S. WOLPERT_Storia Dell'India
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Stanley Wolpert
STORIA DELL’INDIA
Dalle origini della cultura dell’Indo alla storia di oggi.
All’inizio del 1500 l’India appariva molto frammentata sia dal punto di
vista sociale e politico, sia da quello spirituale e religioso. Ibrahim Lodi (il
cui regno durò dal 1517 al 1526) non fu abbastanza carismatico e capace
da assicurare la sopravvivenza del suo potere, cosicché, mentre i
portoghesi entravano indisturbati nella sua terra, lui dovette fronteggiare
l’attacco del suo rivale più vicino e più pericoloso: Babur, re di Kabul
(1483/1530). Fu questi, infatti, a sconfiggere definitivamente la dinastia
dei Lodi e a dare origine al possente impero moghul, che regnerà in India
di qui ai secoli seguenti. Impero che conobbe la vita il 21 aprile 1526.
In questa situazione, anche i cambiamenti negli equilibri religiosi
trovavano la propria realizzazione.: sin dalla fine del XIV secolo si andava
diffondendo la corrente devozionale della bhakti induista. Nata nel sud
dell’India, raggiunse le rive del Gange e Benares grazie al più grande
discepolo di Ramanuja, Ramananda, che si spinse fin là predicando la
dottrina del divino amore. Allievo di costui fu anche Kabir (1440/1518),
un mistico musulmano che, secondo alcune fonti, fu uno dei più
importanti maestri, o comunque interlocutori, di Nanak, il fondatore del
Sikhismo. Nanak (1469/1538) visse in Panjab e fu il primo guru sikh. Egli
propendeva per un superamento delle formalità religiose al fine di mirare
ad un’espressione più alta e sublime della spiritualità, nell’unione tra gli
opposti e nell’incondizionata e amorevole devozione all’Unico Dio.
Tra alti e bassi, l’impero moghul continuò il suo dominio su gran parte
del nord dell’India, finché non conobbe un periodo di grande splendore,
grazie ad Akbar, che nel 1576 riuscì a conquistarlo. Egli aveva una
personalità forte, intelligente e affascinante; era dedito agli studi delle
religioni e dell’astronomia, ma non per questo non era abile a occuparsi
delle faccende politiche, militari e strategiche del regno. Creò una serie di
riti sociali attraverso cui stese un manto divino sul suo potere, essendo,
allo stesso tempo, accorto, che anche i meno devoti alla religione
potessero esserlo al sovrano. Istituì, per esempio, il saluto Allahu Akbar,
che significa sia Dio è grande sia Akbar è Dio. I capi musulmani più
ortodossi erano preoccupati del suo eclettismo, ma, anche quando
tentarono di contrapporvisi, fallirono completamente. Fu l’unico
imperatore moghul che incoraggiò l’arte e il sincretismo religioso; fu
venerato come sovrano e come riformatore illuminato. Tanta meraviglia,
tuttavia, dovette essere oscurata dallo stesso figlio maggiore di Akbar,
Salim, suo erede e forse suo assassino. Akbar morì avvelenato il 17
ottobre 1605.
Salim, detto Jahangir, goverò dal 1605 al 1627. Gli succedette Shah
Jahan (1628/1658) e poi Aurangzeb (1658/1607). Quest’ultimo fu,
probabilmente, l’imperatore moghul più freddo e terrificante che l’India
conobbe. Assolutamente dedito al potere e all’affermazione della
supremazia della propria fede, fu il perfetto ricettacolo delle tante
ribellioni che sorsero in India durante quel regno. Sottomesse e
perseguitate, molte popolazioni (i Jat, i Maratha, i Sikh e i Rajput) si
scontrarono con le truppe imperiali. Ma l’efficienza dittatoriale del potere
di Aurangzeb non potè in nessun modo esser messa in discussione. Il
Panjab, però, continuò a covare sete di ribellione.
A partire dalla sua fondazione, avvenuta nei primi anni del XVI secolo a
opera del santo guru Nanak, la nuove, liberale e aperta comunità dei
sikh si era diffusa nel Panjab, facendo proseliti fra i contadini di nascita
sia indù sia musulmana. Tenendo ben presenti le parole del guru
Nanak contenute in uno scritto composto proprio a questo scopo – la
Gurumukhi (“dalla bocca del maestro”) -, il suo successore, guru
Angad (1504-1552), diede alla comunità nuova coesione e il senso
stesso della sua identità. Il terzo guru, Amar Das, venne protetto da
Akbar e portò ancora più convertiti alla nuova fede, che metteva in
risalto l’importanza del cibo e della preghiera nella comunità e aboliva
la clausura delle donne (pardah) come pure l’esclusività delle caste e
l’intoccabilità. Ram Das, il quarto maestro, fece parte della corte di
Akbar e ottenne dall’imperatore alcune terre nel Panjab, tra i fiumi
Satlej e Ravi, destinate a divenire la sede della santa capitale dei sikh.
