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LETTERA PASTORALE DEL VESCOVO ROMANO ROSSI ai cristiani della Diocesi di Civita Castellana per la Quaresima 2017 Se non c'è limite all'amore, non c'è limite alla speranza SABATO SANTO La discesa di Cristo agli inferi

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LETTERA PASTORALE DEL VESCOVO ROMANO ROSSI

ai cristiani della Diocesi di Civita Castellana per la Quaresima 2017

Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” fra la morte e la Risurrezione

ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico,che l’ha attraversata con i segni della sua passione per l’uomo.

Qui Gesù Cristo ha condiviso non solo il nostro morirema anche il nostro rimanere nella morte.Si è trattato della solidarietà più radicale.

In quel tempo oltre il tempo Gesù Cristo è disceso agli inferi.Questo vuol dire che Dio, fattosi uomo,

è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema dell’uomo,dove non arriva alcun raggio di amore,

dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: gli inferi.

Gesù Cristo, rimanendo nella morte,ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima

per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui.Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo:nel regno della morte è risuonata la voce di Dio.

È successo l’impensabile: che cioè l’amore è entrato negli inferi.Anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta

noi possiamo ascoltare una voce che ci chiamae trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori.

L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare.E se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore,

allora anche là è arrivata la vita.Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli.

Meditazione di Benedetto XVI a Torino il 02/05/2010 davanti alla Sacra Sindone

Se non c'è limite all'amore, non c'è limite alla speranza

SABATO SANTO

La discesa di Cristo agli inferi

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Carissimi nel Signore, la Quaresima è il tempo liturgico che la Chiesa dedica alla memoria e alla celebrazione della Pasqua di Gesù, particolarmente nei due momenti della morte e della resurrezione, il venerdì e la domenica della Settimana Santa. Fra queste due grandi giornate si inserisce il Sabato Santo, non più Quaresima ma non ancora Pasqua, caratterizzato un po' dal lutto per il Cristo morto, un po' dalla vigilia per la grande festa che ormai incombe. In esso, infatti, si consuma fino in fondo il dramma della morte del Figlio di Dio e, al tempo stesso, si iniziano a percepire i primi fremiti della novità che si sta facendo strada. Il significato di questa giornata di transizione è illustrato, fino dai primissimi tempi del cristianesimo, dall'immagine ingenua e geniale della Discesa di Cristo agli Inferi. Lo slancio che lo portò a scendere sulla terra e a dare la vita per gli uomini non è fermato neppure dalla morte ma prosegue fin sotto terra, accompagnandolo e proiettandolo dentro il regno dei morti. La sua dedizione lo spinge ad una solidarietà totale con i prigionieri di quel carcere, inseguiti e raggiunti, per così dire, nel luogo della loro irreversibile detenzione e della definitiva desolazione. Laggiù, negli abissi della morte, risuona la parola della vita che richiama all'esistenza e si manifesta, una volta di più, la fedeltà divina alle creature. Al tempo stesso, si pongono le condizioni per un nuovo e definitivo si dell'uomo all'invito nuziale che il suo Signore non ha cessato di rivolgergli fin dagli inizi della creazione e della storia. Nelle pagine che seguono, cercheremo insieme il fondamento di questo articolo di fede, ne scopriremo il significato per noi e vi troveremo, così almeno oso sperare, motivate ragioni di stupore e di consolazione. Il grigiore e perfino le tenebre di quest'ora così difficile della nostra storia potranno essere illuminati dai riflessi di una luce che ci avvolgerà a partire dalle profondità più abissali.

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Se una parola di misericordia e di speranza può essere pronunciata perfino su quello scenario di morte così desolato e spettrale, dischiudendo un futuro possibile e aprendo ulteriori opportunità per ogni essere umano, una volta distrutte le porte di quel carcere, allora una vita nella fede e nella speranza può essere fondata su basi ancora più solide. Il servizio della Chiesa all'uomo e al mondo non teme di confrontarsi con le questioni più inquietanti e definitive della condizione umana. Se si può far penetrare il lievito di una nuova creazione anche nel mondo di laggiù, figuriamoci se non è possibile, arricchiti dello stesso Spirito, invertire la rotta anche in quello di quassù! Sono temi tanto delicati quanto necessari, un po’ trascurati nella predicazione e nella catechesi e, quindi, troppo spesso suscettibili di venir quasi sequestrati dai professionisti del fantastico e dal morboso. In realtà, una volta di più ci troviamo davanti ad un patrimonio di luce e di grazia per i cristiani e per tutta l'umanità. Non sono e non potranno essere temi facili. La discesa di Cristo agli inferi è stata presentata alla diocesi nel corso degli Esercizi Spirituali, tenutisi nell’estate 2016. Per l’interesse suscitato dall’argomento, ritengo che sia utile riproporlo all’intero popolo di Dio, attraverso questo strumento destinato a tutte le famiglie. Seguendo il metodo delle “Pietre Vive”, alla fine di ogni sezione troverete due tracce di lavoro, a livello personale e comunitario, che intendono facilitare l’assimilazione personale e lo scambio fraterno. La mia gratitudine va in primo luogo ai Sacerdoti e ai Diaconi che, nel corso della benedizione pasquale, offriranno con generosa fatica questo opuscolo ad ogni famiglia. Mi auguro che possa essere letto e meditato non solo fra le mura domestiche, ma soprattutto all'interno della Comunità Parrocchiale. Ciò che può apparire difficile ad una lettura individuale, si illumina e appare gustoso se condiviso con altri nella Chiesa. Non meravigliatevi della scelta di questo tema, apparentemente controcorrente. E’ un tesoro di amore, di fede e di speranza che vi appartiene. Vi auguro di scendere in questi abissi, in compagnia di Gesù e di Maria, per assaporare l'ebbrezza del superamento dei limiti più invalicabili, lieti e riconoscenti al Signore per il grande amore con cui ci ha amati e che continuerà a riproporsi fin quando non ci arrenderemo tutti al suo abbraccio delicato e vincente. Buona Quaresima e Buona Pasqua! 1 marzo 2017, Mercoledì delle Ceneri

† ROMANO ROSSI

Vescovo di Civita Castellana

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INDICE

I. COME NASCE E SI SVILUPPA UN ARTICOLO DI FEDE

1. Una giornata davvero vuota? Pag. 5 2. Cosa c’è sotto? Pag. 5 3. La fede e la voce del silenzio Pag. 5 4. Lo Spirito e l’intelligenza del Mistero a partire dalle Scritture Pag. 6 5. «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto» (Gv 20,13) Pag. 10 6. Una fede che si esplicita e si articola Pag. 11 7. La fede e i suoi linguaggi Pag. 11 8. Perché fin laggiù? Pag. 12 9. Le prime testimonianze Pag. 14 10. I primi Padri della Chiesa Pag. 15 11. Il combattimento vittorioso Pag. 17 12. Fede, catechesi, teologia Pag. 19 Riflessione personale Pag. 22 Riflessione comunitaria Pag. 23

II. PER LA FEDE E LA VITA CRISTIANA DI OGGI

1. Un discorso che si riapre Pag. 25 2. I simboli e la verità Pag.25 3. Regolare i conti con la morte Pag.26 4. Per poterci amare davvero fino in fondo Pag.27 5. La potenza di un bacio Pag.28 6. Presagi di Risurrezione Pag.29 7. Non risparmiati dalla morte ma salvati nella morte Pag.31 8. Alla ricerca dell’Adamo perduto Pag.32 9. La dimensione nuziale della discesa agli inferi Pag.35 10. La presenza di Maria, Madre e Sposa Pag.36 11. Maria e la discesa di Cristo agli inferi Pag. 38 12. Negli inferi il principio della Nuova Creazione Pag. 39 13. Un annuncio di salvezza per tutti, sempre, dovunque Pag.40 Riflessione personale Pag. 41 Riflessione comunitaria Pag. 42

III. POSSIAMO SPERARE LA SALVEZZA PER TUTTI

1. Per chi è disceso? Pag.44 2. Contabilità o contemplazione? Pag.45 3. «Signori sono pochi quelli che si salvano?» Pag.45 4. La tragedia del peccato e dell’inferno Pag.46 5. Nonostante tutto, le ragioni della speranza Pag.49 6. La via del Sabato Santo Pag.53 7. Quando anche i Santi vanno all’inferno Pag.53 8. Attesi e abbracciati nell’abisso Pag.56 9. Ripartire dagli inferi Pag.58 10. Ascoltare le ragioni del no Pag.59 11. Testimoni di una speranza affidabile Pag.62 Riflessione personale Pag. 63 Riflessione comunitaria Pag. 64

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PRIMA PARTE

COME NASCE E SI SVILUPPA UN ARTICOLO DI FEDE

Caravaggio, Deposizione, Pinacoteca Vaticana (1602-1604) Roma

− In che modo il Mistero del Sabato Santo si rivela all’esperienza credente come una dimensione della totalità del mistero di Cristo che illumina in modo singolare tutta la storia della salvezza?

− Quali sono state le rappresentazioni simboliche elaborate nel corso dei secoli dall’esperienza credente e dalla riflessione dottrinale che hanno portato alla formula della professione di fede proclamata nel Simbolo degli Apostoli “discese agli inferi”? Perché Gesù è arrivato fin laggiù?

− Quando, durante la S. Messa, proclamiamo di credere che Gesù “discese agli inferi”, scegliendo di recitare il Simbolo degli Apostoli, che cosa crediamo e in che cosa speriamo?

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1. Una giornata davvero vuota? Nella coscienza credente dei cristiani e nella vita comunitaria del popolo di Dio, i grandi giorni della Settimana Santa, oltre alla Domenica dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, sono il Giovedì e Venerdì Santo e la Domenica di Pasqua. Il Sabato Santo non possiede un rilievo altrettanto significativo, forse perché privo di episodi da ricordare e di specifici riti liturgici che li commemorano. Con ovvia disinvoltura e consolidata normalità la riflessione dottrinale e la sensibilità spirituale dei fedeli passano dal Venerdì Santo alla Domenica di Risurrezione, senza attribuire troppa importanza alla singolare giornata che si trova in mezzo. Non c’è da stupirsi di questo fenomeno. La vita e la fede del popolo di Dio si nutrono e si lasciano guidare dalla Rivelazione contenuta nella Sacra Scrittura. Del Sabato Santo la Bibbia non riporta nessun evento. È la giornata del silenzio e dell’apparente vuoto. D’altra parte, come potrebbe la Scrittura parlare nel momento in cui la Parola, di cui essa è l’eco e la risonanza, sembra del tutto tacere, sigillata dentro il sepolcro? 2. Cosa c’è sotto? Eppure, fin dai primi tempi della Chiesa, sotto la calma piatta di una giornata unicamente caratterizzata dalla contemplazione del macigno collocato davanti alla tomba di Gesù, i cristiani hanno intuito il silenzioso germinare di una invincibile primavera, caratterizzata dall’estendersi progressivo e incontenibile dei benefici della croce e preludio dell’esplosione pasquale nel segno della vittoria della vita. E, come sempre, l’esperienza credente e la riflessione dottrinale al servizio dell’evangelizzazione hanno preceduto e contribuito a far maturare la fede della Chiesa, espressa nelle formule del Credo. Ci sono voluti più di trecento anni ed ecco che, a partire da un Concilio locale tenutosi nella seconda metà del IV secolo (359) a Sirmio, entra in circuito una formula che ben presto sarà riconosciuta e accolta da tutte le Chiese e che i cristiani ripetono la domenica, quando alla Messa si sceglie di recitare il Simbolo degli Apostoli: “discese agli inferi”. Si tratta di un tema che ha goduto di grande rilievo nella fede e nella predicazione della Chiesa antica, nell’iconografia orientale e occidentale ed anche nell’immaginario collettivo del popolo credente.

3. La fede e la voce del silenzio

Non c’è da meravigliarsi più di tanto del riserbo delle Scritture su una situazione che vede il Verbo di Dio reso muto e irrigidito nei lacci della morte, almeno per quello che possono constatare i nostri sensi di carne.

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Ma se il palcoscenico e il microfono sul piano storico e percepibile non emettono segnali, l’occhio della fede cerca, come sempre, di penetrare oltre le apparenze e scoprire le articolazioni profonde del Mistero, cioè del surplus di grazia e di vita che ribolle sotto la coltre immobile. Il Nuovo Testamento, dicevamo, non riporta nessuna cronaca di fatti o di parole relativi al Sabato Santo. Ma il muro del silenzio non è privo di fessure e di piccoli oblò che invitano a guardare dentro, lasciandosi orientare da indizi e segnali di vario genere, come se fossimo in presenza di un riecheggiare indistinto, di una realtà in movimento, di una vicenda che prosegue e che una fede indomabile e appassionata non si stanca di monitorare e di decodificare. Così peraltro avevano fatto le donne, fin dalla sera del Venerdì Santo («Maria di Magdala e Maria madre di Joses stavano a osservare dove veniva posto» Mc 15,47) e, prima di loro, i profeti i quali cercavano di indagare «… a quali momenti o quali circostanze alludesse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite» (1 Pt 1,11). 4. Lo Spirito e l’intelligenza del Mistero a partire dalle Scritture Lo stesso si ripete in ogni epoca della Chiesa con lo Spirito Santo che guida i credenti alla conoscenza di tutta la verità (cfr. Gv 16,13).

«Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito. Lo Spirito, infatti, conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Cor 2,9-10).

Ecco, qui pare trattarsi proprio delle “profondità” di Dio e, soprattutto, del suo Figlio Gesù Cristo. Il NT, infatti, pur non usando mai l’espressione “discesa agli inferi”, allude a una presenza di Gesù Cristo nelle viscere della terra, come il profeta Giona:

«Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40).

La discesa di Gesù nel profondo degli abissi viene presentata come ovvia conseguenza della sua volontà di arrivare dovunque e a tutti:

«Non dire nel tuo cuore: chi salirà al cielo? – per farne cioè discendere Cristo – oppure: chi scenderà nell’abisso? – per fare cioè risalire Cristo dai morti» (Rm 10,6-7).

«Che cosa significa che ascese, se non che

prima era disceso nelle parti inferiori della terra?» (Ef 4,9).

... il silenzioso germinare

di una invincibile primavera ...

... se il chicco di grano caduto in terra

non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Gv 12,24

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Il passo più esplicito a tale proposito si trova in 1 Pt 3,18-22:

« 18Perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. 19 E nello spirito andò a portare l'annuncio anche alle anime prigioniere, 20che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l'arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell'acqua. 21Quest'acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. 22Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze».

Fin dai tempi di Sant’Agostino si discute se in questo brano si debba vedere la discesa di Gesù Cristo negli inferi (dimora dei giusti nell’Antico Testamento che non avevano conosciuto Cristo, da distinguere da “inferno” come luogo di dannazione eterna per chi ha definitivamente rifiutato il Signore) per tirarne fuori quelli che lo stavano attendendo nella speranza o se vi si debba vedere l’ascensione verso il cielo di Cristo Risorto che proclama la sua piena vittoria agli spiriti ribelli e alle potenze malvagie, nemiche di Dio e degli uomini imprigionate in una zona intermedia fra la terra e il cielo. L’insieme del messaggio della 1Pt, tuttavia, ci orienta a fissare l’attenzione sul mistero della passione redentrice del Figlio di Dio, atteso e invocato dai Profeti (cfr. 1,10s.), coinvolto fino all’effusione del sangue come Agnello puro e senza macchia (cfr. 1,19), Servo sofferente del Signore che si fa carico dei peccati nel suo Corpo portato fino alla croce per la nostra guarigione e la nostra giustizia (cfr. 2,21 ss.).

Interpretare 1Pt 3,18-22 alla luce di questo contesto soteriologico di annientamento salvifico di Gesù proietta su tutto il brano una luce inequivocabile: Gesù scende nel soggiorno dei morti per condividere la loro condizione, proclamare e realizzare la loro salvezza. Sono soprattutto i vv. 19-20 che esplicitano e precisano il significato del testo nel suo insieme. Va detto, anzitutto, che le azioni descritte in questi versetti sono da considerare contemporanee e strettamente consequenziali a quanto detto nel v. 18. Nel suo morire nella carne e venire vivificato nello spirito, Gesù Cristo andò a portare un certo annuncio a degli interlocutori caratterizzati dai seguenti termini: prigione, spiriti, annunzio, disobbedienza, epoca di Noè e diluvio. Secondo molti studiosi, la migliore spiegazione sembra essere quella che assume come sfondo il mito della punizione degli angeli ribelli a cui si allude in Gen. 6,1-6. Questo brano sta in rapporto con un filone di pensiero largamente diffuso nel giudaismo inter-testamentario, strettamente connesso con la figura del Patriarca antidiluviano Enoch di cui Gen. 5,24 afferma non che morì ma che non fu più visto perché Dio lo aveva preso con sé.

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Risulta evidente che quanto in 1Pt viene attribuito a Cristo è analogo a quanto era stato ascritto a Enoch. Egli va a portare un annunzio a degli spiriti (termine con cui vengono più volte designati gli angeli peccatori nella versione greca di Enoch) che sono in prigione per aver disubbidito al tempo di Noè. Ci possiamo chiedere se Gesù vada, come Enoch, a ribadire l’annuncio di condanna o a proclamare un messaggio di salvezza, come indicherebbe l’uso del verbo “kerysso”. Non si parla né in Enoch né in 1Pt di discesa agli inferi ma tutta la tradizione cristiana successiva lo ha interpretato in questo senso. Ricordiamo, peraltro, che per i giudei del tempo lo sheol era costituito da parecchie dimore disposte nel profondo e via via sempre più inabissate nelle tenebre. Quelle dei Patriarchi, quelle dei giusti e dei Profeti martiri erano ben distinte, per livello e condizione spirituale da quelle degli empi, dei pagani, dei falsi profeti. Ciò che appare chiaro nel testo di Pietro è che Gesù ha voluto raggiungere i peggiori dei peggiori e stabilire comunque un dialogo con loro. Indubbiamente non si tratta di fare una sorta di mistica dei cerchi infernali, come nella Divina Commedia di Dante. Perfino le indicazioni di alto e di basso sono relative perché il medesimo avvenimento può essere espresso nella prospettiva della “discesa” o in quello della “salita”: le nozioni spaziali non possono essere materializzate e non possono bastare in se stesse ad esprimere la totalità del Mistero.

Nell’ambiente giudaico circostante il cristianesimo primitivo esiste tutta una letteratura, oggi rimasta esclusa dal canone della bibbia ebraica, ma a quei tempi liberamente circolante e presa molto sul serio, legata a Enoch, personaggio che Dio avrebbe elevato in cielo ancora vivo, e che appare come ricettore e trasmettitore di importanti rivelazioni. L’opera più antica di questa letteratura è il “Libro dei vigilanti”, risalente almeno al terzo secolo prima della nostra era, nel quale si riflette sull’origine angelico-demoniaca, anziché antropologica, del dramma del male nel mondo. I vigilanti sono gli angeli che peccarono unendosi alle donne e insegnando loro le arti e la magia, generando con quelle i giganti che infestarono la terra. Una volta che i giganti si furono uccisi reciprocamente, le loro anime rimasero a infestare la terra e a produrre il male. Nel “Libro dei vigilanti” gli angeli trasgressori vengono imprigionati, incatenati in un “carcere” ed Enoch riceve da Dio l’ordine di “andare ad annunziare” loro la condanna definitiva. Il diluvio è presentato in questa tradizione come un tentativo da parte di Dio di purificare il mondo dopo il male prodotto dagli angeli e dai giganti. Lungi dall’essere un testo marginale, all’epoca delle origini cristiane era considerato da molti, ivi compresi alcuni credenti in Cristo, un libro rivelato: la lettera di Giuda lo utilizza (cfr. vv. 6 e 13) e lo cita espressamente (cfr. vv. 14-15), come pure la seconda lettera di Pietro (cfr. 2,4).

