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Stanley Wolpert STORIA DELL’INDIA Dalle origini della cultura dell’Indo alla storia di oggi. All’inizio del 1500 l’India appariva molto frammentata sia dal punto di vista sociale e politico, sia da quello spirituale e religioso. Ibrahim Lodi (il cui regno durò dal 1517 al 1526) non fu abbastanza carismatico e capace da assicurare la sopravvivenza del suo potere, cosicché, mentre i portoghesi entravano indisturbati nella sua terra, lui dovette fronteggiare l’attacco del suo rivale più vicino e più pericoloso: Babur, re di Kabul (1483/1530). Fu questi, infatti, a sconfiggere definitivamente la dinastia dei Lodi e a dare origine al possente impero moghul, che regnerà in India di qui ai secoli seguenti. Impero che conobbe la vita il 21 aprile 1526. In questa situazione, anche i cambiamenti negli equilibri religiosi trovavano la propria realizzazione.: sin dalla fine del XIV secolo si andava diffondendo la corrente devozionale della bhakti induista. Nata nel sud dell’India, raggiunse le rive del Gange e Benares grazie al più grande discepolo di Ramanuja, Ramananda, che si spinse fin là predicando la dottrina del divino amore. Allievo di costui fu anche Kabir

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Stanley Wolpert

STORIA DELL’INDIA

Dalle origini della cultura dell’Indo alla storia di oggi.

All’inizio del 1500 l’India appariva molto frammentata sia dal punto di

vista sociale e politico, sia da quello spirituale e religioso. Ibrahim Lodi (il

cui regno durò dal 1517 al 1526) non fu abbastanza carismatico e capace

da assicurare la sopravvivenza del suo potere, cosicché, mentre i

portoghesi entravano indisturbati nella sua terra, lui dovette fronteggiare

l’attacco del suo rivale più vicino e più pericoloso: Babur, re di Kabul

(1483/1530). Fu questi, infatti, a sconfiggere definitivamente la dinastia

dei Lodi e a dare origine al possente impero moghul, che regnerà in India

di qui ai secoli seguenti. Impero che conobbe la vita il 21 aprile 1526.

In questa situazione, anche i cambiamenti negli equilibri religiosi

trovavano la propria realizzazione.: sin dalla fine del XIV secolo si andava

diffondendo la corrente devozionale della bhakti induista. Nata nel sud

dell’India, raggiunse le rive del Gange e Benares grazie al più grande

discepolo di Ramanuja, Ramananda, che si spinse fin là predicando la

dottrina del divino amore. Allievo di costui fu anche Kabir (1440/1518),

un mistico musulmano che, secondo alcune fonti, fu uno dei più

importanti maestri, o comunque interlocutori, di Nanak, il fondatore del

Sikhismo. Nanak (1469/1538) visse in Panjab e fu il primo guru sikh. Egli

propendeva per un superamento delle formalità religiose al fine di mirare

ad un’espressione più alta e sublime della spiritualità, nell’unione tra gli

opposti e nell’incondizionata e amorevole devozione all’Unico Dio.

Tra alti e bassi, l’impero moghul continuò il suo dominio su gran parte

del nord dell’India, finché non conobbe un periodo di grande splendore,

grazie ad Akbar, che nel 1576 riuscì a conquistarlo. Egli aveva una

personalità forte, intelligente e affascinante; era dedito agli studi delle

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religioni e dell’astronomia, ma non per questo non era abile a occuparsi

delle faccende politiche, militari e strategiche del regno. Creò una serie di

riti sociali attraverso cui stese un manto divino sul suo potere, essendo,

allo stesso tempo, accorto, che anche i meno devoti alla religione

potessero esserlo al sovrano. Istituì, per esempio, il saluto Allahu Akbar,

che significa sia Dio è grande sia Akbar è Dio. I capi musulmani più

ortodossi erano preoccupati del suo eclettismo, ma, anche quando

tentarono di contrapporvisi, fallirono completamente. Fu l’unico

imperatore moghul che incoraggiò l’arte e il sincretismo religioso; fu

venerato come sovrano e come riformatore illuminato. Tanta meraviglia,

tuttavia, dovette essere oscurata dallo stesso figlio maggiore di Akbar,

Salim, suo erede e forse suo assassino. Akbar morì avvelenato il 17

ottobre 1605.

Salim, detto Jahangir, goverò dal 1605 al 1627. Gli succedette Shah

Jahan (1628/1658) e poi Aurangzeb (1658/1607). Quest’ultimo fu,

probabilmente, l’imperatore moghul più freddo e terrificante che l’India

conobbe. Assolutamente dedito al potere e all’affermazione della

supremazia della propria fede, fu il perfetto ricettacolo delle tante

ribellioni che sorsero in India durante quel regno. Sottomesse e

perseguitate, molte popolazioni (i Jat, i Maratha, i Sikh e i Rajput) si

scontrarono con le truppe imperiali. Ma l’efficienza dittatoriale del potere

di Aurangzeb non potè in nessun modo esser messa in discussione. Il

Panjab, però, continuò a covare sete di ribellione.

A partire dalla sua fondazione, avvenuta nei primi anni del XVI secolo a

opera del santo guru Nanak, la nuove, liberale e aperta comunità dei

sikh si era diffusa nel Panjab, facendo proseliti fra i contadini di nascita

sia indù sia musulmana. Tenendo ben presenti le parole del guru

Nanak contenute in uno scritto composto proprio a questo scopo – la

Gurumukhi (“dalla bocca del maestro”) -, il suo successore, guru

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Angad (1504-1552), diede alla comunità nuova coesione e il senso

stesso della sua identità. Il terzo guru, Amar Das, venne protetto da

Akbar e portò ancora più convertiti alla nuova fede, che metteva in

risalto l’importanza del cibo e della preghiera nella comunità e aboliva

la clausura delle donne (pardah) come pure l’esclusività delle caste e

l’intoccabilità. Ram Das, il quarto maestro, fece parte della corte di

Akbar e ottenne dall’imperatore alcune terre nel Panjab, tra i fiumi

Satlej e Ravi, destinate a divenire la sede della santa capitale dei sikh.