Il figlio e successore di Ram Das, Arjun (1563-1606) terminò la
costruzione del grande tempio sikh proprio in quei luoghi, e diede alla
città il nome di Amritsar (“Specchio del nettare immortale”) perché la
sua costerna era piena di acque “sacre”. Sotto l’accorta guida di Arjun
vennero scritte e depositate nel tempio di Amritsar le scritture del sikh,
il Granth Sahib. “Nel suo ricettacolo – scrisse il guru Arjun nel libro –
potrai ritrovare tre cose: verità, pace e contemplazione”. Jahangir
accusò tuttavia Arjun di alto tradimento e lo torturò a morte in base al
sospetto che il maestro avesse aiutato Khusrau, il figlio ribelle
dell’imperatore, e poi perché il guru si rifiutava di ammettere la
propria colpa e di abiurare la sua fede. Il martirio di Arjun spinse suo
figlio, Hargobind, ad armare i compagni di fede che, d’ora in poi,
sarebbero stati pronti a difendere con la massima fermezza la loro
religione e le loro vite: il credo pacifista di Nanak si era trasformato in
un nuovo ordine militante il lotta contro la tirannide moghul. Anche se
costretto a ritirarsi a Kiratpur, ai piedi del Himalaya, il guru Hargobind
e i suoi seguaci continuarono a opporre resistenza contro i Moghul fino
alla serena morte del maestro, nel 1644. Il settimo maestro, Har Rai,
venne seguito ancora più addentro fra le montagne, donde riemerse
solo nel 1658 per sostenere le pretese al trono di Dara Shikoh. Dopo la
vittoria di ‘Alamgir1, Har Rai fu costretto a lasciare suo figlio, Ram Rai,
come ostaggio presso la corte dell’imperatore: il giovane divenne un
suddito leale del sovrano e perdette l’appoggio del padre. Poco prima
della morte, avvenuta nel 1661, Har Rai designò il figlio minore, Har
Krishen, come successore, ma anche lui fu costretto a cercare a Delhi
1 Altro nome di Aurangzeb.
il favore di ‘Alamgir e qui morì di vaiolo nel 1664. Il nono maestro sikh
fu il prozio di Har Rai, Tegh Bahadur (1621 – 1675), che venne
arrestato dai soldati di ‘Alamgir ad Agra e in seguito a Delhi, dove fu
poi decapitato per aver rifiutato la conversione all’Islam. Il guru Gobind
Rai (1666 – 1708), figlio di Tegh Bahadur, fu il decimo e ultimo
maestro Sikh. Fece voto di vendicare l’uccisione dle padre e dedicò la
sua vita a combattere senza tregua la tirannide di ‘Alamgir. Govind Rai
rese la comunità un’ “armata di puri” (khalsa) e assunse come nuovo
cognome quello di Singh, “leone”, imponendolo anche ai suoi più
stretti seguaci. A partire da questo momento i sikh divennero una
compatta trama di feroci combattenti, che si riconoscevano l’un l’altro
come i simboli costitutivi della fede; fecero voto di non tagliarsi mai
capelli e barba, di portare sempre la sciabola, di indossare al polso
destro un braccialetto di acciaio e i calzoni lunghi al ginocchio dei
soldati, di tenere un pettine per i capelli. Il guru divenne ora tutt’uno
con la comunità, i cui uomini erano guerrieri sempre cacciati e sempre
pronti a combattere, ma a sua volte il desiderio della maggioranza del
khalsa sarebbe stato quello di rappresentare il guru, condotto in
questo modo all’immortalità. Gobind poteva disporre, a quanto si
diceva, di più di ventila seguaci, ma gli eserciti moghul erano molto più
numerosi e non gli diedero tregua fino agli ultimi giorni di lotta. Il guru
ebbe almeno la soddisfazione di sopravvivere all’odiato rivale,
‘Alamgir, per un anno e mezzo. _ pag. 152-153
Nei decenni che seguirono l’impero moghul fu contrassegnato
dall’instabilità politica, dal crollo economico e dal malcontento popolare.
In questo frangente, si susseguirono al trono Bahadur Shah (figlio di
Aurangzeb), che governò per 5 anni, morendo nel 1712; Jahandar Shah,
figlio maggiore di Bahadur Shah che, appoggiato dai fratelli Sayyd (due
cortigiani che, in realtà, erano i veri detentori del potere), vinse le lotte di
successione; un tisico che morì dopo poche settimane (scelto sempre dai
fratelli Sayyd); Shah Jahan II, suo fratello, sempre mira degli astuti
cortigiani, e Muhammad Shah che, sebbene ancora eletto dai Sayyid,
durò ben 30 anni (fino al 1748) e ne uccise uno.
In questi anni le ribellioni contro i Moghul, da parte sia dei Rajput sia dei
Maratha sia dei Sikh, aumentarono. Riguardo a questi ultimi, sebbene
Guru Govind Singh si fosse proteso, poco prima di morire, per
riappacificarsi con l’imperatore Bahadur Shah, con la fine della sua vita
(nel 1708), il panth riprese le lotte contro i Moghul sotto il comando di
Banda Bahadur (1708/1716). Questi, redigendo un calendario e facendo
battere delle monete, si dichiarò re del Panjab. Le truppe imperiali,
ovviamente, a lungo andare ebbero la meglio, ma l’impero moghul era
comunque giunto alla fine.: la situazione politica era allo sfacelo,
economicamente predominava un generale malcontento e le invasioni
erano ormai all’ordine del giorno.
Seguì il dominio incerto e passeggero di una serie di piccoli re, deboli e
impotenti. Le scorrerie andarono avanti, imperversando soprattutto nel
Panjab. In questa regione, nel frattempo, i Sikh si erano divisi in dodici
misl (distretti, unità di governo regionali), onde poter essere mobili e
potersi difendere con efficacia. Allo stesso tempo, però, questa comunità
stava lavorando con l’intenzione di rendersi indipendente: in cambio
dell’erogazione di un tassa da parte dei contadini, i khalsa si
impegnavano a proteggerli militarmente dai continui attacchi nemici
(afgani, moghul, maratha).