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Paolo vede la croce di Gesù come il termine ultimo di una “discesa”: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil. 2,8), mentre Giovanni vede Gesù “salire” sulla croce dalla quale la sua salvezza si irradia sul mondo: ”come Mosè innalzò il serpente nel deserto così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv. 3,14). Ciò che qui importa non è tanto l’alto o il basso ma è il fatto che Cristo Salvatore raggiunge tutte le parti del mondo e tutte le fette di umanità. Egli è salito più in alto del più alto dei cieli ed è sprofondato nel massimo dell’abiezione. Egli è il Signore dell’universo, sia che salga nel più alto dei cieli sia che discenda nei più tenebrosi abissi. “Dio non ingloba forse tutte le profondità del mondo infernale mediante la propria insuperabile profondità? Lui che è più alto di tutti i cieli è anche più profondo degli inferi poiché nella sua profonda trascendenza unisce tutto” (Gregorio Magno). Analogamente si era espresso qualche secolo prima Atanasio di Alessandria: “il Signore ha raggiunto tutte le parti della creazione affinché ciascuno dappertutto trovi il logos, anche colui che è smarrito nel mondo dei demoni”. Nella stessa direzione mi pare si muova 1Pt 3,22: la sovranità di Gesù sugli angeli, i principati e le potenze è un accenno molto più che implicito al suo trionfo sui signori della morte e dell’abisso. Un’analoga disputa sussiste anche a proposito di 1 Pt 4,6: «Infatti anche ai morti è stata annunciata la Buona Novella». Si tratta di una reale catechesi kerygmatico-salvifica alle anime dei giusti rinchiuse in una specie di limbo o di una proclamazione di speranza per i cristiani morti nel corso della storia prima del ritorno glorioso del Signore? Al di là delle singole allusioni più o meno esplicite o dirette, è tutta la vicenda umana di Gesù che si protende fin dall’inizio nella direzione di una conformazione totale alla vicenda dei figli di Adamo. La sua discesa verso lo svuotamento totale di sé inizia già con l’Incarnazione che implica l’assunzione completa del vissuto dell’uomo per sperimentare in prima persona la realtà umana in tutta la sua complessità e drammaticità. Non ha tenuto gelosamente per sé la sua dimensione divina. Proprio perché essa gli appartiene intrinsecamente, può farne completamente dono, perdendo la propria vita e precipitando nell’abisso. Lo stretto collegamento fra la discesa del Verbo nel grembo di Maria e la sua discesa nel grembo dello sheol e tra la sua uscita dal grembo di Maria e dal regno delle tenebre è stata sottolineata da Efrem Siro:

«Nel mese di Nisan il Signore del tuono, scese e abitò nel grembo di Maria.

Ancora nel mese di Nisan riprese forza, dissolse il grembo dello sheol e salì».

(Inni Pasquali sulla Risurrezione) Tale rapporto è evidenziato anche in una celebre icona orientale della natività della scuola di Rublev che mostra il Bambino deposto sulla mangiatoia e, sullo sfondo, una grotta la cui forma è quella di un oscuro antro che prelude a quello dello sheol.

L’occhio della fede cerca di penetrare

oltre le apparenze ... .... avendo lo sguardo intento non alle cose

che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono

per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” 2Co 4:18

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Fin dall’inizio le tenebre hanno tentato di soffocare la luce senza riuscirci. Fin dal Natale, dunque, l’intuizione spirituale degli artisti ha congiunto la sommità del cielo con le profondità dell’abisso. Un ulteriore preludio della discesa agli inferi può essere visto nell’episodio del battesimo al Giordano, parola che etimologicamente significa “il discendente”. Gesù Cristo identifica in certo modo il proprio destino con il nome e la vicenda stessa del fiume che non a caso termina nella grande depressione al di sotto del livello del mare. Scendere dall’alto per inabissarsi nelle profondità della morte per poi risalire verso la vita: di tutto questo è preludio la scena del battesimo. Mescolandosi con gli uomini comuni e peccatori, il Messia si cala nel fondo del fiume per iniziare la sua battaglia contro le potenze del male, a partire dalle successive tentazioni nel deserto e, per questa via, ricondurre l’umanità al suo vero destino. Non è pertanto un caso che a più riprese Gesù interpreti la sua futura discesa nella morte come un vero e proprio battesimo (cfr. Mc 10,38; Lc 12,50).

Icona della Natività della scuola di Rublev (1410-1430),

Galleria Tretjakov di Mosca

5. «Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto» (Gv 20,13) Le discussioni fra gli esperti sull’esatta interpretazione di questo o di quel brano sono destinate a prolungarsi all’infinito. Rimane innegabile, comunque, che, nella sua Incarnazione, il Verbo di Dio ha condiviso fino in fondo la nostra condizione umana mortale, di cui fa parte il morire e il permanere nello stato di morte, partecipando alla situazione dei morti. Quando il NT parla dell’evento glorioso della Pasqua lo designa come la Risurrezione “dai morti”. Non meno di una cinquantina di volte ricorre negli scritti della Chiesa primitiva questa espressione: “dai morti”, in collegamento con l’evento del suo risveglio pasquale. Gesù Cristo, secondo la fede della Chiesa, non riemerge solo dalla tomba, ossia da un’astratta condizione cadaverica, ma risale a partire da una vera e propria “comunità”, da un vero e proprio tipo di appartenenza, per quanto molto “sui generis”: i morti. Il Figlio di Dio ha condiviso la sua morte con una moltitudine sconfinata. Si è immerso, salvo poi riemergere, nella massa anonima ma non indistinta di quelli che appartengono al “mondo dei più”.

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Ed il passaggio in mezzo a loro è stato un passaggio personale, potremmo dire interpersonale, cioè relazionale (“dai morti”), pur con tutte le difficoltà che ci possono sussistere per noi nel dettagliarne gli specifici particolari e le concrete modalità. Con tutta la fatica e la delicatezza del caso, non si sfugge alla suggestione che, al dì là del dignitoso e ammirevole pudore delle Scritture, il paradosso del Sabato Santo, intriso di silenzi e di allusioni, di dinieghi e di provocazioni, riservi sorprese e spalanchi orizzonti insospettabili.

6. Una fede che si esplicita e si articola È il sentiero su cui si sono inoltrate le prime generazioni cristiane per le quali, come già per Israele, la Parola di Dio non deve essere accolta come lettera morta, chiusa e sigillata, da custodire come una mummia imbalsamata («La Parola del nostro Dio dura per sempre… » Is 40,8 … «La Parola di Dio è viva ed efficace» Eb 4,12). Le indicazioni che essa ci offre, rilette sotto la guida dello Spirito del Risorto, collegate fra loro e inserite nel più ampio contesto di tutta la Rivelazione, permettono alla fede della Chiesa di andare avanti nell’approfondimento e nell’interpretazione del Mistero, nel balbettìo dell’Ineffabile che a poco a poco si articola, illuminando la mente, riscaldando il cuore e sostenendo la testimonianza della Chiesa nel mondo. La prima generazione cristiana aveva ricevuto dagli Apostoli alcuni punti di riferimento certi. Innanzitutto, che il Signore Gesù era stato crocifisso ed era realmente morto. Inoltre, che questo evento, collegato alla successiva Risurrezione, era un dono di salvezza per tutti perché Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati (cfr. 1 Tm 2,4). Dal collegamento di queste due verità basilari della fede si è sviluppata tutta una riflessione sulla cosiddetta “discesa agli inferi”, già documentata verso la fine del I secolo della nostra èra. Non si tratta per noi di scoprire in questo articolo di fede un particolare avvenimento della vita di Cristo, situato localmente e cronologicamente tra il Venerdì Santo alle tre del pomeriggio e il mattino di Pasqua, quanto piuttosto una dimensione ulteriore del mistero di Cristo, capace di illuminare in modo singolare tutta la storia della salvezza. 7. La fede e i suoi linguaggi La fede della Chiesa, nutrita e guidata dallo Spirito Santo attraverso gli scritti degli Apostoli e degli Evangelisti, si è sviluppata nei primi tempi, soprattutto in Israele, in un ambiente di persone provenienti dal giudaismo che hanno introdotto nell’enuclearsi della riflessione cristiana elementi della loro tradizione spirituale. I cristiani intendevano prendere sul serio il dramma della morte di Gesù, nella tragicità dell’evento ma anche nelle conseguenze salvifiche per tutti gli uomini di tutti i tempi. Come poteva una morte diventare dono di vita e avvenimento salutare dagli effetti benefici e universali, per non dire cosmici? Occorreva avvicinarsi alla morte di Gesù e contemplarla come si era soliti fare con le morti di tutti gli uomini: sprofondamento in un abisso tenebroso e sconfinato, in cui vagano come larve prive di qualsiasi prospettiva le ombre dei defunti, irreversibilmente imprigionate, senza futuro e senza speranza. Questo mondo gli ebrei lo chiamavano “sheol”, i greci “ade”, i latini “inferi”.

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Nella loro divisione tripartita del cosmo (cielo, terra e sotto terra) e nella necessità di concretizzare uno stato “esistenziale” (essere defunti) in un luogo concreto e riconoscibile (sheol, ade, inferi), se lo immaginavano in basso, con tutto un apparato di squallore, tristezza e oppressione.

La discesa agli inferi, Chiesa di S. Salvatore di Chora, Istanbul

8. Perché fin laggiù?

In questo scenario cosmologico e antropologico, appartenente alla cultura e alle tradizioni del loro ambiente giudaico, per i primi cristiani era ovvio che fosse “disceso” anche Gesù, seguendo il comune destino di tutti i mortali e il comune itinerario di tutti i morti. Li ha voluti raggiungere nella dimensione più abissale di smarrimento e di perdizione, nella valle tenebrosa e nell’ombra della morte, nel luogo dell’ultima definitiva sconfitta, nello spazio governato dal Nemico. Satana, di fatto, regna solo sui morti perché non gli appartengono né l’origine né la custodia della vita. Anzi, potremmo dire che regna mediante la morte, vale a dire, attraverso l’angoscia della morte che ricatta, terrorizza e incattivisce gli esseri umani. La sua unica forza è lo spavento che incute attraverso la morte. Il permanere dell’uomo nello stato di morte rischia di risuonare come la conferma del suo devastante potere. Ecco perché il Figlio di Dio ha voluto raggiungere gli uomini nel segno della debolezza e della fragilità per far esplodere per sempre questo disumano contropotere. «14Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, 15e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita». (Eb 2,14-15)

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Per questo ha accettato di morire. Ma Egli non era un morto come tutti ed era disceso allo sheol portandosi dietro tutta la carica liberante e dirompente della sua morte redentrice e della sua natura divina. Con la sua discesa era inevitabile che in quell’ambiente desolato e sconsolato s’innescasse un meccanismo di azioni e reazioni dalle conseguenze imprevedibili. Il contenuto essenziale della fede della Chiesa non consisteva, comunque, nel fatto materiale di un’ immersione al centro della terra, tipo i romanzi di J. Verne. Il Crocifisso era “disceso” a condividere fino alla fine la sofferta condizione umana, prima da vivo sulla terra e, poi, da morto, negli strati più bassi del sottosuolo. Era naturale che con Lui entrasse laggiù anche il soffio della vita e della luce, la parola tuonante della grazia e della speranza, il prodigio del risveglio e di un nuovo inizio. Gesù Cristo con la sua morte ha consumato fino in fondo la traiettoria della sua Incarnazione. Nel corso della sua vita mortale ha espresso le sue preferenze per i peccatori e i lebbrosi, per i piccoli e per i poveri. Nella sua morte si è avvicinato ai più esclusi degli esclusi, i defunti, per offrire a tutti il dono della sua salvezza. E tutto questo con l’esplicita volontà di un’estrema condivisione. Gesù Cristo non è fuggito davanti alla morte, anzi le è andato liberamente incontro, permettendole di raggiungerlo e di afferrarlo.

Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi

riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho

il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il

comando che ho ricevuto dal Padre mio"». Gv 10, 17-18

Porsi nella situazione cadaverica, restando immobilizzato nei suoi ceppi e nelle sue angosce (cfr. At 2,24) come in uno stato di prigionia, condividere la situazione ultima dell’uomo peccatore è stato un atto volontario del Figlio di Dio. Questo atto di volontà si identifica con un atto d’amore, vissuto nella potenza amante dello Spirito, proteso in obbedienza verso il Padre (cfr. Mc 14,36) che lo consegna senza risparmiarlo (cfr. Rm 8,32), per amore verso gli uomini (cfr. Rm 5,6-10). La discesa del Figlio implica un analogo movimento da parte del Padre e dello Spirito Santo, nella cui forza il Figlio si offre alla Passione. Tutta la Trinità si rivela come dono nella discesa-abbassamento-svuotamento del Figlio che, mentre si lascia avvolgere dalle tenebre, si abbandona totalmente nelle mani del Padre della luce (cfr. Gc 1,17; 1 Gv 1,5), attraverso lo Spirito della vita (cfr. Gv 6,64). Questo è il mistero del Sabato Santo.

«Mentre Giona è stato gettato in mare, Gesù scese spontaneamente

là dove abitava il misterioso cetaceo della morte» .

Romano il Melode

«Gesù Cristo accettò di sua volontà di morire e, giunto il

tempo, fu Lui stesso di fare cenno alla morte di venire». Massimo il Confessore

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9. Le prime testimonianze

I primi destinatari di questa offerta erano considerati i giusti dell’Antico Testamento che avevano camminato secondo la volontà di Dio. Non si poteva ammettere che non potessero essere salvati ma neppure che avessero già conseguito una piena salvezza, perché così si sarebbe relativizzata l’opera redentrice di Gesù Cristo. Sullo sfondo religioso e culturale sopra delineato, si escogitò una soluzione, facendo della discesa di Gesù fra i defunti, nel corso della quale egli sarebbe entrato in contatto con chi era vissuto ed era morto prima di Lui, l’occasione per fornire loro i benefici della salvezza. Non possiamo circoscrivere la nostra attenzione ai testi canonici del Nuovo Testamento perché il tema della discesa nel mondo della morte era ricorrente sia nella letteratura giudaica intertestamentaria che negli scritti apocrifi del cristianesimo primitivo. Il primo a parlarne esplicitamente è l’ “Ascensione di Isaia”, un testo cristiano composto fra il primo e il secondo secolo, secondo il quale il Signore, disceso anonimamente negli inferi come un qualsiasi defunto, improvvisamente avrebbe rivelato la propria gloria alla quale neppure l’angelo della morte sarebbe stato in grado di opporsi. Così, dal fondo dell’universo, rappresentato dalla dimora dei morti, il Signore sarebbe risalito sulla terra e poi nei cieli, trascinandosi dietro i giusti dell’Antica Alleanza. Con tono colorito e taglio ancora più spettacolare, le “Odi di Salomone”, apocrifo giudeo-cristiano degli inizi del II secolo, descrivono la discesa di Gesù Cristo nell’abisso dei morti e la sua vittoria sulla morte che, dopo averlo inghiottito, incapace di metabolizzarlo, lo rigetta fuori. Negli inferi Egli convoca un’assemblea di morti che trasforma in vivi, predica loro la fede, li segna col sigillo del battesimo e li porta con sé. «L’Ade mi vide e fu prostrato. La morte mi vomitò fuori e con me molti. Aceto e fiele fui per essa e scesi con essa giù per quanto essa era profonda. Piedi e capo essa lasciò cadere, che il mio volto sopportare non fu capace. Tra i suoi morti un’assemblea di vivi ho formato; ho parlato loro con labbra vive, perché la mia parola non fosse vana. I morti corsero verso di me; gridarono dicendo: “Pietà di noi Figlio di Dio! Trattaci conforme alla tua cortesia. E facci uscire dalle catene dell’oscurità. Aprici la porta, per cui usciamo da Te. Scorgiamo infatti che la nostra morte non ti tocca. Deh teco noi pure fossimo salvi, che il nostro Salvatore Tu sei!” Intesi la loro voce e a cuore mi presi la loro fede. Sul loro capo posi il mio Nome, poiché liberi figli miei essi sono e a me appartengono. Alleluia.» (Ode 42,10-20)

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Il mondo dei morti, personalizzato, rimane come paralizzato per il processo che sta per innescarsi. Inghiottito dalla morte, il Salvatore diviene indigesto per lei, costretta a vomitarlo insieme ai giusti che teneva prigionieri (cfr. il motivo del Profeta Giona). Il tema della predicazione ai “dormienti” è esplicito anche nel testo apocrifo chiamato “Vangelo di Pietro”, originario della Siria occidentale intorno alla metà del II secolo. «Vedono uscire dal sepolcro tre uomini e due di essi sorreggevano il terzo e una croce veniva loro dietro. La testa dei primi due giungeva fino al cielo, mentre quella di colui che conducevano per

mano sorpassava i cieli. Udirono una voce dai cieli che diceva: hai predicato a coloro che dormivano? E una risposta si udì dalla croce: si! »

Si tratta di una descrizione spettacolare della risurrezione di Gesù: uscito dal sepolcro è seguito da una croce (cfr. dimensione salvifica) dalla quale esce una risposta positiva a una voce dal cielo che le aveva chiesto se avesse avuto luogo la predicazione ai “dormienti”. La croce è chiaramente inseparabile dalla risurrezione e dall’annuncio di quest’ultima. Cristo è disceso presso i morti con la sua croce e la parola che è stata rivolta a loro è la parola della croce e non solo nel senso che ha la croce come oggetto ma soprattutto come origine. 10. I primi Padri della Chiesa

La credenza nella portata salvifica universale della morte di Gesù, espressa con l’immagine della discesa agli inferi, non appartiene solo a scritti apocrifi o di incerta ortodossia ma è ben nota e condivisa anche dal filone più classico dei Padri della Chiesa. Sant’Ignazio di Antiochia nella sua lettera ai cristiani di Magnesia (circa 115 d. C.) testimonia la stessa convinzione quando, a proposito di Gesù Cristo, scrive:

«Noi, come potremo vivere senza di Lui che anche i profeti, essendo suoi discepoli nello Spirito, attendevano come maestro? Ed è proprio per questo che Egli, che giustamente

aspettavano, quando è stato presente, li ha risuscitati dai morti» (9,2).

Allude a questo dato di fede il primo grande teologo della Chiesa antica, Ireneo di Lione, vissuto nel secondo secolo, quando scrive:

«E’ per questo che il Signore discese nelle “parti inferiori della terra”, per evangelizzare anche ai giusti, profeti e

patriarchi dell’Antica Alleanza, il suo avvento per la remissione dei peccati a quelli che credono in Lui».