Il figlio e successore di Ram Das, Arjun (1563-1606) terminò la

costruzione del grande tempio sikh proprio in quei luoghi, e diede alla

città il nome di Amritsar (“Specchio del nettare immortale”) perché la

sua costerna era piena di acque “sacre”. Sotto l’accorta guida di Arjun

vennero scritte e depositate nel tempio di Amritsar le scritture del sikh,

il Granth Sahib. “Nel suo ricettacolo – scrisse il guru Arjun nel libro –

potrai ritrovare tre cose: verità, pace e contemplazione”. Jahangir

accusò tuttavia Arjun di alto tradimento e lo torturò a morte in base al

sospetto che il maestro avesse aiutato Khusrau, il figlio ribelle

dell’imperatore, e poi perché il guru si rifiutava di ammettere la

propria colpa e di abiurare la sua fede. Il martirio di Arjun spinse suo

figlio, Hargobind, ad armare i compagni di fede che, d’ora in poi,

sarebbero stati pronti a difendere con la massima fermezza la loro

religione e le loro vite: il credo pacifista di Nanak si era trasformato in

un nuovo ordine militante il lotta contro la tirannide moghul. Anche se

costretto a ritirarsi a Kiratpur, ai piedi del Himalaya, il guru Hargobind

e i suoi seguaci continuarono a opporre resistenza contro i Moghul fino

alla serena morte del maestro, nel 1644. Il settimo maestro, Har Rai,

venne seguito ancora più addentro fra le montagne, donde riemerse

solo nel 1658 per sostenere le pretese al trono di Dara Shikoh. Dopo la

vittoria di ‘Alamgir1, Har Rai fu costretto a lasciare suo figlio, Ram Rai,

come ostaggio presso la corte dell’imperatore: il giovane divenne un

suddito leale del sovrano e perdette l’appoggio del padre. Poco prima

della morte, avvenuta nel 1661, Har Rai designò il figlio minore, Har

Krishen, come successore, ma anche lui fu costretto a cercare a Delhi

1 Altro nome di Aurangzeb.

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il favore di ‘Alamgir e qui morì di vaiolo nel 1664. Il nono maestro sikh

fu il prozio di Har Rai, Tegh Bahadur (1621 – 1675), che venne

arrestato dai soldati di ‘Alamgir ad Agra e in seguito a Delhi, dove fu

poi decapitato per aver rifiutato la conversione all’Islam. Il guru Gobind

Rai (1666 – 1708), figlio di Tegh Bahadur, fu il decimo e ultimo

maestro Sikh. Fece voto di vendicare l’uccisione dle padre e dedicò la

sua vita a combattere senza tregua la tirannide di ‘Alamgir. Govind Rai

rese la comunità un’ “armata di puri” (khalsa) e assunse come nuovo

cognome quello di Singh, “leone”, imponendolo anche ai suoi più

stretti seguaci. A partire da questo momento i sikh divennero una

compatta trama di feroci combattenti, che si riconoscevano l’un l’altro

come i simboli costitutivi della fede; fecero voto di non tagliarsi mai

capelli e barba, di portare sempre la sciabola, di indossare al polso

destro un braccialetto di acciaio e i calzoni lunghi al ginocchio dei

soldati, di tenere un pettine per i capelli. Il guru divenne ora tutt’uno

con la comunità, i cui uomini erano guerrieri sempre cacciati e sempre

pronti a combattere, ma a sua volte il desiderio della maggioranza del

khalsa sarebbe stato quello di rappresentare il guru, condotto in

questo modo all’immortalità. Gobind poteva disporre, a quanto si

diceva, di più di ventila seguaci, ma gli eserciti moghul erano molto più

numerosi e non gli diedero tregua fino agli ultimi giorni di lotta. Il guru

ebbe almeno la soddisfazione di sopravvivere all’odiato rivale,

‘Alamgir, per un anno e mezzo. _ pag. 152-153

Nei decenni che seguirono l’impero moghul fu contrassegnato

dall’instabilità politica, dal crollo economico e dal malcontento popolare.

In questo frangente, si susseguirono al trono Bahadur Shah (figlio di

Aurangzeb), che governò per 5 anni, morendo nel 1712; Jahandar Shah,

figlio maggiore di Bahadur Shah che, appoggiato dai fratelli Sayyd (due

cortigiani che, in realtà, erano i veri detentori del potere), vinse le lotte di

successione; un tisico che morì dopo poche settimane (scelto sempre dai

fratelli Sayyd); Shah Jahan II, suo fratello, sempre mira degli astuti

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cortigiani, e Muhammad Shah che, sebbene ancora eletto dai Sayyid,

durò ben 30 anni (fino al 1748) e ne uccise uno.

In questi anni le ribellioni contro i Moghul, da parte sia dei Rajput sia dei

Maratha sia dei Sikh, aumentarono. Riguardo a questi ultimi, sebbene

Guru Govind Singh si fosse proteso, poco prima di morire, per

riappacificarsi con l’imperatore Bahadur Shah, con la fine della sua vita

(nel 1708), il panth riprese le lotte contro i Moghul sotto il comando di

Banda Bahadur (1708/1716). Questi, redigendo un calendario e facendo

battere delle monete, si dichiarò re del Panjab. Le truppe imperiali,

ovviamente, a lungo andare ebbero la meglio, ma l’impero moghul era

comunque giunto alla fine.: la situazione politica era allo sfacelo,

economicamente predominava un generale malcontento e le invasioni

erano ormai all’ordine del giorno.

