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� Pseudo Scilace p. 5

Pseudo Scimno p. 8

Strabone � � � � � � � � p. 10

Dionisio di Bisanzio p. 16�

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� Erodoto p. 20

Tucidide p. 39

IG I.3, 269 e 274 p. 56

Senofonte, $QDEDVL� � � � � � � � p. 57

Senofonte, (OOHQLFKH� � � � � � � � p. 80

Diodoro Siculo XIII p. 90

Decreto di Aristotele: IG II² 43 p. 92

Diodoro Siculo XV e segg. p. 93

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I La VHFRQGD�RQGDWD�GL�FRORQL]]D]LRQH�GDOO¶HWj�DUFDLFD��testo tratto e tradotto da: J. Bèrard, /¶H[SDQVLRQ�HW�OD�FRORQLVDWLRQ�JUHFTXHV�MXVT¶DX[��JXHUUHV�PpGLTXHV, Paris 1960, pp. 92-107) p. 97 II F. Cordano, %LVDQ]LR��JOL�$WHQLHVL�H�JOL�DOWUL����������D�&�����

in Parola del Passato��64, 2009, pp.401-410� � � � � � p. 104 III F. Cordano, $OFXQH�FDUDWWHULVWLFKH�GHOOH�FRORQLH PHJDUHVL, in G.Zanetto – M.Ornaghi (edd.), Argumenta antiquitatis, Milano 2009, pp.3-9. p. 109 IV Voci enciclopediche su Bisanzio in età arcaica e classica p. 114

Cartine p. 128

1 Sono qui raccolti i testi utili a tutti gli studenti del corso come indicato al punto B del Programma.

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��L'opera qui tradotta è un periplo di tutto il mare Interno, cioè del Mediterraneo, conservato nella tradizione manoscritta sotto il nome di Scilace di Carianda. Di questo personaggio, che è stato un esploratore al servizio di Dario I re di Persia, sappiamo parecchie cose. Ad esempio Erodoto ci parla del viaggio da lui compiuto in India, e datato agli anni 519-513 a.C., perché precedente la spedizione di Dario contro gli Sciti; e, fra le altre fonti, quella più interessante per il nostro argomento è senz'altro la voce dedicata a�Scilace nel lessico bizantino 6XGD, perché in essa sono elencate le opere a lui attribuite e, fra queste, non risulta un periplo del tipo detto. Scilace è stato invece autore di un periplo «fuori delle Colonne», citato anche da Strabone, e di una «Descrizione della Terra».Non solo per questo motivo, bensì in riferimento al contenuto stesso del testo, la paternità del periplo è stata fortemente contestata da molti studiosi e, di recente, altrettanto vigorosamente difesa da A. Peretti, che vi ha dedicato un libro importante, non solo per quanto attiene a Scilace. Le due principali tesi formulate al riguardo della paternità dell'opera sono quella che la ritiene di un autore anonimo, che scriveva per incarico di Filippo II di Macedonia e che si sarebbe fregiato del nome di Scilace, e quella che vi distingue un nucleo antico rielaborato nel IV secolo a.C.: il Peretti attribuisce appunto a Scilace le parti più antiche, che si distinguono bene sia nella toponomastica che nelle misurazioni di distanze fatte con i giorni di navigazione, anziché in stadi. A mio modo di vedere, anche se è innegabile la sovrapposizione di dati antecedenti e posteriori al IV secolo a.C., l'opera non contiene argomenti tali da convincere che la più antica stesura appartenga proprio a Scilace. Per questo motivo ho preferito seguire il testo com'è stato edito dal Müller e, nelle parentesi, sono tradotte le integrazioni di quest'ultimo, salve diverse specificazioni in nota. (tratto, come la seguente traduzione e le note, da F. Cordano, $QWLFKL� YLDJJL� SHU� PDUH�� 3HULSOL� JUHFL� H� IHQLFL, Pordenone 1992). ���7UDFLD. La Tracia va dal fiume Strimone fino all’Istro2, fiume del Ponto Eusino. Vi si trovano le seguenti città greche: Anfipoli3, Fagre, Galepso, Osima e altri empori dei Tasi4. Di fronte a questi c'è�l'isola di Taso, con una città e due porti, uno dei quali chiuso5. Ma torno sul continente dal quale mi ero allontanato.

2 L’attuale Danubio, ben noto nell’antichità. 3 Proprio alla foce dello Strimone ed in una posizione eccellente per controllare l'area mineraria del Pangeo, è una colonia ateniese del 437 a.C.. 4 Per le altre località nominate si vedano Tucidide IV 127 e Strabone VII fr.33. 5 E' la traduzione di OLPpQ� NOHLVWzV, che è la definizione precisa del porto provvisto di molo, cioè di una chiusura costruita artificialmente.Taso era stata colonizzata dagli abitanti di Paro,una delle Cicladi, nel VII sec.a.C.,all'epoca del poeta Archiloco,che prese parte all'impresa.

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Vi si trova Napoli6, e la vicina Dato7, città greca dove abitò Callistrato di Atene8, ed il fiume Nesto, la città di Abdera9 , il fiume Cudeto e le città Dicea e Maronea10. Di fronte, l'isola di Samotracia con un porto11. E dirimpetto a questa, sul continente, gli empori Drunte e Zone12; il fiume Ebro con la fortezza di Dorisco13, Eno città e porto, roccaforte degli Enei in Tracia14; il golfo Melas, il fiume Melas15, l'emporio Deride, l'emporio Cobrunte dei Cardiani e l'altro, Cipasinte16. Di fronte al golfo Melas ci sono Imbro, isola e città, e Lemno, isola e città17. Torno sul continente nel punto da dove mi sono allontanato. Dopo il golfo Melas c'è il Chersoneso Tracio18 con le seguenti città: Cardia, Ida, Peone19, Alopeconneso, Araplo, Eleunte20, Madito21 e Sesto sulla bocca

6 L’attuale Kavalla;si veda Plinio IV 18. Probabilmente faceva parte dei possedimenti sulla terraferma che i Tasii dovettero consegnare agli Ateniesi nel 463 a.C.(Tucidide I 101,3). 7 Nominata da Erodoto IX 75, perchè un ateniese vi fu ucciso dagli Edoni a causa delle miniere d'oro. E' poi stato il porto della città di Filippi, e perciò confusa con quella in alcune fonti. 8 Un noto oratore che fu implicato in un processo nell'anno 365 a.C., e forse per questo in esilio "in Macedonia", come dice Aristotele, (FRQRPLFR II 22. 9 Subito dopo la foce del Nesto (il confine tra Macedonia e Tracia venne spostato da Alessandro Magno sul Nesto, che sfocia davanti all'isola di Taso) si trova questa colonia degli Ioni della Asia Minore, resa famosa dai filosofi Protagora, Leucippo e Democrito. 10 Il fiume Cudeto non è testimoniato altrimenti; invece fra Abdera e Maronia c'è il lago Bistonide, qui ignorato (si vedano Erodoto VII 109 e Plinio IV 18. Per 'uNDLD anche la voce di Stefano di Bisanzio. 11 Si trova davanti alla foce dell'Ebro.Plinio IV 23 la definisce LPSRUWXRVLVVLPD ed aggiunge che Callimaco (fr.583 Pfeiffer) la chiamava con l'antico nome di Dardania. Ma già nell',OLDGH, XIII 12, è chiamata "Samo di Tracia"(si veda Strabone X 2,17=457). 12 Zone è una città in Erodoto VII 59 e per Plinio IV 18 una montagna. Per 'UXV si veda la voce di Stefano di Bisanzio. 13 Erodoto (VII 59) ci dà un'accurata descrizione della fortezza di Dorisco, e della pianura che la circonda. In questo sito, già utilizzato da Dario I come presidio, Serse schierò l'esercito che preparava per la spedizione contro la Grecia del 480 a.C. Plinio (IV 18) aggiunge che egli fece la conta del suo esercito agevolmente perchè sapeva che la piana aveva una capienza di diecimila uomini. 14 Proprio alla foce dell'Ebro, vi si trovava il tumulo di Polidoro, il figlio di Priamo ucciso a tradimento dal re tracio Polimnestore: si veda Virgilio, (QHLGH III 22-68. 15 0HODV significa "nero", ma si è preferito non tradurlo; pure in greco è conservato da Plinio IV 18. Oggi è il golfo di Saros. Nei pressi della foce di questo fiume, sull'istmo del Chersoneso Tracico ,fu fondata Lisimachia subito dopo la pace fra i Diadochi del 311 a.C.. 16 Il nome del primo è forse collegabile con la popolazione dei 'HUVDLRL (Erodoto VII 110) o 'HUUDLRL (Stefano di Bisanzio); per .REUXV�Stefano cita Teopompo e, per .XSDVLV, Ecateo. 17 Entrambe queste isole sono legate alla storia di Milziade, intorno al 510 a.C.(cioè dopo la spedizione di Dario contro gli Sciti alla quale egli aveva partecipato): nella prima egli si rifugia per sfuggire i Fenici di Tenedo che lo inseguivano per conto di Dario, la seconda è da lui conquistata sottraendola ai Pelasgi: Erodoto VI 41,104 e 137. Fecero poi parte della lega delio- attica. 18 L'attuale penisola di Gallipoli, separato dall'Asia Minore da quel canale che i Greci chiamavano Ellesponto.

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della Propontide, che è larga sei stadi22. Poi,al di là di Egospotami, Cressa, Critote e Pattia23. Qui finisce il Chersoneso Tracio. Da Pattia fino a Cardia, attraverso l'istmo da mare a mare, c'è un cammino di quaranta stadi, con una città a metà strada che si chiama Agorà24. La lunghezza del Chersoneso da Cardia a Eleunte (cioè la massima) è di quattrocento stadi. Dopo il Chersoneso sono queste le fortezze trace: innanzi tutto il promontorio Leuca25, poi Tiristasi, Eraclea26, Gano, Ganie27, Fortezza Nuova28, Perinto, città e porto29, la fortezza Daunia30 e Selimbria, città e porto31. Da qui alla bocca del Ponto ci sono cinquecento stadi. E si chiama Anaplous la navigazione nel Bosforo fino ad arrivare al Santuario (di Zeus)32. Dal Santuario la larghezza della bocca del Ponto è di sette stadi33. Sul�Ponto ci sono delle città greche, in Tracia sono queste:

19 Per Cardia si veda la voce di Stefano di Bisanzio, dove si respinge la facile etimologia greca (cardia=cuore) optando per un nome scitico, e probabilmente è da collegare con i Cardiani citati sopra. Invece gli altri due nomi non hanno riscontri:il primo assomiglia all',GDNRV di Tucidide VIII 104, che però è sull'altro lato della penisola. 20 Con Eleunte si è appena doppiato il capo Mastusia, che è l'estremità della penisola. 21 Localizzata anche da Erodoto VII 33; si vedano anche Senofonte, (OOHQLFKH I 1,3 e Strabone VII fr.54. 22 Sesto non è neppure a metà della costa ellespontica del Chersoneso tracico, ma è sul punto più stretto, davanti ad Abido, perciò gli antichi intendevano che si passasse dall' Ellesponto alla Propontide (l'attuale mar di Marmara), in questo punto, qui detto di sei stadi, ma come in moltissime altre fonti, anche più sotto nel periplo è data la misura di sette stadi, tanto nota da aver dato il nome di HSWDVWDGLRQ a questo stretto (si vedano per esempio Erodoto VII 34 e Plinio II 24).. 23 In Plinio IV 18 è ben chiarita la topografia della zona: Pattia controlla, sulla Propontide, l'istmo che sul golfo Melas è controllato da Cardia e che poi sarà occupato interamente da Lisimachia: Plinio confronta la situazione a quella dell'istmo di Corinto. Cressa, in Plinio Cissa, e Critote sono altre due località della costa della Propontide. Cissa "IOXPLQL� $HJRV� DGSRVLWD�, cioè sul fiume della Capra,come dice Plinio, dev 'essere la stessa $HJRVSRWDPRL, resa famosa dalla vittoria di Lisandro sugli Ateniesi del 405 a.C. (Senofonte, (OOHQLFKH II 1, 21-23 ; Diodoro Siculo XIII 104-106 e molte altre fonti). 24 $JRUj significa piazza e mercato, quindi è nome non casuale. Essa è ricordata anche da Erodoto VII 58 ed è probabilmente nello stesso posto dove poi sorse Lisimachia (vedi sopra). 25 Che vuol dire bianco: è parola ricorrente nella toponomastica costiera. 26 Potrebbe anche essere un doppione di Perinto, che dal IV sec.a. C., si chiamò in questo modo. 27 La somiglianza dei due nomi ha fatto pensare ad un erroneo sdoppiamento, ma ci sono altre fonti che le ricordano come due diverse località, per esempio Eschine, &RQWUR�&WHVLD,65,23. 28 Il 1HRQ�WHLFKRV elencato da Senofonte con Gano e Bisante in $QDEDVL VII 5,8. 29 Colonia dei Sami, prima città greca ad esser conquistata da Dario I (Erodoto V 1). 30 Nel testo 'DPLQRQ WHLFKRV, ma Stefano di Bisanzio alla voce 'DXQLRQ dice: "c'è anche un 'DXQLRQ�WHLFKRV, città della Tracia: il suo cittadino si chiama 'DXQRWHLFKLWHV". 31 A metà strada fra Perinto e Bisanzio, che fu la sua madrepatria. Fece parte della Lega delio-attica. Si veda Erodoto VI 33; Senofonte, (OOHQLFKH I 1,21 e $QDEDVL VIII 2,28. 32 $QDSORXV significa "navigazione di ritorno", per dire che si navigava lungo la costa europea della Propontide di ritorno dal mar Nero. Il santuario di Zeus 2XULRV sul Bosforo veniva chiamato semplicemente ,HUzQ: si vedano Erodoto IV 85; Polibio IV 43; Stefano di Bisanzio alla voce &KDOFHGzQ, e molte altre fonti, fra le quali Arriano, 3HULSOR�GHO�3RQWR�(XVLQR, par.12. 33 L'autore del Periplo ha trasferito qui la distanza canonica di cui si è parlato sopra. Nelle altre fonti essa varia da quattro a sei stadi. Arriano,nel luogo citato,dice che è il punto più stretto del passaggio dalla Propontide al Ponto.

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Apollonia, Mesembria34, Odessopoli, Callati ed il fiume Istro35. La navigazione costiera della Tracia dal fiume Strimone fino a Sesto è di due giorni e due notti, poi da Sesto fino alla bocca del Ponto sempre di due giorni e due notti, mentre dalla bocca fino al fiume Istro è di tre giorni e tre notti. Il periplo complessivo della Tracia e dal fiume Strimone fino all'Istro è di sette giorni e sette notti36. �

3VHXGR��6FLPQR� 3HULHJHVL (metà II.a.C., per Nicomede re di Bitinia). 656. Dopo Anfipoli viene per prima la città tasia di Oisyme, che più tardi, sotto i Macedoni, prese il nome dalla macedone Ematia. Poi si trova Neapolis e l’isola di Tasosche era abitata in origine dai barbari, a quanto si dice, poi dai Fenici, giunti dal mare con Cadmo e Taso. Da Taso l’isola prese il nome che ha ancor oggi. 664. Il territorio che segue, fino all’Istro Pontico, è occupato dai Traci. A qulli ch abitano la costa appartiene la città di Abdera, che prendenome da Abdero, il suo primo fondatore, il quale pare sia stato ucciso dalle cavalle di Diomede, le assassine di stranieri. Alcuni Tei, fuggendo dopo le guerre con i Persiani, parteciparono alla rifondazione della città. Al di là di questa si trova un fiume detto Nesto e, ad oriente il lago Bistonis, che prende il nome dai traci Bistoni. 676. Dopo ancora si trova Maronea, che si dice abitata in primo tempo dai Ciconi di Ismaro e più tardi colonizzata dai Chioti. Di fronte (SHUDQ) c’è Samotracia, isola troiana, abitata da una popolazione mista: si dice che all’inizio vi abitassero i Troiani, che Elettra, la figlia di Atlante vi avesse aprtorito Dardano e Giasone, quest’ultimo avrebbe compiuto un sacrilegio sulla statua di Demetra e perciò ucciso da un fulmine. Dardano invece, avendo abbandonato quei luoghi, fondò poi ai piedi dell’Ida una città chiamata Dardania, dal nome di lui. 690. I Samotraci, che sono di stirpe troiana, sono chiamati Traci per la collocazione: si sarebbero installati lì per HXVHEHLD : essendo stati soccorsi dai Sami in un periodo di carestia, accolsero poi un gruppo di Sami che parteciparono alla cittadinanza (VXQRLNRL). Dopo Maronea si trova la città di Ainos, che ha accolto dei coloni (HSRLNRL) Eoli venuti a Mitilene. 698. Subito dopo viene il Chersoneso Tracio, la prima città del quale è Cardia, inizialmente fondata dai Milesi e dai Clazomeni, e poi rifondata dagli Ateniesi, quando Milziade sottomise i Chersonnesi. 703. A fianco si trova Lisimachia: città fondata da Lisimaco, che le diede il suo nome. Poi c’è Limne dei Milesi; poi Alopeconneso, città di Eoli; poi Eleunte, che ha accolto una colonia (DSRLNLD) attica, sidice con la aprtecipazione di Frinone (?). 709. Di seguito, Sesto e Madito, proprio sullo stretto, fondazioni dei Lesbi. Poi la città di Critote e Pactue, che si dice abbia fondato Milziade.

34 Si veda Arriano, par.24 con le note 59 e 60. Apollonia Pontica è città ionica. 35 Dopo Odesso e Callati e prima della foce dell'Istro c'erano Tomi e Istro città: si veda Arriano par. 24, con le note 55 e 56. 36 La costa tracia, e con ciò il paese dei Traci, è definita dalle foci di questi due fiumi, molto lontani fra di loro. Le tappe a Sesto e alla bocca del Ponto, oltre a scandire il tragitto, sembrano sottolinearne la continuità. Si noti il ritorno al computo per giornate di navigazione.

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713. Dopo il Chersoneso, la Tracia si estende alla Propontide, vi si trova Perinto colonia dei Sami; lì nei pressi Selimbria, che i Megaresi fondarono prima di Bisanzio; poi Bisanzio felice discendenza dei Megaresi. Dopo queste c’è il Ponto, per il quale lo scrittore di Callati, Demetrio, sembra aver cercato con la maggior cura. 721. Abbiamo attraversato questi luoghi da parte a parte. Presso la bocca del Ponto c’è un luogo dei Bizanti che si chiama Filìa; poi una spiaggia chiamata Salmidesso lunga 700 stadi, si presenta come una palude inaccessibile e priva di porti, luogo tra i più pericolosi per le navi. Dopo viene Tinia, promontorio con un buon porto, che segna il confine con la Tracia Astica. 730. La città di Apollonia, che i Milesi venuti da queste parti fondarono 50 anni prima del regno di Ciro. Infatti la maggior parte delle colonie della Ionia partirono per il Ponto, e lo fecero diventare (X[HLQRV (Ospitale), mentre prima si chiamava $[HLQRV (Inospitale) a causa delle minacce dei barbari. 739. Ai piedi del monte Aimo c’è la città chiamata Mesembria, confinante con la Tracia e la terra dei Geti. I Calcedoni e i Megaresi l’hanno fondata ai tempi della spedizione di Dario contro gli Sciti. 743. Il monte Aimo la domina dall’alto, è paragonabile al Tauro della Cilicia per grandezza e per l’estensione in longitudine dei paesi: infatti dai Cobrizi e dai confini del Ponto arriva fino alle sponde dell’Adriatico. F1 (Eux. 80 M.) – Alcuni Milesi fondano Odesso quando Astiage regnava sulla Media, la città è circondata da Traci Crobizi. F2a (Steph.Byz. s.v.) – La città di Dioniso, sul Ponto, che prima si chiamava .URXQRL� a causa della cascata d’acque. Essa prese il nome di Dionisopoli più tardi, quando una statua di Dioniso fu portata dal mare in quel luogo. F2b (Eux.78 M.) – (Dionisopoli) si chiamava prima .URXQRL a causa delle vicinanza delle sorgenti (cambiò poi nome in Matiopoli); prese il nome di Dionisopoli più tardi, quando, si dice, una statua di Dioniso fu portata dal mare in quel luogo. Si trova al confine del paese dei Crobizi e degli Sciti, ha una popolazione greca mista. F3 (Eux. 76 M.) – (Di Bizone piccolo borgo) alcuni dicono che è dei barbari, altri fondazione di Mesembria. F4 (Eux. 74 M.) – Callati fondazione degli Eracleoti è nata secondo un oracolo: la fondarono quando Aminta prese il potere in Macedonia. F5 (Eux. 72 M.) – Tomi, colonia milesia, circondata da Sciti. F6 (Eux.70 M) – (Istro) ha preso il nome dal fiume: i Milesii fondarono questa città quando alcuni Sciti, un’orda barbara, passarono in Asia spingendo i Cimmeri al di là del Bosforo. F7a (Eux.68M) – (Istro) chiamato anche Danubio, scende dalle regioni occidentali per gettarsi in mare con un delta a cinque braccia. Esso è diviso in due corsi, uno dei quali va verso l’Adriatico.�675$%21(�*HRJUDILD�9,,���� (319 C) Fra l’Istro e le montagne intorno alla Paionia, non rimane che il litorale del Ponto Eusino, che va dalla Sacra Bocca dell’Istro fino alla zona montagnosa dell’Aimo e all’ingresso del Ponto dalla parte di Bisanzio.......Lasciando la Bocca Sacra dell’Istro, ed avendo a destra la linea di costa, a 500 stadi si trova la

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piccola città Istro. E’ una fondazione milesia. Poi vengono Tomi, altra piccola citta, a 250 stadi, poi la città di Callati, colonia degli Eracleoti, a 280 stadi. Poi Apollonia, colonia dei Milesi, a 1300 stadi:la maggior parte della fondazione è su una piccola isola sulla quale sorge il santuario di Apollo, dal quale Marco Lucullo ha portato via la statua colossale di Apollo, opera di Calamide, e l’ha dedicata nel Campidoglio. A metà strada tra Callati e Apollonia si trova Bizone, gran parte della quale è stata inghiootita dal mare a causa dei terremoti; poi Crunoi, Odessos, colonia milesia, e naulochos, piccola città dei mesembriani. Infine si arriva al monte Aimos, che arriva al mare proprio qui, poi alla colonai megarese di Mesembria, prima detta Menebria, cioè la polis di Mena, dal momento che il fondatore si chiamava Mena e polis in lingua tracia si dice EULD. Per lo stesso motivo la città di Selys si chiama Selybria, oppure Anos un tempo si chiamava Poltyobria. Poi si trova la piccola città di Anchiale, degli Apolloniati; e la stessa Apollonia. Su questa costa si trova il capo Tiziri, fortezza naturale che Lisimaco ha utilizzato un tempo per nascondere il suo tesoro. Ripartendo da Apollonia, fino alle Cianee ci sono 1500 stadi, e a metà strada la Tiniade, un territorio che appartiene agli Apolloniati, poi Finopoli e Andriaké, presso Salmidesso. Tutta questa costa è bassa e desertica, rocciosa e priva di porti, molto esposta i venti delnord, ad una distanza dalle Cianee di circa 700 stadi; coloro che vi giungono, subiscono le rapine degli Asti, una popolazione tracia dell’interno. Le Cianee sono due isolette davanti alla bocca del Ponto, una vicina all’Europa, l’altra all’Asia, separate da uno stretto di circa 20 stadi; altrettanti le separano dal santuario dei Bisanzi e da quello dei Calcedoni, cioè dalla parte più stretta della bocca del Ponto Eusino: infatti è sufficiente avanzare di 10 stadi per arrivare ad un promontorio che restringe a 5 stadi la misura dello stretto, poi le due coste si allontanano di nuovo ed inizia a formarsi la Propontide. 9,,����� (320 C)�Ora, la distanza dal promontorio che si prolunga per soli cinque stadi in direzione del porto detto “Sotto l’albero di fico” è 35 stadi; e di lì verso il Corno della città di Bisanzio, cinque stadi. Il Corno, che è nei pressi del muro di Bisanzio, è un golfo che si estende approssimativamente verso ovest per una distanza di 60 stadi; esso assomiglia al corno di un cervo, poiché si dirama in numerosi bracci di mare. I pelamidi37 si gettano in questi golfi e vengono facilmente catturati -per via del loro numero, la forza della corrente che li conduce insieme e la ridotta estensione dei golfi-, di fatto per la piccola dimensione dell’area, vengono catturati a mano. Ora tali pesci sono covati negli acquitrini della palude Meotide, e quando essi hanno acquisito un po’ di forza si gettano attraverso la bocca del lago in banchi e muovono lungo la costa asiatica fino a Trapezunte e Farnacia. E’ qui che ha primariamente luogo la cattura del pesce, benché la pesca non sia considerevole, dato che i pesci non hanno ancora raggiunto la loro normale grossezza. Ma quando essi raggiungono Sinope, sono sufficientemente maturi per la cattura e la salatura. Ancora allorché raggiungono le isole Cianee e le oltrepassano, sono così spaventati dinanzi ad una certa roccia bianca che si protende dalla riva di Calcedone, da virare immediatamente verso l’altra costa. Lì vengono attirati dalla corrente e poiché al tempo stesso la regione è così naturalmente conformata che la corrente del mare volge là in direzione di Bisanzio e del Corno che si trova a Bisanzio, essi sono inevitabilmente condotti in quella

37 Pesci simili ai tonni.

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direzione e così offrono ai Bizantini ed ai Romani un considerevole reddito. Ma gli abitanti di Calcedone che vivono nelle vicinanze, sulla riva prospiciente, non condividono tale ricchezza, poiché i pelamidi non si accostano ai loro porti; di qui il detto che Apollo, quando gli uomini che fondarono Bisanzio nell’età successiva all’insediamento di Calcedone ad opera dei Megaresi che chiesero un responso all’oracolo, ordinò loro di porre il proprio insediamento dinanzi ai ciechi, chiamando i Calcedoni ‘ciechi’, perché, benché essi avessero navigato attraverso la regioni in tempi anteriori, fecero l’errore di non scegliere di insediarsi sulla riva opposta, così florida, e scelsero il sito più povero. Sono giunto a descrivere sino a Bisanzio, perché una città famosa, che giace molto vicino all’ingresso del Mar Nero, poteva marcare un limite meglio noto per il periplo dall’Istro. E sopra Bisanzio abita la tribù degli Asti, nel cui territorio si trova una città, Calibe, in cui Filippo figlio di Aminta stanziò il popolo più scellerato del suo regno. 9,,���� (321 C) Ecco i popoli che meritano di essere ricordati fra quelli che abitano tra l’Istro e le montagne degli Illiri e dei traci, che occupano tutta la costa dell’Adriatico, fin dal fondo del golfo, e la costa del Ponto detta ‘di sinistra’, dal fiume Istro fino a Bisanzio. ........ I Traci, gli Illiri e gli Epiroti, fino ai nostri tempi, abitano ai confini della Grecia. Una volta era ancora più vero di ora, dal momento che gran parte del territorio greco è oggi abitato da barbari: in Macedonia e in alcune parti della Tessaglia si trovano deii Traci; nel nord dell’Acarnania e dell’Etolia Tesproti, Kassiopei, Anfilochei, Molossi, Atamani: tutte etnie Epirote. ......... 9,,���� Il territorio che va dall’inizio delle montagne della Macedonia e della Peonia fino allo Strimone è abitato dai Macedoni, i Peoni e qualche Tracio della montagna; al di là dello Strimone, fino all’imboccatura del Ponto Eusino e all’Emo, si trovano Traci ovunque, tranne che sulla costa: essa è abitata dai Greci, alcuni si sono stabiliti sulla Propontide, altri sull’Ellesponto, sul golfo Melas e infine sul mar Egeo. Il mar Egeo bagna la Grecia da due lati, l’uno che guarda in generale verso oriente, ma che gira verso nord dal Sounion al golfo Termaico e Tessalonica – oggi la città più abitata della Macedonia- , l’altro verso sud per la aprte macedone da Tessalonica allo Strimone. Alcuni attribuiscono alla Macedonia anche la parte di costa che va dallo Strimone al Nesto. Essi sostengono che Filippo ha espresso tanto interesse per questi territori da impadronirsene, e che ne ha tratto grandi ricchezze sfruttando le miniere e altre risorse naturali del paese. Strabone )UDPPHQWL���e�citazioni di autori diversi, ed. Belles Lettres�� �� ( E). Al largo di questo litorale (della Macedonia) si trovano due isole, Lemno e Taso.Dopo lo stretto di Taso si trova Abdera e il teatro dei racconti leggendari riguardanti Abdero. Essa fu abitata dai Traci Bistoni che avevano Diomede come comandante. Il Nesto non rimane sempre nel suo letto, a volte deborda. Poi si trovano la città e il porto di Dikaia, che si affacciano su un golfo. All’interno si trova il lago Bistoni, che ha un circonferenza di 200 stadi. Si dice che lì c’era una pianura incassata da tutti i lati e più bassa del livello del mare. Eracle alla ricerca delle cavalle di Diomede, essendo in difficoltà, tagliò una trincea dal litorale e facendo arrivare il mare nella pianura, ebbe la meglio sugli avversari. Vi si msotra la reggia di Diomede,

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che merita il nome che porta, Cartera Come, perchè occupa una posizione naturalmente forte. Dopo il lago che si trova fra le due, si arriva a Xanteia, Maronea, Ismaro, le città dei Ciconi. Il nome usato ora per la città vicina a Maronea, è Ismara. Nei pressi passa l’affluente del lago Ismaro, che si denomina “corrente di Ulisse”. Sempre lì si trovano le cosiddette “teste dei Tasi”. L’interno del paese è abitato dai Sapei. ��D (Eustazio). La città chiamata Ismaro, e più tardi Ismara, era detta una città dei Ciconi, si trovava presso Maronea; c’è anche un lago, il cui affluente si chiama “corrente di Ulisse”. C’è anche un KHURRQ di Marone, come ci dice il Geografo. ��� (&KUHVWRPDWKLDH). La tribù tracia dei Sinti abitava l’isola di Lemno, perciò Omero li chama così: “ là uomini Sinti” (Il. I 594). ��� (&KUHVWRPDWKLDH) . Quando si sorpassa ad est il corso del Nesto, si arriva alla città di Abdera, così chiamata da Abdero, divorato dai cavalli di Diomede. Essa è vicina a Dikaia, che sovrasta il algo Bistoni. Poi viene la città di Maronea. ��. (E). La Tracia nel suo complesso è costituita da 22 tribù. Anche se si trova in una situazione molto precaria, può mettere insieme un esercito di 15.000 cavalieri e 200.000 fanti. Dopo Maronea c’è la città di Ortagoria e la regione di Serreio, dal litorale roccioso, poi il villaggio di Tempura che appartiene a Samotracia e &KDUD� .RPD�� al largo della quale si trova l’isola di Samotracia e, non lontano da quella, Imbro. Taso è distante il doppio. Dopo &KDUD�.RPD viene Dorisco, dove Serse calcolò la consistenza del suo esercito. Poi l’Ebro, che si risale in barca per 220 stadi fino a Kypsela. Quello sidice sia il confine della Macedonia che i Romani tolsero a Perseo e poi allo Pseudo-Filippo. Emilio Paolo, il vincitore di Perseo,dopo aver riunito alla Macedonia le tribù epirote, riorganizzò il territorio dividendolo in quattro distretti e li attribuì uno ad Anfipoli, uno a Tessalonica, uno a Pella e l’ultimo ai Pelagoni. I popoli rivieraschi dell’Ebro sono i Corpili, più all’interno abitano i Breni e proprio in cima i Bessi. Si può risalire il fiume fin là. Tutti questi popoli praticano il brigantaggio, soprattutto i Bessi, che egli dice vicini degli Odrisi e dei Sapei. La reggia degli Asti era Bizye. Alcuni danno il nome di Odrisi a tutti i popoli che occupano l’interno rispetto alla costa che va dall’Ebro e da .\SVHOD fino ad Odesso. E’ il popolo che ebbe come re Cersoblepte, Berisiade, Seute e &RW\V. ��. �&KUHVWRPDWKLDH). Iasio e Dardano erano due fratelli che abitavano a Samotracia; Iasio, colpevole di un sacrilegio nei confronti di Demetra, fu colpito dla fulmine, allora Dardano prese il mare e, lasciando Samotracia, andò a fondare, nella regione montuosa ai piedi dell’Ida, la città che chiamò Dardania. Egli iniziò i Troiani ai misteri di Samotracia. Prima di chiamarsi così l’isola si chiamava Samo. ��. (E). Molti pretendono che gli dei venerati a Samotracia sono uguali ai Cabiri, senza essere in gradoi di dire se siano i Cabiri stessi, così come per i .\UEDQWL e i Coribanti o i Cureti e i Dattili dell’Ida.

