza dello stesso Spirito fino alla piena maturità del corpo di

Cristo» (RICA, Introduzione generale, 2).

Nella trattazione sul sacramento del battesimo, specialmente nella parte biblica e patristica, è

emersa la stretta relazione tra l’evento battesimale e il conferimento del dono dello Spirito Santo. Ora,

attraverso l’esame dei testi neotestamentari e delle testimonianze patristiche e liturgiche della Chiesa

antica, si tratta di documentare se e come tale conferimento sia legato, a partire dal battesimo, anche

a un altro rito distinto e tale da poter giustificare l’emergenza di una realtà propriamente sacramentale.

Nella storia liturgica la diversa prassi seguita dalle Chiese in Occidente rispetto alle Chiese

dell’Oriente è arrivata a dare una figura piuttosto autonoma a tale rito assegnandogli un posto del

tutto speciale nell’organismo sacramentale, sia rispetto ai sacramenti dell’iniziazione cristiana che

agli altri sacramenti. In particolare la sistematizzazione del discorso sacramentale elaborata dalla

teologia scolastica ha prodotto, in analogia agli altri sacramenti, una teologia della confermazione che

è divenuta determinante per tutti gli sviluppi successivi, sia sul piano della dottrina che della prassi.

Fino alla costituzione apostolica di Paolo VI, Divinae consortium naturae (15 agosto 1971),

il ricco contributo della teologia scolastica, assunto dal concilio di Trento come risposta ai riformatori,

ha rappresentato il punto di riferimento preferenziale e spesso esclusivo per esporre la dottrina sul

sacramento della confermazione.195 Il recupero della prassi della Chiesa antica e la connessa

ricollocazione della confermazione nella liturgia della iniziazione cristiana ha provocato anche una

rivisitazione della prassi pastorale in corso, specialmente nella Chiesa latina. Tutto ciò si è svolto e si

sta svolgendo in un clima ecumenico particolarmente fecondo che permette di guardare al modello

della tradizione liturgica delle Chiese orientali nel quale la confermazione, meglio dire crismazione

(cf. CCC 1289), è rimasta sempre strettamente unita, liturgicamente, teologicamente e pastoralmente,

all’iniziazione cristiana.

«In Occidente, poiché si preferisce riservare al vescovo il portare a compimento il Battesimo,

avviene la separazione temporale dei due sacramenti. L’Oriente ha invece conservato uniti i due

sacramenti, così che la Confermazione è conferita dal presbitero stesso che battezza. Questi tuttavia

può farlo soltanto con il “crisma” consacrato dal vescovo» (cf. CCC 1291).

Le nuove opportunità celebrative offerte dal OICA/RICA consentono ora anche per le Chiese

d’Occidente un profondo rinnovamento della comprensione teologica, liturgica e pastorale della

confermazione nel quadro unitario dell’iniziazione cristiana. Ecco perché si è voluto iniziare questo

nuovo capitolo partendo proprio da tale autorevole espressione del rituale romano.196 Per quanto

concerne poi la specificità della situazione italiana, la scelta di tale impostazione non fa che attua-

lizzare sul piano della riflessione teologica il principio cardine che i vescovi italiani affermarono nel

presentare la versione ufficiale in lingua italiana del RICA in base al quale si riconosceva dlV Or do

in esso contenuto il valore di forma tipica per la formazione cristiana (cf. RICA, Premesse, p. 12).

195 La questione del «segno sacramentale» così come risolta da Paolo VI (la crismazione e non l’imposizione delle mani e/o della

mano) non ha lasciato convinti tutti gli studiosi, come Ligier, convinto assertore dell’imposizione della mano/delle mani quale parte

essenziale del segno sacramentale. Cf. L. LIGIER, La Confermazione. Significato e implicazioni ecumeniche ieri e oggi, ED, Roma

1990 (ed. or. Paris 1973). 196 Si noti che il Rito della confermazione (RC), in quanto nel rito latino ha il vescovo quale suo ministro «originario», è parte del

Pontificale romano e non del Rituale romano. La nuova editio typica dell’Ordo confirmationis (OC) è stata promulgata il 22 agosto

1971; la versione ufficiale in lingua italiana a cura della CEI del Rito della confermazione, approvata il 28 marzo 1972, è divenuta

obbligatoria dal 1° gennaio 1973.

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Questa prospettiva consente di liberare il campo della riflessione teologica sulla

confermazione da tutta una serie di questioni che, pur significative sul piano pastorale, non sono

attinenti a tale specifica realtà sacramentale. In particolare risulta parziale sovradeterminare la confer-

mazione - separatamente dall’eucaristia - del significato di partecipazione del neobattezzato alla

maturità cristiana e al connesso compito della testimonianza, per lo più intesa in chiave

individuale.197 Se vi è nella tradizione teologica occidentale, soprattutto a partire dal celebre testo di

Fausto di Riez,198 tutta una riflessione che si è spesa in questo senso, vi è una più antica e solida

riflessione teologica e prassi liturgica che riconosce tale valenza al sacramento che porta a

compimento Viter di iniziazione cristiana e che come tale introduce appunto alla tipicità della maturità

cristiana: l’eucaristia. È a questo sacramento che va riconosciuta, anche in ragione della sua

ripetibilità nella vita ordinaria del battezzato (e confer- mato/crismato), la qualità specifica

(sacramentale) di determinare il senso e la forma della maturità cristiana. La

confermazione/crismazione sta invece, analogamente al battesimo, sul versante di ciò che si realizza

una volta per sempre in rapporto alla radicale strutturazione del diventare cristiani, dell’essere

irripetibilmente iniziati alla vita cristiana per poter poi vivere da cristiani. La confermazione, riletta

nel quadro unitario dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, ha come destinatario chi, seconde'; il

linguaggio pregnante della Chiesa antica (sia in Occidente come in Oriente), è ancora infante

(novicioli, nepioi) e tale continua a essere anche dopo l’eucaristia battesimale fino al compimento di

tutto il successivo tempo della mistagogia. Nessuno si è mai sognato nella prassi della Chiesa antica

di trattare chi è appena nato alla vita cristiana come soggetto adulto nella fede. Egli è chiamato a

quella maturità alla quale fin dal battesimo è stato promesso e per la quale viene dotato di tutto ciò

che è necessario sul piano ontologico dal battesimo e dalla confermazione/ crismazione. La prima

partecipazione all’eucaristia (l’eucaristia battesimale) è la prolessi sacramentale di quella maturità

che dovrà realizzarsi nella storia del credente fino a portarlo, nella comunione ecclesiale, a quella

piena maturità che è Cristo (cf. Ef 4,13).

Ci rendiamo conto che l’aver indugiato nell’esposizione di questa tesi sembra come esulare

dalla attuale realtà pastorale. Il paradigma di riferimento, l’iniziazione cristiana preceduta dal

catecumenato (secondo la prospettiva offerta dal RICA), rappresenta una prassi eccezionale e non

sembra giocare il ruolo di forma tipica per la formazione cristiana. Nella prassi prevalente delle

Chiese in Italia la realtà è quella del pedobattesimo a cui segue a partire dai sette anni circa (l’età

della discrezione) l’inizio dell’istruzione catechistica (a livello parrocchiale) in vista della prima

comunione (preceduta dalla prima confessione). La confermazione sia. cronologicamente, alla fine

del processo di iniziazione ed è collocata normalmente (anche per esplicita indicazione della CEI)

nell’età della preadolescenza (undici o dodici anni).199 L’istruzione catechistica, svolta non sempre

in modo continuativo durante questo arco temporale (7-12 anni), è per lo più intesa in vista dei due

sacramenti dell’eucaristia e della confermazione o tre se si considera anche il sacramento della

penitenza (la cosiddetta «prima confessione») e non in vista della vita cristiana alla quale si è iniziati

mediante i sacramenti. Ridiscutere tale prassi non è cosa del tutto agevole anche perché ciò che è

maggiormente in causa è sia il modello del diventare cristiani oggi quanto l’effettiva esigenza di dare

un volto nuovo all’evangelizzazione. In ogni caso, limitando il discorso al sacramento della

confermazione, è ormai oggetto di comune constatazione il fatto che esso viene a essere

sovraccaricato di valenze che non gli appartengono e alle quali viene a essere piegato per rispondere

a più radicali e complessi problemi di fondo che riguardano il modello di Chiesa e di evangelizzazione

da proporre nel contesto odierno.

Il percorso di ricerca che viene proposto mira appunto a riconoscere, attraverso l’ascolto della

sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero, la peculiare caratterizzazione sacramentale della 197 Cf. GIRARDI, «La celebrazione della Confermazione nel contesto della iniziazione cristiana», in La Confermazione dono dello

Spirito per la vita della Chiesa, introduzione di D. BONIFAZI, Massimo, Milano 1998,62-64. 198 Cf. P. DE CLERCK, «La confirmation: vers un consensus oscuménique?», in La Maison-Dìeu 211(1997), 86-88. 199 Cf. W. RUSPI, «La pastorale della Confermazione e il progetto catechistico della Cei», in La Confermazione dono dello Spirito

per la vita della Chiesa, 117-127.

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confermazione/ crismazione per poter dare la possibilità di elaborare risposte più fondate e adeguate

alle stesse sfide pastorali presenti nella vita della Chiesa contemporanea.

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CAPITOLO PRIMO

I FONDAMENTI BIBLICI

1, Ricolmi dello Spirito di Gesù

Prima di intraprendere la ricognizione dei testi biblici - in particolare di quelli neotestamentari

- rilevanti per la fondazione e la comprensione della realtà sacramentale della

confermazione/crismazione, analoga mente a come si è proceduto per il battesimo, si ritiene

giustificato partire anche in questo caso dalla realtà in atto della comunità cristiana animata dal dono

dello Spirito effuso a Pentecoste (cf. At 2,1-13; 10,44-47) e scaturito dagli eventi pasquali riguardanti

Gesù di Nazaret.

È a partire da tale novità di vita che la stessa testimonianza degli evangelisti sulla vicenda

prepasquale di Gesù viene a essere colta come profondamente segnata dall’opera dello Spirito di

YHWH. Anzi tutta l’economia salvifica non si può comprendere se non nella continuità dell’azione

dello Spirito: dalla creazione, passando per le grandi gesta di salvezza da parte di YHWH, per arrivare

al compimento unico e irripetibile negli eventi pasquali di Gesù, Messia crocifisso e risorto. Ed è da

qui che inizia il tempo ultimo della salvezza nel quale lo Spirito viene riversi-, io gratuitamente e

abbondantemente «sopra ogni persona» (At 2,17 c'ne rimanda esplicitamente alla promessa

escatologica contenuta in Gioele al c. 3). La novità peculiare di questo tempo ultimo sta nel fatto ere

esso non solo è inaugurato da Gesù morto e risorto ma che lo stesso d'ino escatologico dello Spirito

è dono che viene da Dio Padre per mezzo 0: Gesù risorto (cf. Gv 14,26; Lc4,49).

Quanto lo Spirito di YHWH è venuto compiendo nella vita pubblica di Gesù (il loghion sul

«dito di Dio», cf. Lc1,20 II Mt 12,28) per attestare l’irruzione della sovranità definitiva e decisiva di

YHWH, ora nel tempo della Chiesa lo compie come Spirito del Risorto che, a partire dalla comunità

apostolica suscitata dall’effusione pentecostale, vuole estendere la sua portata salvifica fino agli

estremi confini della terra. Il Padre opera per mezzo del Cristo morto e risorto nella potenza dello

Spirito Santo per la salvezza di tutti gli uomini.

Gli apostoli e tutta la cerchia dei primi testimoni degli eventi pasquali, tra questi alcune donne

e in particolare Maria la madre di Gesù, rappresentano i primi destinatari di questa nuova creazione

che si opera nello Spirito donato a Pasqua. Mediante la predicazione apostolica viene a configurarsi,

in modi diversi e sempre rispondenti al libero e sorprendente dinamismo dello Spirito, la disponibilità

di giudei e pagani alla conversione al vangelo della salvezza. Questa azione missionaria dello Spirito

si pone in stretta continuità con la sua stessa azione all’interno della comunità apostolica prima (i

sommari di Atti) e poi delle altre comunità cristiane che via via vengono costituendosi nell’articolato

contesto dell’ecumene del tempo (i testi relativi alle comunità di origine paolina).

In particolare occorre ora mettere in evidenza, all’interno di tale quadro globale, quanto attiene

al dinamismo dello Spirito Santo, sia in rapporto all’inizio della vita cristiana, sia in rapporto al

costituirsi della realtà fondamentale ed essenziale della vita della comunità cristiana. I due inizi,

quello relativo alla conversione personale al vangelo di Gesù e quello relativo al sorgere della

comunità cristiana, appaiono così, nella luce dello Spirito, strettamente interconnessi e mutuamente

intrecciati.

La nuova prassi battesimale legata all’esperienza della conversione, il battesimo nel nome (o

verso il nome) di Gesù, già oggetto di indagine nel capitolo precedente, va ora ripresa per mettere a

fuoco quei dati che la legano al sorgere di altri riti a essa strettamente connessi: in particolare

l’imposizione delle mani. Se infatti il battesimo di rigenerazione nel nome di Gesù è battesimo in

acqua e in Spirito Santo, anche l’imposizione delle mani che a esso si accompagna, secondo una

sequenza non sempre identica ma costante, è da intendersi come atto che conferisce il dono dello

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Spirito donato agli apostoli a Pentecoste e trasmesso per mezzo di loro a chi è iniziato alla vita di

figlio di Dio nella comunità cristiana.200

2. Imposizione delle mani e unzione nell’Antico Testamento

Nella tradizione biblica l’azione e la presenza dello Spirito di YHWH emergono come

strettamente legate sia all’opera creatrice che all’iniziativa salvifica verso Israele. Anzi, sembra che

la radicalità della prima sia avvertita e scoperta da Israele proprio nella viva esperienza della seconda:

il Dio di Israele, il Dio dei padri, è il Dio creatore e unico Signore dell’universo.

Alla luce delle grandi cose (mirabilia, magnalia Dei) e delle gesta salvifiche compiute da Dio

verso Israele l’azione dello Spirito esprime e allo stesso tempo postula la dottrina dell’elezione201 Nel

suo piano di salvezza Dio chiama, sceglie e conferisce una missione (investitura) sia a singole persone

(patriarchi, guide, sacerdoti, profeti, re,...) sia all’intero popolo di Israele. Ciò facendo YHWH viene

a costituire con chi è eletto un rapporto di particolare intimità tale da consentire la conoscenza vitale

del suo mistero di salvezza. Tale connaturalità tra l’eletto e YHWH diviene possibile solo mediante

il dono dello Spirito (la sua ruach) da parte di YHWH stesso. Entrare in tale relazione di comunione

intima e vitale con Dio e i suoi disegni comporta un essere scelti per appartenere solo a lui. Tale

condizione di separatezza richiede all’eletto (sia come singolo, sia come popolo) specifiche esigenze

di fedeltà alla volontà di YHWH, alla sua legge (la Torah). Ed è nuovamente YHWH che interviene

con la sua fedeltà e misericordia per abilitare l’eletto a permanere nella fedeltà alla sua Parola.

L’elargizione dello Spirito, sia in modo temporaneo che stabile, consente allora non solo la

conoscenza della volontà di YHWH ma anche la possibilità di aderire alla sua Parola di salvezza.

L’insieme di questi aspetti legati all’elezione rivela come l’azione e la presenza dello Spirito

siano allo stesso tempo unitarie e differenziate. Con il suo Spirito Dio crea le condizioni esterne di

accoglienza della sua Parola, predispone interiormente il destinatario ad accogliere tale dono, fa

conoscere il suo progetto, suscita la forza necessaria per aderirvi e infine accompagna

esistenzialmente il chiamato/scelto fino al compimento ultimo del suo piano. È sempre possibile per

l’eletto voltare le spalle a YHWH e venire meno alla fedeltà richiesta da tale vocazione. Dio può

allora rigettare il suo consacrato, consegnarlo a se stesso perché si penta e ritorni a lui con tutto il

cuore. La precarietà dell’elezione non dipende dunque da YHWH che è sempre fedele ma dall’eletto

che può con la sua ’libertà mettere a dura prova la misericordiosa benevolenza di Dio. Anche la tale

situazione di rottura dell’alleanza è sempre lo Spirito di YHWH che, ritiratosi dall’eletto, continua

nondimeno a fare sentire l’appello alla conversione e a condurre a compimento il progetto di salvezza

di Dio attraverso vie misteriose e inconoscibili al cuore dell’uomo.

L’eletto, sia come singola persona che come comunità di persone, si lascia configurare come

tale in ragione di una presa di possesso da parte dello Spirito di YHWH. È specificamente in rapporto

a tale nuova condizione esistenziale, posta in essere dall’iniziativa gratuita di Dio, che prende forma

anche un rito designato come rito di consacrazione nel quale giocano un posto peculiare sia

l’imposizione delle mani (o della mano) sia l’unzione.202

La ricorrenza di tali gesti rituali porta in primo piano l’esigenza antropologica di delineare,

per quanto possibile, l’intervento divino nella sua concreta esplicitazione storica e rispettivamente

tali riti in atto esprimono la coscienza viva dell’iniziativa divina come realtà soprannaturale che si

comunica qui e ora. Proprio in ragione di questa evocazione del divino e per la loro densa valenza

performativa tali riti sono al crocevia della coscienza politico-religiosa della comunità di Israele. In

201 Cf. G. CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore. Il dono dello Spirito e l’imposizione delle mani (At 8,14-17; 19,1-7)»,

in La Confermazione dono dello Spirito per la vita della Chiesa, 139-198 202 Cf.: «xpLeo», a cura di autori vari, in GLNT, Paideia, Brescia 1988, XV, 845ss; «%eip», a cura di E. LOHSE, in ibidem, 661ss.

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quanto eseguiti secondo dettami precisi essi danno luogo alla consapevolezza di una peculiare

manifestazione dello Spirito di YHWH che costituisce i suoi inviati e li investe della sua forza,

autorizzandoli a una missione. Questa autenticazione dall’alto significata dai riti è tuttavia

controbilanciata dalla consapevolezza che YHWH è libero e può dotare chi vuole di questa sua forza

per realizzare i suoi disegni (cf. Nm 11,26-30; 22,22-35; Is 45,1).

Prendiamo ora più direttamente in considerazione la fisionomia di tali due riti limitandoci a

scandagliare il loro legame con la realtà della consacrazione. Se si prende Vunzione si può notare che

essa ha una linea di sviluppo che parte dalla sua esecuzione rituale per arrivare a designare

metaforicamente la sola realtà significata dal rito. Le investiture di re e sacerdoti nel loro ufficio erano

effettivamente eseguite mediante un rito di unzione. «I re di Giuda erano consacrati nel tempio ed

unti da un sacerdote: Salomone ricevette l’unzione da Sadoq (IRe 1,39), Joas dal sommo sacerdote

Jehojada (2Re 11,12)».203 Il sommo sacerdote e i sacerdoti venivano unti come nel caso di Aronne

unto da Mosè su comando di YHWH (Es 29,7), anche se i testi che ce ne danno notizia (cf. ad es. Es

28,41; 40,15; Nm 3,3), appartenendo al codice sacerdotale (postesilico), lasciano pensare che «sotto

la monarchia, soltanto il re venisse unto».204 Per quanto riguarda i profeti si deve pensare all’effetto

del rito, alla consacrazione, più che a un effettivo rito di unzione. «I profeti non erano unti con olio;

l’unzione dei profeti designa metaforicamente la loro investitura».205 In questa prospettiva l’autore di

Is 61 parla della missione profetica dell’inviato di YHWH in termini di consacrazione, evocata

attraverso il richiamo dell’unzione: «Lo Spirito del Signore è su di me perché il Signore mi ha con-

sacrato con l’unzione» (Is 61,1). Si deve infine ricordare la fortuna del tema dell’unzione, quella

regale in particolare, nel prefigurare e identificare il messia (cf. Sai 2).206

La consacrazione come rito si lascia specificare proprio dall’atto del versamento dell’olio sul

capo dell’eletto da parte di una persona riconosciuta come autorizzata da YHWH a compiere tale

ufficio (per es. Mosè per Aronne, Samuele per Saul e Davide, Sadoq per Salomone, ...).207 L’unto

diviene in tal modo partecipe dello Spirito di Dio in vista del compimento della missione affidatagli

(cf. ISam 16,13). L’unzione si lascia dunque comprendere come rito che comunica il dono divino

dello Spirito non per la persona presa in se stessa ma sempre in rapporto a una missione, quale ad es.

nel caso del re il governo, secondo la legge (Torah), del popolo di Dio. Il dono dello Spirito è dunque

legato al rito dell’unzio- ne/consacrazione ma la sua permanenza nell’eletto dipende dalla fedeltà

dell’unto alla legge di Dio: se viene meno tale fedeltà, Dio ritira il suo Spirito (cf. ad es. ISam 15,24;

16,14)! Sullo sfondo emerge chiaramente il rapporto intrinseco tra questa donazione dello Spirito

fatta ad alcuni e la sua ricaduta sulla vita dell’intero popolo di Dio. La prima è tutta relativa alla

seconda: la crescita, secondo i voleri di Dio, della comunità di Israele. Deprivato di questo vitale

rapporto con la comunità e con la legge, il rito dell’unzione non dischiude appieno il suo specifico

senso salvifico.

L’imposizione delle mani approfondisce il significato rituale dell’unzione perché intensifica

il dinamismo della comunicazione di un potere, di una forza, di un dono a qualcuno da parte di chi ne

è depositario in nome di YHWH. Tale gesto ricorre in contesti diversi. Nel caso dell’imposizione

delle mani in vista della benedizione tale atto comporta il passaggio all’altra persona della

benedizione stessa (cf. Gen 48,14), «in modo che non può più essere revocata» (Gen 27,35).208 In

altri casi esso assume 'a valenza di trasmissione di una forza particolare (per es. in atti simbolici di

profeti, cf. 2Re 13,16). Infine esso assume anche la valenza specifica di trasmissione e conferimento

203 I. DE LA POTTERIE, «Unzione», in Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Torino 1980,1318. 204 DE LA POTTERIE, «Unzione», 1318. 205 DE LA POTTERIE, «Unzione», 1319. 206 Cf. G. JOSSA, Dal Messia al Cristo. Le origini della cristologia, Paideia, Brescia 1989,11-34. 207 Cf. F. HESSE, «xpiro», in GLNT, XV, 856. La comunità di Qumran contesta la validità del sacerdozio del tempio di Gerusalemme

perché esercitato da persone che non sono nella discendenza di Aronne e dunque non autorizzate al culto del tempio perché senza

l’investitura aronnita, cf. STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù, EDB, Bologna 1995,212-213.250-253. 208 LOHSE, «%eip», in GLNT, XV, 674. Egli puntualizza che nell’AT e nella tradizione rabbinica «non si parla mai di imposizione

di mani in connessione con guarigioni miracolose», ibidem. Per il lignificato del gesto di «appoggiare le mani sulla vittima sacrificale»,

cf. ibidem, 675.

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di un incarico e della forza necessaria per assolverlo (si veda l’imposizione della mani da parte di

Mosè su Giosuè, cf. Dt 34,9; Nm 27,18-20). È proprio quest’ultima valenza che, unitamente a quella

significata dalla trasmissione della forza per il ministero profetico, pone in luce la funzione

consacratoria del gesto di imposizione delle mani. Esso «indica che lo Spirito di Dio separa un essere

che si è scelto, ne prende possesso, gli conferisce autorità e capacità di esercitare una funzione».209

Questa situazione richiama quella già descritta del conferimento di una forza e di un potere mediante

il rito di unzione. «Compiuto davanti alla comunità, il gesto della imposizione delle mani serve inoltre

a «convalidare pubblicamente la legittimità della successione».210

Dopo questa breve rassegna si può sottolineare come unzione e imposizione delle mani

mostrino un comune riferimento al tema della consacrazione. L’unzione appare più compiutamente

organizzata all’interno di una struttura rituale minimale mentre l’imposizione delle mani emerge

come atto o gesto con una forte valenza rituale, non sempre sviluppato in un corrispondente impianto

rituale.

Nel quadro delle attese messianiche del compimento escatologico della salvezza la figura del

«consacrato o unto di YHWH» viene a occupare un posto di particolare rilievo (si vedano le diverse

varianti del messianismo: regale, sacerdotale, profetico nella forma del servo di YHWH). Lo stesso

significato della consacrazione legata all’unzione (e all’imposizione delle mani) sembra liberarsi

dell’impianto rituale per indicare la pienezza del dono della ruach di YHWH concentrata nell’unto

quale unico plenipotenziario del compimento finale della salvezza. Emerge in tale prospettiva una

particolare convergenza tra le attese messianiche e l’effusione escatologica dello Spirito di YHWH:

«Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si

poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito

di conoscenza e di timore del Signore» (Is 1-2).Tale testo evidenzia una novità rilevante: «Finora

l’AT aveva presentato persone dotate di una sola ruach divina. Qui, invece, il profeta preannuncia

uno che possiederà lo spirito in modo pieno».211

Ed è proprio tale testo biblico che viene ripreso nella preghiera epicietica che il vescovo

proclama mentre impone le mani tenendole alzate su tutti i cresimandi. Il sacramento della

confermazione è riletto alla luce del dono escatologico della ruach di YHWH conferito al suo unto,

al suo messia Gesù (cf. RC 29 e RICA 230).

Nell’ambito della storia della salvezza la ruach si presenta così non solo come «artefice di

storia agendo su persone che guidano in vario modo il popolo eletto, ma ancor più la ruach prepara

il futuro radioso del piano definitivo di Dio, l’era escatologica con la persona e l’opera del Messia. In

questo modo l’AT mette il popolo eletto nell’attesa di Colui che possederà la ruach in pienezza e la

donerà all’umanità redenta dal SUo sangue, cioè Gesù Cristo redentore».212

3. Lo Spirito di Dio all’opera in Gesù

Da un punto di vista sinottico è il battesimo di Gesù l’evento che inaugura l’inizio della sua

missione salvifica (cf. Mt 3,13-17 e II). E tale inizio comporta la sua investitura messianico-

escatologica mediante il dono dello Spirito da parte del Padre: «In quei giorni Gesù venne da Nazaret

di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo

Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio

prediletto. in te mi sono compiaciuto”» (Mc,9-11). Anche l’evangelista Giovanni attesta tale evento

e ne amplifica il significato escatologico presentandoci il Battista che rende la sua solenne 209 J.-B. BRUNON, «Imposizione delle mani», in Dizionario di Teologia Biblica, Marietti,Torino 1988,539. 210 LOHSE, «%eip», 675; cf. ibidem, 675-677. 211 CROCETTI, «LO spirito Santo e Gesù Redentore», 148. Per gli altri testi VT esaminati per il rapporto con la ruach, cf. ibidem,

140-147. 212 CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 149-150.

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testimonianza: «Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non

lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva deito: L’uomo sul quale vedrai

scendere e rimanere lo Spirito è colui che batìezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso

testimonianza che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,32-34). Nella sua redazione il quarto evangelista

sottolinea con la specificazione «scendere e rimanere» la novità di tale investitura dall’alto: lo Spirito

è dato da Dio per rimanere sul Figlio e c'indurlo lungo tutta la sua missione fino al compimento

pasquale (cf. G\ 19,30; 20,21-22). «Il Battesimo al Giordano fonda il rapporto operativo di Gesù con

lo Spirito, rapporto che continuerà lungo tutta la vita pubblica del Divin Maestro e che si esprimerà

sempre nella docilità totale e filiale al volere del Padre».213

I dati scarni ma essenziali e strategici di Matteo e Marco relativi alla presenza e all’opera dello

Spirito di Dio in Gesù trovano nell’opera lucana (Vangelo e Atti) una esplicitazione più diffusa ed

elaborata. Così anche nel quarto evangelo il binomio Gesù/Spirito accompagna con una profondità

teologica originale tutto l’impianto redazionale (si vedano in particolare i detti di Gesù sullo

Spirito).214 Tra le attestazioni più storicamente attendibili della autocoscienza da parte di Gesù di

essere staio investito del dono escatologico dello Spirito di YHWH vi è il detto lucano sul «dito di

Dio». Nella disputa sulla natura della sua missione e in particolare sugli esorcismi da lui compiuti

Gesù chiarisce: «Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di

Dio» (Lc1,20; cf. anche Lc,16-30: il discorso programmatico nella sinagoga di Nazaret dove Gesù,

leggendo e interpretando Is 61,1-2, si identifica con il profeta/servo/unto ricolmo dello Spirito di

YHWH). Nel corrispondente parallelo matteano la locuzione «dito di Dio» è resa con «Spirito di Dio»

(cf. Mt 12,28; cf. anche Mt 12,18-21). La forma lucana, più arcaicizzante, restituisce al vivo la

consapevolezza che Gesù ha di operare in nome e per conto di YHWH: è il dito di Dio (la Sua mano)

che opera in lui, egli opera con la potenza di Dio, con quella potenza e forza salvifica che vengono

dall’avere ricevuto in un modo unico e straordinario il dono dello Spirito (= potenza salvifica) di

YHWH.

È sempre lo Spirito che abilita Gesù a completare con l’offerta della sua vita per i molti la sua

missione pubblica. La redazione giovannea pone in evidenza come la stessa crocifissione comporti la

consegna da parte di Gesù al Padre dello «spirito» (cf. Gv 19,30; cf. Lc3,46 e II). Nella morte in croce

il Figlio bene amato, l’unigenito (cf. Lc0,13 e II), porta a compimento la missione affidatagli dal

Padre: la consaerazione/unzione nello Spirito trova nell’obbedienza fino al sacrificio di sé il suo

sigillo conclusivo (cf. Mt 26,26-30 e II; Lc2,39-46 e II).

Ed è «con potenza secondo lo Spirito di santificazione» (Rm 1,4) che Gesù è stato risuscitato

dai morti. Nella seconda parte dell’opera lucana dopo l’effusione dello Spirito a Pentecoste Pietro

annuncia: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla

destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso,

come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,32-33). Da questo atto escatologico della risurrezio-

ne/pentecoste scaturisce la storia del popolo della Nuova Alleanza che da Gerusalemme deve

allargarsi «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). L’inizio del nuovo eone è nella storia ed è a

partire da questo inizio, radicalmente nuovo, che il Risorto affida agli apostoli il mandato missionario:

«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni; battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello

Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti

i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).

Se si interroga il complesso del dato biblico NT viene alla luce un n ncleo iniziatico che è

globalmente denominato «battesimo nello Spirito». Al suo interno si viene a configurare la distinzione

tra il momento di una prima donazione dello Spirito e la pienezza di tale donazione. Nella costituzione

apostolica di Paolo VI Divinae consortium naturae (15 agosto 1971) è proprio a questa distinzione

213 CROCETTI, «Lo Spirito Santo e Gesù Redentore», 156. 214 Cf. G. Ferraro, LO Spirito e Cristo nel vangelo dì Giovanni, Paideia, Brescia 1984,155ss.

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che si risale per individuare il fondamento biblico NT della sacramentalità della confermazione.

Fin da quel tempo gli apostoli, in adempimento del volere di Cristo, comunicavano ai neofiti,

attraverso l’imposizione delle mani, il dono dello Spirito, destinato a completare la grazia del

battesimo (cf. At 8,15-17; 19,5ss). Questo spiega perché nell’epistola agli ebrei viene ricordata, tra i

primi elementi della formazione cristiana, la dottrina dei battesimi e anche dell’imposizione delle

mani (cf. Eb 6,2). È appunto questa imposizione delle mani che giustamente viene considerata dalla

tradizione cattolica come la prima origine del sacramento delia confermazione, il quale rende, in

qualche modo, perenne nella Chiesa la grazia della pentecoste.215

È dunque nell’imposizione delle mani che viene riconosciuta «la prima origine del sacramento

della Confermazione». Consideriamo pertanto il valore e il significato dei testi esplicitamente

richiamati, in particolare At 8,15-17 e 19,5ss, dal punto di vista dell’analisi esegetica per inquadrarli

nella più complessa e ampia prassi relativa al diventare cristiani nella vita della Chiesa dopo l’evento

della pentecoste gerosolimitana (cf. At 2,1-13).216

I due testi menzionati offrono uno spaccato incompleto ma nondimeno rilevante per descrivere

alcuni aspetti salienti della prassi missionaria della Chiesa apostolica in Samaria e a Efeso. Nel

presentare l’analisi di tali testi riteniamo fondata l’ipotesi avanzata da quegli esegeti che, come

Crocetti, sostengono esservi un’unità dinamica tra il battesimo di acqua nel nome di Gesù e il gesto

dell’imposizione delle mani.217 «Noi pensiamo - nonostante le diverse opinioni - che questi brani

affermano il conferimento dello Spirito Santo già nell’amministrazione del Battesimo di acqua e poi

nella successiva imposizione delle mani; pensiamo anche che le due donazioni dello Spirito si

differenziano fra di loro».218

La situazione della Samaria descritta in Atti 8 rimanda all’azione evangelizzatrice svolta da

Filippo (At 8,5-40). Egli è uno dei «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza»

(At 6,3) presentati agli apostoli dal gruppo dei discepoli (cf. At 6,5). «Li presentarono quindi agli

apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,6). A lui come agli altri sei viene

affidato dai Dodici «il servizio delle mense» (At 6,2). Il testo di At 8,15-17 si situa nel contesto della

problematica sorta in rapporto alla figura di Simone mago (cf. At 8,9ss) e suppone la predicazione e

l’azione taumaturgica svolta da Filippo (cf. At 8,5- 8) «in una città della Samaria» (At 8,5). In questo

quadro si pone la visita di Pietro e Giovanni a Samaria su invio della comunità di Gerusalemme (cf.

At 8,14). «Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti

ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù.

Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (At 8,15-17). Segue lo sviluppo

della situazione di Simone mago nella quale torna nuovamente in evidenza il gesto dell’imposizione

delle mani in rapporto al potere di trasmettere lo Spirito Santo (cf. At 8,18-25; si veda la terminologia

usata per descrivere l’azione portentosa di Simone, At 8,10: «Questi è la potenza di Dio, quella che è

chiamata Grande»). Il ciclo si conclude con l’episodio del battesimo dell’eunuco etiope e l’accenno

al proseguimento dell’azione missionaria di Filippo (cf. At 8,26-40).

Il gesto dell’imposizione delle mani risulta chiaramente riservato al ministero svolto da Pietro

e Giovanni, inviati in Samaria dal gruppo degli apostoli che stava a Gerusalemme. In questo testo

sembra che il battesimo conferito da Filippo non abbia potuto trasmettere il dono dello Spirito Santo, 215 Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16: EV 4/1072. 216 Ricordiamo qui la posizione che fin assunta da G. Dix in The Theology of Confirmation in relation to Baptism, London 1946, il

quale sosteneva che il battesimo attestato nella prassi della Chiesa apostolica era da intendere come riferito unicamente alla remissione

dei peccati mentre il dono dello Spirito era conferito con l’imposizione delle mani. Cf. R. FALSINI, «Confermazione», in Nuovo

Dizionario di Liturgia, EP, Roma 21984,271. 217 Sulla distinzione tra il battesimo «nel» o «sul» nome di Gesù e quello «in/verso» il nome di (''-'sù, cf. CROCETTI, «Lo Spirito

Santo e Gesù Redentore», 170-173. L’Autore esclude di poter fondine una differenziazione di significato e di effetti interna alla prassi

battesimale della Chiesa apostolica, giustificabile a partire dalla diversità delle preposizioni. 218 CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 168.

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diversamente da come si evince in altri casi narrati in Atti.219 Avremmo dunque un battesimo cristiano

slegato dal dono dello Spirito Santo, anche se ad esso ordinato? Sarebbe allora necessario l’intervento

di un altro gesto capace di conferire tale dono: l’imposizione delle mani da parte degli apostoli in

quanto primi destinatari di tale dono pasquale/escatologico (cf. At 2,1-12)?

.

Occorre innanzitutto fare attenzione a non proiettare nell’esame di questo testo, come del

successivo, la preoccupazione di ritrovare già ben descritta e chiarita la prassi del sacramento della

confermazione. Alla linea esegetica che ritiene affermata in tale testo la separazione del dono dello

Spirito Santo dal battesimo per legarlo esclusivamente all’imposizione delle mani se ne può accostare

un’altra in base alla quale qui si «vuole affermare che i samaritani avevano ricevuto sì lo Spirito

Santo, ma non nella sua pienezza».220 Allora la differenza tra un rito e l’altro rispetto allo Spirito

Santo può essere così descritta: «Luca vuole rimandare [...] allo Spirito Santo della Pentecoste

gerosolimitana; è questo Spirito che il Battesimo di Filippo non aveva conferito ai samaritani» 221 Se

si ritiene questa interpretazione del testo si ha dunque una modalità duplice, tipica della tradizione

apostolica, di conferire il dono dello Spirito: la seconda modalità, strettamente legata al gesto

dell’imposizione delle mani, è quella che prospetta l’emergere del «fondamento biblico della Cresi-

ma» 222 In particolare la costruzione paratattica di At 8,17 - «imponevano [...] e ricevevano» -

illuminata da quella di At 8,18 - «lo Spirito veniva conferito con l’imposizione delle mani» - mostra

un rapporto causativo tra l’imposizione delle mani da parte di Pietro e Giovanni e il dono dello Spirito

Santo ai samaritani battezzati da Filippo. «Non è quindi un gesto dimostrativo, ma efficace».223 Tale

gesto, carico di questa efficacia salvifica, rappresenta un vero e proprio completamento dell’atto

battesimale.

Con l’altro episodio di At 19,1-6 siamo ad Efeso. Paolo incontra «alcuni discepoli» (At 19,1)

che avevano ricevuto solo il battesimo di Giovanni (At 19,3). Interrogati dall’apostolo se avevano

ricevuto lo Spirito Santo al momento in cui erano diventati credenti, essi rispondono: «Non abbiamo

nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo» (At 19,2). Dopo aver illustrato la superiorità del

battesimo di Gesù rispetto a quelllo di Giovanni, egli battezza questi discepoli e impone loro le mani:

«Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e non appena Paolo ebbe

imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano lingue e profetavano» (At 19,5-6).

Nuovamente un testo nel quale ricorre lo stretto rapporto fra battesimo e imposizione delle mani e tra

il battesimo e il dono dello Spirito Santo. L’intento redazionale di Luca è chiaro: mostrare il ripetersi

dei fenomeni pentecostali lungo lo sviluppo della missione evangelizzatrice iniziata da Gerusalemme.

Questa conformità della «pentecoste» dei giovanniti con quella di Cornelio e famiglia (At

10,46; 11,15.17) e anche con quella di Gerusalemme ci fa intravedere che Luca sta dando una sua

interpretazione degli eventi. Come per At 8,5-25 così per At 19,1-7 è possibile trovare indizi che

fanno intravedere vari eventi antecedenti che Luca poi ha ripresi e armonizzati.224.

Tuttavia l’intervento redazionale sia in questo testo come nel precedente non fa che elaborare

un dato storico prioritario: «Egli attesta, almeno in riferimento al periodo apostolico durante il quale

scrive, il conferimento del dono dello Spirito Santo a quanti erano già stati battezzati, dono che è

compimento della grazia battesimale»?225

219 Per un esame dei testi che qualificano il battesimo cristiano come atto che conferisce il dono dello Spirito Santo, cf. CROCETTI,

«Lo Spirito Santo e Gesù Redentore», 170-178. 220 CROCETTI, «LO Spinto Santo e Gesù Redentore», 178. 221 CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 179. 222 CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 186;per ilgesto della imposizionedelle

mani nella Chiesa apostolica alla luce dell’opera lucana e delle lettere pastorali (si veda inoltre anche Eb 6,2 che annovera tale rito

come uno degli aspetti fondamentali della dottrina cristiana), cf. ibidem, 184-186. 223 CROCETTI, «Lo Spirito Santo e Gesù Redentore», 188. 224 CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 190. 225 CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 190.

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L’esame di questi testi inquadrati nell’insieme della prospettiva lucana mette a fuoco

l’emergere dello stretto legame tra il dono dello Spirito Santo e il gesto dell’imposizione delle mani.

Alla valenza taumaturgica e di benedizione che ha già questo gesto nella prassi di Gesù si unisce ora

la valenza di conferire la donazione dello Spirito pentecostale, donazione già operante nel battesimo

e tuttavia ordinata a essere completata mediante un nuovo atto designato in seguito da quel rito spe-

cificamente sacramentale che è la confermazione. Nell’atto battesimale lo Spirito è presente «per

consolidare la conversione e l’avvenuto perdono dei peccati. [...] Con l’imposizione delle mani, o

Confermazione, si riceve lo Spirito Santo in quanto puro dono e dono per eccellenza».226 Tra l’evento

di Pentecoste, unico nella sua radicale novità, e la donazione dello Spirito pentecostale mediante

l’imposizione delle mani si viene a creare un rapporto di continuità e di discontinuità: continuità per

la sostanziale identità del dono, discontinuità per l’unicità della condizione degli apostoli a pentecoste

rispetto a ogni realtà successiva relativa al costituirsi della Chiesa.

Il battesimo segna l’inizio visibile dell’entrata nella comunità cristiana mediante la

conformazione a Gesù morto/risorto, il gesto dell’imposizione delle mani segna la ripresa e il

completamento di tale novità mediante la piena partecipazione del battezzato al dono pentecostale

dello Spirito. Nel battesimo emerge più chiaramente il riferimento cristologico e nella confermazione

quello pneumatologico. Tutte e due le missioni salvifiche, di Gesù e dello Spirito, riportano all’unicità

dell’iniziativa divina del Padre che vuole raggiungere, mediante l’opera degli apostoli, tutti gli

uomini.

È nel costituirsi dinamico della Chiesa apostolica che vengono a configurarsi quei due riti

(battesimo/imposizione delle mani) che esprimono l’inizio visibile dell’esperienza della salvezza in

coloro che rispondono alla chiamata alla conversione. In particolare il dono dello Spirito conferito

mediante il gesto dell’imposizione delle mani compie nei battezzati una più viva adesione di fede a

Gesù Salvatore e alla sua opera, un pieno e vitale inserimento nella Chiesa, una ricchezza di forza

necessaria per la testimonianza di fronte al mondo. Il fatto che l’imposizone delle mani sia connotata

dall’intervento dell’apostolo manifesta un aspetto costitutivo della Chiesa, un legame stabile tra

costoro e quelli che saranno investiti della missione di guidare le comunità cristiane (cf. At 14.23;

20,17.28): a questi, mediante la successione apostolica ricevuta aneli essa attraverso l’imposizione

delle mani, compete di compiere lo stesso gesto per realizzare lo stesso effetto di salvezza.

A margine di questa presentazione del fondamento NT del sacramento della confermazione

non può non essere notata la completa assenza di un legame tra la trasmissione del dono dello Spirito

ai neofiti e il rito dell’unzione, così rilevante nel retroterra biblico VT. I significati pneumatologici

veicolati da tale rito vengono ripresi ma il rito stesso non risulta essere presente nel momento tutto

speciale dell’inizio sacramentale della vita cristiana.227

226 CROCETTI, «LO Spirito Santo e Gesù Redentore», 194. 227 II rito dell’unzione compare in Gc 5,13-15 ma qui il contesto è quello della guarigione dei malati.

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CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE DELLA CHIESA

1. La confermazione/crismazione nel periodo patristico

Nel capitolo precedente affrontando la questione della prassi battesimale nella Chiesa antica

si è potuto notare come la confermazione sia stata fortemente ancorata al complesso unitario

dell’iniziazione cristiana. Con l’inizio della decadenza dell’istituto catecumenale (VI secolo circa) si

a ¡'ferma, almeno in Occidente, una prassi liturgica della confermazione sempre più autonoma dalla

celebrazione del battesimo.228 In Oriente invece la prassi liturgica si mantiene ferma sull’unità

celebrativa dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, con la novità che il ministro della confer-

mazione/ crismazione può essere anche il presbitero purché l’unzione crismale sia conferita con il

myron benedetto dal vescovo il Giovedì santo. In Occidente il conferimento della confermazione

rimane strettamente riservato al vescovo, in conformità alla prassi dei primi secoli.

Prima di considerare il fenomeno tipicamente occidentale della separazione della

confermazione dall’unità celebrativa con il battesimo e la leologia del sacramento che si è venuta nel

contempo elaborando, è importante sondare le testimonianze dei primi secoli (II-V) per poter lare

emergere quali sono gli sviluppi che si sono venuti proponendo sul piano rituale e teologico a partire

dalla prassi della Chiesa apostolica descritta nel libro degli Atti.

La problematicità delle testimonianze relative a questo periodo è un dato che non può sfuggire.

La stessa individuazione della confermazione in uno specifico rito postbattesimale e la sua

interpretazione in chiave sacramentale è un’operazione che può e deve essere condotta con la cautela

di non proiettare nei risultati dell’indagine storica quella prospettiva teologico-sistematica sul

sacramento della confermazione che si è venuta precisando molti secoli dopo nel quadro della

teologia scolastica. Nella stessa costituzione apostolica di Paolo VI traspare chiaramente la consa-

pevolezza della complessità delle testimonianze offerte dalla tradizione della Chiesa antica: «Il

conferimento del dono dello Spirito Santo, fin dalle antiche età, avveniva nella Chiesa secondo riti

diversi. Tali riti in Oriente e in Occidente subirono molteplici trasformazioni, ma sempre tali da

mantenere intatto il significato di comunicazione dello Spirito Santo».229 Si noterà come in questo

testo la problematicità e la varietà della tradizione non comportino tuttavia l’assenza del significato

sacramentale (la comunicazione dello Spirito Santo), esso è dato già a partire dalle testimonianze NT

(si veda sopra il paragrafo 4. p. 127) e si mantiene «intatto» negli sviluppi delle diverse prassi rituali.

Il problema è caso mai quello di accertare quali sono «gli elementi che appartengono sicuramente

all’essenza del rito della Confermazione».230 La questione verte dunque sull’individuazione del

«segno sacramentale» nella sua struttura essenziale, restando fermo il riconoscimento della coscienza

che la Chiesa ha sempre avuto, fin dal periodo apostolico, di una sacramentalità specifica della

confermazione.

Diversamente dal battesimo e dall’eucaristia l’esame delle testimonianze patristiche del I e II

secolo non offre, secondo Saxer, alcuna attestazione «di un rito specifico di conferimento dello Spirito

Santo».231 La stessa parola sphragìs/sigillo (cf. TRm 4,11) è utilizzata solo in riferimento

o al battesimo stesso (il Pastore di Erma, Sim. IX, 17,4) o all’effetto del battesimo nel

neofita (il sigillo come marchio impresso nell’anima da Dio: Pseudo-Barnaba, Clemente

Alessandrino, Ireneo): «Nessuno di questi Padri riattacca dunque la sphragìs a un’azione dello 228 Cf. A. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», in Anamnesis. Introduzione storico-teologica alla liturgia, Marietti,

Genova 1986, III/l, 97-102 (per le testimonianze liturgiche più rilevanti); V. SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione:

gesti e significati nella loro evoluzione storica nei secoli II-VI», in La Confermazione dono dello Spirito per la vita della Chiesa, 15-

29 (questo studio si basa sull’opera fondamentale sull’iniziazione cristiana, cf. V. SAXER, Les rites de l’initiation chrétienne du IIe au

VIe siècle. Esquisse historique et signification d’après leurs principaux témoins, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto

[PG] 1988,1992, ristampa anastatica). 229 Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16: EV 4/1074. 230 Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16. 231 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 18.

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Spirito. Insomma, al di fuori del Battesimo stesso, non c’è per loro un altro rito per conferire lo Spirito

Santo. Il Battesimo basta a darlo».232

Occorre aspettare il periodo successivo (III-V sec.) per riscontrare ampia attestazione «della

più grande fioritura dei riti battesimali».233 L’analisi delle varie testimonianze viene riepilogata da

Saxer in due tavole sinottiche: la prima relativa al III secolo (la Tradizione apostolica, il De baptismo

di Tertulliano, alcuni scritti di Cipriano di Cartagine, la Didascalia degli apostoli), la seconda al IV-

V secolo (le Costituzioni apostoliche, il Testamento del Signore, VEucologio di Serapione di Tmuis,

scritti di Giovanni di Gerusalemme, Teodoro di Mopsuestia, Gregorio Nazianze- no, Ambrogio di

Milano, Cromazio di Aquileia, Agostino d’Ippona, Quodvultdeus di Cartagine). Per l’insieme di

queste testimonianze la sintesi proposta dalla costituzione apostolica di Paolo VI risulta molto utile

per avere uno sguardo globale:

In molti riti dell’oriente sembra che fin dall’antichità fosse più frequente, nel comunicare lo

Spirito Santo, il rito della crismazione, che non era ancora chiaramente distinto dal battesimo. Tale

rito è anche oggi in vigore presso la maggior parte delle Chiese orientali. In occidente [...] dopo

l’abluzione battesimale e prima della recezione del cibo eucaristico, vengono indicati molti gesti

rituali da compiersi, come l’unzione, l’imposizione della mano e la consignatio, che sono contenuti

sia nei documenti liturgici sia in molte testimonianze dei padri.234

Pur non potendo riprendere in modo analitico l’esame di tutti questi documenti, è possibile

riconoscere nella variegata sequenza dei riti postbattesimali la ricorrenza di due gesti rituali

strettamente raccordati tra loro: l’unzione crismale, l’imposizione della mano (più raramente, come

nel Testamento del Signore, è attestata l’imposizione delle mani fatta dal vescovo in modo generale

su tutti i battezzati).235 Normalmente l’unzione crismale, compiuta dal vescovo, è seguita da una

signazione sulla fronte del battezzato (Tertulliano parla di signazione sulla fronte a forma di croce) e

accompagnata dall’imposizione della mano (in Tertulliano essa segue la signazione).236 Il significato

di questo gesto è spiegato da Tertulliano come illuminazione dell’anima operata dallo Spirito (et De

resurrectione mortuorum 8,3).

I due primi gesti (unzione crismale e signatio) tendono gradatamente a fondersi in un unico

gesto al quale si associa l’imposizione della mano da parte del vescovo. Tale situazione è già attestata

in Agostino il quale «distingue due atti postbattesimali compiuti sul neofita: unctus est, imposita est

ei manus (Serm. 324)».237 I due gesti sono intesi dal vescovo di Ippona non solo in chiave cristologica

ma anche pneumatologica dal momento che «l’unzione cruciforme con crisma imprime all’anima del

battezzato un segno indelebile o character (Serm. 302,3) che indica la sua appartenenza a Dio».238

Agostino torna su questa caratterizzazione pneumatologica dell’imposizione della mano quando

sottolinea il conferimento al battezzato del dono settiforme dello Spirito da parte di Dio. Tale dono

viene invocato sul battezzato (cf. Serm. 249,3) e, secondo Saxer, tale invocazione riveste «la forma

classica di un’epiclesi».239 Tale lettura teolo- gico-trinitaria di questi due atti post-battesimali avrà un

notevole influsso sugli sviluppi successivi della prassi della confermazione in Occidente: l’unzione

crismale viene interpretata in chiave cristologica, l’imposizione della mano in chiave pneumatologica. 232 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 19. 233 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 19. 234 Pontificale romano. Rito della Confermazione, 17: EV 4/1074. 235 Si tenga conto che le fonti prese in considerazione non hanno sempre l’interesse di informare sull’esatta esecuzione dei riti,

spesso l’informazione sui riti postbattesimali è solo indiretta e incompleta o talvolta assente come nel caso di Giovanni Crisostomo e

Proclo di Costantinopoli, cf. SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 19. 236 Dopo l’unzione crismale, mediante la quale viene espressa la configurazione del battezzato a Cristo intesa come consacrazione,

segue la signazione che, come annota Saxer, «è frontale e, accompagnata dall’invocazione dello Spirito, viene fatta in forma di croce

(Mardon. Ili, 2); il suo significato è poi spiegato esplicitamente: “La carne è segnata perché l’anima sia protetta” (Res. mort. 8)»,

SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 21. 237 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 25. 238 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 25. 239 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 26.

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Va tuttavia tenuto presente che «prima che questo duplice tesoro teologico diventi un giorno il bene

specifico del sacramento della Confermazione, i riti che la costituiscono oggi dovranno staccarsi dal

complesso primitivo dell’iniziazione cristiana. Il che si compirà nel VI secolo».240

Per un quadro più attento agli sviluppi della prassi liturgica in Occidente occorre tenere

presenti tre testimonianze fondamentali: la Tradizione apostolica, il Sacramentario gelasiano antico

e l’Ordo Romanus XI.

Nel primo caso la descrizione dei riti postbattesimali, per quanto scarna,241 offre una

testimonianza degli usi liturgici della Chiesa di Roma che, in quanto già attestati nel primo decennio

del III secolo (la Tradizione apostolica è compilata intorno al 215), sono espressione di una prassi

anteriore già nota e diffusa a Roma. I riti postbattesimali sono riportati nel contesto del c. 21, dedicato

appunto al battesimo. Dopo il lavacrum regenerationis il sacerdote (un presbitero) unge il battezzato

«con l’olio che è stato consacrato dicendo: “Ti ungo con l’olio santo nel nome di Gesù Cristo”» (c.

21). Questa prima unzione postbattesimale da parte di un presbitero sembra essere fatta sul corpo

nudo del neofita. Ad essa segue l’unzione propriamente crismale da parte del vescovo.

E così, uno per uno, si asciughino, si rivestano ed entrino in chiesa. Il vescovo imponga loro

la mano e invochi dicendo: «Signore Dio, che li hai resi degni di meritare la remissione dei peccati

mediante il lavacro di rigenerazione dello Spìrito Santo [lat. lavacrum regenerationis Spiritus

Sancti\, infondi in essi la tua grazia, affinché ti servano secondo la tua volontà, poiché a te è gloria,

al Padre, e al Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei secoli. Amen». Poi

versandogli sul capo l’olio santificato e imponendogli la mano, dica: «Ti ungo con l’olio santo nel

Signore Padre onnipotente e in Gesù Cristo e nello Spirito Santo». Lo segni sulla fronte, lo baci e

dica: «Il Signore sia con te». Colui che è stato segnato risponda: «E con il tuo spirito». Così il vescovo

faccia a tutti, uno per uno (c. 21; i corsivi sono miei).242

È questa seconda unzione, fatta dal vescovo con Volio santificato versato sul capo del

battezzato, accompagnata dall’imposizione della mano e seguita dalla signatio, che indica

precisamente il momento specifico di quel rito che da consignatio passerà in seguito a essere indicato

come confirmatio. Se prima nel battesimo lo Spirito Santo era presente per compiere una

trasformazione nel battezzato, ora «i confermati saranno “riempiti” dello Spirito Santo».243 In questo

contesto immediatamente postbattesimale l’atto del vescovo comporta il vero e proprio conferimento

del dono dello Spirito Santo. E questo dono è messo esplicitamente in relazione con il servizio

conforme alla volontà di Dio: si può pensare, osserva Nocent, che tale servizio sia da comprendere

alla luce del tema biblico della vita come sacrificio a Dio, come sacrificium laudis nel compimento

della volontà di Dio, come autentico servizio liturgico.244 Cosa succede dopo il conferimento di questa

seconda unzione? Nel testo si annota: «(I neo battezzati) preghino ormai insieme con tutto il popolo;

ma preghino insieme con i fedeli solo dopo aver ricevuto tutto ciò» (c. 21; il corsivo è mio). Nocent

rimarca il profondo significato di questa clausola:

Questo appare importante: il battesimo ma anche la confermazione sono indispensabili

240 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 26. 241 Annota Saxer: «Ippolito non è molto loquace sui riti postbattesimali», in ID. «La prassi sacramentale della Confermazione», 20.

Il testo è citato secondo la traduzione italiana a cura di R. Tateo, EP, Roma 21979. 242 Nocent pone in rilievo come la versione latina (palinsesto di Verona) della Tradizione apostolica, diversamente dalle altre

versioni, ponga esplicitamente in evidenza l’intervento dello Spirito Santo nel battesimo, cf. NOCENT «I tre sacramenti della iniziazione

cristiana», 97-98. Sulla complessità biella sequenza rituale dei riti postbattesimali descritti al c. 21 e sulle possibili spiegazioni (tra le

quali ¡1 possibile affastellamento o giustapposizione di due riti: quello con il solo presbitero e quello con il presbitero e il vescovo),

cf. SAXER, Les rites de l’initiation chrétienne du IIe au VT siècle, 117-119. 243 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 98. 244 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 98-99.1 riferimenti biblici, anche se non esplicitamente presenti a Ippolito,

sono attinti da Is 53 e da Giovanni, cf. ibidem, «L’intuizione ili p. Ligier sembra appoggiata da questi testi di Ippolito, quando vede

nella confermazione il sacramento che deputa alla preghiera», ibidem.

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affinché i neofiti possano pregare con i fedeli e scambiare con loro il bacio di pace. La confermazione

sembra dunque essere la deputazione alla preghiera, all’offerta del sacrificio che segue

immediatamente. Si tratta del «servizio» o della «consummatio» del battezzato, divenuto ormai atto

a servire.245

Nel testo tale rito non è ancora designato con il termine confirmatio.

Nel Sacramentario gelasiano antico (fine del VI sec. ), nella linea già tracciata dalla

Tradizione apostolica, ricorre esplicitamente la descrizione di un rito postbattesimale in uso a Roma,

designato come consignatio: «Impositio manus episcopi. Deinde ab episcopo datur eis spiritus

septifor- mis. Ad consignandum imponit eis manum in his verbis: [segue l’epiclesi]».246 Esso è

preceduto dall’unzione compiuta dal presbitero con il crisma sulla nuca (lat. in cerebro) del

battezzato.247 Sono attestati due rituali: uno per la veglia pasquale, uno per la vigilia di Pentecoste.

La sequenza rituale è la seguente: imposizione della mano accompagnata dall’invocazione dello

Spirito settiforme, consignatio o unctio cruciforme con il crisma sulla fronte del battezzato da parte

del vescovo, bacio di pace seguito dal saluto 248 La signatio chrismalis segue l’epiclesi ed è accompa-

gnata dalla formula: «Signum Christi in vitam aeternam».249 Sul crisma, benedetto nella messa

crismale del Giovedì santo, il vescovo invoca il dono dello Spirito Santo con la seguente preghiera:

Te igitur depraecamur, domine, sanctae pater, omnipotens aeternae deus, per Iesum Christum

filium tuum dominum nostrum, ut huius creaturae pinguidinem sanctifi- care tua benedictione

digneris et in sancti spiritus inmiscere virtutem per potenciam Christi tui, a cuius sancto

nomine chrisma nomen accepit, unde uncxisti sacerdotes reges prophetas et martyres tuos, ut

sit his qui renati fuerint ex aqua et spiritu sancto chrisma salutis, eosque aeternae vitae

participes et caelestis gloriae facies esse consortes: per eundem dominum nostrum Iesum

Christum filium tuum

La sequenza dei riti postbattesimali attestata dal Gelasiano pone dunque in evidenza la

presenza di due unzioni, quella del presbitero e quella del vescovo, come riti distinti all’interno della

stessa seduta battesimale. Le formule che accompagnano rispettivamente le due unzioni, osserva

Saxer, si rassomigliano al punto da fare supporre la provenienza da una matrice comune, quasi che

all’origine vi sia «uno solo e medesimo rito che si sarà raddoppiato quando al vescovo non fu più

possibile di essere presente a sedute battesimali contemporanee».250 Diversamente dalla liturgia

romana quella gallicana parla di una sola crismazione, «quella amministrata dal presbitero subito

dopo il battesimo», mentre il vescovo interviene al di fuori del battesimo come è attestato dal concilio

di Orange del 441 che denomina tale intervento confirmatio.251 Da un punto di vista teologico è chiaro

lo stretto rapporto tra l’unzione conferita dal vescovo e il dono dello Spirito Santo. Esso risalta dalle

parole dell’epiclesi, accompagnata dall’imposizione della mano (lat. imponit eis manum) su tutti i

battezzati, indicata nelle rubriche come atto mediante il quale «datur eis spi- ritus septiformis».252

Imposizione della mano su tutti i battezzati prima e unzione crismale con signazione cruciforme poi:

il primo gesto, ben radicato nella prassi attestata negli Atti degh apostoli, è presentato dalla rubrica

come rito che si pone ad consìgnandum. E in tale gesto rituale e nell'epiclesi che l’accompagna che

il vescovo, successore degli apostoli, conferisce ai battezzati la pienezza del dono dello Spirito

245 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 100. 246 Enchiridion euchologicum fontium liturgicorum, a cura di E. LODI, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1979,686. 247 La rubrica dice: «Postea cum ascenderit a fonte infans, signatur a presbitero in cerebro de chrismate his verbis», in LODI (ed.),

Enchiridion euchologicum, 685. Cf. SAXER, Les rites de l’initiation chrétienne du IF au VF siècie, 620-623. 248 Cf. R. FALSINI, «Confermazione», in Nuovo Dizionario di liturgia, EP, Roma 21986,276. 249 LODI (ed.), Enchiridion euchologicum, 685. 250 SAXER, «La prassi sacramentale della Confermazione», 28; cf. ID., Les rites de Vinitiation chrétienne du IF au VF siècie, 622-

623. 251 Cf. SAXER, «La piassi sacramentale della Confermazione», 28-29. 252 Per il testo dell’epiclesi, cf. LODI (ed.), Enchiridion euchologicum, 686. Il nuovo Ordo con- firmationis riprende tale testo quasi

alla lettera, cf. OC 25.

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Santo.253

Con l’Ordo Romanus XI (seconda metà del VI sec. o inizio VII sec.) la situazione

dell’iniziazione cristiana a Roma, come anche altrove, si è notevolmente modificata per la progressiva

e crescente diffusione del pedobattesimo.2541 riti catecumenali e prebattesimali tendono a concen-

trarsi anche se tale Ordo attesta ancora lo svolgimento di una prassi cate- cumenale articolata in sette

sedute denominate «scrutini», di cui quattro comportano solamente degli esorcismi. A partire

dall’Ordo M. Andrieu ritiene, diversamente da quanto sostenuto da Duchesne, che i preti della Chiesa

di Roma fossero incaricati non solo di accompagnare l’itinerario catecumenale ma anche di conferire

il battesimo nei battisteri di tituli e basiliche diversi dal battistero del Laterano, luogo dove la seduta

battesimale era officiata personalmente dal papa.255 L'Ordo rappresenta appunto il direttorio

autorizzato e destinato ai presbiteri della Chiesa di Roma in cui sono stabiliti i riti da seguire. Esso

presenta una sequenza dei .'iti postbattesimali molto simile a quella del Gelasiano antico.256 Chi pre-

siede è il vescovo di Roma:

Induti vero ordinantur per ordinem, sicut scripti sunt, in circuitu et dat orationem pontifex

super eos, confirmans eos cum invocatione septiformis gratiae spiritus sancti. Oratione

expleta, facit crucem cum police et chrisma in singulorum frontibus, ita dicendo: In nomine

patris et filii et spiritus sancti. Pax tibi. Et respondent: Amen

Il presbitero ha già fatto dopo il lavacro battesimale un’unzione crismale sul capo del

battezzato: «Ipse vero presbiter facit de chrisma crucem cum polìce in vertice eorum, ita dicendo:

Deus omnipotens pater domini nostri Iesu Christi, et reliqua257 L’orazione epicietica pronunziata dal

vescovo (lat. dat orationem) è sicuramente quella attestata nel Gelasiano antico; il rito viene invece

designato non più con la locuzione «Ad consi- gnandum» ma con «confirmans eos»: dalla consignatio

si è passati alla confirmatio. UOrdo non segnala l’imposizione della mano: il vescovo traccia sulla

fronte di ogni candidato il segno della croce con il crisma con una formula diversa da quella del

Gelasiano antico. Interessante è l’annotazione che segue nella quale si raccomanda di non trascurare

di ricevere la confermazione: «Et hoc omnino praecavendum est ut hoc non neglegatur, quia tunc

omne baptismum legitimum christianitatis nomine confirmatur».258 Sembra doversi supporre che la

confermazione sia separata dal battesimo come nel caso in cui questo non è stato conferito dal vescovo

ma da un presbitero presso un fonte battesimale diverso da quello del Laterano. La raccomandazione

è allora di completare l’atto battesimale con la confermazione da parte del vescovo. È un segnale del

graduale distacco della confermazione dai riti battesimali con la conseguenza, sottolineata da Nocent,

che «il significato della confermazione non era molto conosciuto e che essa non era considerata come

necessaria per la vita cristiana».259

La progressiva separazione dal battesimo di quello che sarà sempre più chiaramente in

Occidente il rito autonomo della confermazione comincia a manifestarsi già dal IV secolo. Ne dà già

testimonianza all’inizio del IV secolo il concilio di Elvira (300/303) nel quale si richiede a chi è stato

battezzato da un sacerdote, diacono o laico di rivolgersi al vescovo perché mediante l’imposizione

della mano ciò che si è operato nel battesimo possa essere portato a compimento.260 Tale situazione

di separazione sembra così diffusa nella prassi successiva che papa Innocenzo I in una lettera (416) a

Decenzio, vescovo di Gubbio, si vede costretto a richiamare la necessità che i fanciulli una volta

battezzati debbano essere confermati «da nessun altro se non dal vescovo» (Denz 215). Indirettamente 253 Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 100. 254 Su questo, cf. Les Ordines romani du haut moyen age, II: Les textes (Ordines I-XIII), a cura ili M. ANDRIEU, Spicilegium Sacrum

Lovaniense, Louvain 1971, 404-408.409. Per il testo dell ’Ordo seguiamo l’edizione critica da lui curata, cf. ibidem, 417-447. 255 ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 409-412. 256 ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 402-404. 257 Ordo Romanus X, n. 97, in ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 446. 258 Ordo Romanus XI, n. 102, in ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen age, 446. 259 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 101. 260 «... ut per manus impositionem perfici possit», in Denz 120, cf. anche ibidem 121; cf. LIGIER, La Confermazione, 35.

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tale problema attesta il diffondersi della prassi del battesimo dei fanciulli senza la presenza del

vescovo. L’autorevole intervento pontificio deve indugiare nel difendere il compito proprio del

vescovo di fronte a una situazione nella quale i presbiteri, dopo il battesimo, compiono un’unzione

crismale che di fatto viene intesa come sostitutiva di quella episcopale. Essi sono sacerdoti ma «non

possiedono l’apice del pontificato» (ibidem). Il fondamento biblico dell’attribuzione al vescovo e a

lui soltanto del ministero «di confermare o di trasmettere lo Spirito Paraclito» (ibidem) è individuato

nel passo di At 8,14-17. Ne segue che «ai presbiteri è permesso, allorché o senza vescovo o in sua

presenza battezzano, di ungere i battezzati col crisma - che però era stato consacrato dal vescovo -,

ma non di segnare la fronte con il medesimo olio, ciò che spetta solo ai vescovi quando trasmettono

lo Spirito Paraclito» (ibidem). Segnare la fronte con il crisma compete dunque al vescovo; al

presbitero, come già si è visto nelle altre testimonianze esaminate, compete un’altra unzione,

successiva al battesimo ma previa a quella episcopale, sempre con il crisma consacrato dal vescovo.

Nella lettera non si menziona esplicitamente il gesto dell’imposizione della mano, sottinteso tuttavia

nel richiamo esplicito del testo degli Atti degli apostoli. Il problema non sembra infatti essere

suscitato dal rito dell’imposizione della mano, chiaramente riservato al vescovo, ma dalla possibile

identificazione nella prassi tra l’unzione da parte del presbitero e quella da parte del vescovo: la prima

tende ad assorbire e vanificare il valore specifico dell’altra. Secondo Ligier il silenzio a proposito

dell’imposizione della mano si deve leggere come attestazione che a Roma solo tale gesto godeva

incontestabilmente di una specifica efficacia sacramentale, solo in quanto relativa a tale gesto la stessa

crismazione della fronte riceveva importanza sacramentale.261

In questo contesto, nel quale la confermazione assume sempre più la valenza di rito autonomo

con una sua specifica rilevanza sacramentale, viene a collocarsi una Omelia per la Pentecoste di

Fausto di Riez (405- 490).262 La teologia della confermazione esposta in tale testo assume

un’importanza tutta particolare per l’influenza che in Occidente ha avuto sulla successiva riflessione

teologica. Il testo di questa omelia, inserito nella collezione delle Decretales pseudo-isidorianae (IX

sec.) e attribuita al papa Melchiade, passerà successivamente nel Decretum Gratiani (XII sec.) e

rappresenterà per la teologia scolastica il punto di riferimento pressoché esclusivo per l’elaborazione

della teologia del sacramento della confermazione.263 Tenendo conto che tale omelia può essere collo-

cata tra il tempo dell’elezione episcopale di Fausto alla sede di Riez (460) e il suo successivo Trattato

sullo Spirito Santo (circa 470), essa offre indirettamente uno spaccato sulla celebrazione dei riti

dell’iniziazione cristiana nella Gallia meridionale verso la metà del V secolo. La situazione,

confrontata con le testimonianze di Salviano di Marsiglia (t 470) e di Gennadio (f 499/505), si sta

modificando: dall’unità celebrativa si va verso la separazione della confermazione dal battesimo. Ciò

è dovuto principalmente al fatto dell’istituzione delle parrocchie rurali dove il vescovo non interviene

nella celebrazione del battesimo, rimanendo a lui riservato un altro rito (la confermazione) da

compiersi successivamente per completare l’atto battesimale.264 Quest’altro rito si compie per mezzo

deWimposizione della mano mentre l’unzione crismale rimane legata al lavacro battesimale, perdendo

gran parte del significato che essa aveva quando precedeva immediatamente la stessa imposizione

della mano da parte del vescovo.265 Nell’omelia Fausto è richiesto di dare ragione della necessità

della confermazione, di spiegare a che cosa serve e in che cosa si distingue dal battesimo. La questione

da chiarire è la seguente: «“Dopo il mistero del battesimo, a che mai dunque può servirmi il ministero

261 Cf. LIGIER, La Confermazione, 36. 262 II testo è citato secondo la tr. it. del Bouhot ripresa in A. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa latina, San

Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003,133-137. Cf. anche DE CLERCK, «La confirmation: vers un consensus oscuménique?», 86-88;

fondamentale lo studio di questo testo da parte di L.A. VAN BUCHEM, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa,

132 (nota 116). Cf. anche NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 104. 263 Cf. PL 130, 237-244 (la silloge di testi è così presentata: «Incipiunt Decreta Melchiadis Papae,A. D. 311, tempore Maximini

imper.», in ibidem 237). De Clerck fa notare che l’attribuzione a papa Melchiade non pare essere corretta, lo Pseudo-Isidoro si è

confuso con papa Miltiade (310-314 d.C), cf. DE CLERCK, «La confirmation», 88. 264 Su questa preminenza del vescovo nel conferimento della confermazione, cf. quanto disposto dai concili di Riez (439) e di Orange

(441) per arginare l’insorgere di una prassi nella quale i presbiteri sembrano di fatto annettersi tale munus, cf. ELBERTI, La

confermazione nella tradizione della Chiesa, 304. 265 Cf. PL, 134-135. Per le testimonianze di Salviano e Gennadio, cf. ìbidem, 131-133.

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di chi conferma?” Pensa infatti: “A quanto pare, nel battesimo non abbiamo ricevuto tutto se, dopo,

abbiamo bisogno di un nuovo dono”».266 In tutta l’omelia torna continuamente l’identificazione tra il

mysterium (o sacra- mentum) confirmationis e il rito della manus impositio da parte del vescovo. I

due sacramenti, battesimo e confermazione, sono tra loro così strettamente uniti che nessuno può

separarli se non il sopravvenire improvviso della morte. Il secondo perfeziona il primo ed è da tenersi

in grande venerazione in quanto può essere conferito solamente dal vescovo che, come successore

degli apostoli, porta a compimento nel battezzato la promessa di cui parla il profeta Gioele: «“Negli

ultimi giorni, dice il Signore, effonderò il mio spirito su ogni carne”. Meditiamo le ricchezze della

suprema Bontà! L’imposizione della mano sui neofiti che devono essere confermati dà ad ognuno ciò

che la discesa dello Spirito sul popolo dei credenti donò a tutti insieme» 267 Per illustrare il significato

specifico della grazia sacramentale della confermazione, rispetto a quella del battesimo, Fausto

ricorre alla vita militare: «Il regolamento militare prescrive che un capo, quando accetta un nuovo

soldato, non si contenti di iscrivere la nuova recluta, ma che anche l’equipaggi per il combattimento

con le armi più convenienti. Ebbene, per il battesimo la benedizione è questo equipaggiamento, se gli

hai dato il rango di soldato, dagli anche le armi per combattere».268 L’analogia tra l’iniziazione

cristiana e l’ingresso nella vita militare spinge il vescovo di Riez a coniare un assioma che diviene

emblematico per dire la distinzione e l’unità tra battesimo e confermazione: «Nel battesimo siamo

rigenerati per la vita, dopo il battesimo siamo confermati per la lotta».269 Il primo dona la vita nuova

in Cristo, il secondo dona la capacità effettiva di realizzare questa vita nuova: il primo riguarda

l’essere, il secondo l’agire. In tutti e due è operante lo Spirito Santo: nel primo «dà la pienezza quanto

ad innocenza», nella confermazione «dà un accrescimento quanto a grazia...» 270 La pneumatolo- gia

sottesa a questa interpretazione della confermazione mira a sottolineare il carattere agonico e

martiriale della vita cristiana: equipaggiamento, armi, lotta vittoria, ... «Se dovessimo morire subito,

il beneficio della nuova nascita ci basterebbe, ma per vincere, abbiamo bisogno del soccorso della

confermazione» 271 II battezzato è inoltre paragonato a un figlio piccolino che ha ricevuto dal padre

grandi beni: a cosa servirebbe tutto ciò se lo stesso padre non provvedesse ad affidarlo a un tutore? E

il tutore per il vescovo di Riez è lo Spirito Santo di cui parla Gesù nei detti sul Paraclito. «Così per

quanti sono rigenerati nel Cristo, il Paraclito è custode, consolatore e tutore».272 Tutto il testo

dell’omelia prosegue sviluppando con ampiezza lo stretto rapporto fra la confermazione e il dono

dello Spirito Santo in analogia all’evento della Pentecoste nella vita degli apostoli.

Per questo, prima della venuta dello Spirito Santo, i discepoli erano terrorizzati fino al

rinnegamento, ma, dopo la sua visita, si armarono di disprezzo per la loro vita, fino al martirio. Siamo

riscattati da Cristo, ma dallo Spirito Santo siamo illuminati col dono della sapienza spirituale, siamo

edificati, ben compaginati, istruiti, resi perfetti. E allora possiamo comprendere la parola dello Spirito

Santo quando dice: «Ti darò l’intelligenza e ti istruirò sulla via da percorrere».273

Sullo sfondo di questa ricca elaborazione del significato pneumato- logico della

confermazione e della contestuale e reiterata riaffermazione del suo stretto rapporto con il battesimo,

si intravede il problema oggettivo posto dal diffondersi di una prassi che tende a sottovalutare la

peculiarità dell’intervento del vescovo e ad assorbire il rito della confermazione nel rito propriamente

battesimale. Il diffondersi delle parrocchie rurali pone d’altronde l’esigenza di celebrare il battesimo

senza la presenza del vescovo con la conseguenza che la confermazione, prima di guadagnare una

sua posizione autonoma rispetto al battesimo, rischia di essere o assorbita nel gesto postbattesimale

266 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135 (PL 130,240). 267 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135. 268 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135. 269 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135 (PL 130,241). 270 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135. 271 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135. 272 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135. 273 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 135.

