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Christine Amberpit

ORPAN

A chi c’era 3 anni fa...e chi c’è ancora.

Siete i miei idioti preferiti.

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11:20:17

Sapere quanto tempo mi rimane da vivere non mi spaventa quanto dovrebbe. Conto i giorni sin da quando avevo otto anni, all’epoca non comprendevo davvero la gravità della situazione. Oggi osserverò il mio ultimo sole senza troppi risentimenti, il primo dopo così tanto tempo. Non credo di ricordarne l’aspetto, o la sensazione del calore sulla mia pelle.

Non sarò l’unica a essere giustiziata al tramonto, a quanto pare questo trattamento barbarico oggi è stato riservato anche ad altri ragazzi oltre me e mio cugino, Hendel Dahl. I giudici sono stati molto chiari a riguardo: superati i diciotto anni di età non si è più degni di compassione.

Mi chiedo… lo siamo mai stati?

11:19:03

L’orologio sulla porta scandisce inesorabile i minuti che rimangono prima che i responsabili delle sentenze possano godersi la nostra dipartita, da qualche parte oltre i falsi specchi disposti lungo le quattro pareti della stanza insonorizzata. Solo una ragazza si lascia sfuggire lacrime e singhiozzi affranti; si chiama Georgina Taylor, così mi ha detto Hendel, è stata processata solo due giorni fa. È stata accusata d’aver ucciso il fratello minore colpendolo ripetutamente alla testa con un bastone, lei però continua a dichiararsi innocente.

Hendel indica con un cenno del capo la telecamera celata nell’ombra della bocchetta di ventilazione. Ormai sono talmente piccole da essere

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pressoché impossibili da individuare. «Secondo te ci stanno guardando anche da casa?» chiede a voce decisamente troppo alta, attirando su di sé l’attenzione degli altri condannati. Io non rispondo, ma lui continua a rivolgermi bisbigli e sibili. «Calliiiiiiope.»

«Che vuoi?»«Non dirmi che hai intenzione di startene lì imbambolata per le

prossime undici ore!»Sospiro e torno a fissarmi le scarpe, bucate e di una misura più

piccola, ma comunque gli unici oggetti che mi appartengono. Non siamo ammanettati, sanno di non avere alcun bisogno di usare la forza; le porte sono sigillate e, comunque, potrebbero aprirsi solo dall’esterno; inoltre le guardie ricevono, ogni due minuti, un nuovo codice a sedici cifre da inserire per sbloccare la serratura. Negli ultimi dieci anni ho più volte ascoltato discorsi sull’impenetrabilità delle loro difese; dubito abbiano davvero bisogno di scoraggiare i detenuti dal tentare la fuga.

A sorvegliarci c’è un ragazzo, avrà pressapoco l’età di Hendel. Indossa la divisa grigia delle guardie e, se non fosse per la pistola inserita nella fondina, non lo considererei nemmeno una minaccia. Ha un volto familiare, uno di quelli che impari a riconoscere giorno dopo giorno durante la tua reclusione. O molto più semplicemente confondo quell’aguzzino dalla faccia pulita con gli altri dieci che vengono a portarci da mangiare o ci forniscono gli abiti puliti.

Non ci maltrattano, non usano mai i manganelli e, comunque, hanno il divieto di picchiarci; tuttavia riescono a incutere un certo grado di terrore nei condannati più giovani o in quelli la cui reclusione può considerarsi “a tempo determinato”.

Per quelli come me e Hendel, che oggi dovranno recarsi al patibolo, non esiste nulla di meno spaventoso di un’uniforme inamidata, soprattutto se indossata da uno che sembra più nervoso di noi.

Un ragazzone scuro se ne sta seduto con le dita intrecciate, osserva assorto la trama a scacchi delle piastrelle. Per un attimo solleva il suo sguardo, incontrando quello di Hendel, che continua a sorridere come un idiota. Vorrei dire qualcosa, ma improvvisamente sento di non riuscire a parlare. Temo che se aprissi la bocca vomiterei ciò che ho nello stomaco.

Ho la bocca impastata, tremo come una foglia. Deve essere questa la paura che si prova quando si inizia ad avere piena consapevolezza di ciò che sta realmente accadendo.

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«Ehi, Gigantor!» di nuovo Hendel con quel tono di voce che lo fa apparire così pieno di sé.

Lo colpisco con un calcio allo stinco. La guardia mi richiama, mi afferra per una spalla e mi intima di calmarmi. A che pro? Tra poco più di undici ore sarò comunque morta. Non riesco a capire per quale ragione adesso la voce di Hendel mi sembra così fastidiosa. Vorrei zittirlo una volta per tutte, urlargli contro che la colpa è soltanto sua. Sarebbe come togliermi finalmente un fastidioso sassolino dalla scarpa. E colpirlo: cavolo se vorrei togliergli quell’espressione da ebete dalla faccia!

Poi, però, ricordo il modo in cui si è preso cura di me prima della nostra incarcerazione, alle merendine che rubava e che, giorno dopo giorno, faceva spuntare nei cassetti della mia scrivania. Eravamo dei bambini, il mio ultimo ricordo felice risale ai miei otto anni. Sospiro e fingo di non sentirlo nemmeno.

Hendel non ha ancora intenzione di mollare. «Che hai fatto per finire qui?»

L’altro ragazzo se ne sta in silenzio. È alto, grosso più di chiunque altro in questa stanza, ma non ha l’aria d’essere un tipo violento. Sta sudando, stringe i pugni nervosamente. Ho meno paura di lui di quanta non ne abbia di Georgina, pallida e smunta, con lo sguardo da invasata. Una con quella faccia potrebbe davvero aver fatto cose indicibili, persino aver ucciso un membro della propria famiglia. È un ragionamento assurdo? Probabilmente sì, ma non riesco a non pensarci.

Hendel ha l’aria d’essere ancora determinato a conoscere la storia di quel ragazzo. Siede in punta alla panca, agita i piedi come un bambino iperattivo. «Qualche piano fracassato, eh? Non deve essere difficile con quei bicipiti che ti ritrovi. O frequentavi qualche gruppo di Rebeller?»

«Dacci un taglio!» il ragazzone scatta in piedi. Sento che ha il respiro affannato; sta per avvicinarsi con fare intimidatorio, ma la guardia lo blocca, l’arma ben in vista per ricordargli “chi tra noi è il capo”. Il ragazzo si passa una mano sul viso e chiede scusa a tutti, Hendel compreso. Almeno il suo scatto d’ira è riuscito a farmi dimenticare per qualche istante il conto alla rovescia.

Hendel ridacchia. È sempre stato un idiota, talvolta eccessivo nel suo modo di scherzare, uno da prendere a piccole dosi. Ma non avevo mai conosciuto questa parte di lui, in qualche modo così divertita dal dolore i qualcun altro. Mi dà la nausea. «Che ti prende?» gli chiedo e riesco a

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scorgere brevemente un’ombra sul suo volto pallido spruzzato di lentiggini. «Lascialo in pace, non ti ha fatto nulla!»

«Che c’è, credi che se me ne stessi zitto e buono poi io e lui diventeremmo migliori amici?» chiede in tono sardonico. «Magari undici ore bastano, potrei invitarlo a bere alla mia se verrà giustiziato dopo di me.»

Sento lo stomaco contorcersi dolorosamente. La sua natura da piantagrane non si è placata nel corso degli ultimi dieci anni. Vuole far scoppiare una rissa perché quella saprebbe come gestirla. Ma l’esecuzione? È un’incognita. «Hai paura?»

«Secondo te?» chiede acido, a denti stretti. «Me la sto facendo sotto, Dumskalle!»

«Credi che cambieranno idea? Perché può succedere, no?»Hendel nasconde il viso tra le mani e sospira. Noi due siamo praticamente

cresciuti assieme, da piccoli eravamo inseparabili e non ricordo di averlo mai visto tanto abbattuto prima.

Non dimenticherò mai lo sguardo che aveva il giorno del processo. Somigliava a un lottatore pronto a buttarsi nella mischia. Le nostre madri ci avevano fatto mettere gli abiti migliori e avevano sperato, a dita incrociate e occhi stretti, di non sentir pronunciare al giudice la sentenza di condanna. Non ebbero fortuna. Piansi a dirotto, stretta alla gonna di mia madre, ma Hendel era rimasto in silenzio, sprezante con le mani nelle tasche della sua giacca celeste nuova di zecca, in direzione del giudice. Fu a quel punto che lo stesso Hendel chiamò il mio nome e attese di incrociare il mio sguardo prima di sollevare il dito medio rivolto a tutti i presenti. I membri della giuria lo considerarono un affronto, io lo vidi per ciò che era: un atto di spavalderia puro e semplice.

Era riuscito a infondermi il coraggio che mi è sempre mancato, lui con la sua zazzera bionda e quei bruttissimi pantaloncini celesti, mentre lo portavano via verso il Dipartimento Correttivo Maschile. Mi aveva detto: «ci vediamo tra dieci anni» e poi era scoppiato di nuovo a ridere. Che idiota.

Oggi la sensazione è quella d’avere davanti un estraneo. «Non abbiamo fatto niente… » sussurro rivolta a lui.

Emette un verso sprezzante e sputa a terra. La cosa indispettisce la guardia che, tuttavia, non accenna nemmeno a lasciare la propria postazione. «Speri in un colpo di fortuna dell’ultima ora? Svegliati, Calliope: le cose non vanno come nei tuoi stupidi libri. Siamo in guerra e abbiamo perso.»

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Guerra. Odio il suono di questa parola e non si tratta di una questione di ideali. Diciannove anni fa ha avuto inizio la Guerra per l’Unificazione con l’assalto alle frontiere mediorientali al confine tra Bulgaria e Turchia. A dare il primo segno di cedimento furono i paesi dell’est Europa, in particolar modo i paesi dei Balcani. La Prima Unione, conosciuta in un primo momento come Stato Anglo–Scandinavo (formato da Svezia, Danimarca, Finalndia, Scozia, Irlanda e Inghilterra), alleatosi con gli stati dell’Europa Continentale, riuscì a bloccare parte dell’avanzata delle truppe nemiche solo pressando sulle frontiere. Ma non per molto tempo. Quella che era stata definita una guerra lampo durò invece più di tre anni, con un inimmaginabile dispendio di risorse e vite umane. Alcuni paesi non si sono ancora ripresi del tutto.

Così, ancora una volta, l’Europa fu costretta ad assumersi la responsabilità per la bomba sganciata e, non bastando più le forze armate convenzionali, si iniziò ad arruolare scienziati e ingegneri civili. Per questo motivo mio padre era tra loro: Terza Divisione Genieri della Prima Unione, promosso alla carica d’ufficiale per l’occasione avendo ricevuto l’addestramento militare di base durante gli anni dell’Accademia Reale. Anche il padre di Hendel ha dovuto prenderne parte. Mia madre una volta mi raccontò che quei due erano inseparabili, proprio come fratelli. Per questa ragione, pur non essendo consanguinei, io e Hendel ci presentavamo agli estranei come cugini.

A circa un anno dalla mia nascita mio padre fu chiamato al fronte serbo per occuparsi della manutenzione degli armamenti per la difesa nell’impianto di Donje Tlamino, già presidiato dalle forze Unitarie. Rimase lì per qualche settimana prima dell’inizio dei bombardamenti che coinvolsero gran parte dei paesi confinanti. Tre anni dopo, alla fine della guerra che portò alla creazione delle altre Unioni Internazionali, chiamate semplicemente Unioni, a mia madre vennero riconsegnati i suoi resti con la nuova bandiera della Prima Unione. Una bara vuota come le parole di cordoglio che ricevette, in realtà: la Prima Unione non fu mai in grado di identificare i corpi dei soldati morti in Serbia.

Le dissero che il sacrificio di suo marito non sarebbe stato mai dimenticato e che quella striscia rossa trasversale sulla bandiera era come un monito: aggiunta al termine del conflitto, rappresentava la perdita delle migliaia di uomini e donne che avevano combattuto per difendere un ideale.

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Una striscia che punta come una freccia al petto di un leopardo, indifeso al cospetto di un maestoso nibbio reale, e un saluto militare erano ciò che ci rimaneva di mio padre.