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��D� (Eustazio). Quest’isola tracia, secondo il Geografo, è stata chiamata Samo a causa del suo rilievo, infatti 6DPRL significa altezze. Il Geografo dice anche che i Sami di Micale vennero in gran numero a stabilirsi lì quando abbandonarono la patria a causa dei cattivi raccolti. Il geografo dice anche che Samotracia prima si chiamava Melite e che essa era ricca. Infatti, egli dice, i pirati Cilici l’avevano attaccata di sorpresa e depredato il santuario di Samotracia, portarono via più di mille talenti. ��. (E). Alla foce dell’Ebro, che è doppia, si trova la città di Eno sul golfo Melas. E’ una fondazione di Mitilenesi e Cumani, preceduti nel sito dagli Alopeconnesi. Poi il capo Sarpedone, poi il Chersoneso, detto Tracio, che forma la Propontide, il golfo Melas e l’Ellesponto. E’un promontorio che avanza in direzione di sud-sud-est, collegando l’Europa all’Asia tramite un braccio di mare di 7 stadi, all’altezza di Abido e Sesto. A sinistra c’è la Propontide, a destra il golfo Melas, che prende nome dal fiume che vi sfocia,come ci dicono Erodoto ed Eudosso. Secondo Erodoto, a detta di Strabone, la portata di questo fiume non era sufficiente a dissetare l’armata di Serse. Un istmo di 40 stadi chiude il promontorio suddetto: nel mezzo dell’istmo c’è la città di Lisimachia, così detta dal re che l’ha fondata. Da entrambi i lati si trovano le seguenti città: sul golfo Melas la città di Cardia, la più grande delle città del Chersoneso, fondazione dei Milesi e dei Clazomeni, e poi dagli Ateniesi; dall’altra, sulla Propontide, c’è Pactye. Dopo Cardia, Drabo e Limne, poi Alopeconneso che segna il limite estremo o quasi del golfo Melas. Poi si trovano il grande promontorio Mazusia, e, su un golfo, la città di Eleunte, luogo del 3URWRVLOHLRQ, all’altezza del quale, alla distanza di 40 stadi, si trova il capo Sigeo della Troade. Il 3URWRVLOHLRQ corrisponde pressa’a poco alla punta più meridionale del Chersoneso, distante circa 400 stadi da Cardia. La distanza è di pcoo superiore a ciò che resta della navigazione per raggiungere l’altro lato dell’istmo. ��D.(Stefano di Bisanzio s.v. $LQRV).Eno, città della Tracia, si chiama anche $SVLQWKRV� Alla foce dell’ Ebro, che si getta in mare diviso in due bocche, si trova la città di Eno, fondazione dei Mitilenesi e dei Cumani. ��. (&KUHVWRPDWKLDH).Il Chersoneso tracio forma tre mari: la Propontide al Nord, l’Ellesponto all’est, il golfo Melas al suddove sfocia il fiume Melas, omonimo del golfo. ��D. (&KUHVWRPDWKLDH).E’ noto che non esiste solo in Arcadia un fiume Melas, ma anche in Tracia. E’ questo che ha dato nome al golfo Melas, presso la città di Eno. ��. (&KUHVWRPDWKLDH).Sull’Istmo del Chersoneso ci sono tre città: sul golfo Melas Cardia, sulla Propontide Pactye, tra i due mari Lisimachia. L’istmo è largo 40 stadi. ��. (&KUHVWRPDWKLDH).Il nome della città di Eleonte è maschile, forse anche quello di Trapezunte.

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��.(E). Con questo periplo si giunge, dopo Eleunte, alla prima bocca della Propontide, attraverso gli stretti, dove, si dice, comincia l’Ellesponto. C’è un promontorio che si chiama “tomba del cane” (.\QRV�VHPD), che altri dicono Ecuba: quando si svolta il capo infatti si vede la sua tomba. Poi Madito e il capo Sestia, all’altezza del quale si trovava il ponte di barche di Serse, e,dopo questi, Sesto. Da Eleunte al “Ponte di barche” ci sono 170 stadi. Dopo Sesto si arriva, a 80 stadi di distanza, ad $LJRV�3RWDPRL, una piccola città in rovina, dove, si dice, cadde dal cielo la famosa pietra, all’epoca delle guerre persiane. Poi Callipoli, dalla quale si può raggiungere Lampsaco e l’Asia con una traversata di 40 stadi. Seguonole rovine della piccola città di Critote, poi Pactye, poi 0DNURQ�7HLFKRV��/HXNp�$NWp��LO�+LHURQ�2URV e Perinto, fondazione di Samo, poi Selibria. All’altezza di questa città, ma all’interno, si trova Silta. Il +LHURQ�2URV è venerato dalla gente del posto e forma l’acropoli di questo territorio. Asfalto fuoriesce dal suolo e ri riversa in mare nel punto ove Proconneso, distante 120 stadi, si avvicina di più alla terra ferma. In quest’isoal c’è una cava che offre in abbondanza un ottimo marmo bianco. Dopo Selibria si raggiungono i fiumi Athyras e Bathynias. Poi c’è Bisanzio e tutto il territorio che segue fino alle Rocce Cianee. ��E� (Eustazio). Sesto, colonia di Lesbo, come Madytos, lo dice il Geografo, è una città del Chersoneso. ��F� (Scolio di Arethas) $LJRV�3RWDPRL si trova di fronte a Lamspaco, presso il +LHURQ�2URV, che ora si chiama Ganos. ��� (E).Da Perinto a Bisanzio ci sono 630 stadi. Dall’Ebro e da Cupsela a Bisanzio, calcolando fino alle Rocce Cianee, 3100 stadi, secondo Artemidoro. La lunghezza totale del golfo Ionio dalla regione di Apollonia fino a Bisanzio, è di 7320 stadi. Polibio aggiunge a questa somma180 stadi, perchè calcoal un terzo in più ogni otto stadi. Demetrio di Scepsi nel suo “Commento sull’ordine della guerra di Troia”, dice che da Perinto a Bisanzio ci sono 600 stadi, e, fino a Parion, altrettanti. Egli presenta la Propontide lunga 1.400 stadi e larga 500. L’Ellesponto, nella parte più stretta, è secondo lui di 7 stadi per una lunghezza di 400. ��� (E).Con il nome Ellesponto non tutti intendono la stessa cosa, esistono in proposito opinioni diverse. Alcuni chiamano Ellesponto tutta la Propontide, altri la parte della Propontide che si trova al di qua di Perinto, altri ancora vi aggiungono una parte del mare esterno che si apre sull’Egeo e sul golfo Melas, segnandone il confine più o meno lontano. Alcuni lo fanno andare dal capo Sigeo a Lampsaco e Cizio, o Parion o Priapo. Qualcun altro vi fa rientrare lo spazio misurato a partire dal capo Sigrion nell’isola di Lesbo. Alcuni non esitano a chiamare Ellesponto lo spazio amrino che si estende fino al mare di Myrtò. ........ ��E. (Eustazio). Gli autori antichi sono responsabili dell’equivoco che regna su questo tema. Gli uni hanno limitato l’Ellesponto allo stretto fra Sesto ed Abido; gli altri gli hanno attribuito tutta la Propontide, altri ancora solo una parte di questo mare, quella al di qua di Perinto, detta anche Eraclea. Altri infine hanno aggiunto all’Ellesponto una parte del mar Egeo: è il caso di Omero che intende un grande Ellesponto.

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;,,����� (563c)�La Bitinia confina ad est con i Paflagoni ed i Mariandini ed alcuni degli Epitteti, a nord con il Ponto Eusino, dagli emissari del fiume Sangario allo sbocco sul mare presso Bisanzio e Calcedone; ad ovest con la Propontide, e in direzione sud con la Misia e la Frigia “Epictetos”, come è detta , benché la medesima area sia denominata anche Frigia Ellespontica. In quest’ultima regione, alla bocca del Ponto, sono poste Calcedone, fondata dai Megaresi, e Crisopoli, un villaggio e il tempio di Calcedone; e poco sopra il mare la regione ha una fonte denominata Azaritia che ospita piccoli coccodrilli. Poi la costa di Calcedone è seguita dal golfo di Astaco, come è definito, una parte della Propontide; ed era su questo golfo che fu edificata Nicomedia, così nominata da uno dei re della Bitinia, che la fondò. Ma molti regnanti, ad esempio i Tolomei furono, per via della fama del primo, chiamati con lo stesso nome. E sul golfo stesso c’era anche una città, Astaco, fondata da megaresi ed Ateniesi ed in seguito da Doidalso, e fu per via della città di nome Astaco che il golfo prese il suo nome. La città fu rasa al suolo da Lisimaco, e i suoi abitanti furono trasferiti a Nicomedia dal fondatore di quest’ultima città. �;,,������ ss (563C) (trad. R. Nicolai – G. Traina)�Poiché abbiamo trattato la Paflagonia che confina con il Ponto e con i Paflagoni confinano i Bitini a occidente, cercheremo di giungere fino a loro; poi, ricominciando dal territorio di questi ultimi e dai Paflagoni, rappresenteremo i territori successivi a questi in direzione di Noto fino al Tauro, che sono paralleli al Ponto e alla Cappadocia: la natura dei luoghi infatti delinea un ordine e una ripartizione della materia di tale genere. 1. La Bitinia è delimitata a oriente dai Paflagoni, dai Mariandini e da alcuni degli abitanti della Frigia detta Epitteto (Acquisita), a settentrione dal mare del Ponto dalla foce del Sangarios fino allo stretto all'altezza di Bisanzio e Calcedonia, a occidente dalla Propontide, verso Noto dalla Misia e dalla Frigia detta Epitteto (Acquisita) o anche Frigia Ellespontica. 2.�Qui, all’apertura del Ponto si trovano Calcedonia, fondazione dei Megaresi, e il villaggio di Chrysopolis (Città d'Oro) e il santuario Calcedonio38; nel territorio, poco all'interno rispetto al mare, si trova la fonte Azaritia, dove vivono piccoli coccodrilli. Alla costa dei Calcedoni fa seguito il golfo detto di Astaco, che è parte della Propontide e dove è stata fondata Nicomedia, che trae nome da uno dei re di Bitinia, quello che l'ha fondata39; molti re di Bitinia hanno lo stesso nome, come i Tolemei, in ragione della fama del capostipite. Nello stesso golfo si trovava anche la città di Astaco - fondazione dei Megaresi e degli Ateniesi e dopo di Doidalsa - da cui prese nome il golfo40; fu distrutta da Lisimaco. Gli abitanti li trasferì a Nicomedia il fondatore di questa città. 'LRQLVLR�GL�%LVDQ]LR, 3HULSOR�GHO�%RVIRUR. (II sec.d.C.) )U����Principio – sia della presente descrizione che della conformazione geografica dell‘area- è il Mare del Ponto Eusino, di dimensioni maggiori degli altri, fatto salvo il confronto con il mare esterno; in esso si è

38 Tale santuario, menzionato in altri passi per la misurazione delle distanze, era il punto di partenza degli stadiasmi relativi al Ponto Eusino 39 Nel 264 a. C. 40 La colonia megarese è del 712/1; gli Ateniesi vi giunsero nel 435/4; Doidalses la rifondò nel 405 circa.

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riversata la sola palude Meotide, che secondo un‘antica tradizione afferma essere madre e nutrice del Ponto; la palude misura perimetralmente ottomila stadi, il suo diametro è di duemila; la delimita il fiume Tanai,che funge da confine tra i due continenti, e che nasce in luoghi gelidi ed inabitati; in direzione del Bosforo detto Cimmerio vi sono stretti promontori; il Ponto accoglie quella massa d‘acqua e molto fa rifluire su entrambi i continenti. Lo abitano tutt‘intorno vicino al mare città di Greci, che alcuni Elleni colonizzarono dopo la nascita di Bisanzio, quando sul mare erano molti e grandi i popoli barbari. )UU������La corrente è vorticosa e, secondo ciò che la natura dei luoghi soprattutto ammette, il massivo flusso d‘acqua si divide attorno al promontorio del Bosforo. Tale promontorio è posto in Europa, e si prolunga oltre la città, distanziandosi dalla parte asiatica per uno spazio di sette stadi. La corrente, spezzandosi con violenza intorno al promontorio, si spinge immane e travolgente attraverso la Propontide, e riversa nel cosiddetto Corno tutta la massa di pesci che trascina con sé; quest‘ultimo consiste in un golfo posto al riparo del promontorio del Bosforo, ma ha acque più profonde che in una rada -infatti raggiunge i 60 stadi di profondità. Sicuro è dunque il ricetto delle navi, dacché il luogo è tutto intorno circondato da monti e poggi, i quali proteggendolo dai venti, trascinano giù dai fiumi un fango profondo e molle, lungo la foce ai piedi del promontorio su cui si trova la città. )U. ��La città di Bisanzio si protende tutta sul mare, eccetto che là dove l‘istmo la unisce al continente. La grandezza di tutta la cinta è di circa 35 stadi, quella della gola da cui le è impedito di essere un‘isola, cinque. Tutta la parte della polis battuta dai flutti è rivolta verso il mare, ma non in modo netto ed improvviso: il promontorio inclina dolcemente dal muro tracio verso le due parti. Nella sua parte centrale il promontorio è abbastanza pianeggiante, ma non quanto verso i promontori, e di lì si estendono distese pianeggianti su ciascuno dei due mari. L‘acqua fluisce abbondante, ripida e percossa da correnti, spinta dal mare del Ponto sia per l‘angustia dello stretto sia perché ribattuta sulle rive dei continenti e per la resistenza incontrata quando scaturisce in massa verso la città; frangendosi intorno al promontorio del Bosforo una parte di quella si ritira verso il golfo, abbondante e pescosa, e muore in agili e stagnanti cascatelle; il golfo si chiama Corno per la somiglianza con quella figura; la grandezza del golfo offre, come si è detto, una posizione portuale favorevole. )U����In merito al promontorio, che chiamiamo Bosforeo, si tramanda una doppia leggenda: gli uni infatti raccontano che una giovenca trascinatavi da un tafano avesse attraversato a nuoto lo stretto centrale, altri ricordando una storia più favolosa dicono che Io figlia di Inaco spinta dall‘odio di Hera passasse di lì in direzione dell‘Asia. Sia dunque stimato degno di fede il più divino dei due racconti: infatti a me non pare che l‘orgoglio campanilistico potesse tanto riuscire vittorioso da essere chiamato l‘uno Bosforo Cimmerio e l‘altro Tracio, se non si fosse trattato di qualcosa che superava la storia locale: dunque il luogo riceve in eredità il nome dalla memoria degli eventi. )U�� ��Poco oltre si trova l‘altare di Atena Ekbasia, ove i fondatori della colonia, non appena vi furono giunti, subito se la contesero come se si trattasse della terra patria. )U����Ivi si trovava il tempio di Poseidone, quello antico, presso il quale vi era una pietra che sporgeva sul mare; quando gli abitanti della città deliberarono di spostarla in un luogo sopra lo stadio, più bello e spazioso e meraviglioso come pochi altri, non fu loro concesso dal dio, o perché questi amava essere venerato in un luogo vicino al mare o perché voleva mostrare lo scarso valore della ricchezza e

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dell‘ostentazione nel rispetto religioso. Dietro al tempio di Poseidone, entro le mura si trovano stadi e ginnasi e piste, tra le pianure. Dalla parte del mare il corso era dolce e in direzione del Corno si faceva ripido. Tre porti accolgono il primo approdo al promontorio, tra questi quello centrale piuttosto profondo e che non conosce altri venti se non quello di sud ovest, ben protetto in ogni parte, chiuso da entrambi i lati; infatti l‘approdo marino è racchiuso da sostruzioni di mura; da una parte si erge la torre che giace profonda per chi l‘oltrepassa, di forma circolare, immensa, che unisce il muro al continente, per prima la pianura ove scorre il fiume, che impedisce alla città di essere un‘isola, che digrada dolcemente verso il promontorio, poi si trova il recinto della Ges Anesidoras sopra il mare privo di copertura, poiché gli antichi volevano indicare, credo, l‘indipendenza della Ges, e che era serrato tutt‘intorno con una pietra liscia; poco oltre vi sono i templi, prospicienti l‘uno all‘altro, di Demetra e Core, ancora recanti le antiche iscrizioni, segno ancor visibile dell‘antica prosperità, e le statue lignee di accurata fattura e non disprezzabili. Dove poi il mare discende vi erano due templi, quello di Hera e quello di Plutone: non ne rimane traccia, eccettuato il nome: infatti uno lo incendiarono alcuni soldati persiani al tempo di Dario, quando fu intrapresa la spedizione in Tracia, al fine di vendicare il re di quelle colpe imputate alla polis. L‘altro invece, il tempio di Plutone, lo abbatté Filippo il Macedone durante l‘assedio della città poiché abbisognava di legname; e dunque ben si adatta ai luoghi il loro nome: uno è infatti il promontorio di Plutone, l‘altro è detto di Hera; per l‘indovino Poliido ed i suoi figli lì ogni anno venivano immolate le vittime relative ai vaticini per l‘anno che finiva e quello che iniziava: questa è un‘usanza megarese. )U�����Da ciò gli scogli traevano nome Scironidi, nome dato dai Corinzi per la similitudine con quei luoghi di impervio accesso; infatti i Corinzi avevano partecipato alla fondazione e le similitudini sono stupefacenti. Dopo tutto ciò vi è un lungo litorale, luogo ottimo, il migliore anzi, per la pesca, grazie alle dimensioni del fondale – scosceso come pochi – e della mitezza del mare e della sua accessibilità in direzione del promontorio; il luogo si chiama Kyklada, per il fatto che i Greci lì accerchiarono i Barbari, e nei pressi si trova anche l‘altare di Atena Skedasias (lat. Minerva Dissipatoria), nome che allude alla dispersione della massa dei nemici in seguito all‘aggiramento. )U�� ��� I Kykla sono contigui al golfo di Melias, pescoso a differenza dell‘altro – e tra tutti questo primeggia – racchiuso tra estesi promontori e scogli sommersi da ogni parte; trae nome da un eroe epicorio ed è massimamente adatto per la pesca. )U�����Segue il cosiddetto Kepos, che prende il nome dalla terra – essa infatti vi è lì coltivata a giardino con tali risultati da non avere confronti- con una produzione aggiuntiva dal mare; infatti un tempo non si sapeva, finché essa fu infeconda e inesplorata, ma essa offre albergo ai pesci. Poi vi è il cosiddetto Apsasieion: è così chiamato da coloro che vengono dall‘Arcadia e in esso è venerato anche Zeus Apsasios. )U�����Nasce il Cidaro, tra i fiumi, ad occidente, il Barbise dall‘altro lato dove spira il vento di Borea, questo gli uni chiamano il nutritore di Bisanzio, gli altri signore della navigazione per Iason e per i Mini che stanno con lui, alcuni dicono che fosse un eroe epicorio. Nel luogo in cui, combattendo gli uni contro gli altri nell‘ampio promontorio in cui i due fiumi si incontrano, dopo la sconfitta, si imbarcarono, lì si trova l‘altare di Semistras, da cui trae nome anche quella zona. Semistras, una ninfa naiade, fu nutrice di Cheroessa; infatti Io, dopo aver subito gli inganni di Zeus, assillata da un alato tafano a causa del furore di

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Hera, in forma di giovenca s‘involò per tutta la terra, spinta con violenza dalle doglie del parto – infatti era in lei stirpe divina – e partorì una figlia. E quest‘ultima la prese Semistra, la nutrì, a lei che portava i segni della materna metamorfosi: infatti aveva ai due lati della fronte tracce sporgenti di corna; perciò il suo nome è Cheroessa. E poiché un uomo di nome Byzas figlio di costei e di Poseidon era venerato come un dio, la città fu detta Bisanzio. La zona di Semistra fu sul punto di essere scelta come luogo di fondazione: infatti fu lì che i signori della colonia decisero di porre la città. Ma mentre i sacerdoti compivano i sacri riti con il fuoco, un corvo, avendo ghermito alcune porzioni della vittima già sulla fiamma, le andò a posare sul promontorio del Bosforo; e gli interpreti dei Greci intesero il fatto come un prodigio di Apollo: un mandriano infatti, osservando da un luogo di vedetta, mostrò a costoro dove il predatore aveva lasciato la porzione sacrificale, e quelli seguirono il prodigio. )U�� ���Dopo la Semistra, poco oltre le foci dei fiumi, il Corno comincia a curvare nell‘altra direzione, formando il promontorio che volge verso Drepanon. Dopo di esso vi è un‘altura aguzza, che si protende tutta in una volta verso il mare; è detta Boukolos, poiché hanno stimato degno di memoria benevolente colui che li aveva informati (in merito alla porzione del rito); da lì par che quello avesse visto l‘uccello cui va il merito della fondazione della città. )U�����Dopo il Boukolos vi sono Mandrai (i Covili) e Drys (il Leccio): il primo luogo è così chiamato in conformità con la tranquillità e il riparo offerti dal luogo – infatti è bagnato da un mare non battuto dal vento; Drys invece trae nome da un boschetto sacro; questo è il sacro recinto di Apollo. )U�����A chi aggira il promontorio appare un esteso golfo, di nome Auleon; (e poi appare un ponte), opera di Filippo il Macedone che aveva installato una piattaforma tra le due rive del continente gettando sul fondale massi di pietre e un‘immane quantità di terra con l‘aiuto di molte braccia, affinché fosse possibile, dopo che da lui era stato reso praticabile il Bosforo, compiere scorrerie senza difficoltà attraverso quella regione; infatti non era possibile sostenere battaglie navali, dal momento che i Bizantini primeggiavano sul mare. )U�� ���Da qui comincia una zona invasa da un fango assai profondo e da fitte radici sottomarine, che chiude il golfo; quivi è un luogo adatto per la pesca, dal momento che presso quei passaggi si stagliano scogli nel mare, in cui scivolano i pesci di notte. Dopo il fango vi sono i cosiddetti Choiragria, essi erano stati così denominati per via di un episodio ivi accaduto, quando avvenne che alcuni catturassero con l‘inganno i cinghiali che scendevano dai monti: infatti tutta la costa meridionale del Corno è rivestita di boschi. )U�����Poi il Corno finisce, e comincia l‘istmo dinanzi al Ponto, sporgenza che guarda verso la già grande e aperta Propontide; su di esso si trova la tomba dell‘eroe Ippostene di Megara, da cui prese il nome anche quella zona. )U�����Seguono la terra di Ippostene le Sykides, così chiamate per l‘abbondanza e la bellezza dei fichi che in essa crescono; alcuni particolarmente pignoli e curiosi narrano che lì fosse nato il primo fico in assoluto. )U�����A partire da quel punto si colloca il temenos di Schoiniklos, avendo i Bizantini portato con sé da Megara quella figura mitica insieme con la sua memoria e gli onori ad essa tributati; si dice che costui fosse stato il cocchiere dell‘indovino Amfiarao. )U�����Il luogo contiguo è stato designato Auletes, dal momento che un auleta di nome Python vi avrebbe abitato; la memoria onorava l‘arte di Apollo in virtù di tale denominazione. Seguiva il Bolos, idoneo alla

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pesca d‘inverno; su di esso si trovava il temenos di Artemis Lucifera e di Afrodite Benevola, venerata annualmente dagli abitanti di Bisanzio: infatti sembra che la dea controlli che i venti siano appropriati alla stagione, placandone e calmandone la massima furia. E il successivo Ostreodes è così denominato da tale avvenimento: infatti uno scoglio profondo era stato col tempo ricoperto da una gran massa di ostriche e dunque riluceva; il fondo marino emana bagliori fino alle montagne circostanti soprattutto quando i venti spirano gentili ed il mare scorre placido; il luogo dà nutrimento a ciò che sempre si consuma ed è, per così dire, scialacquatore l‘uso dal momento che la rinascita delle ostriche contende sempre con la caccia. )U�����La zona che segue è detta Delfin e Karandas: l‘origine dei nomi è la seguente: un uomo (di nome Calcide la) fondò, egli era di origine bizantina e la sua professione era quella di citarodo, non inferiore a nessuno dei più eccelsi. Perciò, quando costui indossando la propria veste da spettacolo si accinse a cantare il nomos orthios, un delfino emerse dal mare volgendosi in ascolto del musico e restando al pelo dell‘acqua, con un balzo alto nel cielo allo sguardo, come se si fosse saziato di tutto il canto, ma non privato per l‘attenzione del suo ascolto del movimento, si reimmerse alla fine del canto nel fondo del mare; l‘animale conosceva la misura del piacere e della felicità - cosa che anche Calcis aveva nel canto - infatti alla fine del canto l‘animale tranquillo si rigettò nel profondo del mare, ritornando alle proprie abitudini. Carandas, un pastore che abitava nei pressi, forse per invidia od odio nei confronti di Calcide, o forse anche per bramosia di potere, tendendo insidie all‘animale che dolcemente scivolava nel mare e in accordocon la seduzione del piacere del canto lo uccideva catturandolo dopo che si era arenato. Ma non si impadronì della preda; e così Calcis seppellì con grandi onori l‘animale che l‘aveva ascoltato; e pose alla regione il nome di Delfino e Caranda, onorando con la memoria l‘uno e dando un marchio di ignominia all‘altro. Segue poi un promontorio che a breve distanza si incava in forma di golfo; la sua base e radice, una pietra (che affonda) dentro il mare, è chiamata Thermastis. E dopo di essa vi è un litorale che si allunga in direzione sud; essa è detta da coloro che vi approdano nelle navi pentecontere, Pentekontorikon. Infatti anche in codesta città si HUDQR�LQWUDSUHVH�LQVLHPH�VLD�OD�IRQGD]LRQH�VLD�OH�GHQRPLQD]LRQL�GHOOD�UHJLRQH��$�TXHVWR�VHJXH� ,�FDPSL�GL�

Scite ; narrano infatti che Scite emigrando dalla sua propria terra approdasse in un luogo di nome Tauron; narrano che costui navigando fino a Creta seducesse Pasifae (la sposa ) di Minosse; di qui il racconto dell‘amore e della nascita da costui. Poi prende il nome di Iasonion poiché vi approdarono quelli che erano con Giasone; vi era un bosco ricco di un fitto alloro e un altare di Apollo; vi è un lungo promontorio e tutto percorribile per i venti occidentali e meridionali. )U�� ��� Dopo questo luogo si trovano /H� PXUD� GHL� 5RGLL , sotto le quali i Rodi tendendo le funi assalivano quelli che avanzavano pretese sul mare; di costoro sono conservate fino ai miei tempi alcune pietre traforate delle navi; ma la maggior parte di tali memorie fu travolta dal tempo. --- Segue una lunga spiaggia, ottimo luogo per la la pesca, grazie alla profondità del mare – davvero rara-, alla docilità del mare ed alla facilità con cui si raggiunge il promontorio; è nominato Kyclada, poiché come credo, i Greci vi circondarono i Barbari, e per la cui ragione anche l‘altare è dedicato ad Atena Skedasia, facendo un gioco di parole tra la messa in fuga e l‘accerchiamento dei nemici. )U�� ���E di lì la cima digrada ripida verso i flutti, e la corrente in direzione di quella si oppone alla cosiddetta Vacca; tale è il varco per chi naviga verso l‘Europa. In questo promontorio vi è una colonna di pietra bianca, nella quale si erge la Vacca, per onorare la sposa di Carete stratego ateniese che, morta, fu lì

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sepolta; l‘iscrizione riporta la storia vera, ma coloro che narrano fandonie credono che essa rappresenti l‘antica statua della Vacca, allontanandosi grandemente dal vero. )U�����Dopo la località chiamata la Vacca si trova una fonte detta Hermagora e il sacello dell‘eroe Eurosto. Nei pressi vi è una costa bassa, bagnata dal fiume Imeros e lì è collocato un sacello di Venere. Vicino vi è un piccolo istmo che delimita una grande penisola, dove è posta, poco oltre il fiume omonimo, la città di Calcedone, dotata di un porto su ciascuna delle sue coste che voltano indietro; uno in direzione occidentale, l‘altro orientale. Essa si distende su un altipiano piuttosto basso e su una stretta pianura; nella città vi sono molte cose degne di ammirazione per l‘antichità della fondazione e gesta ed avvenimenti nonché mutamenti di ogni sorta: è soprattutto da menzionare il tempio oracolare di Apollo, non inferiore a nessuno. Si conclude qui la mia storia del Bosforo. �

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(52'272��WUDG��$��&RORQQD�±)��%HYLODFTXD�� ,9 >����@ Aristea di Proconneso, figlio di Castrobio, in un poema epico affermò di essere giunto, invasato da Febo presso gli Issedoni e che oltre gli Issedoni vivono gli Arimaspi, che hanno un occhio solo, e oltre gli Arimaspi i grifoni, che custodiscono l'oro, e oltre i grifoni gli Iperborei, che si estendono fino al mare; [2] a eccezione degli Iperborei, tutti questi popoli, a cominciare dagli Arimaspi, farebbero continuamente guerra ai loro vicini: gli Issedoni sarebbero� stati cacciati dal loro paese dagli Arimaspi, gli Sciti dagli Issedoni e i Cimmeri, che abitavano queste coste del mare meridìonale avrebbero abbandonato la loro terra sotto l'incalzare degli Sciti. Dunque neppure Aristea è d'accordo con gli Sciti sulle vicende di questa regione. [14, 1] Ho già detto quale fosse il luogo d'origine di quell'Aristea che compose questo poema: ora passo a riferire quanto ho sentito raccontare su di lui a Proconneso e a Cizico. Narrano infatti che Aristea, il quale non era inferiore per nobiltà di stirpe a nessuno dei suoi concittadini, un giorno a Proconneso entrò nell'officina di uno scardassiere e morì; l'artigiano chiuse la bottega e andò ad avvisare i parenti del defunto. [2] La.voce che Aristea era morto si era già sparsa per la città, quando un uomo di Cizico, e proveniente dalla città di Artace, ebbe una discussione con quelli che diffondevano la notizia, in quanto asseriva di aver incontrato Aristea che si stava recando a Cizico e di aver parlato con lui. Mentre costui discuteva con accanimento, i parenti del defunto si presentarono nell'officina dello scardassiere con il necessario per portare via il cadavere: [3] ma, quando aprirono la porta, di Aristea non vi era traccia, né vivo né morto. Sei anni dopo ricomparve a Proconneso, compose il poema che ora i Greci chiamano &DQWL�$ULPDVSL��e dopo averlo composto sparì per la seconda volta. [85, 1] Quando Dario, muovendo da Susa, giunse nel territorio di Calcedonia, sul Bosforo, dove era stato costruito il ponte, si imbarcò e si diresse verso le rocce dette Cianee, che secondo i Greci un tempo erano erranti; là, sedutosi su un promontorio, contemplava il Ponto, che certo merita di essere ammirato. [2] È infatti il più bello di tutti i mari: misura in lunghezza undicimilacento stadi e in larghezza, nel punto in cui è più ampio, tremiladuecento stadi. [3] L'imboccatura di questo mare ha una larghezza di quattro stadi e lo

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stretto formato da tale imboccatura, che è chiamato Bosforo e sul quale era stato gettato il ponte, è lungo circa centoventi stadi; il Bosforo si estende fino alla Propontìde. [4] La Propontide, larga cinquecento stadi e lunga millequattrocento, sbocca nell'Ellesponto, che è largo sette stadi e lungo quattrocento. L'Ellesponto poi si apre su un'ampia distesa marina, quella del mare detto Egeo. [86, 1] Le misure sono state calcolate così. Una nave di solito percorre in una giornata estiva circa settantamila orge e sessantamila durante la notte. [2] Ora dall'imboccatura fino al Fasi (è il tratto di massima lunghezza del Ponto) vi sono nove giorni e otto notti di navigazione: il che fa un milionecentodiecimila orge, cioè undicimilacento stadi. [3] Dalla regione dei Sindi fino a Te-miscira sul fiume Termodonte (in questo tratto il Ponto raggiunge la sua massima larghezza) vi sono tre giorni e due notti di navigazione: il che fa trecentotrentamila orge, cioè tremila-trecento stadi. [4] Ecco come sono state da me calcolate le dimensioni del Ponto, del Bosforo e dell'Ellesponto, che sono appunto quelle sopra indicate; vi è poi una palude che comunica con il Pomo, di estensione di poco inferiore, chiamata Meotide e madre del Ponto. [87, 1] Dario, dopo aver contemplato il Ponto Eusino, tornò indietro per mare fino al ponte, opera dell'architetto Mandrocle di Samo. Dopo aver contemplato anche il Bosforo, eresse sulla riva due colonne di marmo bianco, facendovi incidere, su una in caratteri assiri e sull'altra in caratteri greci, i nomi di tutti i popoli che conduceva con sé: e conduceva con sé tutti i popoli su cui regnava. Senza contare la flotta, i suoi soldati ammontavano a settecentomila, cavalieri compresi, e le navi radunate erano seicento. Queste colonne, in seguito, gli abitanti di Bisanzio se le portarono nella loro città e le utilizzarono per costruire l'altare di Artemide Ortosia, a eccezione di un unico blocco che fu lasciato presso il tempio di Dioniso a Bisanzio ed è tutto ricoperto da un'iscrizione in caratteri assiri. II punto del Bosforo dove il re Dario fece gettare il ponte si trova, in base alle mie congetture, a metà strada tra il santuario che sorge all'imboccatura del Ponto. [88, 1] Poi partì soddisfatto del ponte di barche, colmò di innumerevoli doni l'architetto che lo aveva progettato Mandrocle di Samo. Come primizia prelevata da tali doni, Mandrocle ordinò un quadro che rappresentava tutta la costruzione del ponte sul Bosforo, con il re Dario seduto in prima fila e l'esercito che lo attraversava; fatto dipingere il quadro, lo consacrò nel tempio di Era, dopo avervi apposto la seguente iscrizione: [2] Unite le rive del Bosforo ricco di pesci, Mandrocle dedicò a Era questo ricordo del ponte. Per sé conquistò una corona, per i Sami la gloria, avendo realizzato la volontà del re Dario. [89, 1 ] Questo fu il monumento lasciato da colui che aveva costruito il ponte, Dario, ricompensato Mandrocle, passò in Europa, dopo aver ingiunto agli Ioni di navigare nel Ponto fino al fiume Istro e, una volta arrivati all’ Istro, di attenderlo lì e di gettare frattanto un ponte sul fiume, in effetti gli Ioni, gli Eoli e gli Ellespontini guidavano l'armata navale [2] La flotta dunque, superate le Cianee, puntò diritta verso l'Istro, risalì il fiume dal mare per due giorni di navigazione fino al punto a partire dal quale l’Istro si divide in vari rami, e lì i soldati si diedero a costruire il ponte. [3] Dario invece, varcato il Bosforo sul ponte di barche, marciò attraverso la Tracia e, giunto alle sorgenti del fiume Tearo, vi si accampò per tre giorni.