(Contro le eresie, IV,27,2)

Anche Ireneo opta per interpretare la discesa agli inferi in chiave di evangelizzazione e di missione profetica. In altri due testi Ireneo allude a un detto apocrifo del profeta Geremia sullo stesso tema, presentato esplicitamente come conseguenza della morte salvifica del Figlio di Dio:

«Il Signore rimase tre giorni nel luogo in cui soggiornavano i morti, secondo quanto ha detto di Lui il

profeta: il Signore si è ricordato dei suoi santi morti i quali si addormentarono prima nella terra di sepoltura e

discese presso di loro per liberarli e per salvarli». (Contro le eresie, V,31,1)

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Nella sua opuscolo “Dimostrazione della predicazione apostolica” al n. 78 lo stesso Ireneo scrive: «E in Geremia così annunzia la sua morte e discesa agli inferi: E il Signore, l’Unico, il Santo d’Israele tolse dai morti Colui che prima aveva dormito nella polvere della terra, che discese tra loro a portare il lieto annunzio della salvezza, a liberarli. La sua discesa negli inferi fu la salvezza dei trapassati». La discesa di Gesù Cristo agli inferi è stata oggetto di riflessione nelle comunità cristiane dell’ antica Siria. E’ un mondo in cui si fa teologia attraverso un ampio uso di simboli che aprono la strada a future elaborazioni di carattere concettuale. Per Efrem, teologo e poeta del IV secolo,, lo sheol è una voragine che divora ogni vivente e alla quale nessuno può sfuggire. In riferimento a questa, Efrem inizia a sviluppare la teologia Adamo-Cristo genere-umano che, morto nel primo, é risuscitato nel secondo. Il Signore scende agli inferi per tirarne fuori le anime che vi erano state imprigionate in Adamo.

Il Cristo, nuovo Adamo, non è solo Colui che riassume in se l’universo ma anche Colui che lo ricompone dopo aver vinto il Maligno. Facendo leva sull’immagine del combattimento, destinata ad una grande fortuna nella riflessione in proposito, Efrem legge la discesa come la vittoria definitiva su Satana, già anticipata nelle tentazioni del deserto e solo apparentemente offuscata per un attimo sul Calvario. E’ una vittoria di dimensioni universali perché riguarda tutti: Gesù Cristo è l’unico salvatore perché è l’unico creatore. Leggiamo in Efrem:

«Gli uomini abbandonarono lo sheol, risuscitarono tutti.

Nessuna chiave può aprire la porta dello sheol. Solo la chiave del Creatore l’ha aperta e la mantiene spalancata.

Chi può riunire le membra disgiunte se non Colui che le ha create? Nessun Dio può penetrare nel carcere e far rivivere le creature,

se queste non gli appartengono.» Efrem ritiene che Gesù risuscita tutti i morti secondo un ordine ben stabilito.

«In un colpo d’occhio rivivremo ma i gruppi usciranno ben in ordine dallo sheol.

Profeti e Apostoli seguiti dai Patriarchi. Poi, tutti gli altri. La discesa era stata caotica e disordinata,

la risalita non sarà affatto così risaliremo da sotto terra nel massimo ordine.»

Agli occhi di Efrem, Gesù Cristo, come secondo Adamo, deve, nella sua discesa agli inferi, ripercorrere a ritroso tutte le fasi della storia allo scopo di salvare tutte le generazioni. E’ come se, scendendo agli inferi, Gesù desse avvio a una nuova fase del mondo e della storia .

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Un’altra voce dalla Siria orientale è quella di Afraate monaco e vescovo di Ninive nel IV secolo. Egli non solo parla della discesa e della permanenza di Gesù nel mondo dei morti ma anche dell’analogia fra Mosè che apre il mare per far passare gli israeliti e Gesù che spalanca le porte dello Sheol e libera i morti. Hanno dedicato un’attenta riflessione a questo tema anche i primi Padri della scuola alessandrina, in particolare Clemente e Origene. Il primo, dopo aver affermato che la missione di Cristo nello sheol consiste nel risuscitare Abramo e i giusti dell’Antica Alleanza, ne spalanca successivamente gli orizzonti a tutti i giusti di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Lascia così intendere che la discesa agli inferi è il giorno della salvezza che vede tutti i giusti trasferiti sotto la protezione benevola del Salvatore. Tutti coloro, ebrei o pagani, che si sono trovati nello sheol con una disposizione di apertura al Salvatore, portata con sé dalla loro vita terrena, ne sono stati salvati, secondo la “coscienza e conoscenza” propria a ciascuno. Un’analoga apertura alla possibilità di una salvezza universale è sostenuta anche da Origene, come vedremo ampiamente più sotto. 11. Il combattimento vittorioso Facendo sempre uso di un linguaggio fiorito e immaginifico, la tradizione della Chiesa antica descrive la discesa di Gesù agli inferi anche come la premessa e la condizione del definitivo, vittorioso combattimento di Gesù con la morte e con le potenze maligne che, attraverso di essa, pretendono di dominare gli uomini e la storia. Non si trattò certamente di fantasiose invenzioni poetiche. Tutta la vita di Gesù fu caratterizzata da un incessante conflitto con Satana, frequente antagonista del suo ministero e protagonista occulto del grande duello nell’ora della Passione e della croce (cfr. Lc 4,13; 22,31s; Gv 12,31; 13,2). Dopo il Battesimo venne sospinto dallo Spirito nel deserto per affrontare l’avversario in un drammatico corpo a corpo. Lì si palesò con chiarezza l’identità della sua persona (Figlio di Dio come nuovo Mosè e nuovo Adamo) e lo stile della sua missione (obbedienza alla parola del Padre). Tante pagine del Vangelo sono caratterizzate dallo scontro col potere delle tenebre attraverso esorcismi e guarigioni. Ciò che colpisce, però, soprattutto nell’avvicinarsi alla Passione, è il pieno coinvolgimento personale di Gesù in questo conflitto, compromettendo in esso tutta la propria esistenza. Avvicinandosi alla morte e scendendo negli inferi, Gesù si inoltra nel cuore del vero deserto, luogo abitato e occupato da Satana, incontrandolo e affrontandolo nel suo proprio terreno, quello della morte, l’invincibile strumento del suo dominio sull’umanità.

Qual è la casa di Satana se non gli inferi, lo spazio spirituale e insieme reale che costituisce l’ambito del suo regno, in cui tiene prigionieri quanti a lui si consegnano, terrorizzati dalla

morte?

7 Ascolta la mia supplica perché sono così misero!

Liberami dai miei persecutori perché sono più forti di me.

8 Fa' uscire dal carcere la mia vita,

perché io renda grazie al tuo nome; i giusti mi faranno corona

quando tu mi avrai colmato di beni. (Salmo 140)

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A questo duello estremo Gesù Cristo non intende sottrarsi, in logica continuità con la sua missione sopra la faccia della terra. Senza questo scontro non sarebbe stata vera morte e la sua discesa agli inferi si sarebbe trasformata in una passeggiata. Tutto era già stato descritto nella parabola del duello fra un uomo forte e uno più forte di Lui (cfr. Mt 12,22-45; Mc 3,22-30; Lc 11,14-26), testo dal valore programmatico sulla sua missione, molto più significativo di quanto abitualmente lo si intenda. Gesù è stato accusato dai suoi avversari di cacciare i demoni con la complicità del loro principe Beelzebul. Egli non solo si difende da questa accusa ma coglie l’occasione per interpretare in chiave trinitaria la sua opera: cacciando i demoni con il “dito di Dio”, lo Spirito Santo, attesta che sta giungendo il Regno del Padre. La sua azione si scontra con Satana: è in atto un conflitto tra due regni. La potenza dello Spirito di Dio è superiore a quella satanica. Prendendo spunto da questa polemica, Gesù illumina una dimensione ben più profonda e radicale delle proprie azioni: Egli entrerà nella casa del “forte” per legarlo e sottrargli le sue prede. Qui c’è molto di più di una semplice legittimazione teologica di qualche episodio di esorcismo. Siamo davanti alla cifra e all’emblema di un obiettivo essenziale dell’opera messianica e redentrice. Qual è la casa di Satana se non gli inferi, lo spazio spirituale e insieme reale che costituisce l’ambito del suo regno, in cui tiene prigionieri quanti a lui si consegnano, terrorizzati e vinti dalla morte? La discesa agli inferi è da comprendere come l’espressione della lotta radicale contro Satana che non fu solo un momento fra i tanti della missione pubblica terrena del Salvatore ma soprattutto una chiave unitaria di tutto il suo agire, culminante nella vittoria definitiva che ha immobilizzato per sempre l’avversario. Si trovano testimonianze a questo proposito in alcuni scritti apocrifi:

«Dopo la discesa di Gesù Cristo dal regno dei morti, sull’istante l’Ade gridò: Siamo stati vinti. Guai a noi! Ma chi sei tu che hai tale potere e forza? Tu che sembri piccolo, ma operi meraviglie; sei umile ed elevato, servo e Signore, soldato e re, che hai potere sui vivi e sui

morti? Sei stato inchiodato in croce e posto nel sepolcro e ora sei divenuto libero, distruggendo ogni nostra potenza. Sei forse tu il Gesù di cui il grande satrapo Satana ci parlava? Tu difatti stai per ereditare il mondo intero con la croce e la morte! Allora il re della gloria, prendendo per la testa il grande satrapo e consegnandolo agli angeli disse: Legategli con catene di ferro le mani, i piedi, il collo e la bocca. Quindi, consegnandolo

all’Ade disse: Prendilo e custodiscilo bene fino alla mia seconda venuta». (Vangelo di Nicodemo, II,6,1-2)

Ne parlano pure alcuni autorevoli testimoni della prima Patristica: «Io, dice, sono il Cristo, che ho distrutto la morte, che ho trionfato sul nemico, che ho messo sotto i piedi l’inferno, che ho imbrigliato il forte, e ho elevato l’uomo alla sublimità del cielo, Io, dice, sono il Cristo». (Melitone di Sardi, Omelia 102) «Gesù Cristo si è abbandonato a una sofferenza volontaria per distruggere la morte e spezzare le catene del diavolo, calpestare l’inferno e illuminare i giusti». (Ippolito, La Tradizione Apostolica)

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Sulla stessa linea di pensiero, con accenti ancora più lirici, così scrive Efrem il Siro:

«Il nostro Signore venne calpestato dalla morte e si aprì invece un sentiero per scavalcare la morte. Egli si sottomise e prese su di sé la morte, come la morte voleva, per rovesciare la morte, come essa non voleva. Ma Egli gridò sulla croce e fece uscire i morti dallo sheol, cosa che la morte non voleva. Mediante ciò con cui la morte lo uccise, proprio con quest’arma riportò la vittoria sulla morte. La divinità era nascosta nell’umanità e così la morte le si accostò. Uccise e venne uccisa. La morte uccise la vita che si trovava nella natura umana di Cristo e fu uccisa dalla vita che si trovava al di fuori della natura umana di Cristo, cioè nella sua divinità. E poiché la morte non poteva consumarlo senza il corpo e anche lo sheol non poteva inghiottirlo senza la carne, Egli venne alla Vergine, affinché di qui un veicolo lo conducesse allo sheol. Con il corpo ricevuto dalla Vergine Egli penetrò nello sheol, ne saccheggiò le ricchezze e ne svuotò i tesori. Questi, l’abile figlio del falegname, che costruì la sua croce sopra lo sheol che tutto inghiotte e così fece passare gli uomini al regno della vita. Poiché attraverso l’albero l’umanità era stata precipitata attraverso lo sheol, sopra l’albero della vita essa è passata, come su di un ponte, nel regno della vita…».

(Sermone sul nostro Signore, 3-4) La salvezza pasquale di Cristo si esprime qui come vittoria definitiva, conseguita attraverso la discesa agli inferi, sul demonio e sulla morte.

12. Fede, catechesi, teologia

All’inizio del nostro percorso abbiamo accennato alla ratificazione conciliare di questa importante acquisizione dottrinale nel sinodo di Sirmio. In questa sua prima “ufficiale” apparizione, la formula affermava che il Signore era “morto e disceso agli inferi e là aveva messo in ordine tutte le cose e i guardiani dell’inferno l’avevano visto e avevano tremato”. Ma, pur non essendo contenuta nel simbolo niceno-costantinopolitano, la fede nella discesa agli inferi si trova, sino dai tempi più antichi, nelle professioni di fede. E’ contenuta, ad esempio, nel “Simbolo degli Apostoli”, risalente al III secolo e strettamente collegato al cosidetto “Credo Romano” del secolo precedente. Rufino, vissuto nella seconda metà del IV secolo, riporta questa formula recitata come simbolo battesimale nella sua Chiesa di Aquilea: “Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, descendit ad inferna, tertia die resurrexit a mortuis”. Passò poi ad illustrarla esplicitamente nella sua spiegazione del Simbolo degli Apostoli:

«Cristo ha patito nella carne senza danno o offesa per la sua divinità ma, al fine di operare la salvezza per mezzo della debolezza della carne, la natura divina è discesa nella morte, non per essere trattenuta da essa secondo la legge delle creature mortali, ma per aprire le porte della morte a quelli che, grazie a Lui, sarebbero risorti. È come se un re si recasse a una prigione ed entrato dentro aprisse le porte, sciogliesse le catene e i ceppi, infrangesse i cancelli e i chiavistelli, conducesse fuori alla libertà quelli che erano incatenati e restituisse alla luce e alla vita quelli che sedevano nell’oscurità e all’ombra della morte».

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Col passare del tempo e l’accrescersi delle testimonianze, è interessante notare che, mentre all’inizio la discesa agli inferi di Gesù Cristo sottolineava principalmente la realtà della sua morte come condivisione di destino con tutti gli uomini, a poco a poco, a questa spiegazione si aggiunge la prospettiva positiva della vittoria pasquale, sia per Lui che per gli altri.

«La morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto ora, vivo, trionfa».

Parlando dell’anima di Gesù unita al Verbo di Dio anche mentre il corpo di Gesù era nella sepoltura, un autore occidentale del V secolo, Apponio, così si esprime:

«Questa è senza dubbio l’unica anima, la regina delle regine assunta e portata dal Verbo di Dio in modo esemplare, per mezzo della quale Egli ha fatto tremare il mondo sotterraneo e liberato le anime che vi erano imprigionate».

(Spiegazione sul Cantico IX) In termini esplicitamente catechistici, nella sua grande opera “Sulla fede ortodossa”, Giovanni Damasceno (VII-VIII sec.) riporta questa interessante testimonianza:

«Per farci dono della sua Risurrezione l’anima deificata di Gesù Cristo discese agli inferi e, così come il sole della giustizia era sorto per coloro che abitavano sulla terra, così discese per illuminare anche quelli che sotto terra sedevano nelle tenebre e nell’ombra della morte. E così come aveva annunciato a quelli che erano sulla terra la pace, la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi, presentandosi ai credenti come autore della salvezza e rimproverando agli infedeli la loro incredulità, così fece lo stesso a coloro che erano negli inferi perché per Lui ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra. Con questo patto Egli, liberati coloro che erano tenuti in prigione da sempre e dalla morte riportati nuovamente alla vita, ci apre la via della Risurrezione» (III,29).

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Sempre attenendosi al quadro rappresentato dalla discesa agli inferi, tutta la grande tradizione cristiana successiva, raccolta ed espressa nella sintesi medievale di Tommaso d’Aquino, continua a riflettere sugli effetti benefici della morte di Gesù Cristo alla luce della sua identità personale di vero uomo e di vero Dio. Se, infatti, da una parte questa discesa appartiene ai misteri della nostra redenzione, ricchi di frutti spirituali di ogni genere, dall’altra si svolge in piena coerenza con la struttura personale del Verbo di Dio, in cui la divinità resta unita al corpo anche nel sepolcro e all’anima nelle sue operazioni salvifiche agli inferi. Pur rimanendo ancora legato al quadro locale-spaziale degli inferi, Tommaso si concentra meno sui riferimenti “folcloristico-paesaggistici” che sulla dimensione salvifica dell’evento. Come era stato solidale con gli uomini nell’Incarnazione, Gesù lo rimane anche nella morte, nella condivisione delle sofferenze e nella vittoria sulle potenze ostili. In definitiva, si tratta ancora di esprimere, pur se con un linguaggio “datato”, la verità della redenzione universale offerta a chi si trova nelle condizioni di poterla accettare.

4 Io sono sazio di sventure, la mia vita è sull'orlo degli inferi.

5 Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza forze.

Salmo 88

Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia.... ..... Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. «Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa.

Joseph Ratzinger

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RIFLESSIONE PERSONALE

Non nel freddo e nel vuoto del pensiero ma nel caldo e nel pieno dell’amore troverai il volto del Dio vivente

Fëdor Dostoevskij

CONTEMPLO IL MISTERO DEL SABATO SANTO ... il tempo dove apparentemente sembra regnare la solitudine e la desolazione... ma anche il tempo del silenzio fecondo il tempo della notte illuminata da una Luce che le tenebre non hanno vinto il tempo del calore della Speranza che scalda e scioglie il ghiaccio della morte fisica, spirituale, esistenziale...

• Perché e in che modo la morte di Gesù si è trasformata in dono di vita e in avvenimento salutare che ha amplificato a dimensioni universali la dimensione redentrice e salvifica della sua opera?

CONTEMPLO LA DISCESA AGLI INFERI DI GESÚ ...

− Contemplo Gesù e il suo stile..... la sua discesa verso lo svuotamento totale di sé, la sua Incarnazione fino a raggiungere l’uomo nella valle tenebrosa e nell’ombra della morte, nel luogo dell’ultima definitiva sconfitta.

• Come mi appare Gesù, contemplandoLo nel suo condividere la situazione ultima dell’uomo peccatore, nel suo andare liberamente incontro alla morte, permettendole di raggiungerLo e di afferrarLo, lasciandosi immobilizzare nei suoi ceppi e nelle sue angosce?

• In che modo la Sua vittoria sulla Morte mi salva? • Perché e in che modo il Mistero del Sabato Santo mi permette di comprendere meglio

tutti gli altri Misteri della fede, il Mistero della Creazione, il Mistero dell’Alleanza, il Mistero dell’Annunciazione, il Mistero dell’Incarnazione, il Mistero del Battesimo, il Mistero della Trasfigurazione, il Mistero della Passione, comprendendone il senso ultimo e definitivo?

• In che modo la comprensione dei Misteri della Fede mi rende capace di vivere, testimoniare e “rendere ragione della speranza che è in me”(1Pt 3, 14-17)?

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RIFLESSIONE COMUNITARIA

Il giorno in cui non brucerete più d’amore molti moriranno di freddo

François Mauriac

PERCHÉ CERCATE TRA I MORTI COLUI CHE È VIVO? Rivolta a noi questa domanda contiene il ritratto di un’umanità sofferente e monca e che cerca spasmodicamente tra i morti colui che è vivo.

• Allora qui, oggi, la nostra comunità per primo, può fare i conti con se stessa e dirsi: ma quando smettiamo di guardare in basso?

• Quando smettiamo di lamentarci, di ragionare con la logica del mondo, di piangerci addosso per le ingiustizie - vere o presunte - che riceviamo o che vediamo?

• Invece di sprecare questa sofferenza, perché non la usiamo per crescere, per fare il bene?

• Perché non la investiamo in speranza, mettendo un pizzico di eternità nel nostro cammino?

Non si tratta di compiere fare gesti eroici, ma le stesse cose di ieri con la consapevolezza che Gesù è qui con noi e ci dà la forza di cui abbiamo bisogno.

Simbolo degli Apostoli

Io credo in Dio, Padre onnipotente,

Creatore del cielo e della terra. E in Gesù Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore,

il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato,

fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi;

il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo,

siede alla destra di Dio Padre onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti.

Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi,

la remissione dei peccati, la risurrezione della carne,

la vita eterna.

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SECONDA PARTE

PER LA FEDE E LA VITA CRISTIANA DI OGGI

...

Cristo rompe le porte degli inferi e ne trae fuori i Progenitori.

Chiesa della Dormizione della Vergine- Monastero di Nea Moni (XI sec.) Isola di Chio- Grecia

− Il Mistero del Sabato Santo: qual é il senso profondo di questo articolo di fede per il cristiano di oggi?