Mentre l’India si autodistruggeva, le varie Compagnie europee
prosperavano ai margini del territorio. Gli inglesi, in particolar modo, si
erano stanziati piuttosto stabilmente. All’inizio erano ospiti per scopi
commerciali e, in quanto tali, tributari verso l’amministrazione indiana.
Con l’avanzare della crisi, però, il loro ruolo assunse gradualmente un
carattere più invasivo, sottraendosi abilmente agli oneri economici e
guadagnando progressivamente sempre più terreno anche dal punto di
vista politico. A differenza dei tanti gruppi che occupavano l’India, infatti,
gli inglesi apparivano un ottimo esempio di lealtà, efficienza e
compattezza. Questa capacità di superare gli interessi singoli in vista di
uno scopo comune fu determinante per il successo del raj (governo) della
Compagnia in India.
Nel 1793, poco prima di lasciare l'India, Cornawallis2 racchiuse il suo
metodo di amministrazione e di governo nel Bengala3 in un Code of
Forthy-Eight Regulations (“Codice di Quarantotto Regole”). Il “Codice
Cornwallis”, come venne chiamato da quel momento, comprendeva i
fondamenti per un governo britannico in tutta l’India e proponeva i
modelli relativi ai servizi, le corti e la raccolta della imposte che
sarebbero rimasti validi per sempre senza subire variazioni degne di
nota. _ pag. 186
Gli inglesi introdussero la proprietà privata in India, iniziarono a
riscuotere tasse ovunque lo ritenessero necessario e, anche negli altri
ambiti, si mossero sempre nella ferma convinzione di essere il popolo più
adatto a governare nel miglior modo possibile quel territorio. Le loro
imprese commerciali, nel frattempo, aumentavano di entità.
All’inizio del XIX secolo, l’unico regno rimasto d’intralcio alle mire
inglesi era quello dei Sikh del Panjab. A capo di questi ora c’era Ranjit
Singh (1781/1839), maharaja dal 1799 e per i seguenti 40 anni,
intelligente diplomatico, nochè eccellente stratega e militare. Sotto la sua
guida, la comunità sikh aveva più volte sconfitto gli Afgani, costringendoli
ad arretrare.
Nel 1820 il regno di Ranjit comprendeva quindi seicentocinquantamila
chilometri quadrati circa di territori fra i più fertili e i meglio
2 Capo del governo inglese.3 Regione centro-orientale dell’India.
strategicamente situati dell’Asia meridionale. Il suo permanente
“esercito del puro” (khalsa) comprendeva quasi centomila sikh:
un’armata potente forgiata al fuoco dell’oppressione moghul, temprata
dai continui conflitti con gli afgani Pathan, e che la fede nelle scritture
lasciate dai suoi dieci guru aveva mutato in un’arma micidiale al
servizio del retto agire.
Giudicando a ragion veduta troppo formidabile la potenza dei sikh per
poterla affrontare, gli inglesi indirizzarono il loro fuoco sul lontano
regno della Birmania… _ pag. 201
In seguito, circa 20 anni dopo, gli inglesi, guidati stavolta da
Macnaghten, si allearono con Ranjit Singh e con Shah Shuja (ex sovrano
dell’Afghanistan, che gli inglesi volevano rimettere sul trono come re
fantoccio da manipolare a loro piacimento) per invadere la terra afgana,
ora comandata da un clan diverso da quello di Shah Shuja. Se
quest’ultimo, però, era davvero un fantoccio nelle grinfie degli inglesi, lo
stesso non si poteva dire di Ranjit Singh. Egli, infatti, pur dando la sua
approvazione alla Compagnia inglese, non la aiutò nella battaglia contro
gli Afgani: non gli fornì alcun soldato, né permise alle sua truppe di usare
le terre del Panjab. L’esercito di Macnaghten, tuttavia, ebbe la meglio,
almeno in un primo momento. Una volta di nuovo al trovo, infatti, Shah
Shuja non fu comunque accettato dal popolo; le finanze inglesi ebbero
ingenti perdite per portare avanti la guerriglia afgana; le truppe della
Compagnia morirono (letteralmente) al freddo del dicembre 1841 e
l’aprile successivo Shah Shuja fu assassinato. La presunzione, l’astuzia e
la presupposta invincibilità inglese subirono un duro colpo, il primo in
India.
La Compagnia, nonostante tutto, non si abbatté, fermamente
determinata a rifarsi, conquistando il Sind4 e il Panjab. Il 17 febbraio del
1843 riuscì a mettere le sue bandiere sul Sind, con l’egocentrica pretesa
4 Regione nord-occidentale dell’India.
di “salvare” le popolazioni che vi vivevano. Con il Panjab, la situazione fu
più complessa. Dalla morte di Ranjit Singh (1839), prima della quale il
maharaja aveva ammonito il suo panth sul pericolo che anche la loro
terra, come la stragrande maggioranza delle terre indiane, cadesse sotto
il dominio inglese, iniziarono dure lotte di successione per la sovranità.
Nel frattempo, l’esercito inglese, da tempo stanziato sul confine
settentrionale, presso il fiume Satlej, aumentava gradualmente le sue
unità finchè, nel 1845, la “tregua armata” finì e scoppiò il conflitto vero e
proprio. Un anno dopo, nel 1846, i Sikh furono costretti a cedere alcune
terre agli inglesi (tra cui il ricco e strategico Kashmir), a disarmare gran
parte delle loro truppe e ad arrendersi.