Seguì il dominio incerto e passeggero di una serie di piccoli re, deboli e

impotenti. Le scorrerie andarono avanti, imperversando soprattutto nel

Panjab. In questa regione, nel frattempo, i Sikh si erano divisi in dodici

misl (distretti, unità di governo regionali), onde poter essere mobili e

potersi difendere con efficacia. Allo stesso tempo, però, questa comunità

stava lavorando con l’intenzione di rendersi indipendente: in cambio

dell’erogazione di un tassa da parte dei contadini, i khalsa si

impegnavano a proteggerli militarmente dai continui attacchi nemici

(afgani, moghul, maratha).

Mentre l’India si autodistruggeva, le varie Compagnie europee

prosperavano ai margini del territorio. Gli inglesi, in particolar modo, si

erano stanziati piuttosto stabilmente. All’inizio erano ospiti per scopi

commerciali e, in quanto tali, tributari verso l’amministrazione indiana.

Con l’avanzare della crisi, però, il loro ruolo assunse gradualmente un

carattere più invasivo, sottraendosi abilmente agli oneri economici e

guadagnando progressivamente sempre più terreno anche dal punto di

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vista politico. A differenza dei tanti gruppi che occupavano l’India, infatti,

gli inglesi apparivano un ottimo esempio di lealtà, efficienza e

compattezza. Questa capacità di superare gli interessi singoli in vista di

uno scopo comune fu determinante per il successo del raj (governo) della

Compagnia in India.

Nel 1793, poco prima di lasciare l'India, Cornawallis2 racchiuse il suo

metodo di amministrazione e di governo nel Bengala3 in un Code of

Forthy-Eight Regulations (“Codice di Quarantotto Regole”). Il “Codice

Cornwallis”, come venne chiamato da quel momento, comprendeva i

fondamenti per un governo britannico in tutta l’India e proponeva i

modelli relativi ai servizi, le corti e la raccolta della imposte che

sarebbero rimasti validi per sempre senza subire variazioni degne di

nota. _ pag. 186

Gli inglesi introdussero la proprietà privata in India, iniziarono a

riscuotere tasse ovunque lo ritenessero necessario e, anche negli altri

ambiti, si mossero sempre nella ferma convinzione di essere il popolo più

adatto a governare nel miglior modo possibile quel territorio. Le loro

imprese commerciali, nel frattempo, aumentavano di entità.

All’inizio del XIX secolo, l’unico regno rimasto d’intralcio alle mire

inglesi era quello dei Sikh del Panjab. A capo di questi ora c’era Ranjit

Singh (1781/1839), maharaja dal 1799 e per i seguenti 40 anni,

intelligente diplomatico, nochè eccellente stratega e militare. Sotto la sua

guida, la comunità sikh aveva più volte sconfitto gli Afgani, costringendoli

ad arretrare.

Nel 1820 il regno di Ranjit comprendeva quindi seicentocinquantamila

chilometri quadrati circa di territori fra i più fertili e i meglio

2 Capo del governo inglese.3 Regione centro-orientale dell’India.

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strategicamente situati dell’Asia meridionale. Il suo permanente

“esercito del puro” (khalsa) comprendeva quasi centomila sikh:

un’armata potente forgiata al fuoco dell’oppressione moghul, temprata

dai continui conflitti con gli afgani Pathan, e che la fede nelle scritture

lasciate dai suoi dieci guru aveva mutato in un’arma micidiale al

servizio del retto agire.

Giudicando a ragion veduta troppo formidabile la potenza dei sikh per

poterla affrontare, gli inglesi indirizzarono il loro fuoco sul lontano

regno della Birmania… _ pag. 201

In seguito, circa 20 anni dopo, gli inglesi, guidati stavolta da

Macnaghten, si allearono con Ranjit Singh e con Shah Shuja (ex sovrano

dell’Afghanistan, che gli inglesi volevano rimettere sul trono come re

fantoccio da manipolare a loro piacimento) per invadere la terra afgana,

ora comandata da un clan diverso da quello di Shah Shuja. Se

quest’ultimo, però, era davvero un fantoccio nelle grinfie degli inglesi, lo

stesso non si poteva dire di Ranjit Singh. Egli, infatti, pur dando la sua

approvazione alla Compagnia inglese, non la aiutò nella battaglia contro

gli Afgani: non gli fornì alcun soldato, né permise alle sua truppe di usare

le terre del Panjab. L’esercito di Macnaghten, tuttavia, ebbe la meglio,

almeno in un primo momento. Una volta di nuovo al trovo, infatti, Shah

Shuja non fu comunque accettato dal popolo; le finanze inglesi ebbero

ingenti perdite per portare avanti la guerriglia afgana; le truppe della

Compagnia morirono (letteralmente) al freddo del dicembre 1841 e

l’aprile successivo Shah Shuja fu assassinato. La presunzione, l’astuzia e

la presupposta invincibilità inglese subirono un duro colpo, il primo in

India.

La Compagnia, nonostante tutto, non si abbatté, fermamente

determinata a rifarsi, conquistando il Sind4 e il Panjab. Il 17 febbraio del

1843 riuscì a mettere le sue bandiere sul Sind, con l’egocentrica pretesa

4 Regione nord-occidentale dell’India.

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di “salvare” le popolazioni che vi vivevano. Con il Panjab, la situazione fu

più complessa. Dalla morte di Ranjit Singh (1839), prima della quale il

maharaja aveva ammonito il suo panth sul pericolo che anche la loro

terra, come la stragrande maggioranza delle terre indiane, cadesse sotto

il dominio inglese, iniziarono dure lotte di successione per la sovranità.