− In che modo e attraverso quali linguaggi la discesa agli inferi può essere approfondita come realtà di salvezza che può illuminare anche nel nostro tempo la situazione dell’uomo nei confronti di Dio e rassicurarlo davanti alla soglia di quello che rimane, comunque, un temibile abisso?

− Quali sono le forme di “inferi” che caratterizzano e insidiano anche oggi la condizione umana?

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1. Un discorso che si riapre Dopo quasi un millennio di pacifica accettazione e di trasmissione acritica del tema della “discesa agli inferi”, nel corso del XX secolo si è riaperta fra i teologi la discussione e il confronto sul senso di questo articolo di fede per l’uomo di oggi. Al tempo stesso, tuttavia, si assiste nella vita del Popolo di Dio a una progressiva trascuratezza nei confronti di questo articolo del Simbolo Apostolico. Sarà l’ora di lasciarlo cadere tacitamente nell’oblio o non sarà piuttosto opportuno cercare di riscoprirne il significato, ammesso e concesso che ce ne sia uno? Può, quindi, essere utile e opportuno che, come è avvenuto negli ultimi decenni fra gli addetti ai lavori, anche la nostra riflessione credente di uomini di questo tempo ritorni a confrontarsi su tale argomento.

Non certamente per astratte smanie intellettuali né per quella morbosa curiosità che scatta ogni volta che ci confrontiamo con un tema concernente quell’oscura zona di confine tra la vita e la morte, tra il tempo e l’eternità. La questione è ben più seria. Perché la vita cristiana e la missione della Chiesa possano svilupparsi adeguatamente, occorre valorizzare tutti i doni di grazia di cui il Signore ci fornisce compresi i grandi contenuti della Rivelazione cristiana. È tutt’altro, che uno snobistico passatempo ritornare di nuovo, con tutta la serietà possibile, a riappropriarci dei tesori connessi anche con questo aspetto del nostro Credo. Confessare che Gesù è disceso agli inferi non equivale sicuramente a descrivere l’odissea della sua anima nell’aldilà e nemmeno speculare sulla condizione delle anime dei defunti.

Si tratta di evocare e di approfondire una realtà di salvezza che può illuminare anche nel nostro tempo la situazione dell’uomo nei confronti di Dio e rassicurarlo davanti alla soglia di quello che rimane, comunque, un temibile abisso. Confrontandoci con un linguaggio legato a schemi culturali ormai superati, è necessario riscoprire nei dati della Scrittura e negli scritti dei Padri della Chiesa il significato originario, sia sul piano teorico che su quello pratico, delle formule dogmatiche posteriori. 2. I simboli e la verità

L’obiettivo non è quello di privare il credente e il popolo cristiano di rappresentazioni simboliche, di cui peraltro l’uomo ha profondo bisogno, ma di distinguere il contenuto dal contenitore, facendo sì che il linguaggio usato sia di aiuto e non di ostacolo all’interpretazione del Mistero. Non stiamo cambiando la dottrina o svuotando il messaggio tradizionale dei suoi significati ma, al contrario, vogliamo restituirgli tutto il suo valore, anche perché certi dati rivelati non possono essere altrimenti espressi che in questo modo. Oggi sappiamo benissimo che gli inferi non sono un luogo geografico.

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Sappiamo, soprattutto, che la morte non ci porta in un luogo materiale ma ci precipita comunque in uno “sprofondo”, ci imprigiona per sempre nella solitudine, nell’immobilità, nella paralisi definitiva. Siamo di fronte a una dimensione insieme abissale e oscura della realtà umana, qualcosa che istintivamente collochiamo al di sotto del nostro mondo, magari anche oltre lo stesso nostro mondo. Una specie di gelida palude in cui non si finisce mai di inabissarsi, un “orrido” del cuore umano prima ancora che del cosmo. La fede degli antichi, ricorrendo al linguaggio di cui disponeva, ci ha trasmesso che il Figlio di Dio ha integralmente condiviso la nostra esperienza umana, che si è fatto pienamente partecipe del destino dell’uomo, accompagnandolo proprio là dove costui si sentiva più abbandonato. Le immagini e i simboli sono al servizio di questa più che consolante certezza. La “discesa agli inferi” di Gesù Cristo fonda la speranza cristiana che sia possibile una salvezza all’interno di questo scenario assai poco rassicurante. 3. Regolare i conti con la morte

Gesù Cristo è vivo e attivo anche dentro la morte, la quale a sua volta non interrompe ma amplifica a dimensioni universali la dimensione redentrice e salvifica della sua opera. Lo stesso linguaggio che ci porta a non meravigliarci se diciamo che nell’Incarnazione il Verbo di Dio è “disceso” dal cielo sulla terra (e sappiamo bene che non si è trattato di un atterraggio!), ci induce a non rimanere prigionieri delle immagini adoperate, anche quando diciamo che dalla terra è “disceso” agli inferi, per proclamare la salvezza e vincere il male e la morte. È sempre l’unica e medesima traiettoria dell’Incarnazione, che non conosce ostacoli e confini, che non si ferma neppure davanti alla morte. Questa ultima sembra la negazione della vita ma, in realtà, ne rappresenta il compimento inevitabile e necessario. Sarà possibile trasformandola da emblema della maledizione definitiva a pedana per una impensabile risalita? Proprio per questo, nella morte, Egli ci anticipa, ci attende, ci cerca. C’è stato un teologo che, recentemente, anziché di “discesa agli inferi”, preferisce parlare di “cammino di Gesù Cristo verso i morti” per stare presso di loro. Non tanto per svolgere una nuova attività quanto per applicare quella salvezza già sofferta e realizzata nell’evento della croce. Essere solidale come presupposto dell’essere Redentore, collocarsi nell’aldilà per estendere i benefici di ciò che ha compiuto nella temporalità storica: ecco il senso di tutta l’operazione.

Gesù ha camminato per

incontrare e salvare l’uomo ...

Ha camminato sulle strade della Giudea, della Galilea, ha attraversato la Samaria,

è entrato a Gerusalemme, si è incamminato verso il Calvario...

ha proseguito il “cammino verso i morti” per

essere presso di loro, affinché anche laggiù entrasse il soffio della vita e della luce, la parola

tuonante della grazia e della speranza, il prodigio del risveglio e di un nuovo inizio... per applicare quella salvezza già sofferta e

realizzata nell’evento della croce. Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita.

Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. ». Gv 14,1-12 ..

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4. Per poterci amare davvero fino in fondo

Ben venga, allora, anche l’immagine datata dello sheol, perché estremamente efficace ad evidenziare le criticità degli uomini, incontro alle quali si muove il Crocifisso incamminato verso la Risurrezione, per renderli tutti partecipi di essa. Ben venga anche il luogo in cui c’è tenebra e silenzio. Luogo in cui non c’è parvenza di attività, di gioia, di conoscenza, di relazioni. Luogo da cui non si può ritornare e in cui non c’è spazio per la lode di Dio. Luogo delle ombre, dei perduti, dei dimenticati. Da tutti ma non da Lui! Entrando nel regno dei morti, consumando così la sua comunione di destino con gli uomini, ha fatto propria la durezza, la solitudine, il gelo dell’esperienza della morte e, con essa, tutte le esperienze di assurdità e di abbandono dell’essere umano. Gesù Cristo ha gustato il nostro stato di morte. Vi è disceso, ha toccato il fondo del nostro essere, è sprofondato in questo abisso incommensurabile. Dopo la croce e oltre la croce, è stato atteso da questa ulteriore soglia di solidarietà con tutte le sofferenze e i drammi che il peccato ha portato nel mondo, con tutta la tragedia dei peccatori e non soltanto di quelli che sono sulla terra ma anche di quelli che affondano nelle tenebre degli inferi, non solo di quelli viventi ma anche di quelli dei morti, del suo tempo e di tutti i tempi.

Gesù Cristo è andato fino in fondo, facendo l’esperienza di ciò che non si addice a Dio, affrontando e sperimentando la morte dell’uomo e la sua condizione di morto, come limite di rottura, oscurità, minaccia, isolamento, abisso. È evidente che la discesa agli inferi non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo in termini di eventi al Venerdì Santo. Ne esplicita semplicemente la rilevanza universale in termini qualitativi e quantitativi e ne amplifica l’atteggiamento di donazione incondizionata con cui Egli l’ha vissuto. La libertà amorosa del dono di sé fino al punto estremo già incrina il potere della morte e di Satana che ha fatto della paura di morire il suo strumento di inganno e di dominio. Mentre il cosiddetto “forte” sta dentro la morte, in completa rivolta e ribellione, e gli uomini vi accedono come schiavi terrorizzati, lo stile della libera discesa del “più Forte” apre il varco che prelude alla definitiva liberazione. Solo con la perdita di sé nella morte, il Figlio di Dio attesta che a Lui preme non tanto permanere nel proprio splendore quanto cercare l’uomo, pecora smarrita, perla di grande valore. Questa è la logica che muove Gesù e che mette a nudo la logica e il progetto di segno totalmente opposto che muovono il cuore di Satana. Il nudo stare di Gesù nella morte, il suo starci per puro amore, infligge la morte alla morte e denuda Satana, mettendo allo scoperto l’assoluta inanità del suo potere e facendo crollare la sua logica di negazione e di morte.

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Così il morire di Gesù Cristo incatena il male, lo immobilizza e lo svuota dal di dentro. Avendo trasformato la morte in dedizione, la ribellione in abbandono e la rivolta in dono di Sé, Gesù sta nella morte come uno che è più vivo che mai.

Più di un Padre della Chiesa ha fatto riferimento al Sal 88,5 nella sua versione greca per caratterizzare l’insolita singolarità dello stato e della presenza di Gesù nello sheol:

«Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa, sono divenuto come un uomo abbandonato,

libero fra i morti».

Se tra i morti è libero, sussistono tutte le condizioni perché possa essere anche il “Liberatore!” Dopo essere morto “gridando con voce forte” (cfr. Mc 15,34.37), Gesù entra nel grande silenzio cadaverico e sepolcrale, quasi pietrificato nel silenzio come il masso che lo rinchiude, come se la parola fosse diventata pietra. Viene messo a tacere e ammutolito come Egli aveva fatto con il demonio (cfr. Mc 1,45) e con il mare (cfr. Mc 4,39). Ma neppure nel silenzio si ferma l’opera della salvezza. 5. La potenza di un bacio

Nel mistero del silenzio di Cristo negli inferi è entrato con una intuizione geniale F. Dostoevskij con la “Leggenda del grande Inquisitore”, all’interno del suo romanzo i fratelli Karamazov. Il Cristo che, coerentemente con lo stile mantenuto nel corso della sua Passione, mai risponde alle domande e alle provocazioni dell’Inquisitore, compie un solo gesto: gli bacia le labbra esangui, scatenandone tutta la ribellione, tutta la furia distruttrice. Cristo vince Satana e il male con un solo bacio silenzioso, facendo aderire le proprie “fredde” labbra di “disceso agli Inferi” a quelle “gelide” del Grande Inquisitore. Un bacio silenzioso ha vinto Satana e ha aperto le porte degli inferi. Il gesto dell’amore di Cristo che discende laggiù, muto cadavere, per imprimervi un bacio con le sue membra sfinite strappa quel mondo a Satana e ferisce a morte l’oppressore. Gesù Cristo, ridotto a grumo di morte, si fa bacio d’amore. Nella sua estrema desolazione, diviene bacio a segnare di sé la morte, così trasformata da Lui in atto di dedizione e attestazione d’amore. Cristo bacia la morte abbracciata per amore, come aveva stretto a sé la sua croce. Con ciò spiazza e distrugge, annulla e neutralizza la casa di Satana.

“Ucciso lo uccise, per vincerlo anche con la propria sconfitta” (Efrem il Siro).

Il silenzio di Cristo è risuonato come un urlo assordante nell’oscuro regno del gelo infernale. È arrivato ancora più lontano della sua stessa Parola a doppio taglio, perché adesso possiede il potere di ammutolire la morte e Satana.

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6. Presagi di Risurrezione E se è vero che Gesù Cristo entra nel suo sheol e nello sheol di tutti, possiamo ben dire che il Sabato Santo, così inteso, da un lato prolunga il Venerdì della passione e della morte, dall’altro contiene in se stesso tutte le premesse della Pasqua di Risurrezione. Sotto il gelo della morte che paralizza progressivamente il corpo di Gesù Cristo dentro il sepolcro, cova una brace viva e indomabile. È questo fuoco nascosto che impedisce alla corruzione di aggredire il corpo del Signore. Un corpo donato non può essere dannato. La distanza di Cristo dal Padre e dallo Spirito suscita in loro una tale nostalgia del Figlio che essi lo richiamano al terzo giorno dalla morte, facendolo risalire dai morti, fieri della sua prova di obbedienza e di amore. Anche in questo frangente il Padre concede nello Spirito al Figlio di avere in sé la vita (cfr. Gv 15,29) e Gesù Cristo, risvegliato dai morti “rientra” nella vita trinitaria, recando con sé quel corpo intriso della sua storia di fedeltà estrema: una vera e assoluta novità anche per Dio stesso. Ma non vi giunge da solo.

Gesù Cristo torna sulla terra (per la precisione a Siviglia nel XVI secolo), vi compie miracoli e subito viene acclamato dalle folle come Salvatore, ma prima che la gente lo riconosca come il Cristo, viene arrestato dall’Inquisizione. Nella cella di reclusione, mentre scende a notte, riceve la visita del novantenne capo dell’Inquisizione, che immediatamente Lo riconosce... Così il Grande Inquisitore si rivolge al Prigioniero... A che dunque sei venuto qui a darci impaccio? E che vuoi Tu, che in silenzio e intensamente mi guardi coi dolci occhi tuoi? Adirati pure: non voglio io l’amor Tuo, perché dal canto mio non Ti amo. Si dice e si profetizza che Tu verrai e vincerai di nuovo, che verrai coi Tuoi eletti, superbi e possenti, ma noi diremo che essi hanno salvato solamente se stessi, mentre noi abbiamo salvato tutti.... Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io fui nel deserto, che anch’io mi nutrivo di cavallette e di radici, che anch’io benedicevo la libertà di cui Tu letificasti gli uomini, che anch’io mi ero preparato ad entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti, con la brama di “completare il numero”. Ma mi ricredetti e non volli servire la causa della follia. Tornai indietro e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera Tua. .... Perché se qualcuno più di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. Domani Ti arderò. Dixi”.... L’Inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il suo silenzio gli pesa. Ha visto che il suo Prigioniero l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi con il suo sguardo calmo e penetrante e non volendo evidentemente obiettare nulla. Il vecchio vorrebbe che gli dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli, di colpo, in silenzio, si avvicina al vecchio e lievemente lo bacia sulle esangui labbra di novantenne. Ecco tutta la risposta. Il vecchio sussulta. Un fremito contrae gli angoli delle sue labbra: si dirige alla porta, l’apre e Gli dice: “Va, e non venire più a nessun costo....mai mai più”! E Lo lascia andare per “le vie oscure della città”. Il Prigioniero si allontana. F. Dostoevskij, “Leggenda del grande Inquisitore” – I fratelli Karamazov

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«E Gesù emesso un alto grido spirò. Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti/dormienti risuscitarono. E, uscendo dai sepolcri, dopo la sua Risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti». (Mt 27,50-53) Senza addentrarci nell’analisi dettagliata di un brano così complesso, risulta tuttavia sufficientemente chiaro che quanto viene descritto sulla scena terrestre intorno alla croce di Cristo non è che la manifestazione in superficie di ciò che si sta verificando ai livelli più profondi, nella regione degli inferi. La promessa del Paradiso offerta al buon ladrone vale per tutti gli uomini, come ha intuito genialmente Origene:

«Infatti, le parole rivolte al ladrone… devi intenderle non per lui solo ma anche per tutti

coloro per i quali era disceso agli inferi».

Il grido di Gesù Cristo sulla croce raggiunge il mondo sotterraneo e lo scuote, svuotandolo.

«Quell’Agnello vivente aprì ai sepolti una via dal sepolcro, con il grido che gettò…

la festa che ci fu nel mese di Nisan lacerò i sepolcri con un grido, il grido che fa vivere tutti.

Lo udì la morte che tutti uccide: essa venne meno e abbandonò i suoi scrigni».

(Efrem Il Siro)

Dopo aver fatto riferimento, commentando il Vangelo di Giovanni, alla parola di Gesù sulla Croce: «Tutto è compiuto», Cirillo Alessandrino prosegue:

«… Il tempo già lo chiamava a dare il messaggio anche agli spiriti che erano negli inferi. Egli è venuto per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr. Rm 14,9) e si sottomise per noi alla stessa morte. Si sottopose alla sofferenza comune alla nostra natura, sebbene, in quanto Dio, fosse per sua natura “vita”, affinché, spogliando gli inferi, preparasse il ritorno alla vita per la natura umana, Egli che, dalle Scritture, fu chiamato primizia di coloro che si sono addormentati nel sonno della morte (cfr. 1 Cor 15,20), il primo nato di tra i morti (Col 1,18)».

Dove arriva la Redenzione, là si prepara la Risurrezione, anzi l’Ascensione. Come la discesa non significava immersione fisica, così la risalita non sarà un decollo verso le zone elevate della volta celeste ma indicherà la pienezza della vita divina, al dì là di ogni coordinata finora conosciuta di larghezza e lunghezza, di altezza e di profondità. All’interno della stessa traiettoria, orientato verso la stessa mèta, atteso da un unico abbraccio: discese agli inferi… salì al cielo… siede alla destra del Padre!

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Il suo cammino verso gli uomini diventa, insieme con loro, cammino verso il Padre! Non essendo rimasto prigioniero degli inferi ma uscendone vincitore, avendo vinto le potenze che tenevano gli uomini in detenzione, ha spezzato tutte le catene, aprendo la strada a tutti verso il Padre. La solidarietà di Gesù Cristo spinge gli uomini oltre la morte e permette loro di percorrere, insieme con Lui, l’ascesa verso la gloria. Il terzo giorno, quello della Pasqua, è già all’opera in tutta la sua positiva pienezza per i vivi e per i morti di ieri, di oggi e di sempre. L’annuncio della discesa agli inferi è l’annuncio di una salvezza dai confini universali che abbraccia tutte le potenze cosmiche e tutti gli uomini, da Adamo in poi. 7. Non risparmiati dalla morte ma salvati nella morte Gesù non sopprime la morte dell’uomo ma chi muore dentro la morte di Gesù è destinato ad andare con Lui oltre la morte, nello Spirito, verso il Padre. Morire con Gesù significa vedere la propria morte trasformata in evento di salvezza, per tutti anticipato nella discesa agli inferi e a noi partecipato nel dono del Battesimo. La morte dell’uomo trova una soluzione e un approdo perché Gesù l’ha assunta in pienezza (solidale con noi dentro la morte) e, con la sua Risurrezione (solidale con noi oltre la morte), le ha dato un volto nuovo, trasformandone radicalmente il significato. Gesù Cristo è disceso agli inferi, ha trasformato in passaggio verso la vita quello che prima era semplicemente un carcere ed ha aperto nel più profondo e tenebroso degli abissi un’uscita verso la luce. Nel clima di una grande adunata comunitaria che anticipa e delinea le caratteristiche della Chiesa, nuovo popolo dei redenti, nato dalla croce e Risurrezione del Signore, raccolto sulla terra come le anime dei morti erano state prodigiosamente risvegliate e convocate nello sheol. Si riapre ancora una volta la strada dell’esodo, con Gesù come il nuovo Mosè che, dopo essere sceso nelle acque del Giordano per il battesimo onde portare tutto il popolo alla liberazione (cfr. Lc 3,21), si cala con la morte nell’abisso dominato da Satana/Faraone per condurre i suoi alla terra promessa della risurrezione e della gloria.