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[90, 1] II Tearo, secondo le popolazioni delle vicinanze, è il migliore dei fiumi quanto a proprietà terapeutiche e in particolare per guarire uomini e cavalli dalla scabbia. Le sue sorgenti sono trentotto e scaturiscono dalla stessa roccia: alcune sono fredde, altre calde. [2] II cammino per raggiungerle è ugualmente lungo sia che si parta dalla città di Ereo presso Perinto, sia da Apollonia sul Ponto Eusino: due giorni di viaggio in entrambi i casi. Il Tearo si getta nel fiume Contadesdo, il Contadesdo nell'Agriane, l'Agriane nell'Ebro e quest'ultimo sfocia in mare presso la città di Eno. 91.1 Lì Dario dunque, arrivato al Tearo, si accampò e, affascinato da questo fiume, eresse anche lì una stele sulla quale fece incidere la seguente iscrizione: [2] « Le sorgenti del fiume Tearo offrono l'acqua migliore e più bella di tutti i fiumi: ad esse giunse, guidando un esercito contro gli Sciti, il migliore e il più bello di tutti gli uomini, Dario figlio di Istaspe, re dei Persiani e dell'intero continente». [92] Queste sono le parole che furono incise lì . Dario lasciato il Tearo, arrivò a un altro fiume, che si chiama Artesco e scorre attraverso il territorio degli Odrisi. Giunto a questo fiume, ecco cosa fece: indicò un certo luogo al suo esercito e ordinò che ogni soldato, passando, deponesse una pietra nel luogo indicato. Quando ebbero eseguito l'ordine, guidò oltre le sue truppe, lasciando lì enormi cumuli di pietre. [93] Prima dì arrivare all'Istro, Dario sottomise innanzi tutto i Geti, che si ritengono immortali. Infatti i Traci che occupano Salmidesso e vivono al di là di Apollonia e della città di Mesambria, quei Traci che sono chiamati Scirmiadi e Nipsei, si erano arresi a Dario senza combattere; i Geti invece scelsero la via di una temerarietà insensata e furono subito ridotti in schiavitù, benché fossero i più valorosi e i più giusti fra i Traci.[94, 1] Essi si considerano immortali in questo senso: credono di non morire e che il morto vada presso il dio Salmoxis (altri Geti questo stesso dio lo chiamano Beleizis). [94,2] Ogni quattro anni mandano uno di loro, scelto mediante sorteggio, come messaggero presso Salmoxis, ingiungendogli di riferire ciò di cui di volta in volta hanno bisogno. Ed ecco come lo inviano: alcuni di loro, incaricati di tale compito, impugnano tre giavellotti, mentre altri prendono per le mani e per i piedi l'uomo che viene mandato da Salmoxis, lo fanno ondeggiare a mezz'aria e lo scagliano sulle lance. [3] Se, trafitto, egli muore, pensano che il dio sia loro propizio; se non muore, accusano il messaggero stesso, sostenendo che è un uomo malvagio e, dopo averlo messo sotto accusa, ne inviano un altro; gli comunicano le istruzioni mentre è ancora vivo. [4].Questi stessi Traci, davanti a un tuono o a un fulmine, lanciano frecce in alto contro il cielo, proferendo minacce contro il dio, poiché sono convinti che non vi sia nessun altro dio tranne il loro. [95, 1] A quanto ho sentito dire dai Greci che abitano sull'Ellesponto e sul Ponto Eusino, questo Salmoxis era un uomo e viveva a Samo come schiavo, era schiavo di Pitagora figlio di Mnesarco: [2] in seguito, divenuto libero, si procurò grandi ricchezze e, una volta arricchitosi, se ne tornò nel suo paese. Poiché ì Traci conducevano una vita miserabile ed erano piuttosto stupidi, Salmoxis, che conosceva il modo di vivere degli Ioni e costumi più raffinati di quelli dei Traci (infatti aveva frequentato dei Greci e fra i Greci Pitagora, che non era certo il più insignificante tra i sapienti), si fece costruire un salone [3] nel quale ospitava i cittadini più ragguardevoli e nel corso dei banchetti insegnava loro che né lui né i suoi invitati né i loro discendenti sarebbero morti, ma sarebbero andati in un luogo dove avrebbero vissuto per sempre godendo di ogni bene. [4] E mentre agiva e parlava come ho detto, si costruiva intanto una dimora

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sotterranea. Appena fu terminata, Salmoxis scomparve alla vista dei Traci e, sceso nella sua abitazione sotterranea, vi rimase per tre anni. [5] I Traci ne sentivano la mancanza e lo piangevano per morto. Ma dopo tre anni ricomparve tra loro e così le sue affermazioni divennero credibili. [96, 1] Questo si narra che abbia fatto Salmoxis. Riguardo alla storia della stanza sotterranea io né mi rifiuto di credervi né vi credo troppo; penso però che questo Salmoxis sia vissuto molti anni prima di Pitagora. [2] Se poi Salmoxis sia stato un uomo o se invece sia una divinità locale dei Geti, è una questione che preferiamo chiudere qui. I Geti dunque, che hanno una simile indole, furono vinti dai Persiani e si aggregarono al resto dell' esercito, [97, 1] Appena Dario giunse, e con lui l'esercito di terra, al fiume Istro, dopo che tutti lo ebbero attraversato, ordinò agli Ioni di tagliare il ponte di barche e di seguirlo per via di terra insieme agli equipaggi della flotta. [2] Quando già gli Ioni si preparavano a distruggere il ponte e a eseguire gli ordini, Coe figlio di Erxandro, comandante dei Mitilenesi, prima domandò a Dario se gli era gradito ascoltare un parere da chi volesse esporglielo e poi gli disse: [3] «O re, tu stai per muovere contro un paese in cui non si vedrà né terra arata né alcuna città abitata; lascia dunque questo ponte al suo posto e .lascia a presidiarlo quegli stessi che l'hanno costruito. [4] Se troveremo gli Sciti e le cose andranno secondo i nostri desideri, avremo una via per tornare indietro; se invece non riusciremo a trovarli, almeno la via del ritorno sarà per noi assicurata: non ho paura che possiamo essere sconfitti in battaglia dagli Sciti, ma piuttosto temo che, se non riusciremo a trovarli, possa capitarci qualcosa di spiacevole mentre vaghiamo qua e là. [5] Qualcuno potrebbe sostenere che parlo nel mio interesse personale, per restare qui: ma io, o re, mi limito a illustrare pubblicamente la proposta più vantaggiosa per te che sono riuscito a trovare e, per quanto mi riguarda, io ti seguirò e davvero non vorrei essere lasciato indietro». [6] Dario apprezzò molto questo parere e gli rispose: «Straniero di Lesbo, quando sarò tornato sano e salvo nella mia casa, vieni assolutamente da me, affinché io possa ricambiare con dei benefici il tuo buon consiglio». [98, 1]Ciò detto, fece sessanta nodi a una striscia di cuoio, convocò a un colloquio i tiranni degli Ioni e così parlò: [2] «Uomini della Ionia, il proposito che avevo manifestato in precedenza riguardo al ponte deve essere abbandonato; prendete dunque questa stri- scia e comportatevi come vi dico: non appena mi vedrete marciare contro gli Sciti, a partire da quel momento sciogliete un nodo ogni giorno: se in questo lasso di tempo io non sarò tornato, ma i giorni indicati dai nodi saranno trascorsi, salpate alla volta del vostro paese. [3] Ma fino ad allora — ecco la mia nuova decisione — presidiate il ponte, mettendo ogni cura nel preservarlo e nel custodirlo. Così facendo, mi renderete un grande servigio». Dopo aver così parlato, Dario si affrettò ad avanzare. �,9���������� [137, 1] Di fronte a una simile situazione, gli Ioni si consultarono tra loro. L'ateniese Milziade, comandante e tiranno dei Chersonesiti dell'Ellesponto, era dell'avviso di dare ascolto agli Sciti e di liberare la Ionia; [2] di opposto parere era , Istieo di Mileto: asseriva che al momento, grazie a Dario, ciascuno di loro era tiranno di una città, ma se fosse stata abbattuta la potenza di Dario, né lui sarebbe stato in grado di comandare sui Milesi, né nessun altro sui propri concittadini: ogni città infatti avrebbe preferito avere un

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regime democratico piuttosto che essere governata da un tiranno. [3] Quando Istieo espresse questa opinione, subito tutti vi aderirono, mentre prima avevano fatto propria quella di Milziade. [138] Coloro che presero parte al voto, uomini che godevano di prestigio presso il re di Persia, furono: i tiranni dei Greci dell'Ellesponto Dafni di Àbido, Ippoclo di Lampsaco, Erofanto di Parion, Metrodoro di Proconneso, Aristagora di Cizico e Aristone di Bisanzio; [2] questi erano i tiranni dell'Ellesponto; dalla Ionia venivano invece Stratti di Chio, Eace di Samo2, Laodamante di Focea e Istieo di Mileto, che aveva sostenuto il parere opposto a quello di Milziade; degli Eoli l'unico presente degno di nota era Aristagora di Mileto. [139, 1] Essi dunque approvarono la proposta di Istieo e decisero inoltre di fare e di dire quanto segue: di tagliare il ponte dalla parte degli Sciti, ma solo per una lunghezza pari a un tiro di freccia, per dare l'impressione di fare qualcosa senza fare nulla e perché gli Sciti non tentassero di passare l’Istro con la forza, utilizzando il ponte; e poi di promettere, mentre rompevano il ponte dalla parte della Scizia, che si sarebbero comportati in tutto e per tutto come piaceva agli Sciti. [2]�Aggiunsero queste misure al parere espresso da Istieo; quindi Istieo a nome di tutti così rispose agli Sciti: «Uomini della Scizia, siete venuti a portarci dei buoni consigli e la vostra fretta è opportuna. Voi ci indicate un'ottima via da seguire e noi siamo pronti a obbedirvi con la dovuta diligenza. Come vedete, stiamo rompendo il passaggio e vi metteremo tutto il nostro impegno, perché vogliamo essere liberi. [3] Ma mentre noi tagliamo il ponte, per voi è il momento di andare in cerca dei Persiani e, quando li avrete trovati, di punirli come meritano per vendicare noi e voi stessi. [140, 1] Gli Sciti, credendo per la seconda volta che gli Ioni dicessero la verità, tornarono indietro per cercare i Persiani, ma mancarono completamente la via che questi ultimi stavano percorrendo. Responsabili di ciò furono gli Sciti stessi, in quanto avevano distrutto i pascoli per i cavalli e avevano interrato i pozzi della regione: [2] se non lo avessero fatto, sarebbe stato loro possibile, qualora lo avessero voluto, rintracciare facilmente i Persiani: ora invece proprio quella che era sembrata loro la decisione più saggia si rivelò un errore [3] Gli Sciti dunque andavano in cerca. dei loro nemici, attraversando quelle zone del loro paese dove c'erano foraggio per i cavalli e acqua, convinti che i Persiani si ritirassero passando per 1uoghi del genere; i Persiani invece marciavano seguendo attentamente le tracce del loro cammino precedente e, anche così, a stento riuscirono a ritrovare il punto in cui avevano varcato il fiume. [4] Poiché arrivarono di notte e trovarono il ponte tagliato, furono presi dal panico totale, al pensiero che gli Ioni li avessero abbandonati. [141] C'era, nel seguito di Dario, un Egiziano che aveva la voce più potente del mondo: a lui Dario comandò di mettersi sulla riva dell'Istro e di chiamare Istieo di Mileto. Questi eseguì l'ordine e Istieo, obbedendo al primo appello, ricollocò al loro posto tutte le navi per far passare l'esercito, ripristinando il ponte. [142] In tal modo i Persiani riuscirono a salvarsi. Gli Sciti, che erano intenti a cercarli, li mancarono per la seconda volta. Ecco come gli Ioni sono giudicati dagli Sciti: se considerati come uomini liberi, i più malvagi e i più vili di tutti; valutandoli invece come schiavi, sostengono che sono schiavi affezionatissimi ai padroni e assolutamente alieni dal fuggire. Questi sono gli insulti lanciati dagli Sciti contro gli Ioni. [143, 1] Dario, marciando attraverso la Tracia, giunse a Sesto nel Chersoneso; da lì sì imbarcò alla volta dell'Asia e lasciò come comandante in Europa il persiano Megabazo, al quale Dario un giorno aveva reso grande onore pronunciando davanti ai Persiani la frase seguente. [2] Dario si accingeva a mangiare delle melagrane e, appena aprì la prima, suo fratello Artabano gli domandò che cosa avrebbe voluto possedere in

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numero uguale a quello del chicchi della melagrana: Dario rispose che avrebbe preferito avere un così gran numero di Megabazi piuttosto che dominare sulla Grecia. [3] Dario l'aveva dunque onorato con queste parole di fronte ai Persiani; e in quella circostanza lo lasciò come comandante con ottantamila uomini del suo esercito. [144, 1] Megabazo lasciò un ricordo immortale tra gli abitanti dell'Ellesponto per la battuta che sto per riferire: [2] trovandosi a Bisanzio, apprese che i Calcedoni si erano stabiliti in quella zona diciassette anni prima dei Bizantini; non appena lo venne a sapere, dichiarò che durante quel periodo i Calcedoni dovevano essere stati ciechi: se non fossero stati ciechi, infatti, non avrebbero scelto per fondare la loro città il luogo peggiore, quando avevano a disposizione il migliore. [3] Megabazo, lasciato allora là come comandante, si dava a sottomettere quei popoli dell' Ellesponto che non patteggiavano per i Persiani. 9������������. [I, 1] I Persiani lasciati in Europa da Dario, comandati da Megabazo, sottomisero per primi, tra gli abitanti dell’ Ellesponto, i Perinti, che rifiutavano di essere soggetti a Dario e che già avevano subito una dura sconfitta da parte dei Peoni. [2] Infatti i Peoni dello Strimone avevano ricevuto dall'oracolo del dio l'ordine di muovere contro i Perinti e di attaccarli, se i Perinti, accampati di fronte a loro, li avessero sfidati chiamandoli per nome a gran voce, ma di non attaccarli se non lo avessero fatto: e i Peoni si attennero al vaticinio. Mentre i Perinti erano accampati di fronte a loro nei sobborghi della città, in séguito a una sfida, ebbe luogo un triplice duello: opposero un uomo a un uomo, un cavallo a un cavallo, un cane a un cane. [3] Poiché avevano ormai vinto due dei combattimenti, i Perinti, pieni di gioia, si diedero a intonare il peana: i Peoni pensarono che proprio a quello alludeva il responso e probabilmente si dissero l'un l'altro: «Ora forse si sta compiendo l'oracolo, ora tocca a noi agire». Così dunque, mentre i Perinti cantavano il peana, i Peoni si�gettarono su di loro; riportarono una grande vittoria e lasciarono ben pochi superstiti. [2, i] Ecco che cosa era accaduto in precedenza ai Perinti a opera dei Peoni. In quella circostanza, poiché i Perinti si comportarono da valorosi in difesa della propria libertà, Ì Persiani e Megabazo riuscirono ad averne ragione soltanto grazie alla loro superiorità numerica. [2] Appena Perinto fu conquistata, Megabazo guidò l'esercito attraverso la Tracia, sottomettendo al re tutte le città e tutte le popolazioni stanziate nella regione: in effetti l'ordine di Dario era stato proprio questo: assoggettare la Tracia. �9����� [1] Non appena Dario, attraversato l'Ellesponto, giunse a Sardi, si ricordò del servigio resogli da Istieo di Mileto e del consiglio di Coe di Mitilene; li convocò a Sardi e concesse loro di scegliere quello che volevano. [2] Istieo, dal momento che era tiranno di Mileto, non desiderava un'altra ti- rannide: chiese dunque il territorio di Mircino, nel paese degli Èdoni, dove intendeva fondare una città. Istieo fece questa scelta; Coe invece, dato che non era un tiranno ma un semplice privato, chiese di diventare tiranno di Mitilene. Entrambi furono accontentati e partirono per le località prescelte. ��

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9��������[23, 1] Quanto a Megabazo, giunse all'Ellesponto portando con sé i Peoni e, passato sull'altra riva, arrivò a Sardi. Istieo di Mileto stava già cingendo di mura la località che aveva chiesto e ottenuto in dono da Dario come ricompensa per aver custodito il ponte, località situata lungo lo Strimone e chiamata Mircino; Megabazo, venuto a conoscenza di ciò che stava facendo Istieo, appena giunse a Sardi con i Peoni, disse a Dario: [2] «O re, che cosa hai mai fatto a concedere a un Greco abile e astuto di fondare una città nella Tracia! In quella zona vi è abbondanza di legname per costruire navi e fabbricare remi e vi sono miniere d'argento; intorno abita una grande massa di Greci e una grande massa di barbari, i quali, se riusciranno a trovare un capo, eseguiranno ciò che egli ordinerà, giorno e notte. [3] Impedisci dunque a quell'uomo di continuare ad agire così, se non vuoi essere coinvolto in una guerra in casa tua. Mandalo a chiamare con le buone maniere e costringilo a smettere; e quando sarà nelle tue mani, fa' in modo che non tomi mai più tra i Greci». [24, 1] Con questo discorso Megabazo riuscì a convincere Dario senza difficoltà, dal momento che ben prevedeva ciò che sarebbe accaduto. Più tardi, Dario inviò a Mircino un messaggero incaricato di riferire quanto segue: «Istieo, il re Dario ti dice: riflettendo, che non esiste al mondo un uomo animato da migliori sentimenti di te nei confronti della mia persona e dei miei affari; e lo so per averlo constatato dai fatti, non dalle parole. [2] Ora dunque, poiché sto meditando di compiere grandi cose, vieni da me assolutamente, perché io possa sottoporti i miei progetti». Istieo, prestando fede a tali parole e ritenendo un grande onore diventare consigliere del re, si recò a Sardi. [3] Quando arrivò, Dario gli disse: «Istieo, io ti ho mandato a chiamare per questo motivo. Da quando sono tornato dalla Scizia e non ti ho più visto, nessun' altra cosa ho desiderato più vivamente, in un periodo così breve, che vederti e discutere con te, perché ho capito che un amico intelligente e fidato è il più prezioso di tutti i beni; e che tu possieda entrambe le qualità io posso testimoniarlo, perché l'ho sperimentato per quanto riguarda i miei affari. [4] Adesso dunque — hai fatto benissimo a venire — ecco quello che ti propongo: lascia Mileto e la città che hai appena fondato in Tracia e seguimi a Susa: là potrai disporre di tutto ciò che possiedo io stesso e sarai mio commensale e mio consi-gliere». [25, 1] Così parlò Dario e, dopo aver designato Artafrene, suo fratello da parte di padre, governatore di Sardi, partì per Susa, conducendo con sé Istieo; aveva scelto come comandante delle truppe della regione costiera Otane, il cui padre, Sisamne, era stato uno dei giudici reali e, poiché per denaro aveva reso una sentenza ingiusta, era stato messo a morte e scorticato dalla testa ai piedi per ordine del re Cambise; dalla pelle strappata dal suo corpo erano state tagliate delle strisce, che erano state distese sul trono dove Sisamne era solito sedere quando amministrava la giustizia; [2] dopodiché Cambise al posto di Sisamne, che aveva fatto uccidere e scorticare, aveva nominato giudice il figlio di Sisamne, ingiungendogli di ricordare su quale trono sedeva per amministrare la giustizia. [26] Dunque questo Otane, che sedeva su un tale trono e che era allora succeduto a Megabazo nel comando dell'esercito, conquistò Bìsanzio e Calcedonia, prese Antandro nella regione della Troade, si impadronì di Lamponio e, con navi ricevute dai Lesbi, occupò Lemno e Imbro, all'epoca ancora abitate entrambe da Pelasgi [27, 1] I Lemni combatterono valorosamente e solo col tempo ebbero la peggio, mentre con-tinuavano a difendersi: ai superstiti i Persiani imposero come governatore Licareto, fratello di quel

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Meandrio che aveva regnato su Samo. [2] Licareto morì a Lemno nell'esercizio del suo potere. Ed eccone il motivo: riduceva in schiavitù e assoggettava tutti quanti, accusando alcuni di essersi rifiutati di partecipare alla spedizione contro gli Sciti, altri di aver molestato l'esercito di Dario durante la ritirata dalla Scizia. 9��������[94, 1] Così finì questa iniziativa. A Ippia, al momento della sua partenza, Aminta di Macedonia preferì Antemunte, mentre i Tessali gli avevano offerto Iolco2: ma Ippia non accettò nessuna delle due offerte e se ne tornò indietro a Sigeo, che Pisistrato aveva strappato ai Mitilenesi con le armi; Pisistrato, dopo essersene impadronito, aveva installato là come tiranno Egesistrato, suo figlio illegittimo, che aveva avuto da una donna di Argo, il quale non riusciva a conservare senza combattere quanto aveva ricevuto da Pisistrato. [2] In effetti, muovendo rispettivamente dalla città di Achilleo e da Sigeo, Mitilenesi e Ateniesi si fecero guerra per molto tempo, i primi perché rivendicavano quella regione, gli Ateniesi perché non ammettevano tale rivendicazione, anzi dimostravano con le loro argomentazioni che gli Eoli non potevano vantare diritti sulla regione di Ilio più di loro stessi e tutti gli altri Greci che avevano aiutato Menelao a ''vendicare il rapimento "di Elena . [95, 1] Nel corso di queste guerre, accaddero durante le varie battaglie episodi di ogni genere: tra l'altro il poeta Alceo, in uno scontro in cui gli Ateniesi stavano avendo la meglio, riuscì a salvarsi con la fuga, ma gli Ateniesi si impadronirono delle sue armi e le appesero nel tempio di Atena al Sigeo. [2] Su questo fatto Alceo compose una poesia e la inviò a Mitilene per annunciare la sua disavventura all'amico Melanippo. Mitilenesi e Ateniesi li riconciliò Periandro figlio di Cipselo: infatti si erano rivolti a lui, affidandogli il ruolo di arbitro; la riconciliazione si fondava su un accordo in base al quale ciascuno dei contendenti si teneva il territorio che occupava. Così dunque il Sigeo passò sotto il dominio ateniese. 9������Allora dunque combatterono così. In seguito gli Ateniesi abbandonarono completamente gli Ioni e, nonostante i ripetuti appelli che Aristagora rivolse loro tramite messaggeri, dichiararono che non li avrebbero aiutati. Gli Ioni, pur privati dell'alleanza ateniese, nondimeno preparavano la guerra contro il re: tanto grave era quello che avevano fatto contro Dario. [2] Mossero per mare verso l'Ellesponto e assoggettarono Bisanzio e tutte le altre città della regione; usciti dall'Ellesponto, si garantirono l'alleanza della maggior parte della Caria; perfino Cauno, che in precedenza si era rifiutata di schierarsi dalla loro parte, dopo l'incendio di Sardi sì uni anch'essa agli Ioni. ��9����������[124, 1] Mentre queste città venivano prese, Aristagora di Mileto (non era infatti, come ebbe modo di dimostrare, un campione di coraggio, lui che, dopo aver sconvolto la Ionia e agitato grandi progetti, meditava la fuga), vedendo quanto accadeva e sembrandogli del resto impossibile sconfiggere il re Dario, [2] per tutti questi motivi convocò i suoi seguaci e si consultò con loro: dichiarò che era meglio per loro avere a disposizione un luogo dove rifugiarsi nel caso che fossero stati cacciati da Mileto, sia che da lì

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dovesse condurli a fondate una colonia in Sardegna, sia a Mircino in Edonia, che Istieo aveva ricevuto in dono da Dario e fortificato. Ecco le questioni che pose Aristagora. [125] Lo scrittore Ecateo figlio di Egesandro era del parere che, se Aristagora fosse stato espulso da Mileto, non avrebbe dovuto recarsi in nessuno di quei due luoghi, bensì costruire una fortezza nell'isola di Lero e rimanere lì tranquillo: in seguito, muovendo da quell' isola, avrebbe potuto tornare a Mileto. [126, 1] Questo dunque consigliò Ecateo; ma Aristagora personalmente preferiva ritirarsi a Mircino. Affidò allora Mileto a Pitagora, un cittadino eminente, e lui, prendendo con sé tutti coloro che lo desideravano, salpò alla volta della Tracia e occupò la regione verso la quale si era diretto. [2] Ma, durante una spedizione intrapresa partendo da lì, lui e il suo esercito furono sterminati dai Traci, mentre assediavano una città dalla quale i Traci avevano acconsentito a uscire sulla base di un accordo. 9,�����[26, 1] Così dunque andavano le cose. Istieo di Mileto, che si trovava nelle acque di Bisanzio, intento a catturare le navi da carico degli Ioni all'uscita dal Ponto, ebbe notizia dei fatti di Mileto. Affidò allora gli affari dell'Ellesponto a Bisalte figlio di Apollofane di Abido e lui con i Lesbi salpò alla volta di Chio e una località del territorio di Chio chiamata le Cave si scontrò con una guarnigione di Chii che voleva impedirgli l'accesso. [2] Ne uccise molti e, con l'aiuto dei Lesbi, muovendo da Policne di Chio, riuscì ad avere la meglio sugli altri abitanti dell'isola, stremati com'erano in seguito alla battaglia navale. �9,��������[33, 1] Allontanandosi dalla Ionia, la flotta conquistò tutte le località situate sulla sinistra di chi entra nell'Ellesponto: quelle sulla riva destra erano già state assoggettate dai Persiani per via di terra. I territori europei sull’Ellesponto sono i seguenti: il Chersoneso, nel quale si trovano numerose città, Perinto, le piazzeforti della Tracia, Selimbria e Bisanzio. [2] I Bizantini e Ì Calcedoni, che abitano sulla sponda opposta, non aspettarono che i Fenici li attaccassero, ma abbandonarono la loro patria, penetrarono nel Ponto Eusino e si stabilirono nella città di Mesambria. I Fenici, dopo aver dato alle fiamme le regioni sopra elencate, si volsero contro Proconneso e Artace: incendiarono anch'esse e salparono nuovamente alla volta del Chersoneso per distruggervi le città rimanenti, cioè quelle che non avevano devastato in occasione dello sbarco precedente. [3] Contro Cizico invece non mossero affatto, in quanto ì Ciziceni, ancor prima dell'arrivo dei Fenici, si erano sottomessi spontaneamente al re, stipulando un accordo con Ebare figlio di Megabazo, governatore di Dascilio. Tutte le altre città del Chersoneso, tranne Cardia, i Fenici le ridussero in loro potere. [34, 1] Fino ad allora esse erano state soggette al tiranno Milziade figlio di Cimone figlio di Stesagora; a impadronirsi del potere assoluto era stato, in un'epoca precedente, Milziade figlio di Cipselo, nel modo seguente. Il Chersoneso era occupato dai Traci Dolonci; questi Dolonci, incalzati in guerra dagli Apsinti, inviarono i loro re a Delfi per consultare l'oracolo riguardo al conflitto. [2] La Pizia rispose di condurre nel loro paese, perché vi fondasse una colonia, il primo che li avesse invitati a un banchetto dopo che fossero usciti dal santuario. I Dolonci, seguendo la Via Sacra, attraversarono la Focide e la Beozia e, poiché nessuno li invitava, deviarono verso Atene.