Le definizioni di “sacrificio necessario” e “guerra preventiva” mi sono state date solo in seguito, e ancora oggi non riesco a venirne a capo.

Più ci rifletto e più diventa chiaro che Hendel riesce a leggere i miei pensieri. Lo vedo alzarsi dalla panca col pretesto di sgranchirsi un po’, poi bussa piano su una spalla della giovane guardia. «Senti, so che esegui soltanto gli ordini, ma non se hanno intenzione di concedere udienze prima dello scadere del conto alla rovescia? Il padre di Calliope era un eroe. Leighton Winter, lo conosci. Devi conoscerlo. Non ci credo che giustizieranno davvero la figlia di Winter senza darle la possibilità di parlare prima con qualcuno.»

Hendel pronuncia il mio cognome Vintar, proprio come lo pronunciava mia madre, e non come farebbe una persona cresciuta nella Prima Unione, costretta a parlare correntemente l’Inglese Unitario. Gliene sono grata, è da molti anni che questo non accade.

«Siediti» gli intima, ma lui continua a insistere finché una voce metallica pronuncia il numero di identificativo di Hendel e lo invita a non importunare più i presenti in sala. Hendel esita ma il ragazzo gli rivolge un’ultima occhiata. «Se qualche nibbio dovesse atterrare sono certo che troverà il modo di ascoltarvi.»

Scorgo qualcosa, non so bene di cosa si tratti, ma per un attimo ho l’impressione di vedere una certa intesa tra loro due, come tra chi si conosce da tempo. Il nostro giovane aguzzino appare dispiaciuto a una prima occhiata, forse sentir pronunciare il nome di mio padre lo ha colpito in qualche modo. In realtà tutti si lasciano commuovere dalla storia della piccola orfana e dell’eroe di guerra, è di quelle strappalacrime, che racconti nelle scuole per sensibilizzare i bambini contro la violenza.

Ho sentito dire che un giornalista, un certo Robert Fowles, ha scritto un libro su me e Hendel e su quanto assurda sia stata la nostra condanna. Mi sarebbe piaciuto leggerlo, ma la Prima Unione seleziona con molta attenzione i libri da mandare ai suoi detenuti.

Hendel torna a sedersi. Stringe entrambe le mani in grembo e respira pesantemente, agita la gamba in preda al nervosismo. Si muove come un animale in gabbia pronto ad aggredire chiunque si avvicini troppo. In realtà mi sorprende il suo nuovo atteggiamento, soprattutto nei confronti della

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guardia. Che cavolo sta succedendo? Cos’era quell’assurda discussione sui nibbi?

Gli stringo una mano in cerca di una rassicurazione, ma lui non reagisce. Come probabilmente lui, non penso che andremo in un posto migliore, non esiste vita dopo la morte – o perlomeno, se così fosse, questa che viviamo adesso non avrebbe alcun senso. Le preghiere delle nostre madri mi risuonano ancora nelle orecchie, sono parole vuote e distanti, dettate unicamente dalla disperazione.

Mia madre credeva fermamente in un’autorità superiore ed era attratta da tutta quella manfrina sul “fare la cosa giusta in vita per guadagnarsi un posto d’onore dopo la morte”, ma non ha mai tentato di convincermi a seguirla. In parte perché la religione non è vista i buon occhio dalla Prima Unione (si tratta solo di superstizioni e folklore, dicono), ma soprattutto perché mio padre non ci credeva. Se fosse stato ancora in vita avrebbe preferito un dialogo basato sulla ragione a uno dettato dalla cieca fede in un potere invisibile.

Il ragazzone ci osserva, è ancora visibilmente crucciato a causa del battibecco sfiorato con Hendel. Alcuni solchi profondi sono apparsi sulla sua fronte altrimenti liscia come la seta. «Voi due perché siete qui?» s’informa. La sua voce è rauca ma acuta, in netto contrasto con il suo aspetto imponente.

Hendel ridacchia e scuote piano la testa. «Prima parla tu. Quando ti ho fatto la stessa domanda sono stato quasi scaraventato contro il muro.»

Per la prima volta mi trovo d’accordo con lui. E poi… solo pensare all’idea di dover raccontare a qualcuno cos’è accaduto il giorno in cui siamo stati arrestati…

No, non riuscirei a sopportarlo.Il ragazzo è titubante almeno quanto lo sono io. Ha l’aria di una persona

gentile sotto quella massa considerevole di muscoli e adipe, davvero non riesco a immaginare cos’abbia fatto per cacciarsi in questo guaio. Una parte di me lo vede già in testa a un corteo che si batte per la parità di diritti per i cittadini meno fortunati; magari la folla ha iniziato ad agitarsi, e da cosa nasce cosa.

Sappiamo tutti come va a finire, di solito.Il ragazzo lancia una rapida occhiata alla guardia e poi torna ad abbassare

le spalle, assumendo una posa da cospiratore. «Mi chiamo Victor Achilles, mio padre ha combattuto nella Guerra per l’Unificazione.»

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«Capirai… » Hendel ammicca nella mia direzione. In effetti la maggior parte dei miei coetanei vanta storie di genitori o familiari partiti per la guerra. Alcune finiscono persino bene.

Victor prosegue, ignorando l’ultimo commento. Avevo ragione sul suo conto, è davvero più paziente di quanto Hendel meriti. «Capitano Alvaro Achilles, Prima Divisione Iberica Ricognitori. Era uno tosto, ha combattuto bene ed è tornato a casa sano e salvo.»

«Questa è una novità!» «Avevo cinque anni» riprende Victor pacatamente, «io e la mia famiglia

ci eravamo da poco trasferiti in Inghilterra. Ogni sera, prima di mettermi a letto, mi raccontava storie di guerra, ciò che ha visto durante gli spostamenti e sul campo di battaglia: morte e distruzione, in prevalenza, ma anche qualcosa di buono. Credeva davvero di aver contribuito alla fine di ogni guerra.»

Non riesco nemmeno a immaginare che razza di incubi quelle storie abbiano provocato a un bambino di cinque anni. Che razza di genitore racconterebbe cose simili al posto delle favole della buonanotte?

«Era un eroe, ma ha visto tanti orrori. Mi ha parlato di intere città rase al suolo da esplosioni nucleari e bambini con la pelle sciolta dalle radiazioni. Capisco che per lui non sia stato facile. Ha iniziato a bere per dimenticare, prima solo il venerdì sera, poi due volte a settimana. In dieci anni ha dilapidato il suo intero fondo militare in birra e gin. Si limitava a ubriacarsi e svenire sul divano, questo mi stava anche bene. Avevo un lavoro, potevo permettermi di badare alla nostra famiglia» Victor si strofina distrattamente le mani e sospira. Noto solo ora che ha alcune dita storte, come se le ossa si fossero rotte in più punte e mai saldate correttamente. «Una sera, due anni fa, sono rientrato a casa e ho trovato mia sorella in lacrime. Dovetti insistere per farmi dire cos’era successo, mi si gela ancora il sangue a pensarci. Mi disse che mentre giocava aveva accidentalmente fatto cadere la bottiglia di mio padre che, allora, ha pensato bene di picchiarla fino a farsi sanguinare le nocche. La povera Alina – si chiama così, mia sorella – riusciva a malapena a parlare a causa del dolore. Proprio in quel momento il bastardo era andato a prendere un bastone per finire il lavoro. Non le aveva fatto male a sufficienza con quelle mani… » gli sfugge una risata amara. Non ho bisogno di sentire il resto del racconto per capire cos’è accaduto in seguito: ha fermato il padre, una volta per tutte, colpendolo con tutta la rabbia che aveva in corpo fino a ucciderlo.

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«E ti hanno condannato?» gli chiedo, ignorando il groppo in gola. «Anche se lo hai fatto per difendere tua sorella?»

«Qualche settimana prima ero rimasto coinvolto in una rissa da bar. Nulla di grave, il mio responsabile aveva alzato un po’ il gomito e aveva allungato le mani, mettendo a disagio una collega. Non potevo far altro che intervenire. In quel caso me la sono cavata con un ammonimento e una multa, ma dopo ciò che ho fatto a mio padre devono aver pensato che non fosse sicuro lasciarmi a piede libero.»

«E il fatto che tu non abbia la sigla U001S001 nel tuo identificativo deve avergli reso la decisione più semplice.» Sputa aspro Hendel.

Ha sempre pensato che i britannici fossero razzisti, anche nei confronti dei cittadini della Prima Unione nati in Scandinavia. Secondo lui ce la saremmo cavata con uno schiaffo sulle mani se fossimo nati a Greenwich anziché Borås.

Purtroppo le riforme post–Unificazione hanno fatto diventare più rigido il modello giudiziario: si tratta di un momento difficile in cui molte culture devono fare i conti con la necessità di inglobare le altre senza annientarle, questo ha creato tensioni impossibili da gestire in modo tradizionale. Parole dell’ufficio stampa Unitario, non mie.

Per questa ragione, come prima cosa, è stata introdotta la pena di morte programmata. L’articolo 2 recita:

Ai fini di tutela dell’ordine pubblico, si dichiara vigente la pena di morte. Chiunque sia scientemente responsabile della morte di un altro individuo, sarà punito con la pena capitale. Costituiscono altresì fattispecie passibili della suddetta pena crimini contro l’infanzia e reati politici, con ciò inteso qualunque atto volto a sovvertire l’equilibrio istituzionale.

Comma 2: il condannato minorenne alla pena capitale non può essere giustiziato prima del decorso di un giorno dal compimento della maggiore età. Il giudice che autorizzi l’esecuzione prima dello scadere del termine sarà a sua volta processato e, in caso di accertata colpevolezza, giustiziato in qualità di sovversivo.

In parole povere, ogni reato che tolga la vita a qualcuno, o ne comprometta la qualità, è punito con la morte.

Avevo otto anni quando sono stata condannata a morte. Da quel momento io ho vissuto ogni giorno in reclusione, lontana da mia madre e

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da tutti i miei amici. Il processo fu un vero e proprio circo mediatico, con giornalisti che sgomitavano per aggiudicarsi un posto in aula e praticamente ogni singola carica istituzionale di rilievo nella Prima Unione. Alcuni dei presenti avevano persino tentato di avvicinare mia madre, ricordo che la cosa le fece avere un crollo nervoso. Non l’avevo mai vista in quello stato.

Le condanne a morte vengono concentrate nello stesso mese e avvengono una volta ogni cinque anni. I minorenni devono attendere sino alla data più vicina al giorno dopo il compimento del diciottesimo anno. Questo mi ricorda un aneddoto raccontatomi da Sue, una delle studentesse della PAMID che facevano volontariato nel Dipartimento Correttivo Femminile: un ragazzo in Belgio aveva compiuto diciotto anni lo stesso giorno in cui si sarebbero svolte le esecuzioni nella sua Unione; essendo piuttosto chiara a riguardo, la legge non prevedeva la sentenza attuabile in quel caso, perciò la sua prigionia si è protratta per altri cinque anni.

Altri cinque anni di straziante attesa. Al suo posto avrei tentato di porre fine a quell’agonia con ogni mezzo a mia disposizione.

«Tornando a noi» esclama Victor improvvisamente, così da distogliermi dal corso dei miei pensieri. «Cos’è successo? Hai tutta l’aria d’essere un po’… »

«Giovane?» chiedo. «Le apparenze ingannano.»«Se lo dici tu. Avete combinato qualcosa assieme?»Hendel assume un’espressione cupa. Fa tanto lo spavaldo, dà

l’impressione di non essere affatto coinvolto da un punto di vista emotivo, ma so che non ha mai smesso di pensare a ciò che è accaduto.

Talvolta mi sveglio nel cuore della notte in preda al panico. Rivedo mia madre e sento le sue urla, le sue suppliche tra i singhiozzi nel momento in cui mi strappavano a lei per portarmi via. Non c’è un dettaglio che non sia chiaro come il giorno nella mia mente.

«Allora?» Victor s’è fatto un po’ più insistente. Adesso anche gli altri ci stanno fissando.

Scuoto la testa in direzione di Hendel, nemmeno lui vuole davvero parlarne. Se adesso lo dicesse ad alta voce, se pronunciasse le parole che temo di più, la sentenza diventerebbe reale e ogni illusione, ogni sogno di libertà, si dissolverebbe nell’aria in un battito di ciglia.