Nel frattempo, l’esercito inglese, da tempo stanziato sul confine

settentrionale, presso il fiume Satlej, aumentava gradualmente le sue

unità finchè, nel 1845, la “tregua armata” finì e scoppiò il conflitto vero e

proprio. Un anno dopo, nel 1846, i Sikh furono costretti a cedere alcune

terre agli inglesi (tra cui il ricco e strategico Kashmir), a disarmare gran

parte delle loro truppe e ad arrendersi.

A causa del forte e orgoglioso spirito di appartenenza e di indipendenza

sikh, nonché della volontà di espansione e di dominio inglese, tuttavia, ci

fu una seconda guerra, che, con un interludio di due anni, non fu altro

che una continuazione della prima. Nel 1848 si aprì nuovamente il fuoco;

le battaglie continuarono fino al gennaio 1849, data in cui il Panjab, con

indefesso dispotismo, fu sottomesso alla sovranità della Compagnia.

Completata così, all’inizio del suo regno, l’ossatura della conquista

britannica, Dalhouise5 potè indirizzare le sue straordinarie energie verso

i problemi riguardanti l’unificazione dell’impero e la sua

modernizzazione – o, come l’avrebbero definita lui stesso e i suoi

collaboratori, la “civilizzazione degli indigeni”. _ pag. 209

Risoluti provvedimenti furono attuati nell’esercito. La regola

fondamentale del governo inglese era “divide et impera”, secondo cui,

creando suddivisioni tra i gruppi, è molto più facile esercitare

un’egemonia su di essi. Tale principio di base fu tenuto presente anche

nell’esercito, in cui i soldati erano inglesi solo in una piccolissima parte: la

5 Nuovo governatore-generale della Compagnia inglese.

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stragrande maggioranza erano indiani, delle razze, lingue e culture più

diverse tra loro. L’artiglieria, tuttavia, era nelle mani della Compagnia,

onde evitare di soccombere sotto un eventuale ammutinamento. Gli

inglesi iniziarono a parlare di “razze marziali”, in modo che coloro che si

dimostravano più fedeli ai loro governanti potessero sentirsi gratificati,

riconosciuti e spronati a continuare su quella via. I Sikh furono tra queste

razze definite “marziali” (nonostante, ovviamente, non ci sia nulla di

genetico nell’educazione marziale di questa popolazione).

Attraverso due clausole, inoltre, una riguardante i contratti di proprietà e

una sull’ereditarietà delle terre, si affermavano sempre più idee e usanze

tipicamente occidentali. I ricchi indiani, in questo modo, mantenevano i

loro privilegi; rimanevano, per questo motivo, alleati del governo inglese

e, dall’altro lato, quest’ultimo poteva contare su una schiera di

amministratori che regolarmente corrispondevano tasse. Quando, poi, i

vari proprietari terrieri non poterono più permettersi di pagare le imposte

alla Compagnia, questa offriva loro finanziamenti e prestiti, mantenendo

la sua sporca immagine di salvatrice dell’India.

Durante l’ultimo quarto del XIX secolo, dunque, si verificarono molti

cambiamenti in India: ammodernamento tecnologico e mutamento

istituzionale furono le parole d’ordine della Compagnia che, giustificata

dalle sue fanatiche ideologie, lavorava con tutta lena per rendere sempre

più stabile la sua invasione del territorio indiano, per cristallizzare la sua

conquista e per agevolare i propri traffici commerciali.

Di lì a poco, però, iniziarono le prese di coscienza da parte degli indiani:

ammutinamenti, attacchi terroristici e progetti rivoluzionari divennero

gradualmente all’ordine del giorno, passando da una regione all’altra, per

ragioni apparentemente diverse ma aventi tutte la radice e lo scopo

ultimo nel dominio inglese. Le ribellioni ebbero origine nel Bengala, a

causa della forte carestia che interessò lo stato in questione: povertà,

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malattia e mancanza di prospettive senza vie di scampo portarono

inevitabilmente frustrazione, rabbia e desiderio di cambiamento. L’aria si

diffuse presto tra i Sikh che, partiti in nave verso in Canada (dove già

molti altri erano emigrati) con la promessa, da parte del governo inglese,

di condizioni di vita migliori, furono costretti a tornare indietro. Nel

frattempo, infatti, era cominciata la prima guerra mondiale (siamo nel

1914) e, per questo motivo, i Sikh partiti con l’aspettativa di una vita

migliore, si ritrovarono invece a dover affrontare un viaggio lungo mesi,

in una situazione assolutamente disgraziata. Una volta giunti a Calcutta,

carichi di amarezza (per usare un eufemismo), si misero in marcia contro

il presunto razzismo britannico. Una nuova era, tuttavia, stava iniziando,

in cui il razzismo non era che un pezzo di un mosaico ben più ampio.

Nel 1927, quando il governo britannico indisse una riunione

dell’assemblea costituente (composta da 7 membri, nessuno dei quali

indiano) per programmare le successive riforme costituzionali, l’India

intera reagì con sdegno. Ovunque ci recasse, oramai, il panorama era

sempre lo stesso: folle inferocite e miriadi di poliziotti che cercavano di

tenerle a bada.

Le spinte indipendentistiche si coagularono nel Congresso Nazionale

Indiano (1885) dove la componente indù era in maggioranza. Il tentativo

Inglese di indebolire il movimento nazionale portò ad un primo tentativo

di boicottaggio delle merci inglesi in tutto il territorio. Per questo, nel

1905, venne fondata la Lega Musulmana di tutta l’India,

un’organizzazione a carattere politico intesa a sostenere e portare avanti

i punti di vista musulmani; questo indebolì il movimento di indipendenza.