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[35, 1] Ad Atene a quell’epoca tutto il potere era nelle mani di Pisistrato, ma era molto influente anche Milziade figlio di Cipselo, il quale apparteneva a una famiglia che poteva permettersi una quadriga e come origine risaliva a Eaco e a Egina, ma che di recente era divenuta ateniese: Fileo figlio di Aiace era stato il primo della famiglia a diventare ateniese. [2] Milziade, seduto davanti alla porta di casa sua, vedendo passare i Dolonci con lance e con vesti straniere, li chiamò ad alta voce: essi si avvicinarono e Milziade offrì loro alloggio e un banchetto. Essi accettarono e, dopo essere stati suoi ospiti, gli rivelarono integralmente il responso dell'oracolo e quindi lo pregarono di obbedire al dio. [35,3] Appena lo udì, il discorso persuase immediatamente Milziade, poiché mal sopportava il potere di Pisistrato e desiderava andarsene. Subito partì per Delfi per domandare all'oracolo se doveva fare quanto gli chiedevano i Dolonci. [36, 1] Anche la Pizia gli rivolse lo stesso invito e così Milziade figlio di Cipselo, che prima di questi eventi aveva vinto a Olimpia la corsa delle quadrighe, prese allora con sé tutti gli Ateniesi che volevano partecipare alla spedizione, si imbarcò insieme ai Dolonci e occupò il paese; e coloro che lo avevano condotto fin lì ne fecero il loro tiranno. [2] Milziade innanzi tutto fortificò con un muro l'istmo del Chersoneso, dalla città di Cardia a quella di Pattie, per impedire agli Apsinti di invadere la regione e di saccheggiarla; l'istmo misura trentasei stadi; a partire dall'istmo tutto il Chersoneso si estende in lunghezza per quattrocentoventi stadi. [37, 1] Fortificato l'istmo del Chersoneso e respinti in tal modo gli Apsinti, Milziade mosse guerra agli altri popoli e per primi ai Lampsaceni: costoro gli tesero un agguato e lo presero prigioniero. Ma Milziade era in buoni rapporti con Creso: perciò, quando questi ne fu informato, mandò dei messi a ingiungere ai Lampsaceni di lasciare libero Milziade, altrimenti minacciava di «estirparli come pini». [2] I Lampsaceni, nonostante tutte le loro discussioni, non riuscivano a capire quale fosse il significato di quell' espressione minacciosa di Creso, «estirparli come pini»: alla fine, non senza fatica, uno dei vecchi ne comprese l'esatta interpretazione e la spiegò: il pino è l'unico fra tutti gli alberi che, una volta tagliato, non mette più germogli e muore definitivamente. Allora i Lampsaceni, per paura di Creso, liberarono Milziade e lo lasciarono andare. [38, 1] Milziade dunque si salvò grazie a Creso. In seguito morì senza figli, lasciando il potere e i suoi beni a Stesagora, figlio di Cimone,�suo fratello da parte di madre. Dopo la sua morte, gli abitanti del Chersoneso gli offrono sacrifici, come è di norma con i fondatori di città, e celebrano in suo onore gare ippiche e ginniche, alle quali nessuno dei Lampsaceni ha diritto di partecipare. [2] Nel corso di una guerra contro i Lampsaceni, accadde che anche Stesagora morisse senza figli: fu colpito alla testa con una scure, nel pritaneo, da un uomo che diceva di essere un disertore, ma che in realtà era un suo nemico, e piuttosto acceso. [39, 1] Perito in tal modo anche Stesagora, i Pisistratidi inviarono nel Chersoneso con una trireme Milzia-de, figlio di Cimone, fratello del defunto Stegagora, a prendere in mano la situazione: essi anche ad Atene lo avevano trattato con riguardo, come se non fossero stati coinvolti nella morte di suo padre, di cui narrerò altrove le circostanze. [2] Milziade. giunto nel Chersoneso, rimaneva in casa, naturalmente, per rendere i dovuti onori a suo fratello Stesagora. I signori locali del Chersoneso, saputo ciò, si radunarono da tutte le città e si recarono da lui in massa con l'intenzione di esprimergli le proprie condoglianze, ma lui li fece im-prigionare. Mantenendo un corpo di cinquecento mercenari, Milziade conservò in suo potere il Chersoneso; e sposò Egesipile, figlia del re dei Traci Oloro.

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[40, 1] Milziade figlio di Cimone era arrivato da poco nel Chersoneso, quando si abbatterono su di lui altre sciagure, più terribili di quelle che lo avevano già colpito. Infatti due anni prima di questi avvenimenti era dovuto fuggire davanti agli Sciti: gli Sciti nomadi, provocati dal re Dario, si erano radunati e si erano spinti fino al Chersoneso: [2] Milziade, senza aspettare il loro attacco, si allontanò dal Chersoneso finché gli Sciti non si ritirarono e i Dolonci non lo ricondussero indietro; questo si era verificato due anni prima di quanto gli capitava in quel momento. [41, 1 ] Allora, informato che i Fenici si trovavano a Tenedo, caricò su cinque triremi i beni che aveva sotto mano e salpò alla volta di Atene; partito dalla città di Cardia, passò attraverso il golfo di Melas, stava costeggiando il Chersoneso, quando i Fenici piombarono sulle sue navi: [2] Milziade con quattro navi riuscì a rifugiarsi a Imbro, mentre la quinta i Fenici la inseguirono e la catturarono. Era comandante di quest'ultima il figlio maggiore di Milziade, Metioco, nato non dalla figlia del tracio Oloro, ma da un'altra donna. [3] I Fenici lo presero insieme alla nave e, saputo che era figlio di Milziade, lo condussero dal re, convinti di guadagnarsi grande riconoscenza, dal momento che Milziade, tra gli Ioni, aveva espresso l'opinione di ascoltare gli Sciti, quando gli Sciti li avevano sollecitati a rompere il ponte e a tornare nel loro paese. [4] Ma Dario, allorché i Fenici gli portarono Metioco figlio di Milziade, non gli fece alcun male, anzi lo colmò di ricchezze: gli donò una casa, una proprietà e una moglie persiana, dalla quale gli nacquero figli che furono ammessi nei ranghi dei Persiani. Nel frattempo Milziade da Imbro arrivò ad Atene. �9,��������[46,1] L’anno successivo Dario innanzi tutto inviò un messaggero ai Tasi, accusati dai loro vicini di tramare una rivolta, con l'ordine di abbattere le mura e di portare le navi ad Abdera. [2] I Tasi infatti, che erano stati assediati da Istieo di Mileto e disponevano di notevoli entrate, avevano utilizzato il loro denaro per costruire navi lunghe e per elevare intorno alla città una cerchia di mura più solida. Tali entrate provenivano dai loro possedimenti sul continente e dalle miniere. [3] Le miniere d'oro di Scapte Ile fruttavano ordinariamente ottanta talenti, quelle della stessa Taso poco meno. [2] Queste miniere fenicie si trovano a Taso fra le località chiamate Enira e Cenira, di fronte a Samotracia: una grande montagna messa sottosopra dagli scavi. Così stanno le cose. [48, 1] I Tasi, obbedendo all'ordine del re, abbatterono le mura e portarono tutte quante le navi ad Abdera. In seguito Dario cercò di sondare i Greci per capire che cosa avevano in mente, se muovergli guerra oppure arrendersi. [2] Mandò quindi degli araldi nelle varie città della Grecia con l'ordine di chiedere acqua e terra per il re. Inviò dunque questi araldi in Grecia, altri invece li spedì nelle città costiere sue tributarie, ingiungendo di costruire navi lunghe e imbarcazioni per il trasporto dei cavalli. �9,����������[103, 1] Gli Ateniesi, non appena ne furono informati, accorsero anch'essi a Maratona per difendersi; gli mandavano i dieci strateghi, uno dei quali era Milziade, il cui padre, Cimone figlio di Stesagora, era stato costretto ad abbandonare Atene da Pisistrato figlio di Ippocrate. [2]� Mentre era in esilio gli capitò di vincere a Olimpia la corsa delle quadrighe e riportando questa vittoria uguagliò l'impresa di Milziade, suo fratello per parte di madre. In seguito, nell'Olimpiade successiva, dopo aver trionfato con le stesse cavalle, lasciò a Pisistrato l'onore di essere proclamato vincitore [3] e, cedendogli la vittoria, ottenne in cambio di

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rientrare in patria protetto da un accordo. Dopo aver vinto, sempre con le stesse cavalle, un’altra Olimpiade, morì per mano dei figli di Pisistrato, quando Pisistrato ormai non era più in vita: costoro lo fecero uccidere presso il pritaneo, di notte, da sicari lì appostati. Cimone è sepolto davanti alla città, al di là della strada che attraversa la cosiddetta «Cava»; di fronte a lui sono sepolte le cavalle che riportarono le tre vittorie olimpiche. [4]Anche altre cavalle, quelle di Evagora di Sparta, avevano già compiuto la stessa impresa, ma non ve ne sono mai state che siano andate oltre. A quell'epoca dunque il figlio maggiore di Cimone, Stesagora, veniva allevato in casa dello zio paterno Milziade, nel Chersoneso, mentre il figlio più giovane viveva presso Cimone stesso, ad Atene, e si chiamava Milziade, come il Milziade che aveva colonizzato il Chersoneso. [104, 1] Questo Milziade era allora stratego degli Ateniesi, dopo essere tornato dal Chersoneso ed essere scampato due volte alla morte: infatti non solo i Fenici, che lo avevano inseguito fino a Imbro2, tenevano molto a catturarlo e a portarlo al re, [2] ma proprio quando, sfuggito a costoro e arrivato in patria, credeva di essere ormai in salvo, i suoi nemici, decisi a incastrarlo, lo avevano trascinato in tribunale e lo avevano accusato di aver instaurato la tirannide nel Chersoneso. Sfuggito anche ai suoi accusatori, fu designato stratego degli Ateniesi, eletto dal voto popolare. 9,����������[136, 1] Questo fu il responso che la Pizia rese ai Pari. Ad Atene, il nome di Milziade, dopo il suo ritorno da Paro era sulla bocca di tutti e soprattutto su quella di Santippo, figlio di Arifrone, che citò in giudizio Milziade davanti al popolo di delitto capitale per aver ingannato gli Ateniesi. [2] Milziade, pur essendo presente, non si difese personalmente e non era in grado di farlo, perché la coscia ferita�gli stava andando in cancrena, ma, mentre egli giaceva su un lettino, furono gli amici a parlare in sua difesa, ricordando più volte la battaglia di Maratona e la presa di Lemno, e come, conquistata Lemno e puniti i Pelasgi, aveva donato l'isola agli Ateniesi. [3] Il popolo si pronunciò per l'assoluzione dall'accusa capitale, ma lo condannò, in rapporto alla gravita della sua colpa, a una, multa di cinquanta talenti; in seguito Milziade morì, con la coscia incancrenita e putrefatta, e i cinquanta talenti li pagò suo figlio Cimone. [137, 1] Ed ecco come Milziade figlio di Cimone si era impadronito di Lemno! I Pelasgi erano stati cacciati dall'Attica dagli Ateniesi, vuoi giustamente vuoi ingiustamente: questo non sono in grado di dirlo, ma posso soltanto ripetere ciò che si racconta: Ecateo figlio di Egesandro. nella sua opera ha affermato che fu ingiustamente. [2] Quando gli Ateniesi, narra Ecateo, videro il territorio ai piedi dell’Imetto, che essi stessi avevano dato da abitare ai Pelasgi come compenso per le mura costruite un tempo intorno all'acropoli, quando dunque gli Ateniesi videro questo territorio ben coltivato, mentre prima era poco fertile e di nessun valore, furono presi dall'invidia e dal desiderio di quella terra, e così mandarono via i Pelasgi, senza addurre nessun altro motivo. Secondo invece gli Ateniesi, essi cacciarono i Pelasgi giustamente, [3] perché i Pelasgi, stanziati alle pendici dell'Imetto, muovendo da lì recavano loro questi oltraggi: le figlie e i figli degli Ateniesi si recavano abitualmente ad attingere acqua alle «Nove bocche» , a quell'epoca né loro né gli altri Greci possedevano schiavi e, tutte le volte che le ragazze andavano là, i Pelasgi per tracotanza e per disprezzo le violentavano. Ma non bastava loro agire così: alla fine ordirono un colpo di mano e

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furono colti in flagrante. [4] Gli Ateniesi allora si mostrarono molto più nobili dei Pelasgi: pur potendo ucciderli, poiché li avevano sorpresi a tramare insidie, non vollero farlo, ma intimarono loro di abbandonare il paese. I Pelasgi, partiti in tali circostanze dall'Attica, occuparono diversi luoghi, tra i quali anche Lemno. Ecco quanto ha narrato Ecateo, ecco quanto narrano gli Ateniesi. [138, 1] Questi Pelasgi, abitando allora Lemno e volendo vendicarsi degli Ateniesi, poiché erano ben informati sulle loro feste, si procurarono delle penteconteri e tesero un agguato alle donne ateniesi che celebravano a Brauron una festa in onore di Artemide: ne rapirono molte e fuggirono per mare; le condussero a Lemno e le tennero come concubine. [2] Esse, divenute madri di molti figli, insegnavano loro la lingua attica e i costumi degli Ateniesi. I bambini non volevano mescolarsi ai figli delle donne pelasge; se uno di loro veniva picchiato da qualcuno di quelli, accorrevano tutti in sua difesa e si proteggevano a vicenda; inoltre si credevano in diritto di dare ordini ai ragazzi pelasgi ed erano molto più forti di loro. [3] I Pelasgi, accertatisi di ciò, si consultarono: e, mentre discutevano, si insinuò in loro una terribile preoccupazione: se quei ragazzi decidevano di aiutarsi l’un l'altro contro i figli delle mogli legittime e fin da allora cercavano di comandare su di loro, che cosa mai avrebbero fatto una volta divenuti adulti? [4] I Pelasgi quindi stabilirono di uccidere i figli nati da donne ateniesi. Lo fecero e sterminarono anche le madri. A causa di questo delitto e di quello precedente, commesso dalle donne che assassinarono i loro mariti all'epoca di Toante, in Grecia è invalsa l'usanza di chiamare «Lemnie» tutte le azioni scellerate. [139, 1] Ma ai Pelasgi, quando ebbero ucciso i loro figli e le loro donne, la terra non dava più frutti, e le donne e il bestiame avevano smesso di partorire. Oppressi dalla carestia e dalla sterilità, inviarono dei messi a Delfi per chiedere come liberarsi dai mali in cui si trovavano: [2] e la Pizia ingiunse loro di pagare agli Ateniesi la pena che essi avessero fissato. I Pelasgi dunque si recarono ad Atene e si dichiararono disposti a dare soddisfazione di ogni loro colpa. [3] Gli Ateniesi prepararono un giaciglio nel pritaneo, nel modo più lussuoso possibile, vi col-locarono accanto una tavola ricolma di leccornie di tutti i tipi e ordinarono ai Pelasgi di consegnare loro Lemno nelle medesime condizioni. [4] Ma i Pelasgi risposero: «Quando, con il vento del nord, una nave compirà il viaggio dalla vostra terra alla nostra in uno stesso giorno, allora ve la consegneremo». Sapevano bene che era impossibile: l'Attica infatti si trova molto a sud di Lemno. [140, 1] Per il momento non accadde altro, molti anni più tardi, quando il Chersoneso dell'Ellesponto passò sotto il dominio degli Ateniesi, Milziade figlio di Cimone, nella stagione dei venti etesii, compì con una nave la traversata da Eleunte nel Chersoneso a Lemno: e intimò ai Pelasgi di abbandonare l'isola, ricordando loro la profezia che mai avrebbero pensato potesse avverarsi. [2] Gli abitanti di Efestia obbedirono, mentre quelli di Mirina, che si rifiutavano di riconoscere il Chersoneso come territorio attico, furono assediati, finché anch'essi dovettero arrendersi. Così dunque gli Ateniesi e Milziade si impadronirono di Lemno. 9,,��������[33] Quindi (Serse) si preparava a raggiungere Abido. Nel frattempo univano l'Asia all'Europa mediante dei ponti sull'Ellesponto. Nel Chersoneso dell’Ellesponto, tra la città di Sesto e quella di Madito, vi è un promontorio roccioso che si protende in mare di fronte ad Abido, dove in seguito, non molto tempo dopo, gli Ateniesi, al comando dello stratego Santippo figlio di Arifrone, catturarono il persiano Artaucte, governatore di Sesto, e lo inchiodarono vivo a una tavola: costui era solito portare donne nel santuario di Protesilao a Eleunte e abbandonarsi ad azioni empie.

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[34] Puntando dunque da Abido verso questo promontorio, coloro che ne avevano ricevuto l’incarico costruivano i ponti, con funi di lino bianco i Fenici, con funi di papiro gli Egiziani; da Abido alla riva opposta ci sono sette stadi. E quando lo stretto era ormai dotato di ponti, sopraggiunse una terribile tempesta, che li fece a pezzi e li distrusse completamente. [35, 1] Serse, non appena ne fu informato, in preda all'ira, ordinò di colpire l'Ellesponto con trecento frustate e di gettare in mare un paio di ceppi. Ho sentito dire che insieme agli esecutori di questi ordini inviò anche degli uomini a marchiare l'Ellesponto41. [2] E comandò di pronunciare, mentre frustavano l'Ellesponto, parole barbare e folli: «Acqua amara, il tuo signore ti infligge questo castigo, perché lo hai offeso senza aver ricevuto alcuna offesa da lui. Il re Serse ti varcherà, che tu lo voglia o no. Giustamente nessuno tra gli uomini ti offre sacrifici, perché sei un fiume torbido e salmastro». [3] Ordinò dunque di punire il mare in tal modo e fece tagliare la testa a quanti sovrintendevano alla costruzione dei ponti sull'Ellesponto. [36, 1] Coloro ai quali era stato affidato questo spiacevole compito eseguirono gli ordini e nel frattempo altri architetti ricostruirono i ponti. Li costruirono così: legarono insieme penteconteri e triremi, trecentosessanta per sorreggere, il ponte situato dalla parte del Ponto Eusino e trecentoquattordici per l'altro, collocandole trasversalmente rispetto al Ponto e nella direzione, invece, della corrente dell'Ellesponto, affinché quest' ultima mantenesse in tensione i cavi. [2] Unite le navi, calarono ancore enormi, quelle del primo verso il Ponto Eusino, contro i venti che spirano dal suo interno, sia per l'altro ponte, verso l'ovest e l'Egeo, contro lo Zefiro e il Noto. In tre punti lasciarono tra le penteconteri e le triremi un varco per il passaggio, per dare la possibilità a chi lo volesse di andare nel Ponto con imbarcazioni leggere e di uscirne. [3] Fatto ciò, dalla terraferma tesero le funi, avvolgendole intorno ad argani di legno, senza più utilizzare separatamente i due tipi di cavi, ma assegnando a ciascun ponte due gomene di lino bianco e quattro di papiro; lo spessore e la bellezza delle funi erano uguali, ma in proporzione quelle di lino erano più pesanti: un talento per cubito. [4] Collegate le due rive, segarono dei tronchi d'albero, di misura pari alla larghezza del ponte, e li posarono ordinatamente sopra i cavi tesi; e, dopo averli disposti l'uno ac-canto all'altro, li legarono di nuovo insieme. [5] Poi vi misero sopra delle fascine e, disposte in bell'ordine anche queste, vi ammucchiarono sopra della terra; pressata con forza anche la terra, innalzarono un parapetto su entrambi i lati del ponte, perché le bestie da soma e i cavalli, vedendo il mare sotto di sé, non si spaventassero. [37. 1] Quando i lavori dei ponti e dell'Athos furono compiuti e giunse la notizia che le dighe alle imboccature del canale (erette per impedire alla corrente di ostruire le imboccature) e il canale stesso erano stati ultimati, allora, trascorso l'inverno, all’inizio della primavera l'esercito, ben equipaggiato, partì da Sardi per raggiungere Abido. [2]�Si era appena mosso, quando il sole, abbandonando la sua sede nel cielo, divenne invisibile, benché non vi fossero nubi, ma anzi il cielo fosse perfettamente sereno, e da giorno si fece notte. Serse, che aveva visto e osservato il fenomeno, si preoccupò e domandò ai Magi che cosa volesse preannunciare quel prodigio. [3] Essi risposero che il dio mostrava in anticipo ai Greci le eclissi

41 Punizione solitamente riservata agli schiavi, in particolare a quelli fuggitivi. Serse è colui che ha osato trattare l’Ellesponto come uno schiavo, incatenandolo con i ponti.

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delle loro città, sostenendo che ai Greci prediceva il futuro il sole, ai Persiani invece la luna. Udita questa spiegazione, Serse, contentissimo, proseguiva la marcia. �9,,�������� [44] Allorché furono ad Abido, Serse volle passare in rivista tutta l'armata. Proprio a tale scopo era stato allestito per lui, su una collina, un trono di marmo bianco (lo avevano costruito gli abitanti di Abido, in seguito a un ordine del re ricevuto in precedenza); appena sedette là, Serse, guardando giù verso la costa, contemplava le truppe di terra e le navi. Mentre le osservava, fu preso dal desiderio di assistere a una gara tra le navi: la gara ebbe luogo e vinsero le navi dei Fenici di Sidone, Serse si sentì soddisfatto sia della gara che del suo esercito. [45] Poi quando vide tutto l'Ellesponto coperto dalle navi, tutte le spiagge e le pianure di Abido traboccanti di uomini, allora Serse si ritenne felice, ma poi scoppiò in lacrime. 9,,��������[54, 1] Durante quel giorno si prepararono ad attraversare lo stretto. L'indomani attesero il sole, che volevano vedere sorgere, bruciando sui ponti aromi di ogni genere e cospargendo il cammino di ramoscelli di mirto. [2] Appena si levò il sole, Serse, versando libagioni in mare da una coppa d'oro, pregò il sole che non gli capitasse nessun incidente che potesse indurlo a desistere dalla conquista dell'Europa prima di averne raggiunto gli estremi confini. Dopo la preghiera, gettò nell’Ellesponto la coppa, un cratere d'oro e una spada persiana, del tipo che chiamano DGULDFH���

[3] Non sono in grado di stabilire con certezza se gettò in mare questi oggetti come offerta al sole o se invece si era pentito di aver fatto frustare l'Ellesponto e offriva al mare tali doni come riparazione. [55, 1] Appena Serse ebbe compiuto queste cerimonie, la fanteria e tutta la cavalleria attraversarono lo stretto sul ponte dalla parte del Ponto Eusino, le bestie da soma e i servi su quello dalla parte dell'Egeo. [2] In testa avanzavano i diecimila Persiani, tutti con una corona sul capo; dopo di loro, le truppe dei diversi popoli alla rinfusa. Costoro passarono quel giorno. L'indomani passarono per primi i cavalieri e i guerrieri con le lance rivolte in basso: anch'essi portavano la corona; [3] poi venivano i cavalli sacri e il carro sacro, quindi Serse in persona, i lancieri e i mille cavalieri; dietro, il resto dell'esercito. Contemporaneamente le navi salpavano verso la riva opposta. Ma ho anche sentito dire che il re passò per ultimo, dopo tutti gli altri. [56, 1] Serse, appena messo piede in Europa, rimase a osservare le sue truppe che attraversavano lo stretto a colpi di frusta. L'esercito impiegò sette giorni e sette notti, senza un attimo di sosta. [2] Si narra che, quando Serse aveva ormai varcato l'Ellesponto, un uomo del luogo esclamò: «O Zeus, perché prendi l'aspetto di un Persiano e ti fai chiamare Serse invece che Zeus per devastare la Grecia, guidando contro di essa il mondo intero? Avresti potuto farlo anche senza tutto questo». [57,1] Quando tutti furono passati e si accingevano a mettersi in marcia, apparve loro un grande prodigio a cui Serse non diede nessuna importanza, benché fosse di facile interpretazione: una cavalla partorì una lepre. Significava chiaramente che Serse si apprestava a condurre contro la Grecia una spedizione imponente e magnifica, ma che sarebbe tornato nel luogo da cui era partito, correndo per salvarsi la vita. [2] Un altro prodigio gli si era manifestato mentre si trovava a Sardi: una mula aveva partorito un piccolo con doppi genitali, maschili e femminili: quelli maschili erano situati più in alto.

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[58, 1] Senza tenere nessun conto dei due prodigi, Serse proseguì la sua avanzata e con luì l'esercito di terra; la flotta invece, uscita dall'Ellesponto, navigava lungo la costa in direzione opposta a quella della fanteria. [2] La flotta infatti si dirigeva verso occidente per giungere al capo Sarpedonio, dove le era stato ordinato di rimanere in attesa, una volta arrivata; le truppe di terra, al contrario, marciavano verso l’aurora e il sorgere del sole attraverso il Chersoneso, lasciandosi a destra la tomba di Elle figlia di Atamante, a sinistra la città di Cardia, e attraversando una città che si chiama Agorà. [3] Da lì, girando intorno al golfo di Melas e varcato il fiume Melas, che con le sue acque non bastò all'armata e rimase asciutto, varcato dunque questo fiume da cui anche il golfo ha preso nome, mossero verso ovest, passando accanto alla città eolica di Eno e al lago Stentoride, finché giunsero a Dorisco. [59, 1] II territorio di Dorisco, in Tracia, è costituito da un tratto di costa e da un'ampia pianura, attraverso la quale scorre un grande fiume, l'Ebro; vi era stata costruita una fortezza reale (è questa che si chiama Dorisco), dove era stata installata da Dario una guarnigione persiana fin dal tempo della spedizione contro gli Sciti. [2] A Serse il luogo sembrò adatto a schierare i suoi uomini e a contarli: e così fece. I navarchi, per ordine di Serse, condussero tutte le navi arrivate a Dorisco sulla spiaggia vicina alla fortezza, dove si trovano Sale, città dei Samotraci, Zone e, all'estremità del litorale, il famoso promontorio Serreo: tale località anticamente apparteneva ai Ciconi. [3] Approdati a questa spiaggia, trassero in secco le navi e le fecero asciugare. Nel frattempo Serse, a Dorisco, procedeva a contare i suoi soldati. 9,,���������� [105] Dopo il colloquio con Demarato e dopo aver nominato governatore lì a Dorisco Mascame figlio di Megadoste al posto del governatore insediato da Dario guidò l'esercito attraverso la Tracia per muovere contro la Grecia. [106, 1] Lasciò dunque là Mascame, il quale si dimostrò un uomo tale che fu l'unico a cui Serse inviasse doni, ritenendolo il migliore di tutti i governatori nominati da lui o da Dario; glieli mandava ogni anno, e così fece anche Artaserse figlio di Serse con i discendenti di Mascame. In effetti, già prima di questa spedizione, erano stati insediati governatori nella Tracia e nell’Ellesponto [2] Tutti costoro, sia i governatori della Tracia sia quelli dell'Ellesponto, tranne quello di Dorisco furono cacciati dai Greci dopo questa spedizione; quello di Dorisco, Mascame2, nessuno finora è mai riuscito a cacciarlo, benché molti lo abbiano tentato. Per questo gli vengono inviati doni dal re di volta in volta regnante sui Persiani. [107,1] Di quelli cacciati dai Greci non ce n'era uno che Serse reputasse un uomo di valore, tranne il solo Boge di Eione1. Non cessava di elogiarlo ed onorava grandemente i suoi figli superstiti che vivevano in Persia, poiché Boge davvero si rese meritevole di grandi elogi: assediato dagli Ateniesi e da Cimone figlio di Milziade, benché avesse la possibilità di venire a patti, uscire dalla città e tornare in Asia, non volle farlo, perché il re non pensasse che si fosse salvato la vita per viltà, ma resistette fino all'ultimo. Poi quando ormai non vi erano più viveri all'interno delle mura, innalzato un grande rogo, sgozzò i figli, la moglie, le concubine, i servi e li gettò tra le fiamme; poi, dall'alto delle mura disseminò nello Strimone tutto l'oro e l'argento che vi era nella città; fatto ciò, si lanciò lui stesso nel fuoco. E così tuttora è giustamente esaltato dai Persiani. [108, 1]Serse da Dorisco marciava contro la Grecia e costringeva tutti i popoli che incontrava sul suo cammino a unirsi alla spedizione; infatti, come ho già detto , tutta la regione fino alla Tessaglia era stata

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asservita ed era tributaria del re, in seguito alle conquiste di Megabazo e, più tardi, di Mar-donio. [2] Muovendo da Dorisco, Serse dapprima passò accanto alle roccaforti dei Samotraci, l'ultima delle quali, verso occidente, è una città chiamata Mesambria. Con essa confina una città dei Tasi, Strime; tra le due scorre il fiume Liso, che allora non bastò a rifornire d'acqua l'esercito di Serse e fu prosciugato. [3] Questa regione anticamente si chiamava Gallaica, oggi invece Briantica: in realtà, per dire le cose davvero secondo giustizia, anch'essa appartiene ai Ciconi. [109, 1] Attraversato il letto ormai asciutto del fiume Liso, Serse si lasciò dietro le città greche di Maronia, Dicea e Abdera. Oltrepassò queste città e, vicino ad esse, i seguenti celebri laghi: il lago Ismaride situato tra Maronia e Strime; nei pressi di Dicea il Bistonide, nel quale riversano le loro acque due fiumi, il Trauo e il Compsato; invece nel territorio di Abdera, Serse non superò nessun lago famoso, bensì il fiume Nesto , che scorre verso il mare. [2] Avanzando oltre queste regioni, sfiorò le città continentali dei Tasi, in una delle quali si trova un lago con un perimetro di circa trenta stadi, ricco di pesci e assai salmastro: le bestie da soma, le sole che vi si ab-beverarono, lo prosciugarono; la città in questione si chiama Pistiro. Serse dunque proseguì, lasciandosi sulla sinistra queste città costiere, abitate da Greci. [110] Ed ecco i popoli Traci di cui attraversò il territorio: i Peti, i Ciconi, i Bistoni, i Sapei, i Dersei, gli Edoni e i Satri. Degli abitanti di questa regione quelli che erano stanziati lungo la costa lo seguirono sulle navi, mentre quelli che vivevano nell'interno, di cui ho fornito l'elenco, furono costretti, a eccezione dei Satri, a unirsi alle truppe di terra. [111,1] I Satri, a quanto ne sappiamo, finora non sono mai stati soggetti a nessuno, ma fino ai miei tempi continuano a essere gli unici liberi fra i Traci: abitano infatti alte montagne, coperte di alberi di ogni genere e di neve, e sono assai valorosi in guerra. [2]�Sono loro che possiedono l'oracolo di Dioniso; questo oracolo si trova sui monti �più alti; fra i Satri sono i Bessi a esercitare le funzioni di profeta, ma l'indovino che pronuncia i responsi1 è una donna proprio come a Delfi, e in modo niente affatto più complicato. [112] Oltrepassata la regione suddetta. Serse passò vicino alle roccaforti dei Pieri, chiamate una Fagre e l'altra Pergamo. In quella zona marciò proprio accanto a queste fortezze, lasciandosi a destra il monte Pangeo, vasto ed elevato, in cui si trovano miniere d'oro e d'argento sfruttate dai Pieri, dagli Odomanti e soprattutto dai Satri. [113, 1] Lasciandosi alle spalle i Peoni, i Doberi e i Peopli, che vivono oltre il Pangeo verso nord, Serse si diresse a occidente finché giunse al fiume Strimone e alla città di Eione, di cui era governatore quel Boge di cui ho parlato poco sopra, a quell'epoca ancora vivono [2] nel territorio intorno al monte Pangeo si chiama Fillide e si estende verso ovest fino al fiume Angite, che è un affluente dello Strimone, e verso sud fino allo Strimone stesso, dove i Magi, per trarne auspici, sacrificarono cavalli bianchi. [114.1] Compiuto nel fiume questo rito magico e molti altri ancora, proseguirono la loro marcia nella località Nove Vie degli Edoni, attraversando i ponti che avevano trovato già costruiti sullo Strimone. Apprendendo che quel posto si chiamava Nove Vie , vi seppellirono vivi altrettanti ragazzi e ragazze figli di uomini del luogo. [2] È un'usanza persiana quella di seppellire persone vive: infatti ho sentito dire che anche Amestri, la moglie di Serse, ormai vecchia, offrì un sacrificio di ringraziamento al dio che si dice sia sottoterra, facendo seppellire quattordici ragazzi persiani, figli di personaggi illustri.