Una parte di me si è convinta, negli anni, di vivere un incubo a occhi aperti. Ero certa che, in un modo o nell’altro, se nessuno ne avesse parlato, alla fine sarei riuscita a svegliarmi. Avrei scoperto di trovarmi a casa mia, al

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fianco di mia madre, una lontana notte di dieci anni fa, a vivere un’esistenza normale, per quanto possibile.

Ma sono ancora qui e l’orologio sembra essere stato posizionato nell’unico punto in cui sarebbe impossibile ignorarlo.

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«Errore giudiziario, ma ci stiamo lavorando. Non è vero, amico?» l’ultima frase è rivolta alla guardia, che finge di non aver sentito.

Victor fissa sbalordito Hendel e, per un attimo, temo possa davvero scaraventarlo contro il muro. Ma poi scoppia a ridere e gli batte una pacca amichevole sulla spalla. Ammetto di non aver mai avuto un gran senso dell’umorismo, ma non riesco comunque a capire cosa ci sia di tanto divertente in ciò che ha appena detto Hendel.

Poi la consapevolezza mi colpisce come un pugno in pieno viso: tutti in questa stanza, nessuno escluso, hanno bisogno di pensare a qualcosa che non sia il loro ruolo nell’attuale situazione. Victor non è felice d’aver ucciso il padre, nonostante ciò abbia permesso alla sorella di sopravvivere. Forse Georgina non è felice d’aver ucciso il fratello. E quei due gemelli silenziosi, che mi mettono i brividi… sono certa che nemmeno loro vorrebbero stare qui, tanto quanto la giovane guardia carceraria.

«Hai una faccia strana.» Sussurra Georgina.È la priva frase che le sento pronunciare dall’inizio del conto alla

rovescia. I suoi occhi arrossati cercano i miei, ma non riesco a non farmi influenzare da ciò che ho sentito sul suo conto.

Io più di chiunque altro non dovrei essere così ingenua da dar retta alle apparenze.

«Sì» mormoro e torno a guardare il pavimento. «Sto bene, per quanto sia possibile in questo momento.»

Hendel e Victor rimangono a parlare per un po’ di tempo dei posti che non potranno mai visitare, della gente che non avranno mai modo di conoscere e delle esperienze che non vivranno, persino dei cibi che non gusteranno. Non so davvero come ci riescono.

Riusciranno a mantenere lo stesso contegno nell’istante in cui il timer arriverà a zero?

Oggi la guardia ci ha detto che sarà un’esecuzione rapida e indolore, sarà come addormentarsi e poi sarà tutto finito. Seppur mosso dalle migliori intenzioni, non è stato granché d’aiuto.

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Non è il dolore a spaventarmi.Mi stringo forte le mani e respiro profondamente, una, due, anche tre

volte. Sento che potrei vomitare davvero adesso.L’altoparlante gracchia di nuovo e per un attimo temo di vedere l’orologio

avvicinarsi a velocità allarmante all’azzeramento. È soltanto uno scherzo della mia immaginazione, lo so, ma non riesco a scacciarne il pensiero. La voce metallica mi riporta con i piedi per terra. «A tutti i responsabili del piano delle esecuzioni, prepararsi all’arrivo di un nuovo condannato. EF–3275ID. Si prega di prendere tutte le precauzioni possibili.»

Sento gli altri parlottare concitatamente, la ragione è semplice; EF è la sigla che indica le esecuzioni forzate, (spesso accade con anarchici violenti o persone che si sono macchiate del reato di genocidio; questi vengono processati privatamente in presenza del Giudice Supremo e dei suoi gregari, talvolta anche del Segretario), I indica la provenienza, in questo caso la Zona Franca Internazionale, significa che – di chiunque si tratti – è stato arrestato in mare, D è il sesso, una donna. Ciò che mi rende perplessa è la cifra che sta in mezzo, 3275. Mai sentita prima, non era nemmeno presente nei libri di diritto Unitario che mi sono stati prestati durante la detenzione.

Hendel mi guarda per un istante, so che sta cercando di dirmi qualcosa, ma sono troppo agitata per capirlo. Se non lo conoscessi, direi che freme d’eccitazione. Ci voltiamo in direzione della porta in trepidante attesa, anche gli altri lo fanno, ma a differenza nostra hanno già una mezza idea di cosa significa la parte della sigla che io e Hendel non abbiamo riconosciuto.

La guardia si fa da parte e risponde a un collega attraverso il comunicatore di servizio, poi ci ordina di stare indietro e mostra – con un gesto disinvolto – la pistola appesa alla sua cintura. Superfluo, un po’ goffo, ma nessuno di noi ha comunque intenzione di tentare la fuga: fuori troveremmo solo altre guardie con l’ordine di sparare a vista.

Così, in silenzio, rimango anche io a osservare la porta fino alla sua apertura. La nuova arrivata indossa un paio di manette, il che è di per sé una bizzarria. Ma non questo a lasciarci senza parole.

Vestita di tutto punto, con riccioli castani che le ricadono morbidi sulle spalle, la donna più importante della Prima Unione guarda dentro e conta a bassa voce i presenti. Il solo fatto che la dottoressa Phelia Brosch, Rappresentante della Prima Unione, si trovi qui, in questo momento, mi toglie il respiro.

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L’ultima volta che mi sono ritrovata nella stessa stanza con lei è stato in tribunale. Di certo non è stata la migliore delle occasioni.

Mia madre aveva un video del giorno in cui ci consegnarono i resti di mio padre in una solenne cerimonia pubblica: lo guardavamo spesso assieme perché capissi l’importanza del sacrificio che mio pare aveva compiuto. Era l’unico modo che avevo per sentirmi vicina a un uomo che non ho mai conosciuto.

Tra i vari commenti dei commilitoni, commossi fino alle lacrime per il suo atto d’eroismo, c’era anche quello della dottoressa Brosch; ricordo molto bene il suo discorso in onore dell’uomo che aveva dato la propria vita per rendere possibile il sogno dell’Unificazione. Era bellissima, maestosa, incredibilmente elegante. A occhio e croce credo abbia l’età di mia madre, ma sono certa che sia più grande, dal momento che già ai tempi della guerra aveva un incarico governativo prestigioso. Se fosse possibile direi che questa donna non è invecchiata d’un solo giorno.

So che ha una laurea in legge e che l’Accademia Reale Internazionale delle Scienze Unitarie le ha conferito dei riconoscimenti in alcuni campi che hanno a che fare con il suo lavoro di teorica del diritto. È stato il suo studio sulla creazione di governi unificati a dare inizio alla Guerra per l’Unificazione. Ancora oggi preferisce essere chiamata dottoressa, un modo come un altro per assicurarsi che nessuno si dimentichi del ruolo che ha avuto sin dall’inizio.

A bassa voce la Brosch ringrazia le due guardie che l’hanno scortata e viene a sedersi accanto a me, tra le facce impietrite dei presenti. Accenna un sorriso distaccato, poi lancia un’occhiata distratta all’orologio.

Si rivolge a me, un brivido mi corre lungo la schiena. Stringe i grandi occhi blu sino a ridurli a due fessure scure, il gesto le fa arricciare lievemente il naso. Immagino si stia prendendo gioco di me. «Sei piuttosto giovane, signorina. Abbiamo iniziato presto oggi?»

Mi ci vuole un po’ più di tempo per capire ciò che ha detto. Comprendo la sua perplessità. Il mio corpo si sviluppa molto più lentamente di quello dei miei coetanei. È così dal momento della mia nascita. Hendel è già un uomo, con tanto di barba e voce profonda, io invece ho ancora il fisico di una bambina di dieci o dodici anni al massimo, con ginocchia sporgenti e movimenti sgraziati.

La domanda della dottoressa era retorica, sa bene che se oggi mi trovo qui è perché sono già maggiorenne. «Hai un viso familiare. Ci conosciamo?»

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Come molti puristi inglesi, parla con distacco. Ha un’espressione serena, fredda, la stessa che esibirebbe in una sala da tè in compagnia di vecchi amici. «Io… lei ha tenuto un discorso al funerale di mio padre, si chiamava… era Leighton Winter. Ed era presente al mio processo.»

«Ah… » ammicca e solleva entrambi i polsi, mostrandomi le manette con aria divertita. «La giovane Calliope Winter. Ti stringerei la mano, ma a quanto pare non è proprio il mio giorno fortunato.»

E io vorrei ricambiare il sorriso, ma non ci riesco. A quanto pare siamo sulla stessa barca.

Hendel ci osserva in silenzio da lontano, ha un’espressione dura e carica di biasimo. Riponevamo molte speranze in lei e credo lo facessero anche le nostre madri. So che chiesero il suo intervento come mediatrice; dieci anni fa ricopriva la carica di Segretario nella Commissione Giudiziaria, questo doveva pur contare qualcosa. Una sua parola avrebbe potuto fare la differenza.

Ma Phelia Brosch ha preferito tenersi alla larga da questa storia, finché ha potuto.

«Credo» inizia lei a bassa voce, costringendomi ad avvicinarmi per sentire, «che il mio arrivo oggi sia una bella coincidenza, non trovi? Tra tanti, non mi sarei mai aspettata d’imbattermi proprio nella figlia di Leighton. È singolare.»

«Non mi sento poi tanto fortunata» esito. Ha una voce profonda e gradevole, un accento affascinante, come ogni buon inglese che si rispetti. In qualche modo riesce a infondermi una certa calma. Il tempo si è fermato nell’istante in cui ha messo piede nella stanza, adesso l’esecuzione non è che un evento lontano, forse persino irrealizzabile. «Sa, sto per essere giustiziata.»

«Siamo in due!» risponde e ride di gusto, un suono profondo con note morbide che si propaga nella stanza.

Mi soffermo a osservare i suoi occhi. Non credo di averne mai visti di simili: lo stesso colore dell’acqua dei laghi del nord, guardando meglio ho l’impressione che le sue iridi siano come degli specchi. Si tratta soltanto di un gioco di luci e ombre, è un po’ come proiettare di notte un fascio di luce sugli occhi di un gatto.

Ad ogni modo, non è soltanto il colore ad attirare la mia attenzione: c’è qualcosa di antico, di saggio, che difficilmente avrei colto se non fossimo state tanto vicine.

23

La voce del giudice Sonith irrompe prepotentemente tra le pareti imbottite della stanza attraverso gli altoparlanti. La guardia scatta involontariamente sull’attenti. Accorgendosi di ciò che ha fatto, arrossisce lievemente. I falsi specchi tremolano: dall’altra parte devono aver già preso posto gli uomini e le donne accorsi per godersi lo spettacolo. Georgina, più nervosa di prima, si morde le unghie e dà una rapida occhiata all’orologio che segna dieci ore e venti minuti. Gli altri due ragazzi sollevano gli occhi al soffitto, pallidi e smunti come chi non dorme da settimane. Non è ancora arrivato il nostro momento.

«Attenzione. A causa di un malfunzionamento dei macchinari, le esecuzioni di oggi saranno rimandate di un’ora. Avrete la possibilità di recarvi nelle sale adiacenti per parlare con i vostri familiari un’ultima volta. Il vostro responsabile provvederà a scortarvi.»

La Brosch sogghigna e nasconde il viso dietro le mani solo dopo essersi accorta che tutti la osservano. «Senti la sua voce!» bisbiglia e indica l’altoparlante con un cenno del capo. «Quell’uomo ha tentato di modificare molte cose, ma non riesce ancora a separarsi dal suo ridicolo accento scozzese!»

La battuta sull’accento diverte solo i due fratelli silenziosi, che ridacchiano nel loro angolino isolato.

La dottoressa tenta di lisciarsi le pieghe della gonna, ma le manette rendono i suoi gesti goffi e lenti. Credo che sia il suo modo di distogliere l’attenzione da quanto ha appena detto. «Ai miei tempi non giustiziavamo i bambini. In realtà non giustiziavamo proprio nessuno»

«Tecnicamente siamo tutti maggiorenni qui dentro.»Mi pento praticamente subito di ciò che ho detto. È stato ineducato da

parte mia, adesso mi aspetto una risposta a tono. Ma la dottoressa si mostra ancora una volta molto paziente e agita la mano per minimizzare l’accaduto. Non è la prima volta che un adulto mi tratta con condiscendenza.