Appianare le differenze fra Congresso e Lega Musulmana, sarà uno dei

compiti che si assunse il Mahatma Gandhi, il quale prefigurava un’unica

India dove Musulmani, Indù, Sikh, vivessero assieme liberi dagli Inglesi

ma anche liberi dal bisogno.

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Il comitato Nehru6 propose un “Commonwealth indiano”, i cui poteri

scaturissero tutti “dal popolo” e che godesse delle stesse libertà di

tutti gli altri dominion7 dell’impero, del quale avrebbe continuato a far

parte. Venne altresì raccomandato un ibrido tra il parlamento

britannico e il congresso degli Stati Uniti, senza particolari

salvaguardie per le minoranze. Venne respinta la richiesta musulmana

di riservare un terzo dei seggi dell’organo legislativo centrale ai

musulmani. In sintonia con le precedenti proposte del Congresso, si

avanzò tuttavia l’ipotesi di ridisegnare i confini provinciali su basi

“linguistiche”. _ pag. 287

Al 1932 e all’opera di Ramsay McDonald risale il Communal Award, la

riforma elettorale che estendeva la formula del corpo elettorale

autonomo già concessa ai musulmani anche ai Sikh, ai cristiani indiani,

agli europei e alle classi più disagiate. Tale riforma sarebbe andata a far

parte della Costituzione indiana.

Le elezioni del 1945/46 videro Jinnah (1846/1949)8 soddisfatto, in quanto

la Lega musulmana si aggiudicò tutti e 30 i seggi messi a disposizione

all’Assemblea centrale; il Congresso vinse ilo 90% dei seggi e Sikh,

cristiani, europei e classi depresse si spartirono i restanti 15 seggi. Le

provinciali confermarono questi risultati, per cui i vari stati indiani si

trovarono governati da leader diversi, in eguale proporzione rispetto alle

vittorie/perdite elettorali. Il Panjab rimase sotto il controllo degli Unionisti.

6 Nehru era il padre del primo premier indiano e il nonno di Indira Gandhi; uno dei tanti che, in quegli anni, si trasformò da leale sostenitore del raj britannico in nazionalista. Nel dicembre 1919 era stato presidente del congesso di Amitsar e, in quella occasione, aveva sottolineato l’importanza di affidarsi ad un esecutivo e a un esercito responsabili, capaci di garantire il bene pubblico dell’India. 7 Territorio facente parte dell’Impero britannico pur essendo indipendente e dotato della personalità giuridica internazionale – tale denominazione verrà abbandonata a partire dal 1947.8 Giovane avvocato musulmano, di grande cultura e grande personalità, che nel 1913, quando la Lega musulmana aveva abbandonato la linea politica filo-britannica facendo dell’autogoverno il suo nazionalistico fine, aveva aderito con entusiasmo, insieme a molti altri giovani del suo calibro, a questo partito.

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In questo periodo, coloro che erano processati dal governo inglese per

tradimento erano acclamati come eroi dai nazionalisti indiani.

Proseguiva, allo stesso tempo, l’estenuante braccio di ferro Lega-

Congresso, in un momento in cui invece era sempre più necessario un

piano che garantisse un passaggio razionale e non violento dei poteri

dall’autorità britannica a quella indiana.

Tale piano fu realizzato, il 16 maggio 1946.

La soluzione della missione stava dunque nel proporre un’unione che

abbracciasse l’India britannica e gli stati, con poteri centrali limitati

alla difesa, agli affari esteri, alle comunicazioni e “alle misure atte a

reperire le finanze necessarie” al funzionamento delle tre prerogative

precedenti. L’unione sarebbe stata governata da un esecutivo e da un

legislativo, e ogni “questione a carattere interetnico” sarebbe stata

decisa dalla maggioranza di “ciascuna delle due etnie principali”. I

rimanenti poteri sarebbero stati delegati alle province “libere di

formare gruppi” che si sarebbero chiamati A, B e C. Del gruppo B

avrebbero fatto parte il Panjab, il Sind, La Northwest Frontier e il

Belucistan; del gruppo C avrebbero fatto parte il Bengala e l’Assam; il

gruppo A sarebbe stato formato da tutto il resto. Non appena elette, le

assemblee provinciali avrebbero scelto dei rappresentanti a una futura

assemblea costituente nella misura di uno per milione di abitanti, su

base proporzionale per i maggiori gruppi indiani: “generici”,

musulmani e sikh. “Generici” sarebbero stati considerati tutti coloro

che non erano né musulmani né sikh. Il Congresso avrebbe così avuto

una maggioranza di 167 a 20 dei rappresentanti generici nel gruppo A;

nel gruppo B i musulmani avrebbero avuto una maggioranza di 22

rappresentanti contro i 9 dei generici e i 4 dei sikh, e poi una risicata

maggioranza di 36 rappresentanti contro i 34 generici nel gruppo C.

Fino all’entrata in vigore della nuova Costituzione, l’amministrazione

quotidiana sarebbe stata compito di un governo ad interim il cui

gabinetto sarebbe stato interamente formato da “leaders indiani che

godano della piena fiducia del popolo”. Una volta approvata la

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Costituzione, ogni provincia avrebbe potuto votarne la modifica. _

pag. 311/312

Nonostante le buone intenzioni da cui era partita la stesura di un simile

piano di azione, le perplessità e la sfiducia rimanevano notevoli e

rilevanti, da parte sia del Congresso sia della Lega. Azioni e reazioni

continuarono a concatenarsi rapidamente e pericolosamente, fino a che

arrivò il limite estremo: Jinnah, il 27 luglio 1946, riunì il consiglio della

Lega a Bombay, volendo denunciare la “malafede” del governo e del

Congresso, ed esortare tutti i musulmani presenti in India all’ “azione

diretta”. Il 16 agosto fu scelto come giorno dell’azione diretta. L’anti-

costituzionalismo prese il sopravvento, le violenze e le barbarie

ricominciarono, altro sangue fu sparso. Il 2 settembre il nuovo governo fu

accolto con malumore e disapprovazione. Tutto era di nuovo allo sfacelo.