La folla dei riscattati

Quando Gesù passava per la piazza pubblica di Cafarnao, oppure quando, scendendo dalla

sinagoga, trovava tutto quel bailamme di ciechi, di paralitici, di convulsionari, di crostosi che la gente del paese si prendeva cura di portargli da ogni parte e cacciargli tra le gambe, fin i souks e

le retrobotteghe risuonavano del clamore di tutta quella confusione, ancora un po' incerta ma già rafforzata e risanata, che si metteva in marcia dietro di Lui.

Ma qui non si tratta più di qualche decina di disgraziati, di un piccolo numero nell'immenso

brulicare di miseria d'una città orientale: sono tutti gli occhi che si aprono nello stesso tempo, miriadi d'un sol colpo, non so neppur io quante generazioni l'una sull'altra ch'Egli penetra e

vivifica come il sole che, apparendo alla porta dell'Oriente, illumina d'un sol colpo un continente, una fiumana di umanità, tutta la vasta sacca di tenebre che evacua la sua popolazione!

Tutti si ritrovano e fanno conoscenza, la vasta famiglia dell'umanità si costituisce nello sguardo di Dio...

Paul Claudel

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L’accostamento fra uscita dallo sheol e uscita dall’Egitto è esplicita in Efrem:

«… e dallo sheol, grazie all’Agnello vivente, ci fu l’esodo per i morti, come dall’Egitto»....

Cristo trionfante prende per mano Adamo ed Eva e li libera dalla prigione- Cupola dell’Ascensione, XIII Basilica di San Marco (Venezia)

8. Alla ricerca dell’Adamo perduto

Tutta l’opera di Gesù Cristo tende a ricondurre l’uomo alla pienezza della sua vocazione originaria, ricevuta da Dio al momento della creazione, appannata dal peccato e negata dalla morte. Il Signore Risorto è l’uomo nuovo, l’Adamo ultimo da cui avrà origine una nuova umanità. Nella realtà della sua morte e nella virtualità efficace della sua Risurrezione discende nello sheol per liberare il primo Adamo e con lui tutti i “dormienti”, riattuando l’originario progetto di Dio. È proprio per il vecchio Adamo che il Nuovo Adamo è disceso dal cielo fino agli abissi più profondi. Il primo Adamo aveva sfigurato in sé il suo originario essere ad immagine di Dio, spalancando in questo modo le porte alla morte. Gesù viene per reintrodurre l’umanità nella vita divina, riabilitando l’immagine prima ed originaria. In un’omelia del IV secolo, Gesù disceso agli inferi così si rivolge ad Adamo:

«Risorgi dai morti! Risorgi opera delle mie mani. Risorgi mia effigie fatta a mia immagine. Risorgi, uscendo da qui»

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Nella discesa agli inferi Gesù intende offrire la possibilità di reintrodursi nell’abbraccio della salvezza a tutti i dispersi e perduti sia nello spazio, compreso quello inferiore, sia nel tempo, a partire dai primissimi uomini. Alla confluenza di queste due grandi dimensioni, troviamo l’incontro di Cristo e di Adamo, tema biblico inscritto in tutta la tradizione cristiana e la cui luce rimane meravigliosamente attuale. Adamo, il primo uomo, è colui che si trova nascosto nel più profondo dell’abisso dei morti ed è insieme colui che si trova il più lontano nel tempo, all’origine dell’umanità. E’ precisamente nella sua discesa agli inferi che Gesù va a cercarlo, affinché la salvezza che Egli porta risalga il corso dei tempi fino alla loro primissima origine, attraversi l’universo intero fino alle sue estreme profondità e salvi così l’umanità dal peccato fino alle sue estreme radici. In tutta la tradizione orientale le grandi icone della risurrezione ci mostrano Cristo disceso agli inferi. Le rocce si fendono per aprire il cammino degli abissi, il soffio dello Spirito solleva le vesti, un nimbo di gloria lo circonda. Le porte chiuse a catenacci crollano, il diavolo fugge. Ed ecco, tese verso di Lui, le mani dell’innumerevole moltitudine dei morti, i santi e i peccatori, Profeti e Patriarchi, tutti riconoscendo in Lui il Salvatore. La sua luce attraversa le tenebre e trasfigura già il loro volto. In fondo all’abisso, ecco infine Adamo, il primo uomo, il primo padre, il primo peccatore che tende le braccia verso il suo Salvatore. Un grande teologo scrive: “per l’Oriente, l’immagine della redenzione è la discesa di Cristo agli inferi, la forzatura della porta eternamente chiusa, la mano del Redentore tesa al primo Adamo”. A modo suo, anche l’Occidente, che rappresenta la redenzione attraverso l’immagine di Gesù crocifisso, conosce una tradizione iconografica non meno eloquente. Ai piedi del Crocifisso si vedono molto spesso un cranio e due tibie incrociate. Si intendeva rappresentare così la tradizione secondo cui Gesù sarebbe morto nello stesso punto dove Adamo era stato sepolto di modo che il suo sangue era colato sulle ossa del nostro antico padre. L’incontro di Cristo con Adamo è stato al centro della predicazione della Chiesa dei primi secoli, come si rileva da un’antica omelia che la Liturgia delle Ore propone ai cristiani il giorno del Sabato Santo.

3 Mi stringevano funi di morte,

ero preso nei lacci degli inferi, ero preso da tristezza e angoscia.

4 Allora ho invocato il nome del Signore:

»Ti prego, liberami, Signore». 5 Pietoso e giusto è il Signore,

il nostro Dio è misericordioso.

6 Il Signore protegge i piccoli: ero misero ed egli mi ha salvato. 7 Ritorna, anima mia, al tuo riposo,

perché il Signore ti ha beneficato.

8 Sì, hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta.

Salmo 116

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«Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi. Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione. Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: « Sia con tutti il mio Signore ». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: « E con il tuo spirito ». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: "Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà. Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morti. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effige, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura. Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta. Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati. Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all'albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio costato sanò il dolore del tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell'inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te. Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio. Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l'eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli»." Antica « Omelia sul Sabato santo ». (PG 43, 439. 451. 462-463)

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Le radici di questo legame misterioso stabilito fra Adamo e Cristo le troviamo già nella Scrittura, in San Paolo particolarmente. Per Paolo, il parallelismo, fatto insieme di somiglianze e di contrasti fra colui che egli chiama “il primo Adamo” e Cristo “l’ultimo Adamo”, proietta una luce decisiva sul mistero della salvezza. Si può dire che tutta la storia del mondo è dominata dalla relazione tra questi due poli. Ciò che è comune tra loro è che l’uno e l’altro sono i primi, costituiscono l’inizio e il fondamento dell’umanità. Prima di tutto perché entrambi sono sorgenti di vita, poi perché sono l’archetipo iniziale, il prototipo secondo il quale viene formata l’umanità che essi mettono al mondo. Non mancano, però, anche le differenze. Da una parte, le forze del male scatenate nel mondo per il peccato del primo uomo e che esercitano il loro influsso su tutti gli uomini senza eccezione. Dall’altra, la potenza della grazia che ha la sua unica sorgente nella morte volontaria di Cristo. Il tutto secondo misure assai diverse: infatti la grazia che ci è venuta in Gesù Cristo non è soltanto la riparazione del peccato e la vita che ci è resa in Cristo non è soltanto quella che abbiamo perso in Adamo. Si tratta di ben altro: “se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini …… là dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 15.20). Là dove abbiamo perduto una vita mortale ci è resa in Cristo una vita eterna. 9. La dimensione nuziale della discesa agli inferi

Dio, però, non aveva ristretto il dono della propria immagine al solo Adamo: aveva partecipato l’”essere a sua immagine” all’insieme di uomo e di donna (cfr. Gen 1,26-27). Gesù non scende negli inferi per salvare il solo Adamo ma per salvare l’Adamo integrale, uomo e donna, Adamo ed Eva, come frequentemente attestato nelle icone della Chiesa d’Oriente. L’Omelia sul Sabato Santo di Epifanio di Salamina, appena citata prosegue così:

«Sì, è verso Adamo prigioniero e verso Eva anche prigioniera che Dio si rivolge, e suo Figlio con Lui, per liberarli dai loro dolori».

Dio, che in sé è comunione, desiderando rivelarsi e parteciparsi alla sua creatura, aveva creato l’umanità a sua immagine, in quanto realtà costituita dalla relazione maschio-femmina. Era a loro come coppia che aveva manifestato se stesso, aveva espresso qualcosa del suo mistero, facendone progetto di salvezza per tutta l’umanità.

“Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo divenne spirito

datore di vita. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così

porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (1 Cor. 15, 45.49).

Fin dalle origini il disegno creatore di Dio era orientato verso il suo

compimento in Gesù Cristo. Il primo Adamo prepara e invoca l’ultimo. Il nuovo Adamo va alla ricerca del primo per rivelargli e

trasmettergli la vittoria della vita e della grazia sulla morte e sul

peccato.

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L’essere di Adamo “a immagine e somiglianza” di Colui che lo ha creato si rispecchia e si esprime esattamente nella figura nuziale della prima coppia umana alla quale è stato proposto, fin da principio, di entrare nel dinamismo comunionale della vita intima di Dio. In questo modo Dio manifesta la sua intenzione prima e ultima verso l’umanità, proprio attraverso la forma nella quale la crea. Intende stabilire con essa una relazione sponsale, analoga a quella che sussiste fra il maschio e la femmina. Chiamandola all’esistenza, Dio invita l’umanità alle nozze con sé e si rapporta con lei come lo sposo verso la sua donna. Questo avrebbe richiesto al maschio e alla femmina una fiduciosa adesione a Dio. Ciò non avvenne per la durezza del loro cuore. Subendo la fascinazione del serpente seduttore e menzognero, Adamo ed Eva non si sono fidati di Dio, provocando la sospensione del suo disegno originario e contraendo una specie di dipendenza con la morte e le potenze diaboliche, quasi a modo di un’obbligazione o una cambiale. Diffidenza al posto della fiducia, fuga e nascondimento al posto della consegna, finendo così per oscurare la propria somiglianza con Dio che per questa strada li aveva destinati alle nozze con sé. È dovuto intervenire il Figlio di Dio in persona: «… annullando il documento scritto contro di noi che, con le sue prescrizioni ci era contrario. Lo ha tolto di mezzo, inchiodandolo alla croce. Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro… » (Col 2,14-15). Come si vede, il motivo del combattimento vincente e liberante continua a far capolino da tutte le parti!

Jacopo Torriti, l'Incoronazione della Vergine, Santa Maria Maggiore, Abside (Roma) 10. La presenza di Maria, Madre e Sposa

Il progetto di Nuova Creazione in Gesù Cristo riprende daccapo e di nuovo il sogno iniziale di Dio di un’alleanza nuziale con l’uomo creato a sua immagine. Per questo, il Figlio di Dio si presenta nella storia umana come il Nuovo Adamo, lo Sposo che prepara e introduce le nozze definitive (cfr. Mc 2,19; Gv 2,10; 3,29; Ef 5,25ss).

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A tal fine occorre che l’umanità esprima il suo consenso attraverso una Donna, figura femminile del patto coniugale che si sta ripristinando. Non solo perché serve il sì di una donna affinché il Verbo di Dio possa prendere carne umana ma soprattutto perché serve un consenso libero con cui l’umanità si affidi nella fiducia, al contrario di quanto fecero Adamo ed Eva. Per nascere da lei, infatti, il Verbo di Dio ne attende la disponibilità, totale e definitiva, di Vergine e di Sposa. Con il suo “sì” Maria viene resa Madre del suo Creatore e Salvatore, Sposa dello Sposo definitivo, primizia dell’umanità invitata alle nozze dell’Agnello. Assieme a Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, Maria, la donna “nuova”, concorre a ricostruire la relazione originaria di maschio e femmina che, in quanto coppia, realizza in bella copia l’immagine divina nell’uomo. Il sì di Maria, congiunto al sì del Verbo che entra nel mondo, riproposto e rinnovato a Cana di Galilea (cfr. Gv 2,5), giunge al culmine nell’ora della croce, in corrispondenza e in sintonia con l’atto estremo dell’obbedienza del Figlio. Seguendolo fino alla fine, Maria partecipa all’evento di morte del Figlio il quale offre la propria vita per la salvezza di quell’umanità che lei rappresenta e incarna. Se Gesù si lascia innalzare sulla croce, lei si lascia trapassare l’anima dalla spada della prova. Se Gesù Cristo si fa obbediente fino alla morte di croce, anche lei si lascia inchiodare al dramma di Lui, accogliendo la trafittura dell’anima e della carne in obbedienza ancillare al suo Dio. In questa coppia si realizza la realtà nuziale pensata da Dio per l’umanità, rinnovando l’Eden in modo finalmente compiuto, fedele in tutto al progetto iniziale. Sotto l’albero della croce, Maria riceve il dono del Figlio e se ne lascia plasmare come Sposa definitiva.

Nell’accogliere il frutto della Passione, accoglie da Lui anche se stessa come nuova Eva e accoglie Lui come Nuovo Adamo, primogenito di una moltitudine di figli. Maria, la Nuova Eva, insieme a Gesù Nuovo Adamo, può vincere e calpestare il serpente antico, insieme ricapitolando e ribaltando la situazione iniziale dell’umanità.

«Ricapitolando tutte le cose in Se Stesso, ha ricapitolato anche la guerra contro il nostro

nemico. Ha provocato e vinto colui che all’inizio in Adamo ci fece schiavi e ha calpestato il suo capo».

(Ireneo di Lione)

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11. Maria e la discesa di Cristo agli inferi

Se rappresentazioni di carattere materiale e “cinematografico” per la discesa nello sheol sono fuori luogo per Gesù Cristo, tanto più per Maria, in riferimento allo stesso tema, linguaggio e contesto. Ella è compartecipe della missione e della passione del Figlio/Sposo: c’è chi l’ha definita “Corredentrice”. Proprio in quanto tale, le compete uno spazio e un ruolo anche nel risveglio della primitiva coppia umana e della loro discendenza dal sonno dell’abisso. Il suo sì all’Incarnazione e sotto la croce ha reso possibile l’Incarnazione del Verbo e il compimento della sua opera di salvezza fino alla discesa agli inferi, forzando la prigione dell’umanità decaduta. Maria, aprendo il grembo al concepimento e al parto, ha anche aperto il cielo per far discendere il Verbo sulla terra, favorendo la possibilità che potesse scendere ancora più giù. Con felice intuizione San Pier Crisologo (380-450 ca.) ha scritto:

«Senza Maria né la morte poteva essere volta in fuga né la vita poteva essere riparata. Venga Maria, venga colei che porta il nome di Madre, affinché l’uomo veda che Cristo ha abitato nel segreto di un utero verginale, perché i morti possano uscire dagli inferi e dai sepolcri».

Quando Gesù precipita nello sheol, vi si porta con tutto il suo vissuto, pieno anche dell’apporto di Maria, Nuovo Adamo con la Nuova Eva, in cerca dell’umanità perduta, Adamo ed Eva compresi, che ivi soggiornavano in attesa di un’insperata liberazione. Gesù Cristo va alla vecchia umanità come suo Salvatore e quindi come Sposo definitivo che ripropone alla prima coppia quel consenso a cui avrebbe dovuto aderire all’inizio della creazione. La presenza di Cristo Sposo e di Maria Sposa, la coppia del Golgota, dentro il regno dell’oscurità e delle tenebre più cupe, pone un segno luminoso di totale discontinuità rispetto all’ambiente, avendo fatto della morte in obbedienza il dono dell’amore sponsale più grande. È solo così, infatti, che si può scardinare il potere della morte e degli inferi. Le tre ore della croce è come se si rispecchiassero nei tre giorni degli inferi. Il sangue dello Sposo trafitto bagna non solo Adamo ma anche la sua Eva, cadendo dalla croce sulla terra e raggiungendoli sotto terra. Gesù ha amato la sua Sposa/umanità in modo tale da trasformare la morte nella misura estrema del suo amore, facendone spazio e mezzo del dono della propria vita, esprimendo un amore più forte della morte, tanto da trasformarla in fonte di vita. Maria ha creduto a questo amore e lo ha accolto, trafitta e ferita dall’amore pure lei, contribuendo a formare con Gesù Cristo la coppia definitiva dalla quale si origina una storia nuova che vince e soppianta quella avviata dal peccato delle origini.

«L’angelo aspetta la tua risposta, Maria! Stiamo aspettando anche noi, Signora, questo tuo dono, che è dono di Dio. Rispondi presto, o

Vergine! Pronunzia, Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano!».

San Bernardo

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12. Negli inferi il principio della Nuova Creazione

Come già era avvenuto con i progenitori nel giardino dell’Eden, anche la liberazione di quanti stanno negli inferi attende una loro risposta libera. Gesù non trascina fuori con la forza Adamo, Eva e gli altri che attendevano la luce della salvezza. Attende l’assenso libero delle creature che riconoscano nel suo corpo dato alla morte la definitiva rivelazione dell’amore, si fidino di Lui e a Lui si affidino. A quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte lo Sposo rinnova l’invito a nozze, attendendo da costoro il sì nuziale. Il rifiuto estremo di questo dono trasforma gli inferi in inferno. Rifiutare l’incontro con il Nuovo Adamo che si presenta nelle regioni sotterranee, ostinarsi a non indossare l’abito nuziale significa permanere nella gelida oscurità della solitudine. La povertà suprema degli abitanti degli inferi è l’immagine eloquente del nulla da cui il Signore riparte per l’avventura della Nuova Creazione. Il nulla, infatti, a livello di creature, di creazione e di storia è l’immenso spazio per la creatività di Dio. Nel momento in cui questo nulla pretende di gestire da solo il proprio destino, illudendosi di poter diventare il proprio tutto, finisce per precipitare nel vortice di un vuoto senza ritorno, per morire di una morte senza fine. Se invece la creatura, a qualunque livello essa si trovi, accetta il suo nulla, si rende pura recettività che Dio colma di sé e, aprendosi a Lui, si trova attratta nell’ebbrezza della sua sconfinata capacità creatrice. Da questo punto di vista, lo stesso atto del morire umano può esercitare il suo ruolo. Si tratta di passare dalla morte patita e subita unicamente come limitazione del proprio essere al percepirla e accettarla come segno del proprio limite offerto e consegnato a Dio. In altre parole, si tratta di trasformare il rifiuto del morire in nome della ricerca spasmodica di sé in atto di donazione alla Luce suprema che ti introduce nella vita senza tramonto. Il Verbo di Dio, una volta fatto carne e morto sulla croce, si è portato nel regno del nulla, gli inferi, per far rivivere dal nulla le creature umane, riaprendole all’illimitato mondo di Dio e riducendo al nulla i Principati e le Potestà di questo mondo di morte (cfr. 1 Cor 15,24-25). Colui mediante il quale tutto è stato fatto accetta di ridursi a questo stato di nulla allo scopo di “ridurre al nulla i dominatori di questo mondo” (1 Cor 2,6). E in questo non mortifica minimamente il volto della divinità ma piuttosto ne manifesta il vero fulgore e la piena verità.

La promessa di un Amore che è per sempre ...

Ti farò mia sposa per sempre,

ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto,

nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà

e tu conoscerai il Signore. Os 2,21-22

.... vivere la Grazia di una relazione stabile con Dio

“Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore,

tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco,

una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere

l’amore né i fiumi travolgerlo”.