A causa del forte e orgoglioso spirito di appartenenza e di indipendenza
sikh, nonché della volontà di espansione e di dominio inglese, tuttavia, ci
fu una seconda guerra, che, con un interludio di due anni, non fu altro
che una continuazione della prima. Nel 1848 si aprì nuovamente il fuoco;
le battaglie continuarono fino al gennaio 1849, data in cui il Panjab, con
indefesso dispotismo, fu sottomesso alla sovranità della Compagnia.
Completata così, all’inizio del suo regno, l’ossatura della conquista
britannica, Dalhouise5 potè indirizzare le sue straordinarie energie verso
i problemi riguardanti l’unificazione dell’impero e la sua
modernizzazione – o, come l’avrebbero definita lui stesso e i suoi
collaboratori, la “civilizzazione degli indigeni”. _ pag. 209
Risoluti provvedimenti furono attuati nell’esercito. La regola
fondamentale del governo inglese era “divide et impera”, secondo cui,
creando suddivisioni tra i gruppi, è molto più facile esercitare
un’egemonia su di essi. Tale principio di base fu tenuto presente anche
nell’esercito, in cui i soldati erano inglesi solo in una piccolissima parte: la
5 Nuovo governatore-generale della Compagnia inglese.
stragrande maggioranza erano indiani, delle razze, lingue e culture più
diverse tra loro. L’artiglieria, tuttavia, era nelle mani della Compagnia,
onde evitare di soccombere sotto un eventuale ammutinamento. Gli
inglesi iniziarono a parlare di “razze marziali”, in modo che coloro che si
dimostravano più fedeli ai loro governanti potessero sentirsi gratificati,
riconosciuti e spronati a continuare su quella via. I Sikh furono tra queste
razze definite “marziali” (nonostante, ovviamente, non ci sia nulla di
genetico nell’educazione marziale di questa popolazione).
Attraverso due clausole, inoltre, una riguardante i contratti di proprietà e
una sull’ereditarietà delle terre, si affermavano sempre più idee e usanze
tipicamente occidentali. I ricchi indiani, in questo modo, mantenevano i
loro privilegi; rimanevano, per questo motivo, alleati del governo inglese
e, dall’altro lato, quest’ultimo poteva contare su una schiera di
amministratori che regolarmente corrispondevano tasse. Quando, poi, i
vari proprietari terrieri non poterono più permettersi di pagare le imposte
alla Compagnia, questa offriva loro finanziamenti e prestiti, mantenendo
la sua sporca immagine di salvatrice dell’India.
Durante l’ultimo quarto del XIX secolo, dunque, si verificarono molti
cambiamenti in India: ammodernamento tecnologico e mutamento
istituzionale furono le parole d’ordine della Compagnia che, giustificata
dalle sue fanatiche ideologie, lavorava con tutta lena per rendere sempre
più stabile la sua invasione del territorio indiano, per cristallizzare la sua
conquista e per agevolare i propri traffici commerciali.
Di lì a poco, però, iniziarono le prese di coscienza da parte degli indiani:
ammutinamenti, attacchi terroristici e progetti rivoluzionari divennero
gradualmente all’ordine del giorno, passando da una regione all’altra, per
ragioni apparentemente diverse ma aventi tutte la radice e lo scopo
ultimo nel dominio inglese. Le ribellioni ebbero origine nel Bengala, a
causa della forte carestia che interessò lo stato in questione: povertà,
malattia e mancanza di prospettive senza vie di scampo portarono
inevitabilmente frustrazione, rabbia e desiderio di cambiamento. L’aria si
diffuse presto tra i Sikh che, partiti in nave verso in Canada (dove già
molti altri erano emigrati) con la promessa, da parte del governo inglese,
di condizioni di vita migliori, furono costretti a tornare indietro. Nel
frattempo, infatti, era cominciata la prima guerra mondiale (siamo nel
1914) e, per questo motivo, i Sikh partiti con l’aspettativa di una vita
migliore, si ritrovarono invece a dover affrontare un viaggio lungo mesi,
in una situazione assolutamente disgraziata. Una volta giunti a Calcutta,
carichi di amarezza (per usare un eufemismo), si misero in marcia contro
il presunto razzismo britannico. Una nuova era, tuttavia, stava iniziando,
in cui il razzismo non era che un pezzo di un mosaico ben più ampio.
Nel 1927, quando il governo britannico indisse una riunione
dell’assemblea costituente (composta da 7 membri, nessuno dei quali
indiano) per programmare le successive riforme costituzionali, l’India
intera reagì con sdegno. Ovunque ci recasse, oramai, il panorama era
sempre lo stesso: folle inferocite e miriadi di poliziotti che cercavano di
tenerle a bada.
Le spinte indipendentistiche si coagularono nel Congresso Nazionale
Indiano (1885) dove la componente indù era in maggioranza. Il tentativo
Inglese di indebolire il movimento nazionale portò ad un primo tentativo
di boicottaggio delle merci inglesi in tutto il territorio. Per questo, nel
1905, venne fondata la Lega Musulmana di tutta l’India,
un’organizzazione a carattere politico intesa a sostenere e portare avanti
i punti di vista musulmani; questo indebolì il movimento di indipendenza.
Appianare le differenze fra Congresso e Lega Musulmana, sarà uno dei
compiti che si assunse il Mahatma Gandhi, il quale prefigurava un’unica
India dove Musulmani, Indù, Sikh, vivessero assieme liberi dagli Inglesi
ma anche liberi dal bisogno.