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dell’unzione crismale a opera del presbitero o eclissata perché non avvertita necessaria per il comple-

tamento del rito dell’iniziazione cristiana. Questa omelia, come mezzo secolo prima la lettera di

Innocenzo I, prende energicamente posizione di fronte a tale situazione di fluttuazione ribadendo la

peculiarità della confermazione e la sua necessità per il pieno compimento della portata sacramentale

dell’evento battesimale. Ciò che nella prassi precedente non era avvertito come problematico ha

bisogno ora di un supplemento di chiarificazione e di giustificazione teologica sia in ordine al gesto

sacramentale specifico (i testi insistono più sull’imposizione della mano che sull’unzione frontale con

il crisma), sia in ordine al ministro richiesto (il vescovo o eventualmente un cor episcopo), sia

all’effetto sacramentale (il dono dello Spirito settiforme trasmesso agli apostoli il giorno della

Pentecoste). In particolare l’omelia di Fausto di Riez approfondisce il rapporto della confermazione

con il battesimo sottolineando che in essa si opera un aumento di grazia (augmentum gratiae) e che

mediante tale dono si è fortificati per la lotta (robur ad pugnam).274 Lo schema «nascita/crescita»,

legato a questa teologia del rapporto tra battesimo e confermazione, sarà ripreso nella teologia

scolastica e in particolare nella teologia dell’Aquinate per individuare il proprium della

confermazione rispetto al battesimo: mentre questo dice il riferimento alla nascita (rigenerazione

spirituale), la confermazione riguarda invece la crescita (crescita spirituale). Di qui sarà facile passare

a considerare la confermazione come il sacramento che abilita alla maturità cristiana intesa principal-

mente nell’ottica della testimonianza.

Questa attenzione privilegiata alla confermazione, tendente a configurarsi sempre più in

Occidente come rito autonomo dal battesimo,275 non deve fare perdere di vista il fatto che essa nelle

testimonianze più antiche sia in Occidente come in Oriente si trova ben inserita nell’insie- me unitario

della celebrazione pasquale dei sacramenti dell’iniziazione cristiana al cui vertice si trova l’eucaristia,

vero compimento della stessa iniziazione e punto di partenza del tempo della mistagogia. La

tradizione delle Chiese orientali ha mantenuto tale unitarietà sia liturgicamente che teologicamente e

in essa la confermazione sta, e rimane sempre, al secondo posto tra il battesimo e la sinassi eucaristica

battesimale. Prima di passare al capitolo successivo, attento a cogliere alcuni sviluppi fondamentali

della teologia scolastica e delle fonti liturgiche medievali sulla confermazione, è dunque importante

integrare la conoscenza del periodo che va dal IV al VI secolo con la considerazione di alcune

significative testimonianze dell’Oriente.

Nelle catechesi di Cirillo di Gerusalemme (350-387) l’unzione con il crisma rappresenta il

culmine del rito battesimale.276 In particolare l’unzione con il balsamo (myron) su cui è stato invocato

lo Spirito Santo segue il lavacro per mezzo dell’acqua: questo duplice rito costituisce nel suo insieme

l’azione battesimale. Il lavacro è segno della passione di Cristo, l’unzione con il crisma/myron sulla

fronte e tutti gli altri sensi è segno dello Spirito Santo.

Come per il battesimo voi siete fatti degni di essere crocifissi, sepolti e risuscitati a

somiglianza di Cristo veramente crocifisso, morto e risuscitato, così per la crisma- zione voi siete

stati unti col mistico unguento dell’esultanza con cui fu unto lui - cioè con lo Spirito Santo chiamato

olio di esultanza perché fonte vera e propria di ogni letizia spirituale - divenendo con l’unzione

partecipi e consorti di Cristo (Catechesi XXI o III Catechesi mistagogica, 2).277

Questo rito ha una sua distinta peculiarità rispetto agli altri riti battesimali ed è a partire da

questa santa crismazione che si può essere qualificati veramente come «cristiani» (cf. ibidem, 5). Due

274 Cf. DE CLERCK, «La confirmation», 88. 275 Non possiamo proporre un esame analitico della confermazione nelle fonti liturgiche occidentali,non romane, si rimanda al

quadro presentato da ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 253ss (ambrosiana, gallicana, ispanica, celtica,

anglosassone, tedesca...). 276 Si tratta delle catechesi prebattesimali e di quelle mistagogiche. Le seconde sarebbero da attribuire a Giovanni di Gerusalemme

(387-417), cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 145-146. 277 II testo è citato secondo la tr. italiana a cura di C. RIGGI, Città Nuova, Roma 1993. Ttitta la HI Catechesi mistagogica è dedicata

ad approfondire il significato teologico della crismazione con il santo myron, cf. ibidem, 449ss.

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testi delle Catechesi prebattesimali (XIV, 25; XVI, 26) lasciano pensare che il rito comporti anche

un’imposizione delle mani.278

Negli scritti di Giovanni Crisostomo (345/354-407), in particolare nelle Catechesi battesimali,

emerge il riferimento al gesto dell’imposizione della mano (sia come rito prebattesimale che

accompagna l’unzione sia come rito postbattesimale senza che si accenni esplicitamente a una

unzione) compiuto dal presbitero o dal vescovo mentre le unzioni sono collocate tra i riti

prebattesimali (cf. VI Catechesi battesimale, 22-24).279

Inoltre dopo questa unzione vi fa scendere nelle sacre acque, contemporaneamente

seppellendo l’uomo vecchio e risuscitando quello nuovo, rinnovato ad immagine di colui che lo creò.

Proprio allora attraverso le parole del sacerdote e mediante la sua mano discende a volo la presenza

dello Spirito Santo e risale uno al posto di un altro, dopo aver lavato ogni macchia dei peccati, deposto

il vecchio abito della colpa ed indossato il vestito regale (ibidem, 25; cf. anche ibidem, 10.26 dove

più volte ricorre il richiamo al gesto della mano del sacerdote che tocca il capo del battezzato; cf.

anche IV Catechesi, 3).

Il fatto che si taccia il richiamo a una unzione postbattesimale «non impedisce assolutamente

di fare emergere la teologia contenuta nella sua dottrina suirinsieme della stessa iniziazione cristiana;

l’importanza da lui riservata al tema del dono dello Spirito Santo nel contesto iniziatico è a tutti ben

nota».280 L’azione dello Spirito appare strettamente legata a tre momenti dell’iniziazione: la

benedizione dell’acqua, l’unzione prebattesimale, l’imposizione della mano. «Nel misterioso rito

dell’immersione in acqua, seguito dalle parole e dall’imposizione della mano che preparano alla

venuta dello Spirito, nasce l’uomo nuovo completamente trasformato, creato ad immagine del

Creatore, figlio adottivo di Dio, fratello e coerede di Cristo, trasformato in dimora e tempio dello

Spirito».281

Come osserva Ligier, a partire dallo studio analitico delle antiche testimonianze liturgiche

orientali, la valenza della crismazione come gesto sacramentale complementare al lavacro battesimale

prevale sul gesto dell’imposizione delle mani solo dopo il concilio di Nicea. Questa evoluzione dei

riti postbattesimali si presenta come graduale e tale da non fare completamente scomparire se non

molto lentamente la peculiarità del rito dell’imposizione delle mani. «Ai tempi del concilio di Nicea

(325) l’imposizione delle mani fu inizialmente, come abbiamo visto, il rito comune all’ordinazione,

alla penitenza, alla confermazione e alla riammissione degli eretici. Ma ben presto, in questo secolo

di organizzazione canonica e di eresie trinitarie, la necessità di assicurare una qualificazione al

sacerdozio portò le Chiese dell’Asia Minore a operare una differenziazione: evidenziare la

crismazione nella riconciliazione degli eretici e nella confermazione, riservando l’imposizione delle

mani alle ordinazioni. Tuttavia un cambiamento di questa importanza, pur valendosi del patrocinio

del concilio di Laodicea che concluse quello di Nicea, non riuscì a imporsi da un giorno all’altro:

parecchie Chiese orientali infatti conservarono l’uso dell’imposizione delle mani nella loro liturgia

della confermazione. E anche dove la crismazione finì per trionfare, l’imposizione delle mani

scomparve soltanto a poco a poco».282

Giovanni Damasceno (650-750 circa) nella sua opera Esatta esposizione della fede ortodossa

offre una significativa testimonianza della prevalenza del gesto della crismazione sull’imposizione

278 Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 150. 279 II testo delle Catechesi battesimali è citato secondo la traduzione italiana a cura di A. CERESA- GASTALDO, Città Nuova, Roma

1982. Cf. ibidem, 121-122. 280 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 155. 281 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 158. 282 LIGIER, La Confermazione, 167. Cf. LIGIER, La Confermazione, 122ss (per il senso del canone 8 del concilio di Nicea e per i

successivi sviluppi in Basilio e nella prassi liturgica dell’Oriente).

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della/e mano/i.283 Nel libro quarto un breve capitolo raccoglie gli insegnamenti fondamentali e

normativi della tradizione sulla fede e sul battesimo (cf. De fide orthodoxa, IV, 9). Il battesimo

cristiano è immediatamente legato al battesimo di Gesù al Giordano: «Anche noi siamo battezzati

secondo il perfetto battesimo del Signore, quello con l’acqua e lo Spirito» (ibidem, IV, 9). Nel lavacro

battesimale non si opera solamente la remissione dei peccati ma il battezzato riceve anche «la primizia

dello Spirito Santo, e la rigenerazione diventa per noi inizio di un’altra vita, sigillo, presidio e

illuminazione» (ibidem). La presentazione della teologia del battesimo si conclude con un breve

inciso sul significato dell’olio: si tratta chiaramente dell’olio impiegato nell’unzione post-battesimale

(la crismazione). L’intento del Damasceno non è quello di descrivere il rito ma di esplicitare il

significato cristologico e pneumato- logico di questa unzione: «L’olio è ricevuto nel battesimo per

manifestare la nostra unzione, per renderci Cristi e per annunciarci la misericordia di Dio mediante

lo Spirito Santo, poiché anche la colomba portò un ramo d’ulivo a coloro che erano stati salvati dal

diluvio» (ibidem). Un debole richiamo al gesto dell’imposizione della mano appare nella singolare

spiegazione di come nel battesimo di Gesù fu Giovanni stesso a essere battezzato: «Giovanni fu

battezzato avendo posto la sua mano sul divino capo del Signore, e anche con il suo proprio sangue»

(ibidem).

L’esame attento di una serie di testimonianze liturgiche di aree diverse (Costantinopoli,

Antiochia, Asia Minore) dell’Oriente cristiano nel periodo che va dal IV al VII secolo permette a

Ligier di sottolineare la persistenza del legame originario tra il gesto apostolico dell’imposizione delle

mani e il conferimento del dono dello Spirito Santo.

Tuttavia la concezione che il dono dello Spirito si fa con l’imposizione delle mani, non sparì

completamente dai rituali battesimali passati alla crismazione, ma è stata riservata al rito del giorno

ottavo nella liturgia bizantina e in un Basilio melchita. In quell’occasione il neofita torna in chiesa

per farsi togliere la benda che gli copriva la fronte ed essere lavato. La celebrazione doveva

concludersi con le parole tradizionali: «Sei stato battezzato, illuminato, unto con il myron, santificato

e lavato»: in una parola, la sua iniziazione è stata completata. Le orazioni iniziali commemoravano

la liturgia battesimale e le sue grazie. La seconda in particolare menzionava il «perdono dei peccati»,

poi il «pegno», arrhabón, cioè il dono dello Spirito, e nel momento in cui il sacerdote chiedeva che

questo pegno rimanesse inviolato, pregava Dio di stendere la mano sul neofita: «Imponi su di lui,

epithes auto, la tua mano, che è forte, proteggilo con la potenza della tua bontà, conserva il suo pegno

inviolato...» e in segno di ciò gli chiedeva - come pure all’assemblea - di inclinare la testa per la

benedizione. Il tema dell’imposizione delle mani è dunque liturgicamente ricordato e riferito al pegno

dello Spirito.284

2. La confermazione nel settenario sacramentale

Dopo aver considerato gli sviluppi della prassi e della teologia della confermazione alla luce

di alcune significative testimonianze del periodo patristico, si è potuto notare come, diversamente

dalla prassi attestata nelle diverse fonti liturgiche dell’Oriente cristiano, il rito della confermazione

ha conosciuto in Occidente una sua progressiva separazione dal rito battesimale fino a conseguire la

posizione di rito autonomo. Il gesto essenziale che caratterizza tale azione liturgica tende a

concentrarsi nell’unzione crismale sulla fronte accompagnata dall’imposizione della mano ed è

compiuto dal vescovo, ministro ordinario della confermazione (cf. concilio di Firenze, Bolla

sull’unione con gli armeni, Exsultate Deo, 22.11.1439, in Denz 1318).

Il contributo della teologia scolastica, nel contesto della formulazione di un discorso

sistematico sui sacramenti, rappresenta un luogo di passaggio decisivo per comprendere il significato

283 Tale scritto fa parte di una trilogia composta non prima del 743; per il contesto, cf. introduzione di V. FAZZO al testo in tr. it.,

La fede ortodossa, Città Nuova, Roma 1998,5ss. 284 LIGIER, La Confermazione, 209. Per il risvolto di questo legame in ordine al dialogo ecumenico, cf. ibidem, 211ss.

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sacramentale della confermazione nell’ambito del settenario. In particolare l’elaborazione proposta

dall’Aquinate viene a costituire un punto di riferimento di notevole rilevanza per l’influenza che in

Occidente avrà tanto per la teologia come per il magistero e la prassi pastorale successiva.

A sua volta il pensiero di s. Tommaso trova già nei grandi maestri dell’alta scolastica quel

retroterra dottrinale nel quale si viene forgiando un primo approccio sistematico sia dei sacramenti in

genere come più specificamente della stessa realtà sacramentale della confermazione.285 Nel suo

trattato De sacramentis christianae fidei Ugo di S. Vittore (t 1141) espone quello che si può definire

«il primo grande tentativo di voler inquadrare l’iniziazione cristiana nell’ottica di una teologia siste-

matica, per cui i due primi sacramenti d’iniziazione sono tra loro intimamente uniti nella costruzione

dell’uomo nuovo in Cristo».286 Dopo la trattazione del battesimo divisa in quattordici capitoli (cf. De

sacr., Lib.6: PL 176, 441-460) segue quella della confermazione divisa in sei capitoli (cf. ibidem: PL

176, 459-462) per arrivare alla parte conclusiva articolata in quattordici capitoli e dedicata al

sacramento del corpo e sangue di Cristo (cf. ibidem: PL 176, 461-472). L’approccio alla confer-

mazione tocca sei punti fondamentali: il crisma e il suo uso, l’imposizione delle mani in quanto

riservata solamente al vescovo, l’intervento di papa Silvestro relativo all’unzione postbattesimale

riservata al presbitero, l’importanza della confermazione rispetto al battesimo (quale dei due sia più

grande), la non reiterabilità della confermazione (come del battesimo), il tempo stabilito dalla Chiesa

(sette giorni) per accompagnare i neoconfermati attraverso un percorso che si potrebbe definire di

tipo mistagogico. Si parte dunque dall’unzione crismale (il cui significato è illustrato a partire dal

fondamento biblico)287 per passare alla sua peculiare rilevanza sacramentale nel rito della

confermazione (l’unzione crismale mediante l’imposizione della mano riservata solamente al

vescovo), distinguendolo debitamente dall’altra unzione postbattesimale (il richiamo all’intervento

di papa Silvestro in base al quale al presbitero spetta l’unzione crismale sulla nuca e non sulla

fronte),288 per arrivare all’individuazione della specifica grandezza della confermazione rispetto al

battesimo (la confermazione eccelle sul battesimo perché può essere conferita solamente dal vescovo)

restando ferma la loro stretta unità (i due sacramenti sono così strettamente uniti «in operatione salu-

tis» che solo il sopraggiungere della morte può separarli). Le ultime due questioni toccano la

condizione dei neoconfermati sotto due punti di vista diversi: la confermazione non può essere

conferita che una sola volta (come il battesimo non è reiterabile) e per la sua celebrazione, ana-

logamente al battesimo, richiede il digiuno (sia del ministro che dei con- fermandi, salvo il caso di

infermità e di pericolo di morte), il loro accompagnamento per un periodo di sette giorni attraverso

un percorso mistagogico mirato a fare gustare la settiforme ricchezza del doni dello Spirito Santo.289

Al centro di questa dottrina emerge con chiarezza il gesto sacramentale della confermazione:

Manus impositio quae usitato nomine confirmatio vocatur, qua Christianus unctio- ne

chrismatis per impositionem manus in fronte signatur; solis episcopis apostolo- rum vicariis

debetur, ut Christianum consignent, etspiritum Paracletum tradant; sicut in primitiva

Ecclesia Spiritum sanctum per impositionem manuum dandi soli apostoli potestatem habuisse

leguntur (Ibid.: PL 176,460 C-D).

285 Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 367ss. 286 ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 368. 287 II testo sottolinea che il crisma «ex oleo et balsamo conficitur, quia per oleum infusio gra- tiae, per balsamum odor bonae

famae designatur», in PL 176,459 D. 288 Dopo il richiamo all’intervento di papa Silvestro, Ugo commenta: «Manifestum est autem quod primis temporibus omnis unctio

chrismatis per solos pontifices fiebat. Sed et posteaquam insti- tutum est, ut baptizatum sacerdos in vertice liniat, consignatio tamen

frontis a solis pontificibus reser- vatur. Solus enim pontifex frontem consignare et Unire potest, et Spiritum sanctum tradere», in

ibidem, 461 A-B. 289 Ogni giorno di questo tempo è descritto come un convivium nel quale gustare un peculiare dono dello Spirito Santo, in analogia

a quanto già realizzato da Gesù: «Talia convivia Christus apud hospites suos exercet: talia et Spiritus sanctus», in ibidem, 462 C. La

questione di tale tempo da osservare da parte dei neoconfermati (la disciplina chrismatis) rimanda al gesto rituale dell’unzione crismale

la quale, essendo fatta sulla fronte, sembra esigere un lasso di tempo durante il quale il confermato non può lavare la testa: «Solent

quidam quaerere quando tempore debeant unctionem chrismatis observare in capite ut scilicet capita non lavent qui accipiunt manus

impositionem, absque tempore baptisterii», in ibidem, 462 B.

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Dopo questo originale abbozzo sistematico della teologia della confermazione nel quadro dei

tre sacramenti dell’iniziazione cristiana, si può ora considerare il contributo elaborato da Pietro

Lombardo (t 1160) nell’opera che rappresenterà un punto di riferimento essenziale per la teologia

scolastica successiva, ivi compresa quella di s. Tommaso d’Aquino: Sententiarum libri quattuor.290

Nel libro IV, dopo aver esposto la dottrina sui sacramenti in genere e quella relativa al battesimo, la

distinctio VII presenta una breve sintesi della dottrina della confermazione.291 Si tratta di due capitoli:

il primo torna sulla questione del ministro (la confermazione può essere conferita solamente dal

vescovo), sottolinea come la forma del sacramento sia costituita dalle parole che il vescovo dice men-

tre compie l’unzione crismale sulla fronte del confermando (le parole non sono riportate, più sotto si

richiama il gesto di imposizione della mano), ricorda che Veffetto (virtus sacramenti) è il dono dello

Spirito santo ad robur - torna il riferimento alla dottrina di Fausto di Riez conosciuta non come tale

ma come tramandata da Rabano Mauro (t 856), abate di Fulda, discepolo di Alcuino e personaggio

eminente del periodo carolingio292 - e ribadisce la necessità di tale sacramento dopo quello del

battesimo, «ut pieni Cristiani inveniantur» (ibidem: PL 192, 855); nel secondo, riprendendo la

decretale attribuita a papa Melchiade, si ricordano la maggiore dignità della confermazione sul

battesimo fondata sulla superiorità del ministro (il vescovo), sul fatto che è conferita sulla fronte

(luogo del corpo ritenuto più degno rispetto agh altri), sull’effetto che consiste in un aumento della

grazia battesimale (maius augmentum virtu- tum praestat; il tema è nuovamente ripreso da Rabano

Mauro), la necessità del digiuno (tanto per i confermandi quanto per i ministri), la sua non

reiterabilità. Tale breve trattazione risulta essere strettamente dipendente da quella esposta nella

Summa sententiarum.6s

Nella ricca produzione teologica dell’Aquinate (f 1274) sono fondamentalmente due le opere

nelle quali viene affrontato il tema della confermazione. Innanzitutto il Commento alle Sentenze di

Pietro Lombardo (cf. In IV Sententiarum, distinctio VII). Il commento si articola in tre questioni: se

la confermazione sia sacramento e la sua materia e forma, quale sia il suo effetto, come debba essere

celebrata.293 Riprendendo la comprensione del sacramento come costituito da sacramentum tantum

(il solo segno esteriore che significa e causa), res et sacramentum (significa ed è causato) e res

sacramenti (l’effetto ultimo del sacramento che è significato e causato), Tommaso nella seconda

questione, relativa all’effetto del sacramento (cf. ibidem, q. 2, a. 1), rispondendo a tre obiezioni

dimostra che la confermazione conferisce il carattere, in analogia al battesimo e all’ordine, e che esso

costituisce la res et sacramentum. Tenuto fermo che «il carattere è un segno distintivo con cui uno si

distingue dagli altri essendo deputato a qualcosa di spirituale», ne viene che la confermazione

conferisce quel carattere che deputa a fare «conoscere le realtà spirituali mediante la loro forte

confessione...» (ibidem, Solutio I). Nella prima questione, affrontando la questione dell’istituzione

del sacramento della confermazione (cf. ibidem, q. 1, a. 1, Solutio I), egli concorda con coloro che

ritengono che fu Cristo ad istituirlo anche se né nel vangelo, né negli Atti degli apostoli appare

specificata tanto la materia quanto la forma di questo sacramento. La ragione di questo silenzio è

attribuita alla pratica della disciplina arcani in base alla quale «le forme sacramentali e le altre cose

che sono richieste nei sacramenti dovevano essere nascoste nella Chiesa primitiva per le derisioni dei

gentili» (ibidem). L’unico fondamento implicito dell’istituzione divina del sacramento della

confermazione è riconosciuto nell’attestazione da parte dei vangeli del fatto che «il Signore stesso 290 Cf. PL 192,519-962. In tale opera, osserva Elberti, «la sua dottrina sacramentaria, che non è altrettanto originale come quella di

Ugo, sotto alcuni punti di vista dimostra di essere piuttosto dipendente dalla Summa sententiarum»: ID., La confermazione nella

tradizione della Chiesa, 371. Cf. HUGONIS DE S. VICTORE, Summa sententiarum septem tractatibus distincta, in PL 176, 41-174. Per la

confermazione si veda il Tractatus sextus, c. I, in ibidem, 137-139 C-A. Tale breve trattazione si sofferma sulla questione del ministro

(il vescovo), della specifica grazia sacramentale della confermazione rispetto al battesimo (si richiama la teologia di Fausto di Riez

anche se non conosciuta come tale ma attribuita a Rabano Mauro e la decretale attribuita a papa Melchiade), della sua efficacia e

necessità per la salvezza. 291 Cf. PL 192,855-856. 292 Sulla confermazione dalla riforma carolingia fino agli inizi della scolastica, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione

della Chiesa, 347-366. Per Rabano Mauro, cf. ibidem, 363-365. 293 Per il testo, cf. s. TOMMASO D’AQUINO, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo e testo integrale di Pietro Lombardo, voi.

7: libro quarto, distinzioni 1-13:1 Sacramenti in generale, il Battesimo, la Confermazione, l’Eucaristia, tr. it. a cura di R. COGGI, Ed.

Studio Domenicano, Bologna 1999, 466-537.

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imponeva le mani ai bambini» (ibidem). Ma è nella Summa Theologiae (cf. STh III, q. 72) che la

trattazione viene ripresa e rielaborata in un quadro più sistematico.294

L’esposizione della dottrina sulla confermazione è sviluppata in dodici articoli: se la

confermazione sia un sacramento (a. 1), se il crisma sia la materia conveniente (a. 2), se per la validità

del sacramento sia richiesto il crisma consacrato dal vescovo (a. 3), se la forma del sacramento sia

quella conveniente (a. 4), se imprima il carattere e se questo supponga il carattere battesimale (aa. 5-

6), se conferisca la grazia santificante (a. 7), se sia da conferire a tutti (a. 8), se debba essere conferito

sulla fronte (a. 9), se altri debbano assistere il cresimando (a. 10), se solo il vescovo possa conferirlo

(a. 11), se il rito con il quale è conferito sia conveniente (a. 12). La trattazione della confermazione è

dunque affrontata in una prospettiva integrale in grado di analizzarne i diversi aspetti: la peculiarità

di sacramento (la questione dell’istituzione), il crisma e la formula essenziali al conferimento del

sacramento (la materia e la forma: il segno esteriore o sacramentum tantum), il carattere e la grazia

santificante (gli effetti del sacramento: rispettivamente la res et sacramentum e la res sacramenti), i

destinatari (sottintesa la questione della necessità del sacramento), il ministro richiesto per la validità

del sacramento (solo il vescovo), la celebrazione (il legame con la celebrazione del battesimo, il

tempo liturgico da preferire, il digiuno richiesto, l’uso del crisma benedetto dal vescovo due giorni

prima della vigilia di Pasqua pur potendo essere consacrato anche in altri tempi).

È proprio in questo ultimo contesto, la questione del rito conveniente alla celebrazione, che

torna il richiamo alla prassi antica che vede battesimo e cresima legati in una medesima celebrazione

(il riferimento esplicito è nuovamente la decretale attribuita a papa Melchiade) da compiersi

ordinariamente nella veglia pasquale (il battesimo solenne e la cresima a cui segue l’eucaristia alla

quale prendono parte i neofiti). «Ma poiché la cresima viene data soltanto dai vescovi, che non sono

sempre presenti dove i sacerdoti battezzano, è stato necessario nella prassi comune che il sacramento

della cresima fosse rimandato anche ad altri tempi» (ibidem, q. 72, a. 12). Questa annotazione fa

chiaramente luce su una prassi nella quale, salvo il caso eccezionale del battesimo e della cresima

amministrati dal vescovo nella veglia pasquale, il tempo della celebrazione della cresima è ormai

normalmente slegato da quello del battesimo che nella sua forma non solenne viene celebrato

ordinariamente nelle sedi parrocchiali, rurali e non, dai presbiteri. Il legame tra il conferimento della

confermazione e la celebrazione annuale della Pasqua (tempo propizio per il battesimo solenne) viene

tuttavia ribadito nel sottolineare come, pur potendo il crisma essere benedetto in ogni tempo, sia

conveniente utilizzare quello benedetto dal vescovo due giorni prima della vigilia di Pasqua (la messa

crismale del Giovedì santo) «affinché possa essere portato in tutta la diocesi» (ibidem). La ragione

teologica di una tale prassi è la seguente: «Quel giorno però è molto adatto alla benedizione di

qualsiasi materia sacramentale, perché in esso venne istituito il sacramento dell’Eucaristia, che in

qualche modo, [...] è il fine di tutti gli altri sacramenti» (ibidem).

Se ora si vuole sapere come si configura il rito nella sua struttura essenziale, occorre andare

agli articoli che trattano della materia e della forma del sacramento della confermazione. Che il crisma

debba essere materia del sacramento sembra essere un dato problematico dal momento che la

testimonianza biblica NT parla di imposizione delle mani da parte degli apostoli e non di crisma (cf.

ibidem, a. 2, ad 2). Altre obiezioni discutono la convenienza dell’uso dell’olio (se debba essere

mescolato con il balsamo, se debba essere di oliva..., cf. ibidem). Per Tommaso il crisma resta la

materia conveniente: «Il crisma è la materia conveniente di questo sacramento. In esso, come si è

detto, viene data la pienezza dello Spirito Santo per ottenere il vigore spirituale, che è proprio dell’età

perfetta» (ibidem)?1 Le ragioni di tale convenienza hanno una loro logica nel rispondere alle diverse

obiezioni ma è evidente che l’Aquinate, specialmente per la prima obiezione, deve giustificare una

294 Analogamente a quanto visto in Ugo di S. Vittore e Pietro Lombardo anche Tommaso d’A- quino tratta la confermazione dopo

il sacramento del battesimo (cf. STh III, qq. 60-71) e prima del sacramento dell’eucaristia (cf. STh III, qq. 73-83). Il testo è citato

secondo l’edizione curata dallo Studio Domenicano: La Somma teologica, introduzione di T. CENTI, Ed. Studio Domenicano, Bologna

1986, XXVII, 380ss.

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prassi d’uso del crisma da parte degli apostoli che può essere invocata basandosi unicamente

sull’autorità di Dionigi: «Tuttavia gli Apostoli usavano comunemente il crisma nel? amministrazione

del sacramento quando tali fenomeni sensibili non si producevano. Dice infatti Dionigi: “C’è un rito

perfettivo che le nostre guide”, cioè gli apostoli, “chiamano mistero del crisma”» (ibidem)?2 E tale

crisma deve essere consacrato dal vescovo (cf. ibidem, 3) che «rappresenta nella

Chiesa la persona del Cristo» (ibidem).295 La questione della materia si allaccia così a quella

della istituzione da parte di Cristo (cf. ibidem, a. 1). Se istituire un sacramento «spetta al potere di

eccellenza che compete solo a Cristo», allora occorre concludere che «Cristo istituì questo sacramento

non di fatto, ma promettendolo, quando disse: “Se io non me ne vado il Paráclito non verrà a voi; se

invece me ne vado, ve lo manderò”. E ciò appunto perché in questo sacramento si dà la pienezza dello

Spirito Santo, che non era da concedersi prima della risurrezione e ascensione di Gesù» (ibidem) PA

Alla specificazione della materia segue quella della forma: «Consigno te signo crucis, confirmo te

chrismate salutis, in nomine Patris et Filii et Spirictus Sancii. Amen» (ibidem, 4). Si oppongono alla

validità di tale espressione della forma sacramentale della cresima tre ragioni: non se ne può mostrare

il fondamento né in Cristo, né negli apostoli; non è universalmente recepita; non si rapporta in modo

appropriato al battesimo di cui dovrebbe invece rappresentare il perfezionamento. Nell’elaborare la

sua risposta Tommaso attinge al solco di quella tradizione della teologia della confermazione che ne

sviluppa i significati ricorrendo all’analogia della vita militare (si veda più sopra Fausto di Riez).296

La forma predetta è conveniente per questo sacramento. Come infatti la forma di una cosa

naturale ne costituisce la specie, così la forma del sacramento deve contenere quanto riguarda la

specie del sacramento. Ora, come risulta dall’esposizione già fatta, in questo sacramento viene dato

lo Spirito Santo per il vigore nel combattimento spirituale. Perciò nella confermazione sono

necessarie le tre cose accennate dalla forma suddetta. La prima è la causa che conferisce la pienezza

della forza spirituale, ed è la santa Trinità. Essa si indica dicendo: «Nel nome del Padre...». - La

seconda è lo stesso vigore spirituale che viene conferito all’uomo per la sua salvezza mediante il

simbolismo della materia visibile. A ciò si allude dicendo: «Ti confermo con il crisma di salvezza».

- La terza cosa è il contrassegno che viene dato al combattente, come anche per le battaglie materiali

i soldati vengono contrassegnati con i distintivi dei loro comandanti. E rispetto a questo si dice: «Ti

contrassegno con il segno della croce», cioè con il segno «con il quale trionfò il nostro Re», come si

esprime Paolo (ibidem).

La parte centrale della questione 72 è composta da tre articoli (aa. 5- 7) nei quali è presentata

la dottrina sugli effetti del sacramento della confermazione. Il primo è costituito dal carattere che,

quale res et sacramen- tum, comporta una duplice dimostrazione (cf. aa. 5-6). In primo luogo l’ar-

gomentazione verte sul fondamento teologico che giustifica l’affermazione di questo primo effetto.

In secondo luogo si mostra come il carattere della confermazione sia distinto da quello conferito dal

battesimo. L’effetto ultimo del sacramento, res sacramenti, è costituito dalla grazia santificante (lat.

gratia gratum faciens; cf. a. 7). È evidentemente sottintesa tanto la dottrina sull’efficacia dei

sacramenti con la distinzione delle diverse modalità della causalità sacramentale quanto il principio

teologico dell’efficacia ex opere operato. Se si considera il tema degli effetti dal punto di vista dell’a.

7 - la res sacramenti - si può notare come le obiezioni prese in considerazione mirino a destituire la

295 Che il crisma debba essere benedetto dal vescovo non è ad solemnitatem ma ad necessita- tem. Anche il presbitero, si ricorda la

lettera di Innocenzo I al vescovo di Gubbio, non può ungere dopo il battesimo sulla nuca (in vertice) che con il crisma benedetto

precedentemente dal vescovo. La ragione di questa necessità è per Tommaso di natura cristologica: «Di unzioni visibili invece il Cristo

non fece uso, per non pregiudicare l’unzione invisibile con la quale “fu unto a preferenza degli altri”. Ecco perché tanto il crisma,

quanto l’olio santo e quello degli infermi, si benedicono prima di usarli per il sacramento», in ibidem, a. 3. Una materia per il

sacramento può essere consacrata o da Cristo stesso (l’acqua per il battesimo, il pane e il vino per l’eucaristia) da cui promana la «virtù

santificante dei sacramenti» (ibidem) o dal vescovo che lo rappresenta. Per questa ragione non è necessario che acqua o pane e vino

siano prima benedetti dal vescovo, se lo si fa, lo si fa ad solemnitatem. 296 II ricorso a tale analogia si trova anche in scritti di padri orientali, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa,

404 (Cirillo o Giovanni di Gerusalemme a seconda dell’attribuzione all’uno o all’altro delle Catechesi mistagogiche). Attraverso

Rabano Mauro e le Decretali pseudo-isidoriane il theologumenon arriva fino alla scolastica e a Tommaso, cf. ibidem, 403-408.

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sacramentalità specifica della confermazione negandole un effetto proprio sul presupposto che la

grazia santificante è ordinata a sanare la colpa e che tale effetto è tipico della grazia battesimale. Si

parte dunque, anche nel caso delle obiezioni all’assioma che l’Aquinate difende, dallo stretto rapporto

tra battesimo e cresima. Se nella prassi questa ha assunto una posizione autonoma, nella dottrina

rimane forte il riferimento al legame intrinseco tra i due. Questo dato originario ripropone l’esigenza

di sviluppare la teologia della confermazione nell’orizzonte della realtà unitaria dell’iniziazione

cristiana e in particolare della teologia battesimale. Tommaso deve affrontare l’antica obiezione di

fronte a cui si era già trovato Fausto di Riez:297 se tutto è dato nel battesimo, a cosa serve la

confermazione? Ed è dalla risposta data in quel contesto (ritenuta di papa Melchiade e conosciuta

come tale attraverso il Decretimi Gratiani) che il Dottore angelico elabora la sua argomentazione.

In questo sacramento, come si è detto, si dà ai battezzati lo Spirito Santo per rinvigorirli: come

fu dato agli Apostoli nel giorno di Pentecoste, e come lo davano ai battezzati gli Apostoli stessi con

l’imposizione delle mani. Ora, nella Prima Parte noi abbiamo spiegato che la missione, o

conferimento dello Spirito Santo non avviene se non insieme alla grazia santificante. È chiaro quindi

che in questo sacramento viene conferita la grazia santificante (ibidem, a. 7).298

Torna il theologumenon della grazia della confermazione come rinvigorimento di quella

battesimale, come dono dello Spirito Santo ad robur, supponendo così una prima donazione dello

stesso Spirito Santo nel sacramento del battesimo che viene confermata. Nell’ordine della grazia

santificante si parte dal piano del remedium (la grazia è data per la remissione della colpa) per passare

a quello dell'augmentum e della fir- mitatem iustitiae (come nel caso della confermazione). In che

senso la grazia santificante è conferita dalla confermazione visto che è già donata nel battesimo?

Come si è detto, la grazia sacramentale aggiunge alla grazia santificante genericamente intesa

qualche cosa che è capace di produrre l’effetto specifico a cui il sacramento è destinato. Di

conseguenza, se la grazia conferita da questo sacramento si considera rispetto a ciò che è generico,

allora la cresima non dona una grazia diversa da quella del battesimo, ma aumenta la grazia già

esistente. Se invece si considera rispetto all’elemento specifico che viene aggiunto, allora essa non è

della stessa specie della grazia battesimale (ibidem, ad 3).

Non è tuttavia così chiaro ed esplicitato in cosa consista «l’elemento specifico che viene

aggiunto» (lat. ìllud speciale quod superaddìtur) se non si ha presente la dottrina sul carattere esposta

nei due articoli precedenti.

Nell’esplicitare la specificità del carattere conferito dalla confermazione rispetto al battesimo

(cf. aa. 5-6) viene tematizzata una linea di riflessione che, insieme al tema del miles Christi, ha avuto

grande influenza nella teologia e nella catechesi successive fino ai tempi più recenti: la confermazione

conferisce all’uomo la maturità spirituale (lat. perfectio spiritualis aetatis). Tale linea interpretativa

(a partire dall’analogia con la vita fisica) è più volte ripresa nel corso della questione 72. Nel primo

articolo: «Per questo, oltre il moto di generazione per cui uno riceve la vita corporea, c’è anche il

moto di crescita che conduce all’età perfetta. Perciò allo stesso modo si riceve la vita spirituale

mediante il battesimo che è rigenerazione spirituale. Nella cresima invece si ottiene per così dire l’età

perfetta della vita spirituale» (a. I).299 Il cresimato deve essere tuttavia assistito da qualcun altro per

poter essere forte nel combattimento spirituale (lat. spiritualis pugna; cf. a. 10, nel quale si dimostra

il valore e la necessità dell’istituto del padrinato) e sotto questo aspetto la maturità spirituale viene

nuovamente riletta alla luce dell’analogia con la vita militare. Il cresimato è sì entrato nell’età della

297 Cf. PL 130,240 C-D. 298 Nel testo latino non si ha il plurale «mani» ma il singolare «mano»; per impositionem manus, anche se il riferimento esplicito al

testo di Atti rimanda chiaramente al plurale. Che Tommaso abbia presente l’imposizione della mano come gesto del vescovo che

accompagna l’unzione si vede dalla Summa contra Gentiles, libro IV, c. 60. Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana»,

113. 299 È sottintesa la nota tematica dell’augmentum gratiae, inteso come crescita spirituale.

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maturità spirituale ma ha bisogno di essere assistito in quanto «ancora spiritualmente debole e imma-

turo» (a. 10). L’assioma secondo il quale «la cresima sta al battesimo come la crescita sta alla

generazione» emerge con tutta chiarezza nel secondo dei due articoli direttamente dedicati alla

questione del carattere (cf. a. 6). È in questo ambito che il discorso sulla specificità del sacramento

della confermazione e della relativa grazia sacramentale si fa più chiaro. Il carattere (inteso come

«potere spirituale destinato a delle funzioni sacre») conferito dalla confermazione è da rapportarsi

alla crescita spirituale come il carattere conferito dal battesimo è relativo alla rigenerazione spirituale.

«Infatti nel battesimo uno riceve il potere di compiere gli atti che riguardano la propria salvezza, in

quanto vive in se stesso; nella confermazione invece riceve il potere di svolgere attività attinenti al

combattimento spirituale contro i nemici della fede» (a. 5). La crescita spirituale forma una cosa sola

con il combattimento spirituale: la grazia sacramentale si esplicita nella direzione della crescita

spirituale (lat. aug- mentum gratiae) e della forza spirituale (lat. robur ad pugnam) necessaria per la

testimonianza pubblica della fede (cf. ibidem aa. 5.6 e 9).300 «La confermazione si dà per un’aperta

professione di fede, non per una qualunque professione di fede, perché a questa basta il battesimo»

(ibidem, a. 9). In una questione precedente (cf. ibidem q. 63, a. 6) l’Aquinate aveva precisato che, nei

sacramenti che conferiscono il carattere (battesimo, cresima ed ordine), solo nei primi due - battesimo

e confermazione - il carattere dona la capacità di ricevere gli altri sacramenti, in particolare

l’eucaristia. Nella testimonianza pubblica della fede a cui abilita il carattere della confermazione va

dunque compresa la partecipazione all’eucaristia quale vertice del culto divino e centro di tutta la

realtà sacramentale della Chiesa. La confermazione ritrova in questa luce il suo stretto legame

originario con il battesimo e con l’eucaristia.301

Un’ulteriore luce sulla grazia sacramentale della confermazione viene dalla trattazione della

questione relativa al ministro proprio di questo sacramento: solo il vescovo amministra validamente

il sacramento della cresima (cf. ibidem, a. 11). A monte di questa necessità ad validitatem sta il

fondamento scritturistico NT in base al quale «la pienezza dello Spirito Santo veniva data con

l’imposizione delle mani degli Apostoli, dei quali i vescovi fanno le veci» (ibidem). Il vescovo nella

confermazione comunica pienezza dello Spirito Santo ed è a causa di questo effetto che la

confermazione manifesta la sua superiorità rispetto al battesimo. «Ora,il sacramento della cresima è

come il coronamento del battesimo; nel senso che nel battesimo uno viene formato come un edificio

spirituale e viene scritto come una lettera spirituale; ma nel sacramento della cresima questo edificio

spirituale viene consacrato a essere tempio dello Spirito Santo e questa lettera sigillata con il segno

della croce» (cf. ibidem, a. 11).

Dopo questo excursus nella teologia scolastica e nella dottrina del- l’Aquinate poniamo ora

attenzione ad alcune significative testimonianze liturgiche della Chiesa latina.3021 Pontificali di

questo periodo (dal sec. X alla fine del XIII sec.) presentano un rito della confermazione, normal-

mente per i bambini sia neonati che fanciulli (lat. infantes in brachiis e maiores), inserito nella veglia

del Sabato santo (Ordo in sabbato sancto) ma anche separato da esso come Ordo ad consignandos

pueros sive infantes (denominato anche De crismandis in fronte pueris). Cominciando dal Pontificale

romano-germanico del X sec. si può osservare l’introduzione dell’imposizione della mano fatta dal

vescovo contemporaneamente su tutti i confermandi presenti. Questa nuova rubrica è secondo Nocent

il segno di una prassi nella quale la confermazione, sempre più spesso separata dal battesimo, vede

coinvolti numerosi candidati «e l’imposizione della mano su tutti diminuisce la lunghezza della

celebrazione».303 Questo fatto contribuisce verosimilmente a conferire maggiore importanza al gesto 300 Nocent fa notare - alla luce dell’articolo di R. BERNIER, «Le sacrement de confirmation dans la théologie de saint Thomas», in

Lumière et Vie 51(1961), 59-72 - che tale lettura del carattere include l’essere deputati al culto divino (cf. STh III, q. 63, a. 6; il culto

liturgico di cui parla la Tradizione apostolica) comprensivo di quella testimonianza pubblica della fede che è la partecipazione

all’eucaristia, cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 114. Cf. anche RUFFINI, Il battesimo nello Spirito, 391ss. 301 Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 114 e ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 383. 302 Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 107ss e ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa,

408ss. 303 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 107. Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 410-

411. Elberti sostiene: «Non è dunque da Roma che giunse in Gal- lia e nel resto della Chiesa latina l’unzione cresimale, come

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dell’unzione crismale. Questa è accompagnata dalla formula: «Confirmo et consigno te in nomine

patris et filii et spiritus sancti. Resp. Amen. Pax tecum. Resp. Et cum spiritu tuo».304 Nel caso di

bambini battezzati in presenza del vescovo il rito della confermazione si svolge subito di seguito. Nel

Pontificale romano del XII sec. si prevede la situazione della celebrazione di tutti e tre i sacramenti

dell’iniziazione cristiana nella notte del Sabato santo. Per la confermazione dei neonati e dei fanciulli

si riporta il rito denominato Ordo ad consignandos infantes.305 Mentre i primi sono tenuti nel braccio

destro (lat. in brachiis dextris), gli altri più grandi posano il piede su quello del loro padrino. Il

vescovo impone la mano sul capo di ogni confermando e dice l’orazione con la quale invoca il dono

settiforme della grazia dello Spirito Santo. Dopo una preghiera nella quale vengono distintamente

invocati i sette doni dello Spirito Santo (lat. ...emitte in eos...), segue l’unzione crismale cruciforme

sulla fronte accompagnata dalla formula preceduta dalla menzione del nome del confermando: «[N.]

signo te signo crucis, confirmo te chrismate salutis, in nomine patris et filii et spiritus sancti.

Amen».306 Seguono altre preghiere e la benedizione. Nella stessa messa presieduta dal vescovo i

bambini, battezzati e confermati, accedono alla comunione eucaristica. In assenza del vescovo la

comunione viene data dal presbitero. Ai neonati la comunione viene data «sive cum folio, sive cum

digito intincto in sanguine domini etposito in ore ipsorum...».307 Pressoché identica è la sequenza

rituale prevista dalYOrdo qualiter agendum sit in sabbato sanato del Pontificale della Curia romana

(XIII sec.).308 Nella solenne celebrazione del battesimo presieduta dal papa presso il battistero della

basilica del Laterano i fanciulli neobattezzati vengono unti prima sulla nuca dal presbitero con il sacro

crisma poi, dopo essere stati rivestiti della veste bianca e aver ricevuto la candela, ricevono la

confermazione secondo il rito stabilito: «Deinde pontifex illos tres quos baptizaverat in fronte

confìrmat».309 UOr- do da seguire è presentato in una rubrica distinta denominata: Ordo ad

consignandos pueros sive infantes.310 Arriviamo infine al Pontificale di Guglielmo Durando (fine

XIII sec.) nel quale durante i riti del Sabato santo dopo il battesimo (si tratta anche qui di infantes) si

dice: «Hos quoque baptizatos pontifex sacro crismale in fronte confìrmat»311 II conferimento della

confermazione si svolge come previsto dal rito De crisman- dis in fronte pueris.312 «Tale Ordo mostra

che, nella maggiore parte dei casi, la confermazione si conferisce fuori del Sabato santo, in qualche

parrocchia, senza legame con il battesimo né con l’eucaristia».313 È prevista un’imposizione delle

mani su tutti i confermandi accompagnata da un’invocazione epicietica.314 Per il resto tutto si svolge

come attestato nel Pontificale della Curia romana tranne alcune piccole novità: l’introduzione dello

«schiaffetto» da parte del vescovo sulla guancia del confermato, gesto probabilmente ripreso dal rito

dell’investitura dei cavalieri (torna il tema del riferimento alla vita militare: il confermato come mìles

Christi)\ l’uso di portare dopo la crismazione una benda (lat. crismalia) sulla fronte in onore della

Trinità (la benda va portata per tre giorni e viene tolta dal sacerdote il quale lava la fronte del

confermato e lo affida al padrino o alla madrina perché gli insegnino il Credo, il Pater e l’Ave

Maria).315 Tale Ordo ripreso, dopo il concilio di Trento, nel Pontificale Romanum del 1595, rimarrà

comunemente sostengono ancora alcuni autori, ma con ogni probabilità essa si diffuse dalla Spagna nella Gallia durante l’VIII secolo

e poi fu accolta a Roma durante il corso del IX secolo», ibidem, 411. 304 Pontificale Romano-Germanicum, XCIX, n. 387, ed. a cura di C. VOGEL, ST 227, Città del Vaticano 1963,1966 (ristampa

anastatica), II, 109. 305 Cf. Pontificale romanum, XXXII: Ordo in sabbato sancto: nn. 29-36, ed. a cura di M. ANDRIEU, ST 86, Città del Vaticano

1938,1983 (ristampa anastatica), 246-248. 306 Pontificale romanum, XXXII, n. 33: 247. È quasi la stessa formula che ritroviamo nella Summa Theologiae di s. Tommaso, cf.

sopra, dove al posto di signo troviamo consigno. 307 Pontificale romanum, XXXII, n. 29:246. 308 Cf. Pontificale romanae Curiae, XLIV, nn. 20-26, ed. a cura di M. ANDRIEU, ST 87, Città del Vaticano 1940,1984 (ristampa

anastatica), 476-477. 309 Pontificale romanae Curiae, XLIV, n. 26: 477. 310 Cf. Pontificale romanae Curiae, XXXIV, nn. 1-6:452-453. Qui la formula che accompagna la consignatio corrisponde

esattamente a quella riportata da s. Tommaso nella STh. 311 Pontificale G. Durandi, Liber III: IV (Ordo in sabbato sancto), n. 19, ed. a cura di M. ANDRIEU, ST 88, Città del Vaticano

1940,1984 (ristampa anastatica), 591. 312 Pontificale G. Durandi, Liber 1:1,1-8: 333-335. 313 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 111. 314 Cf. Pontificale G. Durandi, Liber 1:1,1: 333. 315 Cf. Pontificale G. Durandi, Liber 1:1,8:335. Per l’uso della lavatura della fronte del crisma- to, cf. sopra (Ugo di S. Vittore).

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sostanzialmente identico fino alla riforma liturgica del concilio Vaticano II.

La vita del cristiano battezzato riceve dunque nel sacramento della confermazione quella

particolare pienezza del dono dello Spirito Santo (i sette doni) che lo abilita a entrare nell’età della

maturità spirituale. Mediante la partecipazione all’eucaristia e in particolare mediante la comunione

sacramentale egli accoglie quella grazia che gli permette di crescere quale figlio di Dio per poter

accedere, dopo il compimento del pellegrinaggio terreno, alla mensa dell’eterna gloria (lat. ad

mensam eter- nae gloriae). Nella confermazione viene perfezionato ciò che era implicito nel

battesimo (lat. augmentum gratiae): il cristiano è reso capace di attestare pubblicamente la sua fede

mediante gli atti tipici della vita cristiana (in particolare l’essere deputati al culto pubblico della

Chiesa). Tra questi eccelle in particolare la partecipazione all’eucaristia quale culmine del servizio

liturgico della Chiesa. Se il battesimo concerne soprattutto Vessere resi creature nuove in Cristo dal

Padre per mezzo dell’azione santificante dello Spirito Santo, la confermazione comporta soprattutto

Vagire da figli di Dio e testimoni di Cristo ricolmi del dono dello stesso Spirito che animò la missione

degli apostoli dal giorno di Pentecoste. È in questa prospettiva che occorre cogliere il significato

dell’assioma «la cresima sta al battesimo come la crescita sta alla generazione». La teologia del

carattere conferito dalla confermazione ricapitola nell’orizzonte della professione pubblica della fede

sia la dimensione del culto sia quella della testimonianza. Su questo fronte la grazia santificante

conferita dalla confermazione si lascia specificare come «irrobustimento» o «rinvigorimento» della

grazia battesimale per sostenere con coraggio e forza (lat. robur) la lotta spirituale (lat. spiritualis

pugna) tipica della vita cristiana nel tempo del pellegrinaggio terreno. Ritrovare il senso della

confermazione nella sola direzione del miles Christi non rende dunque ragione alla completezza del

dato teologico emerso dalla teologia dell’Aquinate il quale pone nella debita evidenza sia la

testimonianza ad extra (verso i nemici della fede cristiana) sia la partecipazione al sacerdozio eterno

di Cristo nel culto pubblico della Chiesa. Per l’esercizio dell’una e dell’altra funzione il battezzato ha

bisogno di un particolare potere spirituale (lat. spiritualis potestas) che solo nella confermazione,

mediante il carattere, viene ad essergli conferito in modo irrevocabile. Sullo sfondo di questa teologia

si lascia intravedere una realtà di vita cristiana che è quella tipica della societas christiana medievale.

I Pontificali, come si è visto, fanno riferimento, tanto per il battesimo come per la confermazione,

alla situazione divenuta ormai tipica di candidati che sono o neonati o fanciulli.316 La prassi

battesimale decentrata nella parrocchie rurali è normalmente separata dal conferimento della

confermazione che, essendo riservato unicamente al vescovo, si muove su nuovi percorsi liturgici (in

particolare la fluidità dei tempi e dei luoghi della celebrazione) e pastorali (in particolare le modalità

della formazione catechistica di cui è incaricato il parroco e con lui i padrini e le madrine) legati alla

nuova fisionomia che il ministero episcopale viene assumendo nella christianitas medievale.317

Ricorrenti sono i richiami magisteriali che ribadiscono la necessità di presentare i battezzati al

vescovo per la confermazione, chiaro segno di una scarsa percezione della sua rilevanza nella vita

cristiana.

Dopo lo scisma del 1054 la confermazione torna a essere oggetto di attenzione

nell’insegnamento di due concili (Lione 1274; Firenze 1439) che a titolo diverso sono caratterizzati

dal tentativo di ricomporre le divisioni con l’Oriente. La christianitas medievale porta in sé le 316 Si tenga conto che il concilio Lateranense IV (1215) richiede che ciascun fedele, a partire dall’età della discrezione, si confessi

almeno una volta all’anno e riceva almeno a Pasqua il sacramento dell’eucaristia, cf. Denz 812. Cabié sottolinea come nella prassi

l’individuazione dell’età della discrezione oscilla tra i sette anni, gli undici/dodici anni o anche più avanti e conclude osservando: «La

confermazione è sempre celebrata alla prima occasione in cui si può incontrare il vescovo senza alcuna considerazione dell’età dei

fanciulli», in CABIÉ, «L’iniziazione cristiana», 93. A proposito dell’età della confermazione Courth afferma: «Per quanto, nel secolo

IX, siano documentabili celebrazioni crismali autonome, nemmeno in quest’epoca si perde di vista il rapporto che queste intrattengono

con il battesimo. Ciò appare chiaro anche dalle scadenze che vengono stabilite: la cresima dev’essere ricevuta nello stesso giorno del

battesimo, o a una settimana di distanza, o alla prossima visita del vescovo. Dopo il concilio Lateranense IV si afferma l’usanza di

cresimare i bambini a 4 o a 7 anni, gli adulti invece immediatamente dopo il battesimo. Alla dissociazione che di fatto s’impose, seguì

la relativa giustificazione teologica, accompagnata da una descrizione sempre più dettagliata del contenuto specifico delle due

celebrazioni», in COURTH, I sacramenti, 179. 317 Si pensi solo alla questione della «residenza» del vescovo nella diocesi nel quadro politicoreligioso delle investiture. Su questo

dovrà intervenire energicamente il concilio di Trento.

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profonde conseguenze di questo scisma e tra queste la mancanza di unaNreciproca e feconda

circolazione tra Occidente e Oriente delle rispettive n^chezze spirituali, teologiche e liturgiche. Al II

concilio ecumenico di Lione il riferimento alla confermazione si ritrova nella Lettera dell’imperatore

Michele a papa Gregorio nella quale è contenuta la professione di fede dell’imperatore letta in

presenza del papa nella IV sessione,318 professione che nel 1385 sarà prescritta da papa Urbano VI ai

greci che passavano alla Chiesa cattolica. In essa si specifica che i sacramenti della Chiesa sono sette

(cf. Denz 860) e tra questi vi è anche il sacramento della confermazione «che i vescovi conferiscono

con l’imposizione delle mani, ungendo con il crisma coloro che sono rinati» (ibidem). Come

sottolinea Nocent la prassi descritta è quella praticata dalla Chiesa romana.319 Il riferimento esplicito

all’imposizione delle mani (lat. impositio manuum) è da spiegarsi non in rapporto all’imposizione

della mano che accompagna la crisma- zione. «Si tratta di un supplemento; questi sono due riti:

l’imposizione delle mani e l’unzione. Ma nulla permette di pensare che il testo identifichi crismazione

e imposizione delle mani. Quest’ultima è la tradizione romana; la crismazione si rifà alla tradizione

di Bisanzio; nient’altro».320 Nel contesto del concilio di Firenze la dottrina della confermazione pre-

sentata nel Deeretum prò Armenis (cf. Denz 1310-1313.1317-1319) non fa che riprendere in sintesi

la teologia di Tommaso d’Aquino (materia, forma, ministro, effetto). Ciò che papa Eugenio IV ha a

cuore di sottolineare e difendere è la necessità che solo il vescovo conferisca la confermazione:

«Ministro ordinario è il vescovo» (Denz 1318).321 Come osserva Ligier tutta l’argomentazione del

concilio, sulla scia delle lettere di Innocenzo III e Innocenzo IV, è costruita per convincere gli orientali

ad accettare il privilegio episcopale. Agli orientali non viene dunque richiesto che adottino il rito

occidentale dell’imposizione delle mani.322 Per l’effetto del sacramento si dice: «Effetto di questo

sacramento è che il cristiano possa coraggiosamente confessare il nome di Cristo; infatti per mezzo

suo viene conferito lo Spirito Santo per rendere forti, come agli apostoli il giorno di pentecoste» (Denz

1319). Il magistero ha assunto in pieno la prospettiva teologica inaugurata esplicitamente da Fausto

di Riez: completa la grazia battesimale (lat. augere) e rende forti, corrobora per la testimonianza (lat.

roborare). Con la confermazione «cresciamo nella grazia e ci irrobustiamo nella fede» (Denz 1311).

Quale sia la visione teologica del sacramento della confermazione in Oriente lo si può

assumere indirettamente dall’opera di un grande teologo della Chiesa bizantina del tempo: la Vita in

Christo di Nicola Cabasi- las (1322-1391/1398), composta a Costantinopoli negli ultimi anni della

sua vita (dopo il 1363).323 Non si tratta di un trattato mistagogico di iniziazione ai misteri, né di un

trattato di sacramentaria ma appunto della vita in Cristo nelle sue varie fasi, «oggetto del discorso è

dunque l’esistere e l’operare del Cristo in noi, e la nostra partecipazione alla sua vita divina».324 Dopo

il Libro primo dedicato a mostrare come «La vita in Cristo si forma per mezzo dei divini

misteri^eTBattesImo, del myron e della santa comunione»,325 Cabasilas passa al Libro secondo nel

quale presenta il rapporto tra il battesimo e la vita cristiana e, prima del Libro quarto - «Quale apporto

conferisce alla vita in Cristo la santa comunione» -, nel Libro terzo tratta di «Quale apporto conferisce

318 Cf. Denz 851-861. Per una breve introduzione al testo e alla sua storia, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della

Chiesa, 318-319. 319 Cf. NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 115. 320 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 115. 321 Si tenga presente che subito di seguito si ricorda: «Si legge, tuttavia, che qualche volta, con dispensa della Sede apostolica e per

un motivo ragionevole e urgentissimo, anche un semplice sacerdote abbia amministrato il sacramento della confermazione con il crisma

consacrato dal vescovo», in Denz 1318. Questa era appunto la prassi tipica dell’Oriente nella quale era (ed è) consentito al presbitero

amministrare, dopo il battesimo, l’unzione con il myron per concludere l’iniziazione cristiana con la santa comunione. È chiaro che

nel contesto di questa prassi, sia prima come dopo lo scisma del 1054, non sono previsti né il carattere di straordinarietà, né tanto meno

una qualche dispensa. 322 Cf. LIGIER, La Confermazione, 44. Per le lettere dei due papi, cf. LIGIER, La Confermazione, 37-40. Sul problema del gesto

sacramentale nella duplice tradizione di Roma (imposizione delle mani) e di Bisanzio (crismazione) tornerà Benedetto XIV con la

lettera apostolica Ex quo primum (1756) nella quale, senza prendere una posizione alternativa, offre un punto di vista equilibrato di

rispetto delle due tradizioni, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 541-542. 323 II testo è citato secondo la traduzione italiana a cura di U. NERI, Utet,Torino 1971. Per l’approccio mistagogico alla liturgia

(l’eucaristia in particolare), cf. M. DAVITTI (ed.), Nicola Cabasila. Commento della divina liturgia, introduzione di A.G. Nocilli, EMP,

Padova 1984. 324 CABASILAS, La vita in Cristo, 11. 325 È il titolo del primo libro, cf. CABASILAS, La vita in Cristo, 61.

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alla vita in Cristo il divino myron».326 La vita cristiana viene dunque compresa alla luce della realtà

dinamica (la ripresa del tema palamita delle «energie») e pneumatica posta in essere dai tre sacramenti

dell’iniziazione cristiana il cui vertice, l’eucaristia, accompagna tutto Viter del credente fino al giorno

in cui «assimilati totalmente in Cristo in virtù dell’eucaristia, saremo rapiti incontro a Lui al suo

apparire glorioso».327 La trattazione del Libro III si articola in tre capitoli che sviluppano le seguenti

argomentazioni: il myron, facendo partecipi dell’unzione del Cristo, dona lo Spirito e abbatte il muro

che separava da Dio; in virtù del myron tutti ricevono i carismi, benché non sempre li rendano

operanti; il myron consacra le chiese rendendole case di preghiera. È una vera e propria antropologia

teologica in chiave crismale. Per quanto concerne la crismazione postbattesimale si afferma: «Una

volta spiritualmente plasmati e generati a questo modo, occorre ricevere l’energia conveniente a tale

nascita e il movimento appropriato: ecco appunto quel che opera in noi l’iniziazione del divinissimo

myron. Essa ci rende attivi di energie spirituali, ciascuno nella misura della sua preparazione al

mistero...». Procedendo nella fondazione biblica di tale evento sacramentale, Cabasilas sottolinea

come l’imposizione delle mani e l’unzione «producono lo stesso effetto e hanno la medesima

potenza». Il richiamo va anche agli autori più antichi che «chiamano la chirotonia dei sacerdoti

unzione dei sacerdoti». L’argomentazione dell’equivalenza dei due gesti permette di spiegare come

fondata l’affermazione in base alla quale dopo il battesimo, in assenza di imposizione delle mani, è

l’unzione con il myron a conferire il dono dello Spirito Santo. «Così anche ora, nell’atto di essere unti

col myron, viene il Paraclito».328 È importante sottolineare come venga esplicitato il fatto

sacramentale operato dal myron nell’unzione postbattesimale. «Per spiegare poi agli iniziati che cosa

è l’iniziazione, la chiamano sigillo del dono dello Spirito e così cantano nell’atto di conferire il

crisma».329 Le modalità dell’unzione non sono descritte. Essa, secondo la prassi liturgica prevista

dall’Officium sancti baptismatis, è cruciforme ed è fatta sia sulla fronte che sugli occhi, sulle narici,

su ambedue le orecchie e sui piedi dicendo ogni volta la formula «Sigillo del dono dello Spirito

santo».330 La novità apportata da questa unzione viene spiegata in termini cristici e pneumatici al

contempo, anzi pneumatici perché fondati nel mistero della persona di Cristo, l’unto per eccellenza.

«L’opera di questa iniziazione consiste appunto nel comunicare le energie dello Spirito buono. Il

myron introduce lo stesso signore Gesù e in lui tutta la salvezza degli uomini e tutta la speranza dei

beni, da lui ci viene la partecipazione allo Spirito Santo e per lui abbiamo accesso al Padre».331

3. Dal concilio di Trento al nuovo rituale della confermazione

La posizione dei riformatori nei confronti della confermazione è consequenziale alla loro

dottrina generale sui sacramenti. A partire dalla riconsiderazione della loro istituzione da parte di

Cristo in quanto attestata dalla sacra Scrittura (sola Scriptum), essi si riducono fondamentalmente a

due: il battesimo e la santa cena. La confermazione appartiene all’ordine dei riti ecclesiastici.332 Così

afferma Lutero nel De captivitate babylonica ecclesiae (1520). Egli dedica alla «cresima o

confermazione» una breve trattazione che anche in questo caso risente dell’impostazione globalmente

polemica dello scritto.

Non capisco che idea sia loro venuta di dare valore di sacramento, facendone la cresima o

confermazione, all’imposizione delle mani, atto con cui leggiamo che Cristo toccava i piccoli, e gli

326 Cf. Libro III, in CABASILAS, La vita in Cristo, 175-193. 327 Cf. CABASILAS, La vita in Cristo, 252. Cf. anche ibidem, 110. 328 CABASILAS, La vita in Cristo, 177-178. Ligier menziona proprio questo testo del De vita in Christo per evidenziare come

Cabasilas riscontri un cambiamento avvenuto nella prassi della cri- smazione ovvero perché nel suo tempo l’unzione sia riservata alla

confermazione e alla consacrazione dei prìncipi, perché non venga più applicata ai sacerdoti i quali, nondimeno, continuano a parlare

della loro cheirotonia o imposizione delle mani dell’ordinazione come di una «unzione», in LIGIER, La Confermazione, 105. Il

cambiamento intercorso rispetto alla prassi dei primi secoli sarebbe da individuare nell’aver riservato l’imposizione delle mani non più

alla confermazione che pure ne aveva titolo ma all’ordinazione sacerdotale (e dei re). 329 CABASILAS, La vita in Cristo, 179. 330 Cf. CABASILAS, La vita in Cristo (nota 10). 331 CABASILAS, La vita in Cristo, 183. Cf. anche MEYENDORFF, La teologia bizantina, 233-236. 332 La posizione di Lutero, Zwingli e Calvino su questo punto è la stessa. Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della

Chiesa, 471-479.

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apostoli trasmettevano lo Spirito Santo, ordinavano i preti e curavano gli infermi, [...] Perché non

hanno trasformato in cresima anche il sacramento dell’eucaristia, [...] La confermazione, così,

comporterebbe tre sacramenti. Eucaristia, ordine e la cresima stessa. Se, poi, qualsiasi cosa fecero gli

apostoli è sacramento, perché non hanno trasformato in sacramento, e a maggior ragione, la

predicazione ?333

L’attenzione del Riformatore è concentrata sul gesto dell’imposizione delle mani. Certo esso

si trova nel periodo apostolico, abbia esso valore di confermazione o di risanamento, ma di tale

imposizione delle mani «non è rimasto nulla, eccetto quello che abbiamo inventato noi per dare lustro

alle funzioni dei vescovi, per non lasciarli completamente oziosi nella Chiesa».334 Lutero vuole invece

cercare «i sacramenti istituiti da Dio, e fra essi non troviamo motivo di annoverare la confermazione».

Viene così nuovamente ripresa la questione dell’istituzione nei suoi principi fondamentali:

Per costituire un sacramento, infatti, occorre prima di tutto la promessa divina che desti la nostra fede.

Ma non leggiamo in nessun luogo che Cristo abbia formulato una promessa a proposito della

confermazione, anche se ha imposto le mani a molti, e (nell’ultimo capitolo di Marco) ha detto, dando

a ciò valore simbolico: «Imporranno le mani agli ammalati ed essi risaneranno». Ma nessuno ha usato

questa espressione per costituire un sacramento, come in effetti, non è possibile fare.

Pertanto la confermazione deve essere considerata «come un rito ecclesiastico o una cerimonia

sacramentale...» e quindi non ha la virtù propria dei sacramenti, quella di operare la salvezza per

coloro «che credono alla promessa di Dio che c’è in essi».335

Nel Decretum de sacramentis del concilio di Trento (Sessione VII del 3 marzo 1547) la

dottrina dei riformatori viene confutata nella parte dei sacramenti in genere (cf. Denz 1601-1613) e

in alcuni canoni esplicitamente dedicati alla confermazione (cf. Denz 1628-1630). La confermazione

come parte del settenario appartiene ai sacramenti della nuova legge istituiti da Cristo, imprime

nell’anima il carattere (segno spirituale indelebile) come il battesimo e l’ordine e pertanto non può

essere ripetuta (cf. Denz 1601.1609). Gli anatemi colpiscono: coloro che negano che la confermazione

è un vero e proprio sacramento e affermano che è un rito o cerimonia inutile oppure una catechesi

utile per permettere a coloro che, arrivando a essere adolescenti, devono ratificare pubblicamente la

loro fede (cf. can. 1: Denz 1628), coloro che affermano che si opera una ingiuria allo Spirito Santo

nell’attribuire qualche efficacia al crisma della confermazione (cf. can. 2: Denz 1629) e infine coloro

che affermano che ministro ordinario della confermazione non è il solo vescovo ma qualsiasi semplice

sacerdote (cf. can. 3: Denz 1630). L’istituzione divina, la sua peculiarità nel settenario sacramentale

(in particolare il carattere e la grazia santificante), il segno sacramentale (in particolare l’efficacia

legata al crisma) e il ministro (il solo vescovo) sono i punti sui quali si attesta la risposta del Tridentino

ai riformatori per ciò che concerne la confermazione. Nel primo canone si trova già annunciata quella

che è ancora oggi la diffusa comprensione della confermazione (ted. die Firmung) nella prassi del

mondo protestante: un rito pubblico di «conferma» e ratifica del patto battesimale compiuto nella

prima adolescenza o giovinezza da coloro che sono stati battezzati da bambini.336

333 M. LUTERO, «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», in Lc5 tesi, presentazione di S. Quinzio, Ed. Studio Tesi, Pordenone

1984,137. 334 «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 137-138. Il testo prosegue con tagliente ironia nei confronti dell’ufficio episcopale. 335 «Sulla prigionia babilonese della Chiesa», 138. Nel libro IV, c. XIX (4-13) dell’opera Istituzione della religione cristiana,

Calvino dimostra, attraverso una esposizione molto più ampia di quella di Lutero, che la confermazione non è un sacramento. Viene

confutata sia la prassi liturgica vigente come la relativa teologia. Di questa si offre una breve sintesi e in essa si possono facilmente

riconoscere i temi elaborati dalla scolastica, cf. Calvino, Istituzione della religione cristiana, IV, XIX, 4-5 (ed. it. a cura di G.Tourn),

Utet, Torino 1971, II, 1676-1678. Il tono si fa fortemente polemico quando al 9 si parla dei ministri della confermazione come «oliatori»

(il riferimento va alla crismazione),

cf. ibidem, 1682. In realtà tale gesto viene mostrato privo di fondamento biblico NT; nella prassi apostolica emerge piuttosto un altro

gesto: l’imposizione delle mani, cf. § 7, in ibidem, 1680-1681. L’insieme è dominato da una visione del sacramento fortemente ancorata

sul rapporto tra parola e segno visibile dove è per la fede nella parola che si ottiene la salvezza e non per un potere salvifico mate-

rializzato nel segno sensibile (olio, acqua, pane...), «tali sostanze infatti deperiscono e si disfano con la figura di questo mondo», in

ibidem 1680. La prospettiva deve essere un’altra: «Ma in quanto queste cose sono santificate dalla parola di Dìo, per diventare

sacramenti, non ci vincolano alla carne ma ci forniscono un insegnamento spirituale...», in ibidem, 1681. Per la prassi vigente è

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Come si è già visto per il battesimo anche per la confermazione il periodo post-tridentino è

caratterizzato dalla nuova impostazione litur- gico-catechetica. Per la celebrazione della

confermazione l’Ordo è quello previsto dal Pontificale romanum del 1595 che riprende sostanzial-

mente quello del Pontificale di G. Durando, mentre per la formazione dei candidati alla

confermazione i parroci possono avvalersi del Catechismus ad Parochos del 1566.337 Per l’età dei

confermandi il Catechismus precisa: «Tutti i cristiani devono ricevere questo sacramento, ma non è

detto che esso possa essere ricevuto convenientemente a ogni età. Ai fanciulli, che non hanno

raggiunto l’uso di ragione, non è opportuno amministrarlo. Anche se non è necessario attendere i

dodici anni d’età, sembra giusto in ogni caso attendere almeno fino ai sette anni».338 Di fatto la cele-

brazione della confermazione non si svolge quasi mai dopo il battesimo in un rito continuo che

culmina con l’eucaristia dal momento che il suo conferimento è riservato al vescovo il quale non può

ovviamente essere presente a ogni battesimo che i parroci celebrano nelle parrocchie sia cittadine che

rurali.339 Con l’intervento del decreto Quam singulari del 1910 di Pio X e l’abbassamento dell’età

della prima comunione all’inizio dell’età della discrezione (individuata verso il settimo anno di età),

anche il conferimento della confermazione è lecito che sia convenientemente differito «ad septimum

circiter aetatis annum, nihilominus etiam antea conferri potest, si infans in mortis pericolo sit

constitutus, vel ministro id expe- dire ob iustas et graves causas videatur» (cf. C1C del 1917, can.

788). Il quadro teologico che anima la formazione catechetica si sviluppa preferenzialmente sul

registro del confermato/cresimato che viene corroborato dal dono dello Spirito Santo per essere

perfetto testimone/soldato di Cristo.340

È con l’autorevole intervento magisteriale di Paolo VI nella costituzione apostolica Divinae

consortium naturae (15 agosto 1971) che il rito della confermazione, revisionato in alcuni suoi punti

essenziali, arriva a essere approvato in vista della nuova editio typica dell ’Ordo Confirma- tionis (22

agosto 1971).341 Questa revisione non si può tuttavia comprendere se non alla luce dell’insegnamento

del concilio ecumenico Vaticano II che nella Sacrosanctum concilium offre le linee fondamentali di

attuazione di quella riforma che sarà portata a compimento dal Consilium ad exequendam

constitutionem de sacra liturgia e dalla s. Congregazione per il Culto Divino. Nella costituzione su

La sacra liturgia si afferma: «Sia riveduto il rito della confermazione, anche perché apparisca più

interessante notare un dato che Calvino fa emergere: «Quanta parte del loro popolo infatti si fa cresimare dopo il battesimo? Neppure

la centesima», 9,1683. La confermazione quale appare a Calvino nella prassi del suo tempo viene descritta come «una bestemmia

contro il battesimo...», 8,1682. 1 Anche se il Catechismo degli adulti del 1975 della Chiesa luterana di Germania sembra deporre verso una specificazione di tipo

sacramentale, cf. COURTH, La confermazione, 193-194. Cf. D. BOROBIO, «La iniciación cristiana en perspectiva ecuménica», in Phase

XXXVI(1996)213,203-208. 227-231 (l’A. offre anche un ottimo ragguaglio sulla situazione attuale dell’iniziazione cristiana alla luce

dei dialoghi ecumenici). La prassi odierna di un rito della confermazione nel mondo protestante si radica sui fondamenti posti da

Erasmo di Rotterdam e soprattutto da Martin Butzer, cf. ELBER- TI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 479-482. Per la

prassi anglicana, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 487-494 (nel Rito alternativo del 1980 si contempla sia

una comprensione della confermazione che ne accentua la visione sacramentale, sia un’altra che, analogamente al mondo protestante,

la considera come rito di passaggio alla maturità cristiana di coloro che sono stati battezzati da piccoli). 337 II Pontificale romanum, come già detto più sopra, riprende VOrdo del Pontificale di G. Durando. Per il testo, cf. l’ed. anastatica

delYEditio Princeps con introduzione e appendice a cura di M. Sodi - A. Triacca, in Monumenta Liturgica Concila Tridentini, LEV,

Città del Vaticano 1997, 8-

12 (De confirmandis). Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 517-518. Per la confermazione nel Rituale del

card. Santori, cf. ibidem, 518-520. Per il Catechismus ad Parochos, 194- 206, cf. ed. in lingua italiana a cura di L. ADRIANOPOLI, Ares,

Milano 1983,195-206. Per uno studio, cf. P. STELLA, «Il Sacramento della Confermazione nel Catechismo ad Parochos (1566)», in

Ephemeri- des Liturgicae 86(1972)2,182-213. 338 ADRIANOPOLI,// catechismo romano commentato, 203 (§ 203). 339 Nel 1946 con il Decreto della Sacra Congregazione per la disciplina dei Sacramenti Spiri- tus Sancii munera Pio XII concedeva,

mediante un indulto generale, ad alcune categorie di sacerdoti il potere di conferire, in assenza del vescovo e come ministri straordinari,

il sacramento della confermazione, cf. AAS 38(1946), 349-354. Cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa, 549-552. 340 Cf. ADRIANOPOLI, Il catechismo romano commentato, 196-197 (196). Per l’insieme cf. ELBERTI, La confermazione nella

tradizione della Chiesa, 499-504 e STELLA, «Il Sacramento della Confermazione». La nuova editio typica àelVOrdo Confirmationis è

stata promulgata il 22 agosto 1971; la versione ufficiale in lingua italiana a cura della CEI del Rito della Confermazione, approvata il

28 marzo 1972, è divenuta obbligatoria dal 1° gennaio 1973. 341 Cf. A.TRIACCA, «Per una trattazione organica sulla “Confermazione”: verso una teologia liturgica (Rassegna e Ragguaglio)», in

Ephemerides Liturgicae 86(1972)2,128-181.