Ct 8,6

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Da parte dell’uomo, l’apertura del nulla creaturale a Dio in tutte le sue varie fasi, compresa quella degli inferi, coincide con l’accettazione del suo invito alle nozze del Figlio con l’umanità, vero destino e autentica vocazione per tutti quelli che accolgono l’invito di Dio, nella potenza amante dello Spirito. A partire da qui, uscendo dagli inferi, ogni persona umana, con Maria e lo Spirito, può dire al suo Signore Sposo: «Maranathà! Vieni Signore Gesù», sapendo che Lui viene: «Sì vengo presto, amen!» (cfr. Ap 22,20). 13. Un annuncio di salvezza per tutti, sempre, dovunque

Abbiamo contemplato il Sabato Santo di Gesù Cristo e della Chiesa attraverso la riscoperta della sua “discesa agli inferi”. Un mistero della fede in apparenza non facilmente compatibile con la sensibilità e l’orizzonte culturale contemporaneo, ma non per questo da trascurare o tanto meno da dimenticare. Abbiamo cercato il senso originario di questa verità, rappresentata anticamente attraverso schemi espressivi e linguaggi presi a prestito dal mondo mitologico dei quali si servivano i credenti di allora per esprimere l’oggetto della loro fede e la mèta della loro speranza. Abbiamo preso sul serio la vittoria di Gesù Cristo sul mondo “inferiore”, quando ha solidarizzato con l’uomo, anche e particolarmente là dove si manifesta l’estremo limite della sua condizione.

Abbiamo potuto così contemplare, private del loro potere determinante e decisivo, tutte le forme di “inferi” che caratterizzano e insidiano anche oggi la condizione umana: dagli scenari più universali e apocalittici alle faticose vicende del quotidiano alle drammatiche emergenze nell’esistenza dei singoli e delle comunità. Sopra queste voci di disperazione e di afflizione si erge l’annuncio della speranza e della vita, l’annuncio di colui che è solidale con gli uomini di ogni tempo dentro la loro situazione “infernale” e la trasforma con una solidarietà che si spinge oltre gli inferi e la morte. Gesù Cristo è sceso agli inferi non per rimanervi ma per uscirne vincitore a favore di tutti gli uomini. Non solo ieri ma anche oggi e tutti i giorni fino alla fine dei secoli, Gesù prende e porta su di sé, per amore, l’umanità intera, con il suo peso enorme di miseria e di peccato, per farla entrare nella vita stessa di Dio, mediante la sua morte e risurrezione. Oggi Egli discende agli inferi, negli abissi continuamente scavati dal peccato degli uomini per aprire loro un cammino verso il cielo. Lui stesso è questo cammino aperto che congiunge per sempre il regno dei morti al Regno di Dio, Signore dei vivi e dei morti. Trascurare e dimenticare questa profonda verità significa perdere di vista una dimensione molto importante della salvezza cristiana.

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RIFLESSIONE PERSONALE

Amore è "estasi", ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza,

ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé,

e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio.

Papa Benedetto XVI

Lo Spirito mi introduce ad una comprensione sempre più profonda dl Mistero del Sabato Santo ... SONO ATTRATTO DA GESÚ CHE AMA FINO ALLA FINE ... E ... FINO IN FONDO “nello spirito andò a portare l'annuncio anche alle anime prigioniere, 1 Pt 3,19 Contemplo Gesù che entra nel regno dei morti, dopo la croce e oltre la croce, atteso da questa ulteriore soglia di solidarietà con coloro che affondano nelle tenebre degli inferi, non solo di quelli viventi ma anche di quelli dei morti, del suo tempo e di tutti i tempi. Cerco di comprendere il perché del “cammino di Gesù verso i morti” , verso la dimensione insieme più abissale e oscura della condizione umana, l’orrido e il gelo del cuore dell’uomo.

• Quando contemplo la discesa agli inferi di Gesù cosa contemplo? In che modo la discesa agli inferi rende ancora più universale gli effetti della Salvezza della Croce?

• Dove è andato e dove continua ad andare Gesù nella prospettiva della storia della Salvezza?

• Chi ha raggiunto e chi continua a raggiungere? • Perché? • Possiamo parlare di “dimenticati da Dio”?

CERCO DI COMPRENDERE IN CHE MODO GESÚ HA SCONFITTO LA MORTE

Gesù mi si rivela con il suo stile mite anche nel momento in cui ha regolato i conti con la morte. Lo contemplo nella libertà amorosa del dono di sé affinché l’uomo sia libero nello splendore della Verità, liberato dalla schiavitù del peccato che muove invece il cuore di Satana.

• In che modo Gesù parla al mio cuore e come mi insegna ad amare quando mi si rivela come colui che ha inflitto la morte alla morte stando nella morte, avendo trasformato la morte in dedizione, la ribellione in abbandono e la rivolta in dono di Sé, stando nella morte per puro amore e quindi negandone il suo potere?

• La mia fede è abbastanza matura da comprendere e accettare fino in fondo una salvezza che non mi risparmia dalla morte ma mi raggiunge nella morte e che nel dono dello Spirito mi fa vivere nella morte e oltre la morte?

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RIFLESSIONE COMUNITARIA

Ogni uomo grida per sentirsi chiamare per nome Simone Weil

1/ MISERICORDIA, VIA DELLA VITA La Chiesa ci insegna che la via della misericordia «è la via della vita», che misericordia è condividere con chi ha bisogno. Cosi fece il Crocifisso quando scese agli inferi per condividere fino alla fine la sofferta condizione umana, prima da vivo sulla terra, e poi da morto, negli strati più bassi del sottosuolo. Una Chiesa che rinunciasse a seguire il suo Signore sarebbe una Chiesa malata.

• Cosa pensate di questa affermazione di Papa Francesco: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade,

piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze»

(EG 49) 2/ ALLA SCUOLA DELLA “COPPIA DEL GOLGOTA” La presenza di Cristo sposo e Maria sposa, la coppia del Golgota, dentro il regno dell’oscurità e delle tenebre più cupe, pone un segno luminoso di totale discontinuità rispetto all’ambiente, avendo fatto della morte in obbedienza il dono dell’amore sponsale più grande. È solo cosi che si può scardinare il potere dell’amore e degli inferi. L’amore vince sempre. Gesù ha amato la sua sposa/umanità in modo tale da trasformare la morte nella misura eterna del suo amore. Maria ha creduto a questo amore e lo ha accolto, trafitta e ferita dall’amore, contribuendo a formare con Cristo la coppia definitiva che vince e soppianta quella avviata dal peccato delle origini. Questa partecipazione di Maria, la nuova Eva alla missione e alla passione la rivela pienamente come la «Madre di misericordia» perché sa compatire come nessuna persona umana la nostra miseria: Madre di misericordia, perché piena di misericordia verso ogni miseria umana, in primis la morte (Maria – la donna ai piedi della croce).

• In quale misura la nostra comunità è all’immagine di Maria il grembo della nuova creazione in cui Dio opera in maniera assolutamente gratuita e sorprendente?

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TERZA PARTE

POSSIAMO SPERARE LA SALVEZZA PER TUTTI? Se lo dice il Cardinale…

Duccio di Buoninsegna, Viaggio di Cristo nel Regno dei Morti- Formella della Maestà (1308-1311)- Museo dell’Opera Metropolitana del Duomo, Siena

− Possiamo, quindi, sperare la salvezza per tutti? Oppure dobbiamo dire che per

qualcuno ormai non c’è più niente da fare? − Cosa significa considerare con serietà la volontà salvifica di Dio nei confronti di tutti gli

uomini che viene rivelata a noi nella forma della speranza? − Se Cristo è venuto come Salvatore dal più alto dei cieli fino al più profondo degli inferi,

allora in Lui tutto è compiuto. Che cosa rimane ancora da fare? − Come prendere sul serio i richiami di Gesù alla responsabilità, alla conversione, alla

possibilità di perdere la propria vita? In che modo si incontrano la libertà dell’uomo e la misericordia di Dio?

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Ha profondamente e genialmente riflettuto su questa tematica, nell’ottica che qui viene esposta, Hans Urs von Balthasar, teologo cattolico svizzero (1905-1988), deceduto, alla vigilia della cerimonia di investitura, dopo essere stato nominato Cardinale da Giovanni Paolo II.

1. Per chi è disceso?

A più riprese, nel corso delle nostre riflessioni sulla discesa di Cristo agli inferi, abbiamo sfiorato il tema dei destinatari di tale visita e dei beneficati da questa effusione di grazia che ha applicato i benefici della redenzione ai prigionieri della morte. La tradizione pressoché unanime della Chiesa identifica costoro con i giusti dell’Antica Alleanza o, in generale, con le persone di retta coscienza che hanno camminato conformemente alla volontà di Dio, così come esse la potevano interpretare. Non si è mai creduto che la discesa agli inferi implicasse una specie di amnistia generale, della serie “tana, liberi tutti!”, caratterizzata dalla salvezza anche dei dannati e da una universale e indiscriminata assunzione nella vita eterna con Gesù Cristo. Non per niente, come abbiamo già detto, salvo qualche rarissima eccezione, è stata sempre tracciata una netta linea di demarcazione fra gli inferi-sheol-ade come “spazio” della discesa e dell’opera salvifica di Gesù Cristo e l’inferno come condizione dei dannati irreversibilmente perduti.

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2. Contabilità o contemplazione?

Tuttavia, è altrettanto innegabile che la discesa agli inferi è un tale mistero di misericordia e di grazia di cui non possiamo avere troppo zelo o troppa fretta a circoscrivere e depotenziare gli effetti. Più che collocarci sulla bocca degli inferi per fare la conta di chi esce e di chi rimane dentro, proviamo a prolungare il nostro sguardo contemplativo sullo stile di Gesù Cristo, sul suo metodo, sulle vie di Dio che si lasciano intuire dietro i comportamenti del Figlio, sempre obbediente al Padre, non solo sulla terra ma anche sotto terra. È un’incessante epifania della fantasia divina che, nel segno della misericordia, supera ogni barriera, che non si lascia fermare da nessun confine pur di raggiungere gli uomini e introdurli nella sua casa e nella comunione con Lui. Possiamo, quindi, sperare la salvezza per tutti? Oppure dobbiamo dire che per qualcuno ormai non c’è più niente da fare? Nella Sacra Scrittura troviamo dei testi che proclamano sia l’universale volontà di salvezza da parte del Signore sia la serissima e reale possibilità di perdizione definitiva nel rifiuto di Lui. Entrando, poi nello specifico, sappiamo dalla Rivelazione di alcune persone che sicuramente sono in Paradiso mentre non abbiamo certezza di chi si trovi all’inferno. Ciò non significa sentirsi autorizzati ad affermare che l’inferno sia vuoto: si tratta di una grossolana deformazione e di una macroscopica sciocchezza! 3. «Signori sono pochi quelli che si salvano?»

Proviamo a cercare, allora, un’alternativa alle due “pretese” che oggi si spartiscono i favori del pubblico nelle superficiali discussioni da bar che troppo spesso caratterizzano l’approccio a un tema così delicato: quella di presumere con una sicurezza che sfiora l’arroganza e l’empietà che tutti si salveranno e quella di affermare, non senza una punta di acidità e un sottaciuto compiacimento da frustrati, che ci saranno sicuramente dei dannati, tanti o pochi che siano. Qui si pongono due questioni.

1. Come prendere sul serio i richiami di Gesù alla responsabilità, alla conversione, alla possibilità di “perdere” la propria vita?

2. Cosa significa, d’altra parte, considerare con serietà la volontà salvifica di Dio nei confronti di tutti gli uomini che viene rivelata a noi nella forma della speranza?

Ovviamente, sperare non significa sapere o essere certi, tanto meno presumere della salvezza di tutti. Considerando l’amore immenso di Dio in Gesù Cristo, se il male è definitivamente giudicato e condannato, al peccatore, invece, viene sempre offerta la riconciliazione. Ogni uomo è inseguito dalla misericordia di Dio. Come dice Papa Francesco: «Dio non si stanca mai di perdonare e di piegarsi sulle ferite dell’uomo». L’affermazione di questa speranza, tuttavia, è possibile a condizione che si prenda sul serio sia la libertà divina che quella umana, sia la misericordia di Dio che la drammaticità del peccato con il quale l’uomo può chiudersi nei confronti di Dio.

Ogni uomo è inseguito dalla

misericordia di Dio...

Ora dunque non c’ è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù.

Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del

peccato e della morte. Rm 8, 1-3

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4. La tragedia del peccato e dell’inferno

L’ascolto oggettivo e fedele della Sacra Scrittura ci impone di fare i conti in modo incontrovertibile con la possibilità di trovarsi irreversibilmente allontanati dal Signore, privi di Lui e afflitti da vari tormenti. Già l’AT, soprattutto nei periodi più recenti, aveva cominciato a distinguere, all’interno dell’universale e indiscriminata tenebra dello sheol, la sorte dei giusti da quella degli empi, dei perseguitati da quella dei persecutori, delle vittime da quella dei carnefici. Tutti questi non potevano essere accomunati nello stesso destino. In seguito alla terribile persecuzione subita ai tempi dei Maccabei, iniziò in Israele a farsi spazio l’idea di una punizione eterna per i malvagi e i nemici di Dio e del suo popolo. Dopo la morte, costoro riceveranno il castigo per le loro colpe, dimenticati dagli uomini e rigettati da Dio. Per essi gli inferi diventano l’inferno. Il giudizio di Dio ha fatto della loro morte la dannazione. Mentre per i giusti lo sheol si illumina sempre più di un raggio di speranza e la reclusione diviene attesa di salvezza, per i peccatori la prospettiva si fa sempre più cupa: “molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno, gli uni alla vita eterna, gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna” (Dan. 12,2). Per alcuni gli inferi diventano luogo di condanna e di dannazione mentre per gli altri si fa sempre più esplicita la possibilità dell’esito opposto. Nella sua predicazione Gesù riprende i temi e i termini stessi dell’AT. Tutte o quasi tutte le immagini che Egli adopera erano già presenti nella Bibbia e facevano parte del linguaggio religioso del suo tempo: il fuoco e i vermi, il pianto e lo stridore di denti, insieme al grande tema del giudizio che percorre tutto il Vangelo. Nella Parabola del ricco cattivo il Vangelo parla di un grande “abisso” invalicabile che separa la dimora dei giusti, dove è portato Lazzaro nel seno di Abramo, dal luogo di perdizione dei dannati in cui sprofonda il ricco cattivo (cfr. Lc 22-26). Appare un nuovo vocabolo per designare il luogo della perdizione: la Geenna. Quella vallata maledetta dove anticamente si sacrificavano i figli a Moloch e dove pare si bruciassero in continuazione i rifiuti, era diventata, nella letteratura apocalittica, simbolo di maledizione e di castigo eterno. Per ben dieci volte nei Vangeli questo termine viene usato per significare il luogo della dannazione senza fine: inferno. Non deve stupire che quello stesso Gesù che porta il nome di Salvatore e sceglie un messianismo di servizio, di sofferenza e di perdono, annunzi a più riprese il giudizio di Dio in termini inconfutabili.

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Diverse parabole che compaiono nei Vangeli terminano con la grave minaccia della perdizione dei peccatori: “raccogliete per prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla”. Per quanto si possano ritenere queste immagini tributarie del linguaggio e della cultura del tempo, non si può eliminare la realtà che esse annunziano, senza con questo deformare il Vangelo. Gesù va preso sul serio quando utilizza le più violente e impietose immagini bibliche dell’inferno: “fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti (Mt 13,42), “la Geenna dove il verme non muore e il fuoco non si estingue” (Mt 5,22), dove Dio può “far perire l’anima e il corpo” (Mt 10,28). Alla fine dei tempi, nell’ultimo giorno, sarà Egli stesso a esercitare il giudizio di Dio: “quando il Figlio dell’Uomo verrà con tutti gli angeli si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a Lui tutte le genti” (Mt 35,21). Egli non teme di annunciare che Lui stesso “manderà i suoi angeli i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove saranno pianto e stridore di denti” (Mt 13, 41-42). Egli stesso pronuncerà la maledizione: “via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli” (Mt 25,41). Sono sempre collocate sulla bocca di Gesù le celebre parole “in verità io vi dico non vi conosco” (Mt 25,12), “gettatelo fuori nelle tenebre” (Mt 25,30). Queste espressioni sollevano più di una domanda ma non possono essere eliminate. Gesù che ci dice di non essere venuto per giudicare gli uomini ma per salvarli non teme di presentarsi come il Giudice nel giudizio finale.

Colui che è venuto a cercare la pecora smarrita e a portala festosamente sulle spalle è anche colui che separerà definitivamente le pecore dai capri, mandando le une in cielo e gli altri nel fuoco eterno. Anche se ci risulta molto difficile rispondere in maniera esauriente a questi interrogativi, abbiamo il dovere di porceli, nella fede. L’intelligenza del mistero non può consistere nell’eliminare o l’uno o l’altro dei due termini, come spesso si è tentati di fare: sia la realtà dell’inferno, sia la certezza della salvezza universale. Al contrario, proprio tenendo fermamente questi due poli della nostra fede potremo inoltrarci in tutta la sua profondità nel mistero della giustizia e della misericordia divina.

In effetti questa possibilità del fallimento della vita lontano da un Dio di amore e di salvezza, così chiaramente affermata nella S. Scrittura, è divenuta dottrina ufficiale e vincolante della Chiesa nel passato e nel presente. Non è un versetto isolato e occasionale del vangelo ad annunciare il dramma della riprovazione e nulla ci permette di dubitare che si tratti di un insegnamento di Cristo stesso: la gioia della comunione illimitata con Lui per quelli che credono, il fuoco eterno per chi si ostina nel rifiuto di credere e di amare.

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Quante volte, nella nostra esperienza quotidiana ci troviamo alle prese con situazioni talmente dure, sporche, viscide e ambigue, che ci fanno toccare con mano quasi un’anticamera dell’inferno. C’è gente che sembra sprofondare fin d’ora in forme di chiusura, indurimento, volontà di distruzione e deliberata malvagità da farci intravvedere una inarrestabile logica di morte e di perdizione. Non si può far finta di non vedere la realtà e di udire i severi ammonimenti di Gesù. Tutto il Vangelo ci è necessario! Anche questo aspetto della rivelazione va custodito, meditato e annunciato. Dio non è indifferente al male, all’ingiustizia, all’iniquità e la sua reazione sarà inevitabile e terribile. Chi rifiuta la verità e l’amore rifiuta la felicità e la vita.

Chi si allontana da Dio sprofonda nella tenebra. Il mondo vive nell’illusione. Occorre strappare il velo dai suoi occhi. La lontananza da Dio è la più grande catastrofe per l’uomo. Il fuoco già brucia: è urgente dare l’allarme prima che abbia consumato tutto. Questo fuoco è di per se stesso un fuoco eterno perché l’uomo lasciato a se stesso è incapace di spegnerlo e quando vi è caduto è incapace di uscirne. Non si può comprendere l’opera di Gesù Cristo e la salvezza che Egli ci porta senza aver scoperto prima o poi fino a quale punto siamo perduti senza di Lui. Misconoscere tutto ciò significa ignorare e snobbare il nostro Salvatore. Occorre misurare quanto senza di Lui siamo perduti per imparare come veramente da Lui siamo salvati. A tutti coloro che si aspettano la salvezza dall’uomo occorre ricordare che non c’è salvezza se non in Dio. L’inferno è questa sofferenza totale dell’uomo separato per sempre da quel Dio secondo la cui immagine è stato creato. L’inferno, in definitiva, è la realtà di ciò che sarebbe il mondo senza Gesù Cristo!

Si narra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà nel regno della morte?