Ricordo che avevo cinque anni (avevo da poco iniziato la scuola) e la mia insegnante, chiaramente d’origine inglese, mi fece parlare della mia famiglia. Per un po’ andò tutto bene: volle sapere dove vivevo, se mi piaceva la scuola, che lavoro faceva mia madre. Poi mi chiese di mio padre. A quel punto entrai nel pallone: come potevo parlare di lui se non lo avevo mai nemmeno incontrato? Feci la prima cosa che mi passò per la testa: mentii. Spudoratamente. Mi inventai una serie di storie su lui e il suo lavoro – era un pittore, dissi – poi sulle estati in campeggio.

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Subito dopo, il disastro. La maestra mi chiese quale fosse il nome di mio padre, ma io non seppi rispondere. Gli altri miei compagni scoppiarono a ridere, mi puntavano contro i loro indici sporchi di colore e mi chiamavano orpan, un termine che avevano iniziato ad attribuire agli orfani della Prima Unione. Credo che in realtà si trattasse di un’errata pronuncia del vecchio termine inglese orphan; proprio come accade per il mio cognome, un’errata pronuncia che è finita per privarmi della mia identità. Un orpan non è un orfano da compatire, è solo un figlio incapace di soffrire per l’assenza dei propri genitori.

La mia insegnante mi rivolse lo stesso sguardo di Phelia Brosch oggi e, con quella sua voce carezzevole, mi disse che non era un problema dimenticare un nome. Non capiva per quale ragione i miei compagni continuassero a ripetere quella parola; per lei sono rimasta la bambina un po’ stupida che non ricordava il nome del padre pittore.

Cosa avrebbe detto la dottoressa Brosch a quella bambina, la più piccola della classe che fatica ancora a coordinare i movimenti e tenere la lingua a freno?

Contro ogni previsione, decide di trattarmi da adulta. «Posso chiederti di rinfrescarmi la memoria e dirmi quanti anni avevi il giorno del processo?»

«Otto, compiuti un paio di mesi prima.»«Quindi» di nuovo si china in avanti, «ti stanno giustiziando per un

delitto commesso da piccola. E, segui il mio ragionamento, non è forse come giustiziare qualcuno di otto anni? Il fatto che tu ne abbia compiuti diciotto, e che quindi sei un’adulta agli occhi della società, è una questione puramente semantica.»

«Ma non è esattamente semantica, no? Se lo fosse la legge sarebbe sbagliata.»

«E tu non credi che lo sia?»«Dove vuole arrivare?»«Non preoccuparti» mi dice. «Il lato positivo di trovarsi in questa

situazione è che puoi dare voce liberamente ai tuoi… pensieri pericolosi senza dover temere le ripercussioni.»

«Forse» le concedo, ma non mi fido ancora di darle una risposta secca. «Però è così perché qualcuno l’ha deciso, non importa quanti anni avessi all’epoca.»

«Oh, bambina mia, credimi: lo so molto bene.»Lo sa davvero?

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Ha un odore che stento a riconoscere, ma è piacevole. Mi ricorda la fragranza delicata dei fiori di campo, con una nota elegante ed esotica. Immagino che il profumo venga venduto in boccette costose, solo in negozi di Londra ben precisi.

È strano, lo so, ma questo odore mi riporta alla mente mia madre. Non amava i profumi ma le piacevano i fiori. Una delle più nitide immagini che ho di lei è in giardino, china su un cespuglio di rose con addosso una camiciola dalle maniche ampie e margheritine ricamate sull’orlo. Mi manca così tanto…

Ai prigionieri non è permesso comunicare con l’esterno né ricevere visite. Dicono che i condannati a morte rinunciano a parte dei loro diritti nell’istante in cui vengono giudicati colpevoli. Io mi sarei accontentata di vedere mia madre anche soltanto un’unica volta nel corso della prigionia, o di ricevere una sua lettera. Compleanno dopo compleanno mi sono chiesta se stesse pensando a me, se si fosse risposata o avesse avuto altri bambini. Sono persino arrivata a chiedermi se fosse ancora viva.

Mi sarebbe bastata una risposta.In questo momento la Brosch mostra interesse nella mia condizione

come non credo abbia fatto nei mesi che hanno preceduto il processo. La sentenza, dopotutto, riporta anche la sua firma.

Leggo nell’espressione di Hendel la mia stessa perplessità. Ma una delle grandi differenze tra noi è che riesco a ignorare quella parte di me che vorrebbe urlarle contro ogni genere di improperi, lui non può trattenersi – è fisiologico. Il ritmo della sua gamba è più frenetico di prima.

Stringe i pugni tanto da far sbiancare le nocche, in netto contrasto con i palmi arrossati dove sono ben visibili i solchi lasciati dalle unghie.

Hendel si alza, muove qualche passo, poi torna a sedersi. Ripete l’azione n paio di volte finché la dottoressa decide di degnarlo della sua attenzione. «Ho forse detto qualcosa che ti ha infastidito, caro?»

«Lei… » Hendel emette un verso sprezzante. «Vuole davvero sapere cosa mi dà fastidio?»

«È quello che ho chiesto, sì.»«Hendel, lascia stare.» La mia è una supplica accorata. Non voglio

trascorrere le mie ultime ore di vita in questo modo.La Brosch mi rivolge un’occhiata di rimprovero. «No, signorina, lascia

che si sfoghi. Voglio sentire cos’ha da dire. Ma forse sperava che gli negassi questa possibilità» il suo viso è privo d’espressione, mette soggezione.

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«È più facile accusare qualcuno di ostracismo che difendere le proprie opinioni. Ne convieni, signor Dahl?»

Hendel si sofferma per un attimo sul significato di ciò che gli è stato detto. Abbassa lo sguardo e tutto si direbbe sul punto di concludersi. Poi torna a fissare la dottoressa, rosso in viso per la rabbia – o forse per l’imbarazzo. «Parla di ingiustizia per quanto è accaduto a me e Calliope e mi dà del codardo… ma non mi sembra che lei abbia fatto granché per impedire questa esecuzione, così come non ha mosso un dito per impedire le altre e fermare questa pagliacciata. Ovviamente, non finché non è stata tirata in mezzo!»

Phelia Brosch ascolta con molta attenzione. Lei e Hendel hanno gli occhi di tutti puntati addosso, ma sono troppo presi dalla discussione per accorgersene. «Siediti, signor Dahl» dice. Quando Hendel si rifiuta di farlo lei è costretta ad alzarsi. È molto alta, quasi quanto Hendel. Qualcosa nella sua posa, tuttavia, dà l’impressione che lo sovrasti. «Mi piace guardare negli occhi il mio interlocutore, non volevo darti un ordine.» Spiega. «Come ricorderai, ero presente il giorno del processo. Non so quanto bene conoscete le leggi Unitarie, tu e la tua giovane amica, ma non lasciano molto spazio alla filantropia. Indubbiamente voi due eravate gli imputati più adorabili che avessero mai varcato quella soglia, ma i capi d’accusa a vostro carico erano molto seri. Se sono rimasta in silenzio quel giorno? L’ho fatto. Questo perché non erano il luogo e il momento adatti. Ho lottato per impedire questa esecuzione nell’unico modo che sapevo essere sicuro, senza aver bisogno di sollevare un polverone e poi allontanarmi nel momento in cui la situazione fosse diventata troppo pericolosa… e guardate dove sono adesso.» Rivolge a Hendel un sorriso privo d’allegria. «Essere giovani e pensare che tutto giri attorno a noi, senza mai chiedersi se non ci sia dell’altro nell’universo. Non pretendo d’essere compresa e non sono qui per scusarmi» guarda tutti nella stanza, «con nessuno di voi. L’ufficio arriva col suo bel carico di responsabilità e sarei davvero curiosa di scoprire se le tue spalle sono più larghe delle mie, ma non lo sapremo mai.»

Hendel respira a denti stretti, l’aria che vi passa attraverso si trasforma in un sibilo acuto. Sa di non poter controbattere e la cosa lo fa letteralmente impazzire; guarda me in cerca di supporto, poi Victor Achilles. Forse non siamo abbastanza coraggiosi o forse le argomentazioni di Phelia Brosch sono fin troppo valide, perché nessuno dei due ha voglia di spalleggiarlo.

27

La dottoressa torna alla panca, per un po’ l’unico rumore è quello dei suoi tacchi sulle mattonelle bianche che riecheggia nella stanza. «È stato un vero piacere conversare con te, signor Dahl.»

La frase suona come una vera e propria presa in giro. Attendo col fiato sospeso la reazione di Hendel che, piuttosto, preferisce allontanarsi e si chiude in un silenzio ostinato molto infantile. Beh, capisco come deve sentirsi dopo la brutta batosta che ha preso.

Il tempo riprende a scorrere rapidamente e in men che non si dica ci viene servito il nostro ultimo pasto. Tutti noi ci siamo più o meno abituati alla poltiglia grigiastra iperproteica che servono nelle strutture detentive. Non la Brosch, che annusa il contenuto della scodella e storce il naso. «Disgustoso.»

«Il trucco è mandarla giù tutta senza farla passare dalla lingua» le spiego. «Col tempo ci si abitua.»

«Allora devo ritenermi fortunata che questo sia soltanto il mio ultimo pasto.»

Allontana la scodella. Hendel si avvicina e indica la sbobba. «Le dispiace?»

«Oh, no, abbuffati pure!»Hendel muove le labbra per articolare la parola “snob” nel momento

in cui la dottoressa guarda altrove. La cosa riesce a strapparmi un sorriso. Se Phelia Brosch fosse cresciuta come noialtri adesso non farebbe tante storie per il cibo.

Prima di venire a portare via ciò che abbiamo usato per mangiare, una voce proveniente dall’altoparlante chiama i nostri nomi uno a uno. Le visite dei parenti stanno per avere inizio.

La sorellina di Victor lo aspetta nella sala in fondo al corridoio, i genitori di Maurice e Lionel si trovano al terzo piano. Il marito di Georgina è già nella sala grande (ed è dopo aver sentito questo che la Brosch rettifica l’informazione che mi era stata fornita da Hendel: Georgina non ha ucciso il fratellino, bensì il figlioletto di due anni).

Aspetto soltanto di sentir pronunciare il mio nome, non vedo l’ora di riabbracciare mia madre. Persino l’idea dell’esecuzione adesso fa meno paura.

«Hendel Dahl» la guardia gli indica la porta con un cenno del capo. «Vivi Dahl, stanza otto.»

«C’è anche mia madre? Si chiama Anna Winter.»

28

«Cara… » la Brosch tenta di stringermi una mano ma il movimento viene reso goffo e lento dalle manette.

«Mi dispiace, per il momento è tutto.»Hendel viene trascinato fuori di peso, non vuole lasciarmi. La porta si

richiude con un tonfo. Non posso crederci. È come se tutta l’aria fosse stata risucchiata

improvvisamente dalla stanza, come se… come se… «Da’ dei profondi respiri. Stai avendo un attacco di panico.» La

dottoressa solleva lievemente un sopracciglio, la sua espressione è rimasta invariata. Come ci riesce? Come può fingere che nulla di tutto questo stia accadendo? «Respira.» Ripete. E questa volta è un ordine.

Faccio come mi ha detto. Respiri profondi. Dentro, fuori, conto fino a dieci a occhi chiusi. Nel frattempo sento il mio cuore rallentare. Inizio a rilassarmi quando le lacrime mi rigano le guance. Mi asciugo con una manica, non voglio piangere.

La Brosch si porta entrambe le mani al petto e stringe il ciondolo argentato di una collana dalla catena sottile. Mia madre ne aveva una simile, era un cimelio di famiglia, uno di quelli che all’interno contengono vecchie fotografie non digitalizzate. Il costo di una foto su pellicola è altissimo, un lusso che solo in pochi possono permettersi.

Nota il mio interesse. Non riesce a nascondere una certa nostalgia. «Potresti aprirlo per me? Con queste manette non riesco a fare praticamente nulla.»