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chiaramente l’intima connessione di questo sacramento con tutta l’iniziazione cristiana; perciò la

rinnovazione delle promesse battesimali precederà convenientemente la recezione di questo

sacramento. Quando si ritenga opportuno, la confermazione potrà essere conferita durante la messa;

per quanto riguarda invece il rito fuori della messa, si prepari una formula da usarsi come

introduzione» (SC 71).342

A questa solenne dichiarazione programmatica che vuole riconsegnare la confermazione al

suo originario legame con il battesimo e con l’iniziazione cristiana, occorre unire anche altri interventi

dai quali emerge lo stretto rapporto tra questi due sacramenti e l’eucaristia: nel contesto del ministero

presbiterale (cf. PO 5) e nell’ambito dell’impegno missionario di tutto il popolo di Dio (cf. AG 36).

In altri testi il discorso sulla confermazione viene proposto, sempre in stretta unità con gli altri due

sacramenti dell’iniziazione cristiana, per sottolinearne alcuni effetti in ordine alla vita personale (cf.

AG 11) e alla vita ecclesiale (cf. LG 11) nella quale il fedele esplica la funzione sacerdotale, profetica

e regale (oltre ai due testi già citati, cf. anche LG 10; 13; 33; AA 3). Nella luce dell’ecclesiologia del

popolo di Dio tornano a essere ripresi alcuni temi tradizionali della teologia della confermazione:

perfezionamento della grazia battesimale, dono dello Spirito Santo, appartenenza alla Chiesa

mediante un vincolo più perfetto ed edificazione della stessa mediante il culto, la testimonianza e

l’apostolato. Si sentono riecheggiare temi già elaborati sia dai padri come nella teologia scolastica: il

respiro è quello dell’ecclesiologia di comunione nella quale una rilevanza tutta nuova viene a essere

riconosciuta alla vita e alla missione del fedele laico. La confermazione emerge come sacramento che

edifica la Chiesa nella sua identità ad intra e nella sua missione ad extra. Un eccessivo sbilanciamento

della teologia della confermazione nella direzione della testimonianza e dell’apostolato non rende

ragione del principio iniziatico di cui tale sacramento è espressione insieme al battesimo e

all’eucaristia battesimale. Il conferimento della pienezza del dono dello Spirito Santo si lascia

certamente sviluppare, in accordo con il mistero della pentecoste, sul versante della

testimonianza/missione, come si vede chiaramente dalla lettura dei testi conciliari richiamati. Gli

stessi testi fanno però emergere anche il versante del perfezionamento della grazia battesimale come

realizzazione di un vincolo più perfetto con la Chiesa e come attuazione di una speciale consacrazione

per la partecipazione attiva al mistero eucaristico e l’esercizio del culto spirituale in unione a Cristo,

unico ed eterno sacerdote.

In ultimo alcuni testi toccano in modo nuovo e significativo la questione del ministro della

confermazione (cf. LG 26; OE 13.14). Il vescovo è qualificato come ministro originario della

confermazione (cf. LG 26), lasciando così spazio al riconoscimento di prassi liturgiche come quella

orientale dove la confermazione è conferita ordinariamente dai presbiteri con il crisma benedetto dal

patriarca o dal vescovo e richiamando tuttavia il primato del ministero episcopale in rapporto a

un’azione sacramentale che, essendo strettamenste legata alla trasmissione del dono dello Spirito

Santo, appare convenientemente riservata a coloro che nella Chiesa sono i successori degli apostoli.343

Facendo tesoro di questo contributo magisteriale del concilio e del lavoro svolto per la

revisione del rito della confermazione da parte del Consilium ad exsequendam constitutionem de

sacra liturgia, Paolo VI nella costituzione apostolica Divinae consortium naturae chiarisce e risolve

per la Chiesa latina il problema della precisa individuazione del segno sacramentale essenziale di

questo sacramento.344 Da una parte la tradizione parla di imposizione della mano/delle mani e

dall’altra parla di cri- smazione: l’una attestata come dato più costante specialmente in Occidente,

l’altra soprattutto in Oriente. Osserva Nocent:

342 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum concilium, 4.12.1963: EV 1/123. Per le

successive direttive di revisione del rito della confermazione, cf. TRIACCA, «Per una trattazione organica sulla “Confermazione”», 142-

143. 343 II nuovo CIC ha mantenuto la formula «ministri ordinari», cf. can. 882. Più articolata e globale la prospettiva del CCC 1312-

1314. 344 Per la storia del problema, oltre al già citato saggio di LIGIER, cf. ELBERTI, La confermazione nella tradizione della Chiesa,

566-577.

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La tradizione latina, [...] non è priva di complessità e vi si riscontra un movimento «di andata e ritorno»

tra l’imposizione «della mano», l’imposizione «delle mani» e l’unzione. La storia dei riti ci mostra la

progressione di una teologia ilemorfica che privilegia quanto è strettamente materia e forma.

D’altronde, i documenti indirizzati all’Oriente tendono a restare obiettivi, ammettendo l’unzione e

insistendo perché essa sia riservata al vescovo.345

L’opzione compiuta con l’intervento diretto dell’autorità apostolica stabilisce: «Il Sacramento

della Confermazione si conferisce mediante l’unzione del Crisma sulla fronte che si fa con

l’imposizione della mano, e mediante le parole: “Accipe signaculum Doni Spiritus Sancti”».346 La

preferenza è dunque andata all’unzione che è tuttavia intesa come comprensiva del gesto di

imposizione della mano. Il gesto epicietico dell’imposizione delle mani che si compie sugli eletti

prima della crismazione, pur non essendo essenziale all’atto sacramentale, «è da tenersi in grande

considerazione, in quanto serve a integrare maggiormente il rito stesso e a favorire una migliore

comprensione del sacramento».347 Rispetto al rito della confermazione del precedente Pontificale

romanum si è cambiata anche la formula preferendo a quella in uso nella Chiesa latina «l’antichissima

formula propria del rito bizantino, con la quale si esprime il dono dello stesso Spirito Santo e si ricorda

l’effusione dello Spirito che avvenne nel giorno di Pentecoste (cf. At 2,1-4.38)».348 Con tale riforma

del rito si vuole dire che la crismazione rappresenta l’imposizione delle mani usata dagli apostoli.349

Si tratta di quella imposizione delle mani «che giustamente viene considerata dalla tradizione cattolica

come la prima origine del sacramento della Confermazione, il quale rende, in qualche modo, perenne

nella Chiesa la grazia della Pentecoste».350

345 NOCENT, «I tre sacramenti della iniziazione cristiana», 118. 346 Pontificale romano Rito della Confermazione, 20. 347 Pontificale romano Rito della Confermazione, 20. 348 Pontificale romano Rito della Confermazione, 20. 349 Cf. Pontificale romano. Rito della Confermazione, 19. 350 Pontificale romano Rito della Confermazione, 16.

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CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO SISTEMATICO

1. Per un rinnovamento della prassi e della dottrina alla luce del magistero del

concilio Vaticano II e della riforma liturgica

Il nuovo Ordo confirmationis va oggi considerato alla luce dell’insieme della proposta rituale

che emerge dai nuovi libri liturgici diretta- mente legati all’iniziazione cristiana, in particolare il

nuovo Ordo initia- tionis christianae adultorum. Come sottolineavano i vescovi italiani nella

premessa ai prenotanda, tale Ordo (nella versione ufficiale in lingua italiana: RICA) rappresenta il

paradigma privilegiato a partire dal quale elaborare ogni progetto pastorale di formazione cristiana.351

Anche Paolo VI nella Divinae consortium naturae, riprendendo l’ispirazione di SC 71, ribadisce

questo legame della confermazione con i sacramenti dell’iniziazione cristiana:

Da tutto ciò appare evidente la speciale importanza della confermazione ai fini dell’iniziazione

sacramentale, per la quale i fedeli, come membra del Cristo vivente, a lui sono incorporati e assimilati

per il Battesimo, come anche per la confermazione e l’eucaristia. Nel battesimo i neofiti ricevono il

perdono dei peccati, l’adozione a figli di Dio nonché il carattere di Cristo, per cui vengono aggregati

alla Chiesa e diventano, inizialmente, partecipi del sacerdozio del loro Salvatore (cf. lPt 2,5-9). Con

il sacramento della confermazione, coloro che sono rinati nel battesimo, ricevono il dono ineffabile,

lo Spirito Santo stesso, per cui sono arricchiti di una forza speciale, e, segnati dal carattere del

medesimo sacramento, sono collegati più perfettamente alla Chiesa mentre sono più strettamente

obbligati a diffondere e a difendere, con la parola e con l’opera, la loro fede, come autentici testimoni

di Cristo. Infine la confermazione è talmente collegata con la Sacra Eucaristia che i fedeli, già segnati

dal santo battesimo e dalla confermazione, sono inseriti in maniera piena nel corpo di Cristo mediante

la partecipazione nl- l’eucaristia.352

Questa rilettura dell’evento sacramentale della confermazione è la premessa teologica che

consente una maggiore flessibilità in ordine alla specificazione del ministro. Il vescovo è e rimane

ministro originario (et'. RC, Premesse, 7) ma, oltre alle situazioni già previste dal CIC in caso di

pericolo di morte (cf. ibidem), ha ipso iure facoltà di confermare: «il sacerdote che, in forza del

mandato a lui legittimamente conferito, battezza un adulto o un fanciullo nell’età del catechismo, o

accoglie un adulto già battezzato nella piena comunione della Chiesa» (ibidem; cf. ibidem 18). Questa

ulteriore possibilità va proprio nella direzione intesa dal- VOICA/RICA e nella prospettiva dell’unità

celebrativa dei sacramenti dell’iniziazione cristiana.

2. Il nuovo Rito della Confermazione

Venendo ora più direttamente alla proposta rituale del RC notiamo che essa si struttura, come

indicato da SC 71, secondo tre modalità celebrative: la confermazione conferita nella messa, fuori

della messa e a un malato in pericolo di morte.353 Segue la presentazione della Messa rituale della

Confermazione (cf. RC, c. IV, 65-92). A testimonianza del rapporto fondamentale tra rito e

proclamazione della parola di Dio viene in ultimo offerto un ricco lezionario di testi biblici

dell’Antico e del Nuovo Testamento (cf. ibidem 93-121).

La confermazione si deve conferire «normalmente durante la Messa, perché risalti meglio

l’intimo nesso di questo sacramento con tutta l’iniziazione cristiana, che raggiunge il suo culmine

nella partecipazione conviviale al sacrificio del corpo e del sangue di Cristo» (RC, Premesse, 13). li

351 Cf. RICA, Premesse, 12. 352 Pontificale romano. Rito della Confermazione, 16: EV 4/1073. Per una rassegna delle posizioni della teologia contemporanea

sulla sacramentalità della confermazione, cf: COURTH, I sacra- menti, 185-195; Y. CONGAR, Credo nello Spinto Santo, 3: Il fiume di

vita (Ap 22,1 ) scorre in Oriente <■</ in Occidente. Teologia dello Spirito Santo, Queriniana, Brescia 1983,225-235. 353 Cf. RC, 140. Per gli adattamenti consentiti alle Conferenze episcopali, cf. OC 16-18, nel caso del RC sono stati inseriti nelle

varie parti del rito, cf. RC, Premesse, 16-17.

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interessante notare che le rubriche prevedono che la confermazione sia conferita fuori della messa

quando i confermandi sono fanciulli che non hanno ancora ricevuto la ss. eucaristia, né sono ammessi

a riceverla durante quella azione liturgica (cf. ibidem). In questi casi il vincolo dell’unità celebrativa

con l’eucaristia non può essere visibilizzato e si suppone che i fanciulli confermati accedano in un

tempo successivo alla prima comunione, completando così il loro itinerario di iniziazione cristiana.

Tali disposizioni tengono però ben saldo il principio della successione del conferimento della

confermazione prima dell’eucaristia. Si può prevedere anche il caso della stessa messa nella quale i

fanciulli già battezzati (o anche adulti già battezzati da piccoli) prima vengono confermati e poi sono

ammessi a ricevere la prima comunione (cf. RC, Premesse, 11).

La prassi vigente in Italia nella Chiesa latina non tiene presente normalmente né l’unità

celebrativa, né la successione tipica dei tre sacramenti dell’iniziazione cristiana: il battesimo è

conferito dopo la nascita, la prima comunione verso i sette/otto anni e la confermazione verso gli

undici/dodici anni.354 La questione dell’età della confermazione si rivela essere un falso problema se

nelle scelte pastorali si tiene debitamente presente il RICA come forma tipica della formazione

cristiana e la confermazione ritrova il suo posto, salvo casi particolari (non dunque come prassi

ordinaria), prima dell’eucaristia (o nella stessa celebrazione, o in ima celebrazione successiva). Per

parte sua il RC, dopo aver ribadito l’unità celebrativa di tutti e tre i sacramenti dell’iniziazione

cristiana per i catecumeni adulti e per i fanciulli che vengono battezzati nell’età del catechismo,

afferma: «Per quanto riguarda i fanciulli, nella Chiesa latina, il conferimento della Confermazione

viene generalmente differito fino ai sette anni circa. Tuttavia per ragioni pastorali, e specialmente per

inculcare con maggior efficacia nella vita dei fedeli una piena adesione a Cristo Signore e una salda

testimonianza, le Conferenze Episcopali possono stabilire un’età più matura qualora la ritengano più

idonea per far precedere alla recezione del sacramento una congrua preparazione» (RC, Premesse,

11). E così le ragioni pastorali hanno determinato lo slittamento della confermazione dopo la prima

comunione (nell’età della preadolescenza: undici/dodici anni; con molte altre varianti, fino verso i

diciotto anni). Per questo motivo si ritiene normale che la confermazione sia celebrata nella messa

(cf. RC, Premesse, 13), dal momento che si suppone come ovvia la prassi secondo la quale il

confermato può partecipare, ma non per la prima volta, alla mensa eucaristica. In tale quadro la

confermazione rischia di diventare nella mentalità corrente la celebrazione nella quale si ratificano

gli impegni battesimali, normalmente assunti da diri (genitori e padrini) in occasione del battesimo

conferito subito dopo la nascita. Tutto il rito non mira certo a questo, anzi, per ritus et preces, significa

la natura sacramentale dell’evento: viene conferito il dono dello Spirito Santo nella sua pienezza (cf.

RC, Premesse, 1-2; l’orazione epicietica: 29). Di fatto la prassi vigente sembra portare troppo in primo

piano l’esigenza di «inculcare con maggior efficacia nella vita dei fedeli una piena adesione a Cristo

Signore e una salda testimonianza,...» (RC, Premesse, 11). Non si è lontani da una comprensione

riduttiva del rito sacramentale in chiave di rito ecclesiastico, degno certamente di significato e di

valore pastorale e pedagogico ma scarsamente avvertito come azione attraversata da un’efficacia che,

essendo sacramentale, implica l’intervento unico e gratuito di Dio Padre per mezzo di Cristo nello

Spirito Santo.

Rimangono comunque da tenere ben saldi sia nel caso di una prassi (unità celebrativa o almeno

successione tipica) come dell’altra (slittamento della confermazione dopo la prima comunione) il

primato dell’evangelizzazione e quello della comunità cristiana. Il primo primato assume evi-

dentemente una fisionomia diversa a seconda della situazione dei candidati: bambini nell’età del

catechismo o adulti, già battezzati da piccoli o battezzati da adulti, catechizzati solo nella fanciullezza

o anche successivamente, praticanti o ricomincianti... Entrano in gioco a seconda dei casi soggetti

diversamente competenti per affiancare e aiutare il confermando nel suo cammino di preparazione: i

genitori, i catechisti, il parroco, il padrino o la madrina, il vescovo. L’evangelizzazione si realizza

attraverso la sinergia di questi diversi soggetti ecclesiali e rimanda all’azione globalmente

evangelizzante della comunità cristiana (cf. RC, Premesse, 3.12). 354 Per le ragioni pastorali di tale prassi e le disposizioni CEI al riguardo, cf. RUSPI, «La pastorale della Confermazione», 126-128.

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Nella confermazione la Chiesa è chiamata a esprimere la sua funzione materna come già nel

battesimo: i confermandi attendono infatti di essere pienamente introdotti nella comunità dei figli di

Dio mediante la partecipazione al banchetto eucaristico. Anche nel caso, normalmente ricorrente, di

confermandi che hanno già ricevuto la prima comunione, occorre esplicitare attraverso la catechesi

che da confermati essi partecipano alla stessa mensa ma con una novità di grazia che prima non ave-

vano ricevuto in pienezza. La situazione tutta speciale del conferimento di tutti e tre i sacramenti

dell’iniziazione cristiana nella notte di Pasqua rappresenta il modello per eccellenza dal quale

riprendere i tratti e il senso di questa maternità. In particolare è necessario rivisitare e riproporre il

valore della mistagogia affinché l’esercizio della funzione materna non si concluda con il

conferimento del sacramento ma prosegua a vantaggio dei neoconfermati per un loro più profondo

radicamento nel dono ricevuto.355 Se la cresima è l’inizio della maturità spirituale, ciò vuol dire che

tale condizione deve consolidarsi attraverso una crescita che ha nell’eucaristia, celebrata di domenica

in domenica, il suo luogo privilegiato. Mentre viene compiendosi questa lenta gestazione, il cristiano

si prepara ad assumere nella Chiesa e nel mondo quella peculiare espressione di responsabilità nella

quale potrà esercitare, secondo lo stato di vita a cui è chiamato, la funzione profetica, sacerdotale e

regale propria di tutto il popolo di Dio.

La confermazione rappresenta così, insieme al battesimo e all’eucaristia, il fondamento da cui

assumere la linfa necessaria per autentici itinerari di spiritualità, radicati nella vita della Chiesa e

capaci di discernere nel mondo i segni dei tempi per realizzare con forza e coraggio (si ricordi tutto

il lessico che evoca questa condizione martiriale e agonica del confermato: robur, pugna, mìles...) le

esigenze proprie del regno di Dio (cf. RQ Premesse, 13).356 In particolare è al fedele laico che occorre

riconsegnare questa ricchezza di spiritualità tipica della confermazione proprio a ragione del suo

effetto ultimo che è appunto il conferimento del dono pentecostale (dunque pieno e definitivo perché

pasquale) dello Spirito Santo. L’elaborazione pastorale della mistagogia della confermazione

potrebbe giovarsi di questa indicazione fondamentale per proporre itinerari di scoperta dei doni dello

Spirito Santo, riprendendo e rileggendo lo stesso segno sacramentale dell’unzione crismale e del

contesto epicietico di tale gesto (l’imposizione delle mani da parte del vescovo e l’orazione epicietica

che richiama esplicitamente il settiforme dono dello Spirito).

Per la sua irripetibilità, analogamente al battesimo, la confermazione costituisce il cristiano in

una condizione di novità di vita che è ontologicamente permanente (la teologia del carattere come

segno spirituale indelebile, come spiritalis potestas). Sotto questo aspetto la confermazione,

unitamente al battesimo, rimanda all’eucaristia come il fondamento al suo sviluppo, come l’inizio

della maturità cristiana al suo divenire nella storia. Questo riferimento alla storia come luogo della

testimonianza e della professione pubblica della fede cristiana - da diffondere e difendere - esplicita

la ragione di necessità della confermazione che è sempre stata avvertita ed esplicitata dalla teologia e

dal magistero come necessità relativa alla vita del cristiano come homo viator. Per tale condizione

pellegrinante che egli condivide con la Chiesa, si rende necessaria una speciale dotazione di forza

elargita da Dio, chiaro riferimento a una prima arcaica pneumatologia NT, al fine di portare a com-

pimento con Cristo Signore la sua missione di salvezza nel mondo. A colui che è solo battezzato

manca questa dotazione/donazione e di per sé la sua partecipazione all’eucaristia non può attuarsi se

non come invocazione di questo dono che certamente l’eucaristia elargisce ma non con le peculiarità

tipiche della confermazione (in particolare il conferimento del carattere).357

355 Noti sono gli slogan che dipingono la cresima come «sacramento dell’abbandono» (della pratica cristiana). Cf. RUFFINI, Il

battesimo nello Spirito, 366ss. 356 Ci riferiamo all’ultimo capoverso del paragrafo 13 ove si pone in luce l’importanza dell’ascolto della parola di Dio mediante il

quale lo Spirito agisce nel battezzato/cresimato e fa conoscere nella vita cristiana la volontà del Signore. 357 Di particolare interesse l’impostazione teologica del saggio di G. MAZZANTI, I sacramenti. Simbolo e teologia. 2. Eucaristia

Battesimo e Confermazione, EDB, Bologna 1998, dove la confermazione viene descritta come «sacramento della decisione nuziale tra

Dio e la Chiesa/sposa», in ibidem 257ss. Tale impostazione riesce a valorizzare tanto la prospettiva della tradizione orientale come

quella della tradizione occidentale. Il registro dell’esposizione è costruito sul filo conduttore offerto dalla pneumatologia.

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Arriviamo dunque alla conclusione di questo paragrafo presentando lo svolgimento del rito

della confermazione secondo la modalità celebrativa ritenuta più consueta: il rito della confermazione

durante la Messa (cf. RC c. I, 20-39). Per la celebrazione della messa, salvo nella ricorrenza di

determinati giorni del tempo liturgico (cf. ibidem 22), si devono usare i testi della messa rituale (cf.

ibidem c. IV). Ipotizziamo la celebrazione della confermazione di un gruppo di fanciulli nella messa

presieduta dal vescovo al quale si uniscono come concelebranti gli altri sacerdoti presenti. Dopo la

hturgia della Parola e prima dell’omelia i cresimandi devono essere presentati al vescovo dalla

persona che li ha accompagnati nella formazione (dal parroco o da un altro sacerdote o dal diacono o

dal catechista: cf. ibidem 24). I candidati, insieme ai rispettivi padrini (o a uno dei genitori), stanno

in un luogo opportuno davanti al vescovo. Dopo l’omelia inizia la liturgia del sacramento. I

cresimandi, interrogati dal vescovo, rinnovano le promesse battesimali (cf. ibidem 26). È la saldatura

rituale che rimanda al battesimo come primo dei sacramenti dell’iniziazione cristiana. Segue

l’imposizione delle mani su tutti i cresimandi da parte del vescovo e dei sacerdoti che concelebrano:

il gesto è accompagnato dall’orazione epicietica (cf. ibidem 28-29). Il diacono presenta al vescovo il

sacro crisma. Nel modo debito ciascun fanciullo insieme al padrino si presenta al vescovo (spetta al

padrino dire il nome ma può essere detto anche dal cresimando). Segue l’unzione crismale cruciforme

sulla fronte e lo scambio della pace (cf. ibidem 32). La celebrazione prosegue con la preghiera

universale e, omettendo il Credo, si prolunga nella liturgia eucaristica per arrivare alla comunione

che deve essere amministrata sotto le due specie (cf. ibidem 37). La messa si conclude con la

benedizione propria (cf. ibidem 38; oppure con l’orazione sul popolo, cf. ibidem 39). Nelle premesse

si sottolinea l’importanza della recita della preghiera del Signore, «il Padre nostro, che i cresimati

diranno con il popolo o durante la Messa prima della comunione, o fuori della Messa prima della

benedizione, perché è proprio lo Spirito che prega in noi, ed è nello Spirito che il cristiano dice “Abbà,

Padre”» (RC, Premesse, 13).

Nel battezzato Dio con la pienezza del dono dello Spirito Santo ha confermato la sua

«misteriosa» presenza perché il vincolo ecclesiale posto dal battesimo sia più perfetto e quale figlio

di Dio, unto di Spirito Santo, il cresimato possa edificare la Chiesa e dare buona testimonianza di

Cristo nel mondo. La fragranza del profumo che emana dal sacro crisma con il quale è stato unto sulla

fronte rimanda il cresimato alla novità pasquale e pentecostale che, inserito nel tessuto vivo della

comunità ecclesiale, è chiamato ad annunciare con la sua vita.358

3. Dalla confermazione all’eucaristia, culmine dell’iniziazione cristiana

La sequenza celebrativa dei sacramenti dell’iniziazione cristiana si configura come una realtà

fortemente unitaria. Il neofita è pienamente tale solo dopo aver preso parte per la prima volta alla

mensa eucaristica insieme agli altri fratelli e sorelle della comunità cristiana.

La prassi della Chiesa antica, ancora oggi così nelle Chiese cristiane dell’ortodossia, dà luogo

all’iniziazione vera e propria dopo l’impegnativa gestazione del periodo del catecumenato. Nella

vegha pasquale gli eletti accedono alla dignità di figli adottivi e membri del popolo della nuova

alleanza mediante il battesimo, la confermazione e la partecipazione alla mensa eucaristica.

L’iniziazione appare come sacramento conferito in tre tappe sacramentali intimamente unite.

Il battesimo dei bambini, nel rito romano, viene invece separato dal conferimento degli altri

sacramenti. Per l’adulto il RICA ha ripristinato, sul modello della prassi della Chiesa antica, l’istituto

del catecumenato con i suoi diversi gradi (entrata nel catecumenato, elezione) per riproporre

l’unitarietà celebrativa del conferimento dei sacramenti dell’iniziazione cristiana.

358 Si veda il bellissimo inno di Efrem il Siro che esalta le peculiarità dell’olio nell’economia salvifica: EFREM IL SIRO, «Inni sulla

verginità, n. 7», in L’arpa dello Spirito, a cura di S. BROCK, Ed. Lipa, Roma 1999,67-71.

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Il fatto che la prassi pastorale ordinaria nel rito romano sia riferita principalmente al

pedobattesimo ha determinato la diffusione di una sequenza celebrativa a tappe (collegate con le fasi

evolutive della vita dei fanciulli) dove l’intimo legame tra i tre sacramenti non è più percepito nel

modo debito. Tra l’altro, proprio per l’introduzione della sequenza: battesimo (in stretta vicinanza

temporale con l’evento della nascita), prima comunione (in stretto raccordo con il manifestarsi della

capacità di discrezione verso i sei/otto anni), confermazione (in stretto raccordo con l’età della

preadolescenza verso gli undici/quattordici anni), nell’itinera- rio catechetico e liturgico di

formazione si è venuto a collocare in seconda posizione il sacramento della penitenza, nella modalità

della «prima confessione» da situarsi in un periodo precedente la celebrazione della prima

comunione.

La forma tipica ridisegnata dal RICA getta dunque una riserva critica su questa recente prassi

introdotta per ragioni pastorali da alcune Conferenze episcopali nazionali (come quella italiana ad

es.). In realtà la posta in gioco è molto alta: la manomissione della sequenza tipica dell’Orbo, pur

motivata da sollecitazioni di tipo pastorale, induce a sovraccaricare la confermazione di valenze

teologiche che sono piuttosto tipiche dell’eucaristia. Si è diffusa infatti una comprensione unilaterale

della confermazione come sacramento della «maturità» cristiana. In realtà questa valenza, pur

essendo anche della confermazione, appartiene spiccatamente all’eucaristia. La maturità del cristiano

assume infatti i lineamenti di una vita eucaristica alla quale sia il battesimo come la confermazione

sono ordinati e della quale essi pongono le irripetibili e irrevocabili premesse fondative. La prima

partecipazione all’eucaristia porta a compimento quanto ad essa era teso e orientato, tanto l’essere (il

battesimo) come il poter agire (la confermazione) da cristiano. Da quel momento la sua storia nel

mondo come membro del popolo di Dio dovrà esplicitare tutta la novità che è data e detta nel segno

eucaristico. Conseguire la maturità, la nuova misura di sé che è Cristo, consisterà nell’eser- citare la

profezia, il sacerdozio e la regalità sempre a partire e in vista della celebrazione eucaristica del giorno

del Signore, secondo la pedagogia dell’anno liturgico.

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EXCURSUS UNO SGUARDO AI DIALOGHI ECUMENICI CON LA CHIESA ORTODOSSA

«Le coeur de l’Orthodoxie se trouve dans ses rites»

(S. Boulgakov)

A quarantanni dalla promulgazione del decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio

(21.11.1964) ritorniamo a leggerne alcuni passaggi relativi all’accento posto dai padri conciliari sulla

communicatio in sacrìs (cf. UR 8) con i fratelli e le sorelle delle Chiese orientali. Queste Chiese, alle

quali il concilio riserva una «speciale considerazione» (lat. peculiaris considerano; cf. UR 14ss),

«quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione apostolica, il

sacerdozio e l’eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli». Su

questa base di unità, prosegue il testo, «una certa comunicazione nelle cose sacre, presentandosi

opportune circostanze e con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo è possibile, ma viene

pure consigliata» ( UR 415; cf. anche OE 26). È su questo fondamento che Giovanni Paolo II nel-

l’enciclica Ut unum sint ritiene di poter e dover guardare a tali Chiese come Chiese sorelle. «Ora,

dopo un lungo periodo di divisione e incomprensione reciproca, il Signore ci concede di riscoprirci

come Chiese sorelle, nonostante gli ostacoli che nel passato si sono frapposti tra di noi» (57).

Grazie all’impegno della Commissione mista internazionale il dialogo ecumenico tra la

Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica romana ha registrato nel frattempo in rapporto alla tematica

sacramentale momenti di sviluppo particolarmente significativi. Fin dalla creazione della Com-

missione congiunta (1976) e dai primi lavori (1978) si era infatti proposto di porre in evidenza ciò

che già univa le due Chiese e si era deciso pertanto di dare la precedenza nella ricerca ai «sacramenti,

data la loro relazione con l’ecclesiologia».359

Il dibattito ecumenico successivo doveva poi proseguire ricevendo nuovo impulso dal

Documento teologico-ecumenico multilaterale di T/ima (1982), dedicato alla presentazione dei punti

di accordo, di differenza e di divergenza sulla triplice realtà fondamentale del Battesimo, della

Eucaristia e del Ministero (BEM).

Nell’attingere a questa ricchezza vogliamo fermare la nostra attenzione sul documento Fede,

sacramenti e unità della Chiesa messo a punto nella seconda fase della quarta sessione plenaria della

Commissione mista internazionale. I lavori su questa tematica, avviati nel 1984 a Creta (terza sessione

plenaria), dovevano continuare nel 1986 vicino a Bari (quarta sessione plenaria). Essi non poterono

svolgersi per un boicottaggio da parte di diverse Chiese ortodosse e ripresero in una seconda fase, nel

1987, dando luogo al testo definitivo comunemente denominato «Documento di Bari».360

Il documento è articolato in due sezioni precedute da un’introduzione. La prima sezione,

«Fede e comunione nei sacramenti» (cf. 5-36), rappresenta la parte centrale e più ampia dell’intero

testo. Il suo contenuto risponde all’intento di illustrare il nesso tra l’unità della fede e l’unità dei

sacramenti (cf. 2). Si tratta dunque di pagine che offrono, seppure in modo sintetico, una

sacramentaria generale. La seconda sezione, molto più breve (cf. 37-53), mette a fuoco il rapporto

dei sacramenti dell’iniziazione «fra di loro e in rapporto con l’unità della Chiesa» (4).

L’assioma di fondo che ispira lo sviluppo del dialogo è espresso nell’introduzione laddove si

precisa che l’unità della fede «è un presupposto per l’unità nei sacramenti e specialmente nella santa

eucaristia» (2). 359 Cf. R.G. ROBERSON, «Dialogo cattolici-ortodossi», in Dizionario del movimento ecumenico, EDB, Bologna 1994,370. 360 Per il testo del documento di Bari, cf. COMMISSIONE MISTA INTERNAZIONALE PER IL DIALOGO TEOLOGICO TRA LA CHIESA CATTOLICA

ROMANA E LA CHIESA ORTODOSSA, documento Fede, sacramenti e unità della Chiesa, 16.6.1987: EO 3/1762ss (nel testo indico i mi.,

omettendo il rimando alle pp.); sulle cause del boicottaggio cf. ROBERSON, «Dialogo cattolici-ortodossi», 370. Per uno sguardo sintetico

alle sessioni plenarie precedenti il 1984, cf. ibidem. Sarebbe auspicabile prendere in esame anche il Documento di Vaiamo (1988) per

il suo tema (il sacramento debordine) strettamente connesso con la struttura della Chiesa, la teologia sacramentale e la teologia

eucaristica in particolare, cf. COMMISSIONE MISTA INTERNAZIONALE PER IL DIALOGO TEOLOGICO TRA LA CHIESA CATTOLICA ROMANA E

LA CHIESA ORTODOSSA, documento II sacramento dell’ordine nella struttura sacramentale della Chiesa, 26.6.1988: EO 3/1812ss (in

particolare 1835-1854).

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Nel tentare una corretta ermeneutica del testo è utile seguire lo sviluppo dottrinale unitario

(tanto ortodosso come cattolico romano) della dinamica della fede nelle sue distinte implicazioni:

come dono divino, come atto personale (fides qua), come evento liturgico, come realtà ecclesiale,

come elaborazione dottrinale (fides quae), come comunione regolata da precise condizioni, come

prassi di iniziazione legata - secondo principi comuni, cf. 49 e modalità diverse, cf. 50-51 - a tre

sacramenti (battesimo/confermazione/ eucaristia).

Nel delineare la priorità della fede sui sacramenti e sulla comunione sacramentale, già

nell’introduzione si afferma:

... bisogna garantire che essa [la fede] venga considerata come una condizione preliminare, di

per sé già completa, prima della comunione sacramentale, e da questa accresciuta, come espressione

della vita della chiesa e mezzo di crescita spirituale di ciascuno dei suoi membri. La questione va

posta per evitare un accostamento errato al problema della fede, intesa come condizione per l’unità.

Tuttavia non dovrebbe servire a offuscare il fatto che la fede è condizione e che non c’è comunione

sacramentale senza la comunione nella fede, sia nel senso più vasto e sia nella formulazione

dogmatica (3; cf. anche 6 e 12).

Se delle differenze o nella dottrina o nella prassi liturgica «significano il rifiuto di dogmi

precedenti della Chiesa [...] ci si trova chiaramente davanti a una vera divisione sulla fede. Allora la

comunione sacramentale non è più possibile» (28).361 Vi è dunque una fides, richiesta quale con-

dizione preliminare per entrare nella comunione di salvezza espressa nella Chiesa locale, una fides

che si sviluppa e cresce nella dinamica sacramentale e dottrinale, una fede eterodossa che non può

più esprimersi e accrescersi nella e mediante la celebrazione sacramentale perché in dissonanza con

la traditio fidei autentica. «Ciascun sacramento presuppone ed esprime la fede della Chiesa che lo

celebra» (6).

L’ottica pneumatologica torna continuamente in tutto il testo (cf. in particolare il c. 3 della

prima sezione) fino alla densa formulazione che chiude la prima sezione: «La comunione nella fede

e la comunione dei sacramenti non sono due realtà distinte. Esse sono due aspetti della medesima

realtà, che lo Spirito Santo promuove, accresce e custodisce presso i fedeli» (36). Questa unità trova

conferma e sintesi nel costante richiamo alla dimensione eucaristica (cf. 17.18-19; 24) della fede sia

come celebrazione liturgica (cf. 13-14) che come elaborazione dottrinale (cf. 18- 20). «L’identità

della fede è espressa e rafforzata dall’atto sacramentale, in modo speciale dalla concelebrazione

eucaristica dei rappresentanti di diverse Chiese locali. Per questo i concili, nei quali i vescovi condotti

dallo Spirito Santo esprimono la verità della fede della Chiesa, sono sempre uniti nella celebrazione

eucaristica» (24).

La seconda sezione del «Documento di Bari» pur nella sua brevità offre preziosi elementi per

una riflessione e un approfondimento che ad una prima rapida lettura potrebbero sfuggire.362 È nostro

intento metterli debitamente a fuoco.Un secondo passaggio sarà quello di presentare sinteticamente

la comprensione della questione tenendo conto della voce di un teologo ortodosso: Gheorghe Sava-

Popa.363

Non si può che valutare positivamente il contenuto e lo stile dell’ultima parte del documento.

Sappiamo della difficoltà che hanno le Chiese ortodosse nel poter riconoscere la vahdità del battesimo

361 Viene presentata una griglia di criteri atti a determinare se nuove formulazioni della fede esprimono una differenza legittima

oppure portano ad una divisione, cf. 29-33. 362 Per svolgere questa ricerca si tenga conto anche della prima sezione del documento e degli sviluppi intervenuti nel periodo

successivo al 1987 (in particolare la recezione ufficiale del BEM da parte della Chiesa cattolica romana, il Direttorio per l’applicazione

dei principi e delle norme sull e- cumenismo del 1993). 363 Cf. G. SAVA-POPA, Le Baptème dans la tradition Orthodoxe et ses implications oecuméniques (Cahiers oecuméniques 25), Éd.

Univ. de Fribourg (Suisse) 1994.

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conferito in altre Chiese (per es. quella cattolica romana). L’autorità e la competenza di un tale

pronunciamento ufficiale spettano infatti unicamente al concilio panortodosso.364 La sua

convocazione è stata indetta ma attende ancora di essere concretizzata. Si è allora consapevoli di

quanto siano preziosi i risultati dei dialoghi realizzati nel frattempo. Essi, sia bilaterali o multilaterali,

potranno ispirare in chiave ecumenica le deliberazioni che si auspica possano essere raggiunte in seno

al concilio.

Poniamo ora in rilievo taluni termini o locuzioni che punteggiano il testo della sezione del

documento dedicata specificamente ai sacramenti dell’iniziazione. Dopo aver sottolineato l’intreccio

unitario dei tre sacramenti dell’iniziazione (cf. 37), se ne descrive con più precisione la specifica

valenza sacramentale. Arrivati all’eucaristia, compimento dell’itinerario dell’iniziazione, si sottolinea

che essa va «ricevuta con le dovute condizioni...» (ibidem) e se ne descrivono gli effetti. Anche nella

concezione cattolica romana dei sacramenti si pone l’esigenza di una partecipazione secondo le

dovute condizioni (per l’eucaristia, cf. CIC canoni 912-923; CCC 1355.1384-1390).

Considerando «il modello di amministrazione» (39) dei sacramenti dell’iniziazione

sviluppatosi nella Chiesa, si afferma che essa «vedeva le varie tappe dell’iniziazione come integranti,

teologicamente e liturgicamente, l’incorporazione a Cristo mediante l’entrata nella Chiesa e la cre-

scita in lui attraverso la comunione al suo corpo e al suo sangue nella stessa Chiesa» (ibidem). Cristo

e Chiesa appaiono come saldamente integrati l’uno nell’altra secondo il nesso incorporazione-

crescita (cf. anche 38 dove si richiama il tema della maturità cristiana) nel quale si manifesta l’opera

dello Spirito Santo (cf. 39). Questo modello, ritenuto come «ideale» (46) dalle due Chiese, non

rappresenta forse un terminus a quo che sembra escludere in partenza le Chiese sorte dalla Riforma?

Solo l’aver ricevuto tutti i sacramenti dell’iniziazione cristiana rende possibile «la piena

illuminazione della fede» (52) del neofita. Viene in tal modo reso più chiaro il rapporto tra fede e

sacramenti dell’iniziazione: essi suppongono la fede e nello stesso tempo questa è alimentata e illu-

minata da essi. Questa circolarità non potrebbe allora portare a concludere un’interazione reciproca

tra comunione nella fede e comunione nei sacramenti, ovvero da quella a questa ma anche l’inverso?

Anche in questo caso sorge la questione della rilevanza non solo del rapporto battesi-

mo/confermazione vs. eucaristia ma anche l’inverso: eucaristia vs. battesimo/ confermazione. In

questa seconda prospettiva si precisa infatti il compiersi nell’eucaristia di una potenzialità eucaristica

intrinseca al battesimo/confermazione. Perché non rendere possibile questo compimento al battezzato

di un’altra comunità ecclesiale? Non potrebbe così anch’egli innalzarsi a quella illuminazione

connaturata e iscritta nella sua identità filiale? Forse i problemi nascono più a livello ecclesiologico,

ma questi non sono allora già presenti anche nel primo dei sacramenti dell’iniziazione, il battesimo?

Il permanere da parte ortodossa del mancato riconoscimento della validità del battesimo

conferito nella Chiesa cattolica romana sembra rispondere in verità a un criterio di profonda coerenza.

Laddove non esiste una piena comunione nella fede, non può essere celebrata la comunione nei

sacramenti a cominciare dal battesimo e a maggiore ragione nel suo compimento eucaristico. Per i

sacramenti dell’iniziazione ci si può chiedere tuttavia dove da parte ortodossa si ravvisi questa

carenza o difetto nella fede espressa dalla Chiesa cattolica romana. Leggendo e rileggendo il

«Documento di Bari» si può al massimo rilevare una problematicità nell’accettare da parte ortodossa

l’odierna prassi celebrativa dei sacramenti dell’iniziazione nella Chiesa cattolica romana (segnata-

mente: la diffusa prassi del battesimo per infusione piuttosto che per immersione, la facoltà

riconosciuta al diacono di essere ministro ordinario del battesimo, la consuetudine pastorale di

celebrare la confermazione dopo la prima partecipazione all’eucaristia, cf. 50-51). D’altra parte, si

afferma nel testo, la prassi della Chiesa antica rappresenta «l’ideale per le due Chiese» (46). Questa

difformità rispetto al modello ideale praticato nella Chiesa antica, «che provoca comprensibili

364 Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 264. Cf. G. TSETSIS, «Conferenze panortodosse», in Dizionario del movimento ecumenico, 256-

257.

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obiezioni o riserve da parte sia degli ortodossi che di cattolici romani» (51), è in sé così rilevante da

non permettere questo mutuo riconoscimento del battesimo, tenuto conto anche della soppressione

delle reciproche scomuniche (cf. Ut unum sint 56)?

La concezione della dottrina liturgico-sacramentale intrattiene profondi legami con la dottrina

ecclesiologica e la struttura del documento ne è una chiara attestazione: la prima sezione più

ecclesiologica e la seconda più centrata sui sacramenti dell’iniziazione. Le questioni da chiarire

riguardano forse più direttamente le diversità a livello delle concezioni ecclesiologiche che

l’impostazione delVordo celebrandi dell’iniziazione cristiana. Anzi, a questo livello la Chiesa

cattolica romana, dopo il concilio Vaticano II, ha pienamente recuperato (non solo per gli adulti)

l’esemplarità teologico-pastorale del modello antico (cf. OICA).

L’articolazione fortemente sinodale delle Chiese ortodosse e la peculiare concezione del

ministero ordinato, studiate nella sessione di Vaiamo della Commissione mista (1988),365 portano il

dialogo ecumenico dinanzi alla «questione capitale» (1) del discorso ecclesiologico. Ad esse è

strettamente connesso il riconoscimento del primato petrino e del suo modo di attuarsi, stando questo

nuovo clima ecumenico. Il saggio monografico di G. Sava-Popa si sviluppa in cinque capitoli.

I primi quattro presentano un’ampia teologia del battesimo a partire dalle fonti scritturistiche,

patristiche e liturgiche con particolare attenzione alla tradizione orientale antica e alla teologia

ortodossa contemporanea. Il capitolo quarto affronta in modo più diretto la relazione del battesimo

con gli altri sacramenti dell’iniziazione (crismazione, eucaristia).366 L’ultimo capitolo porge al lettore

le implicazioni ecumeniche del battesimo nel dialogo cattolico-ortodosso.367

Meritano di essere riprese alcune considerazioni che l’A. esprime proprio all’interno di questo

capitolo quinto e precisamente nell’ultimo paragrafo: L’approche oecuménique à la question des

sacrements dans la théologie orthodoxe.368

Lo stretto legame della hturgia e della dogmatica comporta per l’ortodossia una sensibilità

particolare alle differenze nella pratica liturgica rispetto alla Chiesa cattolica romana. Le difficoltà

provengono soprattutto dalla posizione che la Chiesa ortodossa adotta «sui sacramenti al di fuori della

Chiesa, di cui l’economia è un’applicazione».369 In ogni caso l’A. è convinto che queste differenze

«non possono costituire, [...] un ostacolo reale sulla via dell’unità».370

Tuttavia le differenze non possono essere sottovalutate. Un cattolico dovrebbe comprendere

che per l’ortodossia «non è il rito ad essere autentico per se stesso, ma la Chiesa che lo attua».

L’autenticità e l’autorità del rito «riposano unicamente sulla Chiesa canonica e sulla sua fede. Essa

conferisce potere e vita al rito come espressione della sua fede e del suo pensiero».371 Certi sviluppi

postumi degli usi liturgici della Chiesa cattolica romana non sono solo «questioni canoniche sui riti

ma questioni profonde della fede».372

Che dire allora della validità dei sacramenti conferiti al di fuori dell’ortodossia? Dopo aver

365 Cf. sopra nota 2. Si vedano anche il Documento di Balamand (1993) e le Dichiarazioni di Freising (1990) e di Ariccia (1991)

relativi alla spinosa e complessa questione delYuniatismo, cf. EO 3/1867-1937. 366 Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 147ss (c. IV «Le Baptème dans son rapport avec la Chrismation et l’Eucharistie»). 367 Cf. SAVA-POPA, Le Baptème: c. V, «Le Baptème dans le dialogue catholique-orthodoxe», 197- 277. Segue la conclusione

dell’intera monografia, cf. ibidem 278-281.

^ Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 260-277. A questo ultimo paragrafo l’A. giunge dopo aver considerato i tre punti critici del dialogo: 1.

«La triple immersion ou infusión?», 2. «La position sur le ministre du Baptème», 3. «L’ordre des sacrements d’initiation». 369 Sava-Popa, Le Baptème, 261 (d’ora in avanti i testi citati sono tradotti direttamente dal francese). Per un approccio sintetico alla

nozione di «economia», cf. P. L’Huillier, «Economia (Oikonomia)», in Dizionario del movimento ecumenico, 456-457. 370 SAVA-POPA, Le Baptème, 261. 371 SAVA-POPA, Le Baptème, 264. 372 SAVA-POPA, Le Baptème, 264.

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richiamato il «Documento di Bari» che a tale proposito non si è espresso, né poteva esprimersi,373

l’A. ricorda il valore vincolante per l’ortodossia dell’assioma di s. Cipriano «extra Ecclesiam nulla

salus» che rappresenta insieme a s. Basilio una vera e propria tradizione diversa da quella di Roma e

di s. Agostino.374

Dopo aver richiamato i tratti salienti e il contesto storico-teologico all’origine di queste due

tradizioni, si arriva a considerare la funzione storica e teologica del principio di economìa nel

temperare il rigore delle disposizioni canoniche e permettere di riconoscere la validità dei sacramenti

e di altri atti «per il bene della Chiesa e la salvezza dei convertiti, in alcuni casi particolari, ogni volta

giustificati dalle circostanze».375 L’applicazione odierna di tale principio non dà luogo a una

soluzione uniforme ma variegata perché tale prospettiva non sembra portare alla soluzione della

questione del riconoscimento della validità dei sacramenti di coloro che restano fuori della Chiesa

ortodossa.376

Nella Chiesa ortodossa russa e rumena, ci sono tre rituali di accoglienza degli eterodossi: 1.

mediante nuovo battesimo; 2. mediante crismazione; 3. mediante una semplice testimonianza della

fede. I teologi greci sono generalmente d’accordo che la loro Chiesa ritorni alla pratica dell’economia

nei riguardi della Chiesa cattolica e protestante. Il professore Karmiris in un rapporto presentato al

santo Sinodo di Atene, dice che il futuro concilio panortodosso deve decidere: 1. chi sono gli

eterodossi che devono essere battezzati per essere accolti nell’Ortodossia; 2. chi deve essere accolto

mediante crismazione; 3. chi deve essere accolto mediante una semplice confessione di fede. Egli

propone che i cattolici, i cristiani cattolici e gli anglicani siano accolti mediante una confessione di

fede. Egli domanda alla Chiesa di Grecia che revochi la decisione del 1755 che richiedeva il nuovo

battesimo di tutti gli eterodossi.377

Il riferimento al principio di economia ha tuttavia dei limiti oggettivi per la questione del

riconoscimento della validità. Applicato o a fedeli ortodossi o a coloro che vogliono entrare nella

Chiesa ortodossa, esso «non risolve la questione sulla validità dei sacramenti di coloro che restano

fuori di essa». Fino ad oggi «la Chiesa ortodossa non ha preso una posizione ufficiale su questa

questione».378 Teologi come S. Boulgakov, G. Florovsky, P. Evdokimov, A. Borrely mostrano invece

altre ragioni ecclesiologiche in grado di aprire la strada al riconoscimento della validità: l’A. le

condivide e auspica una soluzione in questa direzione.379 «In questo periodo nel quale gli aperti

conflitti tra le confessioni appartengono al passato e tutti i problemi devono essere risolti sulla via del

dialogo, la Chiesa ortodossa è chiamata a essere più sensibile e più trasparente».380

Tenendo conto dello studio di alcuni significativi testi dei dialoghi ecumenici proposto dal

Borobio (in particolare il BEM e il «Documento di Bari»),381 l’attuale situazione dottrinale, pastorale

e liturgica sull’iniziazione cristiana nei rapporti con le Chiese orientali può essere riepilogata sotto

due prospettive: prima di tutto i punti di convergenza, poi quelli ancora non risolti in base ai quali si

deve registrare il persistere di alcune divergenze. Sul piano dottrinale le convergenze sono le seguenti:

373 Cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 264. L’A. rammenta come, non essendoci una presa di posizione ufficiale spettante al concilio

panortodosso, le decisioni prese in questa materia sono parziali e locali e non della Chiesa ortodossa in quanto tale e conclude: «In

queste condizioni, si comprende l’importanza che potrà avere, per l’avvenire dell’ecumenismo, la presa di posizione del Sinodo panor-

todosso», SAVA-POPA, Le Baptème. 374 Su questo l’A. fa riferimento a successivi contributi di A. DE HALLEUX, cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 265 (note 1096,1097). 375 SAVA-POPA, Le Baptème, 268. «L’economia non si applica a ciò che riguarda direttamente le dottrine di fede, come, ad esempio,

i principi fondamentali su cui si fondano la teologia sacramentale, l’ordinamento ecclesiale e l’etica cristiana. Ma il fatto che l’economia

non sia possibile in questi campi non autorizza a pensare che essa possa essere applicata senza restrizioni di sorta in tutti gli altri casi»,

L’HUILLIER, «Economia (Oikonomia)», 456. 376 Si veda la rassegna delle posizioni offerta dall’A., cf. SAVA-POPA, Le Baptème, 268-276 (di rilievo la citazione della posizione

della Conferenza panortodossa preconciliare, cf. ibidem, 270). 377 SAVA-POPA, Le Baptème, 271-272. 378 SAVA-POPA, Le Baptème, 273. 379 SAVA-POPA, Le Baptème, 273-277. 380 SAVA-POPA, Le Baptème, 276. 381 Cf. D. BOROBIO, «La iniciación cristiana en perspectiva ecuménica», in Phase 36(1996)213, 197-231.

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l’affermazione che l’unità di fede implica l’unità dei sacramenti; il senso teologico del battesimo

come partecipazione alla morte/risurrezione di Cristo, perdono dei peccati, dono dello Spirito,

incorporazione alla Chiesa, dono della vita nuova; il senso teologico della confermazione come

perfezionamento del battesimo e dono dello Spirito; l’iniziazione cristiana come una realtà unitaria

che ha il suo inizio nel battesimo e il suo culmine nell’eucaristia. Le convergenze sul piano pastorale

sono: la necessità della preparazione al battesimo o iniziazione cristiana, la necessità di promuovere

e sostenere la crescita spirituale successiva (in analogia alla mista- gogia). Sul piano liturgico la

convergenza è essenzialmente una: la difesa dei riti essenziali e comuni all’iniziazione secondo il

modello della Tradizione apostolica (tempo del catecumenato; battesimo con i suoi diversi elementi

rituali; confermazione o crismazione conferita dal vescovo in Occidente e dal presbitero in Oriente;

eucaristia con piena partecipazione dei neofiti; mistagogia; centralità dei riti essenziali dell’acqua e

dell’unzione con il crisma). Per quanto concerne le divergenze ancora presenti quelle sul piano

dottrinale sono due: la maggiore insistenza degli orientali sul dono dello Spirito, così come sull’unità

dell’iniziazione cristiana, di fronte all’insistenza degli occidentali sulla comunione ecclesiale

mediante il ministero del vescovo. Sul piano pastorale gli orientali insistono meno sulla preparazione

al battesimo, non accettano la motivazione pastorale per giustificare il ritardo della confermazione,

non accettano l’inversione dei riti (prima comunione poi confermazione) dovuta a motivi pastorali,

di fatto non valorizzano come gli occidentali il catecumenato. Infine sul piano liturgico: la differenza

sul ministro che per gli orientali può essere il presbitero come il vescovo per tutti i sacramenti

dell’iniziazione cristiana, mentre per gli occidentali la confermazione è riservata ordinariamente al

vescovo e il battesimo può essere conferito anche dal diacono; la preferenza accordata in Oriente al

rito di immersione rispetto a quello di infusione; l’inversione dei riti per cui la confermazione in

Occidente viene ad essere conferita dopo la prima comunione (anche se tale prassi è stata corretta nel

rito latino secondo la nuova impostazione prevista dal RICA sia per gli adulti come per i bambini in

età scolare).382

382 Cf. BOROBIO, «La iniciación cristiana», 226-227.

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TERZA PARTE IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA

Carlo Rocchetta

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INTRODUZIONE FONDAMENTO ANTROPOLOGICO

L’eucaristia è in se stessa una realtà trascendente, manifestazione- dispiegamento in atto

dell’economia di incarnazione redentiva dell’Unigenito di Dio nella storia, il Risorto in eterno, e della

sua presenza nella Chiesa. Una realtà che si inserisce, trasfigurandolo, nel ritmo più profondo

dell’esistenza umana e, in particolare, nel significato che in essa rivestono il «nutrirsi» e «la mensa

in comune». Tutto ciò nel quadro della cultura biblica di cui il cristianesimo è erede e compimento

escatologico.

1. Il «mangiare» e il «bere» nella vita dell’uomo

I gesti del «mangiare» e del «bere» esprimono bisogni primari della condizione dell’uomo

sulla terra; bisogni in perfetta corrispondenza con l’ordine biblico stabilito da Dio fin dall’inizio:

«Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo...» (Gen 9,3; 1,29). Il «mangiare» e

il «bere», se richiamano la superiorità dell’uomo sul creato (tutto è per lui), indicano nello stesso

tempo la sua radicale dipendenza dal Creatore (tutto gli è dato in dono). Sussiste un’armonia vitale

tra la natura, la persona umana, uomo-donna, e il Creatore. Il nutrirsi «rimanda» al Dio della vita e

manifesta la situazione di attesa dell’uomo (Sai 104,10-15.27-30). L’eucaristia, pur appartenendo a

un ordine di grazia tutto particolare, recupera - nella sua radice antropologica - il significato del

«nutrimento» nella vita umana e annuncia quale sia il vero cibo «che dà la vita al mondo» e la vera

bevanda, fino a proclamare che quanti mangiano di quel «pane» e bevono da quella «fonte» non

avranno più fame e sete in eterno (Gv 6,30-53).

I gesti del «mangiare» e del «bere» includono in se stessi, d’altronde, una fondamentale

valenza simbolica: quella di una morte che dà la vita. Ogni volta infatti che noi mangiamo e beviamo,

beneficiamo di qualcosa che in precedenza è stato sacrificato: ci cibiamo delle «carni» di un animale

che è stato ucciso o di frutti che sono stati strappati dalla terra; ci dissetiamo con bevande che vengono

dalla natura. Vi è stata una «morte», un «passaggio da... a...», perché noi possiamo avere la vita. Il

chicco di grano «muore» per diventare buon pane per l’uomo, l’acino di uva «muore» per trasformarsi

in vino prelibato per le nostre mense. Ogni volta che ci nutriamo siamo dunque spettatori-partecipi di

una dialettica di morte e di vita che appartiene all’ordine stesso della creazione: un morire che

consente all’uomo di vivere. L’eucaristia non ripropone forse la medesima dialettica, sia pure a un

livello nuovo, di redenzione e di grazia? È la dialettica dell’Unigenito di Dio che accetta la realtà

della morte perché abbiamo la vita nel suo nome (Gv 12,24-25).

2. La mensa come banchetto di comunione

I «mangiare» e il «bere» si realizzano, di norma, nella forma di un banchetto, di un pasto preso

in comune, in un clima di condivisione e di familiarità. Sussiste una radicale differenza - da questo

punto di vista - tra il semplice nutrirsi (come mero fatto biologico) e la mensa (come espressione di

solidarietà e di comunione conviviale). Coloro che si mettono a tavola per pranzare, se da una parte

intendono appagare un bisogno umano fondamentale, dall’altra desiderano sperimentare il piacere di

stare insieme, vivendo e realizzando un momento di comunicazione-convivialità. Non a caso in tutte

(o quasi) le culture umane, i principali avvenimenti dell’esistenza del gruppo (una nascita, un

matrimonio, un funerale, una ricorrenza) sono solennizzati con un pasto. A sua volta, il pasto celebra

e rafforza il senso dell’appartenenza al clan o alla comunità. Tutto ciò è particolarmente vero per il

mondo dell’antico Oriente e la sua cultura.

Il banchetto in comune riveste un significato molto più ricco del semplice sedere insieme per

vincere la fame o - come si dice oggi - «per consumare un pasto». Condividere la mensa è entrare in

una profonda comunione di sentimenti e di vita con tutti i componenti del tavolo. La mensa in comune

è segno di accoglienza e fraternità. È sufficiente ricordare, a riguardo, il pranzo che Abramo

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imbandisce per i tre personaggi che gli fanno visita e il senso ospitale che gli attribuisce (Gen 18,1-

8), il pasto di Isacco con Abimelec (Gen 26,30) e quello di Labano con Giacobbe per suggellare la

loro alleanza (Gen 31,4). Il pasto comunitario è un segno vivo di condivisione, fiducia, pace. Per

questo motivo, nella cui- tura biblica, come in molte altre, è intollerabile la presenza di un falso

commensale o di un traditore a un convito (Sai 41,10; anche Mt 26,23; Gv 13,27). Lo stesso perdono

è espresso mediante la possibilità concessa a qualcuno di sedere alla propria mensa: il re di Babilonia

accoglie alla sua tavola Joachin (2Re 25,27-30); lo stesso fa il re Agrippa con Sila dopo che questi

era caduto in disgrazia.383

Secondo l’ebraismo antico, l’atto del pasto fa partecipare i convitati alla stessa benedizione

divina che accompagna la frazione del pane e la circolazione del calice. Del resto in tutte le religioni

si conoscono pasti sacri che, pur con contenuti diversi e talvolta ambigui, sono vissuti come eventi di

comunione con la divinità, come ricorda lo stesso Paolo, contrapponendo tali usi alla verità del

banchetto eucaristico (ICor 10,14-30). Anche sotto questo aspetto, non è inutile - è anzi significativo

constatare come la scelta di Gesù di istituire la memoria della sua pasqua nella forma di una mensa

corrisponda alla modalità propria e ordinaria con cui i gruppi esprimono la propria vita comunitaria,

la celebrano e la attuano. Il dono dell’eucaristia si innesta in questa simbologia per trasfigurarla con

la novità dell’accadimento unico della pasqua e condurre l’umanità verso il banchetto escatologico,

compimento ultimo della storia. Ma per poter cogliere la valenza di tutto questo e la sua verità occorre

collegarsi alle sorgenti specifiche della fede eucaristica della Chiesa, dall’AT al NT, e verificare come

la riflessione teologica abbia compreso e interpretato questo mistero lungo la sua storia e lo proclami

sul piano dogmatico - all’uomo di ogni tempo e luogo. Concluderemo con una verifica di carattere

liturgico.

383 Giuseppe Flavio, Ani. Giud., 19,321.

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CAPITOLO PRIMO ORIGINE BIBLICA

Il NT qualifica l’eucaristia con due titoli fondamentali: cena del Signore (ICor 11,20) e

frazione del pane (At 2,42.46; 20,7.11): due titoli che collegano il mistero eucaristico

&IYavvenimento storico dell’ultima cena vissuta da Gesù con i suoi e al riunirsi celebrativo della

Chiesa apostolica. La prima dizione evidenzia come l’azione eucaristica sia stata intesa, fin

dall’inizio, non come una semplice agàpè fraterna, ma come un rivivere in atto il mistero della pasqua,

dal momento che ciò che si celebra è la «cena del Signore», il ricordo di quanto il Kyrios ha detto e

fatto «la notte in cui fu tradito» (ICor 11,23), in relazione alla sua morte e risurrezione; un ricordo in

forza del quale i cristiani entrano in comunione col suo corpo dato e il suo sangue versato (ICor

10,16), annunciando la sua morte finché egli torni (ICor 11,26). Il secondo titolo, riprendendo una

dizione di netta marca giudaica, richiama la comunione che si realizza ogni volta che i cristiani si

riuniscono per spezzare l’unico pane e mangiare all’unica mensa, diventando un unico corpo in Cristo

Gesù (ICor 10,17). Entrambi i titoli vanno compresi nel contesto dell’economia della salvezza e degli

eventi mirabili che la costituiscono. Il termine stesso «eucaristia», equivalente greco della dizione

biblica berakah, richiama un ricordo benedicente di Dio in rapporto alle sue grandi opere. Benché la

traduzione abituale dei LXX sia euloghein, nei libri conservati esclusiva- mente in greco appare

piuttosto il termine eucharistein. Lo stesso pane eucaristico viene denominato o eucharistetheis artos,

«ciò su cui sono rese grazie». La corrispondenza tra la berakah biblica e l’eucaristia, d’altronde, non

è solo a livello linguistico, ma di contenuto. In quanto corrispondente neotestamentario di berakah,

il termine «eucaristia» porta con sé una ricchezza di contenuti molto più ampia di un semplice

«ringraziamento»: come la benedizione ebraica, comprende la lode, la narrazione, il ricordo, la

dossologia; come essa, rimanda alla celebrazione dei mirabilia compiuti da Dio nella nuova creazione

offerta dalla pasqua di Gesù, in un contesto di ammirazione e di stupore riconoscente.

1. Tipologia biblica ed eucaristia

Proprio in quanto berakah, non è possibile comprendere il senso dell’azione eucaristica se

non nel quadro dell'bistorta salutis e della sua lettura in chiave tipologica. La tipologia è lo studio

delle corrispondenze tra gli eventi della salvezza, passando dalla prima economia alla nuova fino al

tempo della Chiesa; essa permette di mostrare come Cristo e i suoi gesti siano la realizzazione delle

figure dell’antica legge e come entrambi si dispieghino nella realtà della Chiesa e dei sacramenti.384

L’eucaristia appartiene a questo contesto; essa non rappresenta un accadimento isolato e senza alcun

riferimento al passato; al contrario, si situa al punto di convergenza di una vasta serie di eventi biblici

che ne formano, nel loro insieme, l’ambito peculiare di intelligenza intrabiblica. Tali sono, in parti-

colare, la pasqua di liberazione, il sacrificio di alleanza, il banchetto di comunione la «dimora» di

Dio (shekinah) in mezzo al suo popolo.

1.1. LA PASQUA DI LIBERAZIONE

In origine, la pasqua era la festa della primavera, legata alle prime spighe d’orzo e all’offerta

dei pani azzimi. Dopo la liberazione dall’Egitto, si trasforma nel ricordo dell’esodo, il passaggio dalla

schiavitù alla libertà; un passaggio che costituisce l’evento centrale della storia d’Israele, ricordato di

anno in anno, come il grande accadimento salvifico compiuto da YHWH in favore del suo popolo.

Celebrare la pasqua, per l’ebreo, significa commemorare l’uscita dalla terra del faraone, con le

«meraviglie» che l’accompagnano, in cammino verso la terra promessa, e rinnovare a ogni svolta

della storia la fede nella potenza salvatrice del Signore. I profeti si collegano a questa memoria per

annunciare una nuova pasqua, una pasqua di liberazione, immensamente più grande di quella passata

al punto da farla quasi dimenticare (Is 43,18-21). E questa una costante della prima economia: volgere

lo sguardo al passato per annunciare il tempo messianico come tempo nel quale si riproporrà, in

misura assolutamente superiore, l’accadimento mirabile della prima pasqua. Il NT proclama che 384 Per un’ampia verifica, cf. C. ROCCHETTA, I sacramenti della fede, Bologna 2001 (8a ed. riscritta), 2 voli.

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questa attesa/profezia si è ormai realizzata in Gesù di Nazaret e nella sua morte-risurrezione. Paolo

spiega che «Cristo, nostra pasqua è stato immolato» ed è dunque tempo di passare dal «vecchio

lievito» al «nuovo» (ICor 5,7-8). Giovanni introduce il racconto della passione con una constatazione

fondamentale: «Prima della festa di pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da

questo mondo al Padre...» (Gv 13,1). Gesù è l’Unigenito che è venuto dal Padre nel mondo,

incarnandosi (Gv 1,1.14); la nuova pasqua è il suo passaggio da questo mondo al Padre, dopo aver

«dato il suo corpo» e «versato il suo sangue» per la salvezza di tutti (Gv 3,13-15; 12,32). Il banchetto

che egli celebra con i suoi la sera del Giovedì santo rappresenta l’anticipazione in atto di quell’evento

di morte e di vita. L’eucaristia ne è il «memoriale». Attraverso di esso si attualizza il grande passaggio

di Cristo da questo mondo al Padre e si rinnova l’«esodo» della salvezza per tutti i popoli della terra.

Sono essenziali, per la piena comprensione di questo orizzonte tipologico, i simbolismi biblici

dell’immolazione sacrificale dell’agnello, dei doni della manna e dell’acqua dalla roccia e il

significato dell’ingresso del popolo eletto nella terra promessa.

a) Immolazione dell’agnello

Il sangue dell’agnello aveva preservato gli ebrei dal passaggio dell’angelo sterminatore e

aveva segnato l’inizio dell’uscita dall’Egitto. Mangiandone ogni anno una porzione, gli ebrei

partecipavano ai frutti di quella prima liberazione pasquale. Il pane azzimo era il simbolo dell’im-

mediatezza della partenza e del cammino da percorrere per il pieno raggiungimento della libertà

ricevuta. Cristo è presentato, dal NT, come l’Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo (Gv 1,29

e Is 53,7). L’ultima cena suppone questo rapporto tra l’antico agnello e il nuovo. L’Apocalisse lo

evoca, come consapevolezza della Chiesa apostolica, allorché, per una trentina di volte, qualifica

Gesù risorto come l’agnello immolato; un agnello che porta i segni del supplizio, ma in piedi, in

quanto ormai vincitore della morte e per sempre risorto. Questa medesima consapevolezza è sottesa

ai gesti di Gesù che, nell’ultima cena, al momento di mangiare l’agnello pasquale, prende il pane e il

vino, li benedice e proclama: «Questo è il mio corpo dato per voi... Questo è il calice del mio sangue

versato per voi». Un atto che, per la cultura giudaica, implicava un chiaro significato: la morte cui il

Signore e Maestro stava andando incontro, simbolicamente espressa nel pane spezzato e nel vino

versato e distribuito, come gesto profetico dell’immolazione di un nuovo agnello, quello vero, che

salva l’umanità dalla condizione di peccato e l’introduce nella condizione della libertà dei figli di

Dio. L’eucaristia è memoria di tutto questo: è la presenzializzazione simbolica dell’evento pasquale

di Cristo, nuovo agnello immolato, in ogni tempo e luogo, in virtù di un ricordo che consente al nuovo

popolo di Dio di rivivere in atto la pasqua di morte e risurrezione del Kyrios in attesa della sua venuta

(ICor 11,26).

b) La manna e Vacqua dalla roccia

Il soggiorno nel deserto è per Israele il tempo dell’esperienza degli interventi salvifici di

YHWH. Nonostante le ripetute mancanze di fede e l’idolatria, il Signore ha condotto Israele

attraverso il deserto come «su ali di aquila» alla terra di Canaan (Es 19,4). Alcuni di questi interventi

antichi sono riferiti dallo stesso NT all’eucaristia. Fra questi, in particolare, l’episodio del dono della

manna e l’immagine della roccia dell’Horeb. La manna è presentata da Gesù come segno del «vero

pane» e della «vera bevanda» che il Padre ha offerto in dono all’umanità (Gv 6,48-55). «La

corrispondenza profonda tra la manna e l’eucaristia risiede nelle condizioni in cui il nutrimento è

offerto nell’uno e nell’altro caso, e negli effetti che essa produce: tanto la manna che l’eucaristia sono

un dono dato da Dio solo, che l’uomo non può procurarsi da sé; esso è dell’ordine dell’iniziativa di

Dio e della grazia».385 La corrispondenza si risolve in un’opposizione a motivo della trascendenza

della realtà rispetto alla figura («I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti...

La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda»). I padri della Chiesa hanno ampiamente

commentato la tipologia eucaristica della manna, sottolineandone sia l’analogia che la superiorità.386

385 J. DANIELOU - R. Du CHARLAT, La catechesi nei primi secoli, Leumann (TO) 1969,198. 386 J. DANIELOU, La catéchèse eucharistique chez les Pères de l’Eglise, in La Messe et sa catéchè- se, Ceri, Paris 1947,33-72. Cf.

inoltre L’eucharistie des premiers chrétiens, Beauchesne, Paris 1976.

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La roccia dell’Horeb è interpretata dallo stesso Paolo, insieme alla manna, in riferimento a Cristo e

all’eucaristia: «Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale:

bevevano infatti dalla roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo» (ICor

10,3-4). Nella patristica la tipologia dell’acqua dell’Horeb è collegata sia al battesimo, in relazione ai

versetti di ICor 10,1-2 e al significato che l’acqua viva assume in Giovanni, sia all’eucaristia. Per

Ambrogio, l’acqua scaturita dalla roccia è figura dell’acqua e del sangue scaturiti dal costato di Cristo

in croce, e quindi dei due sacramenti dell’iniziazione cristiana strettamente legati fra loro (De Myst.

48; De Sacr.V, 4). Giovanni Crisostomo mostra lo stretto legame che si pone, nell’iniziazione

cristiana, tra il battesimo e l’eucaristia:

Riguardo al battesimo hai veduto qual era la figura e quale la realtà: ti mostrerò la mensa e anche la

comunione dei misteri qui tracciati. Infatti dopo il passaggio sul mare e la nube, Paolo (ICor 10,3-4)

riprende: «E tu hai mangiato lo stesso cibo spirituale e hai bevuto la stessa bevanda spirituale». Come

tu, uscendo dalla piscina dell’acqua, ti affretti verso la mensa, così essi, essendo usciti dal mare,

vennero a una mensa nuova e meravigliosa, cioè la manna. E come tu hai una bevanda misteriosa, il

sangue della salvezza, così essi ebbero un genere meraviglioso di bevanda, acque abbondanti, che

zampillarono dalla roccia arida.387

c) «Un paese dove scorre latte e miele»

Fin dagli inizi l’ingresso nella terra promessa è stato compreso come un dono esclusivo di

YHWH al suo popolo in stretto collegamento alla sua ricchezza di latte e miele. È quanto appare nella

promessa del Signore a Mosè: «Sono sceso per liberare Israele dalla mano dell’Egitto e farlo uscire

da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,8;

Is 7,22). Una tipologia particolarmente valorizzata dal catecumenato antico, dove i riti del battesimo

e della confermazione erano seguiti da una manducazione di latte e miele, simbolo della terra

promessa e prefigurazione della partecipazione al banchetto eucaristico. La catechesi che

accompagnava il rito spiegava come l’eucaristia realizzasse in se stessa questo ingresso nella terra

promessa, facendo rivivere l’esodo, azione a un tempo di YHWH che interviene in favore del suo

popolo e conquista faticosa del popolo. Il tutto riletto in relazione alla potenza manifestata da Dio nel

trionfo del suo Unigenito risorto da morte (Lc2,52; 11,21-22) e al pellegrinaggio esodale richiesto ai

credenti, impegnati come nuovo Israele a trionfare sul male e far vincere la grazia. L’eucaristia,

anamnesi della nuova pasqua, rende partecipe l’intero popolo cristiano della vittoria del suo capo, il

Cristo, nuovo Mosè, e lo pone in cammino verso la patria attesa per i tempi ultimi della storia.

L’eucaristia è il «segno» della vittoria del Risorto e del combattimento del cristiano, finché ogni

battezzato possa entrare in possesso della Gerusalemme celeste, preannunciata dall’Apocalisse (Ap

21-22).

1.2. IL SACRIFICIO DI ALLEANZA

Il secondo orizzonte tipologico da segnalare è il sacrificio dell’alleanza. L’alleanza è una delle

grandi opere di Dio nell’economia biblica e contrassegna tutte le tappe della storia della salvezza. Il

suo carattere fondamentale è l’irrevocabilità: Dio stringe un patto col suo popolo e vi resta

irrevocabilmente fedele. Il rito con cui si attua è un rito di sangue. Lo si vede con Abramo, il quale,

utilizzando un gesto ancestrale, immola animali e li divide in due parti che YHWH stesso «consuma»

passandovi in mezzo con il simbolo del fuoco (Gen 15,9-18). Lo si vede, in particolare, nell’alleanza

del Sinai dove Mosè, dopo aver offerto olocausti, asperge con il sangue l’altare (simbolo di YHWH)

e il popolo, proclamando: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con noi sulla base

di tutte queste parole» (Es 24,8). Il gesto assume un particolare rilievo se si ricorda che il sangue -

nella cultura biblica - rappresenta la vita: quando viene asperso fra due parti, crea una comunione che

le impegna a essere fedeli al patto stabilito. Nell’ultima cena, Gesù si riferisce chiaramente al rito del

Sinai per proclamare che la nuova alleanza, promessa dai profeti, si realizza ormai nel sangue della

387 In apostolicum dictum «Nolo vos ignorare», 4 (PG 51,247).

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sua morte: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti» (Mc4,24; cf. Mt

26,27). «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi» (Lc2,20; ICor

11,25). Il sangue della croce è il sangue dell’alleanza nuova e definitiva attuata in Cristo (lPt 1,18-

19; Eb 8,6-13). «Per questo sottolinea la Lettera agli Ebrei - Cristo è mediatore di una nuova allean-

za, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la

prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata loro promessa»

(Eb 9,15-28; 10,11-18; 24). Gesù pre-anticipa nell’ultima cena la sua morte, e mostra come il suo

«corpo dato» e il suo «sangue versato» costituiscano ormai i «segni» dell’alleanza escatologica offerta

in lui a tutta l’umanità. Il suo sangue è il sangue che dà la vita al mondo (Gv 6,51-56); in esso si

manifesta «lo sposalizio» di Dio con l’umanità. Celebrare l’eucaristia vuol dire «far memoria» del

mistero dell’alleanza definitiva realizzata dal Padre nel dono del Figlio e dello Spirito alla Chiesa.

Partecipare all’eucaristia è di conseguenza - dimorare in Cristo e nella sua alleanza: «Chi mangia la

mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui; come il Padre, che ha la vita, ha mandato

me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,56-57); e poiché

comunichiamo tutti a un unico «calice» e a un unico «pane», tutti formiamo un unico corpo, il corpo

di Cristo. «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di

Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un

solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane»

(ICor 10,16-17). La Chiesa è una «comunione» fondata nella «comunione» al corpo e al sangue di

Cristo (ICor 11,23-26).

Inseparabilmente collegato con l’evento dell’alleanza è il tema del sacrificio. L’ultima cena

di Gesù si presenta come un’anticipazione misteriosa, ma reale, del dramma dell’oblazione sacrificale

della croce. Non a caso, la fede della Chiesa primitiva commenterà - per bocca di Paolo - le parole

dell’istituzione con il proclama: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice,

voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (ICor 11,26). L’eucaristia è compresa come

l’attualizzazione del sacrificio unico di Cristo, in ogni luogo ed epoca. E poiché il sacrificio della

croce ricapitola in sé tutta la storia dei sacrifici, dai primordi all’antica economia, l’eucaristia

rappresenta il sacrificio che manifesta e porta a compimento tutti i sacrifici dell’umanità e del popolo

d’Israele; una prospettiva sinteticamente espressa nella formula evocativo-invocativa del canone

romano: «Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni

di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di

Melchisedech, tuo sommo sacerdote». L’eucaristia recupera, nelle profondità della memoria della

fede, il «primo» gesto religioso dell’umanità (Abele), l’offerta religiosa dei popoli lungo i secoli

(Melchisedech) e il «sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede». Memoriale del sacrificio supremo

di Cristo, essa racchiude in sé tutte le dimensioni del tempo e della vita e costituisce il centro della

storia nel mondo. In essa, l’unica oblazione sacrificale preannunciata da Malachia (1,1-11) per i tempi

escatologici è ormai presente in ogni luogo. L’eucaristia è la celebrazione del sacrifico della nuova

alleanza; evento che plasma di continuo la Chiesa come la comunità dell’alleanza escatologica di Dio

con l’umanità, in cammino verso la parusia finale.