Si conoscono forse nelle tenebre i tuoi prodigi, la tua giustizia nella terra dell'oblio?

Ma io, Signore, a te grido aiuto e al mattino viene incontro a te la mia preghiera.

Sal 88, 12-14

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5. Nonostante tutto, le ragioni della speranza

Tintoretto, Discesa di Cristo agli Inferi - Venezia, 1568

Senza minimamente annacquare la serietà della rivelazione cristiana circa la possibilità della dannazione eterna, occorre fissare l’attenzione su altri elementi del nostro patrimonio di fede, in vista di un quadro di insieme il più completo possibile. Si tratta di contemplare da vicino il mistero di Gesù Cristo, la logica della sua incarnazione e della sua Pasqua, lo stile e la prassi del suo vivere fra noi, il senso ultimo della sua missione sulla terra.

a. La portata universale del dono della vita di Gesù Cristo per il perdono dei peccati e la salvezza dell’umanità Siamo al cuore del Vangelo: Egli è morto per noi. Egli è morto per i nostri peccati. Senza entrare dettagliatamente nei singoli aspetti di questo caposaldo della nostra fede, è sufficiente ricordare alcune note e condivise espressioni a tale proposito: Mc 10,45;14,24; Rm 3,24-25; 5,8-11; Ef 5,2; 2Cor 5,14-15; Col 1,20. Accanto a queste esplicite affermazioni dottrinali, è interessante osservare le scelte e i comportamenti di Gesù, costantemente protesi alla scelta preferenziale e permanente che lo colloca senza riserve accanto ai piccoli, ai perduti e agli esclusi. Già il battesimo lo pone dalla parte dei peccatori, bisognosi di perdono e disponibili alla conversione, fino a suscitare lo stupore e l’imbarazzo dello stesso Giovanni

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Battista (cfr. Mc 1,4-5.9; Mt 3,5-6.13-15). Ha dichiarato esplicitamente di essere venuto per i malati e i peccatori, condividendo la mensa con loro, suscitando l’indignazione e perfino lo scandalo dei “giusti” e benpensanti (cfr Mc 2,15-17; Lc 15,1-2;19,7). E’ stato crocifisso come malfattore fra due malfattori (cfr. Lc 22,37; 23,33.39-43). E’ morto accettando nella fede e nell’amore l’abbandono da parte del Padre perché riecheggiasse verso di Lui, da Colui stava in comunione con la sofferenza dei peccatori, il si definitivo al suo progetto di salvezza (cfr. Mc 15,34). Realmente Gesù è sceso fino nel fondo dell’abisso di tutte le sofferenze umane, del corpo e del cuore. Tutte le sofferenze venute con il peccato, fino alle più estreme Egli le ha prese su di sé, le ha vissute in sé in solidarietà d’amore con tutti i peccatori, per la salvezza del mondo . Egli ha sofferto tutto il male dell’uomo, tutta la malizia di tutto il peccato del mondo, in piena solidarietà di amore con i peccatori.

b. Il Signore dell’impossibile Sono emersi finora due grandi poli della rivelazione biblica. Da una parte, Gesù come dono di Dio per la vita del mondo, nel segno di una compromissione totale e in piena solidarietà con tutti gli uomini, soprattutto i meno meritevoli dall’altra. Dall’altra, Gesù Cristo come segno di contraddizione “per la rovina e la risurrezione di molti in Israele” (Lc 2,34), come Colui che verrà a giudicare i vivi e i morti, che chiamerà gli uni a ricevere in eredità il regno preparato per loro fin dall’inizio del mondo e manderà gli altri lontano da Lui, maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli. Come conciliare queste due immagini di Cristo, queste due rivelazioni del volto di Dio nella storia degli uomini? La rivelazione del mistero, nella Bibbia, passa più di una volta attraverso delle espressioni apparentemente contraddittorie. Come ci occorrono due occhi perché lo sguardo possa percepire la profondità, così le opposizioni conducono a un superamento e orientano la fede verso l’oscurità luminosa del mistero di Dio. Gesù riprende per sé sia le profezie di Daniele che annunziano il trionfo del Figlio dell’Uomo che quelle di Isaia che annunziano le umiliazioni del Servo del Signore. Gesù anticipa ai discepoli che il suo Vangelo sarà proclamato fino alle estremità della terra e raggiungerà tutte le nazioni e annuncia al tempo stesso una Chiesa perseguitata, esposta a tutte le contraddizioni, che rimarrà piccola come lievito nella pasta e come il sale negli alimenti e si chiede: “ il Figlio dell’Uomo quando verrà troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8). Gli esempi si potrebbero moltiplicare. La pedagogia di Dio si serve spesso della contraddizione per introdurci nella profondità del mistero. Queste dissonanze turbano la ragione, poiché si è sempre tentati di avviare un processo di riduzione dei contrari mediante l’attenuazione degli estremi. Ma guai a incatenare o ad annacquare la parola

L’oscurità luminosa del Mistero di Dio ....

raggiunti

nel fondo dell’abisso di tutte le sofferenze umane,

del corpo e del cuore.

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di Dio. Dio è il Signore dell’impossibile. Questa non è un’ affermazione occasionale, rilevabile in qualche testo dell’Antico o del Nuovo Testamento. Tutta la Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse rivela questa certezza. E’ il suo messaggio centrale, che compare in mille situazioni paradossali: un grande alveo di fiume nel quale sboccano tanti affluenti. Signore dell’impossibile è il volto di Dio, è il nome di Dio, è il mistero di Dio quale si rivela progressivamente attraverso la storia degli uomini. L’impossibile diventa il luogo privilegiato della rivelazione storica di Dio. A voler fare l’inventario di tutte le situazioni impossibili, di tutti i parametri dell’impossibile, di tutte le impotenze umane nelle quali Dio si riserva il momento favorevole per rivelarsi, bisognerebbe leggere la Bibbia da cima a fondo. Tutta l’epopea dell’Esodo, ad esempio, principio e fondamento della storia e della fede di Israele, avviene nel segno dell’impossibile. Impossibile appare uscire dall’Egitto, sottrarsi alla cattura da parte del Faraone, attraversare il mar Rosso, sopravvivere nel deserto, impadronirsi della terra promessa. Eppure il popolo parte, nel mare si apre una strada, l’esercito egiziano annega in mezzo ai flutti, dal cielo piove la manna, dalla roccia scaturisce l’acqua, cadono al suono delle trombe le mura di Gerico, i vari popoli di Palestina sono eliminati da chi si presenta a loro senza archi e senza carri: l’impossibile avviene! Anche a livello di situazioni più personali e familiari, riscontriamo l’adempiersi della stessa logica divina. Sappiamo bene che cosa rappresentasse la sterilità in Israele. Non c’era situazione umana in cui l’uomo e la donna sentissero maggiormente la loro impotenza. Eppure quante volte grembi sterili e avvizziti diventano fecondi e l’impossibile accade (cfr, Gen 18,9-14; 21,5-7; 1Sam 2,1-10). Nella luce della sterilità feconda si stabilisce uno dei tanti legami fra l’Antico e il Nuovo Testamento. Alle soglie del Vangelo, ecco due donne, Elisabetta e Maria, due testimoni della potenza di Dio che dà la vita là dove non può esservi speranza di vita. L’angelo che si rivolge a Maria stabilisce il legame fra i due segni: il concepimento della sterile, la fecondità della vergine.

L’una e l’altra sono testimoni di Dio che tutto può. “Maria disse all’angelo: come è possibile, non conosco uomo?” (Lc 1,34) A Sara che dubitava e che rideva, l’angelo del Signore aveva detto alla quercia di Mamre: “c’è forse qualche cosa di impossibile per il Signore?” (Gen 18,14). A Maria che crede e vuole fidarsi, l’angelo ripete: “Nulla è impossibile a Dio”. Davanti al popolo dei Giudei educati e preparati dalla testimonianza dei Profeti (“Signore, nulla è impossibile a te “ Ger 32,17), attraverso segni e prodigi Gesù si rivela come il Signore dell’impossibile. Perfino davanti a quel luogo supremo dell’impossibile che è la morte,

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Gesù si rivela come colui per il quale non esistono barriere. In particolare, questo processo culmina nella sua risurrezione come ingresso in una vita trasformata dalla vitalità di Dio, una vita animata dallo Spirito di Dio, una vita glorificata in Dio: la vita eterna. Per Lui e per noi. Gesù apre un mondo nuovo per l’umanità intera al di là della morte. La sua vittoria è la vittoria sulla morte anche per l’uomo. E’ più che un miracolo, è una nuova creazione. Lui solo poteva fare ciò perché Lui solo è il Signore dell’impossibile! La tradizione evangelica riporta un altro celebre detto di Gesù a proposito della salvezza e di coloro che rischiano fortemente di esserne esclusi: i ricchi. E’ Gesù stesso che annuncia la loro radicale incapacità di entrare nel regno. Essi sono perduti per sempre: “è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio (Lc 18,25). I presenti temono per se stessi l’irrimediabile: “allora, chi potrà essere salvato?”. Gesù risponde non con una restrizione del suo giudizio in base ai meriti, ma con un richiamo assoluto alla misericordia infinita di Dio, alla sua potenza salvifica: “ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio” (Lc 18,27).

L’onnipotenza di Dio è impegnata nella storia umana per produrre sempre novità, per aprire un’uscita dove non vi è via d’uscita, per richiamare alla vita ciò che è morto, per salvare ciò che è perduto. La rivelazione della sua onnipotenza è la rivelazione della potenza assoluta della sua misericordia per fare dell’avventura umana la storia della salvezza. Dove non c’è più cammino, c’è Lui che apre un cammino. Là dove non esiste più cammino, è l’inferno. E’ là che Dio si rivela il Signore dell’impossibile! Con la sua croce Gesù discende agli inferi per essere il cammino, là dove ogni strada pare definitivamente sbarrata.

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6. La via del Sabato Santo

Proprio la riflessione sul Mistero del Sabato Santo può accompagnarci nella ricerca di un ulteriore possibilità aperta dal Signore dell’impossibile. In particolare, nel contesto della condivisione totale della sorte degli abitanti degli inferi, del mondo dei morti da parte del Figlio di Dio. Se tutta l’esistenza terrena di Gesù fu caratterizzata dall’obbedienza fino alla morte e alla morte di croce, nella sua discesa sotto terra si può dire che Egli, anche da questo punto di vista, abbia “fatto gli straordinari”, abbia vissuto una sorta di “superobbedienza”. Come se per Lui ci fosse qualcosa di peggiore della morte: permanere nello stato dei morti, facendosi carico della loro morte, con il cumulo di miserie, di colpe, di angoscia e di tenebre che la caratterizza. Proprio là occorre che risplenda l’amore più forte della morte e di ogni forma di male, la vittoria più efficace del risucchio di qualsiasi abisso. Non solo per i giusti dell’AT ma per tutti i prigionieri di questa ulteriore schiavitù. Come aveva già intuito Origene, uno dei più acuti e originali Padri della Chiesa, nel corso del III secolo, tutto il male del mondo, che la croce ha già misericordiosamente separato dagli uomini peccatori, viene deposto come fango o sterco in questa specie di cloaca della storia posta oltre il tempo, dove tutto il peggio del peggio viene definitivamente riconosciuto, rigettato e consumato in un fuoco che non si estingue. Certo, secondo la dottrina cattolica, è necessario, affinché la salvezza si compia, che da ogni persona scaturisca il sì all’offerta divina. Là dove ciò non avvenisse, sarebbe l’uomo stesso, rifiutandosi definitivamente all’amore, ad autocondannarsi.

Gesù libera Adamo - discesa agli inferi (1530-1534) - Girolamo Romani detto il Romanino (1485-1566) - Chiesa Santa Maria della Neve – Pisogne (BS)

7. Quando anche i Santi vanno all’inferno

Se Cristo è venuto come Salvatore dal più alto dei cieli fino al più profondo degli inferi, allora in Lui tutto è compiuto. Che cosa rimane ancora da fare? In un certo senso è vero: mediante la sua morte e risurrezione, solidale con l’umanità intera, Cristo realizza la salvezza di tutti. Tutto trova compimento nella sua Pasqua e la storia volge al termine. E tuttavia, tutto inizia.

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Sulla croce Gesù rimette il suo Spirito al Padre e dona lo Spirito alla Chiesa, fatta presente in Maria, Giovanni, le sante donne e il centurione che si converte. Il tempo della Chiesa ha inizio ma non è un tempo vuoto. Come dice misteriosamente San Paolo “io completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Alle sofferenze di Gesù Cristo nulla manca se non trovare prolungamento nella vita dei suoi discepoli, chiamati non solo a godere della sua salvezza ma anche a collaborare in tutto con Lui. Sia attraverso l’evangelizzazione e la testimonianza della carità sia attraverso la partecipazione profonda al dramma del peccato in una specie di comunione spirituale con i peccatori, quelli della terra e quelli di sotto terra. É anche qui, nel più intimo dei cuori, su un piano invisibile e tuttavia realissimo, che si gioca in definitiva il mistero della salvezza. Questo cammino è aperto a tutti i cristiani perché è il cammino di Cristo, quello della terra e quello della sua discesa agli inferi. E’ il cammino della partecipazione alla passione e all’angoscia di Gesù come condivisione redentrice con la sorte dei peccatori, nel cuore della loro solitudine, dell’abbandono e della miseria per il loro peccato. Non possiamo certamente immaginare dei Santi caratterizzati dall’indifferenza e dal voltare la schiena alla tragedia sconfinata di chi è escluso per sempre dalla comunione con Dio, come se si trattasse di un mondo per il quale non c’è più nulla da fare e al quale non c’è più nulla da offrire. E’ da Santi dimenticare per sempre l’inferno per sentirsi tranquilli come gli eletti nella casa di Dio? Più i Santi si inabissano nella comunione con Cristo, più si aprono allo Spirito di Dio, più sono invasi dal suo amore, più rifiutano qualunque sentimento di indifferenza e di estraneità, per non dire di rivincita, nei confronti dei dannati dell’inferno. Entrano piuttosto in una specie di partecipazione alle loro sofferenze. I Santi vivono già sulla terra un atteggiamento di compassione con chi è condannato a vivere eternamente lontano da Dio. Si può anzi dire che più sono vicini a Dio e più misteriosamente scoprono l’immensa disperazione, l’assoluta solitudine, la sofferenza atroce di coloro che sono separati da Lui. Nessuno come i Santi sa che cosa significa scendere all’inferno. Più sono vicini a Dio, più hanno in odio il peccato e compassione per i peccatori. Vicinissima a noi, Teresa di Lisieux. Tutti sanno quanto il suo amore per Gesù sia diventato un amore ardente per i peccatori e tutti conoscono le sue incessanti preghiere per la conversione di Pranzini, l’assassino condannato a morte che chiese di bacia re il Crocifisso ai piedi della ghigliottina. Non si è trattato per lei di un estemporaneo colpo di testa ma di un atteggiamento permanente nel quale l’ha introdotta il Signore, conducendola nella tenebra più fitta, nell’oscurità, come diceva lei, del tunnel più cupo, nutrendola del pane e del dolore “a quella tavola colma di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori”.

chiamati a collaborare in tutto con Lui ...

sul cammino della partecipazione

alla passione e all’angoscia di Gesù come condivisione redentrice con la sorte dei peccatori, nel cuore della loro solitudine, dell’abbandono e

della miseria per il loro peccato.

Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Sal 23, 4-5

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«Gesù, se è necessario che la tavola insozzata da essi sia purificata da un’anima la quale vi ama, voglio ben

mangiare da sola il pane della prova fino a quando vi piaccia introdurmi nel vostro regno luminoso».

Il suo amore per i peccatori da salvare la mette in comunione con loro nella sofferenza stessa del loro peccato e questa solidarietà d’amore diventa in Cristo mistero di salvezza. Il suo amore per Gesù, il suo Diletto, la getterebbe nell’inferno se questo fosse necessario per glorificarlo:

«una sera, non sapendo come dire a Gesù che l’amavo e quanto desiderassi che Egli fosse dappertutto amato e glorificato, pensavo con dolore che Egli non avrebbe mai potuto ricevere

dall’inferno un solo atto di amore. Allora dissi al buon Dio che per fargli piacere avrei ben acconsentito a vedermici immersa, affinchè Egli fosse amato eternamente in quel luogo di

bestemmia».

L’amore le fa dire delle follie o piuttosto la illumina: ella vorrebbe trasformare l’inferno dell’odio in fuoco d’amore. Questa è la reazione di una Santa davanti all’inferno: andarvi per portarvi un raggio dell’amore di Dio e con il proprio amore far entrare l’inferno nel mistero della salvezza.

Un altro grande spirito che ha vissuto il dramma tutto cristiano della comunione con i peccatori è Silvano, monaco del Monte Athos, che viveva inondato della grazia della preghiera e assalito dalle peggiori tentazioni. Una notte ebbe l’impressione che il Signore gli dicesse: “ tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”. Uno strano consiglio che divenne una chiamata e che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita. Iniziò un specie di discesa spirituale fino nel più profondo della sua miseria, fino nel cuore del suo peccato dove si scoprì solidale con ogni uomo peccatore. Questa compassione divenne comunione per poi trasformarsi in intercessione. Scrive un suo biografo:

«egli portava il peso di tutto il dolore del mondo, in particolare di tutti quelli che si atteggiavano nemici di Cristo. Intercedeva per tutti gli uomini. Le loro sofferenze, i loro peccati gli erano costantemente presenti , abitavano il suo cuore ed egli ne era straziato. Allora gemeva davanti a Dio e intercedeva per tutti. Diveniva solidale con tutta la creazione, con l’umanità intera. Non era più Silvano, era diventato l’uomo che ha perso Dio e lo cerca nel dolore».

Solidale con tutti, egli diventò tutt’uno con i nemici stessi della Chiesa e di Cristo, diventò il loro peccato, implorando per essi misericordia:

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«Oh se fosse possibile, scriveva nel suo diario, strapperei all’inferno tutte le anime e soltanto allora la mia anima sarebbe nella pace e nella gioia. Altri possono augurare ai loro nemici e ai nemici della Chiesa la morte e l’eterno castigo. Pensando così, essi non conoscono l’amore di Dio. Chi possiede l’amore e l’umiltà di Cristo prega e piange per tutti».

Tutti i peccati non sono che un peccato, diceva Silvano, tutti gli uomini non sono che un uomo in ciascuno di noi. Solo scendendo nel profondo di noi stessi quanto più è possibile, in solidarietà di amore con tutti gli uomini e in comunione di sofferenza con tutti i peccati, raggiungiamo infine il male alla sua radice per consumarlo nella sua totalità. Il campo di battaglia contro il male si trova dentro il proprio cuore. E’ così che Silvano scopre tutta la profondità della Parola che gli era stata rivolta: “il Signore mi insegnò a tenere il mio spirito nell’inferno e non disperare mai.” Questo entrare nell’abisso vi porta la salvezza. Lo spirito dei Santi subisce le sofferenze dell’inferno ma il loro amore se ne nutre. “Ama gli uomini a un punto tale, gli dice Gesù, che tu possa prendere su di te il peso del loro peccato”. Ma non è l’inferno, la cui sofferenza lo penetra, a trasformare l’anima del Santo in inferno. E’ l’anima del Santo, discesa nell’abisso, che illumina l’inferno e lo trasforma nella sua presenza. “I Santi vedono l’inferno, scrive ancora il suo biografo, e vivono nell’inferno, ma l’inferno non ha presa su di loro. Sotto l’azione dello Spirito, l’inferno del peccato si trasforma in inferno dell’amore di Cristo”. E’ questo il senso ultimo della sequela cristiana. «Noi sappiamo che è necessario che nelle sue grandi linee, la nostra vita riproduca ciò che il Figlio dell’Uomo ha compiuto nella sua vita terrena. Se il Signore fu tentato, inevitabilmente noi dobbiamo passare attraverso il fuoco delle tentazioni. Se il Signore fu perseguitato, inevitabilmente noi saremo perseguitati. Se il Signore fu crocifisso, anche noi saremo crocifissi, sia pure su croci invisibili. Se il Signore fu glorificato, anche noi saremo elevati al cielo per la potenza dello Spirito Santo. Se il Signore è disceso agli inferi, fino a farsi solidale con tutto il peccato del mondo, anche noi, spinti dallo stesso spirito di amore, siamo chiamati con Lui a scendere agli inferi, a diventare solidali con tutti i peccatori e a portare il peso di tutti i peccati perché il mondo sia salvo. Al di fuori di questa esperienza di discesa agli inferi che fa parte del mistero di Cristo, è impossibile conoscere veramente l’immensità del suo amore e entrare nella universalità della salvezza».