Mi porge il ciondolo. È ovale, così brillante e delicato con motivi floreali incisi sopra. «Non ne vedevo da tempo.»

«È un bucaneve, simboleggia la speranza. Regalai questo ciondolo a mio figlio quando partì per la guerra.»

Suo figlio è stato in guerra? La donna che ho davanti non può avere più di quaranta, forse quarantacinque anni e sono già trascorsi quindici anni dall’armistizio.

All’interno del ciondolo c’è una fotografia della dottoressa, giovane e sorridente, con in braccio un bambino dai capelli scuri. Aveva i suoi stessi occhi. «Perché non è venuto a salutarla?» non risponde. Mi rivolge uno sguardo talmente cupo da straziarmi il cuore, è chiaro che sono stata troppo indiscreta. «Non volevo… »

«Va bene, non preoccuparti. Mio figlio è morto molti anni fa. In Serbia.»«Come mio padre.»

29

«Sì, come tuo padre.» Ripete e il suo sguardo si fa, se possibile, ancora più cupo.

Tutto inizia ad avere un senso, a partire dal discorso che ha tenuto al funerale di mio padre. Suo figlio era un soldato o un ingegnere, forse un amico.

«Sono stata una pessima madre» mi dice senza ombra di vergogna nella voce, distante come una semplice osservatrice. «Lui era arrabbiato con me perché non avevo tempo di ascoltarlo. Così, un giorno, mi ha costretto a farlo… ma era troppo tardi. Lui era un uomo e aveva preso una decisione, io potevo supportarlo o lasciarlo andare. C’erano tante cose più importanti a cui pensare, e so che col tempo avrebbe capito, ma all’epoca non fu così.»

«Ed è partito per la guerra.»«Esatto. Volevo che sapesse che ero dispiaciuta, Ho detto – e fatto –

cose orribili, ma non volevo… » sospira, le tremano entrambe le mani. «La guerra era un’incognita. Entrambi amavamo le statistiche e sapevamo quanto alti fossero i rischi. Perciò andai personalmente a Donje Tlamino per consegnargli il ciondolo, ma sapevo che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro» scuote piano la testa, come per allontanare un brutto ricordo. «Certe volte ho l’impressione di aver dimenticato il suo viso, ma non il momento in cui gli ho detto di andar via. Eppure… più lo rivivo e più diventa surreale.»

Ho riaperto una vecchia ferita, mi sento in colpa per questo. Lentamente sta venendo fuori un po’ di umanità; nella mia mente avevo un’immagine di Phelia Brosch piuttosto chiara, per me era come… non saprei nemmeno come definirla. Implacabile. Invincibile. Questo però non le impedisce di soffrire come tutti noi.

Non voglio morire…Manca poco tempo. La paura che provavo alcune ore fa è tornata a

divorarmi da dentro. Il mio più grande rammarico è quello di non aver potuto salutare mia madre un’ultima volta.

Forse è meglio così, forse non avrebbe saputo dirmi addio, di nuovo.Oppure…C’è una parte di me, una piccola ma insistente vocina nella mia testa che

sostiene che mia madre non è qui perché in realtà ha accettato da tempo la mia condanna. È andata avanti. Venire qui oggi sarebbe stato da ipocrita, certe cose non si possono nascondere, non alla propria figlia. Forse mi ha voluto risparmiare un’ultima inutile sofferenza.

30

La immagino seduta su una poltrona del salotto buono intenta a spazzolare i capelli di un’altra bambina, una principessina dagli occhioni azzurri, tutto ciò che aveva sempre desiderato. Una vera famiglia, non la vita piena di tristezza e solitudine che io e mio padre l’abbiamo condannata a vivere.

Tutto ciò che ho sempre desiderato era una seconda occasione.La Brosch si muove sulla panca per avvicinarsi. Premo la guancia sulla

sua spalla, lei tenta di accarezzarmi i capelli ma rinuncia subito. «Andrà tutto bene, Calliope.»

«Dicono che… dicono che sarà veloce. Secondo lei è vero?»«Oh, cara… no, cielo, no. Temo non sia vero. Ho assistito a tante

esecuzioni – troppe, se me lo chiedi – e tutti hanno urlato come dei disperati» spiega. Non so se esserle grata per l’onestà oppure lasciarmi prendere dal panico. Mentre gli occhi iniziano a bruciarmi e la gola si stringe dolorosamente, la dottoressa prosegue. «Però lascia che ti dica una cosa. Conosci il detto thaphe seler vegheral1? So che dopo così tanto tempo deve suonare come una semplice frase fatta, ma talvolta la vita ha in serbo per noi qualcosa di talmente inaspettato da avere del miracoloso.»

«Non possiamo impedire l’esecuzione.»Esita. Sento che sta per dire qualcosa d’importante, ma rinuncia non

appena i suoi occhi incontrano quelli severi della guardia che ha sostituito la precedente. Si tratta di un uomo dall’espressione burbera e il volto segnato da numerose cicatrici, non ha mai smesso di fissarci da quando è entrato.

«Giusto» sussurra. «Non da questa stanza.»Le restituisco il ciondolo e torno a osservare l’orologio. Adesso il

momento di sconforto è passato e posso tirare un sospiro di sollievo: l’attesa sta per finire. Credo davvero che si tratti di una liberazione, a questo punto, perché negli ultimi dieci anni mi sono sentita più una bestia da macello che una persona.

Ricevevamo vitto e alloggio, tre pasti al giorno, medicine per tenerci in salute, ma nulla di più. Niente istruzione, niente giocattoli. Ogni mese potevamo prendere in prestito dei libri, tutto ciò che so lo devo ai vecchi tomi scolastici di Billy Higgs, talmente stupido da non saper scrivere il proprio nome. Il lato positivo è che i testi erano praticamente nuovi.

1 In inglese Unitario: “la speranza è l’ultima a morire”, letteralmente “la speranza vive eterna”.

31

Tra meno di un’ora sarà tutto finito. Dirò addio a questa… vita, se così la si può definire, guardando per l’ultima volta il sole che tramonta. Dicono che ogni sala per le esecuzioni ha una finestra.

Inizialmente penso stia parlando tra sé, ma ho notato che la guardia ha mosso qualche passo verso di noi come per ascoltare. L’uomo emette un verso gutturale e dà degli ordini a un sottoposto attraverso il comunicatore di servizio.

«Calliope» mi dice la dottoressa senza smettere di guardare l’uomo con le cicatrici. «Ascoltami bene. Non è finita finché non siamo noi a deciderlo. Tienilo a mente.»

Le sto per chiedere cosa vuol dire ma vengo distratta dall’ingresso della guardia più giovane nella sala d’attesa. «Dobbiamo andare.»

Phelia Brosch mi tiene ancora per mano, non sono pronta a lasciarla. La guardia con le cicatrici mi solleva rudemente e mi spinge verso la porta. Il tempo sta per scadere e io sono ufficialmente ciò che in gergo qualcuno chiamerebbe “morto che cammina”. Non ha più senso mostrarsi gentili nei miei confronti.

«Andrà tutto bene, te lo prometto.» Phelia Brosch stringe ancora il ciondolo del figlio tra le mani tremanti, l’espressione sul suo viso è la stessa che mi ha rivolto mia madre quando mi hanno condannata.

Attraverso il corridoio dalle pareti grigie e sento le forze venir meno. Un passo. Mi sto avvicinando al patibolo. Un altro passo. Mia madre non è venuta a salutarmi.

Il rumore delle suole, la gomma che scricchiola sul pavimento metallico, il respiro si fa più affannoso un gradino dopo l’altro sull’unica rampa di scale che porta ai piani delle esecuzioni.

Qualcuno piange e implora perdono, un altro maledice il mondo. Sento voci di uomini e donne molto più grandi di me, persone che non ho avuto modo di incontrare ma che oggi condividono con me molto più di chiunque io abbia conosciuto in passato.

La giovane guardia si ferma davanti a una porta con i numeri 402 dipinti in nero. Il pannello si attiva al tocco del mio aguzzino e la stanza, l’ultima che vedrò, mi accoglie nel suo ventre color mogano.

Al centro c’è una poltrona con delle manette d’acciaio sui braccioli imbottiti. La guardo solo per un istante perché la mia attenzione è rivolta all’ampia finestra sul mare del nord tinto dei colori del tramonto, così vicino eppure così lontano.

32

Il rosso e l’arancione rendono i flutti minacciosi e rassicuranti al tempo stesso, attraverso il vetro sottile riesco a sentire le strida dei gabbiani che planano sulla superficie per catturare le ultime prede della giornata.

Osservo le nuvole, cotone candido su un cielo sempre più scuro. E lì, poco sopra, una stella: è di un azzurro freddo, così luminosa e bella, solitaria. Avevo dimenticato quanto mi piacesse da piccola starmene seduta all’aria aperta a osservare quelle centinaia di migliaia di luci accendersi una per volta.

Pacifico, senza paura. Casa.Mi si stringe lo stomaco se penso che questa è l’ultima volta.«Il tempo non è ancora scaduto. Potrei… potrei avere un attimo?»«Va bene.»Mi avvicino alla finestra e premo il viso contro il vetro, sento il calore

trasferirsi sulla mia guancia e sulla fronte; i versi dei gabbiani si fanno sempre più distanti. Darei qualsiasi cosa per andare lì fuori, sentire l’odore dell’oceano.

Non l’ho mai sentito. Non è come quello dell’acqua che ristagna nei laghi, l’ho sempre immaginato come qualcosa di selvaggio e vivo. Mutevole, in qualche modo.

«Devi sederti, siamo pronti.»Mancano due minuti. Mi rendo conto solo ora di non aver detto addio a Hendel. Non gli ho

mai chiesto scusa. L’ho accusato aspramente di quanto è accaduto, come se in questa storia io fossi l’unica vittima, dimenticandomi che anche lui adesso si trova su una poltrona con costrizioni metalliche sui braccioli.

Mi metto a sedere, le manette si stringono automaticamente attorno ai miei polsi e attorno alle caviglie. Ho bisogno di vomitare.

Perché deve finire in questo modo? Perché proprio io? Che ho fatto di male?

00:00:59

La guardia si posiziona al mio fianco, tra le mani tiene una siringa con un ago quasi invisibile. Controlla l’orologio, esattamente come faccio io. Dev’essere la sua prima esecuzione perché trema e mi lancia occhiate terrorizzate.

33

Ho sempre creduto che per le persone come lui uccidere fosse, in qualche modo, soddisfacente. Mi sbagliavo.

«Venti secondi.»Il mio cuore inizia a perdere battiti. Se non mi uccide l’iniezione forse

sarà un infarto a farlo.Dicono che è indolore, ma mentono. Farà molto male.«Quindici secondi.»Non riesco a pensare ad altro che a mia madre. Sto piangendo sebbene mi fossi detta di non farlo per nulla al mondo.A conti fatti, non ha più alcuna importanza.«A tutte le guardie dei settori 4 e 5. Iniziare con la procedura.»La guardia mi fa piegare il collo da un lato e posa l’ago delicatamente

sulla pelle. Mancano cinque secondi. Quattro. Chiudo gli occhi, gli ultimi tre secondi sono sempre i peggiori.

00:00:01 «Andrà tutto bene, Calliope» sussurra la guardia. «Sarà come

addormentarsi. Chiudi gli occhi, andrà tutto bene.»Sento l’ago bucare la pelle del collo, brucia un po’, solo per qualche

istante, ma ciò che sento dopo è una piacevole sensazione di tranquillità e buio. Caldo come l’abbraccio di mia madre. «Sì… » piano piano scivolo via, e la bocca non riesce più a tenere il passo dei miei pensieri. «Stanca sarà come… »

35

Ho otto anni, cammino sulla spiaggia. Ciottoli lucidi e neri sotto i piedi nudi, umidi, aria pungente sul viso. A ogni passo sento il rumore delle pietre che sfregano le une contro le altre, come le biglie che ho nel sacchetto. Me le ha regalate Hendel, sa che mi piacevano quelle che teneva nel barattolo, proprio sopra la sua scrivania; un gran numero di sfere perfette e tintinnanti che non avrei comunque mai utilizzato per giocare. Mi piace osservarle, contarle, catalogarle, ma non ho ancora deciso in che ordine.