I migliori diplomatici inglesi tentarono ancora di intromettersi, per

scongiurare la possibilità di un governo indiano unitario, ma sembrava

non esserci alcuna speranza di raggiungere questa sponda. I dissapori,

anzi, aumentarono, anche tra i leader indiani e i diplomatici inglesi: la

Gran Bretagna fu ufficialmente e definitivamente tagliata fuori dagli affari

politici dalla Lega. Gli inglesi, d’altro canto, impegnati nelle conseguenze

della seconda guerra mondiale, erano ormai ansiosi di liberarsi dal

pesante fardello orientale, trasferendo i propri poteri in mani indiane

responsabili, ossia ad un governo in grado di mantenere l’ordine, entro e

non oltre il giugno 1948. Fu così che Lord Louis Mountbatten

(1900/1979)9 fu inviato in India come vicerè. Quest’uomo, tanto capace

quanto affascinante, non solo riuscì a dividere il territorio indiano in modo

soddisfacente, ma svolse tanto bene il suo lavoro diplomatico che fu

anche eletto primo governatore generale del dominion indiano.

9 Pronipote della regina Vittoria e, durante la guerra, audace comandante di tutte le forze alleate nel Sud-Est asiatico.

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Mentre egli, però, era a Delhi a discutere le varie possibili strategie, in

Panjab le crisi e le devastazioni dovute alla questione razziale

proseguivano imperterrite. Questa regione, infatti, nonostante la sua

maggioranza musulmana, era sempre stata in mano agli Unionisti.

Quando, invece, fu avanzata la proposta di formare un gabinetto

governato da musulmani, i khalsa levarono alto il loro grido di battaglia

“Morte al Pakistan” 10. L’esercito sikh, guidato da Tara Singh, pretendeva

una nazione tutta sikh, il Sikhistan11, e si dimostrava pronto a offrire in

sacrificio la propria vita per questa causa. Negli ultimi 4 mesi di governo

britannico il Panjab e fu teatro di morte, incendio, saccheggio e

distruzione.

Gandhi andava avanti nelle sue pacifiche marce per l’elevazione delle

coscienze e per l’amore interiore che si potesse manifestare anche

all’esterno,a ma in questo periodo, purtroppo, le sue proteste non

violente non riscuotevano molto successo. Nel luglio 1947 la Camera dei

Comuni annunciò l’imminente creazione del dominion del Pakistan.

La partizione non era accettata di buon grado dagli indù, ma, nella

situazione attuale, era assolutamente necessaria. Così avvenne, sempre

per decisione degli inglesi, freddi e distaccati quanto bastava nei

confronti di tale contesto politico. Le conseguenze pratiche di questa

decisione caddero addosso alle province indiane come valanghe:

un’infinità di noiosi procedimenti burocratici, ma questo era il minimo…

Viaggi di profughi, delitti, stupri e violenze di ogni sorta ripresero, ancora

più intensi e inarrestabili che in passato. In queste condizioni si giunse

all’estate 1947.

Il 25 luglio Mountbatten riunì i principi indiani in una conferenza per dire

loro che entro il 15 agosto, data in cui sarebbe terminato il governo

10 La formazione del Pakistan era stata finora il cavallo di battaglia più rilevante della lotta della Lega, che prefigurava uno stato indipendente con un territorio ben più ampio di quello che gli si voleva coralmente attribuire. 11 Anche detta Khalistan, Terra del puro.

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inglese in India, essi avrebbero dovuto inserirsi o in India o in Pakistan,

non secondo una decisione ideologica o religiosa, ma in base alla

prossimità geografica del loro territorio all’uno o all’altro stato.

Gandhi non volle festeggiare questa indipendenza.

Jinnah divenne governatore del Pakistan; Nehru fu il primo premier

dell’India indipendente. Quest’ultimo, a mezzanotte del 14 agosto 1947,

pur in mezzo a un numero infinito di difficoltà, seppe fare un discorso

commovente per salutare la libertà del suo paese, e di quello delle milioni

di persone che stavano lì presenti, ad ascoltarlo e a festeggiare l’epocale

conquista storica.

Il tricolore venne dispiegato in cime al Forte Rosso di Delhi e

nell’oscurità milioni di persone salutarono l’albe dell’indipendenza,

anche se Nehru li mise in guardia: “Il passato è ancora con noi”. _ pag.

318

I governi si succedettero e la situazione dell’India andò cambiando

notevolmente. Negli anni ’60, quando a capo del governo c’era Indira

Gandhi, era un paese ormai inserito nelle dinamiche internazionali, sia

dal punto di vista commerciale sia da quello politico. Tale inserimento,

tuttavia, seppur necessario e comunque coraggioso, portò impopolarità

al governo, in quanto la moneta indiana, la rupia, andò perdendo valore

(come d’altronde accade in ogni mercato che voglia immettersi in un

orizzonte di esportazioni e importazioni più ampio di quello nazionale) e

l’appoggio indiretto ai conflitti portati avanti dagli USA faceva pensare ad

una politica guerrafondaia e manipolata dalle pressioni statunitensi. Una

volta consapevole di tali meccanismi, Indira decise di opporsi

esplicitamente all’aumento dell’impegno americano in Vietnam, a favore

di soluzioni più giuste, meno aspre e sanguinose, che potessero restituire

diritti e speranze al popolo vietnamita.