Il comitato Nehru6 propose un “Commonwealth indiano”, i cui poteri
scaturissero tutti “dal popolo” e che godesse delle stesse libertà di
tutti gli altri dominion7 dell’impero, del quale avrebbe continuato a far
parte. Venne altresì raccomandato un ibrido tra il parlamento
britannico e il congresso degli Stati Uniti, senza particolari
salvaguardie per le minoranze. Venne respinta la richiesta musulmana
di riservare un terzo dei seggi dell’organo legislativo centrale ai
musulmani. In sintonia con le precedenti proposte del Congresso, si
avanzò tuttavia l’ipotesi di ridisegnare i confini provinciali su basi
“linguistiche”. _ pag. 287
Al 1932 e all’opera di Ramsay McDonald risale il Communal Award, la
riforma elettorale che estendeva la formula del corpo elettorale
autonomo già concessa ai musulmani anche ai Sikh, ai cristiani indiani,
agli europei e alle classi più disagiate. Tale riforma sarebbe andata a far
parte della Costituzione indiana.
Le elezioni del 1945/46 videro Jinnah (1846/1949)8 soddisfatto, in quanto
la Lega musulmana si aggiudicò tutti e 30 i seggi messi a disposizione
all’Assemblea centrale; il Congresso vinse ilo 90% dei seggi e Sikh,
cristiani, europei e classi depresse si spartirono i restanti 15 seggi. Le
provinciali confermarono questi risultati, per cui i vari stati indiani si
trovarono governati da leader diversi, in eguale proporzione rispetto alle
vittorie/perdite elettorali. Il Panjab rimase sotto il controllo degli Unionisti.
6 Nehru era il padre del primo premier indiano e il nonno di Indira Gandhi; uno dei tanti che, in quegli anni, si trasformò da leale sostenitore del raj britannico in nazionalista. Nel dicembre 1919 era stato presidente del congesso di Amitsar e, in quella occasione, aveva sottolineato l’importanza di affidarsi ad un esecutivo e a un esercito responsabili, capaci di garantire il bene pubblico dell’India. 7 Territorio facente parte dell’Impero britannico pur essendo indipendente e dotato della personalità giuridica internazionale – tale denominazione verrà abbandonata a partire dal 1947.8 Giovane avvocato musulmano, di grande cultura e grande personalità, che nel 1913, quando la Lega musulmana aveva abbandonato la linea politica filo-britannica facendo dell’autogoverno il suo nazionalistico fine, aveva aderito con entusiasmo, insieme a molti altri giovani del suo calibro, a questo partito.
In questo periodo, coloro che erano processati dal governo inglese per
tradimento erano acclamati come eroi dai nazionalisti indiani.
Proseguiva, allo stesso tempo, l’estenuante braccio di ferro Lega-
Congresso, in un momento in cui invece era sempre più necessario un
piano che garantisse un passaggio razionale e non violento dei poteri
dall’autorità britannica a quella indiana.
Tale piano fu realizzato, il 16 maggio 1946.
La soluzione della missione stava dunque nel proporre un’unione che
abbracciasse l’India britannica e gli stati, con poteri centrali limitati
alla difesa, agli affari esteri, alle comunicazioni e “alle misure atte a
reperire le finanze necessarie” al funzionamento delle tre prerogative
precedenti. L’unione sarebbe stata governata da un esecutivo e da un
legislativo, e ogni “questione a carattere interetnico” sarebbe stata
decisa dalla maggioranza di “ciascuna delle due etnie principali”. I
rimanenti poteri sarebbero stati delegati alle province “libere di
formare gruppi” che si sarebbero chiamati A, B e C. Del gruppo B
avrebbero fatto parte il Panjab, il Sind, La Northwest Frontier e il
Belucistan; del gruppo C avrebbero fatto parte il Bengala e l’Assam; il
gruppo A sarebbe stato formato da tutto il resto. Non appena elette, le
assemblee provinciali avrebbero scelto dei rappresentanti a una futura
assemblea costituente nella misura di uno per milione di abitanti, su
base proporzionale per i maggiori gruppi indiani: “generici”,
musulmani e sikh. “Generici” sarebbero stati considerati tutti coloro
che non erano né musulmani né sikh. Il Congresso avrebbe così avuto
una maggioranza di 167 a 20 dei rappresentanti generici nel gruppo A;
nel gruppo B i musulmani avrebbero avuto una maggioranza di 22
rappresentanti contro i 9 dei generici e i 4 dei sikh, e poi una risicata
maggioranza di 36 rappresentanti contro i 34 generici nel gruppo C.
Fino all’entrata in vigore della nuova Costituzione, l’amministrazione
quotidiana sarebbe stata compito di un governo ad interim il cui
gabinetto sarebbe stato interamente formato da “leaders indiani che
godano della piena fiducia del popolo”. Una volta approvata la
Costituzione, ogni provincia avrebbe potuto votarne la modifica. _
pag. 311/312
Nonostante le buone intenzioni da cui era partita la stesura di un simile
piano di azione, le perplessità e la sfiducia rimanevano notevoli e
rilevanti, da parte sia del Congresso sia della Lega. Azioni e reazioni
continuarono a concatenarsi rapidamente e pericolosamente, fino a che
arrivò il limite estremo: Jinnah, il 27 luglio 1946, riunì il consiglio della
Lega a Bombay, volendo denunciare la “malafede” del governo e del
Congresso, ed esortare tutti i musulmani presenti in India all’ “azione
diretta”. Il 16 agosto fu scelto come giorno dell’azione diretta. L’anti-
costituzionalismo prese il sopravvento, le violenze e le barbarie
ricominciarono, altro sangue fu sparso. Il 2 settembre il nuovo governo fu
accolto con malumore e disapprovazione. Tutto era di nuovo allo sfacelo.