Rincorro l’aria, quella impagabile sensazione di libertà che solo una gonna svolazzante riesce a dare in momenti come questo. Urlo a squarciagola, sento una risata nascermi nel petto, poi un’altra voce si unisce alla mia. E lì, arrampicato su uno dei rami più alti di un vecchio olmo, con le ginocchia sbucciate e le scarpe slacciate, Hendel si prende gioco di me, affermando d’essere il re del mondo.

Nessuno potrebbe arrivare più in alto di lui, di questo è certo. Si aggrappa alla corteccia con le dita arrossate, le unghie scavano e lasciano solchi profondi a segnare il percorso fino alla cima. Si volta per sogghignare. Continuerà a salire finché non sarà davvero in grado di toccare il cielo.

Lui ha sempre guardato più in alto di me. Più un obiettivo era difficile da raggiungere e più facilmente questo avrebbe attirato la sua attenzione. La sfida era essa stessa il premio finale.

Hendel è il ritratto della felicità, o almeno lo sembra da quaggiù. Nessuno immagina cosa nasconda quel sorriso furbo, un po’ storto, tipico dei ragazzini della sua età.

Perché non dovrebbe farlo?Non che mi importi davvero trovare una risposta. Rimarrei qui in

eterno se ne avessi la possibilità.

36

…rivedo Hendel arrampicarsi……a tutti i responsabili……e ride, agitando le mani……la massima priorità……mentre risuona assordante una sirena che distrugge, un pezzo

alla volta, il mio piccolo angolo di paradiso. Hendel non c’è più, il lago ha assunto adesso lo stesso colore della pece che risale come un essere strisciante fino al cielo, chiudendomi in una scatola nera e fredda senza alcuna via d’uscita.

Andrà tutto bene.Il suono della sirena si mescola ad altri rumori distanti. Urla, ordini

incomprensibili e raffiche di proiettili che si interrompono solo quando si conficcano nelle pareti o trovano qualcuno a intercettarli. E le urla diventano più vere, così come la sensazione di formicolio che mi si insinua sotto la pelle.

Sta accadendo davvero?Il formicolio si trasforma in un bruciore che raggiunge la guancia, il

fastidio si trasforma in dolore, poi in consapevolezza: sono ancora viva. Lo percepisco nelle ossa, lo sento nel freddo delle manette che mi stringono i polsi per non farmi muovere, e lo inalo, lo respiro, l’odore forte della mia stessa paura e quello delle armi da fuoco.

Poi… fiori, con una nota esotica rassicurante e familiare… «Calliope» una carezza delicata accompagna quella voce. Vorrei dire

qualcosa ma ho l’impressione di trovarmi in uno di quei sogni in cui ti senti talmente stanca da sperare di addormentarti anche lì. «Devi svegliarti, Calliope. Non abbiamo tutto il giorno.»

Sento il rumore prima del dolore alla guancia. Non posso credere che mi abbia dato uno schiaffo!

«Dottoressa Brosch» la seconda voce è altrettanto familiare, appartiene a un uomo abbastanza giovane. Sentirla mi fa stringere lo stomaco. «Non possiamo restare qui, è troppo pericoloso. Dobbiamo muoverci.»

«Lo faremo soltanto con Calliope, Amirmoez. Adesso smettila di tremare come una ragazzina e portala fuori di qui. Non ho messo a repentaglio la mia incolumità per andarmene a mani vuote.»

Un lungo silenzio.«Sissignora.»Cosa sta succedendo?

37

Phelia Brosch è riuscita a liberarsi e, per qualche strana ragione, io non sono ancora morta. Vuole portarmi via con sé.

Mi sfuggono dei versi gutturali, come se bocca e cervello non fossero più collegati. Sento la lingua gonfia, la gola secca e dolorante. Sono viva perché l’ha voluto qualcuno o si tratta di una situazione momentanea?

Dopo molti sforzi, riesco ad aprire le palpebre; tutto ciò che vedo è solo un insieme di ombre sfocate e mani che si tendono verso di me per afferrarmi. Somigliano ad artigli metallici, la morsa è talmente potente da farmi male. Le manette si aprono con uno schiocco e io mi ritrovo a fissare il pavimento con le braccia che penzolano nel vuoto.

Premo il viso contro la spalla del mio soccorritore, il tessuto della giacca è rigido con una nota aspra tipica del lucido per pelle. Mi viene da pensare alle divise militari perché qualcosa di simile a una spilla mi graffia la guancia.

La luce diventa abbagliante e le ombre lasciano il posto a immagini più nitide, abbastanza da permettermi di riconoscere il corridoio del piano delle esecuzioni, così pacifico appena un attimo prima dello scadere del conto alla rovescia… e adesso pieno di guardie urlanti e uomini e donne in tute grigie che combattono per salvarsi la vita.

Vita.Urla disperate seguite da altre più ferali, risate che ben poco hanno

d’umano, imprecazioni e suppliche che vengono fuori dalle bocche di persone che, fino a poche ore fa, ne erano destinatari indifferenti.

Ci sono diverse persone attorno a me, sono tutti armati e indossano divise nere prive di segni identificativi; eccezioni sono il ragazzo che mi sta trasportando in spalla e un uomo con in mano un fucile. I due indossano le divise della struttura detentiva.

Vedendoli, alcuni dei prigionieri che sono riusciti a liberarsi li assalgono con ferocia. Usano mani e piedi e ogni oggetto a loro disposizione. I versi che escono dalle loro bocche mi fanno raggelare. I soldati li respingono senza sparare un solo colpo, fino al momento in cui una donna con lo sguardo da invasata si getta sulla dottoressa Brosch fendendo l’aria con un pezzo di metallo affilato come un rasoio.

Un unico ordine da parte dell’uomo col fucile e, uno a uno, i rivoltosi cadono a terra in pozze rosse del loro stesso sangue.

Provo un’altra fitta allo stomaco seguita da un conato. Lotto per liberarmi dalla presa del ragazzo e cado in ginocchio sul pavimento, dove

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posso finalmente liberarmi le viscere. La bile mi brucia la gola, per un attimo non riesco più respirare.

Mi sento morire.Sento il ticchettio dei tacchi della dottoressa avvicinarsi, finché tutto

ciò che vedo sono le sue scarpe lucide che evitano attentamente la pozza del mio vomito. «È solo il tuo corpo che rigetta il sedativo. La dose era sufficiente a mettere fuori combattimento un adulto per una decina di minuti, forse avremmo dovuto darti un diverso dosaggio ma non avevamo la certezza di quale sarebbe stata la tua sala. Starai bene, te lo prometto, ma adesso ho bisogno che mi ascolti» mi afferra il mento e lo solleva, costringendomi a guardarla in faccia. Non riesco ancora a metterla a fuoco. «So che sei molto provata e che ti reggi a stento in piedi, ma devi provarci. Dobbiamo portarti fuori e abbiamo bisogno della tua collaborazione. Puoi farlo?»

«Non lo so… » rispondo in quello che deve suonare come un gorgoglio fiacco. Mi sento davvero male, non posso nemmeno sapere se il mio corpo mi ubbidirà o meno. Tento ancora di rimettermi in piedi, l’uomo con il fucile mi afferra dalla maglietta e mi solleva dal pavimento. Certo che non ricadrò faccia in giù, mi lascia andare.

«Nuovo ordine» dice lui in tono autoritario. «D’ora in avanti nessuno si fermerà. Portare fuori la dottoressa e la ragazzina è la nostra priorità. I feriti rimarranno indietro. Intesi?» c’è un attimo d’esitazione, poi gli uomini al suo seguito rispondono “sissignore” con enfasi. Tutti tranne il ragazzo in uniforme da guardia carceraria, Amirmoez. «Problemi, soldato?.»

«Che mi dice degli altri?» chiede. «Tra i prigionieri c’erano anche dei ragazzi molto giovani.»

Gli altri… Hendel potrebbe essere ancora vivo. Il mio cuore aumenta i battiti, mi toglie il respiro ma mi schiarisce la vista abbastanza da permettermi di vedere l’espressione truce sul volto della dottoressa Brosch. Riconosco l’uomo col fucile e il ragazzo, erano entrambi in sala d’attesa oggi.

Quindi avevano pianificato tutto a partire dal primo istante?«Se non sono già all’esterno» inizia l’uomo con le cicatrici, «allora

saranno già morti.»«Con tutto il rispetto… »«Sai dove puoi ficcartelo, il rispetto!» sbotta la dottoressa e il suo

accento si inasprisce, chissà se finora non si sia sentita obbligata a parlare

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con un’intonazione che non le appartiene. «Se vuoi rimanere indietro sei libero di farlo, ma prima esegui gli ordini del tuo comandante. Sei qui perché lui e i suoi uomini si fidano di te. Non voltargli le spalle solo perché te la fai sotto.»

«Si sbaglia.»Di nuovo, è il comandante a parlare. «Allora muoviti a portare il tuo

culo fuori di qui, soldato, e ricorda con chi stai parlando, se non vuoi che ti spari all’istante: non tollererò altre insubordinazioni nella mia squadra!» lo colpisce a un fianco in segno d’avvertimento. «E chiamala signora.»

«Signori… » sento una certa rabbia nella sua voce ed esitazione, immagino che stia facendo un immane sforzo per evitare di esplodere. Phelia Brosch è la Rappresentante della Prima Unione e, come tale, la sua parola conta più di quella di chiunque altro ricopra una carica governativa di grado elevato. In tempo di guerra i Rappresentanti possono essere insigniti di cariche da ufficiali, arrivando di fatto a comandare gli eserciti d’ogni stato dell’Unione d’appartenenza. Questo significa che ogni soldato qui è al suo servizio, compresi il comandante e il giovane Amirmoez, che sospira e china il capo, senza però mostrare la benché minima intenzione di fare retromarcia. «Signorsì, signore.»

«Veloci.»Muovo alcuni passi incerti, per poco non inciampo nei lacci delle scarpe

che strofinano sul pavimento. Amirmoez mi poggia una mano sulla spalla, ha un tocco gentile che cozza con l’immagine di un soldato armato fino ai denti. «Aggrappati al mio braccio. Se pensi di non farcela devi soltanto dirmelo.»

Stringo i denti per ignorare il dolore alla testa, man mano che avanziamo i miei pensieri diventano sempre più confusi. Il mio corpo segue il gruppo, reggendosi a stento sulle gambe malferme, ma la mia mente vola altrove. Torna sempre da Hendel, da lui che potrebbe essere ferito e aver bisogno del mio aiuto.

Dietro un angolo, nel punto in cui il corridoio principale viene attraversato da quello che porta alle aree detentive, la lotta tra prigionieri e guardie continua a infuriare. Un ragazzo molto magro ci passa davanti, si regge a stento, i suoi piedi scalzi lasciano impronte rosse sulle mattonelle, ma lui non ha ferite evidenti. Lo segue una donna in uniforme che, vedendo il nostro gruppo ben nutrito, pensa bene di fermarsi e sollevare le mani in segno di resa.

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Poi la raffica di proiettili. E la donna cade a terra.Il comandante dà l’ordine ai suoi uomini di prendere posizione, poi si

avvicina alla dottoressa per consegnarle la propria pistola. «Non dimentichi la sicura.» Le dice.

La dottoressa gli rivolge un’occhiata neutra. Le vedo prendere la mira e aprire il fuoco contro un uomo urlante armato di spranga. «Davvero divertente.»

Amirmoez e un paio d’altri soldati mi fanno da scudo, senza mai smettere di proteggere la posizione. Gli spari si susseguono e il numero di prigionieri caduti eguaglia quello delle guardie della struttura. Agli uomini della dottoressa Brosch non importa chi viene colpito, non finché devono portare a termine una missione.

«Dove diavolo è Ross?» un altro sparo. La dottoressa ha una mira formidabile per essere una semplice teorica del diritto. Ha già ucciso tre persone senza mostrare la benché minima esitazione. «Le avevo detto di disattivare questi maledetti allarmi!»

«Ci sta provando, signora.» Le risponde il comandante.«Non la pago per provare. Auttenberg!»C’è un momento di tregua e gli uomini ne approfittano per ricaricare.

Amirmoez è nervoso, gli ho visto mancare un paio di bersagli facili. Dalla sua espressione, però, mi viene da pensare che lo abbia fatto di proposito.