1.3. IL BANCHETTO DI COMUNIONE

Con la tipologia della pasqua e dell’alleanza, si situa la prospettiva tipologica del banchetto

di comunione. L’ultima cena ci mostra Gesù seduto a tavola con i suoi che offre loro il pane come

cibo e il vino come bevanda, simboli reali del suo corpo dato e del suo sangue versato. Già la pasqua

antica, celebrata in occasione dell’uscita dall’Egitto, era - oltre che un sacrificio - una mensa. Lo

stesso accade ai piedi del Sinai: Mosè, Aronne e i 70 si riuniscono per consumare un banchetto che

esprime l’unione con YHWH sanzionata dal sacrificio di alleanza. A sua volta, la liturgia del tempio

conoscerà un banchetto rituale da consumarsi sulle montagne di Gerusalemme come memoriale di

quello del Sinai. E i profeti si compiaceranno nel descrivere l’alleanza messianica come una tavola

imbandita a cui tutti saranno invitati (Is 25,6; 55,1-3). Il tema si arricchirà di nuove risonanze in

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rapporto al simbolismo nuziale sviluppato specialmente da Osea, Ezechiele e nel Cantico dei Cantici.

La sera dell’arresto, Gesù si riferisce proprio a un banchetto messianico: «Io preparo per voi un

regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa, nel

mio regno» (Lc2,29-30). La realtà di questo banchetto trova una prima realizzazione nei pasti presi

da Cristo con i suoi, tutti pervasi della gioia messianica suscitata dalla presenza dello sposo alla festa

di nozze (Mc,18-22); ma esso si manifesta pienamente nell’ultima cena, banchetto escatologico nel

quale lo sposo si dona alla sposa in «cibo di vita» e «bevanda di salvezza». «Li amò sino alla fine»,

commenta Giovanni (Gv 13,1). I sinottici sottolineano con evidenza come Cristo stia esprimendo il

dono di sé mediante i segni del pane e del vino (Lc4,22-24; Mt 26,26-29; Lc2,15-20; ICor 11,23-25).

Un banchetto orientato al banchetto definitivo che il Redentore stesso prepara per i suoi: «In verità vi

dico che non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio»

(Mc4,25; Mt 8,11).

Vi è dunque una linea continua che va dal banchetto dell’esodo a quello del Sinai fino

all’ultima cena e al banchetto escatologico, passando per i banchetti eucaristici delle comunità

cristiane, dove si rivive l’esultanza della pasqua e si prepara il banchetto della Gerusalemme celeste.

L’eucaristia si situa in questo tempo intermedio: è il convito di Cristo con i suoi, riuniti nel suo nome,

in cui egli si fa presente (Mt 18,20), fino alla fine dei tempi (Mt 28,20). La realtà di questa presenza

è creduta in forza delle parole stesse dette da Gesù: «Questo è il mio corpo». «Questo è il mio sangue».

È la consapevolezza di questa presenza che spiega la gioia della comunità primitiva (At 2,42-47) e

porta a rileggere in chiave di fede eucaristica sia i miracoli compiuti da Gesù, in particolare la mol-

tiplicazione dei pani, sia l’episodio della manifestazione ai discepoli di Emmaus (Lc4,30-31). Alla

fede si unisce la speranza: se il Signore risorto è presente, egli è anche colui che è atteso, colui che

tornerà a portare a compimento il suo Regno. Per questo il banchetto eucaristico è nello stesso tempo

il proclama della morte e risurrezione di Cristo e l’invocazione del suo ritorno escatologico (ICor

11,26).

La prima comunità cristiana viveva nell’attesa di questo ritorno (At 1,11). Gli spiriti, assorti

dalla gioia futura, erano già trasportati sull’altro versante del tempo. E l’attesa toccava il massimo

d’intensità proprio nella celebrazione eucaristica. Non si credeva forse che egli sarebbe venuto nel

corso di un banchetto nuziale? E la «vigilia» che cosa altro era se non una veglia di attesa? Durante

un pasto egli era apparso risorto ai discepoli; al momento della cena eucaristica gli si chiede di

riapparire. La commemorazione del passato e la gioia della gustata presenza attuale sono dominate

dall’anticipazione del banchetto eterno, da cui ci si crede separati solo da un breve intervallo. Sgorga

ardente dai cuori la preghiera dell’Apocalisse (22,20) e della Di- dachè: «Venga il Signore e passi

questo mondo! Maranà tha\ vieni, Signore».388

1.4. LA «DIMORA» DI DIO (SHEKINAH)

Il banchetto di comunione rimanda a un’altra tipologia biblica fondamentale: quella della

«dimora» di YHWH in mezzo al suo popolo, la shekinah. A tutti i livelli della storia della salvezza,

Dio si rende presente fra i suoi: abita nel cosmo, dimora in Israele, si incarna nel mondo per mezzo

del suo Unigenito, abita in mezzo a noi nella Chiesa e dimora nel battezzato come in un tempio, si fa

presente nei sacramenti, riempirà di sé il mondo escatologico atteso.389 L’eucaristia appartiene al

seguito di queste «dimore» di Dio nella storia, in linea con quanto avevano annunciato i profeti per i

tempi messianici: «In mezzo a loro sarà la mia dimora. Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio

popolo» (Ez 37,27). La profezia sull’E- manuele, il Dio-con-noi, realizzata nella venuta di Cristo nel

grembo di Maria (Is 7,14; Mt 1,22-23), si perpetua nell’eucaristia. Tre le diverse forme di presenza

del Kyrios nella Chiesa, la dimora eucaristica viene qualificata come una presenza «per antonomasia»,

non perché le altre non siano reali, ma perché è quella eminente, la presenza per eccellenza di Cristo

388 Cf. M. MAGRASSI, «Mananath. Il clima escatologico della celebrazione primitiva», in Rivista Liturgica 53(1966), 374-393. 389 Per uno sviluppo più ampio del tema, rimando a ROCCHETTA, / sacramen ti della fede, 1,152-162.

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con noi.390 La presenza eucaristica nel tempo tra le due venute si inquadra così nel seguito delle opere

mirabili di Dio nella storia e rappresenta essa stessa una di queste grandi opere. Prima che in categorie

di ordine metafisico, il mistero della dimora eucaristica va compreso in questo specifico contesto, alla

luce della fedeltà di Dio alle sue promesse e nel quadro di una pedagogia che caratterizza tutta la

storia della salvezza. Lungo questa storia, Dio si manifesta sempre come colui che cammina con il

suo popolo e dimora in mezzo a esso. L’incarnazione appartiene a questo ordine: è ancora Dio che

pone la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14). Lo stesso vale per l’eucaristia: essa è la grande shekinah

del tempo della Chiesa, annuncio e anticipazione della shekinah escatologica (Ap 21,3).

Risulta sufficientemente chiaro come la lettura tipologica degli accadimenti biblici della

pasqua, dell’alleanza, del banchetto e della «dimora» costituisca il contesto proprio di intelligenza

biblica del mistero dell’eucaristia. Sussiste infatti una radicale continuità tra l’economia biblica della

salvezza, l’evento messianico rivelato in Cristo e la memoria sacramentale della sua pasqua. E tale

continuità che consente di comprendere il passaggio spontaneo che la comunità delle origini ha potuto

scorgere tra la berakah, la benedizione giudaica, e Veucaristia.391

2. Dalla berakah all’eucaristìa

La berakah non è un semplice gesto rituale sulle «cose», ma un atto di rendimento di grazie

in risposta ai benefici operati da YHWH in favore del suo popolo. In quanto tale, essa implica un

ampio ventaglio di sentimenti che vanno dall’ammirazione alla fede e al riconoscimento delle colpe.

La berakah è in primo luogo un grido di ammirazione davanti al carattere straordinario delle opere

divine; un grido che si traduce spontaneamente in proclamazione allelujatica, canto di lode, invito a

contemplare lo splendore di Dio e la sua infinita tenerezza (Sai 107,1-2.31; 111; 113; 116-118; 135-

138; 146-150). Di conseguenza, essa rappresenta una confessione di fede, una proclamazione del Dio

unico che ha eletto Israele, liberandolo dalla condizione di schiavitù e che è sempre operante in mezzo

al suo popolo (Sai 30; 46-47; 66; 68). «Dite a Dio: Stupende sono le tue opere! Venite e vedete le

opere di Dio, mirabile nel suo agire sugli uomini» (Sai 66,3-5). «Dispiega Dio, la tua potenza;

conferma, Dio, quanto hai fatto per noi» (Sai 78,29; 30; 89; 105). In dipendenza dai due atteggiamenti

suddetti, la berakah suppone un riconoscimento delle infedeltà all’alleanza divina e si presenta quindi

come una domanda di perdono e un abbandono fiducioso all’immensa tenerezza di YHWH:

«Rialzaci, o Signore, Dio degli eserciti, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi» (Sai 80,20;

103,8-13; 106; 107).

La forma letteraria della berakah è generalmente innico-esclamati- va, personale e/o

comunitaria, in relazione alle «meraviglie» della creazione (per esempio Sai 104) e a quelle della

storia (Sai 103; 144). Prima che come movimento ascendente (dall’uomo a Dio), esprime un movi-

mento discendente (da Dio all’uomo). Infatti, solo perché Dio per primo si è fatto incontro a Israele

benedicendolo, il popolo può celebrare gli eventi della salvezza, benedicendo il nome di YHWH (Sai

75,2; 115,12- 15): reactio aìYactio Dei. Nata fuori dal culto (si pensi alla benedizione del servitore

di Abramo, Gen 24,27; a quella di Jetro, Es 18,10 e di Chiram, IRe 5,21), la berakah entra nella

liturgia del tempio con diverse linee di sviluppo (ad esempio Sai 106; Gdt 8,25-27; 2Mac 1,11). Al

termine della sua evoluzione, essa suppone almeno tre componenti fondamentali: 1) la benedizione

propriamente detta, piuttosto breve («Benedetto YHWH» o «Benedetto sii tu, o Signore»); 2) il

memoriale o «anamnesi» dei mirabilia Dei conservati nelle tradizioni di Israele; 3) il ritorno alla

benedizione iniziale, a modo di inclusione o come dossologia finale. Il rendimento di grazie si svolge

390 Vedremo meglio, nella parte storica e in quella dogmatica, come vada intesa la specificità della presenza di Cristo

nell’eucaristia. 391 Cf. J. AUDET, Equisse du geme littéraire de la «bénédection» juive et de V«eucharistie» chré- tienne, in Revue

Biblique 65(1958), 371-399; L. LIGIER, «La “benedizione” o il culto nell’AT», in II Canone, Padova 1968,9-21; TJ.TALLEY, «De la

“berakah” à P“eucharistie”», in MD 125(1976), 11-39; D. ALMAGIE, Berakòth. Introduzione alle benedizioni, Roma 1980; C.

GIRAUDO, La struttura letteraria della preghiera eucaristica, Roma 1981.

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così tra la benedizione iniziale e quella conclusiva e si fonda sulla narrazione delle opere divine. La

parte più sviluppata è quella centrale: il ricordo che attualizza e fa partecipare nel presente alle

«meraviglie della salvezza» del passato e prepara quelle del futuro. E poiché le opere divine vanno

dalla creazione alla nascita d’Israele fino ai tempi messianici, il rendimento di grazie abbraccia in un

solo sguardo tutta la storia, diventando memoria collettiva di ciò che YHWH ha compiuto di grande

e profezia di ciò che egli compirà per la realizzazione del suo disegno di salvezza. Proprio per questa

sua ampiezza, la berakah non si forma come produzione estemporanea di individui isolati, ma come

espressione della fede del popolo, proclamata nell’assemblea celebrante. Esempio significativo di

tutto ciò è quello fornito dalla preghiera di benedizione del libro di Neemia, al capitolo 9. Al termine

della lettura della Torah, i leviti esortano il popolo all’azione di grazie: «Alzatevi! Benedite il Signore

vostro Dio per tutta l’eternità! Benedetto sia il suo nome glorioso che sorpassa ogni benedizione e

ogni lode». Segue allora una grande preghiera che compendia tutta la storia della creazione e degli

atti salvifici di Dio, da Abramo all’ora presente, e si conclude con una consacrazione formale ai

disegni di YHWH, insieme a una supplica insistente affinché egli porti a compimento l’opera iniziata

in favore dei suoi. Siamo ormai alle soglie del NT; non rimane che un passo per giungere alla pre-

ghiera eucaristica cristiana passando per Yéschaton di Cristo.

2.1. CENA PASQUALE E haggadah

I mirabilia Dei della prima economia si riassumono in un avvenimento fondamentale nel quale

si è manifestata, in tutta la sua grandezza, la potenza di YHWH in favore del suo popolo; avvenimento

che sintetizza in sé tutti i suoi interventi, fino a costituirne il centro: la liberazione dall’Egitto e il

passaggio del Mar Rosso (Dt 6,2-22; 26,5-8; Gs 24,3-7). Il «cuore» della berakah veterotestamentaria

è fornito da questo avvenimento. Il libro del Deuteronomio lo rileva ripetutamente, ribadendone il

carattere sempre attuale (Dt 8,2.11.18; 9,7). È in relazione a questo avvenimento che si

istituzionalizza la festa della pasqua (Es 12,14.25-27; Dt 16,1-3); una prescrizione biblica che prende

la forma della «narrazione» rituale nel seder dell’haggadah di pesach, nel rito della pasqua ebraica.

Un rituale - la cui redazione definitiva risale al periodo dei Tannaim tra il I e il II secolo, come

conferma anche la Mishnà - che contiene le norme essenziali della liturgia pasquale. La parte centrale

consiste nel Maggid che contiene Vhaggadah, la narrazione degli avvenimenti salvifici di YHWH

culminanti nell’avvenimento della pasqua e celebrati nello stile caratteristico della «memoria».

Il rito è ricco di simboli che spiegano l’avvenimento pasquale e si concentrano principalmente

intorno al pane e al vino: il pane azzimo come segno della liberazione, al tempo dell’uscita dall’Egitto

(Es 12,39); il vino come segno dell’agiatezza e della terra conquistata; i quattro calici come simboli,

secondo il Talmud, delle quattro espressioni, quasi sino- nime, adoperate dall’Esodo per indicare la

liberazione (6,6-7): «Vi sottrarrò dalla tribolazione dell’Egitto, vi salverò dalla loro schiavitù, vi

libererò con braccio disteso, vi prenderò quale mio popolo».392 Oltre al memoriale della liberazione,

il rito contiene diverse espressioni di attualizza- zione dell’intervento che si ricorda; attualizzazione

operata mediante una serie di domande dalle quali è possibile cogliere la fede dell’interrogan- te: ci

si può collocare dentro la storia della salvezza oppure al di fuori. «Il malvagio domanda: Che cosa è

per voi questo atto di culto?» (Es 12,26): «per voi», dice, non «per lui». E avendo egli escluso se

stesso dalla collettività gli si risponde «È a motivo di quanto ha fatto il Signore per me, quando sono

uscito dall’Egitto» (Es 13,8). In ogni generazione, ognuno è consapevole di essere egli stesso liberato

dalla schiavitù (Dt 6,23). Il rito contiene inoltre una serie di espressioni che rivelano la sua tensione

escatologica verso una liberazione nuova e definitiva: «Quest’anno siamo ancora qui, l’anno venturo

saremo in terra d’Israele: quest’anno ancora qui schiavi, ma l’anno venturo liberi in terra d’Israele».

E questo l’augurio con cui il rito si conclude: «L’anno prossimo in una Gerusalemme ricostruita».

Gesù ha trovato nel rito haggadico l’ambiente cultuale, il clima e il genere letterario proprio

per manifestare e istituire il mistero della nuova pasqua nel suo sangue. Stando ai sinottici si deve 392 Cf.Jer.Pes. X,l,37 bc.

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concludere che è stato questo il quadro in cui Cristo ha voluto inserire il suo memoriale: «Ho

desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché, vi

dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (Lc2,15-16). Ognuna delle

azioni di Cristo menzionate dagli evangelisti trova riscontro in altrettante azioni rituali del banchetto

ebraico, alle quali viene conferito un significato nuovo. Non è necessario supporre che Gesù abbia

modificato quello che costituiva il rito della cena pasquale ebraica. I sinottici concordano nel dire

che, «mentre cenavano», Gesù prese il pane e «rese grazie» (eucharistesas), in corrispondenza alla

benedizione sul pane che si svolgeva all’inizio della cena ebraica; e «dopo la cena», prese il calice e

«disse la benedizione» (ICor 10,16), in corrispondenza dell’ultimo calice. I due riti sono stati

chiaramente riletti nella prospettiva della sua pasqua: alla benedizione sul pane, Gesù ha aggiunto

l’affermazione fondamentale: «Prendete, questo è il mio corpo»; e alla benedizione sul vino: «Questo

è il sangue della nuova alleanza sparso per voi». Il pane e il vino si presentano come il «segno»

anticipatore del suo sacrificio e quindi di un’alleanza nuova che si sta realizzando nella sua morte.

Comunicare con quel «pane» non sarà più celebrare il ricordo dell’uscita dall’Egitto, ma entrare in

comunione con il suo corpo dato per tutti. Lo stesso per il «vino».

Inserita in questo contesto, l’eucaristia appare in tutta la sua continuità con la storia della

salvezza, quasi compendio e coronamento di tutti gli interventi compiuti da Dio in favore del suo

popolo. Eucharistesas: ha reso grazie, perché la pasqua ha cessato in quel momento di essere una

figura ed è diventata una realtà. Con la cena e con la croce, inseparabili, il popolo di Dio è entrato nel

possesso delle antiche promesse. Hanno avuto compimento tutte le grandi realtà dell’economia antica:

dalla promessa ad Abramo alla pasqua dell’esodo. Tutti i desideri e le invocazioni del popolo di Dio,

tutta l’insoddisfazione che la sua storia, fatta di infedeltà, di pentimenti e di riprese, aveva scavato in

lui; tutto quel messianismo che in modo sempre più chiaro aveva orientato all’avvenire i migliori dei

suoi giusti, tutto trova compimento. Nell’anima di Cristo si raccoglie in quel momento tutto il passato

religioso del suo popolo, e al Padre si innalza la prima e più nobile eucaristia della nuova alleanza:

per la realizzazione di tutto ciò che era atteso, per la consumazione di tutto ciò che era stato fino ad

allora solo abbozzato e prefigurato.393

2.2. L’EUCARISTIA COME «MEMORIALE»

Proclamare le grandi azioni di Dio significa «ricordare» a Dio la sua promessa e l’alleanza

stabilita «una volta per sempre» col suo popolo (Es 32,13; Dt 9,27; Sai 74,2; 105,8; Ger 14,21). Un

atto che è al tempo stesso un ricordare a Israele gli interventi divini di cui è stato beneficiario e

suscitare in esso il rendimento di grazie e la fede nella continuità di questi interventi. Il sabato, la

pasqua e le altre istituzioni cultuali sono oggettivazioni del memoriale, ricordi permanenti degli

interventi salvifici di Dio: «Così per tutto il tempo della tua vita tu ti ricorderai il giorno in cui sei

uscito dal paese d’Egitto» (Dt 16,3). «Sarà per te segno sulla tua mano e ricordo fra i tuoi occhi»

(Es 13,8-10; 12,14; Dt 5,16; 24,21-22). La celebrazione della pasqua rappresenta il «memoriale» per

eccellenza (Dt 16,3). Un’attualizzazione salvifica che non è automatica, né tanto meno un rito magico.

Il memoriale fa presente a Dio la sua promessa, i suoi interventi e la sua fedeltà nello stesso tempo in

cui ricorda al popolo le esigenze che comporta per la sua origine e la sua identità di popolo del-

l’alleanza; un contenuto, questo, particolarmente vivo nel memoriale di Neemia dove la risposta del

popolo risulta altrettanto essenziale quanto l’invito rivolto a YHWH perché attualizzi la potenza degli

antichi interventi nell’oggi della storia d’Israele (Ne 9). Questa capacità di attualizza- zione del

memoriale si collega al modo particolare con cui la concezione biblica concepisce il tempo. Israele

non partecipa della concezione del tempo propria delle altre culture, dove esso si ripete secondo un

ciclo di eterno ritorno. Israele si è liberato da simili concezioni perché ha incontrato il Signore nel bel

mezzo della storia; un incontro che gli ha permesso di scoprire il senso peculiare della propria

vicenda. La fede gli ha rivelato un disegno di salvezza che va dal passato, al presente e al futuro. In

questa concezione, non è soltanto il presente che ha consistenza reale, ma anche il passato e il futuro 393 M. MAGRASSI, «L’eucaristia nell’economia della salvezza», in Vivere la liturgia, Noci (BA) 1978,292.

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in quanto garanzia del tempo storico. La ritualità ebraica (dalla pasqua alla rinnovazione

dell’alleanza) si collega a questa percezione storico-salvifica del tempo.394 L’eucaristia, come si vedrà

più avanti, comporta una medesima visione del tempo: il fare ciò che Cristo ha fatto non rappresenta

soltanto un gesto rituale, ma un rivivere in atto quanto il Redentore ha consumato nella sua persona

«una volta per sempre», attualizzandolo nell’oggi della Chiesa. Il passato diventa un presente e apre

al futuro.

3. Istituzione dell’eucaristia

Il rito eucaristico istituito da Gesù si inserisce nel contesto profetico segnalato, anche se

esorbita in ragione del suo contenuto: Cristo stesso, nostra pasqua, come proclamerà Paolo (ICor

5,7). Se per gli ebrei tutta la storia della salvezza era sintetizzata nell’esodo di cui la celebrazione

della pasqua annuale era il memoriale in atto, per i cristiani Yhistoria salutis è interamente

compendiata nella nuova pasqua, di cui l’eucaristia è la presenzializzazione che dice in atto il senso

totale della storia della salvezza e riempie di sé il tempo della Chiesa. Questo memoriale si definisce

anzitutto in rapporto alla croce a cui le parole dell’ultima cena si riferiscono, ma rimanda in pari

tempo a tutto ciò che è derivato da essa: il trionfo della risurrezione e la glorificazione, la nascita della

Chiesa per opera dello Spirito. E tale è la valenza plenaria dell’anamnesi eucaristica.

I testi dell’istituzione eucaristica del NT contengono una triplice sedimentazione della fede

pre- e post-pasquale: il tempo di Gesù (l’ultima cena vissuta dalla comunità apostolica prima della

morte); il tempo della Chiesa (ossia la cristallizzazione liturgica realizzatasi in ambiente palestinese

e antiocheno e, molto presto, in tutta l’area del bacino medi- terraneo); il tempo degli scritti, in

riferimento a una tradizione comune sostanzialmente concorde, ma con accentuazioni proprie in

relazione agli autori e alle loro singole prospettive. All’origine c’è un dato storico indiscutibile: la

cena di Gesù come «memoria anticipata» e «profezia in atto» dell’evento pasquale; un dato che noi

possediamo mediante i racconti che prima la comunità delle origini e poi gli autori neotestamentari

ci hanno trasmesso. Le recensioni neotestamentarie che ci riportano l’ultima cena sono quattro: Mt

26,20-21.26-29; Mc4,17-18.22-25; Lc2,14-20; ICor 23-26. Come appare da un’attenta comparazione

sinottica, le recensioni concordano nei punti essenziali: 1) tutte si riferiscono a una cena di Gesù con

i suoi in un contesto pasquale; 2) tutte sottolineano i due riti tipici del pasto giudaico sul pane e sul

vino: la benedizione e distribuzione del pane, l’offerta del calice ai commensali; 3) tutte rilevano

come il Signore abbia posto in relazione il pane al suo corpo «dato per» e il vino al suo sangue

«versato per»; 4) tutte lasciano intravedere un profondo legame tra l’ultima cena e il mistero della

pasqua di Cristo: egli è il Servo di YHWH che dona la sua vita in riscatto dei «molti» (Is 53,12); 5)

tutte, sia pure con accentuazioni diverse tra Paolo/Luca e Marco/Matteo, suppongono una relazione

essenziale tra la cena di addio e il banchetto escatologico: la comunità riunita attorno a Gesù rimanda

alla comunità messianica dei tempi ultimi; 6) tutte le recensioni, infine, per il loro carattere liturgico

suppongono che la celebrazione della «cena del Signore» sia una realtà già in atto nella comunità,

ancor prima della testimonianza datane dagli autori neotestamentari.

L’insieme di queste concordanze conferisce ai racconti un notevole valore testimoniale e una

grande unità complessiva. Questo non vuol dire che nei testi non siano riscontrabili delle differenze.

Le recensioni di Paolo e Luca, ad esempio, sembrano rispettare maggiormente l’ordine della cena

pasquale giudaica, con i gesti compiuti sul pane prima della cena e quelli sul vino dopo; le recensioni

di Marco e Matteo uniscono, invece, a tal punto i due atti da farli sembrare come compiuti nello stesso

momento, durante o a conclusione della cena. Ciò deriva con molta probabilità dal fatto che Marco e

Matteo riflettono più degli altri la formalizzazione linguistica verificatasi nella prassi liturgica.

Un’altra differenza riguarda l’ordine di ripetere ciò che Gesù ha fatto: appare due volte in Paolo, sia

in riferimento al pane che al vino; una volta in Luca in riferimento al pane; manca in Marco e Matteo.

Quest’ultimo elemento tuttavia non può essere interpretato nel senso che Cristo non avrebbe dato 394 A riguardo, cf. ROCCHETTA, I sacramenti della fede, I, specie 55-80 e 225-250.

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l’ordine di ripetere la memoria eucaristica; a ciò si oppone il carattere stesso dei testi - e in particolare

proprio quelli di Marco/Matteo - che riflettono con evidenza, come si è detto, la forma della

celebrazione eucaristica in atto da anni nella comunità. Del resto, la natura propria della cena-come-

nuova-pasqua implicava la convinzione di una sua ripetizione, come era stato per l’antico Israele e

come risulta in modo diretto dalle testimonianze di Paolo e Luca. Analoghe considerazioni si possono

fare per le differenze stilistiche («il mio sangue dell’alleanza» in Marco/Matteo, «la nuova alleanza

nel mio sangue» in Paolo/Luca) che derivano dal diverso ambiente liturgico in cui i testi hanno vissuto

o da accentuazioni dei rispettivi autori.

In base a queste differenze, i testi vengono comunemente distinti in due tradizioni:

Marco/Matteo, che sembrano collegarsi alla tradizione palestinese primitiva, e Paolo/Luca, che

ricuperano la stessa tradizione, ma passando per la comunità antiochena; entrambe le recensioni

risultano notevolmente arcaiche, risalendo rispettivamente agli anni 40 e 45 e forse prima; una tale

arcaicità può essere comprovata dal fondo semitico comune alle parole e ai gesti che rimandano alla

tradizione liturgica propria di Gerusalemme e di Antiochia. Ci si può rappresentare la relazione tra le

quattro forme di racconto nel modo seguente:

CENA DI GESÙ

Tradizione palestinese (prima del 40)

Marco

Matteo

Tradizione antiochena (prima del 45)

Paolo

Luca

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La comparazione è confermata da altri dati. L’anahsi letteraria mostra ad esempio che, se dal

punto di vista della redazione scritta il testo di Paolo è da considerare il più antico, dal momento che

l’apostolo scrive la Prima lettera ai Corinzi verso gli anni 54/55, riferendosi a una tradizione che egli

stesso ha ricevuto verso il 40 e che aveva trasmesso nel 51, dal punto di vista filologico il racconto di

Marco, pur redatto più tardi, contiene una forma più antica, comprovata dall’abbondante numero di

semiti smi. I quattro testi ci riportano, in ogni caso, con sufficiente attendibilità storica, all’evento

stesso dell’ultima cena e offrono notevoli garanzie per enucleare sulla loro base il contenuto

fondamentale della cena di addio di Gesù con i suoi. A proposito della benedizione-eucaristia,

pronunziata da Cristo, né il testo dei sinottici, né 1Cor 11 ci riferiscono le sue parole, ma ci avvertono:

1) Che nella benedizione sul pane egli menzionò come motivo di ringraziamento non solo

il ricordo della pasqua di liberazione dall’Egitto, ma il riferimento alla pasqua di liberazione che si

sta realizzando con la sua morte; riferimento espresso nella corrispondenza tra il «pane spezzato» e

il «corpo sacrificato»;

2) Che nel ringraziamento sul calice egli passò dal «sangue dell’alleanza» antica alla

«nuova alleanza» sancita nel suo sangue. Dal contesto della cena, descritto da Giovanni, si può inoltre

facilmente supporre che Gesù abbia introdotto, nella benedizione-anamnesi, l’elemento nuovo del

ringraziamento al Padre per la nuova «meraviglia» che si sta per operare in forza della sua pasqua,

inaugurazione della Chiesa e compimento della fase ultima della storia.

3.2. L’ULTIMA CENA NEL RACCONTO DEL NT

I Quattro testi dell’istituzione dunque, pur distinguendosi nei particolari rilevati,

presentano l’ultima cena con modalità sostanzialmente analoghe e complementari. Ciò consente di

evidenziare in essi il significato fondamentale dell’ultima cena, specie alla luce del contesto della

vicenda totale di Gesù, del suo passato e del suo futuro. Non si può e non si deve infatti isolare il suo

racconto da quanto lo precede e da quanto lo segue. La comunità post-pasquale ha certamente

compreso questo legame e vi si è riferita nel raccontare la celebrazione della pasqua che ha preceduto

la morte del Signore.

a) Tra passato e futuro

L’episodio dell’ultima cena si colloca anzitutto nel quadro dei pasti presi da Gesù: quelli con

i peccatori durante la sua esistenza e quelli con gli Undici dopo la risurrezione. E, dal momento che

Cristo è fedele erede del mondo ebraico, è importante tener presente la figura del pasto giudaico. Ogni

pasto giudaico festivo o di una certa importanza aveva, in quel mondo, il carattere di un’azione quasi

liturgica. Il capo-famiglia, stando seduto, prendeva la focaccia di pane, l’alzava in alto e a nome di

tutti pronunciava la benedizione, ricordando i benefici del Signore e rendendo grazie al suo nome;

spezzava poi il pane con le sue mani e ne distribuiva i pezzi ai commensali; per ultimo ne assumeva

una parte per sé e la consumava, dando ai commensali il segnale di fare altrettanto. Seguiva il pasto

vero e proprio. Alla fine, il capo-famiglia prendeva con la mano destra il calice del vino e, tenendolo

in alto, pronunciava la preghiera di benedizione su di esso; ne beveva un sorso e lo faceva circolare

fra i commensali. Sia alla benedizione del pane che a quella del calice tutti i convitati rispondevano

con un amen collettivo. Una condivisione che era molto più di un semplice mangiare e bere insieme

e assumeva un carattere sacro in quanto rappresentava un entrare nella corrente della benedizione

di Dio e in un’effettiva comunione di vita con lui e fra i commensali. Prendere un pasto insieme, in

questo contesto, significava esprimere una comunione di mensa, sia in senso orizzontale che verticale:

i commensali costituivano un’unità fra loro e con Dio, datore di ogni dono, presente nella fraternità

della mensa.395

395 È tale consapevolezza che portava i giudei a non poter condividere la loro mensa con i peccatori; confortati in ciò da una lettura

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Alla luce del significato del pasto giudaico si comprende la rilevanza che i banchetti di Gesù

con i peccatori e i pubblicani assumono nel vangelo. Sedendosi pubblicamente a tavola con coloro

che la convinzione comune del popolo escludeva, il Maestro compie un gesto «rivoluzionario» nei

confronti delle prescrizioni legali del tempo. Egli non lo fa per il gusto di stupire o fare qualcosa di

nuovo, ma per proclamare che con lui è ormai in atto il perdono universale annunciato dai profeti

per i tempi messianici e per manifestare come tutti siano chiamati alla partecipazione del banchetto

escatologico della salvezza (Is 25,6; Am 9,13). Mostrando Gesù a mensa con i peccatori e i

pubblicani, i vangeli offrono dunque molto più di una semplice annotazione di cronaca; intendono

testimoniare come i tempi della salvezza attesa siano presenti nell’Unigenito incarnato e come in lui

Dio-Padre inviti tutti, nessuno escluso, a «mangiare» e a «bere» alla mensa del suo Regno (Lc2,30;

Is 55,1-3). L’ultima cena si colloca in una stretta relazione con questi pasti; essa ne è come l’inter-

pretazione e il compimento, attestandone il significato escatologico e realizzandone il contenuto come

novità decisiva della storia. È grazie a questa stretta relazione che la comunità neotestamentaria ha

potuto rileggere i racconti della moltiplicazione dei pani nel quadro dell’ultima cena dove il

riferimento all’eucaristia appare nella stessa forma letteraria, e viceversa.396

Non meno importanti, in questo senso, sono i pasti del Signore risorto con gli Undici. I vangeli

ne riportano tre o quattro (Lc4,13-35; Mc[cf. Lc4,36-43]; Gv 21,9-14). La finalità di questi pasti non

è indirizzata solo a convincere i discepoli della realtà della risurrezione (in Lc4,36-43: Cristo mostra

le piaghe e chiede da mangiare) e a rafforzare quindi la loro fede esitante; essi mirano anche a

mostrare come il Kyrios si sia reso presente fra i suoi e continui a esserlo mediante il segno pasquale

del pasto. Questo è particolarmente visibile nella forma letteraria conferita all’episodio dei discepoli

di Emmaus; una forma che risente in notevole misura della fede eucaristica della comunità apostolica.

Il pane spezzato diviene l’espressione simbolica di una presenza/assenza: il Signore si manifesta ed

è riconosciuto, e tuttavia non può essere posseduto se non nel riconoscimento accogliente della sua

Parola e dello «spezzare il pane» con lui (Lc4,13-35). E del resto, per la comunità degli apostoli, il

fatto di aver «mangiato» e «bevuto» col Risorto non rappresenta solo l’affermazione della verità della

risurrezione, ma la consapevolezza di essere il nuovo popolo di Dio nella storia riunito attorno a lui

(At 10,40-43) e di cui l’assemblea eucaristica è espressione in virtù dell’atto dello «spezzare il pane»

(ICor 10,16.17; 11,17-34; At 2,42.46; 20,7-12).

b) Annuncio di morte e di vita

L’ultima cena giunge al termine di un passato che l’ha preparata e apre a un futuro che essa

già anticipa. Sotto questo aspetto, il racconto testimonia al tempo stesso un mistero di morte e di vita.

Già Yesordio e la conclusione lo lasciano intravedere. L’esordio. Quanto i sinottici mostrano col

narrare il contesto storico della passione, Paolo lo dice con la formula: «Nella notte in cui fu tradito»

(ICor 11,23). In entrambi i casi, si ha ben presente come il racconto dell’istituzione non possa essere

separato dall’evento della morte cui Gesù sta andando incontro. La conclusione. Il versetto

escatologico dei sinottici (Mt 26,29; Mc4,25; Lc2,18) e la proclamazione paolina: «...finché egli

venga» (ICor 11,26), mentre annunciano il banchetto ultimo a cui rimandano, suppongono in pari

tempo l’affermazione della glorificazione di Cristo e della sua signoria, dal momento che la croce

non sarà l’ultima parola, ma semmai la penultima. Esordio e conclusione evidenziano così i due poli

entro cui si inserisce il corpus del racconto: la morte come separazione e assenza del Maestro, la vita

oltre la morte come comunione e presenza nuova del Risorto fra i suoi; una bipolarità evocata tra

l’altro dal contrasto «notte-giorno» che connota tutto il racconto, rafforzando l’opposizione tra il

presente doloroso, segnato dalla profezia del tradimento e della morte, e il futuro del Cristo con i suoi

in forza della sua glorificazione. Sullo sfondo del racconto si staglia anzitutto il passato di Gesù: radicale del Salmo 1,1: «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia sulla via dei peccatori e non siede in

compagnia degli stolti». 396 Si veda, ad esempio, come Gesù in questi racconti venga presentato nell’atto della benedizione del pane (eucharistéo in luogo di

euloghéo)', spezza il pane (verbo klaio) e lo distribuisce; formulazioni che, mentre recuperano le dizioni del pasto giudaico,

testimoniano il linguaggio eucaristico ormai in uso al tempo della redazione scritta dei vangeli.

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giunto al compimento della sua ora, egli raccoglie intorno a sé coloro che, ad eccezione di uno,

l’hanno seguito fino a quel momento (Lc2,28); è con loro che egli ha desiderato di celebrare la sua

pasqua prima di soffrire (Lc2,15). Un’«ora» che assume il suo pieno significato in quanto

espressione-compimento della sua opzione fondamentale: quella d’essere venuto per fare la volontà

del Padre quando l’essere «venuto per» si manifesta come un «morire per». Non meno rilevante è

l’apertura verso il futuro sottesa al racconto, e ciò non solo in relazione agli eventi della passione, ma

nella prospettiva della sua glorificazione che trasformerà il mistero della sua morte in un éscha- ton

di salvezza per tutti. È grazie ad esso che i discepoli, «facendo memoria» - in obbedienza al suo

comando - di quanto Gesù ha vissuto in sé, parteciperanno alla sua vittoria: una «memoria» nella

quale il Risorto, assente visibilmente, continuerà a essere presente per dare la vita ai suoi, fino al

compimento ultimo della storia.

L’atto con cui Gesù, nell’ultima cena, si offre nei gesti del pane e del vino costituisce dunque

un’azione profetica che anticipa il mistero di morte/vita della sua pasqua: egli si consegna

volontariamente alla croce, facendo della sua esistenza un dono salvifico per tutti coloro che crede-

ranno in lui: il pane spezzato equivale al suo corpo dato, il vino rosso distribuito al suo sangue

versato. Un dono che si compie nella forma di un pasto: «Prendete, mangiate», «prendete, bevetene

tutti»', e si offre come evento di comunione e perdono, specie se si tiene presente il significato del

pasto giudaico e il contesto dei pasti di Gesù con i pubblicani e i peccatori cui si è fatto riferimento.

Si deve d’altronde aggiungere che il banchetto del Giovedì santo si presenta con i caratteri di un

banchetto di addio, analogo al banchetto-tipo di Isacco (Gen 27); un banchetto che, nella cultura

biblica, costituisce un vero atto testamentario nel quale l’uomo di Dio, di fronte alla morte, attinge

nel pasto la forza vitale per le ultime consegne e distribuisce la sua benedizione agli eredi; benedi-

zione in cui raccoglie e sintetizza la sua esistenza e si apre al futuro. L’ultima cena di Gesù è da

considerare come un banchetto di addio, anche se l’orientamento di fondo non è a una fine

irrimediabilmente conclusa, ma verso un orizzonte di risurrezione; e ciò sia in rapporto al Maestro

che si dona nei segni del pane e del vino sia in rapporto alla comunità dei discepoli che nasce da quel

dono e che sarà depositaria della «memoria» eucaristica. L’ultima cena appare, in ogni caso, come

l’esegesi di tutta l’esistenza di Gesù, prima e dopo gli eventi pasquali: un’esistenza che si dispiega

come un mistero di morte e di vita o, meglio, di morte che dà la vita, di morte per noi, perché possiamo

avere la vita in lui come risorti.

c) Banchetto pasquale ed eucaristia

I sinottici insistono nel descrivere i preparativi della cena in relazione alla celebrazione della

pasqua ebraica. A sua volta, Paolo - come si è notato - richiama la «notte in cui Gesù fu tradito»; ora

si sapeva che questo tradimento era avvenuto nei giorni della pasqua ebraica. Tutto il clima che

avvolge l’ultima cena, d’altronde, è ridondante di risonanze pasquali (Gv 13,1). È noto come la

celebrazione della pasqua ebraica orientasse il pensiero degli ebrei verso una doppia liberazione:

• la liberazione vissuta nel passato quando Dio aveva tratto Israele dalla schiavitù d’Egitto

«con mano potente e braccio disteso», facendolo diventare il popolo dell’elezione e dell’alleanza;

• la liberazione che Israele avrebbe conosciuto nel futuro con l’irruzione messianica e là

manifestazione della nuova e definitiva elezione/alleanza (Is 42; Ger 31; Ez 36).

Secondo la tradizione giudaica tutto questo avrebbe dovuto compiersi durante una pasqua. E

tale era il clima e l’attesa di ogni celebrazione annuale. Non è certamente privo di significato che

Gesù abbia voluto far coincidere la cena di addio con i suoi con la pasqua ebraica; è anzi un dato

essenziale (Lc2,15; Gv 13,1).

La cena pasquale si svolgeva nelle case nella forma di un pasto familiare e aveva il suo

culmine nella consumazione dell’agnello immolato poche ore prima; essa era preceduta da alcuni riti

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preparatori e seguita da altri conclusivi. Dopo il tramonto del sole, quando i commensali - almeno in

numero di dieci - avevano preso posto a tavola, il capofamiglia dava inizio alla celebrazione,

benedicendo Dio («Benedetto sei tu, YHWH, nostro Dio, che hai creato il frutto della vite!») e

mescendo la prima coppa di vino, temperata con acqua. Dopo che tutti ne avevano bevuto, si svolgeva

il rito dell’abluzione della mano destra, mentre venivano portate sulla mensa le erbe amare - destinate

a ricordare il cibo d’Egitto - condite con harroseth (salsa a base di datteri, fichi, mandorle, vino; di

colore biondo-rossastro, che richiamava ai commensali quel fango con cui in Egitto gli israeliti

avevano preparato i mattoni; cf. Gv 13,26); due pani azzimi e l’agnello pasquale, tutto intero,

arrostito. A questo punto il padre di famiglia, prendendo in mano i pani, li alzava in alto, dicendo:

«Questo è il pane della miseria, che i nostri padri hanno mangiato in Egitto. Chi ha fame si accosti!

Chi ha bisogno, venga e celebri la pasqua!». Nel frattempo era scesa la notte e occorreva far luce; si

accendevano perciò le lampade, previa una benedizione: «Sii benedetto, Signore e Dio nostro, che

hai creato le lampade di fuoco». Riempita una seconda coppa, il più giovane dei presenti doveva

chiedere: «Perché questa notte è tanto diversa dalle altre?». Gli rispondeva il padre di famiglia,

facendo la storia (haggadah) dei grandi interventi di Dio in favore del suo popolo: da Thare, padre di

Abramo, alla liberazione dall’Egitto, alla promulgazione della Legge; spiegava poi il significato

dell’agnello, delle erbe amare e del pane azzimo, e concludeva esortando a lodare di tutto cuore il

Signore: «Cantiamo dunque dinanzi a lui, Alleluia!».

Dopo questo primo atto si recitava la prima parte dell’Hallel minore comprendente i Salmi

113-114, mentre si faceva girare la seconda coppa di vino. Seguiva, a questo punto, un’altra lavanda

delle mani, la più importante, servita di solito dal più giovane dei commensali.397 Finita la lavanda il

capofamiglia prendeva uno dei pani azzimi, lo spezzava e lo benediceva dicendo: «Benedetto sei tu,

o Signore Dio nostro, Re del mondo, che fai produrre il pane dalla terra»; quindi ne gustava egli per

primo e lo distribuiva ai presenti. A questo punto, cominciata la cena propriamente detta, si

consumava l’agnello arrostito con le erbe amare e gli altri cibi preparati, avvertendo tuttavia che

l’ultimo boccone doveva essere delle carni dell’agnello. Conclusa la cena, ci si lavava le mani e si

mesceva la terza coppa di vino, dopo che il capo di tavola l’aveva benedetta con una formula

particolarmente solenne e a cui i commensali rispondevano: «Benedetto colui che ci ha dato di

partecipare ai suoi beni». Negli scritti rabbinici questa terza coppa era chiamata «calice di benedi-

zione». Seguiva il canto della seconda parte dell’Hallel minore (Sai 115- 118) e dopo due brevi

preghiere di lode si intonava VHallel maggiore (Sai 136); intanto girava una quarta coppa di vino, la

più memorabile, detta il calice della pasqua o calice dell’Hallel. La celebrazione terminava con

un’eulogia di ringraziamento.

Gesù ha inserito la novità della sua pasqua nel quadro di questa cena pasquale. Come si è

accennato, Marco/Matteo - riflettendo uno stadio di avvenuta cristallizzazione liturgica dei racconti -

si limitano a dire: «mentre cenavano», supponendo una certa simultaneità fra i gesti-parole sul pane

e i gesti-parole sul calice. Paolo/Luca invece, più attenti alla struttura della cena pasquale, situano

l’atto sul pane all’inizio della cena e l’atto del calice alla fine, vale a dire prima del canto della seconda

parte dell’Hallel minore e dell’Hallel maggiore. Anche i primi due evangelisti, tuttavia, si collegano

alla cena pasquale quando riferiscono che Gesù, dopo la cena, proclama insieme ai suoi l’inno di

ringraziamento finale, anteriormente all’uscita dalla sala e al cammino verso l’orto degli ulivi

(Mc4,26; Mt 26,30). I racconti evangelici non descrivono lo svolgimento dell’ultima cena. Sembra

probabile tuttavia che la coppa di vino a cui solo Luca fa riferimento prima delle parole

dell’istituzione (Lc2,17) si riferisca a una delle due coppe appartenenti ai riti preparatori della cena,

mentre l’istituzione eucaristica dovrebbe essere collocata in parallelo ai riti della benedizione del pane

e della terza coppa di vino. È evidente che l’interpretazione giudaica del pasto pasquale e degli

elementi che lo caratterizzavano (azzimi, erbe amare, agnello) offriva a Gesù un contesto

particolarmente significativo e ricco di simboli per inserirvi l’annuncio della sua pasqua. L’uso di

397 Nell’ultima cena sarebbe dovuta toccare a Giovanni, ma inaspettatamente volle compierla Gesù stesso, come ricorda lo stesso

Giovanni, lavando non solo le mani, ma i piedi (Gv 13,1-15).

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espressioni cultuali-sacrificali come la coppia di vocaboli «corpo-sangue» e la dizione «alleanza-

sangue dell’alleanza» o «calice dell’alleanza» rendono assai probabile l’ipotesi che Gesù abbia

spiegato l’agnello pasquale in relazione a se stesso e alla sua pasqua di morte e di risurrezione. Del

resto, si sa come le prime comunità amassero qualificare Gesù quale nuovo agnello immolato, che fa

passare i battezzati dal vecchio al nuovo lievito (ICor 5,7-8) o «l’agnello di Dio che toglie il peccato

del mondo» (Gv 1,29). È in relazione a Cristo e alla sua pasqua che la pasqua antica acquista un

nuovo significato. Se la pasqua ebraica era il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla libertà e

proclamava l’attesa del definitivo passaggio dei tempi messianici, la nuova pasqua indica il passaggio

di Gesù al Padre (Gv 13,1) e, in lui, la novità salvifica introdotta una volta per sempre nella storia. I

tempi escatologici sono ormai in atto. Immolando la sua vita sulla croce e risorgendo da morte, Gesù

introduce la storia nell’escatologìa e l’escatologia nella storia e offre a tutti la possibilità di rivivere

il medesimo passaggio. Le parole che accompagnano i doni eucaristici lasciano intravedere questa

novità. Il pane e il vino costituiscono i segni vivi, espressivi, del suo «corpo dato» e del suo «sangue

versato» e Gesù stesso presenta la sua morte come un’immolazione vicaria: egli si offre per i suoi

(«per voi», Mc/Mt) e «per molti», richiamandosi chiaramente alla figura del Servo di YHWH, dalla

cui morte espiatrice sgorga la nuova alleanza (Is 53).398 Il banchetto pasquale che egli celebra

rappresenta l’anticipazione «sacramentale» dell’oblazione della croce e il segno reale dell’alleanza

dei tempi messianici inaugurata dalla sua risurrezione e dall’effusione dello Spirito sulla comunità

degli apostoli. Così, se l’ultima cena è inserita nella cornice della pasqua antica, essa esorbita da

questa cornice dal momento che il suo contenuto è Cristo stesso, nostra pasqua (ICor 5,7), inizio dei

tempi dello Spirito preannunciati dai profeti, come spiegherà con forza e chiarezza Pietro fin dal

mattino di Pentecoste (At 2,14-36).

3.3. GESÙ, LA CREAZIONE, LA STORIA, IL PADRE

Il primo gesto che Gesù compie riguarda il pane: «Prese il pane e pronunciata la benedizione

(o: «dopo aver reso grazie», secondo la redazione di Marco/Matteo), lo diede ai suoi discepoli».

Un’azione analoga la compie sulla coppa del vino. Il pane e il vino - nell’orizzonte biblico -

rappresentano la terra che, al termine del viaggio nel deserto, doveva offrire agli ebrei grano e uva.

Nello stesso tempo, pane e vino suppongono il lavoro che ha trasformato i prodotti della terra.

Alzando in alto questi doni, Gesù si collega alla creazione, dono di Dio, e alla storia umana,

espressione dello sviluppo e dell’attività dell’uomo. Prendere il pane e il vino e pronunciare su di essi

la benedizione è, per ogni pio israelita, riconoscere che tutto è dono di Dio e ricevere perciò questi

elementi dalle sue mani. La benedizione infatti non si esaurisce, nella cultura biblica, in una formula

verbale; essa è un atto attraverso cui passa la vita divina e, nella distribuzione del pane e del vino, si

diffonde e si comunica a tutti i commensali. Benedicendo il pane e il vino, Gesù collega dunque questi

doni al Padre, fonte della creazione e della vita divina diffusa nel banchetto in comune; nello stesso

tempo, ponendo in relazione questi doni con la sua persona, egli indica come attraverso il pane e il

vino venga annunciato e comunicato un altro dono, immensamente più grande, che il Padre attua per

l’umanità intera: il dono della sua persona per il perdono dei peccati. Così, durante l’ultima cena, il

Signore e Maestro è insieme donatore e dono.

L’evento pasquale, espressione della benevolenza del Padre verso l’umanità, è preannunciato

nei gesti dello spezzare il pane e distribuire il vino, con le parole che li accompagnano. Il pane e il

vino riferiti al suo corpo-dato e al suo sangue-versato si presentano come anticipazione sacramentale

della morte a cui Gesù sta andando volontariamente incontro. Ciò è particolarmente vero se si tiene

presente il contesto della pasqua ebraica cui si è fatto allusione ed entro il quale l’ultima cena si

svolge. In questo contesto, il pane ricorda la bontà di YHWH verso il suo popolo e quindi la sua

continua presenza: il dono della manna. Gesù, durante la sua vita, si richiama a questo cibo dato da

Dio al popolo per affermare come egli stesso sia il nuovo cibo, quello vero, che il Padre dona agli

uomini per la vita del mondo (Gv 6,48-58). Il vino a sua volta esprime, nel linguaggio biblico, la gioia 398 Sul tema del Servo di YHWH in relazione all’eucaristia ritorneremo più diffusamente nella sezione sistematica.

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della vita, l’amore, l’amicizia e la felicità; il fatto che nell’ultima cena esso sia collegato alla coppa

alzata verso il Padre e benedetta sembra far riferimento al sacrificio di ringraziamento di cui più volte

i Salmi parlano: il calice della todah alzato nella lode, quale espressione dell’alleanza di YHWH col

suo popolo. Un tale riferimento è confermato dal linguaggio utilizzato dai testi: si parla di «sangue

dell’alleanza» (Mc/Mt) o di «nuova alleanza nel sangue» di Cristo (Paolo/Le), collegandosi al

sacrificio del Sinai mediante il quale Mosè aveva espresso la prima alleanza (Es 24,5-8). Il fatto poi

che questo sangue sia versato evoca l’aspetto sacrificale del patto nuovo, richiamando nello stesso

tempo la sorte dei giusti (da Abele in poi) e dei profeti, il cui sangue era stato ingiustamente versato.

Prendendo in mano il pane e il vino e benedicendoli, Gesù inscrive così la creazione e la storia -

simboleggiate nei segni del pane e del vino - nel dinamismo stesso dell’alleanza di Dio con gli uomini,

alleanza prima vissuta da Israele e adesso manifestata e realizzata in pienezza nella sua persona e

quindi nell’atto unico della sua morte e risurrezione. Se il Padre non è nominato direttamente, egli è

tuttavia presente sullo sfondo di tutto il racconto: Gesù qualifica se stesso come colui che è venuto a

compiere l’opera del Padre; al Padre è rivolto tutto il suo pensiero e a lui si offre in riscatto per tutti,

come risulta con forza dall’insieme del racconto giovanneo e specialmente dalla preghiera sacerdotale

(Gv 17).

3.4. GESÙ, I DISCEPOLI, LA CHIESA

I testi dell’istituzione, se esprimono il volgersi del Figlio al Padre, manifestano nello stesso

tempo il suo riferimento premuroso e attento ai discepoli e alla comunità che nascerà dalla

celebrazione della nuova pasqua che sarà loro affidata. Possiamo verificare questo dato da un duplice

punto di vista: a partire dalla consapevolezza di Gesù e in relazione ai destinatari dei suoi gesti e

parole e del suo comando.

a) La consapevolezza di Gesù

L’ultima cena appare inserita, in tutto il suo svolgimento, in un vivo contesto relazionale: è

riservata all’intimità del gruppo dei discepoli e presenta una struttura fortemente dialogica,

interpersonale. Gli stessi gesti del «dare» e i pronomi personali usati («mio corpo», «mio sangue...»,

«per voi...», «per molti...») rivelano la volontà del Signore di fare di questo gruppo la sua comunità,

la comunità escatologica del suo Regno. Se Gesù sta per lasciare i discepoli, egli sa che attraverso la

sua morte si realizzerà la nuova alleanza da cui scaturirà la Chiesa, nuovo Israele di Dio nella storia.

In questa nuova comunità, Gesù in persona sarà presente quale «cibo di vita» e «bevanda di salvezza».

Tale presenza sarà legata alla «memoria» che i discepoli faranno della sua pasqua. In tal senso, lo

spezzare il pane da parte di Cristo e il far comunicare al calice della sua alleanza rappresenta un atto

di natura sacramentale col quale egli inaugura la nuova comunità messianica e istituisce il mistero

eucaristico. Di tutto questo Gesù è perfettamente consapevole, anche se i discepoli al momento non

sono in grado di comprenderlo e soltanto dopo gli eventi pasquali ne percepiranno il pieno significato.

«Fate questo in memoria di me» (ICor 11,24-25; Lc2,19): nel momento in cui Gesù si incammina

verso la croce, egli - come Signore del futuro - lascia in anticipo la sua presenza che si attuerà ogni

volta che i discepoli faranno «memoria» della sua pasqua. Sarà da questa «memoria» che la Chiesa

nascerà e rinascerà di continuo come comunità pasquale-eucaristica.

Il rito del pasto, d’altronde, esprimeva in pieno un simile contenuto. Il simbolismo dello

spezzare il pane, come si è notato, si riferisce all’unità di tavola che si realizza nell’atto di condividere

il medesimo cibo e di partecipare alla medesima corrente di benedizione divina. La stessa cosa vale

per il calice. Questo simbolismo assume tutto il suo significato in relazione alle parole di Gesù che

accompagnano i gesti del «benedire» e del «dare»: quel «pane» dev’essere «preso» e «mangiato»;

quel «vino» dev’essere «bevuto» e fatto passare tra i commensali; essi sono il suo corpo e il suo

sangue, essendo stati collegati alla sua persona. Il corpo dato e il sangue versato rappresentano, in

quanto tali, il fondamento dell’essere della Chiesa sgorgata dall’evento della morte e risurrezione di

Cristo. «Corpo» - nel linguaggio biblico - indica la totalità della persona, interamente donata; «sangue

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dell’alleanza» richiama sia il sacrificio di morte cui Gesù va incontro sia il frutto universale (nuovo

popolo) che da esso scaturisce. Se poi si tiene conto della convinzione diffusa che il corpo è ciò che

conduce ad unità le singole membra (ICor 12), si può intuire quale ricchezza ecclesiologica sia

nascosta nelle parole dell’istituzione: i discepoli di Gesù, facendo proprio quel corpo donato sotto

forma di pane, divengono un’unità fra loro, al punto da formare una koinónia, un unico corpo (ICor

10,16-17). Il fondamento di tutto è il sangue della nuova alleanza versato per i «molti» (Mc/Mt),

intendendo con questa espressione la moltitudine, la totalità degli uomini. Gesù, infatti, al di là del

gruppo dei suoi discepoli, guarda alla Chiesa che - quale comunità universale - si svilupperà da quel

«piccolo resto» e, offrendosi alla Chiesa, si offre in dono all’umanità intera.

b) I destinatari del comando

Se è il Signore e Maestro a dominare l’insieme della scena dell’ultima cena, i discepoli non

vi appaiono assenti o passivi. Il loro stesso silenzio è anzi più eloquente di qualsiasi discorso: indica

il loro essere raccolti attorno al loro Signore e Maestro come la sua comunità, la comunità dei tempi

messianici, e lascia intravedere che ciò che essi sono chiamati a fare è quanto Gesù per primo ha

realizzato nella sua persona con la pasqua. La cena che celebreranno, ogni volta che si riuniranno per

spezzare il pane, sarà «la cena del Signore» (ICor 11,20). Del resto, quel che interessa ai narratori del

NT non è mettere in evidenza ciò che i discepoli fanno durante l’ultima cena, ma ciò che essi dovranno

vivere in seguito, in obbedienza al comando-consegna del Signore Gesù. Nel momento in cui siedono

a tavola, i discepoli prendono il pane e ricevono il calice, mangiano e bevono, ma ciò è essenzialmente

indirizzato al futuro preannunciato dal Maestro; il che implica, da parte loro, una duplice presa di

coscienza. In primo luogo, che essi vedano Gesù come colui che è padrone del proprio destino ed è

perciò in grado di assicurare il futuro della sua comunità: quanto i discepoli devono fare lo devono

fare «in memoria di lui», come suo memoriale, non come qualcosa che appartiene loro o che sarebbe

nelle loro possibilità. Sotto tale profilo, il racconto della cena di addio è interamente incentrato sulla

persona di Cristo. Celebrando il ricordo della nuova pasqua, i discepoli incontreranno proprio lui e

rivivranno il dono della sua presenza, al punto che la sua dipartita dal mondo è solo la condizione di

una sua nuova forma di attuazione del tempo vissuto con lui. Ciò suppone, in secondo luogo, che i

discepoli comprendano sempre più chiaramente che anche dopo la sua morte Gesù continuerà a essere

colui che li riunisce come comunità messianica e li farà esistere al cospetto del Padre come nuovo

Israele che proclama il suo mistero pasquale «finché egli venga» (ICor 11,26). E come per Gesù

celebrare la sua pasqua significa passare dalla morte alla vita, così anche per i suoi discepoli la

«memoria» pasquale-eucaristica è atto che fa passare incessantemente dalla morte alla vita

proclamando la sua presenza nella Chiesa. L’eucaristia che Cristo istituisce durante l’ultima cena

appartiene a questo dinamismo: è attestazione costante della sua venuta fra i suoi, come ricorda con

forza la più antica preghiera eucaristica della comunità apostolica, il Maranà tha (ICor 16,22 e Ap

22,20), inteso sia come indicativo (il Signore viene) che come imperativo (Vieni, Signore). Il clima

dell’assemblea eucaristica della Chiesa delle origini è caratterizzato da questa memoria che si fa

presenza e profezia in atto.

c) Consegna della «memoria» eucaristica

La pasqua di Gesù recupera il significato complessivo del «memoriale» dell’antica economia

e, in particolare, della pasqua e lo conduce a pienezza. «Fate questo come mio memoriale» (Lc2,19;

ICor 11,24-25), proclama Gesù al momento di andare incontro alla morte. Un «memoriale» che, al

pari di Israele, caratterizza in profondità l’identità della nuova comunità, popolo della nuova alleanza

e nuovo Israele di Dio nella storia. Una prospettiva in qualche modo sottesa alla stessa teologia lucana

del «ricordo». Si pensi, ad esempio, alla consapevolezza espressa nel Benedictus: «Il Signore si è

ricordato della sua alleanza» (Lc,72) o al messaggio degli angeli alle donne in Lc4,6-8 all’interno di

tutto il capitolo 24: la comunità post-pasquale riconosce il Signore e «ricorda» le parole che egli aveva

detto prima della pasqua. La «memoria» scaturisce, in questo caso, dalla consapevolezza che il

Signore è il Risorto ed è letta come l’«esperienza» della sua nuova presenza nella comunità mediante

la parola, lo spezzare il pane e la comunione fraterna (Lc4,30-31.35). La stessa teologia giovannea

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non è priva di un’analoga convinzione: si pensi alla ricchezza della formula «si ricordarono»

(emnésthesan) di Gv 2,17.22; 12,16 nel contesto pasquale entro cui si situa o al concetto di memoria

come «passaggio» di Cristo dal Padre al mondo e dal mondo al Padre (Gv 1,1.14; 13,1), a cui si

collega la «memoria» della Chiesa come frutto dello Spirito promesso e donato dal Risorto (Gv 14,15-

17.26; 15,26; 16,7-15; 20,22-23).399 Ma è soprattutto al comando eucaristico di Gesù (Lc2,19; ICor

11,24) che occorre far riferimento per cogliere il senso della comunità cristiana come comunità che

vive della memoria pasquale e, in essa, si rigenera e si edifica. Il testo greco «touto poiéite eís ten

emèn anàmne- sin» dev’essere preferibilmente tradotto con «Fate questo come mio memoriale».

L’espressione «eís ten emèn anàmnesin» riecheggia, infatti, un semitismo (introdurre un predicato

verbale con una preposizione, eís), piuttosto frequente nella Bibbia ebraica (ad esempio: «lo unsero

in re» per «lo unsero come re»). L’ordine che Gesù lascia ai suoi si collega con evidenza al concetto

ebraico di «memoriale», almeno come contesto culturale e d’intelligibilità. La sua novità consiste nel

rimandare non all’antico esodo, ma al «passaggio» pasquale, di morte e di resurrezione, che Cristo

stesso vive in sé per tutti, come servo fedele del Signore. Il suo comando implica l’invito a «far

memoria» d&Wéschaton decisivo che si sta compiendo in lui; un invito affidato ai Dodici e quindi

alla comunità ecclesiale in quanto comunità dei tempi escatologici.

Il soggetto del «memoriale» rimane Dio, colui che risusciterà il Figlio da morte e lo farà sedere

alla sua destra nella potenza dello Spirito. Non senza fondamento, J. Jeremias ritiene che il comando

si colleghi alla forza salvifica di YHWH e la evochi a tal punto da poter essere parafrasato nel modo

seguente: «Fate questo come mio memoriale, perché Dio si ricordi di me». Il motivo è che la formula

eís anàmnesin, specie nel linguaggio liturgico del tardo giudaismo, aveva normalmente Dio come

soggetto e supponeva un farsi valere davanti a YHWH per provocare la sua azione.400 La spiegazione

di Jeremias dev’essere tuttavia completata dalla consapevolezza che se Dio ricorda il Figlio suo,

risuscitandolo da morte, ciò vale anche per la Chiesa resa partecipe del nuovo esodo del Risorto e

abilitata in tal modo a celebrare il mistero della nuova pasqua come comunità dei tempi ultimi della

salvezza. La potenza salvifica di Dio opererà entrambe le meraviglie: la risurrezione di Cristo e

l’attualità del suo mistero pasquale nell’oggi della comunità credente riunita per «farne memoria».

La dimensione cristologica del «memoriale» è inseparabile, in altre parole, dalla dimensione

ecclesiologica. Il comando eucaristico assume, di conseguenza, un fondamentale spessore

escatologico: celebrando il memoriale della pasqua, la comunità proclama in atto ciò che è diventata

«una volta per sempre», riconosce la presenza del Risorto nelVassemblea eucaristica riunita nel suo

nome e implora il suo avvento, in attesa della definitiva consumazione della storia.401 La «memoria»

eucaristica si colloca tra il passato della morte-risurrezione di Cristo e il futuro della sua venuta

gloriosa. Non si deve infatti dimenticare che già il rito pasquale ebraico, sia nella sua forma di

benedizione (berakah) che nella sua struttura di narrazione cultuale (haggadah), supponeva la

consapevolezza di una presenzializzazione dell’evento passato e una costante tensione messianica

verso il futuro. Situando il suo comando nel contesto della pasqua ebraica e affermando che la nuova

pasqua è quella che si realizza in lui, Gesù conferisce all’eucaristia un valore unico: essa sarà

l’attualizzazione perenne della sua presenza e della sua pasqua, finché egli torni, e la sorgente vitale

della Chiesa come comunità pasquale. La «memoria» che Gesù consegna diviene «memoria-in-atto»

in forza di cui lo stesso Risorto si incontra con noi, attualizzando la sua oblazione pasquale in ricordo

al Padre e rendendo partecipe la comunità dei discepoli dei frutti della redenzione realizzata «una

volta per sempre» in favore dell’umanità.

399 Sul tema del «venire» e del «tornare» di Gesù al Padre nel Vangelo di Giovanni, cf. V. PASQUETTO, Incarnazione e comunione

con Dio. La venuta di Gesù nel mondo e il suo ritorno al luogo di origine secondo il IV Vangelo, Roma 1982. 400 J. JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, Brescia 1973,296-318. 401 JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, 307-310. Questa valenza attuativa della celebrazione del memoriale eucaristico nella

Chiesa, anche in riferimento al testo di ICor 11,24-25 con il suo ampliamento nel v. 26, è stata ampiamente dimostrata da un numero

considerevole di autori contemporanei. Ci limitiamo a ricordare: H. SCHÜRMANN, Der Abendmahlsbericht Lucas 22, 7-38, Paderborn

1957; M. THURIAN, L’Eucaristia, memoriale del Signore, Roma 1967; H. KOSMALA, «Das tut zu meinem Gedächtnis», in Novum

Testamentum 4(1960), 81-94; H. PATSCH, «Anàmnesis», in Exegetische Wörterbuch zum NT 1(1980), 203-205; X. LÉON-DUFOUR,

«Faites ceci en mémoire de moi», in Christus 24/94(1977), 200-208; Id., Condividere il pane eucaristico, Leumann (TO) 1983,179-

282.

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4. Assemblee eucaristiche nella comunità apostolica

Non è facile avere un’idea del modo in cui, nelle comunità cristiane delle origini, era celebrata

l’eucaristia all’indomani della pasqua e della Pentecoste. I testi neotestamentari in nostro possesso

(ICor 11,17-34; 10,16-17; At 2,42.46; 20,7.11; 27,35) sono tuttavia sufficienti per delinearne alcune

prospettive di fondo.

4.1. La TESTIMONIANZA DI PAOLO

Fin dagli anni 50, Paolo aveva trasmesso alla comunità di Corinto quanto egli stesso aveva

ricevuto prima del 40, epoca della sua conversione e del suo primo contatto con la comunità di

Antiochia (At 9,1-25) e con quella di Gerusalemme (At 9,26-30; Gal 1,18-20). Nella Prima lettera ai

Corinzi, da collocare verso il 54-55, l’Apostolo dà per scontato che la comunità si ritrovi in assemblea

eucaristica per celebrare la «cena del Signore»; ciò che gli preme è di richiamare i suoi interlocutori

alla consapevolezza del contenuto dell’eucaristia e perciò del modo in cui deve essere creduta,

celebrata e vissuta.

A Corinto la celebrazione dell’eucaristia era preceduta da un pasto in comune o agape. Questo

non ha niente di sorprendente se si ricorda il significato che il pasto aveva nel giudaismo, sia in

circostanze particolari della vita familiare (circoncisione, matrimoni, funerali), sia in riferimento al

culto e alle feste religiose (solennità particolari, pasto di comunione nel cortile del tempio dopo il

sacrificio, banchetto pasquale). Vi erano anche gruppi particolari, come i farisei e gli esseni, che

organizzavano dei propri banchetti, chiamati habburòt, con i quali s’intendeva manifestare la

coscienza di aver ricevuto tutto da Dio e di formare il «resto fedele» chiamato a ricostruire l’Israele

di Dio nel compimento dei tempi messianici. Presso gli stessi pagani esistevano pasti cultuali che,

dopo i sacrifici sacri, riunivano gli offerenti per la consumazione dei resti della vittima immolata

(ICor 10,19-22). Risultava perciò del tutto normale che la comunità ecclesiale di Corinto, formata da

cristiani provenienti sia dal giudaismo che dal paganesimo, celebrasse l’eucaristia durante un pasto

finalizzato a manifestare e consolidare la comunione fraterna. Del resto, ciò corrispondeva

perfettamente alle circostanze storiche nelle quali si era svolta l’ultima cena di Gesù ed era nata

l’azione eucaristica. Non è neppure da escludere che in tal modo si volesse inserire il riunirsi

eucaristico in un contesto concretamente caritativo, con particolare riferimento ai più bisognosi della

comunità. In ambiente ebraico, specie a Gerusalemme, sembra accertata l’usanza del «piatto del

povero» distribuito alla vigilia di ogni sabato. Se si pensa al «servizio della mensa» cui fa riferimento

At 6,2 e al clima di condivisione al quale, sia pure in forma idealizzata, si richiamano i sommari

lucani (At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16), si può supporre con buon fondamento che il pasto di ICor

11,17-34 fosse indirizzato alla distribuzione dei doni ai più indigenti della comunità, in modo tale che

la celebrazione eucaristica apparisse legata alla fraternità e al servizio ecclesiale. È d’altronde su tali

preoccupazioni che si poggia gran parte dell’argomentazione critica paolina: una riunione indirizzata

per sé a esprimere comunione e aiuto ai più poveri è diventata invece occasione per dividere gli animi

e mettere in evidenza le disuguaglianze. Questo, dice Paolo, «non è più mangiare la cena del Signore»

(11,20), perché non manifesta più il vero senso del pasto fraterno collegato alla memoria della cena

di Gesù con i suoi. Se la fraternità non è rispettata, non si riconosce in quel che si celebra ciò che il

Signore ha detto di fare come suo memoriale e si finisce per disprezzare il significato profondo

dell’eucaristia. Proprio per questo l’Apostolo riporta il racconto dell’ultima cena con il comando del

Signore trasmesso dalla Chiesa (11,23-25) e spiega ciò che suppone il celebrarla nella comunità

(11,26). Se l’eucaristia, dice in sostanza Paolo, è la memoria vivente della morte del Signore,

comunicarsi con il pane e con il calice benedetti è entrare in una comunione di vita col suo corpo e

col suo sangue e diventare quindi un solo corpo in lui (10,16-17). Ciò significa che chi, riunendosi in

assemblea eucaristica, non vive la fraternità, non ha neppure compreso il senso reale dell’eucaristia,

dal momento che non riconoscere nel pane e nel vino il corpo e il sangue di Cristo, e partecipa quindi

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in modo indegno all’«annunzio della sua morte», «mangiando» e «bevendo» la propria condanna

(11,27-29). Non si può infatti dire di aver accolto la realtà del corpo di Cristo «dato» e del sangue di

Cristo «versato», se non si risponde alle esigenze di comunione che una tale accoglienza implica.

Nella prospettiva paolina, i due eventi (quello eucaristico e quello ecclesiale) costituiscono un solo e

medesimo atto di discernimento o di condanna: non si può accettare l’uno senza accettare l’altro, e

viceversa.

Il nucleo centrale di questo gesto celebrativo è l’incontro vivo con colui che, risorto da morte,

è la ragion d’essere stessa della comunità e del suo riunirsi in assemblea: il Signore Gesù che è venuto,

viene in mezzo ai suoi, e verrà a portare a compimento la storia. È lui l’Ospite di ogni celebrazione

eucaristica. Il pane spezzato e il calice benedetto sono «comunione col suo corpo» e «col suo sangue»

e proclamazione in atto del ritorno glorioso del Signore. A questo tema Paolo aveva fatto cenno già

nel capitolo precedente della Prima lettera ai Corinzi, supponendo che una tale prassi fosse ben

conosciuta dai suoi interlocutori (ICor 10,16-17). Il contesto di questo cenno è tuttavia diverso

rispetto al capitolo undici: riguarda l’opposizione tra la mensa del Signore e la mensa del demonio,

la celebrazione eucaristica e i pasti idolatrici (10,14.19-21). Ciò che caratterizza la mensa del Signore

è di essere comunione col corpo e col sangue di Cristo: «Il calice della benedizione che noi

benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è

forse comunione con il corpo di Cristo?» (10,16). Con il plurale «noi benediciamo», «noi

spezziamo», Paolo sembra richiamarsi all’azione rituale compiuta dal presidente dell’assemblea a

nome di tutti. L’inversione degli elementi del pane e del vino non indica una sequenza celebrativa,

ma riveste piuttosto un carattere funzionale, in quanto serve all’apostolo per continuare il suo

discorso sulla realtà di un unico-pane-spezzato che fonda l’identità di un unico- corpo-ecclesiale:

«Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo

dell’unico pane» (10,17). L’eucaristia, come presenza sacrificale-conviviale di Cristo, si pone in

netta contrapposizione ai pasti dei pagani e si offre come evento di grazia che manifesta e realizza

la Chiesa, plasmandola come corpo di Cristo nell’unità di un unico Spirito, di un unico Signore, di

un unico Dio e Padre di tutti (ICor 12,1-27).

4.2. LA TESTIMONIANZA DEGLI ATTI

Gli Atti ricordano più volte un gesto che la comunità compie fin dai suoi inizi. L’autore ne

parla come di un gesto in corso da tempo, limitandosi a indicarlo con la dizione tipicamente giudaica

di «frazione del pane». L’unica precisazione che offre è che esso avviene «nelle case» (At 2,46), in

un quadro comunitario a forte impronta liturgica, come è per la riunione di Gerusalemme (At 2,42.46)

o per quella di Troade (At 20,7.11). Il gesto dello «spezzare il pane», come si è notato, era il gesto

che dava inizio al pasto giudaico; esso era preceduto dalla preghiera di benedizione e seguito dalla

distribuzione dei pezzi ai singoli commensali, l’atto significava «comunione di tavola» e

partecipazione alla benedizione di Dio, il Donatore, creduto presente nell’atto della condivisione. I

primi cristiani si sono indubbiamente collegati a questo uso, al quale Gesù stesso si era attenuto, ma

rileggendolo nel contesto della «cena del Signore», come appare dai testi paolini e in particolare in

ICor 10,16-17, dove viene fatto un espresso riferimento all’azione dello «spezzare il pane» in senso

eucaristico. Lo scopo di questo pasto non è semplicemente di saziare i convitati, ma di far rivivere ai

credenti l’evento nuovo della pasqua del Kyrios.

«Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nella frazione

del pane e nelle preghiere» (At 2,42). La «frazione del pane» è inserita in un ambito ecclesiale-orante

di notevole significato: essa si colloca infatti tra l’insegnamento degli apostoli, e la comunione

ecclesiale che ne consegue, e le «preghiere» nel nome di Gesù tipiche delle assemblee primitive (ICor

10,31; Ef 5,18-20; Col 3,16- 17). Tutta la celebrazione è profondamente pervasa dalla gioia messiani-

ca (agalliasis, At 2,46) come segno e manifestazione della consapevolezza dell’adempimento dei

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tempi annunciato dai profeti (Ap 19; lPt 4,13).402 In Gesù, Dio ha realizzato le promesse fatte a Israele

e inviato lo Spirito Santo atteso, facendo sorgere da quell’alleanza di morte e risurrezione il nuovo

popolo di Dio. Il riunirsi eucaristico proclama questo evento e lo rinnova instancabilmente. Una

convinzione analoga soggiace al racconto della «frazione del pane» celebrata a Troade, della quale

Luca si dice testimone, accompagnando Paolo nell’ultimo grande viaggio missionario (At 20,7-8.11).