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[115,1] L'esercito continuò la sua avanzata muovendo dallo Strimone: là verso occidente si estende una spiaggia, dove sorge la città greca di Argilo, presso la quale passò l'armata; questo territorio e quello sovrastante si chiamano Bisalta. [2] Da lì, lasciandosi a sinistra il golfo vicino al tempio di Poseidone, Serse marciò attraverso la pianura detta Silea, superando la città greca di Stagira, e arrivò ad Acanto , conducendo con sé tutti i popoli di questa regione e quelli che abitavano intorno al Pangeo, come aveva fatto con quelli che ho ricordato in precedenza: utilizzava come soldati della flotta quanti vivevano lungo la costa e come soldati di fanteria quanti erano stanziati nell'interno. [3] La strada lungo la quale Serse guidò il suo esercito i Traci non la lavorano né vi seminano, ma tuttora, fino ai miei tempi, hanno per essa una grande venerazione [116] Appena giunse ad Acanto, Serse proclamò gli Acanti suoi ospiti, donò loro una veste meda e li elogiò, vedendoli pieni di ardore per la guerra e sentendo del canale.[117,1] Mentre Serse si trovava ad Acanto, accadde che morì di malattia colui che sovrintendeva ai lavori di scavo, Artachea, il quale godeva di grande considerazione presso Serse e apparteneva alla stirpe degli Achemenidi; tra i Persiani era il più alto di statura (gli mancavano quattro dita per raggiungere i cinque cubiti reali ) e aveva la voce più potente del mondo; quindi Serse, vivamente addolorato, gli fece fare splendidi funerali e una splendida tomba: tutta l'armata lavorò a erigere il tumulo. [2] Ad Artachea gli Acanti, a seguito di un vaticinio, offrono sacrifici come a un eroe invocandone il nome. Il re Serse era davvero rattristato per la morte di Artachea. 9,,������[137, 1] Così, quando gli Spartiati ebbero compiuto questo atto, subito venne meno l'ira di Taltibio anche se Spertia e Buli tornarono a Sparta. Ma, molto tempo dopo, essa si risvegliò durante la guerra tra i Peloponnesiaci e gli Ateniesi, come narrano gli Spartani. E quanto accadde mi sembra chiaramente frutto di un intervento divino. [2] In effetti, che la collera di Taltibio si sia riversata su dei messaggeri e non sia cessata prima di aver ricevuto soddisfazione, lo esigeva la giustizia: ma che si sia abbattuta proprio sui figli di quegli uomini che per placarla si erano recati dal re, Nicolao figlio di Buli e Aneristo figlio di Spertia (l'uomo che con una nave da carico piena di soldati approdò ad Aliei, dove si erano rifugiati gli abitanti di Tirinto, e se ne impadronì), questo è per me, manifestamente, opera della divinità. [3] In effetti essi, mandati dagli Spartani in Asia come messaggeri, traditi da Sitalce figlio di Tere, re dei Traci, e da Ninfodoro figlio di Pitea, cittadino dì Abdera, furono catturati nei pressi di Bisante sull'Ellesponto e, condotti in Attica, furono messi a morte dagli Ateniesi insieme al corinzio Aristea figlio di Adimanto. Questo si verificò molti anni dopo la spedizione del re: adesso dunque torno a quanto stavo narrando in precedenza. 9,,,������[117, 1] Ecco la ricompensa che essi ricevettero. I Persiani, non appena dalla Tracia arrivarono allo stretto, attraversarono in gran fretta l'Ellesponto con le navi, dirigendosi verso Abido: infatti non avevano più trovato i ponti al loro posto, ma scompaginati da una tempesta. [2] Durante il loro soggiorno ad Abido, eb-bero a disposizione più viveri che durante la ritirata e, per essersi rimpinzati oltre misura e per il

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cambiamento dell’acqua, molti di quanto era rimasto dell’esercito morirono, i superstiti giunsero a Sardi insieme a Serse. 9,,,������[120] Una prova importante è costituita da quanto segue: risulta che durante la marcia di ritorno Serse giunse ad Abdera, strinse con gli Abderiti vincoli di ospitalità e donò loro una spada d'oro e una tiara intessuta d'oro; inoltre, a detta degli Abderiti stessi (ma, secondo me, si tratta di un racconto niente affatto credibile), là si sarebbe riposato per la prima volta dopo la partenza da Atene, perché si sentiva al sicuro. Ora, Abdera si trova più vicina all’ Ellesponto dello Strimone e di Eione, dove dicono che Serse si sarebbe imbarcato. ,;����������[114, 1] I Greci, partiti da Micale per l'Ellesponto, dapprima, sorpresi da venti contrari, si fermarono presso Lecto e da lì giunsero ad Abido, dove trovarono rotti i ponti che credevano di trovare ancora integri; ed era per questi ponti soprattutto che si erano recati nell'Ellesponto. [2] Leutichida e i Peloponnesiaci decisero di tornare in Grecia, invece gli Ateniesi e il loro stratego Santippo di restare là e di muovere contro il Chersoneso. I primi dunque salparono, mentre gli Ateniesi da Abido passarono nel Chersoneso e posero l'assedio a Sesto. [115] A Sesto, che aveva fama di essere la più solida piazzaforte della regione, alla notizia che i Greci erano arrivati sull’Ellesponto, si erano radunati uomini dalle altre città vicine e dalla città di Cardia, tra i quali il persiano Eobazo, che aveva portato là le funi dei ponti. Abitavano la città gli Eoli indigeni, ma vi erano anche Persiani e un numeroso gruppo degli altri alleati. [116,1] Signore di questo distretto era un governatore di Serse, il persiano Artaucte , un uomo terribile ed empio, che aveva ingannato perfino il re quando era in marcia verso Atene, portando via da Eleunte i tesori di Protesilao figlio di Ificlo. [2] Infatti a Eleunte, nel Chersoneso, vi è la tomba di Protesilao e intorno ad essa un recinto sacro, dove si trovavano molti oggetti preziosi, coppe d'oro e d'argento, bronzo, vesti e altre offerte votive che Artaucte depredò, con il consenso del re. Riuscì a ingannare Serse dicendogli: [3] «Signore, c'è qui la dimora di un Greco che fece una spedizione contro la tua terra e, per una giusta punizione, vi trovò la morte. Concedimi la sua casa, affinché tutti imparino a non muovere guerra al tuo paese». Con tali parole doveva facilmente persuadere Serse a donargli la casa dell'uomo, poiché Serse non sospettava nulla di quanto meditava Artaucte. Affermava che Protesilao aveva attaccato il paese del re in questo senso: i Persiani ritengono che tutta l'Asia appartenga a loro e a colui che, di volta in volta, è il loro re . Quando la casa gli fu donata, portò i tesori da Eleunte a Sesto, e faceva seminare e usare come terreno da pascolo il recinto sacro; lui stesso, poi, ogni volta che si recava a Eleunte, si univa a donne nell'interno del tempio. In quel momento era assediato dagli Ateniesi; non era preparato a sostenere un assedio e non si aspettava l'arrivo dei Greci: gli erano piombati addosso mentre non stava in guardia. [117] L'assedio si protraeva e sopraggiunse l'autunno; gli Ateniesi erano irritati perché si trovavano lontani dal loro paese e non riuscivano a espugnare le mura; e chiedevano agli strateghi di ricondurli in patria: ma questi rifiutavano di farlo prima di aver conquistato la città o di essere richiamati dal popolo dì Atene. Così si adattarono alla situazione.

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[118, 1] Gli assediati intanto erano ormai giunti all’estremo, al punto di bollire e di mangiare le cinghie dei letti. Quando non ebbero più nemmeno quelle, allora i Persiani, Artaucte ed Eobazo fuggirono di notte, scendendo dal Iato posteriore della cerchia delle mura, il più sguarnito di nemici. [2] Appena spuntò il giorno, i Chersonesiti, tramite segnali dall'alto delle torri, avvertirono gli Ateniesi dell'accaduto e spalancarono le porte. La maggior parte degli Ateniesi si diede a inseguire i fuggitivi, gli altri occuparono la città. [119, 1] Eobazo, rifugiatosi in Tracia, lo catturarono i Traci Apsinti e lo immolarono, secondo il loro costume, al dio indigeno Plistoro, mentre i suoi compagni li eliminarono in altro modo. [2] Artaucte e i suoi, gli ultimi a darsi alla fuga, raggiunti poco sopra Egospotami, si difesero a lungo; poi in parte furono uccisi, in parte fatti prigionieri. I Greci li incatenarono e li condussero a Sesto: tra loro vi erano Artaucte, in catene anche lui, e suo figlio. [120, 1] I Chersonesiti raccontano che a uno degli uomini che lo avevano in custodia capitò, mentre stava cuocendo dei pesci salati, il seguente prodigio: i pesci salati, posti sul fuoco, saltavano e guizzavano proprio come pesci appena pescati. [2] Gli astanti erano stupiti, ma Artaucte, quando vide il portento, chiamò l'uomo che cucinava i pesci e gli disse: «Straniero di Atene, non aver paura di questo prodigio: non è per te: è a me che Protesilao di Eleunte vuol far sapere che, pur essendo morto e imbalsamato, ha dagli dei la forza per vendicarsi di chi lo ha offeso. [3] Ora dunque sono disposto a pagare la pena dovuta, a offrire cioè al dio cento talenti come ammenda per i tesori che ho portato via dal santuario; e per me e per mio figlio poi, se sopravvivo, verserò agli Ateniesi duecento talenti». [4] Ma, nonostante queste promesse, non riuscì a persuadere lo stratego Santippo: i cittadini di Eleunte, infatti, per vendicare Protesilao, chiedevano che fosse messo a morte e a tale soluzione inclinava lo stesso stratego. Lo condussero sulla spiaggia dove Serse aveva gettato il suo ponte (altri dicono sulla collina che sovrasta la città di Madito), lo inchiodarono e lo appesero a una tavola; quanto a suo figlio, lo lapidarono sotto i suoi occhi. [121] Fatto ciò, salparono alla volta della Grecia, penando con sé, tra gli altri oggetti di valore, anche le funi dei ponti, con l'intenzione di consacrarle nei santuari. E per quell'anno non accadde più nulla. �78&,','(��WUDG��H�QRWH�*��'RQLQL���/,%52�,�>��,�1] In questo modo infatti gli Ateniesi arrivarono alla situazione in cui si sviluppò la loro potenza. [2] Dopo che i Medi si furono ritirati dall'Europa sconfitti dai Greci sia con le navi sia con le truppe, e dopo che quelli di loro che erano fuggiti con le navi a Micale furono distrutti, Leotichida, re dei Lacedemoni, che comandava i Greci a Micale, tornò in patria con gli alleati del Peloponneso. Ma gli Ateniesi e gli alleati della Ionia e dell'Ellesponto, che ormai si erano ribellati al re, rimasero e procedettero all'assedio di Sesto , che era nelle mani dei Medi ; e dopo avervi passato l'inverno la presero, dato che i barbari l'abbandonarono; poi partirono dall'Ellesponto, ciascuno verso la propria città. [3] La comunità degli Ateniesi, quando i barbari se ne furono andati dalla loro terra, subito trasportò dai luoghi dove li aveva messi al sicuro i bambini, le donne e le suppellettili che rimanevano, e si preparava a ricostruire la città e le mura. Infatti brevi erano i tratti della cerchia rimasti in piedi, e, quanto alle case, la maggior parte erano crollate e se ne erano salvate poche, nelle quali avevano alloggiato i dignitari stessi dei Persiani.

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------------ >��,��@ Pausania��figlio di Cleombroto, fu inviato da Sparta come comandante dei Greci con venti navi del Peloponneso; con lui facevano vela anche gli Ateniesi con trenta navi e un gran numero degli altri alleati. [2] Fecero una spedizione contro Cipro e la sottomisero in gran parte, e poi contro Bisanzio, che era nelle mani dei Medi, e dopo un assedio la espugnarono, durante il comando di Pausania . [95, 1] Ma poiché egli si mostrava già violento��gli altri Greci ne erano infastiditi, e specialmente gli Ioni e quelli che erano stati recentemente liberati dal re: essi si rivolgevano ripetutamente agli Ateniesi, pregandoli di diventare loro capi in considerazione dell'affinità di razza, e di non tollerare qualsiasi atto di violenza da parte di Pausania. [2] Gli Ateniesi accolsero questi inviti e vi dedicarono il loro impegno, decisi a non lasciarlo fare e a disporre le altre cose nel modo che a loro sembrasse migliore. [3] Nel frattempo i Lacedemoni richiamarono Pausania per interrogarlo sui fatti dei quali venivano informati: infatti era accusato di molte ingiustizie dai Greci che arrivavano a Sparta, e il suo operato sembrava piuttosto l'imitazione di una tirannide che un comando militare. [4] Accadde che nello stesso tempo in cui egli venne richiamato gli alleati, per odio verso di lui, passarono a schierarsi con gli Ateniesi, con l'eccezione dei soldati del Peloponneso. [5] Giunto a Sparta subì la condanna per le offese che aveva commesso privatamente contro certe persone, ma delle accuse più gravi fu dichiarato non colpevole: era accusato soprattutto di avere favorito i Medi, e sembrava che la cosa fosse certissima. [6] I Lacedemoni non inviano più lui come comandante, ma Dorcide e�alcuni altri insieme a lui, con truppe non numerose; ma gli alleati non vollero più cedere loro il comando supremo. [7] Essi se ne resero conto e se ne andarono, e i Lacedemoni in seguito non inviarono più altri comandanti, temendo che quelli che si allontanavano da Sparta divenissero peggiori, come avevano visto nel caso di Pausania ; desideravano anche liberarsi della guerra contro i Medi, e ritenevano gli Ateniesi in quel momento loro amici, in grado di tenere il comando. >��,��@ Dopo che gli Ateniesi ebbero ricevuto il comando in questo modo, con la volontà degli alleati, a causa dell'odio per Pausania, stabilirono quali delle città dovessero fornire denaro contro il barbaro e quali dovessero fornire navi: lo scopo annunciato era di vendicarsi per quanto avevano sofferto, devastando il territorio del re. [2] Fu costituita presso gli Ateniesi allora per la prima volta la magistratura degli Ellenotami, i quali ricevevano il tributo: così infatti fu chiamata la contribuzione di denaro. Il primo tributo stabilito fu di quattrocentosessanta talenti; il loro tesoro era a Delo e le riunioni avevano luogo nel tempio. [�����] All'inizio essi avevano l'egemonia su alleati indipendenti e che deliberavano in riunioni comuni; ma tra la guerra contro i Medi e questa guerra intrapresero tutte queste azioni, sia di guerra sia di amministrazione politica: furono compiute da loro contro il barbaro, contro i propri alleati in ribellione e contro quei Peloponnesiaci che si trovavano in ciascun conflitto. [2] Ho scritto un resoconto di questi avvenimenti e ho fatto questa digressione dalla mia narrativa per questo motivo: il periodo era stato tralasciato da tutti i miei predecessori, i quali, o composero una narrazione della storia greca prima delle guerre contro i Medi, o narrarono la storia delle stesse guerre contro i Medi; e colui che si è effettivamente occupato di questi avvenimenti, Ellanico nella sua storia dell'Attica�� li ha menzionati brevemente e senza precisione nella cronologia; nello stesso tempo questo resoconto presenta anche una spiegazione del modo in cui fu costituito l'impero degli Ateniesi.

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[98, 1] Per prima cosa presero dopo un assedio Eione, sullo Strimone��che era nelle mani dei Medi, e ne fecero schiavi gli abitanti: questo avvenne sotto il comando di Cimone, figlio di Milziade.[2] Poi ridussero in schiavitù Sciro, isola dell'Egeo, che abitavano i Dolopi��e la colonizzarono loro stessi. [3] Ci fu una guerra tra loro e i Caristi, senza la partecipazione degli altri Eubei, e dopo un certo tempo le due parti si accordarono in base a un patto. [4] Dopo questi fatti fecero la guerra contro i Nassi7, che si erano ribellati, e�con un assedio li costrinsero ad arrendersi. Questa fu la prima città alleata che fu asservita contro l'usanza stabilita8, e in seguito ciò avvenne anche per le altre, secondo le circostanze di ciascuna. [99, 1] Tra le varie cause delle ribellioni, le maggiori erano i ritardi nella consegna di tributi e di navi, e, in alcuni casi, la diserzione: gli Ateniesi infatti agivano rigorosamente ed erano severi nell'imporre costrizioni a gente che non era abituata né aveva voglia di sopportare fatiche. [2] E anche sotto certi altri aspetti gli Ateniesi non comandavano più con soddisfazione degli alleati; non prendevano parte nelle campagne in condizioni di eguaglianza con gli altri, ed era loro più facile riportare dalla loro parte i ribelli. [3] Di ciò erano responsabili gli alleati stessi: a causa di questa ripugnanza per le spedizioni militari, la maggior parte di essi, per non essere lontani da casa, si fece fissare una somma di denaro da versare al posto delle navi, come spesa equivalente a quanto era dovuto; e la flotta degli Ateniesi aumentava grazie alle spese che gli alleati contribuivano, mentre questi ultimi, nei casi in cui si ribellavano, entravano in guerra senza risorse e senza esperienza. >���, 1] Dopo questi fatti ci fu la battaglia terrestre e navale al fiume Eurimedonte in Panfilia, combattuta dagli Ateniesi e dai loro alleati contro i Medi, e vinsero nella stessa giornata da ambedue le parti gli Ateniesi sotto il comando di Cimone, figlio di Milziade; presero e distrassero un totale di circa duecento triremi fenicie. [2] Dopo un po' di tempo � accadde che i Tasi si ribellarono a loro per disaccordi che riguardavano i centri commerciali della parte della Tracia che sta di fronte, e le miniere, che essi sfrutta-vano. Gli Ateniesi fecero vela con delle navi contro Taso, furono vittoriosi in una battaglia navale e sbarcarono nel loro territorio. [3] Circa alla stessa epoca inviarono allo Strimone diecimila coloni propri e dei loro alleati, con l'intenzione di colonizzare la località che allora si chiamava Nove Vie, e oggi Anfipoli: si impadronirono loro stessi delle Nove Vie, che occupavano gli Edoni, ma dopo essere avanzati all'interno della Tracia furono annientati a Drabesco, nel territorio degli Edoni, dai Traci tutti insieme, per i quali la fondazione della città era un atto ostile. >���,1] Intanto i Tasi, che erano stati sconfitti nelle battaglie ed erano sotto assedio, chiesero aiuto ai Lacedemoni e li pregarono di aiutarli invadendo l'Attica. [2] Essi lo promisero di nascosto dagli Ateniesi e stavano per farlo, ma furono impediti dal terremoto che ebbe luogo��nel quale sia gli Iloti sia i Turiati e gli Etei, che erano Perieci, si ribellarono a loro, rifugiandosi a Itome. ------------------------------------ ���, 1] Dopo aver ricevuto questa lettera, Pausania, che già prima godeva di molta considerazione presso i Greci grazie al suo comando delle truppe a Platea, si inorgoglì allora molto di più; e non poteva più vivere nel modo consueto, ma usciva da Bisanzio portando vesti persiane; mentre viaggiava attraverso la Tracia lo scortavano Medi ed Egizi; si faceva preparare la tavola secondo l'usanza persiana; e non era capace di controllare le sue intenzioni, ma attraverso fatti di poco conto dava indicazioni di ciò che in cuor suo intendeva fare, nel futuro, in maggior misura. [2] Era difficile avvicinarlo, ed egli era di umore così cattivo

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con tutti ugualmente, che nessuno gli si poteva accostare. Fu soprattutto per questo che gli alleati passarono dalla parte degli Ateniesi. >�����1] I Lacedemoni, quando erano venuti a saperlo, lo avevano richiamato la prima volta proprio per queste ragioni; e dopo che fu partito la seconda volta con la nave di Ermione, senza che essi glielo ordinassero, e lo si vedeva comportarsi in questo modo, e dopo che fu assediato e scacciato con la forza da Bisanzio per opera degli Ateniesi, e non fece ritorno a Sparta, ma si stabilì a Colone, nella Troade, e ai Lacedemoni arrivò la notizia che stava trattando con i barbari e che lo scopo del suo soggiorno non era buono, allora non esitarono più: gli efori inviarono un araldo con la scitala42 ordinando a Pausania di non staccarsi da lui; in caso contrario, gli Spartiati gli avrebbero dichiarato guerra. [2] Pausania, che voleva essere sospettato il meno possibile d era sicuro che si sarebbe liberato dell'accusa con il denaro ritornò per la seconda volta a Sparta. E prima viene gettato in prigione dagli efori (è lecito agli efori fare ciò al re); poi, più tardi, dopo essersi adoperato con successo, ne uscì e si offrì di essere giudicato davanti a chiunque vo-lesse esaminarlo su quei fatti. >�����1] Gli Spartiati non avevano nessuna prova evidente contro di lui - né l'avevano i suoi nemici né la città nel suo insieme - fidandosi della quale con certezza potessero punire un uomo della famiglia reale, e che in quel momento ricopriva una carica (era infatti tutore di Plistarco, figlio di Leonida, che era ancora giovane, e di cui era cugino) : [2] ma con il suo comportamento contrario alle usanze e con la sua imitazione dei barbari faceva nascere molti sospetti che non volesse conformarsi alla situazione attuale; e gli Spartiati prendevano in esame le altre sue azioni, per vedere se nel suo modo di vita in qualche caso si fosse allontanato dalle usanze stabilite, e in particolare notarono che una volta aveva voluto far incidere, lui solo, per conto proprio, questo distico elegiaco sul tripode di Delfi, che i Greci avevano dedicato come primizia del bottino preso ai Medi:

'RSR�FKH�HEEH�GLVWUXWWR�OHVHUFLWR�GHL�0HGL�

LO�FRPDQGDQWH�GHL�*UHFL��3DXVDQLD��D�)HER�RIIUu�TXHVWR�ULFRUGR.

[3] A quell'epoca i Lacedemoni avevano subito cancellato dal tripode questo distico e inciso i nomi di tutte le città che, dopo aver insieme sconfitto il barbaro, avevano dedicato l’offerta; ma anche allora questa era stata considerata un’offesa da parte di Pausania, e poiché ora egli si trovava in tale situazione, divenne molto più evidente che il fatto fosse conforme alle sue attuali intenzioni.[4] E venivano informati che tramava anche intrighi con gli Iloti, ed era proprio così: prometteva loro la liberazione e i diritti di cittadinanza se avessero fatto un insurrezione insieme a lui lo avessero aiutato a mettere in atto tutto il suo piano. [5] Ma nemmeno allora, non credendo nemmeno ad alcuni Iloti delatori, ritennero di dover fare qualcosa di grave nei suoi riguardi: seguivano il metodo al quale erano abituati nei loro rapporti con i concittadini, cioè non avevano fretta di decidere un provvedimento gravissimo nei confronti di uno Spartiata senza prove indisputabili; finché, come si racconta, colui che avrebbe dovuto portare ad Artabazo l'ultima lettera per il re, un uomo di Argilio che una volta era stato un favorito di Pausania, e nel quale egli riponeva la massima fiducia, lo denuncia: gli era venuta paura in seguito alla riflessione che nessuno dei messaggeri precedenti era mai tornato indietro; contraffece il sigillo, affinchè, se si fosse sbagliato nella sua supposizione, o anche se Pausania chiedesse di fare qualche modifica, questi non se ne accorgesse, e aprì la

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lettera, in cui aveva sospettato che vi fosse aggiunta qualche istruzione di questo genere: e infatti trovò scritto che lo si doveva uccidere. [���] Allora, quando egli ebbe mostrato loro lo scritto, gli efori divennero più sicuri: ma volevano ancora con le proprie orecchie sentire parlare Pausania stesso ; e così, secondo un piano preordinato, l'uomo andò al Tenaro come supplice e si costruì una capanna divisa in due parti con una parete. Dentro di essa nascose alcuni degli efori, e quando Pausania andò da lui e gli chiese la ragione per cui era venuto come supplice, udirono tutto chiaramente: l'uomo si lamentava di ciò che era stato scritto da Pausania su di lui, e dichiarava tutte le altre cose, una per una: come non lo aveva mai in nessun modo esposto al pericolo nel corso delle sue missioni presso il re, e tuttavia riceveva l’onore speciale di essere ucciso nello stesso modo della maggior parte dei suoi servi: l'altro ammetteva queste stesse cose e lo pregava di non arrabbiarsi per la situazione presente, ma gli dava la garanzia di poter lasciare il tempio, e lo invitava a mettersi in viaggio al più presto e a non ostacolare le trattative. [������] Quando ebbero udito tutto accuratamente, gli efori se ne andarono, per il momento, conoscendo ormai con certezza la situazione, si accinsero ad arrestarlo nella città. Si dice che mentre stava per essere arrestato per la strada, appena vide la faccia di uno degli efori che si avvicinava, capì per quale scopo veniva ; e quando un altro gli fece di nascosto un cenno con la testa, dandogli per benevolenza questa indicazione, egli andò di corsa al santuario della Calcieca e vi si rifugiò prima che potessero prenderlo. Il recinto sacro infatti era vicino. Entrò in una camera non grande che faceva parte del santuario, per non trovarsi a disagio all'aria aperta, e rimase lì fermo. [2] Gli efori per il momento erano rimasti indietro nell'inseguimento ; ma dopo levarono il tetto della camera, e quando si furono assicurati che egli era nell'interno e lo ebbero bloccato dentro, murarono le porte, lo assediarono, ed ebbero ragione di lui con la fame. [3] Quando stava per spirare così come era, nella camera, essi se ne accorsero e lo portarono fuori dal santuario mentre respirava ancora43: e portato fuori morì immediatamente. [4] Avevano intenzione di gettarlo nel Ceada, dove gettano i criminali : poi decisero di seppellirlo lì vicino. Ma il dio di Delfi più tardi dichiarò ai Lacedemoni tramite l'oracolo che bisognava trasferire la tomba al luogo dove era morto (e ora giace all'entrata del recinto sacro, come indicano le stele con iscrizione), e poiché ciò che avevano fatto era un sacrilegio, bisognava restituire alla Calcieca due corpi al posto di uno. Allora essi fecero fare due statue di bronzo e le dedicarono al posto di Pausania. >�����1] Gli Ateniesi, poiché anche il dio aveva giudicato che si trattava di un sacrilegio, ordinarono a loro volta ai Lacedemoni di eliminare i responsabili. [2] Al tempo del favoreggiamento dei Medi da parte di Pausania i Lacedemoni inviarono ambasciatori agli Ateniesi e accusarono anche Temistocle della stessa colpa, in base a ciò che avevano scoperto dagli indizi raccolti nelle loro inchieste su Pausania, e chiedevano che fosse punito nello stesso modo�[3]Gli Ateniesi furono persuasi ; e, dato che Temistocle era stato ostracizzato e in quel momento abitava ad Argo, ma andava anche nel resto del Peloponneso, mandano, insieme ai Lacedemoni che erano pronti ad associarsi alle ricerche, degli uomini ai quali erano state date istruzioni di arrestarlo ovunque lo avessero trovato. ���

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/,%52�,,���[��, 1] Nella stessa estate gli Ateniesi, che prima avevano considerato nemico l’abderita Ninfodoro, figlio di Pite, di cui Sitalce aveva sposato la sorella, e che aveva molta influenza su di lui, lo nominarono prosseno e lo fecero venire ad Atene: volevano far sì che Sitalce, figlio di Tere e re dei Traci, divenisse loro alleato. [2] Questo Tere, padre di Sitalce, fu il primo a estendere il grande regno degli Odrisi in modo che fosse maggiore del resto della Tracia: una grossa parte dei Traci è infatti indipendente. [3] Questo Tere non ha nessuna parentela con Tereo, che prese moglie ad Atene sposando Procne figlia di Pandione, e i due non provenivano nemmeno dalla stessa parte della Tracia: Tereo abitava a Daulia, che è nella terra ora chiamata Focide, ma che allora era abitata da Traci; e fu in questa terra che le donne compirono il misfatto contro Iti ; e anche da molti poeti, quando parlano dell'usignolo, esso è chiamato l'uccello daulio; ed era naturale che Pandione stringesse, tramite il matrimonio della figlia, un vincolo con una città tanto vicina, per l'aiuto reciproco che se ne sarebbe potuto trarre, piuttosto che con qualcuno che abitasse tra gli Odrisi, a una distanza di molti giorni di viaggio. Tere, dunque, che non aveva lo stesso nome, e regnava nella Tracia e non nella Focide, fu il primo re degli Odrisi che raggiunse una certa potenza. [4] Gli Ateniesi vollero farsi alleato suo figlio Sitalce, poiché desideravano che li aiutasse a dominare le località lungo la costa tracia e porre fine alla potenza di Perdicca. [5] Giunto ad Atene, Ninfodoro concluse l'alleanza con Sitalce e fece diventare cittadino ateniese Sadoco, figlio di quest'ultimo; e s'impegnava a metter fine alla guerra nella zona costiera della Tracia: avrebbe infatti persuaso Sitalce ad inviare agli Ateniesi un esercito tracio formato da cavalieri e da peltasti. [6] Riconciliò anche Perdicca agli Ateniesi e li persuase a restituirgli Terme; allora Perdicca si unì subito alla spedizione degli Ateniesi e di Formione contro i Calcidesi. [7] Così Sitalce, figlio di Tere e re dei Traci, divenne alleato degli Ateniesi, e così lo divenne Perdicca, figlio di Alessandro e re dei Macedoni. ---------- [��, 1] Circa in quello stesso periodo, quando cominciava l'inverno, l'odrisio Sitalce, figlio di Tere e re dei Traci, fece una spedizione contro Perdicca, figlio di Alessandro e re della Macedonia, e contro i Calcidesi ai confini della Tracia, volendo, di due promesse, ottenere che una gli fosse mantenuta, e l'altra mantenerla lui stesso. [2] Perdicca, infatti, dopo aver fatto una promessa a Sitalce, a condizione che questi lo riconciliasse con gli Ateniesi quando si trovava in difficoltà all'inizio della guerra, e che non riconducesse in patria, con lo scopo di procurargli il regno, Filippo, fratello di Perdicca e a lui nemico, non manteneva l'impegno che aveva preso; e lui stesso aveva concordato con gli Ateniesi, quando aveva concluso l'alleanza, di porre fine alla guerra contro i Calcidesi confinanti con la Tracia. [3] Per entrambe queste ragioni, dunque, egli effettuava l'invasione e conduceva Aminta, figlio di Filippo, con l'intenzione di dargli il regno dei Macedoni, insieme ad ambasciatori ateniesi, che si trovavano presenti a questo scopo, e ad Agnone come comandante. Anche gli Ateniesi infatti dovevano venire ad aiutarlo nelle operazioni contro i Calcidesi con navi e con l'esercito maggiore possibile. >�����1] Sitalce dunque mobilitò, partendo dagli Odrisi, per primi i Traci al di qua del monte Emo e del Rodope, tutti quelli su cui aveva il dominio fino al mare, cioè fino al Ponto Eussino e all'Ellesponto ; poi i Geti che si trovano oltre il monte Emo e tutte le altre popolazioni che erano stabilite al di qua del fiume Istro e più verso il Ponto Eussino. I Geti e coloro che abitano da quelle parti sono vicini degli Sciti ed equipaggiati nello stesso modo, tutti arcieri a cavallo. [2] Invitava anche molti Traci delle montagne, che

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sono indipendenti e portano la spada: si chiamano Dii, e la maggior parte di loro abita il Rodope ; alcuni li induceva con una paga a servire, mentre altri lo seguivano come volontari. [3] Chiamava alle armi anche gli Agriani, i Leei e tutte le altre popolazioni della Peonia sulle quali aveva il dominio: queste erano all’estremo limite del suo impero: appunto in corrispondenza dei Peoni Leei e del fiume Strimone, che scorre dal monte Scombro attraverso il territorio degli Agriani e dei Leei, l’impero aveva il suo confine con i Peoni, che di là in poi erano indipendenti. [4] Dalla parte dei Triballi, anch'essi indipendenti, confinavano i Treri e i Tilatei: questi abitano a nord del monte Scombro e si estendono verso l'occidente fino al fiume Oschio. Quest'ultimo scorre dalla catena di montagne che è la stessa da cui provengono il Nesto e l'Ebro. La montagna è deserta e grande, ed è contigua al Rodope. >���� 1] L'estensione dell'impero degli Odrisi arrivava fino al mare, cioè dalla città di Abdera al Ponto Eussino, fino al fiume Istro. Il tempo che s'impiega per circumnavigare questa terra, se si segue il percorso più breve e se il vento è sempre in poppa, è, per una nave mercantile, di quattro giorni e di un egual numero di notti. Quanto al percorso su terra, un uomo che viaggi leggero compie il tragitto più breve, da Abdera all'Istro, in undici giorni. [2] Dalla parte del mare questa era la lunghezza del territorio: verso l'interno del continente, invece, partendo da Bisanzio fino ai Leei ed allo Strimone (da questa parte era la massima distanza dal mare andando verso l'interno) ci vogliono per un uomo con equipaggiamento leggero tredici giorni per compiere il percorso.[3] Il tributo proveniente da tutto il territorio non greco, e quello delle città greche su cui i re Odrisi ottennero il dominio al tempo di Seute (il quale regnò dopo Sitalce e lo fece arrivare alla somma più alta che abbia mai raggiunto), era del valore di circa quattrocento talenti d'argento e veniva fornito in oro e in argento; ed erano portati doni in oro e argento di valore non inferiore a questi, oltre a tutti i tessuti, ricamati e semplici, e agli altri utensili; ed erano portati non solo al re, ma anche ai governatori che avevano autorità insieme a lui, e ai nobili Odrisi. [4] Gli Odrisi avevano infatti stabilito l'usanza, contraria a quella del regno dei Persiani, di ricevere piuttosto che dare (ed era più disonorevole non dare dopo aver subito una richiesta che il non ottenere qualcosa dopo averlo chiesto) ; questa usanza esiste anche presso gli altri Traci; tuttavia, in conformità con la loro potenza, gli Odrisi se ne servivano in maggior misura. Non era infatti possibile compiere niente senza offrire doni. E così il regno raggiunse un alto grado di potenza. [5] Infatti, di tutti quelli che si trovano in Europa tra il golfo Ionio e il Ponto Eussino, fu il maggiore per entrate di denaro e per la prosperità generale; ma per la forza dimostrata nella guerra e per il numero di truppe è molto inferiore a quello degli Sciti. [6] Al livello della potenza degli Sciti non solo è impossibile che possano arrivare i popoli dell'Europa, ma nemmeno in Asia esiste un popolo che individualmente sia in grado di resistere a tutti gli Sciti quando agiscono d'accordo. Tuttavia non raggiungono il livello di altri popoli anche per quanto riguarda la saggezza delle decisioni e l'intelligenza dimostrata nelle circostanze della vita. [��, 1] Sitalce, dunque, che regnava su una terra così vasta, preparava l'esercito. Quando i suoi preparativi furono compiuti, partì e si mise in marcia contro la Macedonia, passando prima attraverso il proprio impero, poi attraverso Cercine, una montagna deserta, che forma il confine tra i Sinti e i Peoni. Passava attraverso questa montagna servendosi della strada che lui stesso aveva precedentemente costruito aprendosi il varco nella foresta, quando aveva fatto la spedizione contro i Peoni. [2] Attraversando la montagna a partire dal territorio degli Odrisi, avevano alla destra i Peoni, e alla sinistra i Sinti e i Maidi.