Il comunicatore del ragazzo gracchia. «Signora, è Ross.»«Mettila in vivavoce.»Dopo qualche scarica, un urlo eccitato esplode dall’amplificatore del

comunicatore. «Scusate il ritardo, ho avuto qualche problema ad abbattere le loro difese. Il loro me è in gamba» ride, la sua risata è chiara e squillante come quella di una ragazzina. «Dite alla dottoressa che attendo i suoi ordini. Siamo pronti da questa parte, potete portare le chiappe a casa.»

La dottoressa sospira. «Sono felice di sentire la tua voce, Rosalie.»Il comandante indica ai suoi uomini la tromba delle scale e gli ordina,

senza parlare, di andare avanti. Siamo rimasti solo noi quattro su questo piano. «Auttenberg» la voce del comandante è più rauca e profonda, «Stiamo venendo giù, probabilmente ci porteremo dietro qualcuno. Tieniti pronta ad aprire i rubinetti.»

«Ne è sicuro, signore?»Un solo istante d’esitazione in cui lui e la dottoressa si scambiano

un’occhiata eloquente. «Fallo. Punta il timer, tre minuti a partire da adesso.»

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«Ricevuto.»Per la prima volta vedo sul viso del colonnello il riflesso dell’espressione

di Amirmoez. La dottoressa gli posa una mano sulla spalla, le dita affondano nel tessuto lucido dell’uniforme da guardia. «Quando vuole, colonnello.»

«Amirmoez» il comandante si volta a guardare il suo sottoposto. «Passa avanti con la dottoressa e Calliope, raggiungete la squadra. Io mi assicurerò che nessuno ci segua.»

La Brosch non tenta nemmeno di nascondere il proprio dissenso; se da un lato ha fiducia nel comando del colonnello, dall’altro non permetterebbe ad Amirmoez di prendersi cura nemmeno del suo pesce rosso. E non ha bisogno di parlare, perché glielo si legge perfettamente in faccia.

Ingoia il disappunto, storce il naso come dopo aver assaggiato una brutta medicina, e si fa da parte. «Dopo di te.»

Ovunque mi giri vedo corpi di guardie che sono state sopraffatte dalla disperazione dei condannati a morte ora liberi. Molti sono giovanissimi, uno ha persino tracce di acne sul viso spigoloso. Sono ragazzini con pistole, mi dice la Brosch, questo perché la Commissione Giudiziaria per anni ha sguazzato nella propria arroganza, credendo impossibile ritrovarsi con una rivolta per le mani.

«Molti ragazzi scelgono di arruolarsi per un breve periodo, così da mettere in tasca qualche sterlina in più per gli studi» aggiunge Amirmoez. «Non tutti possono permettersi di pagare l’accademia o la PAMID. Poveracci, non doveva finire così.»

La dottoressa concede solo una rapida occhiata al cadavere del giovane ai suoi piedi prima di scavalcarlo. «Evitiamo di finire come loro. Le scale sono da questa parte.»

Non provare pena per loro, mi dico mentre scendo un gradino dopo l’altro con le gambe che tremano ancora a causa dell’anestetico. Quei tre che abbiamo visto cadere erano gli stessi che poche ore fa hanno portato via Hendel, Georgina e Victor. Quei tre erano gli stessi che li hanno legati alle poltrone per le esecuzioni e hanno iniettato loro il sonnifero, convinti invece di spingere nelle loro vene il liquido letale fornito dalla struttura detentiva. Eravamo come animali malati da abbattere. Se avessi potuto farlo, gli avrei chiesto quante persone avevano già ucciso in questo modo nel corso degli anni.

Il tempo stringe. Gli allarmi hanno smesso di suonare da poco e il rumore, sempre più debole, indica che lo scontro è arretrato fino ai

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meandri della struttura. Si direbbe quasi che i detenuti non abbiano mai avuto intenzione di andarsene da qui ma che, invece, fossero animati solo dalla sete di vendetta.

«Faremmo meglio ad aumentare il passo, non credi?» dice la Brosch senza aspettarsi davvero una risposta. «Due minuti.»

Amirmoez si ferma improvvisamente. Guarda indietro, aspettandosi di veder spuntare il colonnello da un momento all’altro, poi inizia a studiare una a una le porte delle celle rimaste bloccate. «Tutte quelle persone… »

«Sono qui per una ragione. Non pensarci nemmeno.»«Devo solo abbassare una leva. Voi andate avanti, io… »«Amirmoez, non osare.» Ma il ragazzo si è già allontanato. Sento la

Brosch emettere un verso frustrato. «Figlio di una… Baal, ha sentito?»«Sì, vado a prenderlo. Voi due raggiungete il luogo del rendez-vous.»«Mancano meno di due minuti.»«Ce la caveremo. Continuate a seguire il piano»La dottoressa si morde il labbro inferiore, un profondo solco le appare

sulla fronte, proprio tra gli occhi. «Dica a Ross di posticipare l’apertura delle condutture.»

«Signora, non è una buona idea.»«Il mio è un ordine, le sto dando la possibilità di impartirlo lei. Non mi

costringa a scavalcarla.»«Come vuole, signora.»La dottoressa mi afferra un braccio e mi strattona brevemente.

«Andiamo.»Per la prima volta da quando mi sono risvegliata trovo il coraggio di

chiederle cosa stia accadendo, ma la lingua non ha granché voglia d’essere collaborativa. Finalmente riesco ad articolare un qualche tipo di suono che, con molta fatica, si trasforma in una frase di senso compiuto. «Cosa accadrà… cosa vuol dire aprire i rubinetti?»

Mi studia attentamente per qualche secondo, poi scuote la testa piano. «A certe domande è meglio non dare risposta.»

Un brivido mi corre lungo la schiena, si arrampica fino all’attaccatura dei capelli e mi fa girare la testa.

Forse non è solo ciò che ha detto la Brosch. Lo capisco nello stesso istante in cui sento le gambe farsi molli e incapaci di sostenere il mio peso. «No, no no no, non adesso!» la dottoressa mi afferra prima che io finisca a terra. «Non puoi farmi questo, siamo così vicine… » percepisco una

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nota di acuta preoccupazione nella sua voce; ciononostante, mi passa con prontezza un braccio sotto l’ascella e mi permette d’accasciarmi contro il suo fianco.

«Non… non respiro… »«Va tutto bene, ancora qualche passo.» Phelia Brosch mi trascina, a

tratti spronandomi, sino al momento in cui vengo affidata alle cure di un uomo con indosso l’uniforme priva di identificativi e una valigetta del primo soccorso in una mano.

Un secondo uomo la raggiunge e le stringe una mano in segno di saluto. «Dottoressa.»

«Capitano Lachlan. Qual è la situazione?» «La porta è sbarrata, signora, e un gruppo è in avvicinamento.»«Sta scherzando, vero?»Lui scuote la testa. Terrorizzata come non lo sono mai stata – persino più degli istanti

che hanno preceduto l’iniezione – chiudo gli occhi e inizio a respirare rapidamente. So già che la situazione potrà solo peggiorare.

La dottoressa si passa una mano sul visto e inspira a fondo. «Notizie del colonnello?»

«No, nessuna. La squadra tre è rimasta indietro per coprirci la fuga, se non ce ne andiamo adesso subiremo grosse perdite. Auttenberg deve procedere con il piano.»

«Va bene. Ross» la voce della dottoressa trema. «Apri questa dannata porta e inizia pure.»

«Agli ordini, signora.»La serratura scatta dopo un secondo. Il cortile è illuminato a giorno dai

fari di alcuni veicoli militari parcheggiati con i motori accesi.Un’ombra salta giù dal mezzo più vicino, sento che urla qualcosa nella

nostra direzione ma un sibilo acuto mi impedisce di capire cosa. L’uomo che fino a poco fa mi sorreggeva adesso mi trasporta in spalla, veloce come se si stesse limitando a portare uno zaino. Mi scaraventa all’interno del veicolo, finisco a terra battendo la testa e un’esplosione di stelle bianche davanti agli occhi si unisce alla festa di dolore e confusione che impazza nella mia testa.

Inizio a riprendermi e il rumore di un’esplosione accompagna un gemito, entrambi molto vicini. L’uomo mi fissa ancora mentre si accascia a terra con la bocca distorta in una smorfia carica di dolore.

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Subito dopo, Phelia Brosch si arrampica sulla pedana interna del veicolo e richiude il portellone. Sento gli spari aumentare d’intensità, gli scoppiettii diventano costanti come il rumore di pioggia sulla carrozzeria del veicolo.

Le labbra della Brosch si muovono ma non emette alcun suono. Si porta una mano al petto e sfiora il punto in cui si trova la collana col ciondolo del bucaneve. «Andiamo… » sussurra.

I secondi si trasformano in minuti. Poi il silenzio.La dottoressa posa la mano sul portellone nello stesso istante in cui

questo si spalanca con violenza e quattro persone salgono a bordo. Uno di questi la afferra per allontanarla dalla traiettoria di un proiettile che finisce per conficcarsi nel pannello a pochi centimetri dal punto in cui si trovava la sua testa.

Nel frattempo un altro uomo bussa con forza sulla portiera del conducente. «Datti una mossa, brutto idiota!» sbraita e continua a battere sul metallo rabbiosamente.

Il veicolo parte con un rombo e vengo sbalzata contro una delle panche per i passeggeri. Solo dopo aver sentito il rumore della mia testa che sbatte contro una cassa metallica si accorgono della mia presenza.

La dottoressa Brosch si piega sulle ginocchia e mi rivolge un’occhiata tesa. «Va tutto bene, siamo al sicuro. Nessuno ti farà più del male.»

Nessuno?Sento gli angoli della bocca tirare verso l’alto in quello che immagino

essere il più strano dei sorrisi, con le palpebre che diventano sempre più pesanti e la testa leggera.

E i rumori si annullano, lasciando il posto a ricordi lontani che forse non sono mai stati veri, ma che adesso senza alcun dubbio non mi appartengono più.

Lasciali in quella maledetta struttura. Che marciscano pure con… …Hendel che si arrampica sul ramo più alto, è il re del mondo. Mi guarda dal suo

trono e ride, agita le gambe e spalanca le braccia.Su fino al cielo! Su fino al cielo, Calliope!Continuo a rivivere quella giornata tante e tante volte nella mia mente,

un loop infinito che inizia a farmi stare male. Sento il verso dei gabbiani, il peso delle biglie colorate tra le mie mani, la sensazione di libertà e il vento sulle guance.

Voglio arrampicarmi come ha fatto Hendel, voglio sconfiggere la paura del vuoto, ma non sono abbastanza forte. Non sono mai stata coraggiosa.

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Hendel dice che non ho bisogno di esserlo finché lui è con me, ha promesso alle nostre madri che avrebbe badato a entrambi. Non devo guardarmi alle spalle, perché lui è lì e ci sarà sempre.

Credere alla sua promessa, credere persino alle sue bugie, mi faceva sentire a casa anche se, invece, eravamo lontani dei chilometri l’uno dall’altra.

Mi risveglio stesa su un sedile, il mal di testa mi sta uccidendo. Provo questa strana sensazione, come di trovarmi immersa in una vasca piena d’acqua senza sapere dov’è il sopra o il sotto. Il veicolo procede spedito – chissà ormai da quanto tempo – in direzione opposta alla struttura detentiva. È come ha detto la dottoressa Brosch: ora sono al sicuro.

Il veicolo sobbalza, batto di nuovo la testa ed emetto un verso di protesta. Phelia Brosch siede davanti a me, il viso stranamente allegro e rilassato.

Mi tiro su a sedere, non c’è una parte del corpo che non sia intorpidita. Il formicolio alla punta delle dita significa che sto riacquistando sensibilità. Mi sento stranamente rinvigorita.

La Brosch mi posa una mano sulla fronte per liberarmi gli occhi da alcune ciocche ribelli. Il suo tocco è gentile, proprio come lo era nelle ore che hanno preceduto l’esecuzione. «Come stai, cara?»