Page 16: S. WOLPERT_Storia Dell'India

Nonostante questa strategia, durante il periodo in cui governò, I. Gandhi

dovette fronteggiare una situazione di scioperi e scarsità di cibo, oltre

che di continue manifestazioni causate dalla volontà di separatismo

linguistico.

Nel Panjab i Sikh continuavano a chiedere lo statuto di suba (stato), in

virtù della differenza tra la loro lingua (panjabi nel parlato e gurmukhi

nello scritto) e quella degli abitanti della parte sud-orientale a

maggioranza indù, che parlavano hindi. Coloro che si esprimevano in

panjabi, invece, erano concentrati nella parte nord-occidentale della

regione. Quest’ultima zona, inoltre, era anche più sviluppata e ricca

economicamente rispetto all’Haryana, la parte hindi. Mentre l’Akali Dal (il

partito che più si è prodigato per l’indipendenza sikh) e le sue guide

manifestavano e digiunavano per protesta, anche gli indù dell’Haryana

non erano da meno.

Nel 1965, però, quando scoppiò il conflitto indo-pakistano, ci fu una

tregua da parte dei Sikh, a patto però che un comitato di gabinetto

prendesse in considerazione le richieste dell’Akali Dal. Il 1° novembre

1966, dunque, il Panjab fu suddiviso in due stati, uno omonimo a

maggioranza sikh e un altro, di nome Haryana, a maggioranza indù. Nel

1970 Chandigarth, che fino a quel momento era stata la capitale

condivisa tra i due territori, fu annessa al solo Panjab; in quell’anno,

infatti, uno dei rappresentanti dell’Akali Dal era morto durante un

digiuno a favore di quella causa, e un altro minacciava di seguire il suo

esempio.

A livello nazionale, nel frattempo, le elezioni del 1967 ebbero un esito

disastroso per Indira Gandhi; nei singoli stati la situazione era ancora

peggiore, in quanto il suo partito perse addirittura la maggioranza.

Una decina di anni dopo, intorno al 1980, mentre India e Pakistan, due

stati oramai definitivamente separati, si armavano di ordigni nucleari

Page 17: S. WOLPERT_Storia Dell'India

(dichiarando entrambi di volerli usare solo per scopi scientifici e pacifici),

le dinamiche internazionali proseguivano, in linea con tali mutamenti. Si

è consapevoli dell’eventuale rischio dello scoppio di un conflitto nella

zona di confine tra le due nazioni, nel Kashmir indipendentista per

esempio; come si è consapevoli del fatto che, in un caso simile, la Russia

si scaglierebbe immediatamente ad appoggiare l’India, mentre l’Arabia

Saudita e la Libia sarebbero ben disposte a schierarsi a favore del

Pakistan. Nel caso si venisse a creare tale situazione, la portata del

conflitto non sarebbe certo quella delle contrapposizioni del passato;

anzi, potrebbe avere esiti davvero disastrosi per tutto il pianeta (viste le

armi a disposizione ora). Eppure questo è un pericolo e nient’altro:

potrebbe andare in un modo completamente diverso. Gli abitanti di

questi territori potrebbero aver fatto tesoro delle esperienze del passato

e aver compreso anche che i meravigliosi insegnamenti delle loro culture

potrebbero essere applicati con successo in un contesto di pace,

collaborazione e crescita, nella politica, nell’economia e nelle relazioni

comunicative umane.

La prosperità del Panjab sembrava offrire un ottimo esempio di come ciò

sia possibile: il reddito pro-capite era il più alto di tutta l’india, lo sviluppo

economico e tecnologico proseguiva senza eguali (soprattutto dopo la

svolta impressa alla produzione agricola dalla Rivoluzione verde alla fine

degli anni ’60) e, nonostante tale benessere, i Sikh continuavano ad

essere molto laboriosi e determinati tanto negli affari quanto

nell’esercito. Nel 1982, per la prima volta, un Sikh, Gyani Zail Singh, fu

eletto presidente dell’Unione Indiana, carica che ricoprì fino al 1987,

anno in cui si ritirò dalla scena pubblica.

Prima del 1980, però, dopo che dall’originario Panjab avevano avuto

vita, ad opera di Indira Gandhi, tre stati (il Panjab, l’Haryana e l’Himachal

Pradesh), il sentimento di separatezza e di estraneità era, ovviamente,

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cresciuto; l’Akali Dal, il partito più nazionalista che, in quanto tale, ora

reclamava l’indipendenza del Panjab come nazione a sé stante, aveva

guadagnato altre persone tra le sue file, minacciando di diventare

seriamente pericoloso. Per opporsi a questo stato di cose, Indira aveva

ben pensato di appoggiare un politico che si contrapponeva all’Akali Dal,

il Sant (santo) fondamentalista Jarnail Singh Bhindranwale (1947/1984),

personaggio allora pressocchè sconosciuto.

Nel 1983, tuttavia, Bhindranwale era diventato ben più pericoloso di

quanto fosse stato ogni leader dell’Akali Dal: rivendicava con la forza del

terrore l’indipendenza del Panjab, che sarebbe dovuto diventare una

nazione separata dall’India. A questo fine, all’inizio del 1984 occupò

l’Akal Takht, accompagnato dai suoi seguaci armati; il loro ultimatum era

rimanere lì fino a costringere il governo di New Delhi a concedere piena

autonomia al Panjab. Poiché in tutta l’India la gente iniziò a schierarsi

violentemente a favore dell’una o dell’altra parte, e ad esprimere rabbia

e frustrazione nei confronti di un governo centrale incapace di farsi

sentire in una simile contingenza, Indira Gandhi pensò bene di sfoggiare

tutta la marzialità dell’esercito indiano contro gli estremisti sikh: nel

giungo 1984 ordinò alle truppe di dare avvio all’ Operazione Bluestar,

invadendo il Tempio d’Oro. Il 5 e il 6 giungo fu vera e propria guerriglia

ad Amritsar; la città sacra dei Sikh, con il suo tempio storico, fu rasa al

suolo, devastata nella violenza e nel sangue, conoscendo la strage di

migliaia di morti. Il Sikhistan ebbe così i suoi primi martiri.