I cristiani si riuniscono di sabato sera, nel momento in cui inizia il giorno solenne, «il giorno del

Signore». La sala è illuminata da molte lampade, trattandosi di un’assemblea liturgica come appare

dal verbo synàgo. La finalità del riunirsi è di celebrare la «frazione del pane», in un contesto di liturgia

della Parola e di insegnamento che si prolunga fino all’alba. Dato che questa riunione si svolge la

domenica è difficile negare che si tratti di una riunione eucaristica. Del resto, la fractio panis di At

20,7-8.11 deve essere vista alla luce di quanto lo stesso Paolo aveva detto nella Prima lettera ai

Corinzi, poco tempo prima di passare per Troade (ICor 10,16-17; 11,17-34). La stessa vicenda del

ragazzo che muore e torna in vita (At 20,9-10) sembra assumere un contenuto di tipo simbolico-

eucaristico: l’apostolo, durante la «frazione del pane», avrebbe parlato della potenza di risurrezione

dell’eucaristia, il miracolo del ritorno alla vita del fanciullo caduto rappresenta l’attestazione della

veridicità dell’omelia. Un ultimo riferimento alla «frazione del pane» nella Chiesa primitiva si trova

in At 27,33-38: l’apostolo è in viaggio verso Roma; durante una tempesta che mette in serio pericolo

l’incolumità di tutti, prende l’iniziativa di un pasto che Luca ha cura di presentare in termini

eucaristici, mettendo in relazione la «frazione del pane» con la salvezza della nave e lasciando

intravedere - sia pure velatamente - come l’eucaristia possegga una forza di salvezza per tutti.

5. Dottrina eucaristica di Giovanni

Giovanni conosceva la prassi eucaristica della Chiesa apostolica. Se non riporta il racconto

dell’istituzione, ciò è dovuto al fatto che questo racconto era già conosciuto dalle sue comunità e

utilizzato nella liturgia, essendo già stato riportato dagli altri scrittori del NT. Ma forse vi è anche un

motivo più profondo: è probabile che l’evangelista volesse far comprendere come l’eucaristia,

celebrata nella Chiesa, fosse da comprendere nel contesto più ampio di tutta l’esistenza di Gesù, vista

come una glorificazione del Padre nel venire in mezzo a noi per darci la sua vita e nel tornare al Padre

per attirarci a sé. È in tale contesto che vanno compresi la ricchezza del discorso sul pane di vita e lo

stesso testamento di addio del Signore e Maestro prima di incamminarsi verso la croce.403

5.1. IL DISCORSO SUL PANE DELLA VITA

Tutta l’esistenza di Gesù è come un grande passaggio pasquale: dal Padre al mondo

(l’incarnazione), dal mondo al Padre (morte e risurrezione) 404 È in virtù di questo passaggio che si

manifesta e si attua la salvezza dell’umanità (Gv 3,13-15). I sacramenti, secondo Giovanni, mani-

festano lo stesso dinamismo. Il battesimo è un rinascere dall’alto, e quindi un itinerario di discesa e

di risalita a immagine dell’itinerario vissuto dall’Unigenito (3,1-15). Il discorso sul pane di vita (6,26-

66) si inscrive in un medesimo movimento di discesa e di risalita: il dono dell’eucaristia è il pane

vivo disceso dal cielo che fa risalire verso il Padre. Un pane che Dio dona a tutti come un pane

imperituro, in grado di dare la vita al mondo, non come quello che mangiarono gli ebrei nel deserto

e morirono (6,31-33). Di fronte alle obiezioni dei giudei, il discorso di Gesù si snoda come un

progresso continuo, fino all’attestazione esplicita di un cibo e di una bevanda qualificati come la sua

carne e il suo sangue per la vita del mondo. Letterariamente il discorso si suddivide in cinque sezioni:

- il vero pane di Dio (vv. 26-34);

- Gesù è il pane di Dio (vv. 35-47);

- il pane vivo che dà la vita (vv. 48-51);

- la vita nel mangiare la sua carne e bere il suo sangue (vv. 52-58); 402 Cf. R. BULTMANN, «Agalliàomai», in GLNT, 1,51-58. 403 Cf. R. SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni, Brescia 1977, II, specie 115-159; H. SCHLIER, «Il capitolo 6 del Vangelo di

Giovanni e la concezione giovannea dell’eucaristia», in La fine del tempo, Brescia 1974,115-139. 404 Si pensi alla struttura del prologo di Giovanni (1,1-18), aU’inciso di 13,1 e ai verbi ricorrenti di «discendere» e «risalire»,

«venire» e «tornare».

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- l’esigenza della fede (vv. 59-66).

Il punto di arrivo è la proclamazione di Gesù come vittima offerta in sacrificio («carne» e

«sangue») e come dono quindi di redenzione universale. Questa vittima è identicamente colui che si

fa «cibo» e «bevanda» eucaristici: «Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita,

ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vive per me» (6,55-57). La

parola «carne» evoca la stretta relazione esistente tra rincarnazione (Gv 1,14), la croce e l’eucaristia,

dal momento che il credente si nutre in essa dell’Unigenito di Dio fatto Uomo, morto per noi, e vive

di lui e in lui, il Risorto in eterno. Questa relazione può essere accolta solo nella fede. La ragione

umana, da sola, ne è incapace (6,59-66). L’eucaristia risulta così inseparabilmente collegata con la

disponibilità di chi crede e rimanda a una rilettura altrettanto credente della persona di Gesù e del suo

evento pasquale. «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto e

conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68-69).

5.2. IL TESTAMENTO DI ADDIO

capitoli 13-16 del quarto Vangelo sono una «celebrazione di addio» che sintetizza

perfettamente la prospettiva teologica della testimonianza giovannea. Gesù sta vivendo «l’ora» di

passare da questo mondo al Padre (13,1); tutta la sua vicenda è un itinerario pasquale: venuto dal

Padre, adesso, giunta la sua ora, torna al Padre. L’evento pasquale realizza questo ritorno. Già la croce

costituisce l’inizio della sua risalita al luogo di origine. I discepoli devono ripercorrere questo

medesimo itinerario; non possono sottrarvisi, come pensa di fare Pietro quando si rifiuta di lasciarsi

lavare i piedi dal Maestro e Signore. «Se non ti laverò (i piedi), non avrai parte con me» (Gv 13,8).

Al pari dell’ultima cena, l’episodio della lavanda (Gv 13,2-20) rimanda al passaggio pasquale

dell’Unigenito di Dio che sulla croce si fa servo obbediente del Padre e morendo attira tutti a sé (Gv

12,32-33). La scena manifesta il senso totale della sua esistenza: il dono del consegnarsi alla morte

in risposta alla volontà del Padre (Gv 10,1-18). È grazie a questo passaggio/dono che noi possiamo

essere «lavati» dalle colpe e aver parte al suo Regno (13,7-9); un dono che, come si vedrà, diventa

paradigma di riferimento per la comunità dei discepoli (13,15: «Vi ho dato l’esempio perché, come

ho fatto io, facciate anche voi»).

L’episodio della lavanda dei piedi porta con sé un riferimento indiretto all’eucaristia, in quanto

lascia intravedere come la memoria della pasqua - secondo Giovanni - dovrà essere compresa nel

contesto del servizio che Gesù ha vissuto in prima persona e quindi del servizio fraterno reciproco

che i discepoli sono chiamati a incarnare in tutta la loro vita, alla luce del comandamento nuovo

lasciato dal Signore come suo testamento spirituale. E tale è il tema dominante di tutto il discorso di

addio (13,34-35; 15,12-13) e della «preghiera sacerdotale» (17,1-26). L’eucaristia è dono di amore

che richiede un contesto di amore, sul modello di quello realizzato da Cristo con la sua vita e la sua

morte. È questo l’aspetto di cui maggiormente si preoccupa l’apostolo Giovanni, forse anche in

riferimento a forme di ritualismo esteriore che già al suo tempo si stavano infiltrando nell’atto della

celebrazione eucaristica.22 22 Per un approfondimento di questa prospettiva, cf. gli studi riportati in C. ROCCHETTA

(ed.), «Universa nostra caritas est eucharistia». Per una teologia dell’eucaristia come teologia della

comunione e del servizio, Bologna 1994.

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CAPITOLO SECONDO STORIA DEL DOGMA

La «cena del Signore» è stata al centro della comunità cristiana fin dai primi inizi non tanto

come tema di studio o oggetto di speculazione quanto come prassi celebrativa, vissuta in un clima di

fede, di incontro con il Risorto e di attesa del suo ritorno glorioso. Una «frazione del pane» in ricordo

della nuova pasqua a cui si sono collegati, sin dal tempo apostolico, l’ascolto della parola di Dio

illustrato dai responsabili della comunità, un pasto fraterno (agape) con la condivisione di beni e le

preghiere in comune (At 2,42; ICor 11,17-34) innalzate al Padre di Gesù il Cristo, il Messia dei tempi

attesi. Mediante il rendimento di grazie sui doni della mensa, la comunità sperimenta la presenza del

Kyrios, in una profonda continuità con l’esperienza degli apostoli e dei discepoli di Emmaus, e celebra

l’evento salvifico realizzato «una volta per sempre» nella morte e risurrezione del Salvatore del

mondo. L’eucaristia è il sacramento della nuova alleanza e la sua attualizzazione nella Chiesa.

1. Epoca patristica

È in questo ambito che, sul fondamento dei racconti neotestamentari dell’istituzione i quali

avevano tradotto il «benedire» di Gesù con eulo- ghein (così Mc/Mt, a proposito del pane) o

eucharistein (Paolo/Lc in generale e Mc/Mt per il calice), l’azione celebrativa viene qualificata come

eucaristia, azione di grazie, molto presto come sinassi (synaxis), assemblea ecclesiale, e come

anafora, preghiera sui doni mediante l’invocazione dello Spirito; una terminologia che viene presto

ampliata a designare tutto il banchetto pasquale, con diverse linee di interpretazione teologica sia alla

luce della storia della salvezza che del suo evento centrale, Véschaton di Cristo. Le qualifiche, pur

con diverse accentuazioni, vengono a indicare il memoriale (zikkaròn/anàmnèsis), celebrato nella

riconoscenza per l’azione salvifica realizzata da Dio nell’invio del suo Unigenito, morto e risorto per

tutti. L’eucaristia rappresenta/ripresenta il ricordo della pasqua che il Signore Gesù stesso attualizza

nella sua comunità per far partecipare i credenti ai frutti della sua redenzione ed edificare la Chiesa

come il nuovo Israele di Dio nella storia.

1.1. PADRI APOSTOLICI E APOLOGISTI

Il primo documento patristico che fa riferimento all’eucaristia è probabilmente la Didachè;

una sorta di manuale catechetico-liturgico estremamente arcaico se è vero, come sostiene J. Audet,

che sarebbe stato composto in Siria non oltre il 70.4051 capitoli 9-10 contengono tre preghiere a sfondo

eucaristico: le prime due sono di preparazione all’azione celebrativa vera e propria, concluse con

l’invito che «nessuno mangi né beva della nostra eucaristia se non i battezzati nel nome del Signore»;

la seconda si presenta come una preghiera di accompagnamento in forma di rendimento di grazie

rivolta al Padre per la salvezza di Gesù, suo servo, e i doni eucaristici detti cibo e bevanda spirituali,

con la formula liturgica conclusiva: «Venga la tua grazia e passi questo mondo! Osanna al Dio di

David! Se qualcuno è santo venga; se non lo è, si converta. Maran thà! Amen». I capitoli 14-15 si

riferiscono direttamente alla Coena Dominica:

Nel giorno del Signore, radunati insieme, spezzate il pane e rendete grazie, dopo che avete

confessato le vostre colpe, affinché il vostro sacrificio sia puro. (...). Lo ha detto il Signore. «In ogni

luogo e tempo si offra a me un sacrificio puro, perché io sono il gran Re e il mio nome è mirabile in

mezzo alle genti» (MI 1,11). Provvedetevi dunque con l’ordinazione di vescovi e diaconi degni del

Signore, di uomini pacifici e distaccati dal denaro, soggetti idonei alla celebrazione del servizio

liturgico.

Sono notevoli gli elementi liturgici presenti in questo antichissimo testo:

• il «dunque» che fa da passaggio tra il capitolo 14 e il 15 evidenzia come si tratti di

un’unica prescrizione: l’azione celebrativa collegata alla necessità di procurarsi i ministri per la sua 405 J. AUDET, La didachè. Instructions des Apòtres, Paris 1958.

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presidenza;

• la domenica (dies Domini) è il giorno della celebrazione; annotazione confermata da

Giustino nella sua Prima Apologia e, più tardi, da Tertulliano nel De Oratione, 19;

• l’assemblea eucaristica è concepita come una convocazione («radunati insieme»), segno

della comunità del Signore risorto e del nuovo popolo di Dio;

• l’azione celebrativa è qualificata con la dizione di fractio panis ed è intesa come un

rendimento di grazie, eulogia, implicante l’idea di un sacrificio spirituale, universale e non cruento,

come quello preannunciato da Malachia per i tempi messianici;

• l’atto eucaristico è preceduto da una confessione delle colpe dei presenti, perché si

partecipi all’oblazione con verità e carità fraterna;

• si conclude con l’invito ad assicurarsi i vescovi e diaconi che possano presiedere e

cooperare all’attuazione del gesto eucaristico; ministerilità di cui parlerà diffusamente Ignazio di

Antiochia nelle sue lettere, auspicando «una sola eucaristia», dal momento che «una è la carne del

Signore nostro Gesù Cristo e uno il calice nell’unità del suo sangue, uno l’altare, uno il vescovo con

i presbiteri e i diaconi» (Ad Phil., 4).

L’identità dell’azione eucaristica risulta chiaramente espressa, fin dall’inizio del II secolo,

nella Prima Apologia di Giustino, dove - dopo aver trattato del battesimo (capitoli 61-64) - si descrive

la comunità dei battezzati come un’assemblea celebrante nella quale ci si saluta con un bacio di pace,

si presentano i doni del pane e del vino, si innalza una lunga preghiera di lode e di supplica al Padre

nel nome del Figlio suo Gesù Cristo, alla quale tutti rispondono: «Amen Amen» in lingua ebraica;

segue la comunione ai doni consacrati, riservandosi una porzione di pane da portare agli assenti

(capitolo 65). Nel capitolo 66, Giustino propone, inoltre, una densa sintesi di dottrina eucaristica:

Questo alimento è da noi chiamato eucaristia. A nessuno è permesso mangiarne, se non a

colui che crede essere vero ciò che noi insegniamo, che è stato battezzato col battesimo della

remissione dei peccati e della rigenerazione e vive come Cristo ha raccomandato. Poiché noi

non mangiamo questi doni come se fossero pane e bevande comuni; ma allo stesso modo con

cui Gesù Cristo nostro Salvatore, in quanto Verbo di Dio, ha preso carne e sangue, così anche

l’alimento eucaristizzato mediante la parola che viene da lui - alimento di cui il nostro sangue

e la nostra carne si nutrono in vista della trasformazione - abbiamo appreso essere la carne e

il sangue di Gesù Cristo incarnato. Gli apostoli infatti, nelle testimonianze da loro scritte e da

noi chiamate Vangeli, ci hanno riferito che a loro era stato comandato così: «Fate questo in

memoria dì me; questo è il mio corpo». E del pari, avendo preso una coppa, Gesù ha reso

grazie dicendo: «Questo è il mio sangue». E ad essi soli egli ne diede (...). Da allora facciamo

sempre fra di noi la memoria di tutto questo.

Al capitolo 67, VApologia descrive, infine, lo svolgimento dell’azione eucaristica nel «giorno

del sole», facendo riferimento a una liturgia della parola («si leggono le memorie degli apostoli e dei

profeti»), a un’omelia tenuta dal presidente, alla liturgia eucaristica prima delineata, alla distribuzione

dei doni eucaristici e a una raccolta di beni per i più poveri.

L’impostazione di fondo della Didachè e la spiegazione che Giustino fornisce dell’azione

eucaristica, specie al capitolo 65, lasciano intravedere gli inizi di due linee di pensiero teologico che

caratterizzeranno la patristica più antica: l’orizzonte dell’eucaristia come sacrificio spirituale e quello

dell’incarnazione eucaristica; due linee di pensiero in stretta correlazione tra loro.

L’eucaristia, sacrificio spirituale. Se l’eucaristia è ricordo nel quale si loda Dio e si manifesta

il ritorno del creato a lui, essa è in pari tempo realizzazione del sacrificio senza macchia preannunciato

dalle Scritture e attuato nella croce di Gesù. Secondo la Didachè e Giustino l’eucaristia è in atto la

celebrazione di questo ringraziamento (eucaristia), vero e perfetto sacrificio gradito a Dio (Dial.

117,2; Corp. Apoi. 2,418). Una prospettiva, questa, che si ritrova in modo particolarmente forte in

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Ignazio di Antiochia, anche se in un quadro più esistenziale-mistico che dottrinale. Secondo lui, il

convito del Signore realizza una vera unione col Cristo stesso, morto e risorto (Eph. 20,2; Magn. 1,2;

7,3). E tale è il contenuto cristologico dell’eucaristia su cui si fonda la sua interiore aspirazione al

martirio: «Io desidero il pane di Dio, cioè la carne di Gesù Cristo, e come bevanda desidero il suo

sangue, cioè l’eterno convito di amore» (Rom. 7,3). Il banchetto della cena del Kyrios è «la carne del

Nostro Salvatore Gesù Cristo che ha sofferto per i nostri peccati e che il Padre nella sua bontà ha

risuscitato» (Sm. 7,1; anche: Rom. 7,3; Fil 4). L’eucaristia rappresenta «l’unica carne di nostro

Signore Gesù Cristo e l’unico calice che unisce al suo sangue» (Philad. 4); un incontro con lo stesso

Signore Gesù (Magn. 1,2; 7,3); «una medicina di immortalità e un antidoto perché non si muoia, ma

si viva sempre in Cristo» (Eph. 20,2). Più globale è la prospettiva di Ireneo di Lione. La teologia

dell’eucaristia si colloca nel quadro di una rilettura totale del mistero redentivo del Signore glorioso

in chiave di historia salu- tis. I doni eucaristici sono, per lui, immagine viva e operante della creazione

nuova, inaugurata dal Risorto, in cammino verso la progressiva riconduzione di tutto verso il Padre

per mezzo dello Spirito Santo. Egli testimonia che «Gesù proclamò il calice suo sangue, con il quale

inebrierà il nostro sangue, e assicurò che il pane è il suo corpo, con il quale fortifica i nostri corpi»?

Secondo Ireneo, i cristiani sacrificano, ringraziando Dio per i suoi benefici (donatio) e consacrano gli

elementi creaturali in relazione alla novità dell’Unigenito incarnato e della sua grazia redentiva. Il

sacrifi- ciò eucaristico non è anzitutto un atto dell’uomo verso Dio, ma «un sacrificio spirituale»

(thusia loghikè) di Dio verso l’uomo; un atto che rende partecipi i credenti dell’unico atto di lode del

Redentore. In esso non si escludono ma, al contrario, si includono i doni della creazione, interiormente

specificati e trasformati dalla potenza dell’azione glorificatrice del Signore risorto. Le offerte sono

assunte al di là del loro significato visibile come simboli di una nuova realtà: il pane non è più solo

pane, ma il corpo di Cristo; il vino non è più solo vino, ma il sangue di Cristo; l’azione celebrativa

non è semplicemente il ricordo dell’esodo, ma la memoria dell’evento pasquale di Dio in Cristo Gesù

e, come tale, l’inaugurazione del mondo escatologico, il suo «già» e «non-ancora».406 Una concezione

anam- netica che sarà tipica, anche se non esclusiva, della tradizione greca.407

L’eucaristia, incarnazione eucaristica. La prospettiva che abbiamo già visto presente in

Giustino suppone l’orizzonte appena accennato, ma è più orientata a sottolineare la continuazione tra

la venuta dell’Unigenito di Dio nella carne (Gv 1,14; 6,57) e la presenza di Cristo nei doni eucaristici.

Così, la cena del Signore, se è memoria della morte sacrificale di Gesù, è un evento che dispiega al

momento stesso la sua incarnazione nel tempo della Chiesa e la fa rivivere in forza dei doni del pane

e del vino consacrati. L’affermazione di Giustino citata è - sotto questo profilo - densa di significato

ed esprime una linea che sarà ripresa da gran parte della patristica: «Noi non mangiamo questi doni

come se fossero pane e bevande comuni; ma allo stesso modo con cui Gesù Cristo nostro Salvatore,

in quanto Verbo di Dio, ha preso carne e sangue, così anche l’alimento eucaristizzato mediante la

parola viene da noi appreso essere la carne e il sangue di Gesù Cristo incarnato».408 Il convito del

Signore è considerato in un oggettivo e reale parallelo sacramentale con l’incarnazione: l’eucaristia è

la carne e il sangue dell’Unigenito di Dio fatto Uomo. Anche in Ireneo è reperibile una prospettiva

analoga: gli elementi «ricevono il Logos di Dio e diventano eucaristia, corpo e sangue di Cristo».409

L’eucaristia consiste, di conseguenza, «di due realtà, una celeste e l’altra terrestre»? È per questa

ragione che essa è creduta «farmaco di vita» e ci si accosta alla mensa eucaristica come «pane di

immortalità», e non come a un cibo comune.410 Infatti è mediante il Logos fatto carne che i nostri

corpi, alimentati dall’eucaristia, sono preparati alla resurrezione e - in un certo senso - già introdotti

in essa. La partecipazione all’azione eucaristica attesta, infatti, l’inserimento del corpo nella

redenzione apportata dal Risorto, in assoluta antitesi con quanto pensava la gnosi, allo stesso modo

in cui la presentazione dei doni del pane e del vino testimonia la bontà del creato e il suo radicale

406 Adv. haer., IV,18,6 (SCh 100,612). 407 Così, ad esempio, La lettera di Barnaba, 5,3; CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom. VII 79,2; GIOVANNI CRISOSTOMO, In Mt hom.

23 (PG 57,331). 408 Apoi. 1,66; Corp. Apoi. 1,182. 409 Adv. haer., V 2,3 (SCh 153,36). 410 Adv. haer., Ili 19,1 e IV 38,1 (SCh 100, 646-948).

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orientamento a Dio.411 Sussiste una profonda reciprocità tra creazione e redenzione. «Il nostro modo

di pensare è conforme all’eucaristia, allo stesso modo in cui l’eucaristia si accorda con il nostro

modo di pensare».412

Non è senza corrispondenza con questi sviluppi la formazione di una liturgia eucaristica

unitaria come quella già reperibile nell’ordinamento ecclesiastico di Ippolito, risalente all’inizio del

secondo secolo e comprendente una preghiera che celebra l’opera salvifica di Dio in Cristo e la sua

presenzializzazione nella memoria eucaristica della comunità.

Ti ringraziamo, o Dio, per mezzo del tuo diletto servo Gesù Cristo, che tu ci hai inviato negli

ultimi tempi come redentore, salvatore e messaggero della tua volontà salvifica. Egli è il tuo Logos,

unito a te inseparabilmente; per suo mezzo, tu hai creato ogni cosa. Secondo il tuo beneplacito lo hai

inviato dal cielo nel grembo della Vergine, ed in esso è diventato carne e si è mostrato quale tuo

Figlio, generato dallo Spirito Santo e dalla Vergine. Per compiere la tua volontà e acquistarti un

popolo santo, egli aprì le sue braccia alla passione in modo da salvare mediante la passione stessa

coloro che credono in te. E quando si consegnò volontariamente alla passione per vincere la morte,

per spezzare le catene del diavolo, per illuminare i giusti, per porre una pietra miliare e annunciare la

resurrezione, egli prese il pane, ringraziò e disse: «Prendete e mangiate! Questo è il mio corpo che è

stato spezzato per voi». Lo stesso fece con il calice dicendo: «Questo è il mio sangue, che viene

versato per voi. Ogni qualvolta fate questo, fatelo in mia memoria». Memori della sua morte e

resurrezione, noi quindi ti offriamo il pane e il calice ringraziandoti di averci trovati degni di stare al

tuo cospetto e di servirti. Ti preghiamo: manda il tuo Santo Spirito su questo offerta della Chiesa.

Raccogliendola nell’unità dà a tutti i santi che se ne cibano la pienezza dello Spirito Santo che ne

fortifichi la fede nella verità, affinché ti celebriamo e lodiamo mediante il tuo servo Gesù Cristo, per

mezzo del quale salgono l’onore e la gloria a te, Padre, e al Figlio insieme allo Spirito Santo nella tua

Chiesa santa, ora e nell’eternità. Amen.

La preghiera contempla l’intero arco del compimento dell’evento di Cristo, dall’incarnazione

alla morte e resurrezione, compresa l’istituzione eucaristica. L’anàmnèsis concerne tutto il mistero

della salvezza ed è strutturata nella forma di un’offerta cultuale (prosphorà). I due atti, memoriale e

oblazione, sono considerati in stretta unità fra loro, in dipendenza dell’unica opera del Redentore:

«ricordando... offriamo» (memores... offerimus). Secondo l’impostazione teologica di Ippolito, è

fonda- mentale inoltre il ruolo dell’epiclesi come principio di compimento del mistero dell’eucaristia

e della comunione dei credenti; un’invocazione che, a partire dall’Egitto, assumerà la forma di una

vera e propria epiclesi consacratoria precedente lo stesso racconto dell’istituzione. È evidente come,

a questo punto, la teologia eucaristica ci si offra già con le sue connotazioni specifiche fondamentali

di anamnesis, prosphorá, epiclesis, come verrà ampiamente confermato dalle liturgie posteriori. La

koinó- nia, già viva nelle testimonianze precedenti, è ribadita nella Traditio in chiave di invocazione

e di dossologia trinitaria. Si ha già quella che possiamo qualificare come l’intelaiatura del canone

romano.

1.2. TEOLOGIA ALESSANDRINA

L’essenza della fede, secondo gli alessandrini, consiste nella partecipazione dei battezzati al

Logos eterno; partecipazione resa possibile grazie alla venuta dell’Unigenito di Dio nel mondo e alla

sua consegna pasquale. L’eucaristia è manifestazione in atto di questo accadimento unico. Clemente

e Origene vedono nell’eucaristia il corpo e il sangue di Cristo, il Christus totus, presenza e

oggettivazione del Logos in linea con l’evento dell’incarnazione. Secondo Clemente, «il cibo è il

Kyrios Gesù, il Logos di Dio, Pneuma diventato carne, carne celeste santificata»413 e nutrimento

411 Adv. haer.,V, 2,2 e 2,3 (SCh 153,36). 412 Adv. haer., IV,18,5 (SCh 100, 611). 413 Paed. I 6,42,3 e 43,3 (GCS 1115,20-24 e 116,21).

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spirituale.414 La fede è chiamata a cogliere quanto la parola di Dio opera sui doni. «Non mettere in

dubbio che la presenza di Cristo sia vera; piuttosto accetta con fede la parola del Salvatore, perché

essendo egli la verità non può mentire».415 Per Origene, il mistero dell’eucaristia è «il pane

sostanziale» donato dal Padre al mondo e quindi «il vero cibo, ossia la carne di Cristo, il Logos

secondo l’essere diventato carne».416 In forza della memoria celebrativa, l’Unigenito si rende

presente come cibo e bevanda spirituali per incontrare i battezzati e farli crescere nella comunione

con sé.417 Con particolare forza ammirativa, Teofilo di Alessandria espone un’analoga convinzione:

«Cristo oggi ci ospita; oggi ci serve. Cristo, l’amico degli uomini, ci offre il riposo... Il re della gloria

si lascia pregare, il Figlio di Dio dà ricevimento, il Dio-Logos divenuto carne ci incoraggia ad

andarvi».418 Non manca, tuttavia, nell’impostazione della scuola alessandrina, una tendenza orientata

a spiritualizzare talmente l’incontro col Cristo da svalutare la recezione del Logos sotto le specie di

un alimento materiale come il pane e il vino; un’impostazione reperibile negli Stromata di Clemente

(10,66) e, in maniera più marcata, in Origene. L’audizione spirituale della Parola è promossa così a

esperienza primaria di incontro con il Logos, con un contenuto pari a quello dell’eucaristia, come

dimostra l’esegesi origeniana del racconto dell’istituzione.419 Ciò che trasforma l’uomo non sono

anzitutto i doni eucaristici - altrimenti ne verrebbero trasformati gli stessi comunicandi indegni - ma

l’illuminazione della Parola e la comunione spirituale con il Verbo incarnato.420

La teologia alessandrina successiva tenderà a correggere queste posizioni e a sostenere che la

pratica della cena del Signore conduce a comunicare con il Logos e che dunque la comunione orale

va di pari passo con quella spirituale: l’eucaristia fa comunicare con il Figlio di Dio fatto Uomo e

nutre lo spirito umano per la conoscenza (gnosis), e costituisce perciò una via fondamentale di

salvezza.421 Decisivo, in questo quadro, è l’apporto di Atanasio. Per lui il Logos non è un

comunicatore di conoscenze, ma l’autore stesso della salvezza e il portatore di una «divinizzazione»

che riguarda tutta la realtà dell’uomo, compreso il suo corpo. Un simile evento può essere attuato

soltanto dal Signore risorto presente nell’eucaristia: «Noi veniamo divinizzati in quanto riceviamo il

corpo del Logos, e non dalla partecipazione al corpo di un uomo».422 In quanto carne del Logos

incarnato, l’eucaristia è ricolma del suo Spirito e lo comunica in una forma tutta speciale.423 Una

concezione soteriologico- pneumatologica che verrà ripresa, tra gli altri, da Cirillo di Alessandria.

Ueulogia mistica - come quest’ultimo qualifica la celebrazione eucaristica - riveste la prerogativa

peculiare di far partecipare al «corpo del Logos» e quindi allo Spirito che dimora in lui424 L’umanità

di Gesù, infatti, sia quella storica che quella eucaristica, è unita al Logos in una forma diretta,

costituendo una cosa sola con lui.425 Ne consegue che i doni eucaristici, trasformati dalla potenza

dello Spirito, sono comunicatori della vita stessa del Logos eterno. Cirillo fa propria Videa di

trasformazione, già presente da tempo in Oriente e la utilizza per mostrare che, se gli elementi del

pane e del vino diventano il suo corpo e il suo sangue, hanno il potere di mettere in comunione con

l’umanità assunta dal Logos e far partecipare allo Spirito che la inibita in pienezza.426

1.3. PADRI ANTIOCHENI PRE-EFESINI

414 Paed. 16, 41,3; 42,2; 47,2. 415 Comm. in Le. 22,19 (PG 72.921B). 416 De orat. 27,4 (GCS II 365,22-24). 417 Da notare che in modo analogo pensano tanti altri autori e padri: Eusebio di Cesarea, Atanasio, Serapione, Didimo, Cirillo e i

cappadoci Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. 418 Pseudo-Cirillo, Hom. 10 in coen. myst. (PG 77,1017A). 419 In Mtser. 85 e 86 (GCS XI 196,19-197,6 e 198,15). 420 In Mt tom. 11,14 (GCS X 57,11-58,14). 421 Tra i latini, Gerolamo, sosterrà una comunione spirituale, accanto a quella eucaristica; una comunione «non soltanto nel

sacramento, ma nella stessa lettura della Scrittura» (In Eccl. 3,12; CC 72,278). 422 Epist. ad Maximum phil. (PG 26). Cf. anche: GIOVANNI CRISOSTOMO, Hom. de pascha 2,18. 423 Cf. MARCELLO DI ANCIRA, De incarnatione et contra Arianos, 16: «Lo Spirito comunicatore di vita è la carne del Signore, poiché

essa deriva dal suo Spirito vivificante. Tutto ciò che ha origine dallo Spirito è Spirito». 424 In Jo. 6,64, comm. 4,3 (PG 73, 604). 425 In Jo. 6,54, comm. 4,2 (PG 73,576). 426 Frammento su Mt 26,26 e su Lc2,19. Nella stessa linea, MARCO EREMITA, Adversus Nesto- rianos, 8,23.

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Il tema dell’umanità salvifica di Gesù è ribadito dalla teologia orientale che, ad Antiochia, si

sviluppa in una forma autonoma rispetto ad Alessandria, sulla scorta del pensiero semitico-palestinese

e come teologia-scritturale rivolta al carattere storico dell’opera salvifica di Cristo più che all’aspetto

spirituale. Un’impostazione che conduce ad accentuare una teologia dell’eucaristia come sacramento

dell’umanità del Kyrios. Viene tenuta presente l’incarnazione, ma l’accento è posto soprattutto

sull’accadimento pasquale. Gli elementi del convito e l’azione liturgica sono qualificati come

«simbolo» (symbolon) e «tipo» (typos) della morte e risurrezione di Cristo collegandosi per questa

rilettura al concetto-chia- ve di anàmnèsis. È quanto appare con forza, tra le molteplici testimonianze,

in un celebre testo di Giovanni Crisostomo, indirizzato a commentare la cessazione dei sacrifici

veterotestamentari:

Sacrifichiamo anche noi tutti i giorni? Certo, anche noi sacrifichiamo, celebrando la memoria

della sua morte; ma questo è un sacrificio solo, non molti. Come uno e non molti? Perché egli è stato

offerto soltanto una volta (...). Noi infatti offriamo sempre lo stesso, non oggi questo e domani

quell’agnello, ma sempre lo stesso (Cristo). Si tratta quindi di un unico sacrificio. Ci sono allora molti

Cristo perché in molti luoghi si fa l’offerta? Affatto. Piuttosto si deve dire che si tratta sempre del-

l’unico Cristo, qui e là, nella sua totalità, un unico corpo. Ora come l’Offerto in molti luoghi è un

corpo e non molti corpi, così si partecipa a un unico sacrificio. Il nostro Sommo Sacerdote è colui che

ha offerto il sacrificio che ci purifica. Noi offriamo ora ciò che è stato offerto un tempo e che è in se

stesso inesauribile. Il sacrificio presente viene attuato in memoria di quello compiuto un tempo. Egli

infatti dice: «Fate questo in mia memoria!».427

Giovanni Crisostomo afferma l’identità dell’azione sacrificale della Chiesa con quella della

croce e l’unità dell’unico sacrificio offerto in tutte le azioni eucaristiche. Il termine thusia assume una

simile accezione e contiene già in germe una teologia dell’eucaristia come sacrificio e come gesto di

Cristo e della sua Parola mediante la persona del ministro. «Non è l’uomo che fa diventare le realtà

offerte corpo e sangue di Cristo, ma è Cristo stesso, che è stato crocifisso per noi. Il sacerdote,

ministro di Cristo, pronunzia le parole, ma la loro virtù e la grazia dei doni viene da Dio»?6 Lo stesso

autore afferma con forza la presenza dell’unico Kyrios nel convito santo della cena: «Si tratta sempre

dell’unico Cristo, qui e là»?1 Un analogo orizzonte lo ritroviamo in Teodoreto, il quale insiste nel

dire che noi non celebriamo un sacrificio diverso da quello offerto da Gesù; al contrario, attuiamo

quell’unico sacrificio. In forza dell’anàmnè- sis, l’azione salvifica compiuta da Gesù un tempo

diventa un oggi ed è rivissuta dalla comunità.428 Secondo Teodoro di Mopsuestia, nell’eucaristia,

Gesù si offre in forma simbolica, morendo, risuscitando da morte e salendo al cielo, e ci pone in grado

di entrare in una relazione attuale con i misteri della sua vita redentrice.429 Aspetto specifico della

teologia di Teodoro è il porre l’accento sull’epiclesi consacratoria come azione dello Spirito in

corrispondenza a quella che ha operato la risurrezione di Gesù dal sepolcro: in entrambi i momenti,

è l’unico e medesimo Spirito che vivifica una realtà morta e le conferisce la forza di una vita nuova,

immortale.430 Lo sviluppo antiocheno relativo all’orizzonte dell’anàmnè- sis si estende alla

concezione stessa dei doni consacrati, identificati con il corpo e il sangue di Cristo e segni viventi

della sua offerta al Padre realizzata una volta per sempre. A motivo di questa identità, più che ricorrere

alla designazione degli elementi eucaristici come «simboli», si parla di essi - in modo diretto - come

del corpo e sangue di Cristo in virtù dell’epiclesi attuata su di essi.431 Anche gli Atti di Tommaso

(15,8) e le Costituzioni apostoliche (VII 25,4) ritengono una concezione dello stesso genere. Nel

427 In Hebr. hom.ll,?> (PG 63,131). 428 In Hebr. 8,4-5 (PG 82,736). 429 Cat. 15,20 (ST 145,497). 430 Cat. 15,10 (ST 145,475). Per l’insieme della prospettiva, cf. F.J. REINE, The Eucharistic Doctrine and Liturgy of the Mystagogical

Catechese of Theodore of Mopsuestia, Washington 1942; J. QUASTEN, «The Liturgical Mysticism of Theodore of Mopsuestia», in

Theological Studies 15(1954), 431-439. 431 TEODORO DI MOPSUESTIA, Frammento su Mt 26,26 (TU 61, 255); ADAMANZIO, De recta in Deum fide (GCS 184,14); EFREM, Adv.

haer. 47,8 (BKV 61, 166); GIOVANNI CRISOSTOMO, In ICor. hom., 24,5 (PG 61,200-205).

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tentativo di operare una sintesi tra la visione alessandrina e quella antiochena, Gregorio di Nissa

sottolinea l’identità del corpo eucaristico con quello incarnato. I doni del banchetto non sono più

semplici realtà naturali, ma doni nuovi, trasformati dalla potenza dello Spirito. La trasformazione

avviene in quanto lo Spirito tocca, si impossessa, trasfigura gli elementi per renderli corpo e sangue

di Cristo. I termini usati per connotare questo passaggio sono metabàllein, metapoìen e simili, e hanno

l’intento di esprimere un cambiamento in senso dinamico-funzio- nale, accessibile solo agli occhi

della fede, senza voler affrontare questioni di ordine filosofico. Si tratta, in altre parole, di una prima

forma di teologia della presenza eucaristica centrata sulla spiritualizzazione dei doni eucaristici, la

cui finalità è più quella di dire il fatto, ossia il valore nuovo, soprannaturale, assunto dagli elementi

dopo la consacrazione, che di entrare nel merito relativo al modo.

1.4. PADRI GRECI POST-EFESINI

Le affermazioni sul concetto di trasformazione conoscono un’attenuazione dopo il concilio di

Efeso. Gli antiocheni Nestorio, Euterio di Tiana, Teodoreto di Ciro e l’autore dell’Epistula ad

Caesarium spiegano che il pane e il vino rimangono ciò che sono e non subiscono un’oggetti- va

modifica nella loro natura fisica (ousia), ma un cambiamento di significato che solo la fede è in grado

di riconoscere e affermare. Gli elementi sono qualificati come «corpo» e «sangue» di Gesù allo stesso

modo in cui Cristo si è autodefinito «pane di vita» e «vite».432 Ciononostante la consacrazione

eucaristica non si riduce unicamente a un cambiamento di nome o a un significante meramente

metaforico; sugli elementi eucaristici è invocata la potenza dello Spirito e ciò produce un nuovo

incremento di grazia e di presenza del Risorto; ed è per questo che sono detti «corpo» e «sangue» di

Cristo. Il motivo per cui questi autori faticano ad accettare una trasformazione reale degli elementi

del pane e del vino deriva dalla loro cristologia. Contro un monofisismo che dissolve l’umanità di

Gesù nella divinità, essi sono preoccupati di affermare il permanere immutato delle due nature in

Cristo, anche dopo la sua pasqua, e di corroborare quindi un duofisismo cristologico che ritenga le

due nature di Gesù nell’unità della sua persona. Dal punto di vista della dottrina eucaristica, la loro

attenzione è indirizzata a evitare un monofisismo eucaristico in nome di un duofisismo che

salvaguardi la duplice dimensione dell’eucaristia, divina e umana, senza confusione o mescolanze

indebite. La cristologia e la teologia eucaristica, in questa visione, sarebbero situazioni del tutto

equiparabili. L’argomentazione, in un primo momento, sembra ricevere una buona accoglienza e

perfino i calcedoniani papa Gelasio, Efrem di Antiochia e Leonzio di Gerusalemme, per gli stessi

motivi, sono orientati a negare la trasformazione degli elementi consacrati sotto il profilo della loro

natura o essenza.433

Il periodo successivo non manifesta un effettivo progresso rispetto a queste posizioni. La

ragione si collega ancora all’impostazione cristologia cui si è fatto cenno. Alla fine dell’era patristica,

una buona sintesi degli sforzi portati avanti dalla teologia orientale è offerta da Giovanni Damasceno

nell’opera De fide orthodoxa (4,1) dove, in modo abbastanza organico, si applica all’eucaristia la

nozione di anàmnèsis, secondo il principio dell’incarnazione sacramentale, e si fa propria l’idea,

ormai diffusa, di trasformazione operata dalla discesa dello Spirito sugli elementi. Il pane della

comunione non è più «il pane ordinario, ma il pane unito alla divinità».434 Il Damasceno non ha dubbi

circa l’identità del corpo eucaristico con quello storico di Gesù e non teme di affermare che essi sono

«uniti ipostaticamente con la divinità e le due nature sono unite ipo- staticamente nel corpo di Cristo

da noi ricevuto»?435 Si tratta di un passo di indubbio valore verso la piena affermazione della presenza

del Chri- stus totus nell’eucaristia, superando la problematiche post-efesine e post-calcedonensi.

432 NESTORIO, Liber Heracl. 1/1,58, ritiene che nel pane consacrato noi possiamo scorgere il corpo di Gesù, ma solo nel senso che

egli lo ha assunto come suo modo di manifestarsi (prósoporì). 433 GELASIO, De duobus naturis in Christo, tr. Ill; EFREM DI ANTIOCHIA, In Fozio (PG 103,980); LEONZIO DI GERUSALEMME, Tract,

de Trinitate et Incar. (CSCO 2/27,100). 434 De fide orthodoxa, 4,13, (PG 94,1141-1152). 435 De imaginibus 3,26 (PG 94,1348).

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1.5. PADRI LATINI

La teologia latina dell’eucaristia è probabilmente meno unitaria di quella greca. In particolare,

se essa non manca di assumere l’idea di memoriale dell’opera redentrice di Cristo, sembra rivolgersi

con più insistenza agli elementi del convito eucaristico nell’ottica della presenza di Cristo e

dell’attualizzazione del suo sacrificio nella Chiesa. Tertulliano identifica il pane e il vino con il corpo

e il sangue di Gesù e spiega che, in forza dei simboli eucaristici, il Signore rende presente

(repraesentat) il suo corpo e il suo sangue. È per questo motivo che niente di questi doni può cadere

in terra o in mani profane.436 Il banchetto eucaristico è definito come figura corporis Christi; una

qualifica che non intende volatilizzare la realtà della presenza di Cristo, ma piuttosto sottolinearla,

contrapponendosi alla tesi gnostica relativa all’irrealtà dell’umanità storica di Gesù.437 L’eucaristia è

talmente la realtà del corpo storico di Cristo da attestare la realtà oggettiva di quest’ultimo. La

substantia della «figura» eucaristica è stata annunciata da Gesù stesso mediante l’aggiunta del ter-

mine «sangue». La «carne» e il «sangue» costituiscono componenti inseparabili dell’unico evento

pasquale. In questa linea, Tertulliano documenta una dimensione dell’eucaristia già presente nella

teologia orientale, ma non sempre così espressamente approfondita: il suo carattere sacrificale,

definendo l’azione eucaristica come sacrificium o oblatio, e affermandone il legame indissolubile con

la croce,438 a tal punto che è come se Cristo stesso morisse di nuovo (rursus mactabitur Christus)?439

Non meno importante, per lo sviluppo della dottrina eucaristica dei latini, è l’opera di Cipriano. Egli

si contrappone esplicitamente alle celebrazioni compiute solo con l’acqua, e quindi senza il vino.440

Soltanto se il calice contiene il sangue redentore, infatti, si attualizza il mistero della croce. Il vino

allude al sacrificio di Gesù, in quanto - per il suo simbolismo naturale - presuppone la pigiatura, allo

stesso modo in cui il sangue di Cristo è passato attraverso il torchio della passione. L’azione

eucaristica è il sacrificium crucis in forma sacramentale; un’azione commemorativa che rende pre-

sente Yoblatio Christi nella comunità, e che la comunità rivive, partecipandovi in prima persona e

venendo trasformata da essa. È per tale via che Cipriano illustra l’idea di memoriale.441 Gli elementi

del banchetto non ricordano solo la pasqua di Cristo, ma la rendono presente ogni volta che il popolo

cristiano ne fa memoria. L’unico pane formato da molti chicchi di grano, l’unico vino spremuto da

molti grappoli, simboleggiano l’unità del nuovo Israele nato dalla pasqua, mentre la mescolanza del-

l’acqua con il vino rappresenta l’unione dei credenti con Cristo, Dio e Uomo.442 Degno di nota è il

fatto che la comunione della Chiesa sia considerata non solo come il frutto, ma il presupposto del

convito del Signore, come verrà sviluppato da Agostino, tanto che, al di fuori della comunità

ecclesiale, non vi può essere valida eucaristia, così come per il battesimo.443

Ambrogio tratta prevalentemente della celebrazione eucaristica in quanto attua la realtà

concreta del corpo e del sangue di Gesù.444 Un’attuazione possibile in virtù della parola di Cristo che

risuona oggi come ieri nella Chiesa e fa assumere ai doni eucaristici un nuovo contenuto. La parola

di Dio pronunciata dalla Chiesa trasforma i segni; è così che nel sacramento eucaristico si rende

presente lo stesso corpo nato dalla Vergine e crocifisso per noi. Se la parola di Dio ha creato ciò che

non era, essa può mutare ciò che già esiste, trasformando la natura delle cose. «La parola di Cristo

che fu in grado di creare dal nulla ciò che non esisteva, non può trasformare in una diversa realtà

ciò che già esiste? Non è minore l’impresa di dare una nuova identità alla realtà che

trasformarla».445 II corpo e il sangue di Cristo sono presenti non tanto nella loro forma connaturale

(species) quanto in una similitudo, affinché l’orrore del sangue non trattenga dall’avvicinarsi al

436 Adv. Marc. 1,14 (CC 1,455); De cor. mil. 3 (CC 2,1043). 437 Adv. Marc. 4,40 (CC 1,656). 438 De orat. 19 (CC 1,268); De cultu fem. 2,11 (CC 1,366); De cor. mil. 3 (CC 2,1043); Ad ux. 2,8 (CC 1,393).

’39 De pud. 9,11 (CC 2,1298). 440 Ep. 63,7 (CSEL 3,705). 441 Ep. 63, 9 e 15 (CSEL 3,708 e 713). 442 Ep. 63,13 (CSEL 3,711). 443 Ep. 70,2 (CSEL 3,768), De unii. 8 (CSEL 3,217). 444 De Myst. 9,53 e 58 (CSEL 73,112 e 115). 445 De Myst. 9,50.52 (PL 16,405-406).

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sacramento eucaristico. Ambrogio non si interroga sul modo in cui la trasformazione eucaristica

avviene; si limita ad affermarla 446 Egli testimonia, inoltre, il carattere sacrificale dell’eucaristia,

mostrando come l’offerta celebrata dalla Chiesa rappresenti la proclamazione vivente della morte,

risurrezione e ascensione di Gesù Cristo al cielo.447

La dottrina di Agostino è assai più complessa. Egli si muove tra realismo e simbolismo. Per

un verso, in quanto vescovo, egli dà prova di fedeltà alla convinzione della Chiesa sulla presenza reale

di Cristo nell’eucaristia, dichiarando che il pane posto sull’altare e il contenuto del calice, consacrati

dalla virtù della parola di Dio, costituiscono il corpo e il sangue del Signore;448 per un altro, in quanto

teologo, si sforza di interpretare il mistero, introducendo apporti personali che non mancano di

qualche elemento di indebolimento della dottrina eucaristica. Il problema di fondo è costituito dal

concetto di segno. Secondo Agostino, il segno (signum) rinvia alla realtà (res), ma non si identifica

con essa: il segno è altro rispetto alla realtà da esso significata.449 La corrispondenza tra il signum e

la res si fonda su una relazione di somiglianza, non di identità effettiva. Di conseguenza, solo

secundum quaedam modum, il sacramento del corpo di Cristo è il corpo di Cristo, e il sacramento del

sangue di Cristo è il sangue di Cristo.450 La realtà oggettiva (res) del corpo e del sangue del Risorto

non viene contenuta in una forma fisica nei segni consacrati, ma nella maniera stessa in cui il segno

contiene la realtà e rimanda a essa. «Aliud videtur, aliud intelligitur».451 Di qui la distinzione modale

tra il corpo storico di Gesù e il corpo sacramentale presente sull’altare: la cena è un segno (signum)

del corpo e del sangue assunti da Gesù nell’incarnazione e in forza di cui si è offerto sulla croce, ma

non è la stessa res del corpo e sangue di Cristo. Una concezione che permette ad Agostino di insegnare

come i cattivi, gli eretici e i cattolici indegni ricevano i doni consacrati nel segno, ma non nella realtà;

li ricevono come signum, non come res ipsa.452

Non si può negare che l’interpretazione del dottore di Ippona si sviluppi secondo uno statuto

fortemente simbolico e susciti qualche interrogativo sul senso della presenza reale di Cristo

nell’eucaristia. I motivi di una simile impostazione derivano sia da un presupposto medio-plato- nico

che tende a svalutare il visibile rispetto all’invisibile, sia da una cristologia che non riesce a tenere

nel dovuto conto il realismo dell’incarnazione e sia, soprattutto, da un’ecclesiologia che non vuole

ammettere il conferimento della grazia - e quindi anche del corpo e sangue di Cristo - a coloro che,

per scisma o apostasia, sono fuori della Chiesa, come appare per altre ragioni dalla polemica

antidonatista. L’aspetto debole dell’interpretazione agostiniana è peraltro compensato dal fatto che,

in essa, la res eucharistiae a cui il signum rimanda non è soltanto il corpo individuale di Cristo, ma

al tempo stesso quello ecclesiale, il Christus totalis, caput et corpus, ossia il Signore glorioso che

assimila a sé l’unità molteplice dei cristiani viventi in lui per il battesimo e li fa suo segno reale in re

ipsa. Quanto mai indicativa, in quest’ottica, è l’esortazione che il vescovo di Ippona rivolge ai

neobattezzati che, per la prima volta, si accostano all’altare: «Se voi siete il corpo e le membra di

Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero! Voi

rispondete amen a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete. Sentite dire: corpus Christi,

il corpo di Cristo, e rispondete: amen/ Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro

amen sia vero».453 Sussiste un’identità radicale tra il corpus Christi formato dai battezzati e il corpus

Christi significato dall’eucaristia: l’uno fa essere l’altro, e mai l’uno senza l’altro. Uamen detto alla

comunione eucaristica esige Vamen alla comunità ecclesiale, e viceversa. È per questo che,

446 De Sacr. 4,4,14; 4,5,23 (CSEL 73,52 e 56); De Myst. 9,52 e 54 (CSEL73,112 e 113). 447 De Sacr. 5,4,25 (CSEL 73,69). 448 Sermo 227 (PL 38,1099); 234,2 (PL 38,1116); 272 (PL 38,1246); En. in Ps 98,9 (PL 37,1264);

En. in Ps 33,1.10 (PL 36,306); Civ. Dei 10,20 (CSEL 40,1,418). 449 Sermo 57,7 (PL 38,389); 71,11,17 (PL 38,455); 112,4 (PL 38,645); InJo tr. 25,12 (PL 35,1602); 27,2,3,5 (PL 35,1616); Civ.

Dei 21,20,25 (CSEL 40,2,552s.564-567); En. in Ps 98,9 (PL 37,1264). 450 Ep. 98,9 (CSEL 34,531). 451 Sermo 272 (PL 38,1247). 452 Ep 185,11,50 (CSEL 57,43); Civ. Dei 21,25 (CSEL 40,2,567); In Jo tr. 26,18 (PL 35,1614); 27,11 (PL 35,1621), Sermo 131,1

(PL 38,729). 453 Sermo 272 (PL 38,1247).

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rivolgendosi a coloro che si sono già accostati al banchetto eucaristico, Agostino spiega come,

«compaginati nel suo corpo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo» 5A Comunicando con il

corpo eucaristico di Cristo, i fedeli infatti sono costituiti e plasmati come corpo ecclesiale. La

comunione con il Signore nell’eucaristia edifica la Chiesa; e tale è la res et signum del sacramento. Il

centro di gravità si sposta dai doni conviviali consacrati all’azione vissuta dai partecipanti nel ricevere

i segni sacramentali come grazia di koinonia ecclesiale. È in questo quadro che Agostino predica la

comprensione spirituale dell’eucaristia, intendendo richiamare i credenti non tanto al riconoscimento

della sua natura empiricamente indimostrabile quanto alla sua piena accoglienza come accadimento

interiore-per- sonalizzante, con il cuore quindi, e non soltanto con la bocca, vivendo ciò che

l’eucaristia rappresenta e lasciandosi trasformare da essa. È così che, guardando al Cristo eucaristico

che si assimila la Chiesa-come-suo-corpo, Agostino esclama: «O sacramentum pietatis! O signum

unitatis! O vincu- lum cantatisi»; ed esorta: «Conservate l’unità! Avete appena mangiato il vincolo

che vi unisce».454

Non meno rilevante è la dottrina agostiniana circa il carattere sacrificale dell’eucaristia. Non

si può dissociare l’atto sacramentale della Chiesa dall’evento fondante della croce. La celebrazione

eucaristica porta in sé un rapporto essenziale con il sacrificio di Cristo e ne costituisce la memoria e

il sacramentum, la partecipazione e il dono permanentemente in atto dell’oblazione sacrificale di

Gesù, orientata a far diventare la comunità credente ciò che celebra e riceve nel banchetto eucaristico.

Un tema che è presente in Leone Magno in un testo citato dallo stesso concilio Vaticano II (LG 26):

«Invero la partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non è ordinata ad altro che a trasformarci

in ciò che prendiamo, con il fine di renderci portatori integrali, in anima e corpo, di colui con il quale

e nel quale siamo morti, sepolti e risuscitati».455

Il realismo ambrosiano-liturgico e il simbolismo-ecclesiologico agostiniano si intrecciano in

vari modi tra di loro, anche perché il pensiero agostiniano è stato interpretato, in un primo tempo, in

maniera abbastanza realistica. Così, fanno ad esempio Fausto di Riez e Gregorio Magno. Il primo

sviluppa specialmente il concetto di trasformazione degli elementi del pane e del vino;456 il secondo

sottolinea il carattere sacrificale dell’eucaristia: se Cristo, in quanto risorto, non muore più, nel

memoriale della Chiesa si offre per noi in virtù di un atto sacramentale, di modo che ogni volta che

partecipiamo all’offerta del sacrificio eucaristico rappresentiamo la morte di Cristo e la riviviamo in

atto 457 Anche Isidoro di Siviglia si sforza di ricercare una sintesi unitaria tra realismo e simbolismo.

Nel mistero dell’eucaristia, sotto il segno visibile, opera la virtus divina, intesa come sacrificium

crucis e sacramentum gratiae; e tale è la duplice valenza della cena del Signore e del parteciparvi.

L’eucaristia è sacrificium (= sacrum factum) in quanto - mediante la prex mystica - rende presente la

memoria della morte del Signore, ed è sacramentum in quanto - in forza dello Spirito invocato -

diviene il corpo e il sangue di Cristo e quindi un bonum gratiae per noi.458

2. Prescolastica e scolastica

La lettura dell’eucaristia in prospettiva sacrificale rappresenta l’orizzonte dominante di tutto

il medioevo. Ne è testimone la fioritura dell’«allegoresi commemorativa della Messa» che connette i

riti particolari e le singole preghiere con gli episodi della vita e morte di Gesù, conducendo a sentire

l’azione eucaristica come un rivivere il dramma di Cristo e della sua passione. Si deve specialmente

ad Amalario di Metz la diffusione di questa concezione in forma sempre più generalizzata, nonostante

l’opposizione di Floro di Lione e, più tardi, di Alberto Magno. La spiegazione simbolico-scenica della

celebrazione eucaristica conduce, di fatto, a una attenuazione della sua significazione propriamente

sacramentale, a servizio della catechesi del popolo che, non potendo comprendere la lingua, può 454 In Evan. Joh. 26,6,13 (SCh 47). 455 Sermo 63,7 (PL 54,357). 456 PSEUDO-GEROLAMO, Hom. 38 (PL 20,271-276). 457 GREGORIO, Hom in Evang. 2,37,7 (PL 76,1279A). 458 Etym. 6,1938-40 (PL 82,255 B e C).

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almeno vedere i gesti e partecipare in modo diretto alla rappresentazione sacra. Paradossale, in questo

contesto, è il rapido diffondersi (divenendo normativo con Innocenzo II) della messa «privata», specie

nei monasteri e nei conventi, dove il ministro fa tutto da solo, favorendo l’idea - peraltro già diffusa

- di una mera «assistenza» dei fedeli all’atto celebrativo, senza che sia indispensabile un’effettiva e

attiva partecipazione. Un contesto che prepara direttamente la reazione della Riforma e quanto ne

consegue. Prima tuttavia è necessario soffermarsi sui problemi dottrinali che si sviluppano a partire

dagli inizi del medioevo.

2.1. PRIMA CONTROVERSIA SUI DONI EUCARISTICI

Il grande problema che la riflessione teologica si trova ad affrontare, fin dal primo medioevo,

riguarda l’irrisolta questione del contenuto degli elementi consacrati, con una forte oscillazione tra

«realismo materialista» e «simbolismo spiritualista». Il realismo materialista viene di fatto

rappresentato da Alcuino, Amalario e, per alcuni aspetti, da Incma- ro di Reims; il simbolismo

spiritualista da Beda e Giovanni Scoto Eriu- gena. Una tensione tra due tendenze che sfocerà nella

prima controversia eucaristica, iniziata dall’abate di Corbie, Pascasio Radberto, intorno all’844,

secondo il quale il banchetto del Signore non è soltanto la presenza di una forza divina, ma di ciò che

in esso è annunciato, ossia del corpo dato e del sangue versato, e lo è in modo fisico. In virtù della

consacrazione, infatti, la «figura» eucaristica porta in sé la realtà stessa rappresentata, al punto che la

presenza del corpo e del sangue di Cristo nell’eucaristia non è diversa da quella che si è verificata in

Maria e da quella di Gesù sulla croce, facendo riferimento a un realismo di trasformazione dei segni

eucaristici in senso fisico, fortemente materiale.459 Un’impostazione che suscita immediatamente la

violenta protesta di Rabano Mauro, Godescalco e, in modo particolare, di Ratramno, monaco

anch’egli a Corbie. Quest’ultimo, collegandosi alla differenza già posta da Agostino tra il segno e la

realtà, rifiuta decisamente l’identità del corpo eucaristico con quello storico di Gesù. I doni

consacrati sono il corpo e il sangue di Cristo secondo un’intelligenza spirituale (spiritualiter), e non

in quanto identità fisica (corporaliter). Gli elementi eucaristici devono essere compresi come simboli

(figura, similitudo) della realtà, non come la realtà stessa; in quanto tali, essi suppongono un distacco

oggettivo dalla res a cui rimandano, pur implicando una partecipazione ad essa.460 Ratramno non

manca di richiamarsi a una trasformazione degli elementi creaturali a opera del Logos, ma nega un

cambiamento interiore nella natura del pane e del vino, ammettendo solo una crescita di virtus, ossia

di significazione salvifica e di grazia.461

2.2. BERENGARIO E LA PRESENZA REALE

Il dibattito che si apre trova un esponente di primo piano in Berengario di Tours. In linea con

la posizione di Ratramno e muovendo dal concetto agostiniano di sacramento come signum gratiae,

egli distingue nettamente il signum dei doni consacrati dalla res. Gli elementi del pane e del vino, in

forza dell’invocazione dello Spirito e delle parole consacranti, subiscono un cambiamento di

significato, ma non di essere: essi diventano simboli del corpo e del sangue di Gesù e sono quindi

degli indicatori visibili che invitano a unirsi spiritualmente al Kyrios celeste, ma non contengono

direttamente lo stesso Signore. La presenza di Cristo nel corpo e sangue eucaristici è la res

sacramenti, non il sacramentum stesso. Berengario respinge quindi la presenza e la trasformazione

reale dei doni del pane e del vino. Parlare di mutazione degli elementi equivarrebbe, per lui, a far

scendere dal cielo lo stesso Risorto, la cui moltiplicazione o anche divisione in molte portiunculae

carnis Christi significherebbe la distruzione della loro sostanza quanto agli elementi e la

continuazione delle species dopo la consacrazione senza soggetto; operazione impossibile per lo

stesso Dio.462

459 Liber de corpore et sanguine Domini 1,2 (PL 120,1269B); 12,1 (PL 120,1310C); 21,9 (PL 120,1340C). 460 De corpore et sanguine Domini 1A (PL 121,158BC): 461 Sul pensiero dell’autore, cf. J.F. FAHEY, The Eucharistic Teaching of Retramn of Corbie, Mundelein 1951. 462 Si veda specialmente lo scritto di BERENGARIO, De sacra coena, edito da W.H. BEEKENKAMP, Gravenhage 1941.

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La tesi incontra un’immediata opposizione, specialmente da parte di Adelmanno di Liittich,

Ugo di Langres e Durando di Troarn, i quali ribadiscono che i doni consacrati sono oggettivamente

identici al corpo e al sangue storici di Gesù e costituiscono il suo modo reale e concreto di comunicarsi

con noi. Berengario viene condannato diverse volte (nel 1050 a Vercelli, nel 1051 a Parigi, nel 1054

a Tours). Al sinodo lateranen- se del 1059 viene costretto a sottoscrivere la professione composta dal

cardinale Umberto di Silva Candida: «Il pane e il vino che vengono deposti sull’altare, dopo la

consacrazione, non sono soltanto sacramentum, ma il corpo reale e il sangue reale del nostro Signore

Gesù Cristo e vengono toccati, spezzati dalle mani dei sacerdoti e masticati dai denti dei fedeli... in

maniera sensibile e non soltanto come vuoto segno, ma in verità» (Denz 690). Una formulazione che,

nel suo genere letterario, è da leggere più come una confessio fidei che come un’effettiva

argomentazione teologica; una confessio che intende opporsi alla negazione della presenza reale, ma

che riflette chiaramente una teologia eucaristica ancora immatura. Soltanto così si spiega il suo

esagerato realismo. La critica di Berengario aveva acceso, in ogni caso, la questione circa il modo

con cui poter legittimare l’identità ontologica tra il corpus Christi, nato da Maria, e il corpus Christi

presente nell’eucaristia; ed è su questo punto che sono decisivi i contributi di Lanfranco di Bec e

Guitmondo di Aversa. Il corpo di Gesù - affermano essi - è presente nella sua essentia (o substantia)

nei doni consacrati, ma senza che la trasformazione consacrante comporti un cambiamento nelle

species degli elementi stessi: «terrenas substantias converti in essentiam Domini corporis», dirà

Lanfranco.463 Guitmondo, da parte sua, connota l’atto della consacrazione eucaristica come il passag-

gio trasformante di una realtà esistente in un’altra già esistente: ossia come trasmutazione sostanziale

(substantialiter transmutari) della sostanza degli elementi del pane e del vino, pur permanendo gli

aspetti fisici, nella sostanza del corpo e del sangue del Signore. Il problema si concentra, dunque, sul

concetto di sostanza (substantia); un concetto che non corrisponde più, come in Berengario, alla realtà

naturale empirica, ma al subiectum che fa essere una realtà ciò che è e non un’altra. Il termine

«sostanza» viene ad assumere un significato propriamente e tipicamente metafisico, indirizzato a

designare il substrato meta-empirico dell’essere del pane e del vino e il suo principio ontico di

sussistenza, al di sotto e oltre la sola forma percettibile e le qualità visibili esterne (species).

Un passo positivo in questo cammino interpretativo circa il modo della presenza reale è offerto

dalla seconda formula di giuramento sottoposta a Berengario nel 1079, dove si sottolinea l’identità

degli elementi consacrati con il corpo e il sangue storici di Gesù in virtù di una trasformazione

sostanziale e quindi di un passaggio di essenze (Denz 700). Viene introdotta, in questo modo, l’idea

della transustanziazione, anche se il termine lo si troverà solo più tardi, e precisamente verso il 1142

nelle Sentenze di Rolando Bandinelli. Ulteriori chiarificazioni sono date, nel frattempo, da Stefano di

Tournai con la Glossa di Bamberga (Cod. Patr. 128) e dalla scuola porretana. La categoria di

«transustanziazione» comincia a essere utilizzata in modo sempre più chiaro per significare come le

sostanze terrene vengano mutate in una sostanza superiore preesistente, ossia nella sostanza del corpo

e del sangue di Cristo. Si muove in questa direzione il concilio Lateranense I quando parla di

«transsub- stantiatis pane in corpus et vino in sanguinem» (Denz 802). A partire da questi sviluppi

la categoria di «sostanza» e il suo corrispondente «transustanziazione» assurgono a concetti-chiave

per l’intelligenza del mistero della presenza reale di Cristo nell’eucaristia e tali sono fino a oggi.

2.3. SINTESI TEOLOGICA MEDIEVALE

La prima scolastica non si fossilizza sugli aspetti filosofici del dibattito; essa conserva la

lettura dell’eucaristia in una prospettiva storico-salvifica ed ecclesiale, come accadimento di

memoria, presenza e profezia del- Yéschaton pasquale e forma plasmante della Chiesa. È vero tuttavia

che, specie con la Summa Sententiarum e l’opera di Pietro Lombardo e poi con Innocenzo III (Denz

793), prevale un processo di cristallizzazione della dottrina eucaristica sulla base di precise nozioni

463 De sacramento corporis et sanguinis Christi (PL 150,430C).

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centrali.464 Il duplice livello agostiniano del sacramentum, signum e res sacramenti, si trasforma in

una triade, grazie all’introduzione del termine medio res et signum:

• il signum tantum corrisponde alle specie visibili o segno sacramentale in sé e per sé;

• la res et signum rimanda alla realtà contenuta al di là delle specie o segno e corrisponde

all’attualizzazione effettiva del sacrificio di Cristo nell’azione eucaristica e alla presenza reale del suo

corpo e del suo sangue nell’eucaristia;

• la res tantum costituisce la grazia che deriva dall’incon- tro/comunione con il Signore

Gesù e dall’incorporazione alla sua Chiesa, evocati dagli elementi stessi consacrati e operati dalla

partecipazione al corpo e sangue di Cristo.465

L’attenzione tende a spostarsi sul secondo e terzo elemento, la res et signum e la res tantum,

con un’involontaria accentuazione del contenuto sacrificale e individuale dell’azione eucaristica.

Mentre infatti, fino ad allora, gli effetti di grazia nell’eucaristia erano riferiti al dono dello Spirito

Santo e il corpus Christi eucaristico era considerato in relazione con il corpus ecclesiale, adesso ci si

concentra prevalentemente sulla memoria del sacrificio di Cristo e sul rapporto del corpus Christi,

singolarmente percepito, e il comunicando. L’eucaristia viene qualificata sempre più decisamente

come il corpus verum, la Chiesa come il corpus mysticum, in una sorta di prospettiva parallela che

modifica la visione neotestamen- traria e patristica di un’ecclesiologia radicalmente eucaristica;

modificazione che rimarrà fino alle soglie del Vaticano II466

Non meno rilevante è la sempre più accentuata formalizzazione ieratica della celebrazione

della messa: la preghiera eucaristica viene detta in silenzio, si moltiplicano gli altari privilegiati, la

comunione è sotto una sola specie ed è talmente rara che il concilio Lateranense IV del 1215 arriva a

prescriverne l’obbligo almeno una volta all’anno, sotto pena di privazione della sepoltura

ecclesiastica. La negazione di Berengario e la sua condanna suscitano, d’altra parte, una forte reazione

di fede nel popolo cristiano che spinge a una venerazione sempre più accentuata del Santissimo

Sacramento, in collegamento anche ai diversi «miracoli eucaristici» che l’accompagnano. Non

mancano, in questo sviluppo, atteggiamenti di ambigua devozione: i fedeli accorrono in chiesa per

«vedere l’ostia» più che per fare la comunione; si prolunga l’elevazione del pane consacrato, con

l’attribuzione a essa di guarigioni e prodigi. È in questo clima che si concretizza la festa del Corpus

Domini stabilita da Urbano IV con la bolla Transiturus de hoc mundo del 1264, mentre resta vivo il

dibattito sulla questione della transustanziazione. Già qualche autore aveva utilizzato le categorie di

materia e forma per designare il segno sacramentale dell’eucaristia. La riflessione della scolastica

procede nella medesima direzione, introducendo una più chiara distinzione tra il subiectum della

materia inteso come sostanza che cambia nell’atto di consacrazione eucaristica e le proprietà o

«accidenti» che permangono (accidentes) al di là del cambiamento avvenuto; distinzione che viene

ulteriormente approfondita dalla recezione dell’ilemorfismo aristotelico, dopo il 1200, come risulta

dal Commentario alle Sentenze di Alessandro di Hales. La transustanziazione è allora definitivamente

compresa come il passaggio, a livello metafisico, dell’miera sostanza - e soltanto della sostanza del

pane e del vino, rimanendo intatte le loro qualità fisiche - nell’intera sostanza del corpo e del sangue

di Cristo. Una convinzione condivisa da tutti i grandi teologi del tempo, da Alberto Magno a Tom-

maso d’Aquino a Bonaventura e a Riccardo di Mediavilla. Guglielmo di Champeaux, fondatore della

scuola dei Vittorini, è il primo a nominare tutti i momenti che fanno parte del contenuto sacramentale

della presenza reale: corpo, sangue, anima, divinità. Quasi subito si elabora il concetto di

concomitantia in forza delle parole della consacrazione e si legittima la presenza oggettiva del totus

Christus in ognuna delle due componenti e in ogni parte di ciascuna.467 Dalla presenza di Cristo

464 Summa Seni. 6,3 (PL 176,140); PIETRO LOMBARDO, IV Sent. 8, c.7. 465 Ugo di San Vittore preferisce designare i tre livelli con le dizioni di: species (segno), veritas (realtà), virtus (potenza). A riguardo,

cf. H.R. SHLETTE, «Die Eucharistielehre Hughos von St. Viktor», in Zeitschrift für Katholische Theologie 81(1959), 67-100; 163-210. 466 Per una più ampia analisi, cf. B. FORTE, La chiesa nell’eucaristia. Per un’ecclesiologia eucaristica alla luce del Vaticano II,

Napoli 1988. 467 Cf. J. BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in J. FEINER - M. LÖHRER (edd.), Mysterium salutis, Queriniana, Brescia

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secundum modum substantiae, san Tommaso d’Aquino riesce a trarre tutta una serie di conseguenze

che costituiranno la matrice di gran parte dell’inse- gnamento eucaristico successivo.

Una teologia radicalmente fondata sul rapporto Cristo-eucaristia come sacrificio e come

presenza reale; meno sul rapporto Spirito Santo- eucaristia ed eucaristia-Chiesa. Il corpo di Cristo è

presente con le sue proprietà essenziali (intrinseca accidentia), in forza di un’effettiva concomitanza

(vi realis concomitantiae), non alla maniera dell’estensione locale, ma per modum substantiae:

personaliter, e non semplicemente localiter, in rapporto alle species del pane e del vino, e come

evento di «incontro» per noi e per la nostra salvezza.468 L’idea fondamentale è data dall’identità

sostanziale dei doni consacrati con la persona fisica di Gesù, e comporta quindi l’affermazione del

fatto oggettivo della presenza di Cristo grazie alla conversione da sostanza a sostanza. Non manca chi

ritiene, in linea con Tommaso e Bonaventura, che la trasformazione per modum substantiae

rappresenti una verità di fede. Non così riguardo al modo della presenza per il quale non si invoca la

fede, ma piuttosto la ragione.469

Meno dibattuta è la questione della natura sacrificale della messa come atto che rende partecipi

la Chiesa e i fedeli del sacrificio unico di Cristo. Secondo Alberto Magno, la messa è memoriale

amarissimae passionis Christi et transitus Christi ex hoc mundo ad Patrem?470 spiritualis mactatio

et immolatio.471 Secondo Tommaso, il sacrificio eucaristico della Chiesa si identifica con il sacrificio

di Cristo e costituisce la memoria attualizzante della passio Christi472 Alla croce fanno riferimento

non soltanto i particolari del rito, specie con il segno della croce, ma soprattutto la consacrazione e la

struttura stessa del sacramento eucaristico in quanto commemorazione dell’unico sacrificio vissuto

dall’unico offerente sul Golgota (ipse of- ferens, ipse et oblatio). In forza dell’atto sacramentale, le

sostanze del corpo e del sangue del Redentore sono presenti l’una separata dall’altra a significare la

separazione delle medesime realtà nella morte di Gesù. In questo modo, l’identità sacrificale della

messa viene ancorata alla significazione dei doni e al loro essere divisi.473 È per questa via che

Tommaso radica il sacrificio della croce nella consacrazione eucaristica in quanto presenza, vi

verborum, dell’«una volta per sempre» della passione del Redentore.

2.4. TARDO MEDIOEVO E NOMINALISMO

L’epoca che segue alla grande scolastica ritiene i dati acquisiti finora (sulla presenza reale e

il carattere sacrificale della messa) come dati incontestabili, ma nell’interpretazione non mancano

teologi che seguono vie abbastanza diverse da quella di Tommaso e si perdono in teorie spesso

marginali. Un interrogativo, in particolare, occupa l’attenzione dei teologi: che cosa ne è delle

sostanze naturali del pane e del vino dopo la consacrazione! Nella ricerca di una risposta si possono

individuare almeno quattro teorie. 1) Teoria della trasformazione : le sostanze del pane e del vino,

dopo la consacrazione, si dissolvono negli elementi del corpo e del sangue di Cristo, acquistandone

la forma, come avviene per le gocce in un oceano (teoria già sostenuta nella prima scolastica da

Guglielmo di Thierry e ripresa dopo il XIII secolo da qualche altro autore). 2) Teoria della

consustanziazione: in forza della consacrazione si realizza una coesistenza o co-presenza del corpo e

sangue di Gesù con le sostanze degli elementi del pane e del vino (teoria già sostenuta nella scolastica

e respinta da Alberto Magno e Bonaventura, ma che riceve in questo tempo un nuovo impulso). 3)

Teoria dell’annichilazione: in opposizione alla precedente, si spiega che, con la consacrazione, le

sostanze degli elementi del pane e del vino scompaiono in forza della presenza della sostanza del

corpo e sangue di Cristo; una teoria che Tommaso aveva già respinto come teologicamente

31982, Vili, 289-293. 468 STh III, q. 76, a. 3. 469 STh III, q. 75, a. 3. 470 De corp. Dom., d. 2 tr. II c. 4,2. 471 De corp. Dom., d. 3 tr. Ili c. 2,3. 472 STh HI, q. 22, a. 3, ad 2; q. 83, a. le. 473 STh III, q. 83, a. 5, ad 3-9.