«Bene. Credo.»Il mio stomaco sembra dissentire. La Brosch mi dà un pizzico sulla

guancia. «Arriveremo presto.»«Dottoressa» tossisco per schiarirmi la gola. «Hendel è… »«Oh, cara… » esita. Il ciondolo col bucaneve pende al suo collo, ipnotico

e lento. Noto una piccola aggiunta: un anello dorato con pietre blu e verdi incastonate che si affretta a nascondere alla mia vista. Potrebbe trattarsi di un gesto istintivo. «Non sappiamo con certezza se ci sono superstiti. Se qualcuno è uscito prima di noi potrebbe esserci qualche possibilità. Mi dispiace, non saprei dirti altro.»

Quattro persone mi stanno fissando in attesa di una mia risposta. Riconosco Amirmoez, silenzioso e cupo con gli occhi fissi sul pavimento. Accanto a lui c’è il capitano Lachlan, che parla in tono confidenziale con una ragazza dai capelli corti blu elettrico. È proprio lei ad attirare particolarmente l’attenzione: veste in modo trasandato, ha avvolto delle strisce di pelle attorno a entrambe le braccia, sulla maglia ha applicato una pettorina con barre luminose ai bordi; a entrambi i polsi porta due

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bracciali con visori, un qualche tipo d’apparecchiatura militare che deve essere stata adottata nel periodo in cui sono stata in prigione. L’ultimo è il comandante della squadra della dottoressa, adesso che ho la possibilità di guardarlo meglio mi sento intimidita dalla sua espressione truce e i lineamenti decisi. Lucida con cura il fucile che ha in grembo, c’è un che di paterno nel suo gesto.

«Hai bisogno di qualcosa?» mi chiede senza nemmeno guardarmi.Scuoto in fretta la testa e cerco altro su cui concentrarmi.La dottoressa si siede al mio fianco e sospira, rigirandosi distrattamente

l’anello tra le dita affusolate. «Che guarda, capitano?»Lachlan ride. Ha un naso pronunciato e capelli rosso acceso, tagliati

corti come impone l’etichetta militare, ma la stessa cura non la riserva alla barba incolta che si muove ogni volta che parla. «Ha davvero diciotto anni? Perché ha l’aspetto di una mocciosa.»

«In entrambi i casi abbiamo fatto la cosa giusta.»«Non lo metto in dubbio» incrocia le braccia al petto e si lascia scivolare

sul sedile a occhi chiusi. «Ma non voglio essere chiamato zio Bill, altrimenti mi tiro fuori.»

La Brosch riesce a non rispondergli a tono ma è chiaro che sta facendo un grosso sforzo. «Perfetto. Calliope, lascia che ti presenti le persone che mi hanno aiutata a portarti in salvo. Capitan Buone maniere è William Lachlan, lui e il colonnello Baal hanno servito nella stessa divisione di tuo padre ai tempi della guerra.»

Guardo Lachlan, un armadio alto circa due metri, e il colonnello Baal, altrettanto ben piazzato, e mi chiedo… perché due soldati esperti come loro non sono riusciti a impedire che mio padre morisse?

La dottoressa riprende, distogliendomi ancora una volta dal corso dei miei pensieri. «Ross Auttenberg si è occupata delle difese della struttura, avrai notato quanto utile è stato il suo intervento – a dispetto del casino combinato dal nostro Amirmoez.»

Amirmoez sta per rispondere ma viene interrotto dal colonnello, che solleva il fucile in quello che all’apparenza è un gesto innocuo. Tuttavia riesce a far perdere qualche colpo al mio cuore, pur non essendone destinataria. «Apri bene le orecchie, soldato. Se fossimo in guerra e il Rappresentante mi ordinasse di portarle il tuo culo su un piatto d’argento, sarei ben lieto di legarti a un palo e mettermi in fila per usarti come bersaglio. Hai disatteso un ordine diretto del tuo ufficiale comandante e, cosa ancor più grave,

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hai abbandonato il più alto funzionario Unitario nel bel mezzo di una missione pericolosa, mettendone a repentaglio la vita. E se questa non fosse stata una missione non proprio ufficiale, parola mia ragazzo, al tuo ritorno a casa ti aspetterebbe la corte marziale.»

«Che volevate che facessi? Avrei dovuto lasciar morire tutte quelle persone senza dar loro la possibilità di fuggire perché è stata lei a deciderlo?»

Il colonnello adagia il fucile sul sedile, amorevole come con un bambino al quale si rimboccano le coperte, e si alza, posizionandosi tra la dottoressa e il giovane soldato. Lo guarda in silenzio per un po’ prima di assestargli un pugno alla mandibola che lo spedisce a terra. «In piedi, soldato!» ringhia a denti stretti.

Il capitano Lachlan ha aperto gli occhi e osserva la scena con una punta di malcelato divertimento. Ross, invece, si mostra completamente disinteressata e torna a giocherellare con uno dei suoi apparecchi.

È tutto così normale per loro? Prendersi a pugni perché qualcuno ha detto la cosa sbagliata?

Oggi a lui, domani a me.«Ho detto in piedi» ripete, questa volta più calmo. Amirmoez si tira su,

faccia arrossata e mento ancora dolorante. «Non ti è dato di discutere gli ordini. La dottoressa non ti deve alcuna spiegazione – e nemmeno io.»

Baal si infila una mano in tasca e tira fuori un insieme di medagliette militari appese alla stessa catenella sottile. Le lancia ad Amirmoez, che le soppesa con aria confusa.

«Sai contare, soldato?» Sebbene abbia dato per scontato che si trattasse di una domanda

retorica, Amirmoez risponde con voce ferma. «Sì, sissignore.»«Quelle sono le medagliette identificative delle persone che non faranno

rapporto al nostro rientro a casa a causa della tua esitazione. Voglio che le conti e che ti tatui quel cazzo di numero da qualche parte, perché quelle persone le hai lasciate a morire. La tua bravata li ha costretti a rimanere indietro per coprire la nostra fuga, non io né la dottoressa!»

«Benvenuto nel gruppo dei grandi, Amirmoez» dice il capitano e si allunga sul sedile, con le braccia incrociate dietro la nuca. «Adesso sai cosa significa il vecchio detto dell’accademia – ehi, Armin, lo ricordi, ci avevamo fatto su una canzone – se volti le spalle alle tue responsabilità, quelle tornano per masticarti il culo.»

«Non era esattamente così.» Lo corregge Ross, senza guardarlo.

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Quante sono quelle medagliette? Così tante persone… e tutto soltanto per sottrarmi alla mia condanna a morte. Guardie, condannati, prigionieri, forse anche qualche civile.

«Lo voglio fuori dalla squadra» la Brosch pronuncia questa frase come una sentenza capitale. «Non posso accettare che elementi come lui popolino i ranghi militari. Lo voglio fuori, dove non potrà fare altri danni.»

Lei e Amirmoez si rivolgono sguardi pieni di risentimento, per un attimo temo che il ragazzo possa essere preso di nuovo a pugni. Poi, rigido come una statua, scatta sull’attenti. «Ho il permesso di lasciare la cabina?»

«Vai.»La porta della cabina del conducente si apre e si richiude con uno

schianto che fa sobbalzare Ross, fino a questo momento troppo assorta perché si rendesse conto di quanto le stava accadendo attorno.

Lachlan mi guarda ridendo. «Dovresti proprio vedere la tua faccia, ragazzina!»

Non ho bisogno di farlo.Baal adesso si rivolge direttamente alla dottoressa. «Permette una

parola, signora?» le afferra il gomito in quello che, palesemente, è un gesto fuori dai ranghi e si porta con lei verso la fine del trasporto. «Le questioni militari sono di mia esclusiva competenza.»

«Quindi?»«Non può prendere misure così drastiche nei confronti dei miei

uomini. Le decisioni spettano a me, soprattutto quelle disciplinari. Signora.» S’affretta ad aggiungere, ricordandosi della presenza di altre persone.

«Quel ragazzo è un pericolo.»«Ed è un pericolo che devo gestire io. Con tutto il rispetto, saper

maneggiare una pistola non la rende in grado di coordinare una squadra di militari. È per questo che sono qui.»

«Cosa vuole dire?»«Dico che deve smetterla di impartire ordini durante le operazioni

militari, questo è il mio ultimo avvertimento. Non è stato Grigori a dare disposizioni a Ross circa il ritardo nell’attuazione del piano.»

La dottoressa spalanca la bocca e la richiude in fretta. Le labbra si sono appena ripiegate in un broncio. Tenta ancora di mandare giù la rimbeccata del suo comandante.

Cavolo, non pensavo che Baal potesse permettersi di parlarle in questo modo!

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La dottoressa guarda prima il capitano, che finge di dormire, poi Ross, con vecchie cuffie enormi che scivolano avanti e indietro sulla testa che muove a ritmo della musica che sta ascoltando, infine me.

Il colonnello le afferra entrambe le braccia, questa volta in un gesto più bonario, che mira ad allentare la tensione che si è venuta a creare tra loro. «Amirmoez resta, ma lei è libera di assegnargli la punizione che ritiene più opportuna, signora. Adesso, se permette, ho un soldato da raddrizzare prima del nostro arrivo.»

«Vada. Ma non finisce qui, Baal.»Doveva suonare come una minaccia ma, per qualche strana ragione,

vedo spuntare sulle labbra del colonnello qualcosa di simile a un ghigno prima di sparire dietro la porta della cabina del conducente.

Non ho voglia di riflettere su ciò a cui ho assistito, le questioni militari rimangono un’incognita per me. È come il vaso di Pandora: temo che si aprirebbe se chiedessi, rilasciando tutti i mali del mondo in questo minuscolo spazio vitale che dovremo condividere per chissà quante ore ancora.

«È un ufficiale dei Corpi Speciali Unitari. La barca di muove solo se entrambi remiamo nella stessa direzione.» Mi spiega la Brosch.

«Dottoressa» mi tornano in mente le parole di Amirmoez, su come lei abbia fatto un’eccezione per me. «Perché proprio io?»

Si rimette a sedere ma non risponde subito. Tira fuori da sotto il sedile una cassetta metallica e se la posa sulle gambe. Al suo interno ci sono razioni militari d’ogni sorta. La dottoressa mi porge una barretta alla frutta e rimette tutto a posto, lentamente di proposito.

Alla fine mi stringe entrambe le mani tra le sue. «Ho fatto una promessa a tua madre, è per questa ragione che mi sono fatta catturare. Le avevo detto che ti avrei riportata a casa sana e salva.»

«Quindi non è venuta perché era a conoscenza del piano? Sa che sono al sicuro?»

«No, il piano era segreto, ma le ho detto che avrei fatto del mio meglio per impedire l’esecuzione. Sonith mi tiene d’occhio da anni, perciò quando ha iniziato a intercettare frammenti di comunicazioni tra me e un vecchio membro dei Rebeller, mi ha fatta arrestare con l’accusa di cospirazione ai danni della Commissione Giudiziaria. Forse ha pensato di cogliere al volo l’opportunità di giustiziarmi senza dover prima sottoporre il caso all’Assemblea.»

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«Ma è terribile! Perché avrebbe dovuto farlo? Credevo che voi due vi conosceste da tempo.»

«Oh… » si concede una risata e annuisce. «Non immagini nemmeno da quanto.»

Conosco stranamente bene quel tono di voce, sta evitando di dire altro. Non voglio mancarle di rispetto, perciò torno a farle domande su mia madre. Voglio sapere se sta bene, cosa le è accaduto in questi ultimi anni, ma ancora una volta la dottoressa ci va cauta con le risposte.

Mi dice che sta bene, che presto potrò rivederla, poi tace. A me non basta. Si è risposata? Ha ancora i capelli lunghi e biondi, sempre ordinati come li ricordo? Suona ancora il pianoforte? Dov’è?

Sorride pazientemente e mi solleva il mento con due dita, così da osservarmi meglio. «Tu forse non lo sai, ma somigli tantissimo a Leighton.»

«Lei e mio padre eravate legati?»Abbassa lo sguardo e sospira. «Adesso riposa, hai avuto una

giornataccia.»Farò come mi è stato detto, mi distendo di nuovo e chiudo gli occhi.

La mia mente vaga verso infinite possibilità, tra ricordi e speranze, finché il sonno non ha la meglio e almeno per qualche tempo riesco a togliermi dalla testa Hendel.