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Quando la ebbero attraversata arrivarono a Dobero di Peonia. [3] Durante la marcia l’esercito di Sitalce non subì nessuna perdita, se non qualcuna a causa di malattia, ma ebbe un aumento. Infatti molti dei Traci indipendenti lo seguirono a scopo di bottino, senza essere stati invitati: si dice che il numero totale ammontasse a non meno di centocinquantamila uomini. [4] Di questi la maggior parte era fanteria, e circa un terzo cavalleria. Della cavalleria la parte più grande la fornivano gli stessi Odrisi e dopo di loro i Geti. Della fanteria i più bellicosi erano i guerrieri indipendenti armati di spada che erano scesi dal Rodope, mentre il resto della massa di uomini che seguiva l'esercito era mista, e temibilissima solo per il numero. >����1] Si radunavano dunque a Dobero e si preparavano, perché potessero invadere la bassa Macedonia, sulla quale Perdicca aveva il dominio, partendo dall'alto. [2] Infatti fanno parte dei Macedoni anche i Lincesti e gli Elimioti, e altri popoli più verso l'interno del paese, che sono alleati di questi e loro sudditi, e hanno ciascuno la propria monarchia. [3] I primi a conquistare l'attuale Macedonia, che si estende lungo il mare, furono Alessandro, padre di Perdicca, e i suoi antenati, che in origine erano Temenidi provenienti da Argo: essi ottennero il regno sul territorio dopo aver espulso, in seguito a una battaglia, dalla Pìeria i Pieri, che più tardi si stabilirono a Fagrete e in altre località sotto il monte Pangeo oltre lo Strimone (ancora oggi la regione lungo il mare che si trova sotto il Pangeo si chiama golfo di Pieria); e dal territorio che è chiamato Bottia espulsero i Bottiei, che ora abitano al confine con i Calcidesi. [99,4] Nella Peonia s'impadronirono di una fetta sottile di territorio che dall'interno si estende lungo il fiume Assio fino a Fella ed al mare; e occupano la regione chiamata Migdonia, dall'altra sponda dell'Assio fino allo Strimone, dopo avere scacciato gli Edoni. [5] Espulsero anche, da quella che ora è chiamata Eordia, gli Eordi, la maggior parte dei quali fu annientata; ma un piccolo gruppo di loro si è stabilito vicino a Fisca; e dall’Almopia espulsero gli Almopi. [6] Questi Macedoni conquistarono anche altri popoli, dei quali ancor oggi occupano le terre, e cioè Antemunte, la Grestonia, la Bisaltia e gran parte del territorio dei Macedoni veri e propri. L'insieme è chiamato Macedonia, e Perdicca, figlio di Alessandro, ne era il re quando Sitalce stava effettuando l'invasione. [���, 1] Questi Macedoni, non essendo in grado di difendersi contro il grosso esercito che stava avanzando, si rifugiarono nei luoghi ben protetti e nelle fortezze che vi erano nel paese. [2] Non ce n'erano molte, ma più tardi Archelao, figlio di Perdicca, quando divenne re costruì quelle che si trovano ora nel territorio, costruì strade diritte e regolò le altre cose riguardanti la guerra in fatto di cavalli, armi e altre attrezzature, che erano maggiori di quelle di tutti gli altri otto re che l'avevano preceduto. [3] L'esercito dei Traci da Dobero prima invase quello che precedentemente era stato il dominio di Filippo, e prese Idomene a viva forza, mentre s'impadronì di Gortinia, Atalante e alcune altre località grazie ad accordi: esse passarono dalla loro parte per amicizia con Aminta, figlio di Filippo, che era presente; cinsero d'assedio Europo, ma non riuscirono a conquistarla. [4] Poi l'esercito avanzò anche nell'altra parte della Macedonia, quella che è a sinistra di Pella e di Cirro. Al di qua di questi luoghi, cioè nella Bottia e nella Pieria, non arrivarono, ma devastarono la Migdonia, la Grestonia e Antemunte. [5] I Macedoni non avevano nemmeno intenzione di difendersi con la loro fanteria, ma fecero venire rinforzi di cavalleria dai loro alleati dell'interno, e dove sembrava opportuno lanciavano attacchi contro l'esercito dei Traci, combattendo in pochi contro molti. [6] E dove attaccavano, nessuno resisteva a quegli uomini che erano cavalieri esperti e muniti di corazza, ma quando erano circondati da un gran numero di nemici si mettevano in una situazione pericolosa, poiché affrontavano una massa molte

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volte più grande della loro, e così alla fine stettero tranquilli, pensando di non essere in grado di correre rischi contro forze superiori. [���, 1] Sitalce intavolò trattative con Perdicca sulle questioni per le quali aveva fatto la spedizione, e poiché gli Ateniesi non giungevano con le navi, non credendo che sarebbe venuto (ma gli avevano inviato doni e ambasciatori), Sitalce mandò una parte dell'esercito contro i Calcidesi e i Bottiei, e dopo averli costretti a rifugiarsi dietro le mura cominciò a devastare le loro terre. [2] Mentre era insediato in questi luoghi, i Tessali e i Magnesi�che abitano verso sud, gli altri sudditi dei Tessali, e i Greci fino alle Termopili�si allarmarono, pensando che l'esercito avrebbe marciato contro di loro, e facevano preparativi. [3] Si allarmarono anche i Traci che abitavano oltre lo Strimone verso il nord, tutti quelli che occupavano le pianure: i Panei, gli Odomanti, i Droi e i Dersei: sono tutti indipendenti. [4] Fece anche nascere tra i Greci nemici degli Ateniesi il sospetto che, trascinati da questi ultimi in base all'alleanza, i Traci sarebbero avanzati anche contro di loro. [5] Ma egli devastava, mentre le occupava, la Calcidica, la Bottiea e la Mace-donia, e dato che non veniva raggiunto da lui nessuno degli scopi per i quali aveva compiuto l'invasione, e il suo esercito non aveva cibo e soffriva disagi per l'inverno, fu persuaso da Seute, figlio di Sparadoco, che era suo nipote e aveva su di lui la massima influenza, ad andarsene in fretta. Perdicca di nascosto aveva attirato Seute promettendo di dargli in moglie sua sorella, e del denaro insieme a lei. [6] Sitalce, dopo essere stato persuaso ed esser rimasto trenta giorni in tutto, dei quali otto nel territorio dei Calcidesi, fece rapidamente ritorno in patria con l'esercito. Perdicca in seguito diede in moglie a Seute sua sorella Stratonice, come aveva promesso. Così dunque si svolsero gli avvenimenti della spedizione di Sitalce. /,%52�,9�[�����] La stessa estate, poiché le difese di Antandro stavano per essere rafforzate dai Mitilenesi, come era nelle loro intenzioni, gli strateghi delle navi ateniesi inviate per la raccolta di denaro, Demodoco e Aristide , che si trovavano nell'Ellesponto (il terzo, Lamaco , era entrato nel Ponto con dieci navi) vennero a sapere dei preparativi di quella città e pensarono che vi fosse il pericolo che essa costituisse una minaccia, come lo era Anea per Samo: là infatti si erano stabiliti i Sami esiliati, da quel luogo aiutavano i Peloponnesiaci nelle loro operazioni navali inviando loro timonieri, provocavano disordini presso i Sami della città e accoglievano quelli che ne fuggivano. Così gli strateghi radunarono un esercito tra gli alleati e salparono; e dopo aver sconfitto in una battaglia gli uomini usciti da Antandro per affrontarli, presero la città. [2] Non molto tempo dopo, Lamaco, che�aveva fatto vela nel Ponto e gettato le ancore nel territorio di Eraclea, al fiume Calete, perse le navi dopo che dal cielo era venuta giù pioggia e la corrente del fiume d'un tratto si era ingrossata precipitosamente. Lamaco e l'esercito passarono per via di terra attraverso il territorio dei Traci Bitini, che si trovano dall'altra parte dello stretto, in Asia, e giunse a Calcedone, la colonia megarese situata all'imboccatura del Ponto. [������] Nello stesso inverno Brasida, con gli alleati della regione costiera della Tracia, fece una spedizione contro Anfipoli, la colonia ateniese sita sul fiume Strimone��[2] Il luogo in cui si trova ora la città aveva cercato in precedenza di colonizzarlo anche Aristagora di Mileto quando si sottraeva con la fuga al re Dario, ma era stato cacciato via dagli Edoni�� e poi tentarono anche gli Ateniesi, trentadue anni dopo:

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inviarono diecimila coloni, costituiti da cittadini ateniesi e da chiunque altro volesse andare, ed essi furono massacrati a Drabesco dai Traci. [3] E di nuovo, dopo ventotto anni, gli Ateniesi vennero, con Agnone, figlio di Nicia, inviato come fondatore della colonia, cacciarono via gli Edoni e fondarono quella città, che prima era chiamata 1RYH�9LH��

[4] Erano partiti da Eione, un emporio situato sul mare e alla foce del fiume, che essi stessi occupavano: distava venticinque stadi dalla città attuale, a cui Agnone diede il nome di Anfipoli, perché lo Strimone scorreva intorno ai due lati della città; ed egli bloccò con un lungo muro lo spazio tra i due bracci del fiume e fondò la città ben visibile sia dal mare sia dalla terraferma. [���, 1] Questa dunque era la città contro la quale Brasida marciava con l'esercito, dopo esser partito da Arne, nella Calcidica. Arrivò verso sera ad Aulone e a Bormisco��dove il lago di Bolbe si versa nel mare, e dopo la cena avanzò durante la notte. Era brutto tempo e nevicava un po', [2] ragione per cui egli si affrettò ancor di più, volendo eludere l'attenzione di quelli di Anfipoli, eccettuati coloro che dovevano consegnargli la città. [3] Vi erano infatti Argili tra gli abitanti (Argilo è una colonia di Andro) ed altri che collaboravano con Brasida in questa impresa: alcuni erano stati persuasi da Perdicca, altri dai Calcidesi. [4] Ma soprattutto collaboravano con lui gli Argili: abitavano vicino ad Anfipoli, erano da sempre sospetti agli Ateniesi e avevano mire sulla città; e già da molto tempo, quando si era offerta l'occasione e arrivava Brasida, avevano trattato con quegli Argili che abitavano ad Anfipoli con diritti di cittadinanza perché gli fosse consegnata; e allora essi lo accolsero nella città, poi durante quella notte effettuarono la ribellione contro gli Ateniesi, e prima dell'alba portarono l'esercito al ponte sul fiume. [5] La città stessa è abbastanza lontana dal punto in cui lo si attraversa, e le mura non scendevano fino ad esso, come ora; ma vi era collocata una piccola guarnigione: Brasida la costrinse facilmente a cedere, e sia perché era avvenuto un tradimento, sia perché c'era cattivo tempo e il suo attacco era inaspettato, passò il ponte e così ebbe subito sotto il suo controllo ciò che gli Anfipoliti, che avevano case in tutta la zona, possedevano fuori delle mura [���, 1] Poiché il suo passaggio era avvenuto improvvisamente per quelli della città, e tra coloro che si trovavano fuori, molti venivano catturati e altri si rifugiavano all'interno delle mura, gli Anfipoliti furono gettati in una gran confusione, soprattutto perché erano sospetti gli uni agli altri. [2] E si dice che se Brasida avesse voluto, invece di darsi al saccheggio con il suo esercito, marciare subito contro la città, pare che l'avrebbe presa. [3] Ma egli accampò l'esercito, e dopo aver fatto incursioni nella zona al di fuori delle mura, senza che avvenisse nulla di ciò che si aspettava da parte di quelli che erano all'interno, rimaneva tranquillo. [4] Ma gli avversari di coloro che volevano consegnare la città, essendo in numero superiore, in modo che fecero sì che le porte non fossero aperte subito, d'accordo con lo stratego Eucle, che era presente, venuto da Atene per custodire la città, mandarono un messaggio all'altro stratego inviato alla zona confinante con la Tracia, Tucidide, figlio di Oloro, che ha scritto questa storia: si trovava nei pressi di Taso (quest'isola è una colonia di Paro e dista da Anfipoli circa mezza giornata di navigazione), e gli chiesero di venir in loro soccorso. [5] Udito il messaggio egli salpò rapidamente con sette navi, che si trovavano presenti: voleva arrivare in tempo a occupare soprattutto Anfipoli, prima che vi fosse qualche cedimento, e se non fosse stato possibile, almeno Eione.

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[���, 1] Intanto Brasida, che temeva il soccorso delle navi di Taso ed era venuto a sapere che Tucidide possedeva il diritto di sfruttare le miniere d’oro di quella zona della Tracia, e che in conseguenza di questo fatto era influente presso le persone più importanti del continente, si affrettava a occupare prima lui la città, se era possibile: aveva paura che se Tucidide fosse arrivato, la massa degli Anfipoliti, sperando che egli radunasse alleati giunti dal mare e dalla Tracia e li salvasse, non sarebbe più passata dalla sua parte. [2] Propose un accordo con condizioni moderate e fece annunciare questa proclamazione: ognuno degli Anfipoliti e degli Ateniesi che erano nella città poteva restare, se voleva, rimanendo in possesso delle sue cose, con eguaglianza e parità di diritti; chi non era disposto a farlo sarebbe partito, portando con sé i propri beni, entro cinque giorni. >���, 1] Quando ebbe ascoltato queste proposte, la maggior parte della popolazione si trovò ad aver opinioni diverse dalle precedenti, specialmente perché tra i cittadini c'erano pochi Ateniesi, e la maggioranza era di provenienza mista, e dentro la città c'erano molti parenti di quelli che erano stati catturati fuori; e in rapporto al loro timore giudicavano equa la proclamazione: gli Ateniesi, perché sarebbero comunque stati contenti di lasciare la città, considerando che il pericolo per loro non era eguale a quello degli altri, e nello stesso tempo non aspettandosi che sarebbero arrivati presto dei soccorsi ; e il resto della massa, perché, con l'eguaglianza dei diritti, non venivano privati della città ed erano liberati dal pericolo contro le loro aspettative. [2] E così, poiché i fautori di Brasida ora giustificavano apertamente queste proposte, quando videro che il popolo aveva cambiato parere e non ascoltava più lo stratego ateniese presente, fu fatto l'accordo, ed essi accolsero Brasida secondo le condizioni che aveva proclamato. [3] In tal modo essi consegnarono la città, e quel giorno, sul tardi, Tucidide arrivava ad Eione con le navi. [4] Brasida aveva appena occupato Anfipoli, e per una notte non prese Eione: se le navi non fossero rapidamente giunte in soccorso, essa sarebbe stata occupata all'alba. [���, 1] In seguito Tucidide sistemava le cose ad Eione in modo opportuno, affinchè sia per il presente, nel caso che Brasida attaccasse, sia nel futuro la città fosse al sicuro, e accolse quelli che erano voluti venire dall'interno secondo l'accordo. [2] Brasida scese improvvisamente ad Eione seguendo il corso del fiume e con molte imbarcazioni, nella speranza d'impadronirsi del promontorio che si protendeva dalle mura e di controllare così l'entrata del porto; effettuò contemporaneamente un tentativo anche per via di terra, ma fu respinto da tutte e due le parti. Faceva anche vari preparativi per la sicurezza di Anfipoli. [3] Mircino, città degli Edoni, passò dalla sua parte, dopo che Pittaco, re di quel popolo, era stato ucciso dai figli di Goassi e dalla propria moglie Brauro. Non molto tempo dopo, Galepso si unì a lui, e così anche Esine: queste sono colonie di Taso. Era anche venuto Perdicca, subito dopo la conquista della città, e aiutava Brasida in questi suoi piani. [���, 1] Avvenuta l'occupazione di Anfipoli gli Ateniesi furono gettati in un grande allarme, soprattutto perché la città era stata utile a loro per l'invio di legname per la costruzione di navi, e a causa delle entrate di denaro provenienti da essa, e perché ai Lacedemoni era possibile passare fino allo Strimone per accedere agli alleati degli Ateniesi, se i Tessali li conducevano ; pensavano che se i Lacedemoni non avessero controllato il ponte, dal momento che a monte c'era una grande palude che si estendeva per un vasto tratto del fiume, e dalla parte di Eione essi sarebbero stati sorvegliati dalle triremi, non sarebbero potuti procedere: allora invece pensavano che ormai la cosa sarebbe stata facile. E temevano che gli alleati si

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ribellassero. [2] Brasida infatti in generale si mostrava moderato, e dappertutto nei suoi discorsi dichiarava che era stato inviato per liberare la Grecia. [3] E quando le città furono informate della cattura di Anfipoli, delle offerte di Brasida e della sua mitezza, ricevettero un impulso più grande che mai a cambiare la situazione politica, e gli inviavano proposte segretamente: lo invitavano a venire da loro, e ciascuna voleva esser la prima a ribellarsi. [4] Questi uomini avevano anche un'impressione di sicurezza, poiché erano ingannati circa l'entità della potenza degli Ateniesi, non credendo che fosse così grande come essa si rivelò più tardi ; giudicavano più con un desiderio che non vede le cose chiaramente che con previdenza sicura: gli uomini sogliono affidare a speranze irragionevoli ciò che desiderano e respingere con argomenti perentori ciò che non accettano. [5] Inoltre, dato che gli Ateniesi avevano da poco subito un grave colpo in Beozìa , e Brasida diceva cose seducenti e non vere, cioè che gli Ateniesi non avevano voluto venire a Nisea a combattere contro il suo esercito che era solo, prendevano coraggio ed erano sicuri che nessuno sarebbe venuto contro di loro. [6] Ma la cosa più importante era che, poiché la loro situazione in quel momento li rallegrava e per la prima volta avrebbero fatto conoscenza dell'entusiasmo dei Lacedemoni, erano pronti a correre ogni rischio. Gli Ateniesi se ne accorsero e inviarono guarnigioni alle varie città, come potevano in breve tempo e d'inverno, mentre Brasida mandò istruzioni a Sparta chiedendo che gli inviassero un altro esercito, ed egli stesso si preparava alla costruzione di triremi sullo Strimone. [7] Ma i Lacedemoni non assecondarono i suoi desideri, in parte addirittura per l'invidia delle persone più importanti, in parte perché volevano piuttosto ricuperare gli uomini catturati nell'isola e metter fine alla guerra. /,%52�9�[����] Cleone, dopo che, a suo tempo, era salpato da Torone, doppiando l’Atos con la flotta per dirigersi contro Anfipoli, prese Eione come base e attaccò Stagiro, colonia di Andro, ma non la prese, poi conquistò a viva forza Galepso��colonia di Taso. [2] Inviati ambasciatori a Perdicca, affinchè venisse con un esercito secondo il patto d'alleanza, e altri in Tracia presso Polle, re degli Odomanti, perché conducesse il maggior numero possibile di mercenari Traci, egli stesso rimaneva tranquillo, aspettando a Eione. [3] Brasida fu informato di ciò e prese posizione a sua volta sul Cerdilio: questa località appartiene agli Argili e si trova su un'altura, dall'altra parte del fiume, non molto distante da Anfipoli ; da lì tutto era visibile, e così Cleone non sarebbe potuto sfuggire alla sua attenzione quando si fosse mosso con l'esercito. Era ciò che egli si aspettava che Cleone facesse: pensava cioè che, disprezzando il numero delle forze nemiche, sarebbe salito all'attacco di Anfipoli con le truppe che erano presenti. [4] Nello stesso tempo si preparava anche facendo venire millecinquecento mercenari Traci e tutti gli Edoni, peltasti e cavalieri ; aveva anche mille peltasti Mircini e Calcidesi, oltre a quelli che erano ad Anfipoli. [5] II numero totale di opliti che si erano radunati ammontava a circa duemila, e c'erano trecento cavalieri greci. Brasida si era stabilito sul Cerdilio con circa millecinquecento di essi, mentre gli altri erano schierati con Clearida ad Anfipoli. [����] Cleone per un po' di tempo rimase tranquillo, poi fu costretto a fare ciò che Brasida si aspettava. [2] Poiché i soldati erano irritati per la loro inattività e riflettevano contro quale esperienza e ardimento si sarebbe schierato il comando di Cleone, comando che era caratterizzato da tale ignoranza e codardia, e riflettevano anche come da Atene erano partiti insieme a lui contro voglia, egli, accorgendosi di questo

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mormorio e non volendo che gli uomini fossero depressi, perché rimanevano fermi nello stesso posto, li prese con sé e li condusse avanti. [3] E agì con la stessa mentalità che aveva mostrato a Pilo, quando grazie al successo avuto si era convinto di possedere intelligenza: non si aspettava nemmeno che qualcuno sarebbe uscito ad affrontarlo in battaglia, ma diceva che andava piuttosto a compiere una ricognizione del luogo, e attendeva le forze maggiori non per ìmporsì con un margine di sicurezza, se fosse stato co-stretto a combattere, ma per circondare la città e prenderla con la forza. [4] Così venne e stabilì l'esercito su una collina ben difesa davanti ad Anfipoli, ed egli stesso si mise ad osservare la zona paludosa dello Strimone e quale fosse la posizione della città verso la Tracia. [5] Pensava che sarebbe potuto andar via quando voleva, senza bisogno d'una battaglia: infatti non si vedeva nemmeno un uomo sulle mura, e non usciva nessuno dalle porte, ed esse erano tutte chiuse. Così gli sembrava perfino di avere sbagliato a non salire verso la città con macchine da guerra, poiché riteneva che avrebbe potuto prenderla per il fatto che era indifesa. [����] Brasida pronunciò questo breve discorso, e preparava egli stesso la sortita, mentre disponeva gli altri, insieme a Clearida, alla cosiddetta porta Tracia, perché uscissero contro il nemico, secondo le sue istruzioni. [2] Quanto a Cleone - poiché Brasida era stato visto scendere dal Cerdilio e poi nella città, che era visibile dall'esterno, mentre sacrificava vicino al tempio di Atena e faceva quei preparativi - gli venne annunciato (in quel momento era andato avanti per la ricognizione) che si vedeva chiaramente nella città tutto l'esercito nemico, e che sotto le porte si scorgevano molti piedi di cavalli e di uomini, come se stessero per far una sortita. [3] Udito ciò, egli venne a vedere; e quando ebbe visto, poiché non voleva scontrarsi in una battaglia prima che arrivassero i rinforzi e credeva di far in tempo ad andar via, ordinò che si desse il segnale della ritirata, e nello stesso tempo diede l'ordine agli uomini che stavano partendo di ripiegare lentamente in direzione di Eione, seguendo l'ala sinistra, che era l'unico modo possibile. [4] E siccome pensava che ci fosse tempo, egli stesso fece girare l'ala destra, e offrendo al nemico le parti non protette dagli scudi condusse via l'esercito. [5] A questo punto Brasida, quando vede il momento favorevole e l'esercito ateniese che si muove, dice ai suoi uomini e agli altri: «Questi uomini non resisteranno al nostro attacco. È chiaro dal movimento delle lance e delle teste : quelli che fanno così, di solito non tengono duro di fronte a quelli che li assalgono. Ma qualcuno mi apra la porta che ho detto, e con fiducia facciamo la sortita il più rapidamente possibile! ». [6] Poi uscì dalla porta che guarda verso la palizzata �e dalla prima porta del lungo muro di allora, e si lanciò di corsa per quella strada diritta sulla quale ora, quando si va verso la parte del terreno che ha le più salde difese naturali, è visibile un trofeo; e attaccando gli Ateniesi nel mezzo del loro esercito, mentre erano spaventati per il proprio disordine, e nello stesso tempo sorpresi dalla sua audacia, lì mise in fuga. [7] Contemporaneamente Clearida, secondo gli ordini che erano stati dati, con le sue truppe uscì all'attacco dalla porta Tracia e si gettò contro il nemico. Accadde così che gli Ateniesi, a causa dell'imprevisto e del fatto che erano stati attaccati improvvisamente e da due parti, furono gettati nella con-fusione; [8] e la loro ala sinistra, che si trovava dalla parte di Eione ed era già andata avanti un po', era stata subito tagliata fuori e fuggiva; e mentre essa si ritirava già, Brasida, passando lungo l'ala destra e attaccandola, venne ferito; gli Ateniesi non si accorsero che era caduto; e gli uomini che erano vicini a lui lo sollevarono e lo portarono via. [9] L'ala destra degli Ateniesi resisteva di più; e anche se Cleone, in

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conformità con il fatto che già da prima non aveva intenzione di rimaner ad affrontare il nemico, subito fuggì e, raggiunto da un peltasta mircinio, fu ucciso, gli opliti si raggrupparono là dove erano, sul colle, e respingevano Clearida, benché li attaccasse due o tre volte; e non cedettero fino a quando la cavalleria mircinìa e calcidese e i peltasti, circondandoli e lanciando giavellotti, non li misero in fuga, [10] Così ormai tutto l'esercito ateniese fuggiva; e con difficoltà, dirigendosi per molti sentieri sulle colline, quanti non erano stati uccisi, o immediatamente nella battaglia a corpo a corpo o dalla cavalleria calcidese e dai peltasti, fecero ritorno ad Eione, [11] Intanto quelli che avevano sottratto Brasida alla battaglia e lo avevano messo in salvo lo portarono nella città mentre respirava ancora; seppe che i suoi uomini stavano vincendo, e non molto tempo dopo morì. [12] Il resto dell'esercito ritornò con Clearida dopo l'inseguimento, spogliò i morti ed eresse un trofeo. [����] Dopo questi fatti, gli alleati, seguendolo tutti con le armi, seppellirono Brasida a spese pubbliche nella città, davanti all'attuale piazza; e da allora in poi gli Anfipoliti, dopo aver circondato il suo monumento con un muro, gli sacrificano vittime come a un eroe, e gli hanno conferito onori che consistono di giochi e di sacrifici annuali; gli dedicarono anche la colonia, considerandolo il fondatore, dopo aver demolito le costruzioni erette in onore di Agnone� e fatto sparire qualsiasi cosa che, se fosse rimasta, avrebbe potuto ricordare la fondazione della città da parte sua. Ritenevano che Brasida fosse stato il loro salvatore, e inoltre al momento attuale erano ansiosi di conservare l'alleanza con i Lacedemoni, per timore degli Ateniesi; pensavano invece che Agnone, a causa della loro ostilità con gli Ateniesi, non avrebbe potuto ricevere gli onori in modo così vantaggioso per loro come prima, né con piacere. [2] Restituirono poi i morti agli Ateniesi. Furono uccisi circa seicento Ateniesi e sette degli avversari, perché la battaglia non era stata combattuta con uno schieramento regolare, ma piuttosto in seguito alle circostanze che si erano create e quando era stato in precedenza provocato il terrore, come si è visto. [3] Raccolti i morti, gli uni salparono per far ritorno in patria, e gli altri con Clearida sistemarono le cose ad Anfipoli. /,%52�9,,,�>���� 1] L'estate seguente, subito all'inizio della primavera, lo spartiate Dercillida, con un esercito non numeroso, fu inviato lungo la costa per via di terra in direzione dell'Ellesponto perché provocasse la defezione di Abido. (I suoi abitanti sono coloni dei Milesi). I Chii, mentre Astioco non sapeva come sarebbe venuto in loro soccorso, oppressi dall'assedio furono costretti a combattere sul mare. [2] Era avvenuto che essi, mentre Astioco era ancora a Rodi, avevano fatto venire da Mileto come comandante, dopo la morte di Pedarito, lo spartiata Leonte, che era partito da Sparta insieme ad Antistene, come aiutante: era venuto con dodici navi, che si trovavano a sorvegliare Mileto, e di esse cinque erano di Turi, quattro di Siracusa, una di Anea, una di Mileto, e una era quella di Leonte. [3] I Chii uscirono contro il nemico con le loro truppe al completo e occuparono una posizione salda; e nello stesso tempo combatterono sul mare con le loro trentasei navi che erano salpate per affrontare le trentadue ateniesi. Vi fu una dura battaglia: i Chii e i loro alleati ebbero la peggio nell'azione e (poiché era già tardi) ritornarono nella città. [����] Subito dopo questi fatti, quando Dercilida ebbe finito il suo viaggio da Mileto passando lungo la costa per via di terra, Abido, sull'Ellesponto, si ribellò per passare dalla parte di Dercillida e di Farnabazo, e