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inaccettabile,474 ma che risorge col nominalismo. Guglielmo di Ockahm, in particolare, la fa propria

e la divulga con forza. Anche per Gabriele Biel la transustanziazione dovrebbe essere intesa come

una cessazione della sostanza del pane e del vino, anche se a tale cessazione consegue un’entità

positiva, non un mero annientamento. 4) Teoria dell’adduzione o transustanziazione vera e propria:

se per Tommaso la consacrazione è il passaggio diretto della sostanza del pane in quella del corpo e

sangue di Cristo, Giovanni Duns Scoto muove dal corpo preesistente del Risorto in cielo che, nel

sacramento dell’altare, non riceve un nuovo esse simpliciter, ma un nuovo esse hic che sostituisce

l’essere-qui della sostanza del pane e del vino. In questo senso la transustanziazione assume l’attributo

di adductiva, in quanto il punto finale della trasformazione non è il nulla, ma il corpus et sanguis

Christi come nuova forma di essere fondante la presenza reale del Signore nell’eucaristia 475

3. La Riforma e il concilio di Trento

Le quattro teorie a cui si è fatto riferimento, se rivestono un qualche interesse di ordine

speculativo, non fanno compiere progressi realmente significativi alla teologia eucaristica. Appare

chiaro, anzi, come l’indirizzo della riflessione si sia in pratica ridotto solo o quasi solo alla questione

della transustanziazione, in un orizzonte concettuale scarsamente fecondo. Il significato storico-

salvifico dell’atto celebrativo risulta per lo più trascurato o comunque non particolarmente

valorizzato. Minimo è il coinvolgimento dei fedeli alla messa e la frequenza alla comunione euca-

ristica. È inevitabile l’impressione che la dottrina della Chiesa abbia assunto un carattere lontano dalla

concezione biblica e venga mantenuta solo con l’autorità del Magistero, senza parlare di alcuni

eccessi liturgici in atto da tempo, con la ricerca smodata di meriti per sé e per i defunti, abusi nella

richiesta di indulgenze, esteriorismi liturgici, e così via. È in questo quadro, non certo particolarmente

positivo, che prende origine, e trova il suo alveo, il movimento della Riforma, con le aspre

contestazioni che muove alla prassi celebrativa della messa per giungere fino al cuore dell’ortodossia

della fede.

3.1. POSIZIONE DEI RIFORMATORI

L’eucaristia, come è noto, è oggetto di dure lotte da parte degli oppositori. Non è soltanto la

forma celebrativa della Messa, ma la stessa idea cattolica di essa come sacrificio e come presenza

reale a sollevare il rifiuto, muovendo dai tria sola tipici del protestantesimo : sola Scriptu- ra/sola

fide/sola grafia. Considerare il sacramento dell’altare come il sacrificio che la Chiesa offre equivale,

secondo i riformatori, a sostenere una dottrina estranea alla rivelazione, che mette avanti un’opera

buona dei cristiani e annulla il senso stesso dell’essere salvati per pura grazia da Dio. Su questo

aspetto i protestanti - da Lutero a Zwingli a Calvino e altri - si trovano d’accordo, respingendo con

forza l’identità sacrificale della messa e presentando posizioni diversificate, ma sostanzialmente

negative, sul senso della presenza reale di Cristo nell’eucaristia.

Martin Lutero considera l’eucaristia come summa et compendium Evangelii e ritiene la

presenza corporale di Cristo come una presenza prò nobis, in continuità con la sua incarnazione. Egli

ne sostiene la realtà e la riconosce come dono di remissione dei peccati, considerata da lui come il

frutto centrale della santa cena. Secondo Lutero Yest dei racconti dell’istituzione va compreso come

simultaneità tra presenza di Cristo e consacrazione eucaristica. Si scosta dalla dottrina cattolica

quando, nella sua spiegazione, fa propria l’idea - già presente in ambito teologico - di una

consustanziazione, rifiutando invece quella della transustanziazione. In base a tale idea, egli ritiene

che il pane e il vino rimangano nella loro consistenza, formando un’unità sacramentale con il corpo

e il sangue di Cristo; un’unità di coesistenza legata però unicamente all’atto/momento della

celebrazione come unio sacramentalis finalizzata aìYactio e aìYusus, non alla permanenza. Per questo

motivo, si deve evitare - secondo Lutero - l’adorazione dell’eucaristia, vista come un gesto di

474 STh III, q. 75, a. 3. 475 Cf. BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in FEINER - LÖHRER (edd.), Mysterium salu- tis, VIII, 293-304.

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idolatria. La durata della presenza reale si estende fino al momento della sumptio o consumazione

delle particole rimaste, non al tempo che segue. Nei confronti del carattere sacrificale della messa,

Lutero afferma un «no» deciso e intransigente, in quanto un simile carattere sconvolgerebbe il senso

fondamentale dell’istituzione e falserebbe il dono che Dio ci ha fatto, trasformandolo in una

prestazione di carattere umano che esclude la natura di puro dono della grazia e della salvezza.

L’eucaristia può essere considerata un ricordo della santa cena e una memoria passionis Christi, ma

non una sua rinnovazione operata dalla comunità che renderebbe presente l’unico e irripetibile

sacrificio di Cristo.476

Ulderico Zwingli elabora la sua prospettiva a partire dall’idea che la santa cena sia solo una

commemorazione comunitaria per l’azione sacrificale compiuta un tempo sulla croce; azione storica

di Gesù che non può essere ripetuta o attualizzata. Zwingli esclude quindi che l’eucaristia possa avere

un contenuto sacrificale oggettivo. La messa non è un sacrificio, né può esserlo. Quanto alla presenza

eucaristica di Cristo, essendo il corpo di Gesù eternamente localizzato in cielo con l’ascensione, non

può rendersi realmente presente in terra nel pane. I doni della santa cena non sono il corpo di Cristo,

ma unicamente il suo ricordo e un richiamo simbolico per la fede dei battezzati. Uest dell’istituzione

va inteso in un’accezione solo metaforica. Il Christus totus diviene presente nell’anima mediante

l’atto della fede. Per Zwingli, edere corpus Christi significa credere corpus Christi, facendo memoria

dell’ultima cena vissuta da Gesù con i suoi, senza pensare a una sua presenza reale.477

Giovanni Calvino cerca di operare una sintesi tra Lutero e Zwingli. Collegandosi ad Agostino,

egli non accetta l’idea di un’identità sostanziale e parla invece di una corrispondenza analogica tra il

segno e la realtà, affermando la possibilità di una partecipazione del credente al corpo e al sangue di

Cristo significata dal sacramento dell’eucaristia. Ciò significa che la santa cena non è un «mezzo di

grazia», né può esserlo, ma non è neppure un segno vuoto o senza alcun significato; costituisce come

un segnale, un indice, che rende certi dell’azione predestinante di Dio per coloro che sono chiamati

alla salvezza. È da considerare invece come perversa superstitio ogni forma di adorazione eucaristica.

Uest dei racconti istitutivi va letto in un senso unicamente allegorico, non identificativo o oggettivo.

La partecipazione al corpo celeste di Cristo di cui l’eucaristia è simbolo è prodotta dallo Spirito Santo,

in essa però non riceviamo la caro Christi ipsa, ma la vita che scaturisce dalla sua redenzione operata

sulla croce una volta per sempre. Ciò, tuttavia, vale solo per i credenti eletti da Dio; non si può invece

pensare a una manducatio impiorum 478 Come si vede, attribuire a Calvino una «presenza pneumatica

di Cristo nella santa cena» non è corretto, dal momento che non si tratta di una presenza reale in senso

cattolico. Nella concezione cattolica non si intende solo una presenza di Cristo operata dallo Spirito

Santo nel cuore dei credenti, ma di una realtà oggettiva in forza della trasformazione del pane e del

vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo.479

3.2. DOTTRINA DI TRENTO

La forte reazione cattolica alle posizioni della Riforma si concentra soprattutto sui punti messi

in discussione: il concetto della messa come sacrificio, la presenza reale di Cristo nell’eucaristia

(fatto e modo) e la comunione.

Quanto alla messa come sacrificio, la via di risposta era sottesa alla contestazione stessa

avanzata dai riformatori in base alla quale affermare che l’eucaristia fosse un sacrificio sarebbe stato

come annullare o deprezzare la morte di Cristo e la sua valenza salvifica unica. Dinanzi a questa

476 L’opera maggiore di LUTERO, in questo campo, è il De captivitate babylonica ecclesiae pre- ludium del 1520. Per uno sguardo

generale alla sua concezione, cf.: H. PETERS, Realpräsenz. Luthers Zeugnis von Christi Gegenwart im Abendmahl, Berlin 1966 e H.B.

MEYER, Luther und die Messe, Paderborn 1965. 477 Su Zwingli, cf. in particolare C. GESTRICH, Zwingli als Teologie, Zürich 1967,137ss. 478 Sulla teologia di Calvino, si veda in particolare: W.M. NIELSEN, Die Teologie Calvins, München 1957,210-225; J.

GOTTSCHALK, Die Gegenwart Christi im Abendmahl, Essen 1966,48-64. 479 Cf. H. CHAVANNES, «La présence réelle chez st. Thomas et chez Calvin», in Verbum Caro 13(1959), 151-170.

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accusa, il problema era di mettere in luce l’unità inseparabile che intercorre tra il sacrificio della

croce e la celebrazione della messa. In campo cattolico non esistevano dubbi sul carattere sacrificale

dell’azione eucaristica. La questione era di stabilire come questo carattere si conciliasse con il

sacrificio unico della croce, senza svalutarlo o moltiplicarlo in senso materiale. Tra le spiegazioni

teologiche, emerge quella del teologo pre-tridentino, Caietano: il sacrifico eucaristico è

numericamente identico al sacrificio della croce di Cristo, non ne è una sua ripetizione e neppure un

suo completamento, quasi che esso fosse insufficiente, ma solo e unicamente la sua attualizzazione

nella «memoria» sacramentale della Chiesa e la partecipazione ai frutti che scaturiscono dalla croce.

Il concilio di Trento, nella sessione XXII del 1562, fa propria questa dottrina, affermando come

dottrina di fede l’unità indissociabile che sussiste tra il sacrificio della croce e il sacrificio eucaristico,

nell’identità dell’unico offerente e dell’unica vittima; diverso è solo il modo di offrirsi, là in modo

cruento, qui in modo incruento (Denz 1743).480 II sacrificio della messa non consiste in altro che

neìYoblatio oblationis Christi, un’offerta sacrificale dell’offerta unica di Cristo. Le categorie

utilizzate sono quelle di repraesen- tatio, memoria, applicatio: la messa rende presente l’oblazione

sacrificale stessa di Cristo, ne prolunga la memoria nell’azione celebrativa della Chiesa e ne applica

la sua efficacia salvifica in favore dei credenti, sino alla fine dei tempi (Denz 1740; 1751). La cena

del Giovedì santo è stata l’anticipazione dell’offerta sacrificale che Gesù stava per vivere, in prima

persona, sulla croce. La celebrazione eucaristica rende presente quell’unico evento, comprendente il

ricordo dell’ultima cena e il sacrificio della croce, senza ripeterlo, ma attualizzandolo in forma

sacramentale; in quanto tale, essa non costituisce una diminuzione della morte del Signore, ma la

proclamazione della sua valenza salvifica unica e della sua unicità meritoria (Denz 1754). Il comando

dell’istituzione, l’est di Gesù, significa l’istituzione sia dell’eucaristia che del sacerdozio grazie a cui

la Chiesa può fare memoria della pasqua e, in virtù di ministri ordinati, è abilitata a offrire il corpo e

il sangue di Gesù (Denz 1752). Intesa come sacrificio, la messa è al tempo stesso un atto sacramentale

di carattere redentivo- propiziatorio, oltre che di lode e ringraziamento, e di espiazione per i vivi e i

defunti (Denz 1743; 1753). Altre affermazioni di Trento definiscono la liceità della cosiddetta «messa

privata» e della celebrazione eucaristica in onore dei santi, e difendono sia il canone che la forma

della liturgia utilizzata dalla Chiesa cattolica (Denz 1744-1750; 1755-1759).

Quanto alla presenza eucaristica, il concilio la definisce come vera, reale, sostanziale, e non

soltanto simbolica o metaforica; una presenza oggettiva del corpo e del sangue di Cristo, insieme alla

sua anima e divinità (Denz 1636-1637; 1651); presenza non meramente «funzionale» o legata

unicamente al momento della celebrazione, ma permanente, oltre l’atto comunitario e l’assunzione

delle sacre specie (Denz 1654). I padri tridentini mettono in luce il fondamento ontologico della

presenza reale, riprendendo l’idea della conversione dell’intera sostanza del pane nella sostanza del

corpo e dell’intera sostanza del vino nella sostanza del sangue di Cristo (Denz 1652); e dichiarano

la categoria di «transustanziazione» come particolarmente adeguata a esprimere questa conversione,

e quindi a testimoniare il dogma creduto dalla fede della Chiesa (Denz 1642 e 1652). Come fanno

capire le affermazioni del concilio, con questa categoria si intende affermare il fatto della presenza

reale come dottrina de fide tenenda, senza voler dogmatizzare la concettualizzazione relativa alla

modalità della trasformazione. Lo scopo è quello di delimitare l’ortodossia credente nei confronti

dell’errore, non di decidere su questioni di carattere filosofico-naturale. Muovendo da questa

consapevolezza, il concilio - in linea con san Tommaso - trae molteplici conseguenze logiche dalla

dottrina della presenza reale ad modum substantiae, definendo:

• la presenza del totus Christus in ognuna delle due specie e in ogni parte di esse (Denz

1640-1641 e 1653);

• la durata della medesima extra usum e quindi il dovere di conservare e adorare il Signore

Gesù nell’eucaristia fuori della messa (Denz 1643-1645,1654 e 1656-1657);

• l’assunzione non soltanto spirituale, ma sacramentale di Cristo nella comunione (Denz

1658); 480 Una medesima concezione sarà esplicitata dal Catechismo Romano (II, 4,769) pubblicato dopo Trento.

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• la liceità per il sacerdote di comunicarsi da solo (Denz 1648-1649 e 1660).

Quanto alla comunione eucaristica, il concilio rifiuta la limitazione del frutto dell’eucaristia

alla sola remissione dei peccati e richiama la necessità di una degna preparazione per accostarsi ad

essa, oltre a ribadire il precetto già enunciato dal Lateranense IV di comunicarsi almeno una volta

all’anno (Denz 1664; 1655; 1659). Trento anatematizza, infine, l’affermazione secondo cui per la

salvezza sarebbe necessaria la duplice comunione e definisce il diritto della Chiesa di praticare la

communio sub una specie, data la presenza concomitante del Christus totus sotto ognuna delle due

specie e in ogni loro parte (Denz 1639-1643 e 1651; 1653 e, specialmente, i canoni 1725-1734 dedicati

alla comunione e ai suoi singoli contenuti).

4. Epoca moderna fino a oggi

La dogmatica eucaristica dei secoli successivi viene radicalmente orientata dal Tridentino e

dalla controversia con la Riforma; risulta invece meno caratterizzata dalla vita liturgica e dagli

sviluppi che si fanno avanti, specie con il XVII e XVIII secolo. L’elaborazione del trattato De

Euchari- stia si organizza attorno a tre sezioni fondamentali: presenza reale, sacramento, sacrificio.

L’aspetto di «mensa» rimane in subordine, data l’enfatiz- zazione che ne avevano fatto i protestanti.

Lo stesso per il sacerdozio dei fedeli e il coinvolgimento dell’assemblea nell’azione celebrativa.

Grande sviluppo conoscono invece la pietà e il culto eucaristico fuori della messa.

4.1. IL DIBATTITO POST-TRIDENTINO

Sulla questione della transustanziazione vengono riprese e rielaborate le enunciazioni

dell’alto medioevo. Teologi tomisti come Billuart, F. Suarez, Lessio, Franzelin e altri cercano di

spiegare la trasformazione eucaristica come una productio del corpo già esistente di Cristo, senza che

ciò comporti una sua moltiplicazione, ma piuttosto una sua nuova forma di presenza. Alla base vi è

il concetto di passaggio da sostanza a sostanza acquisito dalla coscienza comune cattolica come dato

praticamente indiscusso. Teologi gesuiti come R. Bellarmino, G. Vàsquez, Gregorio di Valencia

fanno propria invece la teoria scotista dell’adductio, ma spiegando come essa non comporti un

cambiamento di luogo da parte del Signore glorificato, ma un suo nuovo esserci a motivo della

mutazione della sostanza del pane e del vino. Entrambe le teorie rappresentano dei tentativi lodevoli

di esplicitazione del fatto della transustanziazione, ma rimangono ancora insufficienti. Il loro rischio

è anzi quello di voler andare oltre le possibilità stesse della ragione, presumendo di poter valicare le

soglie del mistero o, comunque, di non rispettarlo nella sua peculiare alterità.

Una problematica particolarmente viva riguarda il carattere sacrificale della celebrazione

eucaristica. Il Tridentino, come si è notato, aveva definito come verità di fede che la messa è verum

et proprium sacrificium e insegnato che l’azione eucaristica è una ripresentazione-memoriale-appli-

cazione del sacrificio della croce, e quindi un sacrificio di per sé relativo, non assoluto: relativo

rispetto a quello di Gesù, non avente una ragione in se stesso, ma unicamente nel Cristo offertosi una

volta per sempre, per tutti. La domanda che rimane aperta è la seguente: come si esplica questa

identità sacrificale dell’eucaristia! L’interrogativo presuppone un concetto di sacrificio che, in un

primo momento, viene desunto più dalla fenomenologia religiosa e dal culto veterotestamentario che

dalla novità dell’oblazione unica di Gesù sulla croce. Va in una direzione di questo genere, ad

esempio, Gabriele Vàsquez quando fa risiedere l’essenza del sacrificio nella distruzione totale della

vittima, a motivo del fatto - spiega - che solo così si manifesta il potere assoluto di Dio sulla vita e

sulla morte, trovandosi poi in difficoltà nel momento in cui deve applicare questo concetto alla messa.

E infatti non ci riesce. È chiaro che il concetto di sacrificio come distruzione della vittima vale per il

sacrificio storico di Gesù, ma non per la sua memoria eucaristica. È da questa difficoltà che sgorga la

ricerca di altre forme esplicative della natura sacrificale dell’eucaristia, non sempre sufficientemente

convincenti. Vàsquez, in linea con s.Tommaso, la ricerca nella duplice separazione del corpo e del

sangue: due parti divise come segno di un sacrificio incruento quale è appunto quello eucaristico. Una

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spiegazione scarsamente convincente, anche se sarà ripresa da diversi altri autori e talvolta dagli stessi

documenti della Chiesa. Ciò che si ricerca è soprattutto una «distruzione». Suarez la scorge nella

cessazione delle sostanze degli elementi naturali in forza della transustanziazione. Cano nella frazione

dell’ostia e al suo mescolarsi con il sangue del calice. De Lugo e, più tardi, Franzelin, la individuano

nel dato di fatto che Cristo si uniformi all’umile stato di cibo. Bellarmino la coglie, infine, nella

masticazione dei doni eucaristici al momento della comunione.481

Il problema di fondo, occorre ribadirlo ancora una volta, è dato dalla nozione di sacrificio cui

ci si collega, chiaramente inadeguata. Data la strada imboccata non si potevano avere sviluppi

particolarmente significativi in questo ambito di riflessione. È solo successivamente, con il XVIII e

soprattutto XIX secolo, che le cose cambiano quando ci si comincia a riferire non tanto al concetto

comune di sacrificio quanto al significato unico dell’oblazione di Cristo, ravvisando l’essenza del

sacrificio nell’offerta personale, interiore, vissuta da Gesù sulla croce, di cui la memoria eucaristica

è presenzializzazione sacramentale. È su questa linea che si muovono i maestri dell’École frangaise

e, in modo particolare, V. Thalhofer, il quale parla di un sacrificio eterno di Cristo che dispiega e

continua il suo gesto offertoriale nell’azione celebrativa della Chiesa dove si rende presente in una

forma spazio-temporale data dal sacramento stesso: è il Cristo stesso che, in forza della consacrazione

eucaristica, attualizza l’unico atto interiore oblativo vissuto sulla croce.482 Non mancano su questa

linea autori che spiegano ogni messa come la presenza di un vero sacrificio del Cristo glorificato.483

In modo più dettagliato, M. de la Taille spiega che il sacrificio redentivo di Gesù è già dato in forma

sacramentale nel gesto offertoriale vissuto durante la cena quando presenta ai suoi il pane e il vino

come suo corpo e suo sangue; un gesto offertoriale incruento che si concretizza nell’immolazione

cruenta del Golgota. La memoria eucaristica della Chiesa non fa che perpetuare l’oblazione personale

manifestata da Gesù nella cena e consumata nella sua passione e morte: Gesù si offre al Padre ogni

volta che la Chiesa ne attua la memoria; la Chiesa offre e si offre, coinvolta da quell’unico sacrificio

reso presente in virtù della transustanziazione. È chiaro che, a questo punto, prende campo l’idea di

una morte mistico-sacramentale di Cristo nella messa e, con essa, la comprensione dell’azione

eucaristica come sacramento dell’«una volta per sempre» del sacrificio unico della croce.484 Un

contributo decisivo viene dato, in questo senso, da A. Vonier con il suo studio A Key to thè Doctrine

of thè Eucharist, pubbhcato a Londra nel 1925.485 Specie dopo la sua traduzione in francese, avvenuta

parzialmente nel 1937 e, in modo completo, nel 1942, il libro avrà grandi risonanze, mostrando come

la soluzione della questione eucaristica non potesse essere ricercata che nel concetto di sacramento

riferito alla singolarità irripetibile del sacrificio di Gesù. La messa non è un sacrificio naturale, ma

il sacrificio di Cristo in forma sacramentale. Vonier approfondisce, in questa linea, come l’eucaristia,

in quanto sacramento della nuova legge, sia segno della passione dell’Unigenito di Dio e della sua

glorificazione. Per il fatto che l’eucaristia significa e contiene la morte di Cristo (il Christus passus),

rende presente il Signore Gesù stesso nel gesto della sua unica ed eterna oblazione al Padre; ciò è

possibile in forza di un atto sacramentale quale è appunto la «memoria eucaristica». Indubbiamente

la questione aveva bisogno di ulteriori chiarificazioni, ma pur nel modo in cui era stata formulata

aveva il merito di aver spostato l’attenzione dalla problematica delle teorie classiche al rapporto tra

l’evento unico della pasqua e la sua celebrazione eucaristica.486 Uno sviluppo teologico notevole che

rimarrà acquisito fino a oggi.

All’evoluzione di questa dottrina corrisponde un significativo incremento della prassi

481 Su queste diverse posizioni, cf. BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in FEINER - Löh- RER (edd.), Mysterium

salutis,~VIII, 313-315. 482 V. THALHOFER, Das Opfer des alten und des neuen Bundes, Regensburg 1870. Sostengono un’analoga posizione diversi altri

autori tra cui J.A. Mölher, H. Klee, M. Lepin. 483 Già Suarez e i salmanticesi si erano orientati verso una simile teoria. Cf. R. GARRIGOU- LAGRANGE, De eucharistia, Torino

1944,290-300. 484 M. DE LA TAILLE, Mysterium Fidei, Parigi 1931. 485 A. VONIER, La chiave della dottrina eucaristica, Milano 1955. 486 L’esplicazione di Vonier venne condivisa da molti autori, tra cui C.-V. HÉRIS, Le mystère du Christ, Paris 1927 e A. MICHEL,

«Messe», in DThC, X, 1143ss.

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eucaristica e del culto della presenza reale di Cristo fuori della messa. La pietà appare profondamente

orientata all’adorazione del Signore e il tabernacolo acquista una posizione particolarmente

dominante nell’architettura delle chiese e nel contesto della preghiera delle comunità. A causa del

giansenismo, si verifica tuttavia un nuovo arresto nella frequenza alla comunione eucaristica. Solo

chi si sente perfettamente a posto può accostarvisi; il che allontana un gran numero di fedeli dal

banchetto del corpo e del sangue di Cristo. Un rilancio importante in questo ambito è rappresentato

dal decreto del 1905 di Pio X sulla comunione, il quale stabiliva come scopo essenziale dell’azione

eucaristica la santificazione dei battezzati e incoraggiava quindi i cattolici alla comunione quotidiana.

Data la polemica antiprotestante, si accentua invece la figura dominante della ministerialità del

sacerdote consacrante; meno il sacerdozio comune dei fedeli: che l’assemblea concorra all’offerta del

sacrificio in virtù del sacerdozio battesimale è un’idea scarsamente presente nella coscienza comune

di questo periodo. Sarà solo con il Vaticano II e il post-concilio che si verificherà una svolta in questa

direzione e l’assemblea dei fedeli tornerà a occupare il ruolo che le compete.

4.2. LA RIFLESSIONE DEL XX SECOLO

L’impostazione controversista che domina l’orizzonte del XIX e della prima parte del XX

secolo viene violentemente messa in discussione dal modernismo, fin dai primi decenni del secolo

scorso. Il pensiero del modernismo riprende e ripropone buona parte delle tesi dei riformatori e della

teologia liberale protestante, contestando in modo radicale, oltre all’identità della Chiesa e della fede,

il carattere sacrificale della messa, la presenza reale di Cristo nell’eucaristia e il culto eucaristico fuori

della messa. La forte presa di posizione della Chiesa, con il decreto Lamentabili e l’enciclica Pascendi

del 1907 di Pio X,487 se per un verso contribuisce a ribadire i punti fermi della dottrina eucaristica

della Chiesa in un rinnovato contesto di tomismo, per l’altro mette in moto tutta una serie di studi

storici, biblici e di teologia sacramentale finalizzati a mostrare la peculiarità del cristianesimo e dei

suoi mysteria fidei che, sia pure lentamente, condurranno a una rilettura rinnovata e più ricca del

mistero eucaristico.

La prima spinta innovativa non è venuta dalla speculazione, ma dal movimento liturgico.

Partito da istanze pastorali, il movimento ha contribuito a riscoprire come il sacramento - e quindi

l’eucaristia - non sia soltanto un mezzo oggettivo di grazia, ma Vagire salvifico personale di Cristo:

incontro con il Redentore e attuazione della sua opera di salvezza. A questo primo sviluppo, si è

affiancata la rinnovata ricerca esegetica, storico-patristica e storico-liturgica, che ha condotto in

modo sempre più marcato a una rilettura dei sacramenti e dell’eucaristia sia in chiave anamne- tico-

salvifica, in linea con la tradizione patristica greca, sia in chiave personalista, in corrispondenza con

lo sviluppo del pensiero dialogico portato avanti da diverse correnti moderne di pensiero. Un

particolare contributo è stato offerto, in campo teologico, da Odo Casel il quale ha fornito un

fondamentale apporto per la riscoperta della liturgia come presenza dell’azione salvifica della pasqua

sotto il velo dei simboli e per un recupero della partecipazione attiva dei fedeli al sacrificio

eucaristico, il cui compimento implica la comunione come atto integrante. Sviluppi che ricevono la

loro conferma ufficiale grazie a Pio XII con l’enciclica Media- tor Dei del 1947 dove si dichiara che

l’eucaristia è la continuazione del sacrificio della croce di Cristo: memoria della sua morte e

risurrezione e partecipazione al mistero pasquale, da vivere nella fede.488

4.3. Il CONCILIO VATICANO II

Il Vaticano II ha saputo fare tesoro delle istanze in atto nella comunità cattolica, facendole

proprie, in una sintesi di alto livello, ancora non del tutto recepita sia a livello di riflessione teologica

che di prassi liturgica. Due tematiche, per quanto ci riguarda, sono fondamentali: l’eucaristia nel

contesto della liturgia della Chiesa come fons et culmen del settenario sacramentale e Pinserimento

della celebrazione eucaristica nella Chiesa come popolo sacerdotale.

487 Cf. rispettivamente: Denz 3401-3466 e Denz 3475-3500. 488 Per ulteriori ragguagli su questi sviluppi, cf. C. ROCCHETTA, Sacramentaria fondamentale. Dal «mysterion» al «sacramentum»,

Bologna 31999, specie 346-372. Per l’opera di O. CASEL, cf. ibidem, 360-362.

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Liturgia, eucaristia, sacramenti e sacramentali. L’economia sacramentale vive all’interno

dell’esperienza liturgica della Chiesa. L’eucaristia ne è il centro. Già la struttura della costituzione

Sacrosanctum conci- lium è indicativa: dopo il proemio, un’ampia sezione è dedicata alla liturgia

come sorgente e vertice della vita della Chiesa (c. I); si passa poi a trattare il mistero eucaristico,

cuore della fede della comunità e della sua economia sacramentale (c. II), e subito dopo i sacramenti

e i sacramentali (c. III), per analizzare infine la liturgia delle ore, il tempo liturgico, la musica e l’arte

sacra (cc. IV-VII). L’eucaristia, i sacramenti e i sacramentali appaiono inseriti in pieno nella vita

liturgica della Chiesa grazie alla quale, come dice la costituzione, «si attua l’opera della nostra

redenzione» e si vive il mistero della pasqua (SCI). Il soggetto originario dell’a- gire liturgico della

Chiesa è il Signore Gesù, eternamente risorto e vivente nella comunità dei suoi. La liturgia si connota

come sua presenza storica, secondo modi e livelli diversi (SC 1). Il centro di queste diverse modalità

di presenza è il mistero eucaristico nel quale si perpetua la memoria della morte e risurrezione di

Cristo, fino alla parusia finale, si riconosce il Kyrios e lo si adora (SC 47).

Attorno all’eucaristia, si pongono i sacramenti e i sacramentali; per mezzo di entrambi, seppur

a diversi livelli e con differente efficacia, si attua l’unico evento della redenzione nella prospettiva

della piena riconduzione di tutto sotto la signoria di Cristo, allorché la Chiesa intera parteciperà

all’inno che viene eternamente cantato nelle sedi celesti (SC 59- 60). La Parola rivela questa presenza

del Risorto fra i suoi e la dispiega. Il riunirsi celebrativo dei fedeli obbedisce alla medesima

consapevolezza. Analogalmente ai sacramenti, i sacramentali manifestano e, per l’impetrazione della

Chiesa, significano una consecratio mundi già in atto, seppure all’interno del «Teo-dramma» che, nel

tempo tra le due venute, pervade ancora la storia. A partire dall’eucaristia, dai sacramenti e sacra-

mentali, tutta la liturgia - dalla preghiera alla dedicazione delle persone e delle realtà del creato a Dio

- diviene azione indirizzata alla santificazione della vita umana e del cosmo. È a questo livello che la

liturgia ricupera gli stessi ritmi naturali del giorno, della settimana e dell’anno (con la liturgia delle

ore, la domenica e l’anno liturgico) e dello spazio (con l’edificio del culto, l’arte sacra, la musica) e

li santifica come «germe e inizio», nella città dell’uomo, del Regno escatologico inaugurato dal

Signore glorioso (SC 83-85; 102-106; LG 5).

La liturgia dei sacramenti e dei sacramentali offre ai fedeli ben disposti la possibilità di

santificare quasi tutti gli avvenimenti della vita per mezzo della grazia divina che fluisce dal mistero

pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo; mistero dal quale derivano la loro efficacia

tutti i sacramenti e i sacramentali. E così quasi ogni uso retto delle cose materiali può essere

indirizzato alla santificazione dell’uomo e alla lode di Dio (SC 61).

L’universo liturgico rappresenta, in questo quadro, il recupero simbolico della condizione

originaria dell’Eden e, al tempo stesso, il preannuncio/ anticipazione della Gerusalemme celeste (SC

8).

L’eucaristia, centro del popolo sacerdotale. Qualificando la liturgia «come l’esercizio del

sacerdozio di Cristo» (SC 7), la Sacrosanctum con- cilium aveva già aperto la strada

all’approfondimento che viene svolto nella Lumen gentium, specialmente ai numeri 10-11. Scelto tra

i popoli della terra, il nuovo popolo di Dio si presenta come un popolo sacerdotale: un popolo

interamente dedicato a Dio, chiamato a proclamare le sue grandi opere come «sacramento di

salvezza» per l’intero genere umano. Il paragrafo 10 descrive come il sacerdozio appartenga all’intero

popolo di Dio. Il paragrafo è suddiviso in due parti: nella prima, si evocano le numerose attestazioni

neotestamentarie nelle quali la Chiesa è qualificata come «un regno di sacerdoti» e un «sacerdozio

santo»; nella seconda, si approfondisce la natura di questo sacerdozio, presentandolo come parte-

cipazione al sacerdozio unico di Cristo e spiegando come esso supponga due forme reciproche, seppur

distinte, di attuazione: il sacerdozio comune che sgorga dal battesimo e il sacerdozio ministeriale che

deriva dal sacramento dell’ordine. Pur preoccupandosi di affermare che le due forme si distinguono

non solo di grado ma essenzialmente, l’accento del paragrafo è posto sull’unità di un sacerdozio che

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appartiene a tutta la Chiesa e la fonda come comunità radicalmente sacerdotale. Il sacerdozio

ministeriale è anzi a servizio del sacerdozio comune, in una corrispondenza ontica reale. Non si tratta,

come è ovvio, di confondere le due forme di sacerdozio o di pensare che il sacerdozio ministeriale

non sia essenziale; si tratta invece di reagire a un esclusivismo che rischiava di ridurre il ruolo

dell’assemblea dei fedeli a una semplice cornice esterna, quasi che i battezzati partecipassero

all’attuarsi dell’evento sacramentale solo con gesti esteriori, assistendo, come si usa dire, senza essere

strutturalmente coinvolti nel compiersi dell’atto sacramentale. Nell’eucaristia, il ministero del

vescovo o del presbitero è assolutamente insostituibile; ma ciò non vuol dire che i fedeli siano degli

spettatori o solo dei beneficiari di qualcosa che si svolgerebbe al di fuori o al di sopra di loro; i

battezzati costituiscono in realtà un’assemblea con il ministro ordinato (benché necessariamente per

mezzo di lui) che partecipa alla grande offerta di Cristo al Padre. Il fedele non comunica a un sacrificio

che solo il presbitero offre; egli partecipa a un evento che l’assemblea intera celebra mediante il

ministero del sacerdote. Questo aspetto, espresso implicitamente nella conclusione del paragrafo 10

della LG, è chiarissimo neìYIn- stitutio generalis del Messale Romano promulgato nel 1969 da Paolo

VI: la celebrazione eucaristica, centro di tutta la vita cristiana, è definita come «azione di Cristo e del

popolo di Dio, gerarchicamente ordinato» (IGMR 1). Il paragrafo 11 della LG considera l’eucaristia

in relazione al popolo sacerdotale sotto un triplice aspetto:

• è «fonte e apice» della vita cristiana, evocando come la Chiesa sia una comunità

essenzialmente eucaristica (come sarà più ampiamente spiegato in LG 26 in relazione alla Chiesa

particolare);

• tutti i battezzati, «partecipando al sacrificio eucaristico, offrono a Dio la vittima divina

e se stessi insieme con essa», sicché ognuno, fedeli e ministro, manifesta e attua la propria parte nel

compimento della celebrazione dell’eucaristia;

• la mensa eucaristica esprime, nel massimo grado, la comunione del popolo di Dio, la

compie e la produce, secondo la concezione patristico-agostiniana dell’eucaristia come sacramento

di unità (LG 26).

4.4. TEORIE POST-CONCILIARI

Partendo dalla riscoperta del pensiero simbolico, alcuni autori hanno cercato di rileggere il

dogma della presenza reale in una chiave più esistenziale rispetto a quella cosiddetta «sostanzialista»

della tradizione. Riprendendo il principio di Tommaso secondo cui «sacramentum ponitur in genere

signi»,489 essi intendono interpretare il mistero eucaristico in rapporto al concetto di significato e

funzione nuova che i doni del pane e del vino acquistano dopo la consacrazione. In quanto simboli,

i doni consacrati subiscono un cambiamento di significato e di finalità, più che di natura o essentia;

di qui la terminologia di «transignificazione» e «transfinalizzazione» in luogo di quella di

«transustanziazione». La dogmatica tradizionale aveva considerato il significato dei segni del pane e

del vino nella cena sotto l’aspetto ontologico-naturale, prima e dopo la consacrazione. Nella nuova

interpretazione la loro novità di contenuto deriva dall’insieme dell’evento celebrato: se in se stessi gli

elementi del pane e del vino sono dei semplici mezzi di nutrizione, in forza dell’azione eucaristica

divengono segno e strumento dell’auto dedizione di Cristo ai suoi nella sua carne e nel suo sangue e

quindi segno dell’incontro personale del Risorto con i suoi. Più che ontologicamente, il cambiamento

va inteso in senso dinamico-funzionale, prò nobis, per noi e per la nostra salvezza.

Il primo a elaborare questa concezione sembra sia stato J. de B aciocchi, in Olanda,490 ripreso

da altri autori nordeuropei.491 Pare essere orientata in questa linea la spiegazione che sarà data qualche

anno più tardi dal Catechismo olandese: «La proprietà o l’essere delle cose materiali con- sistr in 489 STh, q. 60, aa. 1-3. 490 J. DE BACIOCCHI, «Le mystère eucharistique dans les perspectives de la Bible», in Nouvelle revue théologique 77(1955), 561-

580; ID., «Présence eucharistique et transsubstantiation», in Irénikon 33(1959), 139-164. 491 Per uno sguardo di sintesi, cf. E. SCHILLEBEECKX, La presenza eucaristica, Roma 1968; e J. POWERS, Teologia eucaristica,

Brescia 1969.

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ciò che esse sono per l’uomo, ciascuna a modo suo. Così, per noi la proprietà del pane è di essere

nutrimento terrestre per l’uomo. Nel pane della messa, questo essere diviene qualcosa di totalmente

diverso: il corpo di Gesù come nutrimento per la vita eterna».492 Nel quadro di una simile concezione,

nella consacrazione eucaristica, si danno dei mutamenti di senso, ma senza che ciò comporti una

trasformazione nell’essere stesso delle realtà del pane e del vino. I concetti di transignificazione e di

trans- finalizzazione equivarrebbero, secondo i sostenitori di queste teorie, a quello di

transustanziazione. Ma è proprio qui il punto di rottura critica. Le due forme di cambiamento non

sono affatto eguali o equivalenti. La prima è legata alla soggettività della persona e della fede: sono

io, come singolo e come comunità, che - in forza dell’azione celebrativa - conferisco un nuovo

significato agli elementi del banchetto eucaristico; la seconda all’oggettività delle realtà che entrano

in gioco; le realtà subiscono un cambiamento interno, nella loro sostanza, e non solo sul piano della

mia adesione. Nel concetto di transignificazione e transfinalizzazione il rischio è che la presenza reale

svanisca come presenza reale. Va in questa linea la critica alle nuove teorie avanzata da C. Colombo,

il quale si collega al concetto di sostanza per mostrare come il cambiamento debba essere inteso in

un senso oggettivo; certo non a un livello fisico-chimico, ma metafisico, da sostanza a sostanza,

ribadendo in questo modo la dottrina classica e specificandola.493

Il risvolto positivo della discussione è di aver evidenziato la dimensione personalistico-

relazionale della presenza di Cristo nell’eucaristia: il Signore Gesù si rende presente nei

simboli/segni sacramentali eucaristici per incontrarsi con noi: come Qualcuno, non come qualcosa.

L’essenziale è non separare nell’eucaristia Vesse-pro-nobis àzll’esse-in di Cristo. Infatti, solo se la

presenza del Kyrios è un in sé, al di là degli elementi visibili, può essere un per-noi, e l’incontro col

Cristo eucaristico viene sottratto all’arbitrio soggettivo, agli alti e bassi della sola attualità della fede.

Sussiste una precedenza ontologica della transustanziazione senza cui non è possibile parlare di

transignificazione e tranfinalizzazione. È entro queste preoccupazioni che si muove Paolo VI

nell’enciclica Mysterium fidei del 1967 quando afferma un legame causale tra transustanziazione e

presenza di Cristo, lasciando intendere come solo per questa via si possa parlare di nuovo significato

e nuova finalità assunti dagli elementi eucaristici, mentre non è vero il contrario. La stessa verità

viene ribadita con forza nella professione di fede proclamata dallo stesso pontefice il 30 giugno 1968

alla chiusura dell’anno della fede:

Noi crediamo che la messa, celebrata dal sacerdote che in virtù del potere ricevuto nel

sacramento dell’ordine rappresenta la persona di Cristo e da lui offerta nel nome di Cristo e dei

membri del suo Corpo mistico, è il sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri

altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell’ultima cena sono stati

convertiti nel suo corpo e nel suo sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla croce,

allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel corpo e nel sangue di

Cristo gloriosamente regnante nel cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto

quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale.

Pertanto Cristo non può essere presente in questo sacramento se non mediante la conversione nel suo

corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo sangue della realtà stessa del vino,

mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale

conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione.

Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in

accordo con la fede cattolica, deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal

nostro spirito, il pane e il vino hanno cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel

momento sono il corpo e il sangue adorabili del Signore Gesù ad essere realmente dinanzi a noi sotto

le specie sacramentali del pane e del vino, proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in

nutrimento e per associarci all’unità del suo Corpo mistico. L’unica ed invisibile esistenza del Signore

glorioso nel cielo non è moltiplicata, ma resa presente dal sacramento nei numerosi luoghi della terra

492 II Nuovo Catechismo Olandese, Leumann (TO) 1969,55-60; A AS 60(1968), 689. 493 C. COLOMBO, «Teologia, filosofia e fisica nella dottrina della transustanziazione», in La Scuola Cattolica 83(1955), 89-124.

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dove si celebra la messa. Dopo il sacrificio, tale esistenza rimane presente nel santo sacramento che

è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo

onorare e adorare nell’Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono

vedere e che, senza lasciare il cielo, si è reso presente dinanzi a noi.

Gli anni ’70-80 e gli ultimi decenni del secolo scorso hanno vissuto sull’onda lunga del

concilio e degli sviluppi conseguenti, aiutati sia dall’attuazione della riforma liturgica che

dall’elaborazione dei nuovi Catechismi nazionali. Un ruolo particolare in questo quadro lo ha assunto

la pubblicazione del Messale Romano del 1969 e l’Institutio generalis posta all’inizio del nuovo

Messale, con le puntuali precisazioni sul concetto di messa apportate nei proemio in risposta ad alcune

critiche avanzate circa il rischio di trascurarne la dimensione sacrificale a vantaggio di quella

conviviale.494 Importanti passi sono stati inoltre iniziati in campo ecumenico, specialmente con il

documento di Lima Battesimo, Eucaristia e Ministero del 1982 e con gli incontri che ne sono

seguiti.495

494 Cf. Institutio generalis. Principi e norme per l’uso del Messale Romano, Roma 1984. 495 Sul tema eucaristia ed ecumenismo si può vedere, tra i tanti lavori, la disamina offerta in Eucaristia sfida alle chiese divise (L.

SARTORI ed.), Padova 1984. Inoltre: L. SARTORI, «L’eucaristia: fonte e culmine della comunione», in E.R. TURA (ed.), Per una teologia

in Italia, Padova 1990,1,380- 391; e G. GOTTARDI, «L’assemblea di Graz “alla luce della compassione di Dio”», in Credere Oggi

106(1998), 67-82.

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CAPITOLO TERZO INQUADRAMENTO SISTEMATICO

«Il nostro Salvatore nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico

del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della

croce, e per affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e della sua

risurrezione; sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nella quale sì

riceve Cristo, l’anima viene colmata di grazie e ci è dato il pegno della gloria futura» (SC 47).

1. Mistero della fede tra il «già» e il «non ancora»

Il mistero dell’eucaristia presenzializza in forma sacramentale l’evento unico

dell’autoconsegna dell’Unigenito al Padre sulla croce e concentra in sé il massimo grado della

presenza del Signore glorificato in mezzo a noi; come tale, esso costituisce un accadimento che supera

ogni logica umana o possibilità di esplicazione razionale. Di fronte a esso l’unica via di accesso è la

fede; una fede colma di stupore e di lode. Senza questa attitudine, l’eucaristia si riduce a un segno

vuoto o a un rito privo di contenuto reale. È questa la ragione per cui, nel cuore stesso di ogni

celebrazione eucaristica, il presidente dell’assemblea esclama con forza, quasi gridandolo: mysterium

fidei, «mistero della fede»; un’esclamazione che costituisce al tempo stesso un annuncio e un invito,

una pro-vocazio- ne e un imperativo, affinché i fedeli si ricordino che, senza la fede, non si può

partecipare in verità all’azione eucaristica. L’eucaristia è talmente un mistero di fede che, al di fuori

di un simile contesto, non può essere compresa, né celebrata. Quanto si compie in essa può essere

attinto solo da chi possiede occhi che sanno andare al di là del visibile e un cuore aperto

all’accadimento che si attua - per la potenza dello Spirito invocato - sull’altare. Lo stesso linguaggio

teologico che cerca di «dire» l’eucaristia e le concettualizzazioni a cui il pensiero cristiano ricorre

possono essere validamente impiegati solo entro un contesto di accoglienza credente: è la fede che,

aderendo a Cristo e alla sua Parola, cerca un’intelligenza sempre più profonda di ciò che già crede,

non il contrario.

Solo chi riconosce Gesù come il Figlio di Dio, Redentore dell’uomo e del mondo, e si apre al

suo essere venuto da parte del Padre nel mondo (Gv 6,32-40) è in grado di partecipare all’oblazione

eucaristica e «mangiare» e «bere» la sua «carne» e il suo «sangue» (Gv 6,53). Chi crede in Gesù,

crede che egli sia il pane vivo disceso dal cielo; pane che il Padre ha donato non come la manna che

i padri mangiarono e morirono, ma come il pane vero che dà la vita al mondo (Gv 6,48-50). E tale è

la promessa del Salvatore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo

risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi

mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (6,54-56). Chi accoglie le parole

del Figlio accoglie il dono del Padre che, come lo ha risuscitato da morte, così continua a donarlo

all’umanità come pane di vita per la salvezza di chiunque crede in lui. Non è senza significato che, di

fronte allo scandalo degli ascoltatori, Gesù non attenui per niente il senso delle sue parole ed esiga

invece la disponibilità della fede (6,59-66), aggiungendo che ciò è possibile nella grazia dello Spirito,

non in un ambito di mera materialità carnale (6,63).

La fede è il solo modo, dunque, per essere iniziati alla «realtà» a cui il «segno» rimanda e

porsi in contemplazione adorante del Signore eucaristico, tra il «già» e il «non ancora» nel tempo

attuale dell’historia salutis. L’appello alla fede non va compreso, peraltro, come richiamo a un fidei-

smo cieco o come l’adesione a un qualcosa di arbitrario che non attingerebbe ad alcun contesto di

riferimento o di intelligibilità; al contrario, si colloca in profonda continuità con la pedagogia

dell’incarnazione reden- tiva, accolta e riconosciuta come l’evento decisivo della storia. Parlare di

«incarnazione» significa fare riferimento all’autocomunicazione personale di Dio-Trinità all’uomo-

Gesù. L’eucaristia appartiene al medesimo dinamismo storico-salvifico come - per i padri greci -

un’incarnazione sacramentale, un prolungamento del donarsi di Dio all’uomo nel suo Logos.

Secondo l’inno riportato in Fil 2,6-11, l’incarnazione costituisce un abbassamento che raggiunge il

suo limite supremo nell’immersione di Gesù nella morte di croce; una kenosis nella quale l’umanità

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assunta dall’Unigenito raggiunge il punto più basso della sua discesa, prima della sua ascesa in forza

della risurrezione gloriosa (Ef 4,9-10). «Contro ogni apparenza, questa morte non è una separazione

da Dio, ma un ritorno a lui, un doloroso rimettersi a lui. Il Padre accoglie questo sacrificio del Figlio

suo, e a motivo dell’eccellenza del soggetto, della vittima e dell’azione sacrificale», lo riceve come

oblazione di valenza infinita e, in risposta, «risuscita il Crocifisso ad una vita trasfigurata, non più

sottomessa alle limitazioni spazio-temporali» e nella quale Gesù stesso dispone del suo essere in una

maniera nuova e insospettata.496 Il convito dell’ultima cena era un’anticipazione di questo

accadimento totale. L’eucaristia si situa entro di esso e corrisponde alla medesima logica di sviluppo:

è un evento di incarnazione redentiva dentro l’unico evento di Gesù, il Cristo, e ne è l’attualizzazione

nel tempo della Chiesa. Gli elementi del pane e del vino, in virtù dello Spirito, si offrono a noi come

segni reali nei quali si continua e si dispiega questa economia in favore della Chiesa e del mondo.

2. «Memoriale» della pasqua di Cristo

L’ultima cena - come si è visto - si pone nel quadro dell’antica tradizione del memoriale

ebraico legato all’uscita dall’Egitto, ma con Gesù che vi inserisce la novità peculiare della sua pasqua:

al centro non è più l’agnello il cui sangue era stato segno di salvezza per le famiglie israelitiche, ma

lui stesso, il Servo di YHWH, il nuovo agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29).

Compimento di un’esistenza totalmente per noi, la cena del Giovedì santo svela il mistero di morte e

di vita che l’Unigenito incarnato sta attuando in se stesso, inaugurandolo: è «memoria» anticipatrice

del sacrificio della croce e della grazia che scaturisce dalla risurrezione. Sussiste un legame

indissolubile tra l’ultima cena e la morte di Gesù: la cena di addio è come il sacramento del sacrificio

della croce, lo preannunzia e lo compie in figura; è quel medesimo evento, anche se, nella sua forma

cruenta, sarà consumato solo con la passione e morte. Il «pane» e il «vino» offerti in dono sono il

«suo corpo dato» e il «suo sangue versato», profezia in atto della sua oblazione al Padre, «pane che

dà la vita al mondo» e «bevanda di salvezza». Sussiste una relazione inseparabile tra la cena pasquale

di Gesù e la sua pasqua di morte e di risurrezione. Allo stesso modo, sussiste un’altrettanto

inseparabile unità tra quell’evento (nella sua totalità di cena-morte-risurrezione) e la «memoria»

eucaristica attuata dalla Chiesa. Due unità che non devono mai essere scisse, pena una mancata

comprensione del sacramento dell’altare. Si tratta di un unico accadimento di grazia.

Ogni qualvolta la comunità dei discepoli, obbedendo al comando del suo Signore, si riunisce

per «far memoria» della pasqua, non celebra una seconda o una nuova pasqua, ma l’unica pasqua

vissuta da Gesù. Non si deve pensare a due realtà separate o separabili, ma a un unico e medesimo

avvenimento; ciò che cambia è il modo: sulla croce l’azione oblativa si compie in forma cruenta,

sull’altare in forma incruenta; sulla croce è Cristo che si offre al Padre in rappresentanza vicaria di

tutta l’umanità, sull’altare egli unisce alla sua offerta la Chiesa ed è attraverso il gesto posto dalla

Chiesa che attua la presenza del suo mistero oblativo. È verità di fede, come si è notato, che

l’eucaristia non è un sacrificio numericamente distinto da quello della croce, ma quell’unico e

medesimo sacrificio reso presente nell’atto sacramentale della Chiesa (Denz 1740; 1743)). I padri del

concilio di Trento hanno opportunamente spiegato l’unità tra l’evento della croce e la sua

celebrazione eucaristica ricorrendo al concetto biblico di memoria, a cui hanno collegato i termini di

repraesentatio e applicatio (Denz 1739-1741). E tale è infatti la portata del «memoriale» eucaristico

(zikkarón) anàmnests); non si tratta di un semplice ricordo mentale, ma della presenza reale

dell’evento che si ricorda, partecipando a esso come a un oggi di vibrante attualità. Ogni volta che

la Chiesa pone in essere la memoria eucaristica rivive l’evento unico della pasqua o, meglio, è il

Signore stesso che, nella potenza del suo Spirito operante nella Chiesa, lo presenzializza e chiama i

suoi a mangiare il suo corpo dato e a bere il suo sangue versato, incontrandosi con lui, vivente nella

comunità dei suoi sino alla fine dei tempi (Mt 28,20). L’eucaristia, nella fede della Chiesa, è il

«memoriale» attuativo di quell’evento unico e irripetibile.497

496 BETZ, «L’eucaristia come mistero centrale», in FEINER-LÖHRER (edd.), Mysterium salutis, Vili, 327. 497 Per un’analisi più ampia del concetto biblico di «memoria», cf. ROCCHETTA, I sacramenti della fede, 2001 (8a ed.), 1,226-250.

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3. Sacramento del sacrificio della croce

Un contenuto che, entro questo quadro generale, è stato posto costantemente in luce dalla fede

della Chiesa concerne il carattere sacrificale della memoria eucaristica: l’eucaristia è il sacramento

del sacrificio di Cristo. È dottrina di fede, come si è avuto modo di verificare, che l’eucaristia è «un

vero e proprio sacrificio» (Denz 1751), prefigurato dagli antichi sacrifici e istituito da Cristo stesso

(Denz 1739-1742); sacramento di un sacrificio non a titolo di una semplice commemorazione rituale,

ma come una sua effettiva attualizzazione/attualità (Denz 1753). Nella memoria eucaristica, infatti, è

contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offerse una volta in modo cruento

sull’altare della croce... Si tratta, infatti, di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora

per il ministero dei sacerdoti; egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di

offrirsi (Denz 1743).

La motivazione di questa verità di fede è stata evidenziata dall’analisi biblica nel primo

capitolo e dallo sviluppo del dogma nel secondo. Da questa duplice analisi è emerso che, se è vero

che il NT non usa la parola «sacrificio» (thusìa) per indicare l’eucaristia, i sinottici e Paolo collocano

con evidenza l’ultima cena nel contesto della pasqua ebraica e l’interpretano come una prefigurazione

anticipata dell’oblazione di Gesù sulla croce. La tradizione (orientale e occidentale) è unanime, d’altra

parte, nel considerare l’eucaristia in relazione al sacrificio unico di Cristo come un vero e proprio

sacrificio sacramentale. Il concilio di Trento fa riferimento a questa tradizione quando afferma

l’identità tra l’offerta della croce e quella che «si compie nella messa» (quod in missa peragitur; Denz

1743). Lungo la storia del pensiero cristiano, gli autori hanno cercato di esplicare in diversi modi

questo carattere dell’eucaristia, elaborando teorie talvolta non sempre convincenti. Il loro limite è

stato di muovere più da una definizione di sacrificio desunto dalle religioni e dall’ebraismo che dalla

natura peculiare della morte di Gesù sulla croce. L’orientamento teologico odierno si muove in

questa seconda direzione.

3.1. AUTO-OBLAZIONE PERENNE DEL KYRIOS

Ogni volta che la Chiesa si riunisce in assemblea eucaristica per far memoria della pasqua è

lo stesso Signore Gesù che attualizza l’oblazione unica di sé al Padre, compiuta «una volta per

sempre» (éphapax). Grazie alla messa il sacrificio che Cristo ha offerto sulla croce rimane perenne-

mente in atto e lo sarà sino alla fine dei secoli. La domanda che ha occupato gran parte della riflessione

cristiana riguarda il modo in cui questo sia possibile. Come si spiega l’identità tra l’evento pasquale

vissuto da Gesù e la celebrazione sacramentale della Chiesa? Come evitare il pericolo di pensare a

un moltiplicarsi dell’unico sacrificio della pasqua nel molteplice dispiegarsi della memoria

eucaristica nello spazio e nel tempo? Come si motiva l’identità numerica tra la morte di croce e la

messa?

Il concetto a cui occorre far riferimento è la nozione agostiniana di sacrificio, inteso come atto

di oblazione interiore, manifestato in un gesto visibile.498 Ciò che fonda la realtà sacrificale della

morte di Cristo, e la rende salvifica per sempre e per tutti, non è tanto il sangue versato o la distruzione

della vittima in quanto tale, ma l’atto volontario, l’auto- oblazione interiore, libera e gratuita,

mediante cui l’Unigenito incarnato si è offerto «una volta per sempre» al Padre per tutti noi. Ciò che

rende efficacemente redentivo il sacrificio della croce - nella sua essenza profonda - non è tanto la

sofferenza fisica, morale o spirituale vissuta da Gesù, ma l’opzione lìbera (Gv 10,17-18) con la quale

egli si è consegnato al Padre per tutti (Gv 19,28-30); un’opzione anzitutto interiore che appartiene al

suo Io divino, pur venendo espressa e vissuta nella natura umana ipostaticamente assunta ed

esteriorizzata nella forma del sacrificio cruento della croce. Il soggetto degli atti umani di Gesù è il

suo Io personale, l’Io della seconda persona della Trinità al cospetto del Padre e vivente nello Spirito. 498 Cf. Civ. Dei, 10,6 (CSEL 40/1,454).

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Tenendo presente questo duplice livello dell’essere proprio di Gesù e del suo agire, si deve dire:

1. che la croce rappresenta un atto storicamente collocabile nello spazio e nel tempo, in

quanto vissuto come evento di passione e morte nella carne assunta e che, come tale, riveste una

determinata configurazione storica cruenta, irripetibile per sé, situata com’è in un passato

definitivamente passato;

2. che quel medesimo atto, in quanto posto dall’Io divino di Gesù, costituisce un atto meta-

storico, in grado di trascendere lo spazio e il tempo, al punto che, una volta realizzato, è realizzato

per sempre e acquisito in modo irrevocabile in Cristo Gesù, il Risorto in eterno.

L’oblazione della croce come atto interiore, libero e gratuito, appartiene infatti all’Io divino

del Logos incarnato e valica, in quanto tale, i confini della localizzazione storica, rimanendo ben oltre

i secoli e il luogo. Entrato nella gloria del Padre, con la sua risurrezione e ascensione al cielo, il Cristo

glorioso è definitivamente colui che, dopo aver offerto se stesso per tutti, vive in un atteggiamento di

perenne offerta al Padre, «sempre vivente ad intercedere in nostro favore» (Eb 7,25). Quando la

Chiesa, in risposta al comando del suo Signore, si riunisce per far memoria dell’evento pasquale, non

moltiplica e neppure semplicemente rinnova l’oblazione unica di Cristo - quasi si trattasse di un

qualcosa d’altro o addirittura di diverso -, ma attualizza quell’unico accadimento oblativo,

rivivendolo nell’oggi della sua celebrazione sacramentale. Il soggetto operante della «memoria

eucaristica» rimane sempre lo stesso Kyrios glorioso: è lui che rende presente il suo unico gesto di

offerta pasquale nell’azione celebrativa della Chiesa. Il contenuto di quella celebrazione non è altro

che l’unico atto sacrificale vissuto da Gesù sulla croce nel suo significato salvifico incruento e

trascendente.

L’eucaristia proclama, in tal modo, la permanenza indistruttibile del Risorto nel tempo tra le

due venute e la continua attualità dell’oblazione unica che egli ha vissuto e presenta perennemente al

Padre e di cui rende com-partecipe la Chiesa. È in questa precisa accezione che l’eucaristia è

«sacramento di un sacrificio» o «sacrificio sacramentale». Già le parole dell’istituzione e il loro

riferimento all’evento della passione ce lo hanno fatto intravedere. «Mangiare quel pane» e «bere da

quel calice» - direbbe Paolo - è «annunciare la morte del Signore, finché egli venga» (ICor 11, 26).

Va in questa direzione la convinzione di fede secondo cui l’eucaristia è un vero e proprio sacrificio

(Denz 1751): sacramento dell’unico sacrificio di Cristo, al quale tutti i fedeli - ben disposti - sono

invitati a partecipare come una vera comunità conviviale (SC 48 e 55).

3.2. ATTO DI CRISTO E DELLA CHIESA

Quanto si è detto richiede che si puntualizzi come la messa non sia un ricordo realizzato da

altri e neppure semplicemente dalla Chiesa isolatamente considerata, ma la presenzializzazione

dell’unico evento pasquale, attuata dal Kyrios stesso, sedente alla destra del Padre: un suo atto, in

un’azione sacramentale della Chiesa. La comunità ecclesiale, il celebrante e l’assemblea dei fedeli

svolgono un ruolo di mediazione fondamentale, ma il ministro originario costitutivo della

celebrazione eucaristica è lo stesso Signore Gesù, eternamente glorificato presso il Padre (Eb 7,26-

28), il quale è «in possesso di un sacerdozio che non tramonta» (Eb 8,1-2; 9,12.24). Non sempre

questo dato teologico è stato tenuto nel debito conto o esplicitato come sarebbe stato opportuno. La

stessa forma delle preghiere eucaristiche post-conciliari non lo evidenzia abbastanza. Fa eccezione la

quinta (a,b,c,d) quando, dopo la consacrazione, afferma: «Guarda, Padre santo, questa offerta: è

Cristo che si dona con il suo corpo e il suo sangue, e con il suo sacrificio apre a noi il cammino verso

di te». «È Cristo»: in effetti - e non si dovrebbe mai dimenticarlo - ogni volta che la Chiesa si riunisce

in assemblea per celebrare il mistero dell’eucaristia partecipa a un evento che è anzitutto un atto del

Signore Gesù e solo subordinatamente un suo agire: offertosi una volta per sempre sulla croce, egli

attualizza la sua unica oblazione al Padre nel gesto sacramentale della Chiesa.

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La presenzializzazione che Cristo fa di sé, e della sua unica offerta pasquale, suppone

necessariamente la Chiesa, suo corpo. Il Signore glorificato non può agire, in forma sacramentale, nel

tempo tra le due venute, se non attraverso il nuovo Israele di Dio che è la Chiesa, sacramento

fondamentale della sua presenza nel mondo. Il gesto sacrificale di Cristo si attualizza in forza

dell’azione posta dalla Chiesa, e non può esistere azione eucaristica che non sia azione ecclesiale.

Ogni eucaristia è celebrazione della Chiesa: è lei, nella sua interezza, che fa memoria, rende grazie,

offre e si offre, invoca il Padre, per mezzo di Cristo, con Cristo e in Cristo, nell’unità dello Spirito

Santo. Questa dimensione è simbolica- mente manifestata dalla stessa assemblea dei fedeli,

gerarchicamente ordinata e presieduta dal ministro, vescovo o presbitero.499 Ogni messa è

accadimento ecclesiale, pubblico, e non può mai essere intesa come un agire individuale o privato

(SC 27; 48). Dire che l’eucaristia è azione di Cristo nella Chiesa e per mezzo della Chiesa, significa

affermare che l’eucaristia è azione del «Cristo totale» (Christus caput et corpus), secondo la dizione

cara ad Agostino: azione del Capo e del suo corpo, inseparabilmente uniti in virtù dello Spirito Santo.

Le due azioni sono tanto profondamente intrecciate che l’una non può stare senza l’altra. Non a caso,

secondo l’ottica neotestamentaria e patristica, sussiste una profonda corrispondenza tra il corpo

storico di Gesù di Nazaret, il corpo di Cristo che è la Chiesa e il corpo di Cristo che è l’eucaristia.

Si tratta di un’unica economia divina che ha operato l’evento dell’incarnazione nel grembo di Maria,

ha suscitato la nuova comunità nella potenza dello Spirito di Pentecoste e attua la memoria eucaristica

nella potenza dello stesso Spirito. Chiesa ed eucaristia, come si è avuto modo di constatare, sono il

«corpo di Cristo» e come tali, senza ulteriori aggettivazioni, sono state qualificate durante il primo

millennio. Sarà solo successivamente, dopo l’eresia di Berengario, che si tenderà a evidenziare in

modo sempre più marcato la distinzione tra l’eucaristia, corpus Christi verum, e la Chiesa, corpus

Christi mysticum. La teologia contemporanea, opportunamente, tende a recuperare questa unità

originaria: eucaristia e Chiesa non esistono da sole, l’una fa l’altra-, ed è nella loro corrispondenza

reciproca che rappresentano l’epifania del Kyrios vivente nei secoli. L’antichità cristiana sottolineava

questa profonda unità nell’uso stesso dei verbi conficere, efficere, fieri, convertere, mutare, transire,

trasfigurare, usati sia per indicare la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di

Cristo sia per esprimere la formazione del corpo ecclesiale dei battezzati e il suo realizzarlo nella

comunione eucaristica. È sufficiente ricordare la lapidaria affermazione di Stefano di Baugè:

«Conficere unum corpus quod est Christus et Ecclesia»,500 o le parole che Gerardo di Cambrai mette

sulla bocca di Cristo: «Meam carnem credentibus distribuo, ipsos in meum corpus transfundo»,

«Distribuisco la mia carne ai credenti e li faccio diventare il mio corpo».501

Il convito del Signore è l’attuazione più radicale, intensa e profonda della Chiesa, corpo di

Cristo. «In esso, infatti, Cristo prende corpo nei segni sacramentali e si consegna ai cristiani al fine

di incorporarseli, non solo spiritualmente ma anche in maniera corporale-totale, di renderli suo corpo

e di coinvolgerli così nel suo movimento sacrificale per elevarh al Padre».502 È grazie a questa

incorporazione/coinvolgimento che il sacrificio unico di Cristo diventa il sacrificio attualizzante della

Chiesa e dei cristiani. L’una e gli altri resi partecipi dell’evento oblativo unico del loro Signore, in

una reale identità sostanziale che va dall’atto sacrificale di Cristo alla memoria celebrativa della

Chiesa, e viceversa. È quanto, commentando la Lettera agli Ebrei, Giovanni Crisostomo ha espresso

in una maniera estremamente chiara e puntuale: «Anche noi ora offriamo il sacrificio del grande

sacerdote offerto una volta... e nessun altro, ma sempre il medesimo sacrificio».503 L’atto interiore

che costituisce l’essenza peculiare del sacrificio unico di Cristo passa alla Chiesa, quasi personificato

nell’atto stesso con cui la Chiesa offre e si offre con la celebrazione eucaristica. I doni sacrificali del

pane e del vino, infatti, non sono soltanto dei simboli dell’auto-oblazione di Cristo, ma in pari tempo

simboli della Chiesa che offre e si offre in essi. Memores... offerimus, «ricordando... offriamo»,

proclama il celebrante a nome di tutta l’assemblea eucaristica dopo la consacrazione. L’evento 499 Introduzione al Messale Romano, c. 1, n. 1. 500 Traci, de sacr. altaris, 12 (PL 172,1285). Cf. B. BOTTE, «Conficere corpus Christi», in Année théologique 8(1947), 309-315. 501 Ep. a Reginaldo (PL 142,1280A). 502 BETZ, «L’eucaristia come sacramento centrale», in FEINER-LÖHRER, Mysterium salutis, Vili, 328. 503 In Hebr. hom. 17,3 (PG 63,131). Il testo completo è già stato riportato nella sezione storica, c. II, 1,1.3, p. 241.

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dell’auto-oblazione perenne del Kyrios si trasforma in un atto sacramentale, situato nel tempo e nello

spazio, e quindi raggiungibile da noi, mediante l’agire della Chiesa, sacramento fondamentale della

sua presenza e della sua azione nel mondo. È alla sua Chiesa che Cristo ha comandato di «fare la

memoria» della pasqua, finché egli torni. Il sacrificio della croce è affidato al popolo nuovo guidato

dalla comunità degli apostoli e su cui ha effuso la potenza del suo Spirito: è questa comunità che,

mediante il ministro e l’assemblea, pone il sacramento del sacrificio di Cristo. L’eucaristia è azione

di Cristo per mezzo della Chiesa e come azione della Chiesa:

• in quanto sacrificio è esclusivamente atto del Signore glorioso;

• in quanto sacramento è atto della Chiesa, corpus Christi.

Questo dice perché, offrendo, la Chiesa si offre. Facendo memoria dell’«una volta per sempre»

del sacrificio della croce e attualizzandolo sacramentalmente, la Chiesa è coinvolta in tutte le

profondità del suo essere in ciò che celebra, divenendo partecipe dell’offerta unica del suo Signore.

«Far memoria» dell’evento pasquale significa, per la comunità cristiana, ripercorrere Vitinerario

fondatore della propria nascita e rinascere di continuo in ciò che celebra come comunità della pasqua

del Signore. Ogni volta che la Chiesa celebra l’eucaristia, essa accetta di lasciarsi plasmare da

quell’evento e divenire comunità che vive in atteggiamento di perenne offerta al Padre in Gesù, il

Crocifisso, risorto in eterno, e nel suo Spirito.504 Un’idea, questa, reperibile nelle più antiche icono-

grafie dove la Chiesa è spesso rappresentata come una donna in preghiera, con le braccia aperte, in

attitudine orante: come il Cristo offerente, la comunità ecclesiale vive in atteggiamento offerente e -

per mezzo di lui, in lui e con lui - offre e si offre al Padre, intercedendo per tutta l’umanità. Il sacrificio

cruento di Cristo acquista così, nel sacrificio cultuale della Chiesa, una sua presenzialità spazio-

temporale in ordine alla progressiva integrazione dell’umanità nel Christus totalis. La Chiesa

eucaristica è primizia e segno di questa nuova umanità rigenerata nel Risorto e radicalmente protesa

verso la gloria della Trinità.

3.3. EPIFANIA DELLO SPIRITO

L’attualizzazione del mistero pasquale nell’azione celebrativa della Chiesa è possibile grazie

alla potenza dello Spirito operante nel nuovo Israele; azione che rende capace la comunità credente

di «far memoria» nel segno dell’evento unico del sacrificio pasquale e presenzializzarlo nella realtà.

Da sola la Chiesa non potrebbe far niente: è lo Spirito il principio sorgivo dell’agire sacramentale

della Chiesa. Così, se l’eucaristia è atto del Kyrios glorioso, essa è in stretta relazione con lo Spirito

che il Cristo ha promesso e inviato da parte del Padre sulla Chiesa. L’eucaristia è dono dello Spirito,

come viene evocato dall’epiclesi, e dona lo Spirito, in quanto - secondo i padri - realizza un particolare

contatto dei fedeli con l’umanità glorificata di Cristo.5051 manuali classici post-tridentini non davano

un esplicito rilievo alla dimensione pneumatologica dell’eucaristia. Gli stessi testi liturgici ufficiali -

il canone romano ad esempio - fino alla riforma del concilio Vaticano II, erano talmente discreti su

questo punto da rasentare il silenzio. Dietro vi era la polemica, sorta dopo il mille, con la Chiesa

orientale. In realtà, la dimensione pneumatologica è una dimensione assolutamente essenziale per

un’adeguata teologia eucaristica.

L’eucaristia è dono dello Spirito Santo. Situare l’eucaristia in relazione all’agire del Kyrios

glorioso conduce ad affermare lo stretto rapporto che sussiste tra lo Spirito Santo che il Cristo celeste

invia da parte del Padre sulla Chiesa e l’eucaristia come dono dello Spirito per la gloria della Trinità.

Se la celebrazione eucaristica è un atto del Signore risorto, essa dipende radicalmente dal dono dello

Spirito diffuso sugli apostoli e si qualifica come una manifestazione privilegiata della presenza dello

Spirito operante nella Chiesa. L’intronizzazione del Cristo risorto coincide con l’inizio dell’azione

dello Spirito nella comunità ecclesiale; un’azione descritta dal NT come il presupposto per l’invio

504 Ritornerò più avanti, al paragrafo 6, sui contenuti ecclesiologici deireucaristia. 505 Si veda ad esempio AMBROGIO, Enar. 118,15,28; De Myst. 9,58.

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dello Spirito: «... è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il

Consolatore; ma quando me ne sarò andato ve lo manderò» (Gv 16,7). L’umanità glorificata del

Figlio di Dio rappresenta il sacramento fontale della diffusione dello Spirito e dell’agire sacramentale

della Chiesa. Il compito dello Spirito è quello di proseguire l’opera dell’Unigenito incarnato e di

portarla al suo pieno compimento (Gv 14,26; 15,26-27; 16,7-15). Appartiene infatti alla persona del

Pneuma tou Theou operare nella storia perché il disegno della salvezza raggiunga il suo teléiosis, la

sua pienezza. L’eucaristia si colloca entro questo dinamismo e costituisce una «meraviglia di grazia»

operata dallo Spirito dimorante nella Chiesa. Tutta l’azione celebrativa è sotto il segno dello Spirito:

lo Spirito è all’opera nel ministro dei sacramenti, in quanto egli agisce in nome di Cristo e della

Chiesa; l’invocazione dello Spirito Santo consacra gli elementi e realizza l’identità tra il sacrificio

pasquale e l’atto sacramentale. Senza lo Spirito di Dio, in effetti, l’offerta del Cristo rimarrebbe

lontana nel tempo e non potrebbe rendersi realmente presente nei segni sacramentali. La presenza

dello Spirito non si giustappone alla causalità unica di Cristo, ma la prepara, la compie e la dispiega.

L’economia sacramentale ricapitola così l’intera oikonomia trinitaria. Il mistero della salvezza che ha

origine, come da sorgente, dall’amore eterno del Padre e si attua mediante la duplice missione del

Figlio e dello Spirito Santo, si continua nel mistero eucaristico che è, nel contempo, dono dell’amore

compassionevole del Padre, atto del Kyrios celeste ed epifania dello Spirito nella Chiesa.

L’eucaristia dona lo Spirito Santo. Ciò che la teologia chiama la res sacramenti, la realtà o

effetto ultimo dei sacramenti, è sempre il donum sanctiSpiritus quale dono escatologico e sintesi di

tutti i beni messianici che promanano dall’opera redentrice di Cristo, radice e cuore di ogni altra

grazia salvifica. L’eucaristia appartiene a questa economia sacramentale, ne è l’origine e l’apice. La

memoria eucaristica è uno spazio speciale in cui si attua il dispiegamento del dono dello Spirito nella

comunità credente e nei battezzati: è lì, in particolare, che egli è all’opera per realizzare quella

creazione nuova di cui la risurrezione di Cristo è l’inizio e la primizia (Rm 8; ICor 15). L’eucaristia

è come una «Pentecoste permanente». E infatti, nella preghiera liturgica, l’epiclesi non è indirizzata

solo all’attualizzazione dell’evento pasquale nei segni del pane e del vino, ma in pari tempo alla sua

venuta nei credenti per fare di loro «un solo corpo e una sola anima». L’invocazione dello Spirito sui

doni è inseparabile da quella sui fedeli: anzi, la trasformazione dei doni del pane e del vino è in

funzione della trasformazione dei fedeli, perché siano la Chiesa di Dio nel grembo della storia e te-

stimonino la novità assoluta della nuova pasqua. Il concilio Vaticano II ha perfettamente recepito

questo contenuto quando ha qualificato l’eucaristia come «lo stesso Cristo, nostra pasqua e pane vivo

che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini, i quali

sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui se stessi, il proprio lavoro e le cose create»

(PO 5). L’espressione latina carnem suam Spirita Sancto vivificatam et vivificantem sottolinea, ancor

meglio della traduzione italiana, lo stretto rapporto che sussiste tra Spirito Santo ed eucaristia: è lo

Spirito che «vivifica» l’eucaristia e la rende «vivificante» dello Spirito per tutti coloro che la

celebrano, vi partecipano e la vivono. La relazione dell’eucaristia con lo Spirito Santo, infatti, non è

un dato secondario o periferico, ma una dimensione costitutiva del suo stesso «attuarsi» («...per il tuo

Spirito operante in questi santi misteri...», recitiamo nella preghiera liturgica) e della comunicazione

dello Spirito ai credenti.

3.4. SACRIFICIO DI LODE (zèbah tòdah)

La «struttura» profonda del sacrificio di Cristo è di costituirsi come azione di grazie

(eucaristia). Gli stessi gesti dell’ultima cena, indirizzati a significare l’evento della croce, sono

introdotti da una preghiera di rendimento di grazie. D’altra parte, come si è avuto modo di notare, il

banchetto pasquale faceva parte dei sacrifici di comunione (shelàmtn) nei quali si attuava

l’immolazione della vittima e le cui carni erano consumate in una mensa conviviale, espressione di

comunione e di partecipazione alla conclusione dell’alleanza. Tra questi sacrifici di comunione,

particolare importanza aveva - specie nel giudaismo dell’èra cristiana del primo secolo - il sacrificio

di lode o di ringraziamento (lo zèbah tòdah), di cui si hanno molteplici risonanze nei Salmi 69; 51;

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40,1-12.22 e nel testo messianico di Is 25,1-10. La comunità apostolica, con tutta probabilità, ha

celebrato l’evento pasquale di Gesù (cena-morte-risurrezione) nel contesto dello zèbah tòdah. In esso,

a differenza del semplice sacrificio di comunione, oltre alle carni immolate, si assumono «pane» e

«vino» con i loro significati di benedizione, di pienezza di vita e di festa. Il contesto dello zèbah

tòdah, se ha permesso alla comunità primitiva di svelare il significato pieno dell’ultima cena e il suo

legame inscindibile con l’evento della pasqua di Cristo, ha consentito nello stesso tempo di compren-

dere come l’eucaristia non possa essere intesa nel senso di una pura e semplice ripetizione dell’ultima

cena, quasi che la sua struttura fonda- mentale sia solo quella del pasto, ma piuttosto come un’azione

di grazie che rende partecipe la Chiesa - in virtù dello Spirito inabitante in lei - del rendimento di

grazie perennemente acquisito da Cristo a lode di Dio Padre. Secondo la fede della Chiesa il

significato di rendimento di grazie e di lode è inseparabile dal significato intercessorio della messa.