I migliori diplomatici inglesi tentarono ancora di intromettersi, per
scongiurare la possibilità di un governo indiano unitario, ma sembrava
non esserci alcuna speranza di raggiungere questa sponda. I dissapori,
anzi, aumentarono, anche tra i leader indiani e i diplomatici inglesi: la
Gran Bretagna fu ufficialmente e definitivamente tagliata fuori dagli affari
politici dalla Lega. Gli inglesi, d’altro canto, impegnati nelle conseguenze
della seconda guerra mondiale, erano ormai ansiosi di liberarsi dal
pesante fardello orientale, trasferendo i propri poteri in mani indiane
responsabili, ossia ad un governo in grado di mantenere l’ordine, entro e
non oltre il giugno 1948. Fu così che Lord Louis Mountbatten
(1900/1979)9 fu inviato in India come vicerè. Quest’uomo, tanto capace
quanto affascinante, non solo riuscì a dividere il territorio indiano in modo
soddisfacente, ma svolse tanto bene il suo lavoro diplomatico che fu
anche eletto primo governatore generale del dominion indiano.
9 Pronipote della regina Vittoria e, durante la guerra, audace comandante di tutte le forze alleate nel Sud-Est asiatico.
Mentre egli, però, era a Delhi a discutere le varie possibili strategie, in
Panjab le crisi e le devastazioni dovute alla questione razziale
proseguivano imperterrite. Questa regione, infatti, nonostante la sua
maggioranza musulmana, era sempre stata in mano agli Unionisti.
Quando, invece, fu avanzata la proposta di formare un gabinetto
governato da musulmani, i khalsa levarono alto il loro grido di battaglia
“Morte al Pakistan” 10. L’esercito sikh, guidato da Tara Singh, pretendeva
una nazione tutta sikh, il Sikhistan11, e si dimostrava pronto a offrire in
sacrificio la propria vita per questa causa. Negli ultimi 4 mesi di governo
britannico il Panjab e fu teatro di morte, incendio, saccheggio e
distruzione.
Gandhi andava avanti nelle sue pacifiche marce per l’elevazione delle
coscienze e per l’amore interiore che si potesse manifestare anche
all’esterno,a ma in questo periodo, purtroppo, le sue proteste non
violente non riscuotevano molto successo. Nel luglio 1947 la Camera dei
Comuni annunciò l’imminente creazione del dominion del Pakistan.
La partizione non era accettata di buon grado dagli indù, ma, nella
situazione attuale, era assolutamente necessaria. Così avvenne, sempre
per decisione degli inglesi, freddi e distaccati quanto bastava nei
confronti di tale contesto politico. Le conseguenze pratiche di questa
decisione caddero addosso alle province indiane come valanghe:
un’infinità di noiosi procedimenti burocratici, ma questo era il minimo…
Viaggi di profughi, delitti, stupri e violenze di ogni sorta ripresero, ancora
più intensi e inarrestabili che in passato. In queste condizioni si giunse
all’estate 1947.
Il 25 luglio Mountbatten riunì i principi indiani in una conferenza per dire
loro che entro il 15 agosto, data in cui sarebbe terminato il governo
10 La formazione del Pakistan era stata finora il cavallo di battaglia più rilevante della lotta della Lega, che prefigurava uno stato indipendente con un territorio ben più ampio di quello che gli si voleva coralmente attribuire. 11 Anche detta Khalistan, Terra del puro.
inglese in India, essi avrebbero dovuto inserirsi o in India o in Pakistan,
non secondo una decisione ideologica o religiosa, ma in base alla
prossimità geografica del loro territorio all’uno o all’altro stato.
Gandhi non volle festeggiare questa indipendenza.
Jinnah divenne governatore del Pakistan; Nehru fu il primo premier
dell’India indipendente. Quest’ultimo, a mezzanotte del 14 agosto 1947,
pur in mezzo a un numero infinito di difficoltà, seppe fare un discorso
commovente per salutare la libertà del suo paese, e di quello delle milioni
di persone che stavano lì presenti, ad ascoltarlo e a festeggiare l’epocale
conquista storica.
Il tricolore venne dispiegato in cime al Forte Rosso di Delhi e
nell’oscurità milioni di persone salutarono l’albe dell’indipendenza,
anche se Nehru li mise in guardia: “Il passato è ancora con noi”. _ pag.
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I governi si succedettero e la situazione dell’India andò cambiando
notevolmente. Negli anni ’60, quando a capo del governo c’era Indira
Gandhi, era un paese ormai inserito nelle dinamiche internazionali, sia
dal punto di vista commerciale sia da quello politico. Tale inserimento,
tuttavia, seppur necessario e comunque coraggioso, portò impopolarità
al governo, in quanto la moneta indiana, la rupia, andò perdendo valore
(come d’altronde accade in ogni mercato che voglia immettersi in un
orizzonte di esportazioni e importazioni più ampio di quello nazionale) e
l’appoggio indiretto ai conflitti portati avanti dagli USA faceva pensare ad
una politica guerrafondaia e manipolata dalle pressioni statunitensi. Una
volta consapevole di tali meccanismi, Indira decise di opporsi
esplicitamente all’aumento dell’impegno americano in Vietnam, a favore
di soluzioni più giuste, meno aspre e sanguinose, che potessero restituire
diritti e speranze al popolo vietnamita.
Nonostante questa strategia, durante il periodo in cui governò, I. Gandhi
dovette fronteggiare una situazione di scioperi e scarsità di cibo, oltre
che di continue manifestazioni causate dalla volontà di separatismo
linguistico.