8. Attesi e abbracciati nell’abisso

Ma qual è il fondamento di questa speranza di salvezza per tutti in queste condizioni? Nella sua discesa agli inferi è come se il Figlio di Dio realizzasse un abbraccio avvolgente, da sotto a sopra, nei confronti dei peccatori. É l’abbraccio della Trinità, un’estrema offerta di salvezza in cui la volontà del Padre e la comunione dello Spirito inviano il Figlio a prendere su di sé il destino dei peccatori.

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Il teologo Cardinale svizzero sembra accendere in questo contesto tutti i registri della propria sconfinata immaginazione spirituale nello sforzo di rappresentare qualcosa della misericordia di Dio che insegue fino all’estremo la libertà colpevole dell’uomo. Qui è in gioco tutto l’amore della Santissima Trinità: il dono di sé che il Padre fa al Figlio da tutta l’eternità si rispecchia nel dono di sé del Figlio che si lascia prendere nelle mani dei peccatori, esprimendo così la verità ultima di Dio e manifestando la comunione nell’unico Spirito. Questo tipo di morte vissuta dal Figlio come atto d’amore in cui Egli prende su di sé la morte dei peccatori trasforma totalmente il senso della morte. Se la morte dell’uomo è di per sé un fallimento, il segno dell’estrema incompiutezza, la morte di Gesù Cristo che prende su di sé tutti i fallimenti dell’universo rimane caratterizzata dalla vita divina che è sempre dedizione, offerta di sé fino all’estremo. Nel suo abbraccio onnicomprensivo, la morte di Gesù Cristo, piena di senso e di vita, afferra “dal di sotto” tutto il non senso di ogni morte. Mentre Egli attira ogni morte di peccatore nella sua totale dedizione al Padre (ecco il senso del suo abbraccio nella discesa agli inferi), ne cambia totalmente il significato, assumendola nella sua morte, quella unicamente definitiva e definitivamente valida. Disceso agli inferi, Gesù ha spezzato per sempre la potenza del male con la potenza della sua croce. Non c’è più speranza nell’inferno ma l’inferno stesso è nella speranza perché tutto l’universo e l’inferno stesso sono nelle mani di Dio. In Gesù Cristo, il Creatore si rivela Salvatore fondando in noi un’umile e incrollabile fiducia che tutto ciò che è stato creato dal dono del suo amore potrà essere salvato dal perdono della sua misericordia. Niente è estraneo alla nostra speranza perché essa è a misura di Dio il quale è senza misura. “In tal modo, scrive Von Balthasar, questo atto di speranza rimane aperto ad ogni verità, non fissando in anticipo né da una parte né dall’altra il giudizio del Signore, non ponendo da nessuna parte a priori una impossibilità di principio, ad esempio che nessun uomo possa perdersi o che qualcuno si perda certamente.” Tutto si compie per noi in un atto di totale abbandono che rimette nelle mani di Dio tutta la nostra esistenza e quella dei nostri fratelli, in una totale fiducia, semplicemente perché Dio è buono e rivela la sua onnipotenza soprattutto nella misericordia e nel perdono.

Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore. Rm 8, 35-38-39

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Andrea Bonaiuti - 1368 - Discesa di Cristo al Limbo - Firenze – S. Maria Novella (part)

9. Ripartire dagli inferi

Gli inferi diventano il luogo dell’incontro fra tutti coloro che precipitano nella morte, magari anche fuggendo da Dio a cui contrappongono l’assolutezza delle loro illusioni, con l’abbraccio accogliente di chi si è collocato all’ultimo posto, nel luogo più impensato, imprevedibile e ripugnante, per poterli incrociare tutti.

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Perfino per l’uomo in fuga da Dio si prospetterebbero inedite possibilità di recupero e di nuovi inizi, tanto imprevedibili quanto provvidenziali. Naturalmente, tutto questo non è da pensare come se si trattasse dei tempi supplementari di una partita di calcio dopo che l’arbitro al novantesimo minuto, cioè al momento della morte, ha fischiato la fine del match. Gli inferi, come ci siamo detti molte volte, non sono un luogo fisico ma una situazione esistenziale. Parliamo dei vari crinali della nostra storia dove il peccato si incontra con l’offerta di perdono, dove la tragedia è raggiunta dalla speranza, dove l’ostinata durezza della negazione è invitata ad aprirsi e a sciogliersi per essere inondata da un’ulteriore offerta di salvezza, dove il mistero del Figlio si intreccia con quello dei figli nel segno della vita e della misericordia. Rimane assolutamente scontato, è pur necessario sottolinearlo, che l’uomo può benissimo ricusare questa ultima opportunità dell’abbraccio avvolgente e qui si aprirebbe la possibilità della dannazione definitiva, configurantesi a questo punto come autoesclusione dalla salvezza. Consapevoli tuttavia della volontà salvifica universale di Dio e riponendo ogni fiducia nell’immensità del sacrificio compiuto da Gesù nel mistero pasquale, ci è data la possibilità di sperare. A condizione che tale speranza non alimenti mai una falsa sicurezza sul destino degli uomini, così da indurci a non temere il giudizio di Dio del quale nessuno può prendersi gioco.

10. Ascoltare le ragioni del no

a) E la libertà umana?

Si ritiene comunemente e non del tutto a torto che l’inferno sia l’estrema garanzia della libertà dell’uomo e che gli uomini siano veramente liberi di fronte al Creatore in quanto Egli ha dato loro il potere di rifiutargli eternamente il consenso. Ciò non è del tutto falso ma è certamente paradossale ritenere l’uomo tanto più libero quanto più capace di sfuggire alla grazia e voltare la schiena a Dio. La salvaguardia della libertà dell’uomo non esige di costringere Dio all’inazione o a ridurre il suo ruolo semplicemente a quello di verifica e di giudizio. Se è libero l’uomo, tanto più è libero Dio nel delicato esercizio della sua azione creatrice e redentrice, ben oltre ogni nostra concezione o pretesa.

«A colui che in tutto ha il potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi, a Lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le

generazioni nei secoli dei secoli” (Ef 3,20) ».

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Il grande equivoco sta nel pensare che questa onnipotenza di Dio si opponga alla libertà dell’uomo mentre invece ne è la sorgente. E’ Lui che ci fa liberi. La nostra libertà non è oppressa sotto la potente azione di Dio che ci crea o di Gesù che ci salva ma si afferma e fiorisce nell’irradiarsi della grazia. Anche se noi ci distogliamo da Lui, Egli ha il potere di richiamarci a sé, non sostituendo la sua potenza al nostro volere bensì rinnovando la nostra libertà sotto l’azione della sua grazia. L’azione creatrice di Dio nell’uomo e l’azione salvifica della grazia nel suo cuore, lungi dall’opprimere la sua libertà in Lui la creano e in Lui la realizzano. La contrapposizione tra grazia e libertà è un fantasma della notte che scompare allorché si leva il sole del dono di Dio. Lo sposo non forzerà mai la sposa ad amarlo ma chi impedirà alla fantasia del suo amore di escogitare sempre nuovi mezzi per ridestare in lei la gioia di amarlo liberamente? La libertà del dannato è incapace di ritornare da sé verso Dio ed è per questo che l’inferno è di per sé senza uscita. Ma Dio, che ha creato l’essere e lo ha redento col sangue di suo Figlio non può ricreare nelle sue creature un nuovo sussulto di libertà che le orienti verso di Lui? Nessuno può rispondere in sua vece: “quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere?” (Rm 11,34). La salvaguardia della libertà dell’uomo non esige di costringere Dio all’inazione o a ridurre il suo ruolo semplicemente a quello di verifica e di giudizio. Sappiamo bene, però, che se Dio un giorno perdonerà, rinnoverà e trasformerà perfino il cuore dei suoi nemici, non sarà certo forzando la loro libertà ma integrandola e realizzandola in loro per sempre. Fin dove si estenderà la misericordia di Dio? Esiste un limite che essa non possa o non voglia varcare? Una barriera che la fermi? Vi è un cuore umano tanto duro, tanto impenetrabile da rifiutare sempre, senza fine, tutte le profferte di Dio e le intercessioni dei Santi? Tutto ciò è il segreto di Dio, il segreto del suo amore.

b) E la giustizia di Dio? Molti ritengono che la dannazione dei peccatori sia opera della giustizia divina come punizione per i loro peccati.

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E’ il peccatore che se l’é voluta e s’é le cercata: non si può venirne fuori senza attentare alla giustizia di Dio. Questo concetto di giustizia divina come equa retribuzione a ciascuno secondo i propri comportamenti non corrisponde affatto alla giustizia di Dio, così come ci viene rivelato nelle Scritture. Già nell’A T la giustizia di Dio consiste nella fedeltà divina al mistero profondo del suo essere, alla sua volontà e alle sue promesse di salvezza universale: giustizia di Dio e misericordia divina sono sinonimi e consistono precisamente nel fare grazia ed nell’agire per la salvezza.

Sono assolutamente espliciti e univoci i parallelismi a questo proposito presenti, in particolare, nel libro di Isaia (cfr 45,21; 46,13; 9,6; 30,18). Estremamente significativa a questo proposito la lapidaria affermazione di San Paolo quando riassume in questi termini l’opera salvifica di Gesù Cristo.

«E’ Lui che Dio ha stabilito come strumento di espiazione per mezzo della fede nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare Lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù” (Rm 3,25-26) ».

Nella storia degli uomini la giustizia di Dio è la manifestazione della sua bontà, della sua grazia, della sua misericordia infinita. In essa Dio si rivela per ciò che è: carità, agape, amore gratuito. Gesù, il cui nome significa colui che salva è la manifestazione ultima di questa giustizia di Dio che è salvezza dell’uomo. San Paolo riassume questo mistero di giustizia e di amore nelle stupefacenti parole ”se lo rinneghiamo, anch’Egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,12-13) La misericordia di Dio è la sua fedeltà: Egli non può rinnegare se stesso. Egli rimane fedele alla sua creatura infedele. Il parallelismo degli stichi è rotto: la logica della giustizia umana si spezza davanti a quella della giustizia divina, l’amore del Salvatore.

c) Ma, insomma, quanti sono quelli che si salvano?

Tutti? Molti? Qualcuno? Quando questa domanda fu posta a Gesù, Egli rispose: “Sforzatevi ad entrare per la porta stretta perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: Signore aprici ma egli risponderà non vi conosco, non so di dove siete” (Lc 13,24-25). Questo avvertimento è simile a quello riportato da Matteo: “Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,14) Dobbiamo rispettare l’insegnamento del Signore inserendolo, naturalmente, nel più ampio contesto di tutto il Vangelo. Colui che ha detto: ”quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita..” (Mt 7,14) è anche colui che ha detto: “io sono la porta..” (Gv 7,10).

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Colui che ha detto: “… quanto pochi sono quelli che la trovano” ha detto anche:”io quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Colui che ha detto: “allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità” (Lc 13,27) ha detto pure: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui” (Gv 3,17). San Paolo scrive a Timoteo: “Il nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità... È lui che ha dato se stesso in riscatto di tutti” (1Tm 2,4 ss.). Minacce e promesse sono l’espressione di uno stesso amore. Amore tanto appassionato di Dio per il suo popolo da metterlo in guardia contro tutte le calamità che stanno per abbattersi su di lui, se si allontana dal suo Dio. Amore fedele che potrà si, abbandonarlo per un certo tempo, ma sarà sempre pronto a riprenderlo ogni volta che ritorna a Lui. Amore che chiama alla conversione e che promette il suo amore: Dio che chiama a sé e annuncia la salvezza. Saranno tutti salvati? Non lo sappiamo. Questa risposta implica altresì che non abbiamo la certezza che non tutti saranno salvati. L’intera Scrittura è piena di annunci di una salvezza che raggiunge tutti gli uomini, di un Salvatore che riunisce e concilia tutto l’universo. Tanto basta perché sperare nella salvezza di tutti non sia in contraddizione con la Parola di Dio. Ecco la verità del Vangelo. Ci rimane sufficiente incertezza sulla salvezza di tutti per temere ma abbiamo anche sufficiente luce per sperare. Il timore salutare davanti alla possibilità della dannazione ci ispira la vigilanza, ci chiama alla conversione e all’impegno apostolico. Ma, nello stesso tempo, questa luce che ci permette di sperare nella salvezza di tutti ci riempie di una indicibile gioia. Non è una speranza destabilizzante. Se la salvezza di tutti fosse già fin da ora assicurata, potremmo essere tentati di lasciarci andare. Se la dannazione di un gran numero fosse fin da ora annunziata, potremmo essere tentati di scoraggiarci. Questa incertezza e questa speranza rispettano la densità drammatica della nostra esistenza storica. La Chiesa ha condannato la certezza origenista di una salvezza universale che sarebbe in definitiva automatica e necessaria. Ma ha preservata intatta questa speranza di una salvezza universale, volgendola in compassione e in preghiera perché tutti gli uomini siano salvati. 11. Testimoni di una speranza affidabile

Mantenendo salde tutte le possibili riserve e cautele, l’invincibile amore di Dio che raggiunge e abbraccia l’uomo nella vita e nella morte non può non generare in noi uno sguardo riconciliato e positivo sulla realtà e sull’uomo, per il presente e, soprattutto, per il futuro. Davvero non esiste situazione in cui non sia possibile ricominciare a sperare. Il giudizio è riservato a Dio. A noi il compito di testimoniare questa speranza affidabile, una speranza che non delude. Davvero ogni uomo è un fratello per cui Gesù è morto: per recuperarlo, redimerlo e salvarlo. Come non essere testimoni di questa speranza in ogni situazione della vita? Anche nelle periferie esistenziali più dolorose e oscure. In definitiva, sperare per tutti non significa una curiosità deresponsabilizzante su come andrà a finire la storia ma rappresenta il fondamento e la sorgente della nostra responsabilità di Chiesa nel tempo, protesi verso l’eternità.

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RIFLESSIONE PERSONALE

Nessuna barriera può resistere all’amore.

L’amore osa tutto quello che può. W. Shakespeare

TANTO AMATI DA ESSERE SALVATI ... FINO ALLA FINE E FINO NEGLI INFERI Contemplo l’amore immenso di Dio e l’obbedienza del Figlio che pur non avendo commesso peccato « ... si è fatto peccato per noi» (2 Cor. 5, 21), affiché, da Lui rendenti, potessimo essere raggiunto dall’abbraccio del Padre, in ogni tempo e in ogni luogo, fino agli abissi del male e della Morte...

• Rifletto su come reagisco nei confronti del male che domina nel mondo e nel cuore dell’uomo. Riconosco in me la buona volontà che desidera il bene ma anche l’impotenza, “in me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,18-19). Rifletto sul sentimento di paura che domina il mondo, le relazioni interpersonali, la paura che abbiamo di noi stessi, dei nostri limiti, dei nostri errori ... Che cosa significa per me aprire il cuore all’amore Paterno che vuole rompere il muro della prigione che impaurisce e chiude l’orizzonte di una vita feconda in Lui?

TANTO LIBERI DA SCENDERE ALL’INFERNO... MENTRE DIO CONTINUA A RINCORRERCI Signore in che modo mi vuoi salvare?

• Signore che cosa manca in me perché io mi muova a riconoscerti, a lasciarmi accogliere da te, nel tuo regno, a vivere quell’esistenza autentica e libera che tu hai preparato per me fin da ora?

• Signore che cosa c’è in me? Quali sono le pesantezze, le chiusure, le opacità, i silenzi, quali sono i comportamenti che mi impediscono di riconoscerti?

• Signore perché non riesco ad abbandonarmi a Te, nella fiducia dell’attesa della Tua venuta nella mia vita?

Il MIO SI ALLA SPERANZA DI RINASCERE NELLO SPIRITO DI DIO ... PER UN CAMMINO DI SANTITÁ vivere e testimoniare “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil. 2, 5) Concludendo la riflessione personale, dopo aver contemplato le risonanze del mistero della discesa agli inferi di Gesù ritorno a proclamare il Credo degli apostoli (vedi pag. 23) nella fiducia che non esiste situazione in cui non sia possibile ricominciare a sperare.

• Come mi lascio interpellare dall’essere chiamato a collaborare in tutto con Lui ... anche sul cammino della partecipazione alla passione e all’angoscia di Gesù come condivisione redentrice con la sorte dei peccatori, nel cuore della loro solitudine, dell’abbandono e della miseria per il loro peccato?

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RIFLESSIONE COMUNITARIA

Come una candela ne accende un’altra e così si trovano accese migliaia di candele, così un cuore ne accende un altro e così si accendono migliaia di cuori.

Lev Tolstoj

Possiamo sperare «la misericordia» per tutti?

Nella sua discesa agli inferi è come se il Figlio di Dio realizzasse un abbraccio avvolgente e

misericordioso che insegue fino all’estremo la libertà colpevole dell’uomo.

Ogni uomo è inseguito dalla misericordia di Dio. Mt 5,45: «affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti». Luca 6,35-36: «Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso».

Sono parole che interpellano la nostra coscienza:

• Guardando al volto dell’istituzione ecclesiale possiamo affermare che per tutti c’è misericordia?

• Possiamo dire che la nostra Chiesa presenta oggi un volto misericordioso e offre spazi per fare esperienza di misericordia?

• Cosa vuol dire oggi per noi «essere misericordiosi come è misericordioso il Padre del cielo»

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LETTERA PASTORALE DEL VESCOVO ROMANO ROSSI

ai cristiani della Diocesi di Civita Castellana per la Quaresima 2017

Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” fra la morte e la Risurrezione

ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico,che l’ha attraversata con i segni della sua passione per l’uomo.

Qui Gesù Cristo ha condiviso non solo il nostro morirema anche il nostro rimanere nella morte.Si è trattato della solidarietà più radicale.

In quel tempo oltre il tempo Gesù Cristo è disceso agli inferi.Questo vuol dire che Dio, fattosi uomo,

è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema dell’uomo,dove non arriva alcun raggio di amore,

dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: gli inferi.

Gesù Cristo, rimanendo nella morte,ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima

per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui.Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo:nel regno della morte è risuonata la voce di Dio.

È successo l’impensabile: che cioè l’amore è entrato negli inferi.Anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta

noi possiamo ascoltare una voce che ci chiamae trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori.

L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare.E se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore,

allora anche là è arrivata la vita.Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli.

Meditazione di Benedetto XVI a Torino il 02/05/2010 davanti alla Sacra Sindone

Se non c'è limite all'amore, non c'è limite alla speranza

SABATO SANTO

La discesa di Cristo agli inferi

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