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Lampsaco lo fece due giorni dopo. [2] Saputo ciò, Strombichide accorse in fretta da Chio con ventiquattro navi ateniesi, tra le quali vi erano anche navi da trasporto con a bordo opliti: i Lampsaceni fecero una sortita, ed egli fu vittorioso nella battaglia e prese Lampsaco al primo assalto, poiché non era difesa da mura ; fece preda di beni e di schiavi, ma ristabilì nella città gli uomini liberi, quindi andò ad attaccare Abido. [3] E dato che gli abitanti non passavano dalla sua parte, né egli riusciva a prendere la città con i suoi attacchi, andò con le navi di fronte ad Abido e fece di Sesto, città del Chersoneso, che una volta i Medi avevano posseduto, un posto di guarnigione e di sorveglianza per l'intero Ellesponto. [�����] Nella stessa estate, subito dopo questi fatti, i Peloponnesiaci, dato che con tutte le loro navi insieme non avevano ritenuto di esser abbastanza forti per affrontare il nemico in battaglia e non gli erano andati incontro, e visto che non sapevano dove avrebbero ottenuto il denaro per un così elevato numero di navi, tanto più che Tissaferne lo forniva in misura inadeguata, inviarono da Farnabazo Clearco, figlio di Ranfia, con quaranta navi, secondo le istruzioni ricevute già da prima dal Peloponneso. [2] Farnabazo infatti li invitava a venire ed era disposto a fornir loro il sostentamento, e contemporaneamente Bisanzio aveva inviato un messaggio in cui manifestava l'intenzione di ribellarsi. [3] Queste navi dei Peloponnesiaci partirono e si portarono in alto mare, per non farsi scorgere dagli Ateniesi durante il loro tragitto: qui incorsero in una tempesta, e la maggior parte di esse raggiunse Delo insieme a Clearco, e più tardi andarono di nuovo a Mileto (e Clearco si recò nuovamente nell'Ellesponto per via di terra, e là svolgeva le sue funzioni di comandante); le altre, che erano dieci, comandate dallo stratego Elisso di Megara, arrivarono nell'Ellesponto senza aver subito danni e provocarono la rivolta di Bisanzio. [4] Dopo questi fatti le truppe che erano a Samo, informate di quanto era accaduto, inviarono nell'Ellesponto alcune navi perché servissero come rinforzo e come presidio; e vi fu anche una piccola battaglia navale davanti a Bisanzio, con otto navi che ne affrontarono altrettante. [�����] Quando agli Ateniesi che erano a Sesto con diciotto navi le sentinelle fecero arrivare le segnalazioni con il fumo, ed essi videro improvvisamente comparire molti fuochi nel territorio occupato dal nemico, si resero conto che i Peloponnesiaci stavano arrivando. Quella stessa notte si avvicinarono furtivamente al Chersoneso, il più velocemente possibile, e seguirono la costa in direzione di Eleunte, con l'intenzione di uscire nel mare aperto per evitare le navi nemiche. [2] Sfuggirono alla sorveglianza delle sedici navi che erano a Abido, sebbene in precedenza fosse stato dato l'ordine dalle navi amiche che erano entrate nell'Ellesponto di far attenzione, qualora le navi ateniesi dovessero uscire: scorsero le navi di Mindaro all'alba, e quando queste subito le inseguirono, non riuscirono ad allontanarsi con tutte le navi, ma la maggior parte fuggirono a Imbro e a Lemno, e si salvarono, ma quattro, che erano le ultime, furono raggiunte vicino a Eleunte. [3] Una nave, che si era arenata al santuario di Protesilao, i Peloponnesiaci la catturarono insieme all'equipaggio, e altre due senza gli uomini; incendiarono l'unica altra, che era vuota, vicino a Imbro. [������] Dopo di ciò, con le navi arrivate da Abido che si aggiungevano alle altre, formando un totale di ottantasei unità, assediarono Eleunte per quel giorno, e poiché la città non passava dalla loro parte, tornarono con la flotta a Abido. [2] Gli Ateniesi, ingannati nella loro fiducia nelle sentinelle, e non pensando che il passaggio lungo la costa delle navi nemiche sarebbe sfuggito alla loro attenzione, attac-

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cavano le fortificazioni tranquillamente, ma quando ne furono informati, subito lasciarono Ereso in gran fretta e accorsero nell’Ellesponto. [3] Catturarono due navi dei Peloponnesiaci, che a suo tempo, nel corso dell’inseguimento si erano spinte con troppa audacia verso il mare aperto e si erano imbattute in loro, e dopo una giornata arrivarono a Eleunte e si ormeggiarono; vi riportarono tutte le navi che si erano rifugiate a Imbro e si prepararono per la battaglia navale per cinque giorni. [������] Dopo di ciò combatterono sul mare nel modo seguente. Gli Ateniesi si diressero verso Sesto con le navi schierate in colonna e tenendosi vicino alla costa; i Peloponnesiaci li notarono e salparono a loro volta da Abido per affrontarli. [2] Quando le due parti si resero conto del fatto che avrebbero combattuto, estesero la loro linea, gli Ateniesi lungo il Chersoneso, cominciando da Idaco e arrivando fino ad Arriana, con settantasei navi: i Peloponnesiaci invece partirono da Abido e arrivarono a Dardano, e avevano ottantasei navi. [3] L'ala destra dei Peloponnesiaci la occupavano i Siracusani, l'altra la occupava Mindaro stesso con le navi più veloci; quanto agli Ateniesi, Trasillo occupava la sinistra e Trasibulo la destra; gli altri comandanti erano schierati ciascuno con il proprio contingente. [4] I Peloponnesiaci avevano fretta di scontrarsi prima con il nemico, e poi, passando oltre, all'altezza dell'ala destra ateniese, con la propria ala sinistra, impedire agli avversari, se potevano, di effettuare l'uscita; e all'altezza del centro volevano spingerli verso la terra, che non era lontana: ma gli Ateniesi compresero questo piano, e nel punto dove gli avversati volevano bloccare il loro passaggio avanzarono a loro volta con le navi e si estesero oltre la linea nemica; [5] e la loro ala sinistra aveva già superato il promontorio che è chiamato « Monumento della Cagna ª. Al centro, avvenuto questo movimento, erano schierati con navi deboli e separate una dall'altra, tanto più che il loro numero era inferiore e che il terreno intorno al Monumento della Cagna ha un contorno pieno di punte e di angoli, in modo che ciò che avveniva dall'altra parte non era visibile. [���, 1] I Peloponnesiaci dunque attaccarono al centro e spinsero le navi degli Ateniesi sulla spiaggia, e poi scesero a terra, mostrandosi molto superiori nell'azione. [2] Non fu possibile difendere il centro né alle navi di Trasibulo, dalla parte dell'ala destra, per via del numero di navi che le incalzavano, né a quelle di Trasillo, dalla sinistra (non si poteva vedere nulla a causa del promontorio del Monumento della Cagna, e nello stesso tempo i Siracusani e gli altri, con forze non inferiori a quelle dello schieramento nemico, li impedivano); ma alla fine i Peloponnesiaci, per via del fatto che, avendo avuta la meglio, inseguivano senza paura ciascun gruppo una nave avversaria, cominciarono a mostrare un certo disordine in una parte del loro schieramento. [3] Quando Trasibulo e le navi che erano con lui se ne resero conto, cessarono da quel momento il movimento di estensione della loro ala, si girarono improvvisamente e respinsero e misero in fuga le navi che avanzavano contro di loro; poi sorpresero le navi vaganti della parte dei Peloponnesiaci che era vittoriosa, le danneggiarono gravemente e nella maggior parte di esse provocarono il panico senza combattere. I Siracusani avevano anch'essi già ceduto di fronte a Trasillo e alle sue navi, e si lanciarono ancor più decisamente in fuga quando videro che anche gli altri stavano facendo lo stesso. >�����1] Avvenuta questa rotta, i Peloponnesiaci si rifugiarono dapprima soprattutto al fiume Midio, e più tardi a Abido; gli Ateniesi catturarono poche navi (l'Ellesponto, essendo stretto, permetteva agli avversari di trovare rifugio percorrendo poca distanza), ma ottennero la vittoria in questa battaglia navale in un momento estremamente opportuno. [2] Finora avevano temuto la flotta dei Peloponnesiaci, a causa sia delle sconfitte avvenute in battaglie di poca entità, sia del disastro di Sicilia: ora si liberarono dalla tendenza a

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biasimare sé stessi e a pensare che i nemici valessero ancora qualcosa nelle attività navali. [3] Nonostante tutto catturarono otto navi chie, cinque corinzie, due ambraciote, due beote, e una rispettivamente ai Leucadi, ai Lacedemoni, ai Siracusani e ai Pelleni: essi stessi ne persero quindici. [4] Eressero poi un trofeo sul promontorio dove si trova il Monumento della Cagna, raccolsero i relitti e restituirono i morti agli avversari, con la protezione di una tregua: infine inviarono una trireme perché si annunciasse anche ad Atene la notizia della vittoria. [5] I cittadini, quando arrivò la nave e sentirono di questo successo insperato, dopo le recenti sconfitte subite in Eubea per via della lotta civile, si rincuorarono molto e pensarono che se si fossero messi ad agire con impegno, le loro forze avrebbero avuto ancora la possibilità di vincere. >����� 1] Tre giorni dopo la battaglia navale gli Ateniesi che erano a Sesto, riparate in fretta le navi, salparono per Cizico, che si era ribellata: vedendo ormeggiate vicino ad Arpagio e�a Priapo le otto navi provenienti da Bisanzio, mossero all'attacco, poi sconfissero gli uomini che erano a terra e s'impadronirono delle navi. Arrivarono poi a Cizico, che era priva di mura, la riportarono sotto il loro controllo e le imposero il pagamento di un contributo di denaro. [2] Intanto anche i Peloponnesiaci navigarono da Abido a Eleunte; recuperarono quelle tra le loro navi catturate che erano in buone condizioni (gli Eleunti avevano incendiato le altre) e inviarono nell'Eubea Ippocrate ed Epicle perché riportassero le navi che vi si trovavano. [����� �] Circa questa stessa epoca Alcibiade tornò con le tredici navi da Cauno e da Faselide, a Samo, portando la notizia che aveva impedito che le navi fenicie arrivassero presso i Peloponnesiaci e che aveva reso Tissaferne amico degli Ateniesi più di prima. [2] Dopo aver allestito nove navi oltre a quelle che aveva, impose agli Alicarnassi�il pagamento di un grosso contributo di denaro e fortificò Cos. Quando ebbe provveduto a ciò e stabilito un comandante a Cos, salpò mentre era ormai vicino l'autunno, e tornò a Samo. [3] Anche Tissaferne, quando seppe che le navi dei Peloponnesiaci erano partite da Mileto per recarsi nell'Ellesponto, levò il campo ad Aspendo e si diresse verso la Ionia. [4] Mentre i Peloponnesiaci erano nell'Ellesponto, gli Antandri, che sono Eoli, fecero venire degli opliti da Abido per via di terra, attraverso il monte Ida, e li introdussero nella città, avendo subito dei torti dal persiano Arsace, governatore subalterno di Tissaferne. Costui aveva già fatto questo ai Deli che si erano stabiliti a Atramittio, quando erano stati costretti a lasciare Delo dagli Ateniesi a causa della purificazione: aveva addotto il pretesto di un'ostilità segreta contro qualcuno e invitato i migliori tra i Deli al servizio militare; li aveva condotti come se vigesse l'amicizia e l'alleanza con loro, e dopo aver atteso che pranzassero li aveva circondati con le proprie truppe e li aveva fatti abbattere con i giavellotti. [5] Gli Antandri dunque, temendo per questo fatto che egli un giorno commettesse qualche oltraggio anche nei loro riguardi, e dato che, inoltre, imponeva loro degli oneri che non potevano sopportare, scacciarono la sua guarnigione dall'acropoli. >�����1] Tissaferne si rese conto che anche questa era opera dei Peloponnesiaci, e non solo il fatto avvenuto a Mileto e quello di Cnido (anche in quei luoghi le sue guarnigioni erano state espulse) ; pensava di esser divenuto estremamente odioso a loro e temeva che gli causassero qualche altro danno; nello stesso tempo era irritato dalla prospettiva che Farnabazo, dopo averli accolti da meno tempo e con minore spesa, ottenesse dei successi maggiori dei suoi contro gli Ateniesi : intendeva dunque andar da loro nell'Ellesponto per rimproverarli per i fatti di Antandro e difendersi nel modo più eccellente possibile

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contro le accuse riguardanti gli altri fatti. Arrivò prima ad Efeso e offrì un sacrificio ad Artemide. [2] [Quando finirà l'inverno che segue questa estate, sarà completato il ventunesimo anno].

&RVWLWX]LRQH�GHOOD�/HJD�'HOLR�$WWLFD�H�VXRL�DOOHDWL (478/ 7 a.C.)

����������suddivisione in cinque d istretti, Ionico, Ellespontio, Tracico, Cario, Insu lare

(Athenian Tribute Lists II, 12 = IG I. 3 269; e 17 = IG I. 3 274 per il 438/ 7 con 4 d istretti: Ionico, Insu lare, Ellespontio, Tracico).

�0(0%5,�'(//$�/(*$�'(/,2�²�$77,&$� $OOHDWL�LQVXODUL��dalla lista del 'tripode d i Platea'(escludendo le città d ella Lega Peloponnesiaca): Ateniesi, Egineti (solo dal 457), Ceii, Tenii, Nassii, Eretriesi, Calcidesi, Stiresi (Eubea), Citni, Sifnii. Dal 451 (liste sessagesime): Andrii, gli altri euboici, Mirina ed Efestia (Lemno), Micono, Siro, Renea. 'LVWUHWWR�LRQLFR: (36 città in origine): Chio, Efeso, Clazomene, Colofone, Cuma, Metimna e Mitilene (Lesbo), Mileto, Focea, Priene, Samo, Teo. 'LVWUHWWR�HOOHVSRQWLR�(29 città): Abido, Astaco, Cio. Cizico, Perinto, Selimbria, Bisanzio, Lampsaco, Tenedo. 'LVWUHWWR�FDULR�(24 città): Alicarnasso, Iaso, Cnido, Cos, Lindo, Camiro e Ialiso (Rodi). 'LVWUHWWR�WUDFLR�(33 città): Acanto, Mende, Olinto. Potidea, Samotracia, Taso. �75,%87,�'(//�$112��������(anno della defezione d i Bisanzio, ved i Tucid id e, I, 128 segg.) Esempio liste sessagesime (ll. 26-43). �+HOOHVSRQWLRV�>SKRURV@� 5 d racme Arpagiani 8 d racme e 2 oboli. Palaipercozi 5 d racme Neapolis degli Ateniesi (Pangeo) 33 d racme e 2 oboli Neandria 400 d racme Abid eni 16 d racme e 4 oboli Peseni 16 d racme e 4 oboli Percozi 8 d racme e 2 oboli Priapo 16 d racme e 4 oboli Sigei

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90 dracme Calcedonii 16 d racme e 4 oboli Ciani 16 d racme e 4 oboli 'DPQLRWHLFKLWDL� 16 d racme e 4 oboli 'LGXPRLWHLFKLWDL� 100 d racme Dardanii 3 d racme e 2 oboli Dard anii �HSu�SKRUjV�� 16 d racme e 4 oboli Lamponiei 1 d racma e 4 oboli Lamponiei �HSu�SKRUjV�� 2° FRORQQD�� 283 d racme 4 oboli [Tened ii] 33 d racme e 2 oboli P[ariani] 100 d racme [ Chersonesi] 16 d racme e 4 oboli [Alopeconnesi] 8 d racme e 2 oboli [Sestii

6(12)217(��$QDEDVL�OLEUR�9,,���7UDG��&��&DUHQD�� I. Questi avvenimenti allarmarono Farnabazo. Nel timore che l'esercito invadesse le sue terre, egli mandò alcuni messi all'ammiraglio Anassibio, che si trovava in quei giorni a Bisanzio, pregandolo di allontanare dall'Asia, trasferendolo sull'altra sponda, quell'esercito. In cambio gli promise di prestargli qualsiasi servizio di cui avesse bisogno. Anassibio convocò a Bisanzio generali e capitani, e li assicurò che, se passavano lo stretto, non sarebbe mancato un soldo per le truppe. I generali promisero di fargli sapere la risposta non appena presa una decisione; ma Senofonte annunziò che per quanto lo riguardava era ormai in procinto di abbandonare l'impresa e deciso a salpare per tornarsene a casa. Pregato però da Anassibio di effettuare la traversata dello stretto insieme ai compagni, e poi andarsene per i fatti suoi, promise di fare come lui voleva. Anche Seute il Trace mandò a Senofonte Medosade e lo pregò di unire le sue alle sollecitazioni dei colleghi, per indurre i soldati a passare lo stretto. Non si sarebbe pentito, lo assicurò, di fargli questo favore. « L'esercito, - rispose Senofonte, — attraverserà certamente lo stretto, e Seute non dovrà pagare per questo né me né altri. Ciò fatto, però, io me ne andrò per i fatti miei, ed egli tratti a suo piacimento con chi sarà rimasto e potrà trattare ». Dopo ciò i soldati passarono tutti quanti a Bisanzio; e Anassibio non solo non pagò il soldo, ma fece avvertire le truppe da un araldo che dovevano raccogliere armi e bagagli per trasferirsi fuori della città, ove era sua intenzione di farne il computo prima di rimandarli a casa. I soldati ne furono contrariati, poiché non disponevano del denaro necessario a provvedersi di cibo per il viaggio, e ripiegarono i bagagli di

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malumore. Senofonte, che era entrato in rapporti di ospitalità col governatore Cleandro si recò a salutarlo in vista della partenza. Ma Cleandro lo sconsigliò di muoversi. « Non farlo, - disse. - Diversamente ti attirerai addosso qualche accusa. C'è già chi incolpa te, se il ritorno dell'esercito avviene a rilento ». « Ma la colpa non è mia, - replicò Senofonte. - Sono i soldati stessi, che esitano a salpare, perché mancano di provviste ». « Comunque sia, - disse Cleandro, - il mio consiglio è di uscire dalla città con i soldati, come se anche tu ti volessi mettere in viaggio con loro.Una volta usciti, allora potrai abbandonarli ». « È meglio andare da Anassibio, - rispose Senofonte, -e regolare la cosa con lui ». Così fecero e ne parlarono ad Anassibio. Anche Anassibio lo sollecitò a fare come aveva detto Cleandro. L'esercito doveva uscire al più presto dalla città con i bagagli fatti. Chi fosse mancato alla rassegna e al conteggio, aggiunse, se ne sarebbe rammaricato. Perciò la città fu evacuata. I generali in testa, dietro di loro la truppa compatta, uscirono tutti fino all'ultimo uomo, se si eccettuano pochi. Sulla porta c'era Eteonico, attento a chiudere i battenti e a mettere la sbarra, non appena l'ultimo soldato fosse uscito. Ciò fatto, Anassibio convocò generali e capitani, e disse: « Rifornitevi di viveri prendendoli dai villaggi dei Traci. Vi troverete in abbondanza orzo, grano e quanto altro vi occorre, quindi potrete dirigervi alla volta del Chersoneso. Là Cinisco vi assolderà ». Alcuni soldati, che udirono queste parole, oppure i capitani, le comunicarono all'esercito. E già i generali cercavano di sapere qualcosa su Seute, cioè se era da considerarsi un amico o un nemico, oppure se per andare nel Chersoneso conveniva attraversare il Monte Sacro ovvero aggirarlo, inoltrandosi nella Tracia. Ma mentre discutevano, i soldati diedero di piglio alle armi e si lanciarono di corsa verso le porte, decisi a penetrare nuovamente nell'interno delle mura. Eteonico e la gente che era con lui, visti venire di corsa gli opliti, chiudono i battenti e mettono la spranga. I soldati si misero a battere sulla porta, protestarono d'essere vittime di un'iniquità inaudita, che li esponeva alla mercé dei nemici, e minacciarono di spezzare la porta, se non fosse stata aperta spontaneamente dall'interno; oppure partirono di corsa verso il mare, superarono il muro attraverso il molo e di lì entrarono in città, mentre i compagni rimasti nell'interno, come si accorgono del trambusto che avviene alla porta, spezzano con le asce i chiavistelli e spalancano i bat-tenti. Il grosso irrompe. Senofonte, nell'assistere al fatto, ebbe timore che l'esercito si desse al saccheggio, causando danni irreparabili alla città, oltre ché alla sua persona e agli stessi soldati. Lanciatesi dunque di corsa, penetrò all'interno delle mura insieme all'orda. I Bisanzi, alla vista dell'esercito che irrompeva violentemente, abbandonarono il mercato. Chi fuggì alle navi, chi a casa; chi era per avventura in casa, ne usciva; alcuni tiravano le triremi in acqua, cercando scampo su di esse; tutti si credevano spacciati, come se la città fosse caduta in mano al nemico. Eteonico dal canto suo si rifugiò nella cittadella, Anassibio scese di corsa al mare, fece il periplo del porto fino all'acropoli e di là mandò a chiamare immediatamente la guarnigione di Calcedone, parendogli insufficienti ad arginare gli elleni i soli custodi dell'acropoli. Appena i soldati scorsero Senofonte, si precipitarono in massa verso di lui e gli dissero: « È il tuo momento, o Senofonte. Mostra quanto vali. Tieni una città, possiedi triremi, denaro, un grande esercito. Se lo volessi, ora tu potresti renderti utile a noi, e noi ti faremmo grande ». « Sì, sì, - risponde Senofonte col proposito di acquietarli. - Dite bene voi, e io farò come voi dite. Ma se questo è il vostro desiderio, schieratevi in ordine al più presto ».

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Dopoché Senofonte trasmise questo comando e incitò tutti a diffonderlo e a schierarsi ordinatamente, gli opliti si ordinarono con rapidità in fila per otto, e i peltasti anadarono a disporsi dì corsa alle ali, passando lungo le file dei compagni. Tutto fecero da soli. Il sito più indicato per mettere in fila un esercito è il cosiddetto Tracio, ove non sorgono caseggiati e il terreno è tutto uguale. Una volta deposte a terra le armi e ammansiti gli animi Senofonte arringa l'esercito con queste parole: « Non mi sorprende il vostro furore, o prodi soldati, né l'impressione che avete, di essere stati raggirati ne! più atroce dei modi. Tuttavia dovete anche valutare le conseguenze, qualora, assecondando il nostro rancore, ci vendicassimo dell'inganno di cui siamo vittime sui lacedemoni presenti in città e saccheggiassimo la città stessa, di nulla colpevole. Ciò equivarrà a una dichiarazione di guerra contro Sparta e i suoi alleati. E come sarà questa guerra? Lo potete immaginare voi stessi, se soltanto richiamate alla vostra memoria gli avvenimenti di cui foste voi personalmente testimoni or non è molto. Quando noi ateniesi entrammo in guerra con i Lacedemoni e i loro alleati, avevamo non meno di trecento triremi in mare o negli arsenali, disponevamo di somme ingenti, depositate in città, e di entrate annuali non inferiori ai mille talenti, in parte esatti all'interno, in parte fuori dai nostri confini; dominavamo tutte le isole, possedevamo un grande numero di città tanto in Asia quanto in Europa, fra le altre questa medesima Bisanzio che ora ci ospita: eppure subimmo una disfatta, tutti sapete quale. Cosa v'immaginate che capiterebbe ora a noi? I Lacedemoni conservano gli antichi alleati di allora; in più si è aggiunto a loro il blocco degli Ateniesi e di tutte le città a quei tempi schierate al fianco degli Ateniesi. E Tissaferne e tutte le altre popolazioni barbariche della costa, non ci sono nemiche? Inimicissimo addirittura ci è poi il re dell'interno, contro cui ci siamo mossi col proposito di togliergli il trono e di ucciderlo, se riuscivamo. Chi sarebbe tanto folle, da presumere che la vittoria sarebbe nostra, di fronte a una simile coalizione? «Non perdiamo la testa, in nome degli dèi, e non perdiamo l'onore muovendo guerra ciascuno alla propria patria, ai propri amici e parenti. Essi abitano tutti nelle città che a buon diritto scenderanno in campo contro di noi: a buon diritto, perché, dopo aver ricusato di sottomettere qualsiasi città barbarica, sebbene la facessimo da padroni in quelle terre, ora ci apprestiamo a saccheggiare da cima a fondo la prima città ellenica in cui abbiamo messo piede. Io per me mi auguro di essere sepolto diecimila tese sotto terra prima di vedere compiuto dalle vostre mani un simile misfatto; e a voi consiglio di cercare giustizia ubbidendo a coloro che capeggiano gli Elleni, se siete elleni; e quand'anche non riusciste in questa impresa, non impor-tano i torti: ciò che importa è di non perdere l'Ellade. Propongo dunque di mandare qualcuno da Anassibio ad avvertirlo che siamo rientrati in città senza alcuna intenzione di abbandonarci a violenze, ma nella speranza di ottenere qualche aiuto da lui e dagli abitanti. Se non ne otterremo, partiremo bensì, ma per ubbidienza alla sua autorità, non perché raggirati ª� La proposta fu approvata. Furono incaricati dell'ambasciata Ieronimo l'Eleo, Euriloco l'Arcade e Filesio l'Acheo, che si recarono da Anassibio a riferirgli quanto aveva suggerito Senofonte di dire. Mentre i soldati erano ancora seduti in terra, si avvicina un certo Ceratada di Tebe, che non era esule dall'Ellade, ma girava qua e là in cerca di un comando militare e offrendosi come generale, se qualche città o nazione ne avesse bisogno. Si avvicinò dunque ai soldati e si dichiarò disposto a guidarli in quella parte della Tracia che si chiama Delta, ove li attendeva un bottino abbondante e pregiato. Durante il tragitto, fino a destinazione, avrebbe fornito lui cibi e bevande in abbondanza per tutti. Proprio in quel momento tornò anche la delegazione inviata ad Anassibio, con questa risposta: i soldati non si sarebbero pentiti della loro

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mansuetudine; egli avrebbe portato a conoscenza del proprio governo il loro gesto, e da parte sua avrebbe cercato di aiutarli in quanto poteva. Così, all'udire le proposte di Ceratada e la risposta di Anassibio, i soldati accettarono come loro generale il primo, varcarono la cinta delle mura e uscirono dalla città. L'intesa con Ceratada era questa: che il generale sarebbe tornato l'indomani fra le truppe con animali per il sacrificio, l’�indovino, cibi e bevande per tutti. Appena uscito l'esercito, Anassibio fece chiudere di nuovo le porte e diffuse un bando, in cui minacciava di vendere come schiavo qualunque soldato fosse stato preso entro la cerchia delle mura. L'indomani arrivò Ceratada con le vittime e l'indovino. Lo seguivano venti uomini carichi di farina d'orzo, altri venti di vino, tre di olive, uno con un fardello di agli, che più grande non avrebbe potuto portare, e uno di cipolle. Deposto tutto il materiale, pronto alla distribuzione, Ceratada si mise a sacrificare. Senofonte dal canto suo mandò a chiamare Cleandro e lo pregò di ottenergli da Anassibio il permesso di rientrare in Bisanzio per prendervi una nave e salpare. Cleandro, al suo ritorno, narrò di aver ottenuto a fatica il permesso: Anassibio aveva fatto presente l'inopportunità che Senofonte entrasse nell'abitato, finché i soldati erano vicini alle mura, e i Bisanzi erano ferocemente discordi fra di loro. « In conclusione, però, ti sollecita a varcare le mura, - annunciò Clearco - a condizione che accetti d'imbarcarti in sua compagnia ». Senofonte si congedò senz'altro dai soldati ed entrò in Bisanzio con Cleandro. Ceratada, dal canto suo, il primo giorno non trovò le vittime favorevoli e non distribuì nulla ai soldati. Il se-condo aveva già disposto le vittime intorno all'altare e si era già incoronato col proposito di sacrificare, quando sopraggiunsero Timasione di Bardano, Neone di Asine e Cleanore di Orcomeno, che gli dissero: « È inutile che tu faccia sacrifici. Non capeggerai nessuna spedizione, se prima non distribuirai i viveri ». I viveri vennero distribuiti per suo ordine. Ma siccome molti gliene mancavano, affinchè i soldati avessero tutti da mangiare per una sola giornata, prese su le sue vittime e se ne andò, rinunciando al comando della spedizione. II. Rimasero alla testa dell'esercito Neone di Asine, Frinico, Filesio e Santicle, achei, e Timasione di Bardano. Essi si portarono in alcuni villaggi della Tracia attorno a Bisanzio e vi posero il campo. Tra i generali non regnava però la concordia. Cleanore e Frinisco desideravano portare l'esercito a Seute, di cui avevano sposato la causa quando ne avevano ricevuto in dono l'uno un cavallo, l'altro una donna. Neone tirava invece verso il Chersoneso, poiché supponeva che, se si fosse arrivati in un territorio dominato dai Lacedemoni, egli avrebbe ottenuto il comando supremo dell'esercito. Timasione, infine, bramava di ripassare lo stretto e tornare in Asia, nella speranza di rientrare in tal modo a casa sua. E questo era anche il desiderio dei soldati. Il tempo si consumava dunque in discussioni inutili. Molti soldati vendettero senz'altro le armi nelle campagne e salparono con mezzi di fortuna; oppure le regalarono e si confusero tra gli abitanti delle città. Anassibio gioiva di queste notizie: dunque l'esercito si sfaldava, e Farnabazo, pensava, sarebbe stato estremamente soddisfatto di questo risultato. Salpato da Bisanzio, Anassibio incontra a Cizico il nuovo governatore di Bisanzio, Aristarco, successore di Cleandro. Da lui apprende come fosse imminente anche la comparsa del nuovo ammiraglio, Polo, nelle acque dell'Ellesponto, e ordina senz'altro ad Aristarco di mettere in vendita tutti i soldati di Ciro rimasti a Bisanzio. Bisogna sapere che Cleandro non solo non ne aveva venduto schiavo nessuno, ma per la sua grande pietà si era preso cura degli ammalati, costringendo gli abitanti ad accoglierli in casa, mentre Aristarco, non appena giunto, ne vendette almeno quattrocento. Fatto scalo, poi, a Pario, Anassibio mandò

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un messo a Farnabazo per richiamarlo al rispetto degli accordi. Ma Farnabazo ormai aveva saputo dell'arrivo a Bisanzio del nuovo governatore, Aristarco, e che Anassibio non era più a capo della flotta; quindi non si diede più alcun pensiero di lui e riprese con Aristarco le trattative già intavolate col predecessore sulla sorte riservata all'esercito di Ciro. '' Anassibio, ciò visto, fa chiamare Senofonte e gli ordinò di ritornare nuovamente all'esercito il più presto possibile, con qualsiasi mezzo e sistema. Là giunto, radunati i soldati dispersi, quanti più può, ricostituisca l'armata, la conduca a Perinto per la via costiera e di qui la traghetti in Asia. A tale scopo mette a sua disposizione un vascello con trenta remi, gli consegna una lettera per il popolo di Perinto e lo fa accompagnare da un gentiluomo, che imponga ai Perinti di fornire a Senofonte una cavalcatura affinchè possa ritrovare al più presto possibile i suoi soldati. Senofonte attraversa lo stretto e raggiunge l'esercito L'accoglienza delle truppe fu festosa. Si misero subito ai suoi ordini, prevedendo di traghettare dalla Tracia in Asia. Senonché la notizia dell'arrivo di Senofonte giunse all'orecchio di Seute, che gli invia nuovamente per mare Medosade. « Fa' all'esercito tutte le promesse che stimi necessarie, gli dice, per convincerlo a mettersi al mio servizio, e portalo qui, di grazia ». Senofonte rispose che era impossibile attuare le sue richieste. Medosade ne prese atto e ripartì. Frattanto gli elleni arrivavano a Perinto. Mentre il resto dell'esercito si sistemava, compatto, lungo le mura della città, Neone si staccò e andò ad accamparsi in disparte con un raggruppamento di circa ottocento uomini. Senofonte s'interessò immediatamente di ottenere le imbarcazioni necessarie per passare al più presto lo stretto. Ma in quella giunse da Bisanzio con due triremi Aristarco, il governatore, che, subornato da Farnabazo, proibì agli armatori di trasportare le truppe, poi si presentò all'esercito e vietò ai soldati di trasferirsi in Asia. Senofonte protestò di averne avuto l'ordine da Anassibio. « Mi ha mandato qui proprio per questo », disse. Aristarco rispose: « Anassibio non è più l'ammiraglio della flotta, e il governatore in questo paese sono io. Che qualcuno di voi si faccia sorprendere al largo, e lo colerò a picco senza remissione ». Ciò� � detto, s'incamminò verso le mura. Il giorno seguente convocò in città i generali e i capitani dell'esercito. Questi erano ormai prossimi alle mura, quando Senofonte avvertito da una persona che, appena entrato in città, sarebbe stato arrestato e suppliziato sul posto, o consegnato addirittura a Farnabazo. Udita la notizia, Senofonte manda avanti i colleghi, col pretesto che aveva intenzione di fare un sacrificio, torna indietro e si mette a sacrificare per conoscere se gli dèi erano favorevoli a che tentasse di condurre l'esercito a Seute. Si rendeva conto ora dei pericoli che comportava il passaggio dello stretto, poiché c'era chi era deciso a impedirlo, e costui disponeva di navi da guerra. D'altra parte non voleva andare a farsi chiudere nel Chersoneso, ove l'esercito, per somma penuria di viveri e di cose, sarebbe stato costretto a porsi al servizio del governatore del luogo, senza poter ottenere in cambio il necessario per vivere. Mentre era immerso in questi pensieri, tornarono i generali e i capitani. Riferirono che Aristarco per ora li aveva congedati, ma aveva fissato loro un nuovo appuntamento per il pomeriggio. Ciò rese ancora più evidente la macchinazione di quell'uomo. D'altra parte le vittime parevano assicurare una marcia tranquilla fino a Seute tanto per Senofonte quanto per l'esercito. Senofonte prese dunque con sé il capitano Policrate di Atene, un uomo di fiducia per ciascuno dei generali, eccetto Neone, e si recò di nottetempo ai quartieri di Seute, che distavano di là sessanta stadi. Quando furono nei pressi, incontrarono qualche fuoco solitario,