Il contenuto latréutico è indissociabile da quello sacrificale-espiatorio, e mai l’uno senza l’altro.

Contro i riformatori che rifiutavano ogni idea di sacrificio riferito all’eucaristia, il Tridentino ha

affermato che la celebrazione eucaristica del sacrificio unico di Cristo rappresenta un atto sacramenta-

le con valore propiziatorio per i vivi e i defunti (Denz 1753) e può essere offerto in onore dei santi e

per ottenere la loro intercessione (Denz 1755). Pensare il contrario sarebbe mettersi fuori della

dottrina cattolica. Nella messa si recupera la struttura trinitaria dell’economia salvifica, in senso

discendente e ascendente: tutto viene dal Padre per il Figlio nello Spirito e tutto nello Spirito per il

Figlio torna al Padre. Questo schema delYa, per, in, ad (a Patre per Filium eius, Jesum Christum, in

Spirito sanc- to, ad Patrem)506 condensa ed esprime perfettamente il senso trinitario dell’eucaristia

come sacrificio di salvezza per la remissione dei peccati (senso discendente) e sacrificio di lode e

ringraziamento al Deus Trinitas (senso ascendente). E tale è il senso della dossologia che conclude la

preghiera eucaristica, come rendimento di grazie per l’opera trinitaria di cui si è beneficiari nella

messa: «Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo,

ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen». L’eucaristia ci rivela in atto quale sia l’essenza

del culto cristiano: esso non consiste semplicemente nel presentare a Dio delle vittime di riparazione,

in modo da ripristinare i rapporti perturbati con lui, ma nell’accogliere con animo riconoscente i doni

che egli ci ha fatto nell’Unigenito incarnato, morto e risorto, e nell’invio dello Spirito. Per questo la

forma essenziale del culto cristiano si chiama eucaristia, rendimento di grazie.

Non siamo noi che glorifichiamo Dio, offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro - quasi

che non fosse già per principio suo! - bensì facendoci regalare qualcosa di suo e riconoscendolo così

come l’unico Signore... Il sacrificio cristiano non consiste nel dare a Dio ciò che egli non avrebbe

senza di noi, bensì nel nostro farci completamente ricettivi nei suoi confronti e nel lasciarsi

integralmente assorbire da lui. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del

sacrificio cristiano.507

L’eucaristia come sacrificio è esattamente questo: atto di gratitudine e di lode.

4. Mensa di comunione

L’istituzione dell’eucaristia avviene mentre Gesù è seduto a tavola con i suoi e offre loro il

pane come cibo e il vino come bevanda, esortandoli a mangiare e a bere di quei doni, segni portatori

della nuova alleanza realizzata nella sua persona. Questo dato implica che l’eucaristia si presenti a

noi come un banchetto: un banchetto di Cristo con gli apostoli e degli apostoli con Cristo; non un

banchetto qualsiasi, ma un banchetto sacrificale, perché l’oblazione che il Signore e Maestro fa di sé

nei segni del pane e del vino non è l’offerta di un semplice cibo o di una semplice bevanda, ma

Vanticipazione sacramentale dell’oblazione unica che egli sta per vivere in prima persona sull’altare

della croce: «Questo è il mio corpo dato per voi». «Questo è il sangue versato per voi». È vero che

tutto ciò avviene nella forma di un convito, di una mensa: «Prendete... mangiate. Prendete... bevete»,

506 C. VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, Roma 1965,209-242. 507 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1977,229-230.

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ma il contenuto è l’autoconsegna che Gesù sta per vivere in sé con la morte di croce. Per questa

ragione è inaccettabile l’alternativa che, fin dalla Riforma e dalla Controriforma, si è fatta tra una

messa-sacrificio o una messa-cena. Non si tratta di scegliere fra l’una o l’altra identità, ma di

affermarne la simultaneità. Purtroppo non mancano, a tutt’oggi, coloro che continuano a porre la

questione in termini alternativi e pensano che si debba optare o per l’una o per l’altra. È chiaramente

un falso dilemma.

La celebrazione eucaristica è simultaneamente mensa e sacrificio, sacrificio e mensa. In

quanto sacramento del sacrificio unico della croce è inseparabilmente celebrazione della cena del

Signore: è convito sacrificale e sacrificio conviviale', due contenuti indissociabili. E tale è il duplice

significato dell’altare, simbolo di Cristo e del suo evento pasquale: luogo di un’oblazione sacrificale

e convocazione a un banchetto di comunione. Lo rileva sant’Ambrogio con una formula tanto

sintetica quanto incisiva: «L’altare è l’immagine del corpo di Cristo, e il corpo di Cristo sta sull’alta-

re».508 Ogni dibattito sull’identità del mistero eucaristico che privilegi un solo aspetto a scapito

dell’altro rischia di sminuirne la globalità o di non esprimerla compiutamente. Lo stesso farsi presente

del Signore negli elementi sacramentali del pane e del vino è al tempo stesso segno della sua

oblazione al Padre e atto di consegna indirizzato a fare dei discepoli un’unica comunità vivente di

lui e per lui. Così, se nell’eucaristia contempliamo con stupore la venuta del Signore Gesù in mezzo

a noi e lo riconosciamo nella fede, questa venuta si pone al tempo stesso come accadimento di

incontro, per renderci partecipi della sua pasqua, e accadimento di koinonia fondante la comunione

dei molti in un unico pane e in un solo calice (ICor 10,16-17). La distribuzione del «pane spezzato»

e il bere all’«unico calice» esprimono questo evento totale. Accostandosi all’unica mensa i fedeli

accettano di lasciarsi coinvolgere dall’offerta sacrificale di Gesù e manifestano, rafforzandolo,

l’essere divenuti in lui membra del suo corpo che è la Chiesa (ICor 12,12-27).

Molto opportunamente il concilio Vaticano II ha spiegato come il rito della comunione vada

inteso come parte integrante del realizzarsi della «memoria» eucaristica e di una partecipazione

piena, consapevole, attiva (SC 11; 48); segno di una «partecipazione più perfetta, grazie a cui i fedeli

ricevono il Corpo del Signore dal medesimo sacrifìcio» (SC 55). Egualmente significativa, in questo

ambito, è la comunione sotto le due specie, come spiega il Messale Romano al n. 240: «La santa

comunione esprime con maggiore pienezza la sua forma di segno se viene fatta sotto le due specie.

In essa risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico». E tale era la prassi normale dei

primi secoli. Come si è accennato, le cose sono cominciate a cambiare verso la fine del IV secolo. La

stessa teologia cercherà di giustificare questo fenomeno, spiegando che il sacerdote si comunica a

nome di tutti i presenti. E chiaro che, se è vero che si partecipa alla messa con l’offrire e l’offrirsi con

Cristo nella comunità, è altrettanto vero che una piena partecipazione al sacrificio eucaristico chiede

di comunicarsi col suo corpo immolato e il suo sangue versato per poter rivivere compiutamente il

mistero celebrato e «fare» nella propria esistenza un segno di ciò che Cristo ha fatto una volta per

sempre sulla croce. La comunione eucaristica, infatti, non solo presuppone, ma esige e chiama al

dono di sé a imitazione di colui che si fa perennemente dono per noi. Solo in questo modo è vissuta

in pienezza e i fedeli attuano quanto Gesù ha comandato di «fare in sua memoria». Il ricevere i doni

eucaristici è componente specifica della celebrazione a cui si partecipa. Cristo si rende presente per

essere accolto nel banchetto della comunione. La teologia tradizionale ha enumerato quattro effetti

principali dell’incontro eucaristico: 1) realizza e fa crescere nella comunione con il Salvatore,

coinvolgendoci più pienamente nel suo unico mistero pasquale; 2) edifica la Chiesa e fa crescere nella

comunione con i membri del corpo di Cristo in quanto comunità del Risorto inabitata dal dono del

suo Spirito; 3) è rimedio necessario contro il peccato, sia in quanto libera dai peccati veniali sia in

quanto preserva da quelli mortali (Denz 1638), ed è forza medicinale contro le tentazioni;509 4) prepara

i credenti alla gloria della risurrezione; un effetto, quest’ultimo, che appare particolarmente visibile

quando la comunione - come si dirà più sotto - è ricevuta in forma di viatico.

508 De Sacr. 4,7 (PL 16,437D); 5,7 (PL 16, 447C). 509 AMBROGIO, De sacr. 4,28 (PL 16,446A).

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5. Presenza «per antonomasia» del Risorto

La celebrazione sacramentale dell’evento pasquale, sia come sacrificio che come convito,

rimanda alla presenza reale del Kyrios, in corrispondenza a quanto promesso da Gesù stesso non solo

ogni volta che la comunità si riunisce in assemblea orante (Mt 18,20), ma nel quadro delle sue stesse

parole istitutive: «Questo è il mio corpo». «Questo è il mio sangue». Un est che la fede della Chiesa,

a Trento, ha interpretato in senso storico-letterale come effettiva identità tra i doni del pane con il suo

corpo e del vino con il suo sangue donati da Cristo sulla croce e come segni della sua presenza reale

(Denz 1636-1637; 1752).

Il concilio Vaticano II, da parte sua, ha evidenziato come i modi di presenza del Risorto nella

Chiesa siano molteplici e diversificati (SC 7). Tra questi modi, la presenza eucaristica è da ritenere e

comprendere come la presenza per antonomasia del Signore glorioso fra noi. E Paolo VI che,

nell’enciclica Mysterium fidei, utilizza questa qualifica: «La presenza di Cristo nell’eucaristia è detta

“reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano reali, ma per antonomasia, per eccellenza,

in quanto ci fa incontrare direttamente con Cristo, Dio Altissimo, nella pienezza di redenzione».510

La questione che si pone alla riflessione teologica è proprio quella di esplicare, nella maniera più

adeguata, questo tipo di presenza, non svalutando le altre forme di presenza, ma affermandone la

peculiarità: il fatto e il modo.

5.1. IL FATTO DELLA PRESENZA REALE

Il magistero della Chiesa è intervenuto più volte, come si è avuto modo di constatare, contro

coloro (da Berengario ai riformatori e fino ai modernisti) che hanno negato la realtà di questa presenza

e, nel concilio di Trento, ha definito come dottrina di fede che «nel santissimo sacramento

dell’eucaristia si contiene veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue, insieme con

l’anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, e perciò tutto Cristo» (Denz 1651). Il testo

tridentino utilizza tre avverbi latini (vere, realiter, substantialiter), scelti in diretta antitesi alle

concezioni dei protestanti che tendevano a conferire alle parole dell’istituzione un significato solo

indicativo o metaforico, finendo per negare la presenza oggettiva di Cristo nell’eucaristia come azione

celebrativa e come sacramento permanente. Secondo Trento è «tutto Cristo» che si rende presente nel

«santissimo sacramento dell’eucaristia». La connotazione per modum sub- stantiae dice la differenza

specifica della presenza eucaristica rispetto agli altri modi di presenza. Il concetto di fondo è fornito

dall’identità degli elementi consacrati con la presenza corporea del Cristo trasfigurato. Il termine

«presenza» va inteso nell’eucaristia, in senso pieno, e non in un’accezione soggettiva o legata

unicamente al pensiero di chi crede:

• è presenza oggettiva della totalità di Cristo nel sacramento dell’altare, in ognuna delle

due specie e in ogni parte delle specie divise (toto in tota et in omnibus partibus; Denz 1653);

• in quanto «sostanziale», suppone un legame essenziale con i segni sacramentali

consacrati: dove si danno tali segni, là vi è la presenza reale di Cristo;

• la presenza eucaristica non va pensata come una moltiplicazione in molti luoghi

dell’unico corpo e sangue di Cristo: il Risorto oltrepassa le limitazioni dello spazio e del tempo e si

rende presente in tutte le specie validamente consacrate;511

• la presenza reale è realizzata in forza dell’invocazione dello Spirito (epiclesi) e in virtù

delle parole della consacrazione (vi conco- mitantiae verborum);

• la presenza reale va oltre l’atto celebrativo della messa e rimane finché permangono i

segni sacramentali validamente consacrati] solo quando essi perdono la loro natura propria cessa la

loro relazione con la presenza di Cristo.

510 PAOLO VI, lettera enciclica Mysterium fidei, 3.9.1965: EV 2/424. 511 Tommaso parla di una relazione sostanziale del corpo glorioso di Cristo con le specie consacrate (STh III, q. 76, a 6c.).

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Il soggetto della presenza è il Christus totus che trasfigura gli elementi naturali e li rende vie

e mezzi realmente portatori della sua realtà come autodedizione oblativa e perenne del Figlio

incarnato, morto e risorto, al Padre. Non si deve infatti dimenticare che il dogma della presenza

eucaristica di Cristo non può essere isolato dal suo mistero pasquale o considerato come una sorta di

miracolo astratto; appartiene alla logica incarnatoria delVhistoria salutis, costantemente caratterizzata

dal farsi presente di Dio con i suoi, fino all’invio dell’Unigenito nel grembo di Maria e alla sua

immersione nel mistero della morte. In quanto presenza dell’Offerente Gesù Cristo, la presenza

eucaristica costituisce una continuazione/tappa del suo evento incarnatorio-sacrificale e del suo farsi

dono per noi. Parlare della presenza eucaristica del Risorto per modum substantiae implica almeno

quattro contenuti teologici, strettamente intrecciati fra loro: 1) La presenza eucaristica è presenza

della persona fisica di Gesù Cristo sotto i segni (o species) del pane e del vino. 2) Tale presenza non

è la presenza di qualcosa, ma di Qualcuno e quindi un evento di carattere relazionale: è un farsi

incontro del Signore Gesù ai suoi per entrare in comunione con loro. 3) La presenza relazionale del

Kyrios si configura come presenza anamnetico-pneumatica, in quanto porta con sé il mistero pasquale

realizzatosi nella sua persona e nel dono del suo Spirito alla Chiesa. 4) La presenza di Cristo nei segni

del pane e nel vino non è limitata al solo atto dell’azione celebrativa, ma suppone la sua permanenza

e quindi la sua adorabilità e il culto eucaristico fuori della messa come dato essenziale della fede

(Denz 1656).

Già Tertulliano ricordava che era prassi diffusa fra i cristiani quella di portare nelle loro case

il pane consacrato, dopo la celebrazione eucaristica domenicale, per comunicarsi durante la settimana

(De or al, 19). E lungo tutta la storia della Chiesa i fedeli hanno manifestato la loro fede conservando

il pane eucaristico dopo la messa per la comunione dei malati e per il viatico dei morenti.

Successivamente, «approfondendo la fede nell’eucaristia - come osserva il Catechismo della Chiesa

Cattolica (CCC1370) - la Chiesa ha preso sempre più coscienza del significato dell’adorazione

silenziosa del Signore presente sotto le specie eucaristiche», sviluppando varie forme di culto

pubblico e personale in relazione alle singole epoche. Rimane vero che l’adorazione eucaristica non

dovrebbe mai trascurare il profondo legame che sussiste tra la presenza della persona di Cristo e il

suo accadimento pasquale: colui che si adora è colui che vuole renderci partecipi della sua dedizione

sacrificale e che, dopo essersi consumato per noi, vuole essere consumato da noi per trasformarci in

sé e plasmarci nel suo «noi» ecclesiale. Un’autodedizione, dunque, che vuole darsi al tempo stesso

come evento di comunione in senso verticale, con lui, e in senso orizzontale, degli uni con gli altri.

Già san Tommaso d’A- quino puntualizzava come la presenza di Cristo non debba essere interpretata

in una prospettiva semplicemente spaziale (localiter), ma personale (personaliter), e quindi come

espressione del libero donarsi di un io a un tu e come un evento che costruisce la Chiesa.17 Questo

tipo di presenza - già a livello antropologico - implica dei segni, per poter essere percepita e attuarsi

pienamente nella storia e nella vita dei credenti. Nell’eucaristia i segni sono gli elementi materiali del

pane e del vino trasformati in segni portatori della realtà di Cristo e del suo amore totale. A riguardo

è sufficiente richiamarsi alle parole dell’istituzione: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo...

Prendete, bevete: questo è il mio sangue». Nel linguaggio semitico, le locuzioni «corpo» (o «carne»)

e «sangue» indicano tutta la persona; aggiungere che quel corpo è «dato per» e quel sangue è «versato

per» significa fare riferimento al dono incondizionato di Gesù nel sacrificio della croce. Celebrando

l’eucaristia la Chiesa rivive, dunque, questa autodonazione dell’Unigenito incarnato realizzata una

volta per sempre nella sua morte, e la fa propria. Prendendo il pane e il vino consacrati, noi

accogliamo il Signore stesso che si consegna a noi in un libero e gratuito gesto di oblatività, entrando

in una effettiva comunione relazionale con lui e, in lui, con il suo corpo che è la Chiesa.

5.2. IL MODO: LA TRANSUSTANZIAZIONE

La presenza-dono del Signore nell’eucaristia è stata tradizionalmente descritta, come si è

visto, a partire dalle categorie aristoteliche di «sostanza» e «accidenti» (o «specie esterne»). Questo

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modo di affermare la presenza reale viene qualificato come transustanziazione: passaggio di tutta la

sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù. Una forma esplicativa che

non appartiene - propriamente parlando - al dogma di fede, ma che rappresenta la modalità più

appropriata, conveniente e adatta (propria, conveniente, aptissima; Denz 1642 e 1652) per proporlo

e salvaguardare Voggettività della presenza di Cristo, evitando di indurre a forme di soggettivismo

che finiscono per far dipendere il dono che il Signore fa di sé nell’eucaristia dal riconoscimento, dalla

fede o dall’accettazione del soggetto umano. È ovvio che il concetto di transustanziazione non

dev’essere inteso in un senso fisico-chimico, ma a livello ontologico-sacramentale, tipico di ogni

manifestazione divina nel mondo. Il mistero eucaristico dice mutamento non nel complesso delle

proprietà materiali del pane e del vino, ma nel passaggio di essere della sostanza - in senso metafisico

- del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo; e ciò in virtù di un’azione divina,

operata dalla parola di Cristo nella grazia dello Spirito, paragonabile a un atto di «nuova creazione»

e di «incarnazione sacramentale». Lo sviluppo del dogma ha mostrato come questo concetto si sia via

via precisato, con la preoccupazione costante di mostrare il principio di un’identità ontica tra il Cristo

storico, morto e risorto, e la sua presenza sacramentale. È il concetto di sostanza il discrimine, il punto

critico, di tutto il dibattito relativo al modo della presenza eucaristica. La «sostanza» non va intesa

nei termini con cui la comprendono le scienze naturali o biologiche, come il complesso fisicochimico

di un ente, ma come la profondità del suo essere, il nucleo essenziale che fa essere una realtà ciò che

è, e la distingue da ogni altra realtà. Rispetto a questa profondità o nucleo essenziale, la forma esterna

è costituita dalle proprietà o qualità visibili di quell’ente. La transustanziazione attinge alla

dimensione metafisica dell’essere, a un livello trans-empirico, al di là delle sue proprietà o qualità

solo materiali. Se non si coglie questa dimensione si rischia di non essere in grado di avvicinarsi alle

soglie del mistero o di confondere la transustanziazione con un metabolismo naturale delle realtà che

niente avrebbe a che vedere con l’esplicazione che la dottrina della Chiesa cerca di dare del dogma

in cui crede.

Non meno rischioso è il pericolo di tutte quelle nuove teorie che sono state formulate negli

anni ’70, nel tentativo di interpretare con nuove categorie la presenza eucaristica; teorie a cui si è fatto

cenno e che vanno sotto il nome di «transignificazione» e «transfinalizzazione». A riguardo, già Paolo

VI nella Mysterium fidei e nella professione di fede proclamata il 30 giugno 1968, alla chiusura

dell’anno della fede, e poi Giovanni Paolo II in svariate occasioni, sono intervenuti per precisare che

ogni spiegazione diversa da quella della transustanziazione deve assolutamente salvaguardare la

presenza reale di Cristo nell’eucaristia, pena il mettersi fuori dell’ortodossia cattolica. Grazie

all’eucaristia Cristo continua a essere l’Emmanuele, il Dio-con-noi (Is 7,14; Mt 1,22-23) che ha posto

definitivamente la sua tenda nel mondo (Gv 1,14). La «dimora» di YHWH (shekinah) rappresenta

una realtà biblica fondamentale, realizzata in mezzo a Israele e insieme attesa per i tempi ultimi della

salvezza: «La mia dimora sarà in mezzo a loro: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo»

(Es 37,27). Se nel NT l’intera comunità cristiana è descritta come dimora di Dio in mezzo all’umanità

(lPt 2,4-5; Ef 2,19-22), all’interno della Chiesa la presenza eucaristica di Cristo costituisce la forma

di presenza più alta come presenza del Risorto fra i suoi: la presenza eminente del Signore glorificato

che ci attira a sé, per ricolmarci della grazia salvifica della pasqua, in attesa di trasfigurare con la

potenza del suo Spirito l’intero universo. Teologicamente si comprende che se Cristo si fa presente

attraverso il cambiamento della «sostanza» del pane e del vino nella «sostanza» del suo corpo e del

suo sangue, la sua presenza non cessa dopo la conclusione dell’azione liturgica e il pane eucaristico

conservato dalla Chiesa ne rimane il segno vivo.

È quanto ha espresso con estrema chiarezza e calore ammirativo l’istruzione Eucharisticum

mysterium:

La pietà che spinge i fedeli a prostrarsi presso la santa eucaristia li attrae a partecipare più

profondamente al mistero pasquale e a rispondere con gratitudine al dono di colui che con la sua

umanità infonde incessantemente la vita divina nelle membra del suo corpo. Trattenendosi presso

Cristo Signore, essi godono della sua intima familiarità e dinanzi a lui aprono il loro cuore per loro

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stessi e per tutti i loro cari, e pregano per la pace e la salvezza del mondo. Offrendo tutta la loro vita

con Cristo al Padre nello Spirito Santo, attingono da quel mirabile scambio un aumento di fede, di

speranza e di carità. Alimentano quindi così le giuste disposizioni per celebrare, con la devozione

conveniente, il memoriale del Signore e ricevere frequentemente quel pane che ci è dato dal Padre

(n. 50).

6. Chiesa e celebrazione della nuova alleanza

Come ama dire la teologia contemporanea, la Chiesa «fa» l’eucaristia, l’eucaristia «fa» la

Chiesa: è la Chiesa che ha ricevuto da Cristo il mandato di «fare» l’eucaristia; ed è dunque attraverso

l’atto della Chiesa che il mistero pasquale si dispiega nel tempo e nello spazio come accadimento

eucaristico; ma è proprio in quell’atto stesso con cui la Chiesa «fa» l’eucaristia che l’eucaristia «fa»

la Chiesa, nel senso che la dice, la suscita e la rigenera di continuo come la comunità della pasqua

del Risorto, plasmandola quale comunità della nuova ed eterna alleanza, il nuovo Israele di Dio nella

storia. Sotto ogni aspetto, l’eucaristia appare come la sorgente permanente della Chiesa e il vertice

del suo essere: centro focale che fonda, manifesta e proclama il mistero del nuovo popolo di Dio. Fin

dai primi tempi la fede ha riconosciuto questa identità eucaristica della Chiesa. Il concilio Vaticano

II arriva ad affermare che «nessuna comunità cristiana può mai costruirsi senza avere come radice e

cardine la celebrazione della santissima eucaristia» (LG 26; PO 6).

Tre contenuti meritano di essere posti in luce in questo contesto: la Chiesa dell’eucaristia come

comunità che prolunga la vocazione del Servo di YHWH, facendosi serva sulle tracce del suo Maestro

e Signore (diakonia); la Chiesa dell’eucaristia come comunione di fratelli e sorelle attorno all’unico

pane e all’unico calice (koinonia); la testimonianza che la Chiesa dell’eucaristia è chiamata a portare

al mondo alla luce della pasqua di Cristo (ethos).

6.1. LA CHIESA EUCARISTICA COME DIAKONIA

La fede della Chiesa indirizza verso una precisa forma di accoglienza del mistero eucaristico.

Facendo memoria del suo Signore, in attesa che egli ritorni, la Chiesa entra nella stessa logica

del dono totale di sé. Attorno all’unica mensa eucaristica e condividendo l’unico pane, essa cresce e

si edifica come «carità». Dall’eucaristia scaturisce quindi un impegno preciso per la comunità

cristiana che la celebra: testimoniare visibilmente e nelle opere, il mistero di amore che accoglie nella

fede.512

La teologia dell’eucaristia non poteva essere riassunta in modo migliore: celebrando il mistero

dell’auto-oblazione di Cristo per noi, la comunità ecclesiale - e in essa ognuno di noi - è chiamata a

rivivere la medesima logica del dono e quindi di servizio sul modello di quello del suo Signore e

Maestro. La prospettiva di fondo può essere sinteticamente enunciata in questo modo: associando

alla missione di servizio di Gesù, r‘ebed YHWH, l’eucaristia edifica la Chiesa come comunità di

diakonia, di servizio salvifico al mondo e di servizio ab intra, come comunità di fratelli e sorelle

nell’unico popolo di Dio.

Gesù Servo dì YHWH. La tradizione evangelica è unanime nel collocare la figura di Gesù nella

linea del «servo fedele» descritto dal Deutero- Isaia. La sua intera esistenza è una ‘abodah, un

«servizio cultuale» al Padre, un glorificarlo nel fare la sua volontà (Gv 17,1-5). La scena del battesimo

al Giordano è interpretata da tutti e tre i sinottici (Mc,9-11 e par.) come il riconoscimento di Gesù in

quanto «servo» del Signore secondo Is 42,1 sostituendo il termine «servo» con quello di «figlio»

grazie al doppio significato del termine greco paisP Esplicitamente Mt 12,17-21 collega la missione

di Gesù all’annuncio di Is 42,1-4. A loro volta, i pre-annunci della passione evocano da vicino l’eco

512 CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, Roma 1990, n.17.

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dei canti del servo fedele.513 La passione è descritta, specialmente da Matteo, con i tratti tipici del

servo sofferente.514 In tutto questo, c’è indubbiamente da tener presente l’apporto redazionale degli

evangelisti, ma ciò non implica che non vi sia un dato originario consistente nel fatto che Gesù stesso,

per primo, ha delineato la propria esistenza come una ‘abodah, un «servizio cultuale» in risposta alla

volontà del Padre.515 Di straordinario interesse, da questo punto di vista, è il detto fondamentale di

Mc0,45 (e par. Mt 20,28 e Lc2,24-27): Il figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma

per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.

Secondo le dettagliate analisi di J. Jeremias, il detto dev’essere fatto risalire nella sostanza e

perfino nella forma a Gesù stesso.516 Il detto si colloca sullo sfondo del terzo annuncio della passione

(Mc0,32-34) e, pur situandosi in un contesto esortativo (Mc0,44), enuncia quello che rappresenta il

programma stesso di vita di Gesù. L’espressione «dare la propria vita in riscatto per molti» è

chiaramente ispirata alla vicenda del Servo di YHWH (Is 42,14[15-19]; 49,1-6; 50,4-9[10-ll]; 52,13-

53,12), chiamato a offrire la propria vita, sacrificando se stesso per espiare il peccato del popolo

(53,10.11) 517 La stessa allusione alla figura del «Figlio di uomo» di Dn 7,13-14 riceve - in questo

detto - una rilettura nuova e originale: Gesù si presenta come il «figlio dell’uomo» che, anziché

chiedere gloria e potenza, pone se stesso come servo di tutti. Con la libera accettazione della sua

morte, egli diviene «riscatto» per «i molti» (i rabbini di Is 53,11-12, o i polloi di Mc4,24 e Mt 26,28).

Un modo di descrivere l’oblazione di Gesù in evidente corrispondenza con le parole dell’ultima cena

sul pane e sul vino.

La cena di addio come esegesi della missione totale di Gesù, Servo di YHWH. Secondo la

tradizione evangelica, il senso del banchetto pasquale si incentra essenzialmente sulla presenza del

Servo fedele del Signore.518 In questo banchetto si condensa la missione totale di Gesù, i suoi pasti

con i peccatori e il senso della sua venuta come «figlio dell’uomo venuto non per essere servito, ma

per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc0,45). Lapro-esistenza dell’Unigenito incarnato,

la sua esistenza-per-gli-altri, converge nell’evento del suo autoconsegnarsi alla morte per tutti.

L’ultima cena manifesta e contiene, come profezia in atto, questo evento, assumendo in sé tutto il

passato e preanticipando il futuro della pasqua che Gesù sta per vivere in se stesso. La diakonia della

croce è come sacramentalizzata in anticipo in un banchetto di addio, quello delV‘ebed YHWH. Il

«pane» e il «vino» offerti in dono agli apostoli costituiscono i significanti vivi del suo «corpo dato»

e del suo «sangue versato», i simboli reali della sua persona e del suo dono salvifico, come evocano

le stesse parole di Gesù.

Il legame tra 1’ ‘ebed YHWH e l’ultima cena non è di ordine semplicemente esplicativo; fa

parte dell’accadimento stesso del convito pasquale e del suo significato: la morte di Gesù in croce è

una diakonia, un servizio, in risposta alla volontà del Padre. I racconti evangelici hanno cura di

rilevare questo dato, mentre ne omettono molti altri. Particolarmente indicativo, in questo senso, è il

fatto che Luca inserisca nel contesto dell’ultima cena i due detti sull’obbligo dei capi di servire a

tavola sull’esempio di Gesù che sta in mezzo ai suoi come colui che serve (Lc2,25- 26.27). Secondo

513 Cf. Mc,31; 9,30; 10,32-34 e par., con le dizioni «soffrire», «riprovato», «messo a morte», «consegnato nelle mani degli uomini»,

«lo scherniranno», «gli sputeranno addosso», «lo flagelleranno e lo uccideranno». 514 Gesù versa il suo sangue «in remissione dei peccati» (Mt 26,28 con Is 53,12); di fronte agli accusatori, egli tace (26,63 e 27,14

con Is 53,7); gli sputano in faccia e lo bastonano (26,67 con Is 52,14; 50,6); lo crocifiggono «tra i malfattori» (27,38 con Is 53,12.9);

viene sepolto nella tomba di un uomo ricco (27,59-60 con Is 53,9). 515 Una conferma indiretta viene dal fatto che anche Paolo, indipendentemente dai vangeli, presenta Gesù come il servo obbediente

che si offre per gli uomini con la sua morte (Fil 2,7-8 con Is 52,13-53,12; 42,1-4). Cf inoltre: ICor 6,20; 7,23 e Gal 3,13; 4,5 dove

l’azione salvifica di Gesù è presentata come un pagare il debito contratto dagli uomini con il loro peccato. 516 Cf. JEREMIAS, Teologia del NT, 334-336. 517 Si ha un perfetta corrispondenza tra l’espressione semitica di Isaia sym naphsho (porre la propria vita) e quella greca dounai ten

psychen di Mc0,45. 518 Ciò è vero sia che questo banchetto sia stato un banchetto di haburot o un vero e proprio pasto pasquale. I sinottici insistono nel

descrivere i preparativi della cena in relazione alla celebrazione della pasqua ebraica. A sua volta, Paolo richiama la «notte in cui Gesù

fu tradito»; ora si sapeva che tale «tradimento» era avvenuto nei giorni della pasqua ebraica. Tutto il clima in cui si compie l’ultimo

banchetto appare carico, del resto, di risonanze pasquali, come risulta esplicitamente da Gv 13,1.

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H. Schurmann, con questa collocazione Luca vuol ricordare che il mistero eucaristico, in quanto

celebrazione della missione dell’ ‘ebed, è un atto di «servizio cultuale», inseparabile dal servizio

fraterno e dalla condivisione dei beni.519 È soprattutto Giovanni che - riportando l’episodio della

lavanda dei piedi (13,1-15) e ponendolo in relazione all’evento della passione (vv. 1 e 3) - manifesta

la consapevolezza di una diakonia che Gesù svolge nell’attuazione del suo mistero pasquale. Al

centro dell’episodio si colloca il Signore e il Maestro che serve i suoi fratelli; un gesto che vuol essere

un segno visibile del suo offrirsi redenti- vo, del suo darsi sulla croce per tutti. Il gesto viene

interpretato da Gesù stesso come un «servizio», un porsi quale «servo» (doulos) a servizio dei «molti»

(vv. 13-15). È evidente, del resto, come l’intero episodio della lavanda dei piedi sia indirizzato

all’evento della croce (dal tradimento di Giuda: v. 2, all’incomprensione di Pietro con la possibilità

di recepirne il significato «dopo»: vv. 6-7, fino all’allusione circa la necessità di una purificazione

per «aver parte con Gesù»: w. 8-11). La «diakonia» della lavanda dei piedi si presenta così come una

rappresentazione simbolica che prefigura la diakonia della croce come ‘abodah, «servizio cultuale»

in cui si coniugano inseparabilmente la glorificazione del Padre e la salvezza del mondo (Gv 17,4).

Nella prospettiva del Vangelo di Giovanni, la lavanda dei piedi viene a sostituire il racconto

dell’istituzione, rivelandone il contenuto profondo: la celebrazione eucaristica - sembra dire

l’evangelista - raggiunge la sua piena verità e il suo effetto pieno solo se i discepoli accettano di

porsi nella linea di quanto Gesù ha vissuto in se stesso e si fanno - come lui - servi gli uni degli altri,

fino a dare la propria vita per la salvezza del mondo. Sussiste, in questo senso, un fondamentale

parallelismo tra il comando di far memoria del banchetto eucaristico e l’imperativo a servire. Il

comando: «Fate questo in memoria di me» trova il suo corrispondente nelle parole: «Voi mi chiamate

Maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro ho lavato i vostri

piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio perché, come ho

fatto io, facciate anche voi» (Gv 15,12-13). All’imperativo sinottico: «Fate questo», fa riscontro

quello giovanneo: «Fate anche voi», o l’ottativo: «Facciate anche voi». Non si è abituati a mettere in

parallelo questi imperativi, ma è indispensabile: in essi, infatti, nel loro reciproco richiamarsi e

coniugarsi, risiede il cuore della teologia neotestamentaria dell’eucaristia, integralmente intesa, e il

ruolo che essa svolge nell’edificazione della comunità ecclesiale.

La Chiesa, comunità di servizio plasmata dal mistero eucaristico. I segni del pane e del vino

racchiudono il significato totale dell’esistenza di Gesù, Servo di YHWH, il suo passato, il suo

presente e il suo futuro: lo spezzare il pane e il porgere il calice dell’alleanza ai discepoli rappresen-

tano degh atti di ordine sacramentale nei quali il mistero pasquale è detto in anticipo come contenuto

peculiare e forma specifica della comunità della nuova ed eterna alleanza. Con quegli atti il Signore

e Maestro costituisce il nuovo popolo di Dio come la sua comunità di servizio, la diako- nia dei tempi

ultimi della salvezza. In quel banchetto di addio, infatti, Gesù crea tra sé e la comunità dei suoi - per

il fatto stesso di mangiare e bere con loro - un legame vitale non solo di comunione, ma di identifi-

cazione. Il gruppo dei discepoli rappresenta la comunità- ‘ebed YHWH dei tempi escatologici,

modellata sul suo servizio. Durante la cena Gesù si rivolge a un tempo al Padre, al quale si offre in

riscatto per tutti (coordinata verticale del racconto), e ai discepoli ai quali - come primizia della

comunità salvifica - si autodona nei segni del pane e del vino e ai quali affida il mandato di celebrare

la sua pasqua fino al compimento della storia (coordinata orizzontale del racconto). I gesti del «dare»

e i pronomi personali impiegati da Cristo («mio corpo», «mio sangue», «per voi», «per molti»)

manifestano la sua esplicita volontà di fare della comunità dei discepoli la comunità messianica,

manifestazione in atto e dispiegamento della sua missione di ‘ebed. Con l’atto stesso dell’istituzione

eucaristica, la Chiesa è così fondata e strutturata come comunità-serva di YHWH.

Il senso di questa comunità-serva risulta, con particolare evidenza, dal simbolismo del

banchetto e del calice. Si sa come in ambiente biblico il pasto preso in comune, specie in circostanze

speciali, significasse perdono, fraternità e unisse i commensali in una comunione sacra al punto che

519 Cf. H. SCHURMANN, Le récit de la dernière Cène, Paris 1966,62-65; 71-73. Questa interpretazione è chiaramente confermata

dalla concezione lucana dell’eucaristia testimoniata dagli Atti.

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il violarla rappresentava una delle colpe più gravi.520 Sedendosi a mensa con Gesù e accogliendo il

suo pane spezzato, i discepoli ricevono da lui e in lui il dono del Padre che adempie i tempi attesi e

inaugura la comunità dei tempi ultimi. Poiché partecipa al corpo offerto, la comunità comunica al

destino dello ‘ebed, divenendo anch’essa Serva di YHWH. «Mangiando il corpo-donato deve

diventare, nella potenza che esso gli comunica, anch’essa corpo-ecclesiale-donato, corpo-per-gli-

altri, corpo- off erto-per-le-moltitudini. E ciò deve compiersi nello stesso tempo in ciascuno dei

membri e come comunità».521 L’istituzione eucaristica plasma dunque una comunità che,

originariamente, è una diakonia, una fraternità di servizio, forgiata sulla diakonia che Gesù ha vissuto

per primo in se stesso e che lascia ai suoi quale testamento-sempre-in-atto. Lo stesso significato risulta

dal calice sul quale è pronunciata la preghiera di benedizione alla fine del banchetto. Anch’esso

implica il contenuto di una comunione stabilita mediante la partecipazione al dono di Dio, ma con

un’intonazione particolare. Offrire a qualcuno il calice di benedizione significava associarlo al bene

divino per il quale si è reso grazie; bere al calice di un altro comporta infatti un profondo grado di

intimità con lui (ISam 12,3). Nell’atto stesso di passare il calice ai discepoli, Gesù indica la sua

volontà di renderli partecipi della sua missione di ‘ebed YHWH. Facendo circolare il calice di

benedizione affinché tutti - e su questo «tutti» insistono Marco e Matteo - ne bevano, Gesù attua la

partecipazione alla sua diakonia di tutti coloro che prendono parte alla sua cena.522

La Chiesa si trova perciò stabilita, con il medesimo atto che la fa nascere, come diakonia,

popolo-servo a servizio di tutti gli uomini: più si fa serva, più la Chiesa proclama ciò che è divenuta

«una volta per sempre» e manifesta la fedeltà al mandato ricevuto. Il pane e il vino collegati alla

persona di Gesù e all’evento della sua pasqua rappresentano la sorgente costitutiva ed esplicativa di

ciò che la Chiesa è ed è chiamata a essere: la comunità serva di YHWH. Inserendola nella comunione

del Servo, l’eucaristia rende infatti partecipe la comunità alla stessa missione di Gesù. Questo

passaggio dalla vocazione di Gesù-Servo alla vocazione della Chiesa-Serva risulta ancora più chiaro

se si tiene presente il concetto biblico di «personalità corporativa» in base a cui nell’individuo- Servo

è la totalità del popolo di Dio che realizza il suo mistero.523

Di qui l’ulteriore prospettiva che ne deriva: offrendosi nei simboli del pane-spezzato e del

vino-versato e invitando i suoi a mangiare di quel pane e bere a quel calice, Gesù costituisce la sua

comunità come comunità-comunione nel dinamismo della sua ‘abodah pasquale. Partecipando alla

missione del Servo, V‘ebed-popolo si costituisce come koinonia che accetta di fare del

«comandamento nuovo» il segno manifestativo e rea- lizzativo della sua peculiare identità.524

L’eucaristia come «sacrificio di alleanza». L’alleanza rappresenta la struttura fondamentale

del NT e della nascita della Chiesa. Luca vede il compiersi dell’evento della Pentecoste cinquanta

giorni dopo Pasqua (Lc,16 e At 1,5), esattamente come l’alleanza del Sinai che era avvenuta cinquanta

giorni dopo l’uscita dall’Egitto (Es 19-24).525 Alla teofania del Sinai (Es 20,1-17) corrisponde la

520 Cf. H.L. STRACK - P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, München 1924, 619-620. Tra

gli innumerevoli studi, si può vedere il piccolo, ma prezioso studio di J. JEREMIAS, «Questo è il mio corpo...», Brescia 1973,9-19. 521 J.-M.R. TILLARD, Eucaristia e fraternità, Milano 1969,42-43. 522 Si tenga presente che il calice ha spesso l’idea di sorte, per comprendere come, distribuendo il calice ai suoi, Gesù chiami i

convitati a partecipare alla sua stessa vicenda di ‘ebed YHWH. 523 Questo concetto è stato introdotto da H.W. ROBINSON con il suo articolo fondamentale: «The Hebrew Conception of Corporate

Personality», in Werden und Wesen des AT, 66, Berlin 1.936, 49-62. La ricchezza del tema è stata rilevata da J. DE FRAINE, Adam et

son lignage. Etudes sur la notion de «personalità corporative» dans la Bible, Bruges 1959; Io., «Individu et societé dans la religion

de l’AT», in Biblica 33(1952), 324-355; 445-475; e da S. SPADAFORA, Collettivismo e individualismo nel VT, Rovigo 1953. In relazione

al Servo sofferente, cf., tra i tanti, lo studio di R. NORTH, The suffering Servant in Deutero-Isaiah, an historical and critical Study,

Oxford 1956. 524 Per comprendere tale ulteriore prospettiva, in senso teologico e non solo moralistico, occorre tener presente il legame che si pone

tra eucaristia e sacrificio di alleanza e quindi tra il codice dell’antica alleanza e il comandamento della nuova alleanza in Cristo; un

aspetto che è stato magistralmente illustrato, già negli anni ’70, da S. LYONNET, Eucaristia e vita cristiana. Il sacrificio della nuova

alleanza, Roma 1982 (II ed., con prefazione del card. C.M. MARTINI); ed è stato ripreso da Fr. RICHARD di TAIZÉ, Dio ha rivelato il

suo Cuore, Leumann (TO) 1989 (con prefazione di S. LYONNET). 525 Come è noto è a partire da quell’evento che la Pentecoste, da festa della mietitura (Es

23,14), diventa festa della rinnovazione dell’alleanza (2Cr 15,10-13). 1

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manifestazione dello Spirito, accompagnata da segni analoghi (At 2,2). La promessa della nuova

alleanza, collegata al dono dello Spirito (Ez 26,27) e a una nuova legge scritta nel cuore dei redenti,

e non solo su tavole di pietra (Ger 31,33), appare adesso realizzata (At 1,17-24). L’eucaristia

appartiene a questo adempimento. Tutte e quattro le versioni del racconto dell’ultima cena, pur

differenziandosi in più di un punto, concordano nel far espressamente menzione di una «nuova

alleanza» che si compie nell’autoconsegna di Gesù per tutti (hypérpollon), con un esplicito

riferimento al «sangue dell’alleanza» (Mc/Mt) o alla «nuova alleanza nel suo sangue» (Paolo/Le). È

chiaro, in ogni formulazione, il collegamento con il sacrificio del Sinai in forza del quale Mosè aveva

proclamato il patto del Signore con Israele: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso

con voi» (Es 24,8b). Quell’alleanza era stata attuata con un rito di sangue (24,5-6.8a) «sulla base delle

parole» proclamate da Mosè a nome del Signore e accettate dal popolo (Es 24,7-8); un evento che,

nella fede biblica, evocava due contenuti essenziali: 1) Israele era nato da un «sacrificio di alleanza»;

2) Israele, con la sua adesione, era coinvolto in pieno nell’alleanza del Signore; non ne era un semplice

spettatore, ma un protagonista in risposta all’impegno assunto. Ogni volta che Israele rinnovava

l’alleanza «diceva» in atto l’identità ricevuta in dono e rinasceva di continuo in questa identità. «Far

memoria» dell’alleanza significava dunque, per il popolo eletto, rivivere la propria vocazione unica,

impegnarsi a rinnovarla e realizzarla a ogni svolta della storia. La dimensione vocazionale se per un

verso suppone la fedeltà incrollabile di Dio, per l’altro richiama l’adesione sempre nuova del popolo

d’Israele all’alleanza, affinché il rito della rinnovazione non sia svuotato della sua verità, ma

pienamente compreso e attuato.526 «Alleanza» e «legge», sotto questo profilo, sono inseparabili nella

fede biblica.527 L’alleanza (berìth/diathèkè), pur essendo un dono gratuito del Signore, esige una

risposta puntuale del popolo, un’opzione fondamentale, in linea con ciò che il rito stesso significa e

richiede. Tale è il richiamo ricorrente e forte dei profeti: mai un rito senza la vita.

L’alleanza proclamata da Gesù durante l’ultima cena si collega all’antica alleanza e alla sua

rinnovazione, per affermarne l’adempimento escatologico come «nuova alleanza» nel suo sangue.528

La morte di Gesù, anticipata nel banchetto di addio, si dà come realizzazione definitiva dell’attesa

messianica: un «sacrificio di alleanza per il peccato» dal quale sgorga il popolo della nuova alleanza,

annunciato dai profeti («Io sarò il loro Dio, essi il mio popolo», Ger 31,33). Alla nuova alleanza fa

riscontro il nuovo Israele di Dio. L’assoluta novità di questa stipulazione di alleanza consiste nel fatto

che essa non avviene - come ricorda la Lettera agli Ebrei - per mezzo di riti sacrificali esteriori, ma

in e attraverso la persona stessa di Cristo. Un dato inequivocabilmente esplicitato dalle parole con le

quali Gesù collega i doni del pane e del vino alla sua persona, al suo corpo e al suo sangue: il pane è

il suo corporato, il vino il suo sangue-versato. Le espressioni «corpo» e «sangue» designano, come

è evidente, la totalità dell’essere del Servo di YHWH, «sacrificio di alleanza» offerto per tutti. La

nuova alleanza si compie in forza di questo sacrificio nel quale offerente e offerta coincidono.529 La 526 Questo duplice aspetto appare con particolare evidenza nel racconto della rinnovazione dell’alleanza avvenuta a Sichem (Gs

24,1-28): Israele manifesta la sua peculiare identità e la realizza nell’atto stesso con cui fa memoria della propria origine, rinnovando

l’alleanza stretta con YHWH e accettando di obbedire alla sua legge (24,24-25). Lo stesso vale per la solenne rinnovazione dell’al-

leanza dopo il ritorno da Babilonia (Ne 8-10). 527 «Alleanza» e «legge» sono talmente unite che il Deuteronomio è presentato come «le parole dell’alleanza con YHWH» (Dt

28,69; 5,1-2). «Libro della legge» (2 Re 22,8.11) e «libro dell’alleanza» (2 Re 23,2.21) sono spesso usati come sinonimi; entrambi

rivelazione e dono di Dio. 528 In diversi modi l’AT aveva annunciato un’alleanza futura, eterna (Is 55,3; Ger 32,40; Ez 16,60; 37,26), un’«alleanza di pace» (Is

54,10; Ez 34,25), anche se l’espressione «nuova alleanza» ritorna solo in Ger 31,31. La caratteristica essenziale di questa «alleanza»

consisteva nel superamento dell’esteriorismo della legge; essa infatti doveva essere inscritta nel cuore degli uomini (Ger 31,31- 33) e

accompagnata dal dono dello Spirito (Ez 36,26-28). 529 È noto come nell’orizzonte biblico pane e vino rappresentassero la terra che, al termine del viaggio nel deserto, doveva offrire

agli ebrei grano e uva. Ponendo tali doni in relazione con la sua persona, Gesù indica come attraverso il pane e il vino venga annunciato

e comunicato un altro dono, immensamente più grande, che il Padre offre all’umanità: il dono della sua persona come compimento e

centro della nuova ed eterna alleanza. Il pane ricordava agli ebrei la bontà di YHWH verso il suo popolo ed evocava la manna donata

dal Signore a Israele durante il cammino nel deserto; un linguaggio carico di significato a cui Gesù stesso si era richiamato durante la

sua esistenza quando aveva proclamato di essere il «pane di Dio», quello vero, che il Padre offre agli uomini (Gv 6,48-58). Adesso

questo «pane alzato» diventa segno portatore della sua salvezza pasquale e della sua presenza fra gli uomini. Il vino era segno di vita,

di gioia e di convivialità; il fatto che, nell’ultima cena, esso sia collegato alla coppa alzata verso il Padre e benedetta, fa riferimento al

sacrificio di ringraziamento di cui più volte i salmi parlano: il calice della todah, sollevato nella lode riconoscente per l’alleanza stretta

da YHWH con il suo popolo. Un tale riferimento è confermato dal linguaggio utilizzato dai racconti dell’istituzione: l’accenno al

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sua persona si fa oblazione redentiva, consegnata alla comunità dei discepoli come contenuto decisivo

del nuovo culto, il culto dei tempi escatologici. Se Gesù è V‘ebed YHWH, egli è al tempo stesso colui

che fa dono di sé per riunire i figli dispersi e suscitare la comunità della nuova e definitiva alleanza

nel suo sangue. Con il mangiare il pane-dato e il bere il vino-versato, la comunità dei discepoli diviene

partecipe di questa nuova alleanza, in una osmosi vitale che significa almeno due realtà costitutive

della Chiesa:

• la fedeltà del Servo-Gesù passa alla comunità-serva; in forza di questo passaggio, di

questa fedeltà-donata, la comunità ecclesiale sarà per sempre la comunità della nuova alleanza, la

comunità indistruttibile dei tempi ultimi della salvezza;

• la comunità, partecipando all’unico pane spezzato e all’unico calice, è per ciò stesso

coinvolta nella medesima dinamica di autoconsegna, di accoglienza e di dono di sé; un

coinvolgimento che non risiede soltanto nel dire «sì» a una «legge» proclamata dall’esterno, ma

nell’essere detti ab intra dal «sacrificio della nuova alleanza», costituiti e determinati quindi dal suo

contenuto oblativo.

L’autoconsegnarsi di Gesù chiede l’autoconsegnarsi dei discepoli. Così, se la nuova alleanza

implica l’impegno solenne di Gesù che si offre per tutti, la celebrazione eucaristica che ne è la

«memoria» suppone il coinvolgimento di coloro che accolgono il corpo-dato e il sangue-versato, fino

a farsi a loro volta «pane spezzato» e «vino condiviso» con tutti. Solo in questa direzione i discepoli

realizzano il senso profondo del «far memoria» del sacrificio della nuova alleanza. E dal momento

che la morte di Gesù è un far morire ogni germe di divisione e abbattere ogni muro di divisione (Ef

2,11-18), la nuova alleanza stabilisce la Chiesa come una comunità in cui sono vinte tutte le

separazioni e le divisioni e si dà forma a uria comunione-comunità. La res offerta dai gesti del pane

e del vino, collegati alla sua persona, è la realtà di una fraternità conviviale, da costruire nella storia

come progetto nuovo inaugurato dalla pasqua del Redentore.530 Se Gesù, è l’ebed YHWH, assume,

nell’ultima cena, i gesti della mensa comunionale, per farne l’atto che significa la koinonia instaurata

dal suo corpo offerto e dal suo sangue versato e riunire gli uomini in un solo corpo, il corpo ecclesiale.

Il comandamento nuovo. L’eucaristia rappresenta, di conseguenza, l’atto centrale e peculiare

in cui si edifica e si modella la Chiesa-koinonia nel Signore. La consegna del «comandamento nuovo»

si colloca in questo preciso ambito. Se l’antica alleanza aveva richiesto l’impegno di accogliere la

legge mosaica e di osservarla, la nuova alleanza esige la realizzazione del comandamento dell’amore

e la piena sottomissione a esso come segno distintivo e plasmante della comunità nuova inaugurata

dalla pasqua. È quanto vuol far comprendere Giovanni quando insiste, con accenti di vibrata passione,

nel ricordare il comandamento nuovo dato da Gesù durante l’ultima cena: «Amatevi gli uni gli altri

come io vi ho amato» (Gv 13,34-35; 15,12-17). Ha ragione S. Lyonnet quando osserva che «è difficile

non vedere nel comandamento nuovo la promulgazione della legge, senza la quale per un israelita

non è possibile alcuna alleanza. I sinottici ci insegnano che l’eucaristia è un sacrificio di alleanza.

Giovanni ci indica qual è la legge di questa alleanza, ad osservare la quale i cristiani si impegnano,

per conseguenza, ogni volta che partecipano al mistero eucaristico».531 «Proprio per farci capire che

il dono della sua vita attua una comunione, Gesù dà il comandamento nuovo insieme al pane e al vino sangue versato evoca il carattere sacrificale del patto, non senza un’allusione alla sorte dei giusti (da Abele in poi) e dei profeti. 530 Si comprende questo significato del memoriale eucaristico alla luce del simbolismo ebraico del banchetto. L’atto dello spezzare

il pane che dà inizio al banchetto riveste un significato religioso particolare, tanto che chi arriva dopo si vedrà escluso dalla sua

partecipazione. Colui che presiede, distribuendo a ciascuno un pezzetto di pane sul quale è stata pronunciata la benedizione, costituisce

attorno a sé una solidarietà alla quale appartiene egli stesso. E tutti assieme beneficiano della benedizione pronunciata sul pane e quindi

della benedizione stessa di Dio. Comunicando al dono ricevuto, in un atto comune di lode, i commensali divengono una comunione

gli uni con gli altri, come un unum, «una cosa sola» (si pensi all ’ut unum sint della preghiera sacerdotale di Gv 17,11.21; D. MARZOTTO,

L’unità degli uomini nel Vangelo di Giovanni, Brescia 1977). Allo stesso modo, l’unicità del calice a cui tutti bevono evoca l’unica

comunità dei commensali, come esplicherà molto presto Paolo (ICor 10,16-17). La ricchezza ecclesiologica delle parole di Gesù sul

pane è ulteriormente confermata dalla convinzione diffusa che il corpo è ciò che conduce a unità le singole membra (si pensi a ICor

12). Il significato si trasferisce dal pane e dal vino al corpo e al sangue dell’‘ebed come luogo e sorgente della nuova comunità riunita

attorno a lui. 531 LYONNET, Eucaristia e vita critiana, 27.

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corpo e sangue suoi. Il dono di se stesso rinnova a fondo il nostro rapporto con Dio mediante il

perdono, e trasforma i nostri rapporti reciproci mediante l’amore fraterno che ha in lui la sua

sorgente».532 Il «come» (kathos) del comandamento nuovo riveste un’importante sfumatura di

causalità: non significa soltanto: «Prendete il mio amore ad esempio», ma più profondamente:

«Amatevi a motivo dell’amore che vi ho manifestato e dell’amore posto in voi in forza dell’evento

della mia pasqua».533 Il comandamento richiama dunque una fraternità che scaturisce dal dono di

Gesù che si autoconsegna alla morte, una fraternità fondante la comunità dei discepoli come una

comunione di amore sgorgata da quell’evento (cf. Gv 19,34). Il comandamento è detto «nuovo» non

solo perché supera il precetto veterotestamentario di «amare il prossimo come se stessi» (Lv

19,18.34), ma perché si modella sull’evento nuovo, gratuito, con cui Gesù ha offerto se stesso, «tutto»

e «per sempre». La misura dell’amore, a partire da quel momento, non è più soltanto l’amore che

ognuno prova per sé, ma la motivazione e l’esemplarità unica di Gesù che ha amato la Chiesa e ha

dato se stesso per lei, con un atto di pura benevolenza (Ef 5,25-27). L’eucaristia, sacrificio della nuova

alleanza nel sangue della croce, attua questo tipo di amore e lo proclama come legge peculiare del

popolo della nuova alleanza e di ogni sua componente. Un amore che non si costituisce tanto (o in

primo luogo) come un dato etico, ma come l’attuazione del dono dello Spirito promesso, sua espres-

sione e suo segno visibile. La nuova alleanza operata dalla morte del Servo si compie infatti nello

Spirito Santo. Per questo motivo, lo Spirito che egli invierà da parte del Padre non solo illuminerà i

discepoli sul senso dei gesti e delle parole dell’ultima cena e dell’itinerario vissuto da Gesù, ma

rappresenterà in pari tempo il principio fontale della Chiesa come comunità trinitaria adunata nella

carità del Padre, del Figlio e dello Spirito.534 L’eucaristia, dono dello Spirito alla Chiesa, manifesta il

senso del tempo tra le due venute come un tempo della carità nello Spirito e un tempo che costituisce

la comunità dei credenti quale comunione nello Spirito dell’amore del Padre e del Figlio. È per questa

via, la via dello Spirito, che la «memoria» eucaristica riconduce la Chiesa fino al grembo della Trinità

e la suscita come il popolo dell’eterna dedizione trinitaria nella storia. E in questo senso che la res

eucharistiae, allo stesso modo in cui implica la diakonia della carità, esige la koinonia come suo

segno e suo frutto imprescindibile, al punto che solo in essa la celebrazione della «memoria» pasquale

di Cristo attinge alla sua piena valenza. Dev’essere compreso in questa accezione globale il comando:

«Fate questo in memoria di me». Non si tratta di una mera rubrica liturgica, ma dell’invito - anzi del

comando - a entrare nella logica proclamata da Gesù con la distribuzione del pane e del calice ai suoi

discepoli e dall’evento di oblazione a cui i suoi gesti rimandano. Celebrare l’eucaristia, per la

comunità credente, non è semplicemente adempiere al comando del Signore, osservando ritualmente

quanto egli ha fatto e ha detto di fare; è attingere all’evento stesso della propria origine, accettando

di lasciarsi modellare da esso per ridiventare di continuo la comunità della nuova alleanza di Gesù, il

luogo della sua koinonia vivente nella storia. Attualizzando il passato e rendendolo presente nell’oggi,

la memoria eucaristica rappresenta così un atto di meta-storia inaugurale, perennemente generativo

della comunità, della sua ragione d’essere e della sua identità peculiare.535 E dal momento che il

contenuto ultimo di questa memoria è la pasqua, il gesto di amore col quale Gesù, autodonandosi,

crea la nuova comunità, la celebrazione eucaristica sarà per sempre fons et culmen della Chiesa come

comunione-comunità fondata sulla carità dello Spirito.

6.3. ETHOS DEL MISTERO EUCARISTICO

532 RICHARD DI TAIZÉ, Dio ha rivelato il suo cuore, 80. 533 Questa interpretazione trova conferma nella preghiera sacerdotale: «Perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in

loro» (Gv 17,26). 534 È quanto appare nel giorno di Pentecoste: un’irruzione dello Spirito sulla comunità dei discepoli, riuniti con Maria, che

rappresenta un evento di nuova creazione e dà inizio al cammino del nuovo Israele di Dio. Compimento necessario dell’annuncio

delFultima cena, la Pentecoste fonda la Chiesa come comunione nell’unico Padre, nell’unico Signore, nell’unico Spirito, comunione

di ministeri e carismi a servizio dell’unico Corpo di Cristo (ICor 12-13). È da questo dono dall’alto, che è l’amore di Dio diffuso nei

nostri cuori per lo Spirito che ci è stato dato (Rm 5,5), che sgorga la consapevolezza dell’assoluto primato del carisma della carità su

tutti gli altri carismi (ICor 13). 535 Ciò è vero per Israele quando celebra la pasqua della sua nascita, ed è vero per la comunità cristiana ogni volta che si riunisce

per «far memoria» dell’evento pasquale da cui è sgorgata (Gv 19,34).

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È su questa identità che si gioca Vethos dell’eucaristia. Quando la Chiesa si riunisce per attuare

il ricordo della pasqua si inserisce, per ciò stesso, nel dinamismo del suo Signore e Maestro nell’atto

che gli è proprio e nel quale la sua stessa oblazione pasquale l’ha fissato eternamente, l’atto del donare

se stesso per tutti. Celebrando l’eucaristia, la comunità partecipa a questo gesto, lo rivive in sé e

accetta di lasciarsi plasmare da esso, impegnandosi a trasformare i rapporti tra gli uomini in rapporti

di fraternità donante e accogliente, di servizio e di comunione. Di qui le prospettive di fondo

dell’ethos eucaristico: esse vanno dalla dimensione antropologica a quella cristologica e trinitaria fino

a quella ecclesiale e missionaria.

Dall’uomo al Cristo dell’eucaristia. Il punto di partenza è antropologico. L’evento della croce

è, per i cristiani, il paradigma supremo e insuperabile della libertà umana: Gesù si offre per amore; la

sua libertà consiste nell’autoconsegna gratuita e totale al Padre al posto dell’uomo peccatore. In Gesù

crocifisso, l’amore trinitario si manifesta come offerta ed evento di grazia 536 Comunicando all’amore

trinitario attuato nella Croce e dispiegato nell’eucaristia, il credente accetta che la sua libertà obbedi-

sca alle leggi di un amore senza riserve e si rende disponibile perché il suo amore si lasci plasmare

dall’amore trinitario. La sua distanza con la Trinità è superata dal dono con cui la Trinità stessa gli si

concede, consentendo alla sua libertà di entrare nel mistero della nuova pasqua e di venirne modellata.

Dal Cristo dell’eucaristia all’uomo. Risiede in questa totalità di amore, quale si è manifestato

nella morte di croce, la singolarità unica dell’eucaristia. La «memoria eucaristica» è un atto che dice

la vocazione dell’uomo all’amore e alla comunione, fondandone e consentendone la realizzazione.537

Celebrare l’eucaristia significa lasciarsi dire, guidare e determinare dal dinamismo di un amore in

forza del quale Gesù si è offerto per tutti. In caso contrario, non si celebra Yephapax, l’«una volta per

sempre» del mistero pasquale, ma qualcos’altro, un gesto a sfondo religioso, un ricordo fine a se

stesso o chissà che cosa! L’evento pasquale di Gesù si attua nella celebrazione eucaristica come la

modalità storicamente voluta da Dio per plasmare l’esistenza credente e realizzarla nella sua più

profonda verità come esistenza amante. Solo chi entra in questa logica è in grado di partecipare al

mistero eucaristico con autenticità e trovarvi il suggello della vera libertà, la libertà di lasciarsi amare

e di amare secondo l’esempio del Redentore e nella pienezza del suo Spirito.

Dalla Chiesa dell’eucaristia alla Trinità. Il contenuto dell’eucaristia è detto dal mistero totale

di Gesù nella sua duplice kenosis di incarnazione e di croce. E dal momento che tale contenuto trova

la sua realizzazione meta-storica nell’evento della risurrezione, l’eucaristia - come anamnesi di un

accadimento che ha costituito il passaggio dell’escatologia nella storia e della storia nell’escatologia

- è l’atto che significa e opera la novità dell’esistenza dei battezzati come epifania della carità trinitaria

e partecipazione a essa. L’itinerario esistenziale-cristologico si presenta come un itinerario

inseparabilmente trinitario. La pasqua proclama che Dio vuole estendere la sua comunione al di fuori

sé: il mistero di comunione proprio di Dio Padre, Figlio, Spirito, il loro essere «una sola cosa», viene

partecipato a una moltitudine di fratelli e sorelle chiamati a formare «una cosa sola fra loro», come il

Padre, il Figlio, lo Spirito. La celebrazione eucaristica è la «memoria» centrale di questo progetto-

chiamata e la sua attuazione vitale. Così, se la Chiesa, per natura, è «un popolo adunato nell’unità del

Padre, del Figlio e dello Spirito santo»,538 la celebrazione eucaristica manifesta questa identità, la

plasma e la compie, orientando la Chiesa verso Dio-Trinità.

Dalla Trinità alla Chiesa dell’eucaristia. La forma trinitaria dell’eucaristia dice e struttura la

Chiesa; e mai l’una senza l’altra. Secondo questa forma tutto viene dal Padre per il Figlio nello Spirito

536 «L’uomo non anticipa le forme concrete secondo cui il mistero suscita e guida la storia. Proprio il fatto che esse non siano

misurate dalle decisioni umane, ma dipendano dalla misteriosa gratuità di Dio le rende corrispondenti alle leggi interiori della libertà»

(C.M. MARTINI, «L’eucaristia, memoriale della pasqua di Cristo e forma della vita della Chiesa», in R. FALSINI [ed.], Un solo pane e

un solo corpo, Milano 1982,16-17). 537 Si veda, al riguardo, il testo della Familiaris consortio, n. 11, dove la vocazione creaturale delFuomo è descritta come

vocazione nativa e fondamentale all’amore e alla comunione. 538 CIPRIANO, De Orat. Doni., 23 (PL 4,553); AGOSTINO, Serm., 71,20,33 (PL 38,463s).

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e tutto ritorna nello Spirito per il Figlio al Padre. L’eucaristia condensa in sé questo movimento

dialettico: è un atto ecclesiale di rendimento di grazie rivolto alla Trinità ed un evento di grazia offerto

dalla Trinità ai credenti. La Chiesa sarà per sempre, in modo indefettibile, questa comunità sgorgata

dalla carità trinitaria e plasmata dall’eucaristia come accadimento della carità di Dio-Trinità nella

storia. Il concilio Vaticano II ha recepito questa prospettiva quando ha descritto la Chiesa locale come

una comunità che sgorga dall’eucaristia e trova il suo centro vitale in essa (LG 26). Dall’eucaristia

nasce una Chiesa che accetta di lasciarsi modellare dall’evento di un «corpo dato» e di un «sangue

versato», di cui l’eucaristia è il sacramento; una comunità che accetta di sottoporre i rapporti fra le

persone e tutte le sue strutture di comunione e di servizio alla logica della pasqua, superando ogni

altra logica che le si opponga.

Dalla Chiesa dell’eucaristia alla Chiesa della carità. La Chiesa dell’eucaristia è - di

conseguenza - la Chiesa della diakonia nella koinonia e della koinonia nella diakonia. È questa la

forma che la Chiesa riceve dall’eucaristia. Il memoriale eucaristico costituisce la Chiesa come una

comunità pasquale, riunita attorno al suo Signore, e orientata a realizzarsi secondo l’identità stessa

del mistero che celebra. L’eucaristia sgorga dall’azione dello Spirito operante nella Chiesa ed effonde

lo Spirito che fa della vita dei battezzati un’oblazione perenne e un culto spirituale che investe la

totalità dell’esistenza battesimale (Rm 12,1; lPt 2,4-5). Tutto il mistero della carità di Dio rivelato e

attuato nell’invio dell’Unigenito, morto e risorto, e nel dono del suo Spirito alla Chiesa è racchiuso

nel mistero dell’eucaristia, fonte e vertice dell’esistenza credente.

Dalla Chiesa della carità alla Chiesa della diakonia/koinonia. La diakonia della carità è

essenzialmente servizio alla koinonia nella fraternità. La diakonia eucaristica è chiamata alla

comunione, e viceversa, in un’inseparabile corrispondenza. Tutto questo suppone almeno due con-

sapevolezze fondamentali: in primo luogo, che la comunità ecclesiale, lasciandosi plasmare

dall’eucaristia, si orienti sempre più a farsi segno visibile e credibile dell’amore trinitario nello spirito

e nelle opere del vangelo; in secondo luogo, che la sua missione non si dia come generica risposta ai

bisogni umani, ma come progetto implicante uno stile di rapporti interpersonali esemplati

sull’eucaristia e orientati alla costruzione di strutture di comunione e di servizio nella storia. La prima

consapevolezza rimanda a un’evangelizzazione ad intra centrata sull’eucaristia come forma propria

di costruzione della comunità ecclesiale; un’evangelizzazione che si faccia espressione di fraternità e

sua ricerca instancabile. La seconda richiede che si porti a chiarezza la potenzialità trasformante

dell’eucaristia e si accetti che essa sia in grado di misurare non solo il costituirsi della Chiesa, ma gli

stessi rapporti umani sul modello della koinonia delV‘ebed YHWH. La «memoria» eucaristica, in

questa duplice ottica, rappresenta il paradigma dell’attuazione dell’umanità nuova inaugurata dalla

pasqua; come tale, essa di-svela il senso di una famiglia umana - per usare il linguaggio del concilio

- indirizzata a divenire famiglia dei figli di Dio, la promuove e la edifica (GS 32).

6.4. EUCARISTIA E MISSIONE

Il tempo della Chiesa, come tempo tra le due venute di Cristo, è essenzialmente tempo di

missione: tempo di annuncio e di comunicazione della salvezza pasquale ormai realizzata.

L’eucaristia riproduce in sé questo mistero missionario di «annuncio» e di «comunicazione». Parteci-

pare all’eucaristia è, di conseguenza, essere coinvolti in un radicale dinamismo missionario: è

chiamata a dispiegare nella storia il mistero pasquale che si celebra nella «memoria» celebrativa e

di cui si è beneficiari. L’eucaristia è avvenimento di missione perché esprime e contiene in sé la

missione stessa del Christus totus, missione affidata alla Chiesa nella potenza dello Spirito (Lc4,48-

49; At 1,8; Gv 20,21-23). Questo significa che l’origine della natura missionaria dell’eucaristia risiede

nel comando stesso del Signore: «Fate questo in memoria di me» (Lc2,19; ICor 11,24-25), e nella

destinazione universale del suo corpo dato per tutti e del suo sangue versato per tutti «in remissione

dei peccati». Ogni volta che si celebra l’eucaristia (o ci si pone in adorazione dinanzi al Signore

eucaristico) si mette a fuoco questo essere missionario della Chiesa e di ciascun battezzato.

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L’eucaristia chiama ogni comunità a divenire comunità missionaria, lanciata sulle strade del mondo,

per aprirlo al regno di Dio.

L’icona dei discepoli di Emmaus porta in sé questo fondamentale orizzonte: la trasformazione

che avviene nei due discepoli, prima in modo progressivo, ascoltando la parola del Signore, e poi in

modo totale al momento del condividere il pane con lui, indica una risurrezione che si opera anzitutto

nei loro cuori e li rende annunciatori entusiasti del Risorto: da di-missionari, impauriti e scoraggiati,

che erano, diventano missionari, intrepidi e senza paura: tornano a Gerusalemme e proclamano a tutti

la novità del Signore che hanno incontrato lungo la strada e nell’atto dello «spezzare il pane» (Lc4,13-

35). La memoria eucaristica porta con sé questa forza: è una «memoria pericolosa», per usare il

linguaggio di J.B. Metz, non è per niente una memoria tranquillizzante o che consenta di situarsi

nell’atteggiamento dei beati possidentes] è la memoria della pasqua che giudica ogni scelta che le si

oppone e impegna in modo totale a testimoniare nella vita quanto si celebra nel rito. Ciò è vero per

tutti i sacramenti, ed è vero, in modo eminente, per l’eucaristia; essa è talmente il sacramento della

missione da rendere presente lo stesso atto redentore da cui la Chiesa procede, ossia il sangue della

nuova alleanza versato sulla croce, e da far risuonare perennemente nella comunità l’invito a compiere

quanto Gesù ha vissuto in prima persona, ossia l’offerta totale di sé per la salvezza di tutti. E tale è la

missione cristiana: farsi dono per gli altri. Lo aveva ben compreso sant’Ignazio quando chiedeva di

poter andare a Roma per esser dato in pasto ai leoni allo stesso modo in cui il Cristo si era fatto cibo

per noi, ponendo in stretto parallelismo il convito eucaristico con il suo martirio: «Io desidero il pane

di Dio, cioè la carne di Gesù Cristo, e come bevanda desidero il suo sangue, cioè l’eterno convito di

amore» (Rm 7,3). In effetti, sussiste una relazione profonda tra l’eucaristia e il martirio. «Mangiare

il corpo dato» e «bere il sangue versato» significa accettare di fare della propria vita un dono totale

sul modello della pasqua, seguendo Cristo fin sul calvario. Mai missione senza eucaristia; mai

eucaristia senza missione.

7. Cristocentrismo eucaristico

Secondo l’inno della Lettera agli Efesini (1,3-14), Gesù è il grande ricapitolatore della storia

dell’universo. In lui, secondo Col 1,1-20, tutto è stato riconciliato, il cielo e la terra; «immagine di

Dio invisibile» e «capo del corpo che è la Chiesa», egli è «il principio» e il «primogenito» della nuova

creazione. Questo evento di ricapitolazione, inaugurato dall’incarnazione dell’Unigenito nella storia

e realizzato nella sua morte e risurrezione, si prolunga, si attua e si estende al cosmo intero nel mistero

eucaristico. A sua volta, il sacramento dell’eucaristia rivela il cristocentrismo eucaristico nascosto

in tutta la creazione. Un contenuto dell’eucaristia che non è un abituale oggetto di approfondimento

della teologia cattolica. L’autore che più decisamente si è orientato in questa direzione è stato il

gesuita Pierre Teilhard de Chardin. Oltre all’opera centrale: L’ambiente divino, dove il cosmo intero

è compreso come grande dimora di Dio e luogo della «cristificazione» inaugurata dall’incarnazione

redentiva, è sufficiente ricordare qui i tre racconti mistici pubblicati nell’Inno dell’universo del

1916539 e lo stupendo libretto La Messa sul mondo del 1923, scritto nel deserto di Ordos in Cina il

giorno della trasfigurazione quando, trovandosi senza pane e senza vino, egli presenta a Dio la storia

dell’universo come una grande offerta che per mezzo di Cristo nello Spirito riconduce tutto al Padre:

«Poiché, ancora una volta, sono senza pane, senza vino e senza altare, mi eleverò al di sopra dei

simboli alla pura maestà del reale, e ti offrirò, io tuo sacerdote, sull’altare della terra totale, il lavoro

e la pena del mondo».41

7.1. SIGNIFICATO EUCARISTICO DEL COSMO

Le preghiere eucaristiche della Chiesa, composte secondo la migliore tradizione ebraica,

contengono costantemente una benedizione rivolta a Dio per il creato e i frutti della terra; esse

includono la santificazione del tempo, del lavoro e della materia e richiamano il significato simbolico 539 Cf. P. TEILHARD DE CHARDIN, Inno dell’Universo, Brescia 1992,25-38.

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del mondo come scala per andare a Dio e rendergli grazie. Dono gratuito del Creatore e segno della

sua potenza, il cosmo riveste già in se stesso un senso eucaristico, come una narrazione in atto della

gloria Dei e un inno di lode al suo nome, come ci insegnano instancabilmente i Salmi. I testi della

Genesi sulla creazione sono nati in questo clima di fede e riconoscenza. Il cosmo è un grande tempio

nel quale il Creatore si incontra con le sue creature ed esse con il loro Creatore. Tutto è armonia e

libertà. L’uomo chiama le creature per nome e le riconduce al Signore Dio come «voce» del cosmo.

Il lavoro è un servizio divino, una grande liturgia a lode del Creatore. Il peccato originale viene a

infrangere questo progetto, come una «catastrofe cosmica» che vela il significato eucaristico del

creato e il senso liturgico dell’attività umana. La persona, uomo-donna, smarrisce il senso della sua

ministerialità, e solo a fatica riesce a scorgere nella natura un segno visibile, un «grande sacramento»

che rivela la bontà e la grandezza di Dio. Il lavoro diviene un peso, anziché una collaborazione gioiosa

con il Signore.