Nel Panjab i Sikh continuavano a chiedere lo statuto di suba (stato), in
virtù della differenza tra la loro lingua (panjabi nel parlato e gurmukhi
nello scritto) e quella degli abitanti della parte sud-orientale a
maggioranza indù, che parlavano hindi. Coloro che si esprimevano in
panjabi, invece, erano concentrati nella parte nord-occidentale della
regione. Quest’ultima zona, inoltre, era anche più sviluppata e ricca
economicamente rispetto all’Haryana, la parte hindi. Mentre l’Akali Dal (il
partito che più si è prodigato per l’indipendenza sikh) e le sue guide
manifestavano e digiunavano per protesta, anche gli indù dell’Haryana
non erano da meno.
Nel 1965, però, quando scoppiò il conflitto indo-pakistano, ci fu una
tregua da parte dei Sikh, a patto però che un comitato di gabinetto
prendesse in considerazione le richieste dell’Akali Dal. Il 1° novembre
1966, dunque, il Panjab fu suddiviso in due stati, uno omonimo a
maggioranza sikh e un altro, di nome Haryana, a maggioranza indù. Nel
1970 Chandigarth, che fino a quel momento era stata la capitale
condivisa tra i due territori, fu annessa al solo Panjab; in quell’anno,
infatti, uno dei rappresentanti dell’Akali Dal era morto durante un
digiuno a favore di quella causa, e un altro minacciava di seguire il suo
esempio.
A livello nazionale, nel frattempo, le elezioni del 1967 ebbero un esito
disastroso per Indira Gandhi; nei singoli stati la situazione era ancora
peggiore, in quanto il suo partito perse addirittura la maggioranza.
Una decina di anni dopo, intorno al 1980, mentre India e Pakistan, due
stati oramai definitivamente separati, si armavano di ordigni nucleari
(dichiarando entrambi di volerli usare solo per scopi scientifici e pacifici),
le dinamiche internazionali proseguivano, in linea con tali mutamenti. Si
è consapevoli dell’eventuale rischio dello scoppio di un conflitto nella
zona di confine tra le due nazioni, nel Kashmir indipendentista per
esempio; come si è consapevoli del fatto che, in un caso simile, la Russia
si scaglierebbe immediatamente ad appoggiare l’India, mentre l’Arabia
Saudita e la Libia sarebbero ben disposte a schierarsi a favore del
Pakistan. Nel caso si venisse a creare tale situazione, la portata del
conflitto non sarebbe certo quella delle contrapposizioni del passato;
anzi, potrebbe avere esiti davvero disastrosi per tutto il pianeta (viste le
armi a disposizione ora). Eppure questo è un pericolo e nient’altro:
potrebbe andare in un modo completamente diverso. Gli abitanti di
questi territori potrebbero aver fatto tesoro delle esperienze del passato
e aver compreso anche che i meravigliosi insegnamenti delle loro culture
potrebbero essere applicati con successo in un contesto di pace,
collaborazione e crescita, nella politica, nell’economia e nelle relazioni
comunicative umane.
La prosperità del Panjab sembrava offrire un ottimo esempio di come ciò
sia possibile: il reddito pro-capite era il più alto di tutta l’india, lo sviluppo
economico e tecnologico proseguiva senza eguali (soprattutto dopo la
svolta impressa alla produzione agricola dalla Rivoluzione verde alla fine
degli anni ’60) e, nonostante tale benessere, i Sikh continuavano ad
essere molto laboriosi e determinati tanto negli affari quanto
nell’esercito. Nel 1982, per la prima volta, un Sikh, Gyani Zail Singh, fu
eletto presidente dell’Unione Indiana, carica che ricoprì fino al 1987,
anno in cui si ritirò dalla scena pubblica.
Prima del 1980, però, dopo che dall’originario Panjab avevano avuto
vita, ad opera di Indira Gandhi, tre stati (il Panjab, l’Haryana e l’Himachal
Pradesh), il sentimento di separatezza e di estraneità era, ovviamente,
cresciuto; l’Akali Dal, il partito più nazionalista che, in quanto tale, ora
reclamava l’indipendenza del Panjab come nazione a sé stante, aveva
guadagnato altre persone tra le sue file, minacciando di diventare
seriamente pericoloso. Per opporsi a questo stato di cose, Indira aveva
ben pensato di appoggiare un politico che si contrapponeva all’Akali Dal,
il Sant (santo) fondamentalista Jarnail Singh Bhindranwale (1947/1984),
personaggio allora pressocchè sconosciuto.
Nel 1983, tuttavia, Bhindranwale era diventato ben più pericoloso di
quanto fosse stato ogni leader dell’Akali Dal: rivendicava con la forza del
terrore l’indipendenza del Panjab, che sarebbe dovuto diventare una
nazione separata dall’India. A questo fine, all’inizio del 1984 occupò
l’Akal Takht, accompagnato dai suoi seguaci armati; il loro ultimatum era
rimanere lì fino a costringere il governo di New Delhi a concedere piena
autonomia al Panjab. Poiché in tutta l’India la gente iniziò a schierarsi
violentemente a favore dell’una o dell’altra parte, e ad esprimere rabbia
e frustrazione nei confronti di un governo centrale incapace di farsi
sentire in una simile contingenza, Indira Gandhi pensò bene di sfoggiare
tutta la marzialità dell’esercito indiano contro gli estremisti sikh: nel
giungo 1984 ordinò alle truppe di dare avvio all’ Operazione Bluestar,
invadendo il Tempio d’Oro. Il 5 e il 6 giungo fu vera e propria guerriglia
ad Amritsar; la città sacra dei Sikh, con il suo tempio storico, fu rasa al
suolo, devastata nella violenza e nel sangue, conoscendo la strage di
migliaia di morti. Il Sikhistan ebbe così i suoi primi martiri.