Neanche a sei mesi di distanza, Indira Gandhi pagò con la vita le

conseguenze della sua scelta, della profanazione del santo luogo sikh:

due sue guardie del corpo, di fede sikh, la assassinarono.

A Londra e nel Texas alcuni sikh sostenitori del “Khalistan”

festeggiarono e furono fotografati mentre bevevano

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champagne per celebrare l’assassinio della signora Gandhi. Ma

per i sikh di Delhi e degli altopiani settentrionali, dove dilagava

la paura, il bagno di sangue era appena cominciato.

Schiere inferocite di teppisti indù si lanciarono per le vie della

capitale non appena la voce dell’assassinio della signora

Gandhi si diffuse. Gridando “Sangue per sangue!”, quelle

bande criminali spargevano kerosene su ogni sikh che

vedevano, appiccando il fuoco a esseri umani, automobili,

negozi o case di proprietà dei sikh, dovunque potessero

trovarne. Per tre giorni e tre notti, la capitale dell’India si

trasformò nel luogo più selvaggio, più oppresso dal terrore,

della terra, mentre bande prezzolate di incendiari e assassini

scorrazzavano libere, aizzate da “vendicatori” del primo

ministro che credevano di farsi giustizia. Intanto la polizia

fingeva di non vedere gli assalti criminali e l’esercito dormiva.

Secondo un conteggio ufficiale più di mille sikh furono uccisi

nella sola Delhi durante quei primi tre giorni di novembre del

1984, ma osservatori non ufficiali videro parecchie migliaia di

cadaveri solo nella zona dei sobborghi messi a sacco di Delhi,

come Trilokpuri. L’intero governo indiano sembrava venuto

meno insieme con il primo ministro. Il presidente Zail Singh era

all’estero, nello Yemen, quando ricevette la terribile notizia, e

volò in patria. _ pag. 379

Rajiv, figlio di Indira e nipote di Nehru, succedette alla madre nella

carica di primo ministro. Giustizia fu fatta tardi (o forse non fu fatta per

niente) verso quelli che sono stati definiti semplicemente

“comportamenti antisociali” 12.

Rajiv fu accolto sin da subito con favore e, dopo le gravi colpe imputate

ai Sikh, tutta l’India si radunò tra le file del partito del Congresso-I che,

12 Definzione ad opera della commissione Misra, con a capo il giudice omonismo, incaricato, nel 1985, di indagare sull’accaduto. L’indagine mise in luce più cha altro l’inazione delle forze dell’ordine. Tra la popolazione civile, tuttavia, non furono rintracciate persone direttamente coinvolte, né furono presi provvedimenti di qualsivoglia genere.

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infatti, il 24 dicembre 1984 conobbe il suo più grande successo

elettorale; e con esso l’India indipendente. Quest’uomo, infatti, era

salutato come il nuovo riformatore dell’India, un’India che sperava di

essere diversa da quella che fino a quel momento aveva prevalso.

Un’India che si tirava fuori dal terrorismo, dalla violenza e dalla carestia,

guardando verso il progresso e verso l’evoluzione, politica e umana.

Rajiv fu un ottimo promotore di tali aspettative, avendo studiato a

Cambridge, avendo imparato da solo ad usare il pc e avendo scelto

autonomamente di sposare una donna italiana, Sonia Maino. In India,

ora, si faceva spazio ai tecnocrati.

Rajiv stipulò importanti accordi con gli oppositori: nel gennaio 1986

Chandigarth divenne capitale del solo Panjab (in cambio, alcune terre di

questa regione passarono all’Haryana), la proposta della legge All India

Gurdwara Bill fu esaminata e ai Sikh fu concesso l’uso continuativo

dell’acqua dei fiumi che nascono e hanno corso nel Panjab. Altri

provvedimenti furono presi, tra cui la decisione, da parte di Rajiv Gandhi,

di organizzare le seguenti elezioni proprio in Panjab. Le elezioni

avvennero, l’Akali Dal le vinse e Surjeet Singh Bardala divenne capo del

governo del Panjab. Ma, allo scadere del termine entro cui Chandigarth

avrebbe dovuto passare definitivamente al Panjab, la mancanza di intesa

tra il governo centrale e Bardala fece sì che l’accordo rimase a metà

della sua realizzazione.

Di fronte a questa situazione, la violenza dei Sikh ricominciò, più dura

che mai. I terroristi ripresero le loro battaglie e, stavolta, a fermarli

furono inviati decine di migliaia di elementi paramilitari della Polizia

Centrale di Riserva e di specialisti della Border Security Force. Fu di

nuovo guerra.

Barnala tentò di ricostruire la fiducia del governo centrale, ma più

perseguiva questo scopo, più perdeva l’appoggio della maggioranza del

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suo partito, l’Akali Dal, che alla fine lo abbandonò definitivamente.

Barnala si aggrappò con le unghie e con i denti al suo potere, ma nel

1987 fu sia scomunicato dagli stessi leader del Tempio d’Oro, sia

deposto dal governo centrale di Delhi.

Il panjab finì con l’essere governato autocraticamente da un governatore

bengali e dal direttore generale delle forze di polizia. Leggi dure e

provvedimenti contro ogni diritto umano furono applicati: come tante

volte nella storia, violenza per contrastare violenza, crimini contro altri

crimini. Ma, si sa: questa via non porta a pacifiche e durature conquiste

sociali e politiche. Per il Panjab, infatti, non ci fu altro che il

proseguimento della violenza e della repressione.