L’evento della venuta dell’Unigenito di Dio nella «carne» si pone come dono di grazia e

possibilità donata per uscire da questa situazione; esso di-svela il significato del creato e lo ridona

all’uomo in tutta la sua rilevanza eucaristica. La natura umana che il Figlio assume nell’unione

ipostatica del suo Io-divino unisce cielo e terra e condensa in sé la simbolicità totale del creato,

facendole attingere la sua pienezza definitiva. La ministerialità cosmica dell’uomo è allora assunta in

forma vicaria nella ministerialità cosmica dell’Unigenito incarnato e risorto. Il creato appare come

una «grande eucaristia». Quanto l’uomo aveva perso a causa del peccato è ora riacquisito in Gesù di

Nazaret, il Redentore dell’uomo e del mondo. Come primogenito di ogni creatura e primizia dei

risorti, egli appare come il grande liturgo del cosmo. Così, se la creazione si ricapitola nell’uomo,

l’uomo si ricapitola in Cristo, secondo la scala cosmica enunciata con estrema precisione da Paolo:

«Tutto è vostro... Voi siete di Cristo... Cristo è di Dio» (ICor 3,21-22). Grazie al Salvatore tutte le

realtà ritrovano la loro pienezza di significato. Egli realizza in sé il contenuto eucaristico del creato,

riportando l’uomo alla sua missione originaria.

Esistenza personale assoluta, egli trasforma in soma pneumatikon la materia universale. Non

soltanto porta in sé il paradiso, ma il Regno: in lui il cielo e la terra diventano nuovo cielo e nuova

terra. I miracoli del vangelo sono il segno di questa ri-crea- zione escatologica. Grazie alla

risurrezione, la natura umana e, attraverso essa, il cosmo si trovano assunti dalla stessa persona del

Figlio di Dio... In Cristo, attorno a lui, lo spazio e il tempo non si separano più: egli oltrepassa

tutte le porte chiuse.540

La croce sta ormai al centro della storia del mondo come il nuovo albero della vita. «Il Figlio

di Dio - proclama Ireneo -per essere stato crocifisso, ha messo la propria impronta sull’universo in

forma di croce, suggellando in certo qual modo l’universo intero con il segno della croce».541 Una

croce che rimanda alla glorificazione del Figlio e, in lui, del creato stesso con al vertice l’uomo. Un

ruolo perfettamente espresso nelle grandi raffigurazioni bizantine e romaniche dove il Risorto è

rappresentato come il Pantokrator, il Signore ascendente alla destra del Padre che diffonde il suo

Spirito sulla Chiesa e trascina con sé, nella sua intronizzazione, il cosmo intero, simboleggiato dai

festoni, dalla flora e dalla fauna. Il Kyrios, con la Chiesa-suo-corpo, è la primizia e il principio di

ricapitolazione di tutta la creazione.

Con l’incarnazione del Figlio, il mondo è assunto nella relazione personale da Dio all’uomo

e dall’uomo a Dio. In unione con la grazia interiore, tutto il modo creato diviene una «grazia

esteriore», un’offerta di grazia sotto forma sacramentale. La parola ecclesiale e i sacramenti ecclesiali

- con l’eucaristia fonte e vertice - non sono che i centri irradiatori ardenti di questa manifestazione

del Signore, che comprende il mondo intero, nella concentrazione di questa presenza di grazia visibile

che è la Chiesa, nella quale Cristo è realmente presente somatikós, «corporalmente», e dunque

540 S. CHARALAMBIDIS, «Cosmologia cristiana», in Iniziazione alla pratica della teologia, Brescia 1986, III, 29. 541 IRENEO, Dimostr. della verità apostolica (SCh 62,46).

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personalmente.542

7.2. SIGNIFICATO COSMICO DELL’EUCARISTIA

L’eucaristia, centro di tutti i sacramenti e cuore dell’esistenza cristiana, proclama in atto e

attua progressivamente questo mistero di «cri- stificazione», già operante nel grembo della storia, lo

manifesta e lo dispiega nello spazio e nel tempo, fino alla parusia finale (ICor 11,26). Nel memoriale

eucaristico, il «mistero nascosto da secoli in Dio» (Ef 3,9) si fa azione liturgica nella prospettiva della

riconduzione di tutto al Padre. In tale azione, realtà appartenenti al creato, come il pane, il vino e

l’acqua, sono sollevate al di sopra di loro stesse e trasfigurate dalla potenza dello Spirito, diventando

«sacramento», «simbolo reale», della creazione escatologica inaugurata dal Signore risorto. Realtà

del nostro mondo, vengono attraversate dalla presenza del Soffio divino, fino a diventare segni

attuativi e portatori della novità della pasqua.

Il mondo che entra nello spazio liturgico è il mondo decaduto, ma esso non vi entra per

rimanere tale: la liturgia è un rimedio di immortalità perché nella sua accettazione e nella sua

affermazione del mondo, essa ne rifiuta appunto la corruzione per offrirlo invece a Dio, al Creatore.

In tal modo, nella liturgia eucaristica, il mondo non cessa di essere il cosmo di Dio: una simile visione

non lascia possibilità alla dissociazione tra naturale e soprannaturale; ciò che qui esiste di fatto è

l’unica realtà della natura e della creazione completa fino all’identificazione tra la realtà terrena e la

realtà celeste.543

L’eucaristia condensa in sé il massimo grado della presenza del Kyrios nel mondo e attua nel

più alto livello possibile la ministerialità della Chiesa nel cosmo. A partire dall’eucaristia, passando

per l’economia sacramentale della Chiesa (sacramenti e sacramentali), tutte le realtà del cosmo e della

vita umana - purché non contrarie al progetto salvifico di Dio - divengono segno che rimanda al

Signore glorioso, in una sorta di «sacramentalità diffusa» che si apre fino ai confini dell’universo.

Grazie all’eucaristia, è possibile scorgere nelle realtà create dei luoghi di incontri col Signore

glorioso, superando un duplice opposto pericolo: quello di uno spiritualismo contrario alla materia, il

quale non corrisponderebbe al realismo dell’incarnazione e dei segni sacramentali, e quello di un

materialismo contrario allo spirito, che impedirebbe di collegare il reale all’azione redentrice di

Cristo, il cielo alla terra. Di fatto, nell’eucaristia e nei gesti sacramentali, «le cose diventano incontri

con Cristo. Con esse e in esse si compie la dedizione a Lui. Egli sta in mezzo alla vita quotidiana e

dà alle realtà ordinarie significati, appoggio e sicurezza».544 Grazie all’eucaristia e ai sacramenti si è

introdotti nel più alto significato simbolico del creato. In essi si manifesta, in trasparenza, la realtà

del Risorto e si proclama la dipendenza di tutto il cosmo da Dio-Trinità. Tutto assume o può assumere

un significato eucaristico. L’eucaristia è la pasqua dell’universo', e lo è nella realtà, e non

semplicemente in figura, in relazione al «già» e «nonancora» che connota il tempo della Chiesa. La

liturgia dell’azione eucaristica esprime, dall’inizio alla fine, questo contenuto: il contenuto cosmico

del mistero pasquale di Cristo che si attua nell’oggi dell’atto celebrativo della Chiesa e rende i

battezzati protagonisti della creazione escatologica.

7.3. EUCARISTIA E CREATO

Fin dagli scritti patristici più antichi, come ad esempio quelli di Cirillo di Gerusalemme,

l’eucaristia è essenzialmente incentrata:

- sul ringraziamento a Dio per il dono della creazione: un’esultanza conservata tutt’oggi

nel prefazio di ogni Messa;

- su un ri-offrire a Dio i doni del pane e del vino, frutto della terra e del lavoro dell’uomo,

542 E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Roma 1966,296. Per un approfondimento liturgico di questa

prospettiva, rimando a: J. CORBON, Liturgia alla sorgente, Roma 1982. 543 CHARALAMBIDIS, Cosmologia cristiana, 39-40. 544 M. SCHMAUS, Dogmatica cattolica, 4/1:1 sacramenti, Casale Monferrato (AL) 1966,123.

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come un primo ritorno della creazione al Creatore;

- su un’elevazione dei doni del pane e del vino al Padre, in quella preghiera che

qualifichiamo giustamente «anafora», elevazione, perché Dio li trasformi - nella potenza dello Spirito

- nel corpo e nel sangue di Cristo quale segno vivo della grande offerta del Figlio, coinvolgente nel

suo dinamismo la Chiesa che offre e si offre;

- su un invito a partecipare al banchetto, mangiando di quel pane e bevendo a quel calice,

per realizzare l’incontro con il Signore risorto ed essere resi partecipi del grande convito messianico

e del processo di ricapitolazione eristica di tutte le cose verso Dio-Trinità.

L’eucaristia come «rendimento di grazie». L’eucaristia è il grande rendimento di grazie della

Chiesa che, in Cristo, ritrova la ministerialità cosmica dell’uomo e la celebra, facendo diventare il

credente portavoce della totalità del creato: «Fatti voce di ogni creatura, esultanti diciamo».

Una visione in cui si afferma il ruolo sacerdotale del credente, chiamato a dare voce alle

creature perché proclamino la grandezza del Creatore. Tutto il mondo si presenta come una grande

liturgia di lode, colma di esultanza e di stupore. Il prefazio ricorda all’uomo che solo se egli - come

osserva Zizioulas - si fa essere liturgico diviene capace di ritrovare il senso vero del creato e superare

la crisi ecologica.545 Farsi «essere liturgico», per il credente, infatti significa mettere in atto una

percezione estetica del creato che lo pone nel mondo non nell’atteggiamento di uno sfruttatore, ma

in quello del fruitore, non in quello del distruttore, ma in quello del rispetto e dell’incanto come

dinanzi all’opera del Signore. La celebrazione eucaristica suppone questa percezione del cosmo,

educa allo stupore coscientizzato della fede e chiama a vivere l’attività umana come una grande

liturgia al cospetto del Signore.

L’eucaristia come «presentazione dei frutti della terra e del lavoro dell’uomo». La

processione offertoriale, con la presentazione dei doni e la loro elevazione, costituisce un momento

di grande significato: il pane è frutto della terra e del lavoro dell’uomo, il vino è il frutto della vite e

del lavoro dell’uomo. Si offrono i doni più semplici della terra, espressione del creato e dell’operosità

umana; essi sono innalzati al Padre, il Dio dell’universo, perché nella potenza dello Spirito li trasformi

nel corpo e nel sangue del Suo Figlio fatto Uomo, il Redentore, e diventino «cibo di vita» e «bevanda

di salvezza» per tutti. In una simile riattualizzazione sacramentale, la presenza di Cristo opererà un

evento di trasfigurazione che renderà i doni offerti simboli reali della presenza del Kyrios fra i suoi:

gli elementi del pane e del vino diverranno portatori di una presenza effettiva, personale, quella del

Signore Gesù, il ricapitolare della storia e il principio della nuova creazione. Celebrando l’eucaristia,

la Chiesa vive in atto il ritorno dell’intera creazione al Padre per mezzo dell’Unigenito incarnato nella

potenza dello Spirito. Se infatti la pasqua di Cristo è l’azione centrale della storia umana e

l’anticipazione del mondo futuro, la memoria eucaristica la dispiega nel tempo e nello spazio come

pasqua trasfigurante del mondo atteso e inaugurazione della creazione escatologica.

L’eucaristia come «offerta del mondo a opera di Cristo». Va compreso in questa accezione il

grande offertorio che segue la consacrazione degli elementi del pane e del vino: è Cristo che si offre

mediante l’atto della Chiesa nell’attualizzazione della sua unica offerta al Padre, rendendo la Chiesa

partecipe della sua grande offerta e facendole rivivere il dinamismo della sua discesa/ascesa: «Che

significa la parola ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo

stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli per riempire tutte le cose» (Ef 4,9-10).

Secondo questo dinamismo la glorificazione del Risorto non è un sottrarsi dal mondo, ma un

cominciare a essere presente in esso in altro modo come principio di ricapitolazione di tutto verso il

Deus Trinitas. L’oblazione eucaristica celebra questo ritorno, lo manifesta e lo attua nelle profondità

del cuore umano e nel grembo della storia. Non è esagerato dire che ogni celebrazione eucaristica è

come un passo in avanti verso la pienezza del Christus totus, quando egli sarà tutto in tutti e noi 545 ZIZIOULAS, Il creato come eucaristìa, 10.

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saremo uno in lui, con la celebrazione dei «cieli nuovi» e della «terra nuova» descritti dall’Apocalisse.

In forza dell’unica oblazione eucaristica tutto il passato è ricapitolato e il futuro anticipato: il passato,

con la totalità delle offerte della storia umana, da quella di Abele, di Melchisedech e di Abramo fino

a quelle dell’antico Israele e di tutti i popoli della terra; il futuro, con la celebrazione anticipata della

riconduzione del cosmo al suo significato ultimo. Gesù lo aveva detto: «Quando sarò elevato, attirerò

tutto a me» (Gv 12,31). L’eucaristia è la celebrazione attualizzante di questo evento. La stessa

presenza eucaristica di Cristo, che permane dopo la celebrazione, che cosa è se non la presenza del

Risorto in mezzo a noi per attirarci a sé e attirare il cosmo intero verso il Padre? Essa è l’espressione

in atto di un dinamismo di trasformazione ormai impresso nel creato e nella storia. La presènza del

Signore Gesù nell’eucaristia è come la garanzia, la promessa e il richiamo perenne che tutte le realtà

del cosmo sono irrevocabilmente incamminate verso di lui, e che il Kyrios intronizzato alla destra del

Padre le attira a sé in una forma misteriosa, ma irresistibile. «Il disegno del Padre - come diciamo in

una bella antifona dei vespri - è di fare di Cristo il cuore del mondo».

L’eucaristia come «convivialità cosmica». L’eucaristia porta in sé questa forza irradiatrice,

trasfigurante e orientante di tutti e di tutto a Cristo e, in Cristo, verso il Padre nello Spirito. L’unirsi

con lui è un manifestare e divenire sempre più protagonisti del grande evento di ricapitolazione del

mondo nel Signore risorto. E tale è la valenza della comunione eucaristica. Il partecipare alla mensa

del «corpo dato» e del «sangue versato» include il coinvolgimento in questo mistero: il mistero del

Kyrios che vuole trasfigurare il creato, cominciando dal cuore dell’uomo. La comunione con Gesù

eucaristico fa vivere in questa assoluta novità pasquale; una novità che fonda la missione propria e

peculiare dei battezzati nel mondo. La sua venuta in noi è infatti una venuta dinamica e, se pone il

credente nell’attesa del suo ritorno, lo chiama in pari tempo a operare nella storia l’evento che attua

nel mistero. La convivialità dei doni eucaristici rimanda alla convivialità dei doni del creato e chiede

alla comunità cristiana e a ogni battezzato di farsi testimone di una cultura della eonvivialità. E tale è

la dialettica della celebrazione eucaristica, dall’inizio alla fine. Se «il convenire» a essa implica il

portare il rapporto con la terra e il proprio lavoro, il «tornare» da essa suppone l’accettare di essere

stati plasmati o ri-plasmati come uomini e donne nuovi in senso eucaristico. L’invito conclusivo:

«andate in pace», suppone questa precisa consapevolezza. Chi partecipa alla mensa eucaristica ne

assume il contenuto e accetta di lasciarsi coinvolgere in esso, vivendo in modo nuovo il suo rapporto

con il mondo e il suo stesso impegno lavorativo, per fare della propria vita un’eucaristia realizzata:

un’offerta e un ringraziamento a Dio. L’augurio di «pace» (shalom) costituisce l’invito a costruire

rapporti armoniosi tra noi e il creato, noi e gli altri, noi e Dio. Grazie all’eucaristia, il Dio della

creazione cessa di essere un Dio lontano, per essere colui che ha posto la sua dimora in mezzo a noi

e ci accompagna in ogni momento della nostra vita. Non è un Dio al di là dell’esistenza, ma un Dio

dentro l’esistenza, un «Dio-con noi».

8. Verso la Gerusalemme celeste

La Chiesa celebra l’azione eucaristica tra l’ascensione e la parusia. E infatti l’eucaristia è un

convito sacrificale che si colloca tra il banchetto pasquale di Cristo e il banchetto escatologico atteso

per i tempi ultimi. Lo stesso ricordo del passato è essenzialmente finalizzato al futuro che si dovrà

manifestare con la seconda venuta del Signore. Questo fatto non è un semplice dato cronologico;

indica la natura stessa della Chiesa, popolo in cammino nella storia verso il pieno compimento del

Regno, e mostra come l’eucaristia sia il convito dei pellegrini: un banchetto pasquale in cui si

annuncia e si partecipa in anticipo «al banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9).

8.1. MARANÀ THA

L’altare eucaristico è orientato verso l’altare celeste che - secondo la rappresentazione globale

di Ap 21-22 - si colloca al centro della Gerusalemme celeste e, nella forma ormai di un trono, diventa

sorgente di vita per tutti i redenti dal sangue della croce. Di tutto questo l’eucaristia è caparra, dono

vivo e reale; è infatti inizio e fondamento del mondo nuovo verso cui la Chiesa tende con tutta se

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stessa. Come si esprime il Vaticano II: «Il Signore ha lasciato ai suoi un pegno di questa speranza e

un viatico per il loro cammino in quel sacramento della fede nel quale elementi naturali, coltivati

dall’uomo, vengono transmutati nel corpo e nel sangue glorioso di Lui, in un banchetto di comunione

fraterna, che è pregustazione del convito del cielo» (GS 38). Così, se l’eucaristia è «memoria» del

passato e «presenza» di Cristo nell’oggi della Chiesa, essa è al tempo stesso «profezia» del futuro. La

kenosis del Risorto nei segni sacramentali del pane e del vino è un preludio del suo ritorno glorioso;

per il momento, la comunità credente vive nell’alba, il giorno non è ancora spuntato; in questo fra-

tempo, essa si volge pellegrinante verso la manifestazione ultima del Signore e la invoca. Maranà

tha, «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). La presenza di Cristo nell’eucaristia pone la Chiesa in

un’attesa permanente del suo ritorno. Di celebrazione in celebrazione, annunziando il mistero

pasquale di Gesù «finché egli torni» (ICor 11,26), il popolo di Dio avanza verso il banchetto celeste

nel quale tutti i popoli della terra siederanno alla mensa glorificando il Redentore. È entro questa

consapevolezza che, nella celebrazione eucaristica, si plasma e si realizza quell’attesa vigilante, fatta

di preghiera e di laboriosità, a cui fa riferimento il vangelo. L’eucaristia è, in questo senso, un

«paradigma orientativo» sempre in atto: solo chi può celebrare l’eucaristia in modo degno, e disponi-

bile all’incontro con il Signore che viene, è pronto per la sua parusia finale e realizza il senso e il

contenuto reale dell’eucaristia. Si colloca in questo ambito la teologia dell’eucaristia come viatico.

8.2. L’EUCARISTIA COME VIATICO

La riflessione cristiana sul viatico esige oggi una riscoperta; gli studi di sacramentaria, anche

i più recenti, si limitano a cenni di passaggio in rapporto all’aspetto escatologico dell’eucaristia.

Storicamente la conservazione delle sacre specie al di fuori della messa è stata determinata dalla

comunione ai malati e appunto dalla celebrazione del viatico. Fino al V-VT secolo, quando la

riconciliazione sacramentale si poteva ricevere una sola volta in vita, al penitente ricaduto in peccato

grave non era concessa l’assoluzione nemmeno in punto di morte, e tuttavia in tale circostanza gli era

consentito di ricevere il viatico. Il valore di un simile gesto era tale nella coscienza di fede della

Chiesa da far saltare ogni obbligo di digiuno, anche nei periodi in cui esso era rispettato in modo

rigido. Il viatico è stato considerato, nei primi secoli, come il sacramento del passaggio dalla morte

alla vita, da questo mondo al Padre; un passaggio che avviene in Gesù, vincitore della morte, risorto

ed eternamente intronizzato nella gloria del Padre. E, in effetti, la comunione al corpo e sangue di

Cristo, ricevuta dal battezzato nel momento della sua morte, assume un significato tale come sacra-

mento del trionfo della vita sulla morte, del «passaggio pasquale», portando a termine il primo

«passaggio» compiuto nel battesimo e realizzandone il significato ultimo. La fede nel Risorto

trasforma la morte in un evento escatologico. La teologia del viatico va collocata entro questo

realismo di morte e di risurrezione per proclamare che il morire non rappresenta l’ultima parola

dell’esistenza, ma semmai la penultima.

Dimensione pasquale. La morte rappresenta un momento di estrema solitudine: la creatura

umana si trova a tu per tu con se stessa, col suo passato e il suo futuro definitivo. Tutto il suo vissuto

storico si condensa in quell’istante supremo. La comunione data ai morenti è la «provvigione»

(ephodion/viaticum) per il grande viaggio oltre la morte; essa ha anzitutto il significato di nutrimento,

di forza, di sollievo e di difesa dinanzi al mistero della morte. La comunione al corpo e al sangue di

Cristo sostiene il battezzato contro gli ultimi assalti del «nemico»: è cibo di vita e bevanda di salvezza

in grado di rinvigorire il credente nel passaggio da questa condizione terrena a quella ultraterrena. La

comunione eucaristica rappresenta un accadimento sacramentale che offre la grazia di morire

cristianamente. Risiede in questo contenuto il significato pasquale del viatico. Il rito insiste

giustamente nel raccomandare che esso sia celebrato, per quanto possibile, sotto le due specie durante

la messa celebrata nella casa del morente. La ragione è che una simile forma celebrativa esprime in

una modalità più piena il significato del viatico come evento di partecipazione alla morte e

risurrezione di Cristo. «La comunione in forma di viatico è infatti un segno speciale della

partecipazione al mistero celebrato nel sacrificio della messa, il mistero della morte del Signore e

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del suo passaggio al Padre».546 Se infatti la morte di Cristo è l’oblazione libera di sé al Padre, la

comunione viatica ha il potere di rendere partecipi della medesima oblazione, trasformando la morte

del battezzato in un sacrificio santo, gradito a Dio, come una riconsegna totale di sé al Padre della

vita. Il Kyrios stesso, nell’incontro eucaristico, assume la morte del battezzato e la introduce nella sua

risurrezione per presentarla al Padre nello Spirito come oblazione cultuale. In quanto partecipazione

al sacrificio del Redentore, al suo «corpo dato» e al suo «sangue versato», il viatico si dà come

partecipazione sacramentale all’evento del suo passaggio da questo mondo al Padre e al suo trionfo

glorioso. Se questo effetto è proprio di ogni eucaristia, esso riveste un significato particolare nel

momento della morte, quando il cristiano vive l’atto ultimo della sua dipartita da questo mondo. Ciò

che il fedele ha celebrato finora nel simbolo sta per manifestarsi nella sua realtà totale. Il viatico

rappresenta questo accadimento di passaggio, verso il di-svelamento escatologico della gloria dei

risorti. Il contenuto di risurrezione nascosto in ogni eucaristia trova in esso la sua piena

manifestazione. In nessun altro momento, la connessione tra pasqua, eucaristia ed escatologia attinge

al suo pieno realismo come nella celebrazione del viatico.

Dimensione battesimale. La comunione viatica è in stretta relazione con il battesimo, come

sua attuazione e suo compimento definitivo. «Conviene - nota VIntroduzione al Rito, n. 28 - che il

fedele nella celebrazione del viatico, rinnovi la fede nel battesimo con il quale ricevette l’adozione

dei figli di Dio e fu fatto coerede della promessa della vita eterna». Sussiste infatti un parallelismo

fondamentale tra la prima iniziazione (battesimo/confermazione/eucaristia) che introduce nella

comunione del popolo di Dio - popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito - e

l’ultima iniziazione {penitenza sacramentale/unzione/viatico) come ingresso nella comunione della

Trinità.547 «Come i sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’eucaristia - spiega il

Catechismo della Chiesa Cattolica - costituiscono un’unità chiamata iniziazione cristiana, così si può

dire che la penitenza, la sacra unzione e l’eucaristia come viatico, costituiscono - al termine della

vita cristiana - i sacramenti che preparano alla patria, sacramenti che concludono il pellegrinaggio

terreno» (CCC 1525). Termina l’iniziazione sacramentale e ha inizio l’iniziazione alla vita eterna. Il

legame del viatico col battesimo è richiamato, all’interno stesso del rito, dall’aspersione con l’acqua

benedetta; è egualmente evocato dalla professione di fede richiesta: una sorta di redditio symboli che

il battezzato vive a conclusione del suo itinerario terreno segnato dalla traditio symboli. Un significato

particolare lo assume, in questo contesto, la preghiera del «Padre Nostro»: è la preghiera del figlio,

rinato dall’acqua e dallo Spirito, che proclama la sua fiducia in Dio-Trinità e manifesta la sua

invocazione (il pane quotidiano, la venuta del Regno, il compimento della volontà del Padre, la libertà

dalla tentazione e dal male), e rinnova in tal modo il suo desiderio di entrare come figlio amato nella

gloria dei beati. Mai come in questo momento, il battezzato avverte tutta la propria esistenza come

un pellegrinaggio. Il viatico è il sacramento del compimento di questo pellegrinaggio e la

celebrazione dell’ultima pasqua col Cristo in questo mondo. Il fedele celebra la sua condizione di

credente e si affida al Padre, accogliendo in sé i doni eucaristici del corpo e sangue di Cristo. E poiché

ogni comunione è una nuova effusione dello Spirito che dimora in pienezza nell’Unigenito incarnato,

egli riceve dallo Spirito la forza per poter proclamare la sua figliolanza battesimale e affidarsi

totalmente al Creatore e Padre del Signore Gesù.

Dimensione ecclesiale. Un momento supremo come questo non è vissuto nella solitudine, ma

nella Chiesa, con la Chiesa e come Chiesa. Il cristiano non muore da solo. Se con il battesimo è stato

incorporato alla comunità ecclesiale, il passaggio da questo mondo all’eternità non può essere vissuto

che in comunione con essa e accompagnato da essa; una comunità con la quale tante volte ha pregato,

ascoltato la parola di Dio, celebrato i sacramenti e ha esercitato la carità. Il viatico, da questo punto

di vista, è un diritto dei battezzati e un obbligo morale, un dovere della comunità cristiana nei

confronti dei suoi figli morenti.548 La Chiesa che ha rigenerato il credente con il battesimo non può

546 Introduzione al Rito del Sacramento dell’Unzione, 26. 547 Si veda il capitolo V del Rito del Sacramento dell’Unzione, 165-187. 548 Si può forse parlare, a riguardo, di un precetto di diritto divino (ius divinum). Il n. 27 del- l’Introduzione al Rito afferma in modo

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essere assente nel momento in cui un suo membro conclude il suo itinerario terreno; essa deve

circondarlo della sua presenza. È quanto appare dall’insieme del rito, specie se celebrato in forma

comunitaria. La partecipazione della Chiesa è espressa dalla presenza del ministro, dei parenti e del

gruppo dei fedeli che prende parte al rito. Particolarmente significativo, sotto questo aspetto, è il bacio

di pace previsto dalla sequenza rituale: un bacio che, se per un verso richiama quello dato ai neofiti e

che i credenti si scambiano in ogni assemblea eucaristica, per l’altro manifesta in modo forte e toc-

cante il saluto della comunità terrena al figlio morente, quasi come una consegna che essa fa di lui

alla Chiesa del cielo. La Chiesa pellegrinante si stringe attorno a un suo figlio, lo sostiene con la

preghiera, ne riceve l’ultimo atto di fede e gli offre il dono dell’eucaristia, accompagnandolo con il

suo abbraccio e presentandolo alla misericordia perdonante di Dio e alla comunione dei fratelli e delle

sorelle già beati in cielo. La comunità terrena si trasforma, per il battezzato morente, nell’icona della

Gerusalemme celeste in cui anch’egli sta per entrare: lo accompagna col suo saluto e gli dà la fiducia

e il coraggio della fede per poter superare la solitudine della morte e sentirsi accolto nella comunità

dei santi.

Dimensione escatologica. Il viatico, in se stesso, è seme di vita eterna. Il corpo e il sangue di

Cristo sono segni della vita escatologica del Risorto. Colui che il morente riceve in dono è lo stesso

Signore Gesù, eternamente glorioso in cielo. L’eucaristia è non solo presenza di Cristo e grazia di

conforto, ma principio reale di risurrezione, come evoca la formula che ne accompagna il rito: «Ti

custodisca e ti conduca alla vita eterna». Gesù stesso ha lasciato ai credenti questa promessa: «Chi

mangia la mia carne e beve il suo sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ul- timo giorno»

(Gv 6,54). Non solo l’avrà, dice Gesù, ma «ha la vita eterna». Ciò che è vero di ogni eucaristia, è vero

in un senso tutto speciale dell’eucaristia che celebra la morte del battezzato in Cristo e compie il suo

passaggio dal mondo al Padre. «Nel passaggio da questa all’altra vita, il viatico del corpo e sangue

di Cristo fortifica il fedele e lo munisce del pegno della risurrezione».549 L’effetto dell’eucaristia è

totale: riguarda il corpo e lo spirito. L’essere del battezzato, in corrispondenza all’evento pasquale-

battesimale, viene unito a Gesù morto e risorto per partecipare alla sua glorificazione definitiva.

Questo aspetto va recepito in un senso forte, non come una metafora solo indicativa. Il viatico

rappresenta il «segno efficace» della grazia escatologica e dell’introduzione in essa: «segno efficace»

in quanto manifesta, indica, conferisce ciò che significa. Grazie al viatico il credente si incammina

verso la morte con la certezza incrollabile di essere per sempre con il Christus totus, verso il cuore

della Trinità e la comunione dei santi. Il viatico è il sacramento del viaggio verso la gloria dei risorti.

Invece che paura, esso dovrebbe risvegliare il senso della gioia cristiana, la nostalgia del volto di Dio

e il canto alleluia pasquale, e come tale dovrebbe essere creduto, celebrato e vissuto.

9. Eucaristìa ed ecumenismo

Il cammino ecumenico della Chiesa cattolica e del Consiglio ecumenico sull’eucaristia

manifesta un’importante corrispondenza di fondo su due prospettive preliminari: la «compassione di

Dio» come teologia critica nei confronti di ogni divisione e l’orizzonte del regno di Dio come oriz-

zonte trascendente rispetto alla Chiesa e alle singole comunità.

I documenti finali dell’assemblea ecumenica di Graz del 1997 (Testo- base, Messaggio finale

e Raccomandazioni operative) hanno avuto come filo conduttore il ricorso alla categoria biblica della

«compassione di Dio». «Alla luce della “compassione di Dìo” - afferma il testo-base, n. 11

- siamo chiamati a riconoscere il nostro peccato, sia individuale sia collettivo». La scelta

non è stata casuale e indica anzi un percorso: mettersi alla scuola della «compassione di Dio» per

cercare di creare in noi un «cuore compassionevole», in grado di farci superare ogni forma di

intolleranza e/o di integralismo e metterci in un cammino di autentica riconciliazione.550 Il Dio della

rivelazione biblica non è un Dio olimpico, che guarda gli uomini dall’alto al basso, ma un Dio che si

lapidario, ma incisivo: «Tutti i battezzati che possono comunicarsi sono obbligati a ricevere il viatico». 549 Introduzione al Rito del Sacramento dell’Unzione, n. 26. 550 G. GOTTARDI, «L’assemblea di Graz “alla luce della compassione di Dio”», 67-82.

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rende partecipe della condizione umana, fino alla morte e alla morte di croce. Se infatti il pensiero

greco è determinato dalla curiosità teoretica (il potere delle idee) e il pensiero romano e germanico

dalla forza del diritto (il potere della legge), il pensiero biblico-cristiano è dominato dalla prospettiva

centrale della «compassione»: la tenerezza di un Dio che si fa incontro al suo popolo, facendosi carico

del dolore del mondo, fino all’oblazione di sé sulla croce. È guardando a questo Dio che ci si educa

come Chiese all’arte della riconciliazione e della comunione.

Una seconda prospettiva su cui occorre basare l’ecumenismo è la riscoperta della dimensione

escatologica della fede, ponendo in risalto la sua tensione verso un futuro più alto, nell’orizzonte

trascendente del Regno.

Le chiese sono chiamate a proiettarsi in avanti, a risentirsi unite non tornando indietro (anche

se debbono sempre confrontarsi col proprio passato), ma misurandosi col futuro. Ecumenismo non è

tentativo di convertire l’uno all’altro, mettendosi per così dire di fronte, in opposizione, come due

contendenti che si sfidano a lotta finché uno dei due vinca e l’altro capitoli. È tendere, invece, insieme

verso una pienezza che sta più in là, verso l’età finale della Chiesa, in cui essa si trovi più inserita nel

mistero di Dio. Ogni chiesa che ha riscoperto la dimensione escatologica, la tensione al Regno, si

riconosce imperfetta, resta in attesa e si pone in ricerca di sempre maggiore perfezione; cammina

verso la pienezza.551

L’eucaristia si colloca al punto di raccordo tra queste due grandi prospettive: essa è, nel tempo

attuale, il massimo grado di manifestazione della «compassione di Dio» e partecipazione al dono di

grazia dell’evento redentivo unico realizzato in Cristo Gesù, ed è al tempo stesso il «già» e il «non

ancora» del regno di Dio, espressione storica di una ricerca di comunione a cui la Chiesa guarda e

tende con tutta se stessa. Solo quando le Chiese si ritroveranno attorno all’unica mensa, l’eucaristia

sarà celebrata in pienezza di verità. È quanto viene auspicato di continuo dal CEC e dalla Chiesa

cattolica. Fin dalla conferenza di Losanna (Fede e Costituzione, 1927) si affermava:

Quando tutti i figli di Dio potranno liberamente accostarsi, senza distinzione di chiese, alla santa Cena,

allora solo si avrà la tangibile attuazione della completa comunione di spirito fra tutti i fedeli; e noi

dobbiamo compiere i passi più efficaci per giungere a questa meta.

A Bristol (1967, Fede e Costituzione) si ribadiva:

L’eucaristia... praticata da un’assemblea locale di cristiani in qualsiasi tempo e luogo ha la pienezza

della cattolicità. La partecipazione al pane comune e al calice comune in un dato luogo dimostra l’unità

dei partecipanti con il Cristo totale e con tutti gli altri partecipanti di tutti i tempi e di tutti i luoghi... A

causa della sua cattolicità, r eucaristia è una sfida radicale alle tendenze «demoniache» manifestatesi

nella vita della Chiesa verso la discordia, la separazione e la divisione... L’eucaristia viene contraffatta,

quando si permette che persistano i muri della separazione distrutti da Cristo sulla Croce.

A Lovanio (1971, Fede e Costituzione, dove sono presenti anche i cattolici) si ribadisce: L’eucaristia, essendo in relazione con lo stesso centro della fede cristiana e della vita della Chiesa, è

necessariamente situata al centro del movimento ecumenico. Le discussioni sulla questione dell’inter

comunione rivelano l’esistenza di due posizioni opposte. Alcuni professano che l’eucaristia è il segno

e la realtà dell’unità della Chiesa... Altri ritengono che l’eucaristia non è soltanto un segno dell’unità,

ma anche il mezzo che Dio ci dà per ricevere la grazia dell’unità... Oggi i cristiani si sforzano di

mantenere l’equilibrio tra le due posizioni, attingendo da ciascuna ciò che è vero e valido per una tappa

particolare dell’ecumenismo.

Da Salamanca (1973) ad Accra (1974) a Nairobi (1975) e fino a oggi si continua a ripetere

che la comunione perfetta tra le Chiese si avrà solo quando ci troveremo tutti concordi «nella stessa

551 L. SARTORI, «L’eucaristia: fonte e culmine della comunione», 1,391.

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fede, nello stesso ministero e nella stessa eucaristia». I testi cattolici camminano in parallelo con le

tappe del cammino dell’ ecumenismo. È sufficiente richiamare il decreto conciliare Unitatis

redintegratio:

Il battesimo di per sé è soltanto l’inizio e l’esordio, poiché esso tende interamente all’acquisto

della pienezza della vita in Cristo. Pertanto il battesimo è ordinato all’integrale professione della fede,

all’integrale incorporazione nell’istituzione della salvezza, come lo stesso Cristo lo ha voluto, e,

infine, all’integrale inserimento nella comunione eucaristica (UR 22).

Il dato di fondo è che tutte le Chiese hanno scoperto come l’eucaristia si ponga più in alto

della loro stessa esistenza e si offra come la sorgente e la méta ultima di ogni cammino ecumenico,

dono e attesa che richiama la «compassione di Dio» e rimanda al Regno: l’eucaristia non è solo

«dentro la Chiesa», ma «sopra la Chiesa», come una forza propulsiva e un dinamismo profetico che

la sollecita verso un’instancabile ricerca di perdono e di unità.

9.1. DAL SEGNO ALLA REALTÀ

Non è inutile ricordare come l’eucaristia non sia un qualcosa di nostro, un’opera dell’uomo,

ma unaprofessio fidei che si fa professio lau- dis in Cristo Gesù; non è una nostra proprietà, ma la

celebrazione più alta dell’opera di Dio realizzata nell’Unigenito incarnato, morto e risorto, e

nell’invio del suo Spirito: memoria viva di quell’unica opera che il Signore stesso ha consegnato alla

Chiesa per significare e realizzare la sua pasqua e la sua perenne presenza tra noi. Di suo, la Chiesa

ci mette l’adesione della fede, ma l’eucaristia rimane sempre e solo un’opera di Dio, un atto del

Signore Gesù per mezzo dell’azione celebrativa della Chiesa.

Memoria passionis Christi. L’eucaristia sta di fronte al mondo, alla storia, alle stesse Chiese

come una sfida, una sfida che denuncia l’insufficienza, la povertà radicale di qualsiasi attività umana,

proclamando che solo Dio salva, unifica e guida. Come nel cantico di Maria, il Magnificat, ogni

comunità che celebra la memoria eucaristica afferma il primato degli ultimi, dei deboli e dei poveri

rispetto ai primi, ai potenti e ai ricchi, rovesciando la scala abituale dei valori. È proprio nella

debolezza/povertà dei segni (un po’ di pane, un po’ di vino) che si manifesta l’onnipotenza salvante

di Dio. Sostenere questo, sostenere che «un pezzo di pane», «un calice di vino» sono il segno più

potente della comunione, può sembrare una follia; eppure è questo l’apice della fede. Ciò che si

ricorda in quella cena non è il trionfo di un Dio di potenza, ma la sua impotenza di croce, la memoria

passionis Christi, con tutta la forza eversiva che questo annunzio porta con sé. E tale è il messaggio

che si sprigiona da quel: «Fate questo in memoria di me». Gesù non ha limitato l’orizzonte del ricordo

a qualcosa; lo ha identificato con la sua persona che si offre per amore sulla croce. E infatti l’eucaristia

è legata al suo «testamento», come a dire che la cena condensa la sua esistenza terrena e preanticipa

il dono di sé, proprio dentro l’«ora» della sua morte, del suo passaggio dal mondo al Padre, come suo

atto supremo. «Avendo amato i suoi... li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Ed è la parola di Dio che ci

introduce in questo mistero. L’eucaristia porta al vertice il dinamismo della parola della fede. Il cri-

stiano si affida a questa parola non soltanto come a una dottrina, ma a un evento di incontro con lui,

il Risorto che ha promesso di rimanere per sempre con i suoi (Mt 28,20). Parola ed eucaristia sono

inseparabili, e mai l’una senza l’altra. L’eucaristia non celebra solo la potenza della parola di Cristo,

ma colui che l’ha detta, colui che dà la vita al mondo: è lui che spezza il pane e distribuisce il calice

per farsi cibo di vita e bevanda di salvezza ai credenti.

Presenza di un Assente. Già il credere in Dio, soprattutto oggi, riveste il valore di una sfida.

Tanto più impegnativo è accettare la realtà eucaristica. Dio nessuno l’ha mai visto. Il credente

proclama una presenza, la presenza dell’Assente glorificato. Cambiano i modi di professare questa

realtà; ma tale è la forza della fede: poter fare appello a un Presente, a colui che si fa compagno di

viaggio, fonte di vita e di comunione per i suoi. Non è inutile ricordare, a questo proposito, una

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tradizione popolare, diffusa nei paesi nordici o di montagna: la tavola imbandita per la cena nella

notte di Natale dove viene riservato un posto in più, un posto vuoto, quasi sempre quello del capo-

tavola, come a dire che si è invitati a un banchetto per fare comunione con Qualcuno che non si vede,

ma che rappresenta l’Ospite per eccellenza. L’eucaristia riveste questo carattere: la povertà di un

segno, il segno di un posto vuoto; ma in quel segno, in quel posto vuoto, i credenti riconoscono

presente Colui che spezza il pane con loro e versa il vino per porgerlo ai commensali, donando se

stesso in simili umili segni/gesti.

Convocazione universale. L’eucaristia, in quanto attuazione del banchetto dei tempi

messianici, si offre come comunione all’unica mensa e convocazione universale, non solo dei

credenti, ma di tutti gli uomini. Già la Didachè richiama questo tema quando spiega il simbolismo

del pane e del vino e del banchetto della salvezza. Di fatto, l’eucaristia non rappresenta solo un segno

di fede personale o una pratica di devozione individuale; essa non è indirizzata a consacrare le nostre

solitudini o i nostri egoismi, ad avallare e rafforzare le parzialità o le chiusure, ma a fare esplodere i

conflitti, a far saltare gli steccati e aprire all’universalità della convocazione salvifica. Ogni

celebrazione eucaristica è pienamente attuata quando in essa sono presenti gli stessi assenti, almeno

come attesa o desiderio. Nel «posto vuoto», indice dell’Ospite per eccellenza, si richiamano e si

ricapitolano tutti gli assenti, considerati come fratelli e sorelle attesi e amati di ogni celebrazione.

Solo una comunità veramente «cattolica», una comunità aperta alle altre comunità, in comunione con

esse e con l’intera umanità, celebra in modo autentico l’eucaristia. Unicamente un «noi» veramente

universale costituisce il soggetto celebrante adeguato della celebrazione eucaristica. Anche per questa

via il mistero dell’eucaristia si innalza sopra ogni opera umana e si colloca al di sopra delle stesse

Chiese.

9.2. DALLA REALTÀ ALLA REALIZZAZIONE

L’eucaristia è infatti sempre più in avanti delle comunità che la celebrano, anche se si attua

dentro di esse. Se la Dei Verbum spiega che la Chiesa deve collocarsi costantemente «sotto la parola»,

ciò è eminentemente vero per l’eucaristia: la Chiesa, ogni Chiesa, si pone «sotto l’eucaristia», non

sopra o altrove. Lo stesso vale per l’ecumenismo che vive «sotto la croce» e impegna ogni comunità

a misurarsi su di essa. Solo così, le Chiese sono in grado di testimoniare nella vita il Dio della

compassione, confessando le proprie colpe e aprendosi alla speranza del futuro.

L’inter comunione. La questione più importante, in questo quadro, riguarda l’intercomunione,

con la tensione tra Yeucaristia come segno e l’eucaristia come causa di unità. Se si guarda alla valenza

del «segno», l’in- tercomunione - secondo UR 8 - sembra in gran parte vietata (plerumque vetat),

dovendo l’eucaristia esprimere e celebrare un’unità già conseguita e attuata; se si guarda invece alla

sua valenza di «causa», sembrerebbe talvolta possibile (aliquando commendai), essendo l’eucaristia

un accadimento di grazia che opera la comunione. Attualmente, sembra che le Chiese siano orientate

più verso la prima che la seconda opzione, rilevando di preferenza il valore di «pienezza», di mèta

più alta, rispetto all’unità imperfetta, dando l’impressione di aver elevato il tiro, di avere - per così

dire - alzato il prezzo della comunione, mettendo in maggiore evidenza le difficoltà

dell’intercomunione che i possibili vantaggi. Si sono fatti passi avanti a livello di vissuto e di scambi

culturali, meno sotto l’aspetto della convivialità eucaristica. Questo avviene un po’ in tutte le Chiese,

non solo nella Chiesa cattolica o in quella ortodossa, ma anche nei confronti delle Chiese della

Riforma tra loro. Agli occhi dei protestanti, in ogni caso, la posizione della Chiesa cattolica appare

legata a un «troppo» (esigere «troppo» per celebrare insieme); viceversa agli occhi dei cattolici la

posizione delle Chiese protestanti appare riferita a un «troppo poco» (non si rilevano abbastanza le

differenze). Le interpretazioni al testo citato dell’ Unitatis redintegratio, n. 8, nelle dichiarazioni

romane successive (Istruzione del ’72 e Precisazioni del ’73 e interventi successivi) hanno dato

chiaramente la precedenza alla funzione di segno rispetto a quella di causa, restringendone spesso la

portata in ordine ad applicazioni estensive. L’idea che prevale è che l’eucaristia è certamente causa

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di grazia, e quindi di unità, ma a partire dal fatto che ne sia segno; essa la esprime, ma non la crea

da sola. L’ecumenismo, di fatto, attinge oggi forza dall’eucaristia solo o prevalentemente nei singoli

credenti o nelle Chiese singole, non in un cammino d’insieme.

Il «confiteor» della Chiesa. La situazione di disunione tra i cristiani è sotto il segno del peccato

e contraddice apertamente il senso della croce e del mistero eucaristico. Manca l’unità dottrinale;

manca l’unità nel ministero. Anche in questi campi è penetrato il peccato come divisione. Ma, oltre

a ciò, si può riflettere su un aspetto più specifico: il fatto che nelle Chiese sia ancora troppo diffusa la

mentalità del possesso e la stessa eucaristia sia vissuta come un bene proprio: una sorta di proprietà

privata o un bene di cui poter disporre. D’altra parte, anche quando si volesse aprire l’eucaristia

all’ospitalità verso fratelli di diversa confessione, si rischia di creare nuove scissioni o lacerazioni,

dentro la stessa propria comunità. L’eucaristia diventa allora causa o, comunque occasione, di altre

divisioni! Non si dovrebbe parlare automaticamente, a questo proposito, di peccato e di colpa in senso

morale, come se si avesse a che fare con persone male intenzionate, votate a creare difficoltà, ad

alzare barriere. Talvolta si combatte contro l’immobilismo delle Chiese, ma per individuarne subito

degli imputati da colpevolizzare o denunciare arbitrarietà e volontà di sopraffazione, specialmente

nelle autorità ecclesiastiche. Sappiamo invece che le ragioni che impediscono l’intercomunione - ciò

è stato ribadito più volte da molti, e non solo dalla Chiesa cattolica - non sono soltanto ragioni

disciplinari; sono anche ragioni teologiche, toccano cioè interpretazioni e convinzioni di fede. Nella

fase attuale è già reperibile una certa comunione o un’attesa di comunione; rimane vero che il convito

eucaristico assomiglia piuttosto a un incontro di fratelli e sorelle ammalati, ognuno dei quali si sente

a suo agio solo col «suo» cibo, e non gli va bene quello degli altri; ma, in definitiva, esiste già un

trovarsi a una mensa, anche se ciascuno porta con sé la sua liturgia e la sua teologia. Tutto quello che

si può fare, per il momento, è di evitare di fare dell’eucaristia un segno e un’occasione di ulteriori e

più gravi divisioni nella speranza che divenga sempre più segno e causa di incontro e di comunione.552

552 Per un’analisi più dettagliata delle problematiche, cf. F. COURTH, I sacramenti. Un trattato per lo studio e per la prassi dei

sacramenti, Brescia 1999,283-290 e 295-303.

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CONCLUSIONE

La comunità cristiana si riunisce, fin dai primordi, per «fare» quanto Gesù ha comandato di

fare la sera dell’addio, celebrando nella gioia pasquale-pentecostale le «grandi opere di Dio» (tà

megaléia tou Theou, At 2,11). L’azione eucaristica è vissuta come il memoriale delle meraviglie

salvifiche che trovano nell’éschaton di Cristo la loro piena pienezza e il loro compimento messianico.

Se infatti, per gli ebrei, il ricordo dei mirabilia Dei aveva il suo centro nell’avvenimento dell’esodo,

per i cristiani la storia della salvezza converge nell’evento del Crocifisso, il Risorto in eterno. In virtù

dell’eucaristia, i credenti sono resi partecipi di questo accadimento e vivono l’esperienza dell’incontro

con «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4) per fare della sua Chiesa un’assemblea in perenne

rendimento di grazie, in attesa della Gerusalemme celeste.

1. L’eucaristia come celebrazione

La liturgia della celebrazione eucaristica si struttura in questo contesto. Echi di essa sono

reperibili già negli scritti apostolici. L’inno di Ef 1,3-14, ad esempio, ripropone la forma della berakah

biblica alla luce della novità dell’evento cristico: si passa dalla benedizione propriamente detta (1,3),

all’anamnesi del mystérion nascosto in Dio dall’eternità e ora manifestato in Gesù e nel dono del suo

Spirito (l,4-14a), fino alla dossologia finale (l,14b). L’ampiezza di orizzonti e il clima ammirativo,

unito alla lode benedicente, evocano da vicino il ritmo di quella che doveva essere la modalità della

memoria eucaristica fin dagli inizi. Impostazione che ritroviamo nella preghiera di Clemente Romano

{Lettera ai Corinzi, cc. 29-61) e in quella dell’anonimo di cui parla il rito del martirio di san Policarpo.

Tutte intessute di temi biblici, tali formulazioni recuperano la modalità della benedizione ebraica in

relazione alla pienezza di Cristo. E tali sono le precise indicazioni di Giustino e Ippolito: le «grandi

opere» della vecchia alleanza sono continuate e superate da quelle della nuova. Un semplice confronto

è sufficiente.

BERAKAH

Azione di grazie

1. Perché hai dato in eredità ai nostri

padri una terra buona.

2. Perché ci hai tirati fuori dal paese

d’Egitto e liberati dalla servitù.

3. Per la nuova alleanza, «per essere

stati resi degni di queste cose», per

l’acquisizione di «un popolo santo».

4. Per il nutrimento con cui ci nutrì

e ci sostieni costantemente.

5. Benedetto sia il tuo nome.

EUCARISTIA

Azione di grazie

1. A Dio per aver creato l’uomo e il

mondo con tutto ciò che contiene (GIUSTINO,

Dial).

2. Per la liberazione «dal male nel

quale eravamo nati» (GIUSTINO, ivi).

Perché ci ha liberati dalle sofferenze e hai

spezzato le catene del diavolo (IPPOLITO, Trad.

Ap. IV).

3. «Per la tua alleanza, la vita, la

grazia, l’amore di cui ci hai gratificati».

4. Racconto dell’istituzione.

5. Dossologia conclusiva.

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Le anafore eucaristiche più antiche, tra cui quella di san Basilio, riflettono una struttura di

base analoga. L’eucaristia appare, fin dall’inizio, come l’apice e il cuore dell’intero piano divino.

Ricapitolando tutte le fasi, essa si proietta ad un tempo verso il passato e verso il futuro. Anzitutto

verso il passato: ricapitolazione retrospettiva. È il termine convergente di un’immensa serie di linee

forza che dalla creazione in poi tendevano ad essa come alla loro ragion d’essere. All’indomani della

caduta, la croce è già alzata sull’orizzonte della storia. E quando, nella pienezza dei tempi, il Cristo

verrà innalzato da terra su di essa (Gv 12,32) sarà per aver sollevato il desiderio (e per aver portato il

peso) dell’età anteriore e dei millenni della storia. Si proietta poi verso il futuro: ricapitolazione

prospettica, anticipando nel mistero la realtà della parusia e della vita futura. E intanto, perpetuando

fino al suo ritorno il memoriale della morte del Signore, assume e ricapitola tutte le offerte di questa

nostra età intermedia, che corre tra le due venute del Signore, e le inserisce misteriosamente nell’unica

grande offerta della croce a modo di applicazione e di derivazione.553

Tale è il senso teologico della celebrazione eucaristica: «rendimento di grazie» che il Kyrios

attualizza nella Chiesa e «ricordo» degli eventi salvifici di Dio nel tempo tra le due venute di Cristo.

Così ogni volta che rinnoviamo l’atto centrale della salvezza con l’eucaristia, riviviamo tutta

la storia che da questo atto prende il suo senso: la Messa è come il microcosmo di questa storia. Una

rievocazione che, proclamando i benefici divini, suscita l’azione di grazie e viene pronunciata sul

pane e sul vino. L’anamnesi si fonde con il rendimento di grazie, poiché la storia della redenzione è

proclamata in un clima di lode e di riconoscenza. Si riconosce nel giubilo che tutto è grazia e che la

grazia di Dio è meravigliosa.554

Non meno rilevante è il fatto che l’eucaristia sia celebrata sotto la croce di Cristo. E poiché il

suo sacrificio ricapitola in sé tutta la storia dei sacrifici, dai primordi all’AT e al NT, l’eucaristia è il

grande sacrificio che porta a compimento tutti i sacrifici celebrati dall’umanità e dal popolo d’Israele.

Grazie alla messa, l’unica oblazione preannunziata da Malachia per i tempi messianici (MI 1,10-11)

è ormai realizzata e si rende presente in ogni luogo e tempo.555 Tutto ciò è possibile in forza

dell’avvenimento della pasqua grazie al quale Cristo è passato dalla morte alla vita e si offre a noi

come il Risorto in eterno. Lo specifico della celebrazione eucaristica è di essere «memoria»

attualizzante di quell’accadimento totale di morte, risurrezione, dono dello Spirito, ritorno alla fine

dei tempi, secondo quanto viene espresso al centro della celebrazione eucaristica stessa: «Annunziamo

la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».

2. Popolo di Dio e assemblea celebrante

La «memoria» eucaristica è atto del Signore celeste e del popolo di Dio rappresentato

dall’assemblea celebrativa. È la formula utilizzata dal- Vlnstitutio generalis del Messale romano: la

celebrazione eucaristica è definita come «azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente ordi-

nato» (IGMR, 1).

L’eucaristia è presentata non come un’azione del celebrante, al quale si unisce il popolo, ma

come azione di tutto il popolo di Dio, riunito hic et nunc, costituito dalla totalità e diversità dei suoi

membri, esercitanti i loro diversi ruoli. La presenza e l’azione del prete-ministro, in quanto tiene il

posto di Cristo, è indispensabile perché il popolo sacerdotale possa esercitare il suo sacerdozio, ma

essa non esaurisce l’azione della comunità ecclesiale, né si sostituisce ad essa.556

Il fondamento teologico di questo recupero è dato dalla riscoperta conciliare della categoria

553 Magrassi, Vivere la liturgia>, 283-284. 554 MAGRASSI, Vivere la liturgia, 297-298. 555 J. DANIELOU, Sacramentum futuri, Paris 1950, 105-111; ID., Il mistero dell’Avvento, Brescia 1958,57-72. 556 P.R. ROCHA, «La principale manifestazione della Chiesa», in Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-

1987), a cura di R. LATOURELLE, Assisi 1987,610.

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biblica di popolo di Dio riferita a tutta la Chiesa, e non solo ai laici (LG 9-17), e alla sua natura

sacerdotale (LG 10-ll).557 Scelto tra i popoli della terra, il nuovo Israele si presenta come un popolo

totalmente dedicato al Signore, chiamato a proclamare le sue grandi opere come «sacramento di

salvezza» per l’intero genere umano.

Il paragrafo 10 della LG, in particolare, dopo aver evocato le molteplici attestazioni

neotestamentarie sulla Chiesa come un «regno di sacerdoti» e un «sacerdozio santo», approfondisce

la natura del sacerdozio della Chiesa in quanto partecipazione al sacerdozio unico di Cristo,

spiegando come esso implichi due forme reciproche, seppur distinte, di attuazione: il sacerdozio

comune che sgorga dal battesimo e il sacerdozio ministeriale che si fonda sul sacramento dell’ordine.

Pur rilevando come le due forme si distinguano non solo di grado, ma essenzialmente, il testo

conciliare pone l’accento sull’unità di un sacerdozio che appartiene a tutta la Chiesa e la fonda come

comunità tutta sacerdotale. Il sacerdozio ministeriale è a servizio del sacerdozio comune, in una

vissuta reciprocità.

Entro questa riscoperta è implicito il superamento dell’idea dell’eucaristia come un atto che

apparterrebbe alla sola gerarchia: l’azione eucaristica è azione della Chiesa intera, resa possibile

grazie al ministero ordinato, ma che suppone e rimanda al sacerdozio di tutti i fedeli. La sfumatura

è essenziale. Non si tratta, ovviamente, di confondere le due forme di sacerdozio o di pensare che il

sacerdozio ministeriale non sia essenziale all’attuazione dell’evento eucaristico, ma di reagire a un

esclusivismo che condurrebbe a ridurre il ruolo dell’assemblea dei fedeli a una semplice cornice

esterna, come se i battezzati partecipassero all’attuarsi dell’evento sacramentale solo con gesti

esteriori, senza venir sacramentalmente coinvolti nel compiersi stesso della memoria della pasqua e

dei suoi doni. I fedeli non sono degli spettatori di qualcosa che si svolgerebbe al di fuori o al di sopra

di loro; essi costituiscono un’assemblea celebrante con e per il ministro ordinato, partecipanti alla

grande offerta di Cristo al Padre e beneficiari dei frutti. Il fedele non comunica ad un sacrificio che

solo il presbitero offrirebbe; egli partecipa ad un evento che tutta l’assemblea celebra e di cui è

beneficiario grazie al ministero del sacerdote.

3. La preghiera eucaristica

Afferrati dall’azione di grazie di Cristo, i battezzati sono chiamati a divenire in tutto il loro

essere una lode vivente (Ef 5,20), «per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio

santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dìo» (lPt 2,5). E tale è l’impostazione di fondo che

contraddistingue le preghiere eucaristiche: quella già in uso denominata Canone romano, le tre nuove

preghiere volute dalla riforma conciliare e le altre introdotte successivamente. Non si tratta di

«ripetere» il mistero della pasqua, che è stato compiuto «una volta per sempre», ma di ripresentare e

comunicare in modo sacramentale a quell’unico mistero salvifico, in attesa della seconda venuta del

Risorto. E poiché il mistero salvifico della pasqua riveste dimensioni cosmiche, l’eucaristia porta con

sé gli stessi orizzonti e costituisce - in quanto tale - il centro teologale del mondo: ciò che si realizza

in essa è il «segno» (espresso dal «pane» e dal «vino», unitamente ad alcune gocce di acqua) e il

«principio» della trasfigurazione di tutto il cosmo in Cristo per mezzo dello Spirito. Tale è l’attesa

impaziente della creazione (Rm 8,18-30). Questo contenuto globale è configurato dalla preghiera

eucaristica, pur nella diversità delle espressioni, secondo una sequenza rituale comprendente cinque

momenti essenziali: prefazio, epiclesi, anamnesi, intercessioni, dossologia. Il prefa- zio segna

l’inizio; esso non è - come si pensa comunemente - un’introduzione al sanctus, ma il primo grande

rendimento di grazie per le mirabili opere del Signore nella storia della salvezza e durante il tempo

della Chiesa. Se oggi è ridotto nella forma, in compenso assume una serie di mutamenti nell’anno

liturgico che gli permettono di enumerare ogni fase delYhistoria salutis e ogni aspetto centrale

dell’unico grande mistero della salvezza, proclamato e attualizzato nella Chiesa. Il prefazio si

557 Per un ampio commento alla LG, si può vedere: G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento della LG,

Milano 1982, specie 119-163.

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continua nell’epiclesi, prima e dopo la consacrazione: un’invocazione dello Spirito che configura

l’identità della memoria eucaristica come atto dello Spirito nella Chiesa, nel suo attuarsi e nel suo

dispiegarsi nel cuore dei fedeli. L’anamnesi conduce a rivivere il racconto dell’istituzione e a

partecipare alla grande offerta della pasqua che il Cristo attualizza ogni volta che la Chiesa ne fa

memoria. Le intercessioni evocano la comunione ecclesiale in tutti e tre gli stati della sua

realizzazione: in terra, in cielo, in via di purificazione. La preghiera si conclude con la dossologia

indirizzata al Padre, «per Cristo, con Cristo e in Cristo nell’unità dello Spirito Santo», a cui fa

riscontro Yamen dei fedeli come segno di piena adesione all’evento celebrato e di partecipazione

all’oblazione pasquale dell’Unigenito, atto unico di glorificazione del Padre e di santificazione

dell’umanità.

Ogni preghiera eucaristica, in una struttura fondamentalmente comune, sottolinea qualche

aspetto specifico dell’evento pasquale. La prima preghiera eucaristica riveste una particolare coralità

ecclesiale, sia prima che dopo l’anamnesi, con l’evocazione ripetuta dei santi quasi corona gloriosa

dell’atto della celebrazione. Particolarmente sottolineato, inoltre, è il contenuto sacrificale

dell’eucaristia nelVhistoria salutis attraverso la menzione dei sacrifici di Abele, di Abramo e di

Melchisedech e il «ricordo» della «vittima pura, santa e immacolata» a cui tutta la Chiesa si unisce,

offrendo e offrendosi. Meno esplicita è la dimensione epicietica. La seconda preghiera si distingue

per la sua brevità e semplicità. Composta tenendo presente un antico formulario che si trova nella

Traditio apostolica di Ippolito, risalente all’anno 215 circa, essa si qualifica per il rilievo dato al

mistero di Cristo. Ha un prefazio proprio che fa corpo con tutto il resto, ma che può essere sostituito

con altri in corrispondenza all’anno liturgico. Introdotto dal dialogo celebrante-comu- nità, esso

costituisce un rendimento di grazie per le «meraviglie della salvezza» attuate dal Padre con l’invio

del Figlio, «fatto uomo per opera dello Spirito Santo», dal cui sangue è scaturito il nuovo popolo di

Dio che, a una sola voce, può ormai proclamare la santità infinita di Dio. Dopo aver affermato il

dovere di «rendere grazie sempre e dovunque» al Padre per Gesù Cristo Figlio del suo amore, si

ricorda sia 1’«opera mirabile» della creazione che quella della redenzione: «Per mezzo di lui, tua

Parola vìvente, hai creato tutte le cose e lo hai mandato a noi salvatore e redentore, fatto uomo per

opera dello Spirito Santo e nato dalla vergine Maria». Cristo è il centro del culto cristiano. Il prefazio

sottolinea come l’incarnazione del Verbo raggiunga il suo compimento nel mistero della pasqua da

cui, come da sorgente, è derivato tutto il mistero della Chiesa: «Per compiere la tua volontà e

acquistarti un popolo santo, egli stese le braccia sulla croce, morendo distrusse la morte e proclamò

la risurrezione». In tal modo, la redenzione è descritta come un’obbedienza del Figlio alla volontà

del Padre, l’acquisto di un popolo consacrato, e la passione nella quale il crocifisso stende le mani

sulla croce come per benedire e abbracciare l’universo: così egli annuncia la morte e manifesta la

risurrezione. La concisione di questo proclama unisce la morte e la risurrezione di Cristo in un solo

atto liberante e vittorioso.558

La formula di passaggio: «Padre veramente santo, fonte di ogni santità», riprende l’idea della

santità di Dio, ma la sviluppa sottolineando come ogni santità e santificazione derivino dal Padre.

Siamo così in pieno nell’ambito delle «meraviglie di Dio»: la santità è una di esse. Da questa

convinzione di fede, sgorga l’epiclesi dello Spirito. Infatti, se Dio Padre è la fonte di ogni santità, è

logico che lo si invochi per la santificazione dei doni. L’agente di tale opera è lo Spirito Santo:

«Santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito, perché diventino per noi il corpo e il sangue di

Gesù Cristo nostro Signore». Immediatamente si giunge al racconto dell’istituzione. Si tratta

dell’anamnesi vera e propria che attualizza nei segni il mistero della pasqua e impegna a riviverlo in

tutta la sua intensità e le sue conseguenze. L’alleanza è rinnovata nell’oblazione di Cristo. L’eucaristia

è la nuova shekinah, la dimora di Dio fra gli uomini. Si può ormai accogliere l’invito di Cristo:

«Prendete... mangiate... bevete...», partecipando così al suo banchetto di salvezza. La «meraviglia»

della pasqua è ormai attualizzata sull’altare; naturalmente si tratta di una «meraviglia sacramentale»

e, come tale, raggiungibile solo dallo sguardo della fede. Per questo, subito dopo la consacrazione, il 558 M. THURIAN, La théologie des nouvelles prières eucharistiques, in MD 94(1968), 95.

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presidente aggiunge: «Mistero della fede», a cui l’assemblea risponde, affermando il contenuto del-

l’eucaristia in corrispondenza all’annuncio paolino di ICor 11,26: morte, risurrezione, attesa della

parusia. Dopo aver affermato che quanto si è compiuto rappresenta in atto la «memoria» del mistero

pasquale di Cristo, il celebrante - insieme a tutta la comunità - esprime l’offerta al Padre del «pane

della vita» e del «calice della salvezza» quale «azione di grazie» per quanto Gesù ha compiuto per

noi. Ritorna così il tema della berakah, dell’azione di grazie che pervade tutta la celebrazione

eucaristica e accompagna il gesto dell’offerta. Con uno stile semplice e conciso, si invoca poi, una

seconda volta, lo Spirito Santo perché coloro che partecipano alla comunione del corpo e del sangue

di Cristo siano riuniti «in un solo corpo». Dopo l’epiclesi, le intercessioni, affinché i frutti del

sacrificio celebrato si riversino sulla Chiesa, sul mondo e sui defunti. Si prega ugualmente «per tutti

noi», perché possiamo far parte della Chiesa dei santi che già canta, nella beatitudine, la gloria del

Padre, per mezzo del

Figlio nello Spirito. Ed è con questa dossologia che si conclude la preghiera eucaristica. Con

l’amen dei fedeli si ripercuote ormai in tutta la Chiesa e nell’eternità.

La terza preghiera eucaristica è una composizione nuova, ma con elementi attinti alla

tradizione, specialmente a quella occidentale di tipo gallicano e mozarabico. Non ha un prefazio

proprio e può quindi essere utilizzata con qualsiasi prefazio, come avviene per il Canone romano.

Analogamente alla seconda preghiera, la formula di passaggio è caratterizzata dal tema della santità

divina, ma con espressioni più ampie e sviluppate. L’oggetto della lode è Dio, sia come creatore,

origine della vita (fai vivere) che come redentore (santifichi). L’universo è il luogo in cui Dio ha

riversato il suo amore. La lode della Chiesa si eleva al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito. È in

questo contesto che si pone l’epiclesi in forma analoga a quella della seconda preghiera. Una piccola

differenza è data dalla frase introduttiva al racconto dell’istituzione: «Nella notte in cui fu tradito»,

derivata da ICor 11,23, che serve a rilevare il terribile contrasto tra il tradimento di Giuda e il gesto

di amore che Cristo compie nella sua pasqua. Identica è anche l’acclamazione del popolo in risposta

all’annuncio: «Mistero della fede». Questa acclamazione riassume l’azione di grazie per la storia della

salvezza e orienta la celebrazione eucaristica verso il compimento escatologico. Segue il grande

offertorio: celebrando il memoriale... ti offriamo; sono le espressioni-chiave del ricordo eucaristico.

Il sacrificio è detto «vivo e santo» a sottolineare il valore peculiare dell’offerta del Signore Gesù al

Padre. L’eucaristia si presenta come azione di grazie di Cristo e della Chiesa. La seconda epiclesi è

analoga a quella della seconda preghiera, ma più sviluppata e collegata al ricordo di Maria e dei santi.

L’intercessione si apre e si chiude con una visione di respiro universale: si prega per la salvezza del

mondo, per la comunità ecclesiale pellegrina sulla terra, per i componenti di questa comunità, i figli

dispersi e i defunti, e si conclude con il ricordo della mediazione universale di Cristo e la dossologia.

La quarta preghiera eucaristica si distingue dalle altre sia per l’afflato biblico che per la sua

tipica prospettiva storico-salvifica. Grazie al prefazio fisso, alla sequenza ordinata del mysterium

salutis e al rilievo dato al memoriale del Signore, si avvicina molto alla forma delle anafore orientali,

in particolare della tradizione antiochena. Centrata sul tema dell’amore di Dio, essa sottolinea lo

stretto rapporto di continuità che sussiste tra l’economia biblico-cristiana e l’eucaristia del tempo

della Chiesa. Al solito dialogo tra celebrante e assemblea, fa seguito un prefazio che forma un tutt’uno

con l’insieme della preghiera eucaristica. In esso si contempla il mistero di Dio creatore da cui

sgorgano l’azione di grazie e la lode. Il termine della preghiera è come sempre il Padre, il Dio della

bontà, «fonte della vita» e «luce». Il contesto biblico richiama quello del primo capitolo della Genesi.

Va in questa direzione il canto del pre- fazio. In esso si racconta la storia della salvezza, cominciando

da Dio che «ha disposto tutto con sapienza e amore» fino all’uomo a cui è stato affidato il compito di

portarlo a compimento e all’evento del peccato che fin dall’inizio ha «infranto» il disegno divino,

passando per la promessa, la preparazione delle diverse alleanze e l’attesa dei profeti, l’invio del

Figlio unigenito nella pienezza dei tempi, la sua opera nel mondo, la redenzione, il dono dello Spirito,

«primizia della nuova vita nei credenti e compimento dell’opera trinitaria nel mondo». Del mistero

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pasquale di Cristo si sottolinea particolarmente la volontarietà della sua immolazione. Lo Spirito di

pentecoste è invocato perché consacri le offerte e le trasformi nel corpo e nel sangue del Signore,

come «segno dell’eterna alleanza» stabilita per sempre sulla croce. L’eucaristia ne è l’attualizzazione

«qui e ora», per noi. Il racconto dell’istituzione si differenzia da quello delle altre preghiere per

l’introduzione del tema dell’«ora» e di quello dell’«amore supremo», tipici del Vangelo di Giovanni.

Lo stesso vale per l’anamnesi e l’offerta, espresse in un linguaggio che non manca di ricordare la

discesa di Cristo nel regno della morte, seguita dalla sua risurrezione e ascensione al cielo, in attesa

del suo ritorno glorioso. L’offerta della comunità non è altro che l’offerta stessa che Cristo ha fatto

di sé al Padre. Ad essa è congiunta la certezza che tale «offerta» si fa «fonte di salvezza per il mondo

intero». La seconda epiclesi è indirizzata alla «costruzione» della Chiesa, a partire dalla «comunione»

nel «mangiare l’unico pane» e nel «bere all’unico calice». La preghiera di intercessione si sviluppa

in tre momenti successivi: si prega per le intenzioni della Chiesa e dei presenti, per i defunti e si

conclude con l’invocazione dell’assemblea celeste. Tutto il corpo mistico di Cristo «partecipa»

all’offerta eucaristica ed è chiamato a beneficiarne.

Le preghiere eucaristiche quinte {a, b, c, d), al di là dei singoli aspetti, hanno questo di proprio

rispetto alle precedenti: 1) evocano in modo più diretto come la celebrazione eucaristica sia un’azione

di Cristo mediante la quale egli attualizza la sua unica offerta al Padre nella Chiesa («È Cristo che si

offre...»); 2) modificano la sezione delle intercessioni in rapporto a tematiche evangeliche evocate di

volta in volta. Un discorso analogo vale per le preghiere eucarìstiche della riconciliazione, dove si

sottolinea con particolare forza e ricchezza di riferimenti il dono della redenzione dispiegato nel

sacramento della penitenza in favore dei battezzati e il significato di rendimento di grazie che

l’eucaristia assume in un simile contesto. L’eucaristia appare il grande rendimento di grazie della

Chiesa, attualizzazione dell’éschaton pasquale, ricapitolazione della storia della salvezza e

anticipazione dell’escatologia definitiva.

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SACRAMENTARIA SPECIALE. I. Battesimo, confermazione, eucaristia ....................................... 1

PRESENTAZIONE ............................................................................................................................. 4

PRIMA PARTE IL SACRAMENTO DEL BATTESIMO .............................................................. 5

INTRODUZIONE LO SFONDO ANTROPOLOGICO: NASCITA E RINASCITA ........................ 6

CAPITOLO PRIMO I FONDAMENTI BIBLICI ......................................................................... 10

1. Battezzare nel nome di Gesù ............................................................................................. 10

2. Il retroterra giudaico .......................................................................................................... 11

3. Giovanni il Battista e Gesù ................................................................................................ 12

CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE DELLA CHIESA ................................................... 18

1. Il battesimo nella Chiesa antica ......................................................................................... 18

2. La via orientale dell’iniziazione cristiana .......................................................................... 32

3. Il battesimo, primo sacramento del settenario ................................................................... 34

4. Battesimo e giustificazione: la Riforma e il concilio di Trento ......................................... 40

5. Evangelizzare e battezzare nel dinamismo missionario della Chiesa moderna................. 48

CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO SISTEMATICO ....................................... 50

1. Il battesimo alla luce del magistero del concilio Vaticano II e dei nuovi rituali. Aspetti

teologici e liturgici ..................................................................................................................... 50

SECONDA PARTE IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE .................................... 67

CAPITOLO PRIMO ...................................................................................................................... 71

I FONDAMENTI BIBLICI ........................................................................................................... 71

1, Ricolmi dello Spirito di Gesù ............................................................................................ 71

2. Imposizione delle mani e unzione nell’Antico Testamento .............................................. 72

3. Lo Spirito di Dio all’opera in Gesù ................................................................................... 74

CAPITOLO SECONDO LA TRADIZIONE DELLA CHIESA ................................................... 79

1. La confermazione/crismazione nel periodo patristico ....................................................... 79

2. La confermazione nel settenario sacramentale .................................................................. 88

3. Dal concilio di Trento al nuovo rituale della confermazione ............................................ 98

CAPITOLO TERZO LINEE PER UN APPROCCIO SISTEMATICO ..................................... 103

1. Per un rinnovamento della prassi e della dottrina alla luce del magistero del concilio

Vaticano II e della riforma liturgica ......................................................................................... 103

2. Il nuovo Rito della Confermazione ................................................................................. 103

3. Dalla confermazione all’eucaristia, culmine dell’iniziazione cristiana ........................... 106

EXCURSUS UNO SGUARDO AI DIALOGHI ECUMENICI CON LA CHIESA ORTODOSSA

...................................................................................................................................................... 108

TERZA PARTE IL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA ...................................................... 115

INTRODUZIONE FONDAMENTO ANTROPOLOGICO ........................................................ 116

1. Il «mangiare» e il «bere» nella vita dell’uomo ................................................................ 116

Page 206: SACRAMENTARIA SPECIALE. I. Battesimo, confermazione ... · Abbreviazioni e sigle AA CONCILIO VATICANO II, decreto Apostolicam actuositatem, 18.11.1965 AAS Acta Apostolicae Sedis,

2. La mensa come banchetto di comunione ......................................................................... 116

CAPITOLO PRIMO ORIGINE BIBLICA .................................................................................. 118

1. Tipologia biblica ed eucaristia ......................................................................................... 118

2. Dalla berakah all’eucaristìa ............................................................................................. 123

3. Istituzione dell’eucaristia ................................................................................................. 126

4. Assemblee eucaristiche nella comunità apostolica .......................................................... 136

5. Dottrina eucaristica di Giovanni ...................................................................................... 138

CAPITOLO SECONDO STORIA DEL DOGMA ...................................................................... 140

1. Epoca patristica................................................................................................................ 140

2. Prescolastica e scolastica ................................................................................................. 149

3. La Riforma e il concilio di Trento ................................................................................... 154

4. Epoca moderna fino a oggi .............................................................................................. 157

CAPITOLO TERZO INQUADRAMENTO SISTEMATICO .................................................... 164

1. Mistero della fede tra il «già» e il «non ancora» ............................................................. 164

2. «Memoriale» della pasqua di Cristo ................................................................................ 165

3. Sacramento del sacrificio della croce .............................................................................. 166

4. Mensa di comunione ........................................................................................................ 171

5. Presenza «per antonomasia» del Risorto ......................................................................... 173

6. Chiesa e celebrazione della nuova alleanza ..................................................................... 176

7. Cristocentrismo eucaristico ............................................................................................. 185

8. Verso la Gerusalemme celeste ......................................................................................... 189

9. Eucaristìa ed ecumenismo ............................................................................................... 192

CONCLUSIONE ......................................................................................................................... 197

1. L’eucaristia come celebrazione ....................................................................................... 197

2. Popolo di Dio e assemblea celebrante ............................................................................. 198

3. La preghiera eucaristica ................................................................................................... 199