Neanche a sei mesi di distanza, Indira Gandhi pagò con la vita le
conseguenze della sua scelta, della profanazione del santo luogo sikh:
due sue guardie del corpo, di fede sikh, la assassinarono.
A Londra e nel Texas alcuni sikh sostenitori del “Khalistan”
festeggiarono e furono fotografati mentre bevevano
champagne per celebrare l’assassinio della signora Gandhi. Ma
per i sikh di Delhi e degli altopiani settentrionali, dove dilagava
la paura, il bagno di sangue era appena cominciato.
Schiere inferocite di teppisti indù si lanciarono per le vie della
capitale non appena la voce dell’assassinio della signora
Gandhi si diffuse. Gridando “Sangue per sangue!”, quelle
bande criminali spargevano kerosene su ogni sikh che
vedevano, appiccando il fuoco a esseri umani, automobili,
negozi o case di proprietà dei sikh, dovunque potessero
trovarne. Per tre giorni e tre notti, la capitale dell’India si
trasformò nel luogo più selvaggio, più oppresso dal terrore,
della terra, mentre bande prezzolate di incendiari e assassini
scorrazzavano libere, aizzate da “vendicatori” del primo
ministro che credevano di farsi giustizia. Intanto la polizia
fingeva di non vedere gli assalti criminali e l’esercito dormiva.
Secondo un conteggio ufficiale più di mille sikh furono uccisi
nella sola Delhi durante quei primi tre giorni di novembre del
1984, ma osservatori non ufficiali videro parecchie migliaia di
cadaveri solo nella zona dei sobborghi messi a sacco di Delhi,
come Trilokpuri. L’intero governo indiano sembrava venuto
meno insieme con il primo ministro. Il presidente Zail Singh era
all’estero, nello Yemen, quando ricevette la terribile notizia, e
volò in patria. _ pag. 379
Rajiv, figlio di Indira e nipote di Nehru, succedette alla madre nella
carica di primo ministro. Giustizia fu fatta tardi (o forse non fu fatta per
niente) verso quelli che sono stati definiti semplicemente
“comportamenti antisociali” 12.
Rajiv fu accolto sin da subito con favore e, dopo le gravi colpe imputate
ai Sikh, tutta l’India si radunò tra le file del partito del Congresso-I che,
12 Definzione ad opera della commissione Misra, con a capo il giudice omonismo, incaricato, nel 1985, di indagare sull’accaduto. L’indagine mise in luce più cha altro l’inazione delle forze dell’ordine. Tra la popolazione civile, tuttavia, non furono rintracciate persone direttamente coinvolte, né furono presi provvedimenti di qualsivoglia genere.
infatti, il 24 dicembre 1984 conobbe il suo più grande successo
elettorale; e con esso l’India indipendente. Quest’uomo, infatti, era
salutato come il nuovo riformatore dell’India, un’India che sperava di
essere diversa da quella che fino a quel momento aveva prevalso.
Un’India che si tirava fuori dal terrorismo, dalla violenza e dalla carestia,
guardando verso il progresso e verso l’evoluzione, politica e umana.
Rajiv fu un ottimo promotore di tali aspettative, avendo studiato a
Cambridge, avendo imparato da solo ad usare il pc e avendo scelto
autonomamente di sposare una donna italiana, Sonia Maino. In India,
ora, si faceva spazio ai tecnocrati.
Rajiv stipulò importanti accordi con gli oppositori: nel gennaio 1986
Chandigarth divenne capitale del solo Panjab (in cambio, alcune terre di
questa regione passarono all’Haryana), la proposta della legge All India
Gurdwara Bill fu esaminata e ai Sikh fu concesso l’uso continuativo
dell’acqua dei fiumi che nascono e hanno corso nel Panjab. Altri
provvedimenti furono presi, tra cui la decisione, da parte di Rajiv Gandhi,
di organizzare le seguenti elezioni proprio in Panjab. Le elezioni
avvennero, l’Akali Dal le vinse e Surjeet Singh Bardala divenne capo del
governo del Panjab. Ma, allo scadere del termine entro cui Chandigarth
avrebbe dovuto passare definitivamente al Panjab, la mancanza di intesa
tra il governo centrale e Bardala fece sì che l’accordo rimase a metà
della sua realizzazione.
Di fronte a questa situazione, la violenza dei Sikh ricominciò, più dura
che mai. I terroristi ripresero le loro battaglie e, stavolta, a fermarli
furono inviati decine di migliaia di elementi paramilitari della Polizia
Centrale di Riserva e di specialisti della Border Security Force. Fu di
nuovo guerra.
Barnala tentò di ricostruire la fiducia del governo centrale, ma più
perseguiva questo scopo, più perdeva l’appoggio della maggioranza del
suo partito, l’Akali Dal, che alla fine lo abbandonò definitivamente.
Barnala si aggrappò con le unghie e con i denti al suo potere, ma nel
1987 fu sia scomunicato dagli stessi leader del Tempio d’Oro, sia
deposto dal governo centrale di Delhi.
Il panjab finì con l’essere governato autocraticamente da un governatore
bengali e dal direttore generale delle forze di polizia. Leggi dure e
provvedimenti contro ogni diritto umano furono applicati: come tante
volte nella storia, violenza per contrastare violenza, crimini contro altri
crimini. Ma, si sa: questa via non porta a pacifiche e durature conquiste
sociali e politiche. Per il Panjab, infatti, non ci fu altro che il
proseguimento della violenza e della repressione.