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sicché Senofonte in un primo tempo pensò che Seute si fosse trasferito altrove. Ma poi intese del brusio, e gli giunsero alle orecchie le voci dei soldati di Seute, che si segnalavano la presenza dei forestieri. Allora capì lo scopo dei fuochi accesi da Seute innanzi agli avamposti: le guardie rimanevano nell'ombra, nessuno le vedeva né sapeva quante fossero e dove; viceversa chi si avvicinava non sfuggiva alla loro osservazione, anzi era ben visibile attraverso la luce. Accortosi di ciò, Senofonte manda innanzi l'interprete che aveva portato seco, con l'incarico di annunciare a Seute l'arrivo di Senofonte, desideroso d'incontrarsi con lui. Le guardie vollero sapere se si trattava del gentiluomo ateniese che faceva parte dell'esercito degli elleni. Appena ebbero dall'interprete una risposta affermativa, balzarono in groppa ai cavalli e si dileguarono nelle tenebre. Non passò molto, ed ecco arrivare forse duecento peltasti, che presi in mezzo Senofonte e compagni, li condussero da Seute. Questi abitava in una torre strettamente sorvegliata. Ai piedi dell'edificio sostavano alcuni cavalli in cerchio coi morsi alla bocca: per timore di un attacco di sorpresa durante il giorno lasciava pascolare i cavalli, ma la notte si riguardava, tenendoli pronti. A quanto pare anche un antenato di Seute, Tere, aveva riunito un grande esercito, ma molti uomini aveva perso ed era stato spogliato delle salmerie ad opera degli abitanti del paese, cioè i Tini, che hanno fama di essere guerrieri straordinari, specialmente di notte. Quando furono ai piedi della torre, Seute invitò Senofonte a entrare in compagnia di due sole persone di sua scelta. Poi che furono dentro, si scambiarono un affettuoso saluto e brindarono alla salute gli uni degli altri entro corni pieni di vino, secondo l'usanza dei Traci. Presenziava alla riunione, dalla parte di Seute, anche Medosade, suo abituale ambasciatore. Terminati i convenevoli, Senofonte cominciò col dire: « O Seute, tu mi hai mandato una prima volta Medosade, che è qui presente, a Calcedone. Per bocca sua mi pregasti di unire le mie alle sollecitazioni dei colleghi, si da indurre l'esercito a passare lo stretto, venendo dall'Asia in Europa. In caso di riuscita, mi assicurasti eterna riconoscenza. Non è forse vero? », chiese, rivolto a Medosade, e Medosade assentì. « Una seconda volta, - proseguì Senofonte, - Medosade venne a trovarmi, dopo che ebbi attraversato nuovamente lo stretto e da Pario mi ricongiunsi all'esercito, mi fece nuove promesse: se ti avessi condotto l'esercito, non soltanto mi avresti trattato alla stregua di un amico, o

di un fratello, ma mi avresti addirittura concesso in appannaggio le terre del litorale che ti appartengono. Non mi dicevi così? », chiese di nuovo rivolto a Medosade. E Medosade convenne con lui ancora una volta. « Ebbene, - riprese Senofonte, - ripeti ora a Seute cosa ti risposi la prima volta, a Calcedone ». «Mi rispondesti che l'esercito sarebbe andato a Bisanzio senza che si dovesse pagare per questo te o altri. Una volta passato lo stretto, dicevi, avresti ripreso la tua strada».« E quali furono le mie parole la seconda volta, quando mi venisti a trovare a Selimbria? ». « Dicesti che non potevi accontentarci, e che l'esercito, una volta giunto a Perinto, sarebbe tornato in Asia ». «Esattamente, - concluse Senofonte. - E ora eccomi qui di persona, in compagnia di uno dei generali dell'esercito, Frinisco, il gentiluomo che vedete al mio fianco, e di uno dei capitani, Policrate, che è quest'altro. Fuori poi stanno i fedelissimi degli altri generali, uno per ciascuno, tranne che per Neone il Laconico. Puoi dunque far intervenire anch'essi nelle trattative, se vuoi essere più sicuro. Quanto alle armi, va' tu, o Policrate ad avvertirli a nome mio che le lascino fuori; anzi, deponi tu stesso la tua daga, prima di rientrare ». A queste parole Seute dichiarò che non diffidava di nessun ateniese: sapeva bene che appartenevano alla sua stessa stirpe, e li riteneva suoi amici e simpatizzanti. Furono così introdotti gli altri, di cui si richiedeva la presenza. La prima domanda che Senofonte pose a Seute riguardò l'impiego che voleva fare dell'esercito.

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Rispose: «Mio padre Mesade era signore dei Melanditi, dei Tini, dei� Tranipsi. Poi le condizioni degli Odrisi peggiorarono. Egli fu cacciato e morì di malattia; io venni allevato, orfano, alla corte del re attuale, Medoco. Cresciuto, non potei vivere avendo sempre sotto gli occhi i segni dell'ospitalità altrui. Un giorno, a tavola, andai a sedermi sul suo panchetto e lo pregai supplichevolmente di concedermi tutti gli uomini che poteva: avrei tentato di punire chi lo aveva espulso dal regno e di farmi una vita, ove non avessi sempre sotto gli occhi la sua tavola, appunto. Egli esaudì la mia supplica e mi concesse uomini e cavalli, gli stessi che vedrete qui, non appena si farà giorno. Ora voi depredando alla loro testa le stesse terre mie e dei miei avi; mentre con la vostra assistenza, e�il favore degli dei penso di poter ricuperare facilmente il trono. Di questo ho bisogno da voi ». « Ma tu, - chiese Senofonte, - quale paga daresti ai soldati? e ai capitani? e ai generali? Devi dirlo, affinché i miei compagni possano annunziarlo agli altri ». Seute promise un ciziceno per ogni soldato, due per i capitani, quattro per i generali, terra a volontà, animali da tiro e una fortezza sul mare. « Supponiamo ora, - chiese di nuovo Senofonte, - che�malgrado ogni sforzo, il nostro tentativo fallisca per il timore dei Lacedemoni: sei disposto a dar asilo sul tuo suolo a quanti desiderino rifugiarvisi? » « Anzi, - rispose Seute, - li considererò come miei fratelli, dividerò con loro la mia tavola e tutte le conquiste che insieme faremo. A te poi, o Senofonte, darò mia figlia in sposa, comprerò la tua, secondo l'usanza dei Traci, se ne hai una, e ti assegnerò come residenza Bisante, la località più bella che io posseggo sul mare ª� III. Una stretta di mano, e gli elleni si allontanarono. Prima del far del giorno erano di ritorno al campo, ove ciascuno fece il suo rapporto a chi lo aveva mandato. A giorno fatto, poi, Aristarco convocò nuovamente i generali presso di sé. Essi decisero di lasciar cadere il suo invito e di radunare invece l'esercito a parlamento. Tutte le truppe risposero alla chiamata, eccetto quelle di Neone, lontane una decina di stadi dal luogo del convegno. Davanti alle milizie radunate Senofonte si alzò a parlare e disse: « O prodi, come veleggeremo per i fatti nostri, se Aristarco, che dispone di triremi, ce lo impedisce? Sarebbe pericoloso davvero per noi montare su una nave. Aristarco vuole invece che andiamo nel Chersoneso, aprendoci via con la forza attraverso il Monte Sacro. Se ci riesce l’impresa e arriviamo alla meta, dice, non vi farà più vendere quali schiavi, come fece a Bisanzio, non giocherà più d'astuzia nei vostri confronti, ma vi darà una paga e non vi lascerà più sprovvisti del necessario, come ora. Queste le sollecitazioni di Aristarco. D'altro canto c'è Seute, che promette grandi benefici, se andate a porvi al suo servizio. Ma inizialmente considerate se vi convenga decidere la vostra condotta seduta stante, oppure dopo essere andati alla cerca di viveri. Il mio parere è di tornare ai villaggi, perché là gli abitanti, inferiori a noi di forze, ci lasciano predare, mentre qui nessuno ci concede viveri senza denaro, e denaro per comprarne non ne abbiamo. Una volta provvisti del necessario, potremo ascoltare ciò che si vuole da noi e scegliere ciò che sembra a noi preferibile. Chi è di questo parere, alzi la mano ». Tutti l'alzarono. « Ora andate, - concluse Senofonte, - ripiegate i bagagli, e, quando sarà diramato l'ordine, mettetevi in marcia dietro ai vostri comandanti ». Ciò detto, Senofonte si mise alla loro testa, e tutti lo seguirono. Neone, con altre persone inviate da Aristarco, cercavano di persuaderli a tornare indietro, ma nessuno diede loro retta. Avevano percorso una

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trentina di stadi, quando incontrarono Seute. Senofonte, che lo vide, lo invitò ad avvicinarsi a cavallo, affinchè fossero molti, moltissimi, se possibile, a udire ciò che riteneva necessario dirgli. Seute si avvicinò, e Senofonte disse: « Siamo diretti a una località, ove troveremo cibo per l'esercito. Là ascolteremo le profferte tue e di Aristarco, poi sceglieremo quelle che a nostro giudizio saranno più convenienti. Se ci guiderai tu stesso dove si trovano viveri più abbondanti, ci considereremo legati a te con vincoli di ospitalità ». « Ma certo, - rispose Seute. - Io conosco molti villaggi, "uno addosso all'altro, zeppi tutti di cibarie, e così vicini la strada da percorrere vi renderà gustosa la colazione ». « Avanti dunque », disse Senofonte. Giunsero ai villaggi nel pomeriggio. Là Seute disse innanzi alle truppe riunite: « Io vi domando, o signori, di compiere con me una spedizione militare. Prometto per ciò un ciziceno a ogni soldato, la paga d'uso a capitani e generali; in più ricompense ai meritevoli. Trarrete il cibo e le bevande dal territorio che attraverseremo, come oggi, ma tutto il bottino che faremo sarà mio, e io lo venderò per avere di che pagarvi. Penseremo noi a inseguire e scovare i fuggiaschi e i disertori; contro i nemici invece che ci resisteranno in campo, chiediamo l'ausilio della vostra forza per domarli». Chiese Senofonte: « Fino a quale distanza dal mare esigi che l'esercito ti segua? ». Egli rispose: « Mai a più di sette giorni di strada, abitualmente a meno ». A questo punto fu data a chiunque lo volesse la facoltà di parlare. Molti si espressero concordemente in favore delle proposte di Seute, a loro giudizio apprezzabili sotto ogni punto di vista. Era inverno, di tornare a casa c'era in tutti un grande desiderio, ma nessuna possibilità di approdarvi per mare; attendere la buona stagione da amici in terre amiche non si poteva, perché si sarebbe dovuto comprare il cibo per campare, mentre il soggiorno e le razzie in terra nemica erano meno rischiose al fianco di Seute, che da soli. A tutti questi vantaggi si aggiungeva una paga: era un'autentica fortuna, no? Così si espressero gli oratori. Poi Senofonte invitò chi voleva ribattere a parlare; diversamente avrebbe messo la proposta ai voti. Nessuno si oppose. Mise ai voti la proposta, e quando fu approvata, comunicò senz'altro a Seute che l'esercito si met-teva in campagna con lui. Prese queste decisioni, il grosso si attendò, suddiviso in vari reparti; generali e capitani invece furono invitati a pranzo da Seute, che aveva i suoi quartieri in un villaggio vicino. Alla porta, ove attesero di essere introdotti nella sala da pranzo, trovarono un certo Eraclide di Maronea Costui prese ad avvicinare uno dopo l'altro tutti coloro che a suo giudizio avevano qualcosa da dare a Seute, cominciando�da alcuni signori di Pario, che erano venuti per ottenere l'alleanza di Medoco, re degli Odrisi, e portavano doni da offrire a lui e alla moglie. « Medoco, - disse loro, — abita nell'interno, a dodici giorni di strada dal mare, mentre Seute, ora che ha preso al suo servizio l'esercito che staziona qui attorno, sarà presto signore del litorale e vostro vicino, in grado di farvi del bene come del male. Siate furbi dunque: date a lui i doni che portate, e vi troverete meglio che dandoli a un Medoco così lontano ». In questo modo li raggirò, poi si avvicinò a Timasione di Bardano. Costui, gli avevano detto, possedeva coppe e tappeti persiani; quindi si mise a raccontargli che vigeva l'usanza, per chi era invitato a pranzo da Seute, di fargli qualche dono. « Pensa, - disse, - che se Seute diviene signore di questa terra, sarà in grado di ricondurti in patria come di farti ricco sul posto ». Rivolgendo, a tutti coloro che avvicinava, simili esortazioni, si accostò anche a Senofonte, cui disse: « Tu poi sei nativo di una grandissima città, e il tuo nome ha un grandissimo prestigio per Seute. D'altro canto

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probabilmente aspiri alla signoria di qualche città, che già fu in mano di altri vostri connazionali, e di terre in questo paese. Non ti conviene dunque di rendere a Seute i più splendidi omaggi? È un consiglio che ti do per il tuo bene. So per certo che quanto maggiori saranno i doni che gli farai, tanto maggiori saranno i benefici che ne ricaverai ». Senofonte, all'udire questo discorso, si disperò, poiché nella traversata da Pario non aveva portato con sé che un servitore e il minimo indispensabile per il viaggio. Ma poi furono introdotti nella sala da pranzo: i potentati dei Traci presenti, i generali e i capitani degli elleni, gli ambasciatori inviati da varie città. Quando furono seduti in cerchio e pronti a mangiare, vennero portati dei tavolini a tre gambe, una ventina, che servivano per tutti, carichi di porzioni di carne e grossi pani lievitati e infilzati sopra la carne. I tavolini erano collocati specialmente davanti agli ospiti, poiché vigeva un'usanza: e Seute la mette in pratica per primo, prendendo i pani disposti davanti a lui e spezzandoli in piccoli bocconi, che poi gettava agli invitati, secondo il suo capriccio. Similmente fece della carne, tenendone per sé soltanto quanto bastava a gustarla, e altrettanto facevano gli altri ospiti di riguardo che avevano davanti uno dei tavolini. C'era però un certo Arista, nativo dell'Arcadia, mangiatore formidabile, il quale, anziché ripartire le vivande, afferrava con le mani un pane intero, che poteva forse essere tre chenici, si metteva le carni sulle ginocchia e cosi banchettava. Quando cominciò la distribuzione del vino, che venne servito entro corni, tutti ne presero uno. Arista, arrivato che fu da lui il coppiere col corno, gli disse, indicando Senofonte che aveva terminato di mangiare: « Dallo a lui: è già disoccupato, io non ancora ». Seute lo udì e chiese al coppiere cosa dicesse l'ospite. Il coppiere, che conosceva la lingua ellenica, glielo ripetè ad alta voce. E allora si che si fece una bella risata. I brindisi si protrassero a lungo. A un certo punto entrò in sala un uomo, un trace, portando un cavallo bianco. Afferrò con la mano un corno pieno di vino e disse: « Brindo alla tua salute, o Seute, e ti faccio dono di questo destriero, quando sarai in groppa a lui, nessun nemico che tu voglia catturare potrà sfuggirti, e�di nessun nemico che tu voglia fuggire proverai paura ». Un altro individuo portò un fanciullo, e glielo regalò, brindando con parole analoghe, e cosi un terzo, che gli regalò alcune vesti per sua moglie. Un brindisi fece anche Timasione, mentre offriva all'ospite una tazza d'argento e un tappeto del valore di dieci mine. Un certo Gnesippo di Atene s'alzò e fece un elogio dell'antica usanza, per cui i ricchi onoravano il re presentandogli doni, e il re faceva doni ai meno abbienti. « Cosi, concluse, è concesso a me pure farti onore, offrendoti alcuni doni ». Senofonte, che era seduto proprio al posto d'onore, cioè sul panchetto più vicino al re, si sentiva imbarazzato, quando venne anche il momento che Eraclide ordinò al coppiere di porgere a lui il corno. Ormai era un po' brillo; ma si alzò arditamente con il corno in mano e disse: « Io, o Seute, ti faccio dono di me stesso e di questi miei compagni; noi saremo tuoi amici fedeli. E nessuno si offre a malincuore, anzi, provano tutti una brama anncor più grande della mia, di esserti amici. Essi ti stanno innanzi non perché desiderino qualcosa da te, ma per offrire a te se stessi, non disdegnando per il tuo servizio fatiche e rischi. Col loro aiuto conquisterai, se gli dèi lo vogliono, un grande paese: riavrai quello che fu la culla dei tuoi avi e nuove terre vi aggiungerai, acquisterai una moltitudine di cavalli, di uomini e belle dame, che verranno a te spontaneamente, recandoti doni, anziché essere frutto di rapina ».

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Seute si alzò egli pure e bevve nel corno sino in fondo assieme a Senofonte, versandosi alla fine, come anche l'altro fece, le ultime gocce sulle vesti. Entrò poi gente che recava, in luogo dei flauti, certi corni, simili a quelli che si usano per i segnali, e trombe di cuoio crudo, impiegate per battere il tempo, come si fa con l'arpa. Seute in persona si alzò e lanciò un grido di guerra, spiccando un balzo come se dovesse evitare un proiettile a lui diretto, con una leggerezza meravigliosa. Entrarono pure alcuni buffoni. Quando il sole era ormai vicino al tramonto, gli elleni si alzarono e dichiararono che era tempo di disporre le sentinelle per la notte e trasmettere la parola d'ordine. Pregarono Seute di avvertire i suoi traci che non entrassero durante la notte nel campo ellenico: «La Tracia, -spiegarono, - è nostra nemica, mentre voi siete nostri amici ». Seute si alzò con loro e li accompagnò all'uscita senza dare alcun segno di ebbrezza. Quando furono all'esterno, chiamò in disparte i generali e disse loro: « O signori, gli avversari non sanno ancora nulla della nostra alleanza. Attacchiamoli prima che abbiano preso le loro precauzioni per non farsi cogliere alla sprovvista, e si siano preparati a respingere il nostro attacco. Avremo così la massima probabilità di catturare prigionieri e bottino». I generali elogiarono concordemente il piano e lo pregarono di dirigere le operazioni. «Preparatevi, rispose, e attendete. Quando sarà il momento, verrò io stesso al vostro campo, prenderò al mio seguito voi e i peltasti, e vi guiderò, con l'aiuto degli dèi, all'assalto del nemico ». Senofonte però lo avvertì: « Qualora dovessimo marciare di notte, ti converrà vedere se non sia più opportuno che la colonna si disponga secondo l'ordine usato dagli elleni. Nelle marce diurne in testa avanza��l'arma che meglio conviene alla struttura del terreno, cioè ora la fanteria pesante, ora la leggera, ora la cavalleria; ma di notte gli elleni usano porre in testa il reparto più lento dell'esercito. Così la colonna rimane più compatta, e non avviene che i soldati se ne stacchino inavvertitamente. Quando infatti i reparti perdono contatto fra di loro, capita spesso che per ignoranza si gettino gli uni sugli altri, infliggendosi gravi perdite a vicenda». « Saggio consiglio, rispose Seute, mi adeguerò ai�vostri sistemi. Vi darò come guide gli uomini più anziani�ed esperti del paese e io vi seguirò in coda con la cavalleria, pronto a raggiungervi in testa ad ogni occorrenza». Come parola d'ordine fu scelta Atene, perché anche Seute era ateniese. E quando ebbero preso questi accordi, andarono a dormire. Verso mezzanotte apparve Seute con i suoi cavalieri armati di corazza e i peltasti in assetto di battaglia. Consegnò le guide, gli opliti partirono, dietro di loro s'avviarono i peltasti, poi, alla retroguardia, i cavalieri. A giorno fatto Seute percorse a cavallo la colonna, finché giunse in testa e lì elogiò il sistema degli elleni. « Spesso, - disse, — mi è accaduto durante una marcia notturna, compiuta anche con pochi uomini, di perdere di vista i fanti, rimanendo fra i cavalieri. Ora invece eccoci uscire dalla notte tutti ancora uniti, come deve avvenire. Però è tempo di fermarsi ormai. Riposate un poco. Io andrò avanti in esplorazione e sarò tosto di ritornoª� Così�dicendo spronò il cavallo, prese una strada che si addentrava fra i monti e giunse fin dove la neve si faceva alta. Osservò se la neve portava orme di uomini in un senso o nell'altro, ma la strada era intatta. Quindi tornò subito indietro e disse: «Signori, se un dio non si oppone, tutto andrà per il meglio: piomberemo sui nemici quando meno se l'aspetteranno. Lasciate che mi ponga io in testa con la cavalleria. Così potremo acciuffare chiunque avvistiamo e impedire che, fuggendo, segnali al nemico la nostra

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presenza. Voi tenetemi dietro. Se foste distanziati, seguite le orme dei cavalli. Al di là dei monti ci attendono villaggi in gran numero, ricchi e felici». A mezzogiorno Seute aveva già raggiunto la cresta. Osservò i villaggi ai suoi piedi, quindi tornò al galoppo verso gli opliti e disse: «È tempo di lanciare la cavalleria giù al piano, i peltasti nei villaggi. Voi seguiteli con la massima celerità per sostenerli, se incontreranno resistenza». Senofonte, ciò udito, smontò da cavallo. Seute gli chiese: «È il momento di muoversi in fretta, e tu smonti da cavallo. Perché?» «Non hai bisogno di me solo, rispose Senofonte, e gli opliti correranno più in fretta e volentieri, se mi ve-dranno procedere alla loro testa camminando come loro». Seute ripartì, seguito da Timasione con una quarantina di cavalieri ellenici. A sua volta Senofonte diramò l'ordine per i soldati inferiori ai trent'anni, più agili degli altri, di lasciare i ranghi e presentarsi a lui. Con loro partì di corsa, mentre Cleanore guidava il resto. Giunti che furono nei villaggi, si avvicinò al galoppo Seute, accompagnato da una trentina di cavalieri, e disse: «Tutto si è svolto come tu dicevi, o Senofonte: i nemici sono vinti, ma la mia FDYDOOHULD� q� partita all'inseguimento da sola, disperdendosi un po' dovunque. Temo che i superstiti si raccolgano in buon numero da qualche parte e ci facciano del male. D'altra parte conviene che qualcuno di noi resti nei villaggi, formicolanti di gente», «Io, replicò Senofonte, andrò a occupare con i miei uomini le alture. Tu comanda a Cleanore di stendere una linea di soldati intorno ai villaggi, attraverso la pianura». In questo modo fu raccolta una buona preda, circa mille schiavi, duemila buoi, diecimila capi di altro bestiame. E finalmente si rizzarono le tende. Il giorno seguente Seute fece bruciare i villaggi da cima a�fondo, senza lasciare in piedi una sola casa col proposito di incutere timore agli abitanti dei dintorni, quando avessero visto quale sorte li attendeva, se non gli facevano atto di sottomissione. Poi si ritirò. Mandò Eraclide a Perinto, ove vendere il bottino e farne soldi per pagare i soldati. Lui s'accampò con gli elleni nella piana dei Tini, evacuata in precedenza dagli abitanti, che erano fuggiti sui monti. Un alto strato di neve copriva il paese, e faceva un tale freddo, che la sera, quando portavano l'acqua per il pranzo, era gelata; lo stesso avveniva del vino nei recipienti. Molti elleni avevano il naso e le orecchie bruciate. Ben si comprese allora perché i Traci si avvolgono la testa e le orecchie in una pelle di volpe, portano camicie che coprono non soltanto il petto, ma anche le cosce, e quando montano a cavallo indossano, al posto di corti tabarri, mantelli lunghi fino ai piedi. Seute rilasciò alcuni prigionieri, affinchè andassero a dire alla gente fuggita sui monti di scendere alle proprie case e di fare atto di sottomissione; altrimenti avrebbero incendiato i villaggi e i granai, il che per loro significava la morte di fame. L'intimazione ebbe effetto: donne, bambini, vecchi scesero al piano, i giovani rimasero nei villaggi che sorgevano ai piedi delle montagne. Seute, come lo seppe, ordinò a Senofonte di radunare gli opliti più giovani e di mettersi in cammino dietro a lui. Partiti ch'era ancor notte, sul far del giorno fecero la loro comparsa nei villaggi. La maggior parte della popolazione riuscì a sottrarsi alla morte fuggendo sulle colline vicine; quanti caddero nelle mani dì Seute, furono abbattuti a colpi di giavellotto senza pietà. C'era nell'esercito un certo Epistene di Olinto, cui erano cari i fanciulli. Quando ne vide uno graziosissimo, adolescente appena, ornato d'un piccolo scudo, che stava per essere finito dagli uomini di Seute, si precipitò

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da Senofonte e lo supplicò d'intervenire in favore del fanciulletto. Senofonte avvicina Seute e lo prega di risparmiarlo per riguardo a Epistene, che ha un debole per i fanciulli. «Una volta, - gli racconta, - mise insieme una compagnia di ventura con l'unico criterio delle belle fattezze dei suoi uomini, cui non richiese altro; e con loro combattè valorosamente». Seute chiese a Epistene se era disposto a morire in vece del fanciullo. Epistene protese il collo e rispose: « Cala il colpo, se questa è la volontà del fanciullo, e se di ciò mi sarà grato». Seute domandò al fanciullo se doveva colpire Epistene in sua vece. II fanciullo non volle. « Salvaci entrambi invece », supplicò, Epistene cinse il ragazzo�fra le sue braccia ed esclamò: «Ora, o Seute, se lo vuoi, devi misurarti con me. Io non lo abbandonerò più». Seute scoppiò a ridere e cambiò discorso. Decise che conveniva accamparsi in quei villaggi per impedire che la popolazione rifugiata sui monti ne traesse i rifornimenti. Personalmente si attendò un po' più in basso nella pianura; Senofonte invece si installò nel villaggio più elevato, alle pendici del monte, insieme alle truppe scelte, il resto degli elleni rizzò le tende non lontano tra i Traci alpini, come vengono chiamati. Trascorsero, là fermi, molte giornate, i Traci scesero dalle montagne e si�recarono da Seute a trattare un armistizio e lo scambio di ostaggi. Anche Senofonte si recò da Seute e gli illustrò le condizioni delle proprie truppe, alloggiate in luoghi miserevoli, col nemico vicino. «Preferirei attendarmi sotto il cielo aperto, ma in una posizione ben protetta, che al riparo d'un tetto, ma col pericolo d'un massacro», disse. Seute lo stimolò a essere fiducioso, mostrandogli gli ostaggi che teneva in suo potere. Alcuni traci scesero anche dai monti per chiedere a Senofonte di collaborare alla conclusione della tregua. Egli promise il suo appoggio, esortò a sperare: se si sottomettevano a Seute, disse, non avevano da temere alcun male. Però l'unico scopo, per cui coloro trattavano con l'uno e con l'altro, era di spiare. Cosi passò quella giornata. Nella notte seguente i Tini scendono dai monti e sferrano un attacco contro le truppe alloggiate nei villaggi. Li guidavano i proprietari delle case, perché gli altri difficilmente avrebbero potuto trovarle nel buio, circondate com'erano da un recinto, fatto di grossi pali, ove si custodiva il bestiame. Portatisi all'ingresso di ogni abitazione, essi cominciarono a scagliare giavellotti, a menare colpi con le mazze che avevano portato, come poi si seppe, allo scopo d'infrangere le punte delle aste elleniche, o ad appiccare il fuoco. E tutti chiamavano per nome Senofonte. «Esci, dicevano imperiosamente, che ti uccideremo», oppure: «Ti bruceremo vivo qui stesso». Già le fiamme uscivano dal tetto, e i compagni di Senofonte si trovavano ancora all'interno, coperti dalle loro corazze, con gli scudi e i coltellacci in mano, i caschi in capo. A un tratto Silano di Maciste, un giovinetto di forse diciotto anni, dà un segnale con la tromba. Il gruppetto si lancia fuori con le spade sguainate, tosto imitato dagli altri nei diversi accantonamenti. I Traci gettano i loro piccoli scudi dietro le spalle, come usano fare, e battono in fuga. Alcuni furono arrestati mentre scavalcavano gli steccati, a cui rimasero appesi poiché gli scudi furono trattenuti dai pali; altri non riuscirono a trovare l'uscita, e vennero uccisi. Gli elleni si spinsero all'inseguimento anche fuori del vil-laggio. Alcuni Tini però tornarono indietro col favore delle tenebre e rimanendo nell'ombra presero di mira con i giavellotti gli elleni che correvano lungo le case nel chiarore degli incendi. Ferirono in tal modo Ieronimo, il capitano Euodeo, e un altro capitano ancora, Teogene il Locrese. Non si ebbe a lamentare nessun morto, ma parecchi uomini ebbero le vesti e i bagagli bruciati. Seute accorse in aiuto con sette cavalieri, i primi che trovò, e il trombettiere trace al suo seguito. Appena si rese conto della situazione, fece suonare il corno per tutto il tempo che duro il suo intervento; anche questo particolare contribuì a suscitare

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timori nei nemici. Quando raggiunse gli elleni, strinse la mano ad ognuno e disse: «Pensavo di trovarvi tutti morti». Senofonte lo prega poi di consegnargli gli ostaggi e di accompagnarlo, se vuole, in una spedizione fra le montagne o� almeno, di lasciarvelo andare da solo. L'indomani Seute consegna gli ostaggi, tutti uomini già piuttosto attempati, che, a sentir loro, erano i signori più potenti della regione alpestre, e interviene di persona in forze. Aveva ormai un esercito triplo del primo, poiché molti Odrisi, alla notizia delle sue gesta, erano scesi dal settentrione a ingrossare le sue file. I Tini, come videro dall'alto dei monti un numero così grande di opliti, peltasti e cavalieri, ne discesero e implorarono la pace a qualunque condizione, pronti a offrire tutte le garanzie che fossero loro richieste. Seute fece chiamare Senofonte e gli spiegò cosa chiedevano. Lo assicurò che non avrebbe trattato con quella gente, se lui, Senofonte, era desideroso di punirli dell'attacco che avevano sferrato proditoriamente. «Per me, rispose Senofonte, è una soddisfazione adeguata anche questa: il vederli ridotti in schiavitù, da uomini liberi che erano. Ti consiglio però, soggiunse, di prendere per ostaggi, in avvenire, le persone più pericolose e di lasciare a casa i vecchi». Così tutti gli abitanti del paese si arresero a Seute. V. In seguito le truppe valicano i monti, muovendo contro i Traci che abitano alle spalle di Bisanzio, nel cosiddetto Delta. Il paese non apparteneva più a Mesade, ma a Tere l'Odriso. V'incontrarono Eraclide col ricavato del bottino, e Seute fece portare tre pariglie di muli, tutti quelli che c'erano, poiché il resto erano buoi, chiamò Senofonte e lo pregò di volerli accettare, per poi distribuire quanto rimaneva ai generali e ai capitani. Senofonte rispose: «Io posso aspettare a prendere la mia parte un'altra volta. Ma ai generali che con me ti seguirono, e ai capi-tani devi presentare subito i tuoi doni». Così le tre pariglie dei muli finirono in mano a Timasione di Bardano, Cleanore di Orcomeno e Frinisco 1'Acheo, una ciascuno; le coppie di buoi furono ripartite fra i capitani. Poi si venne al soldo. Il mese era già passato interamente, ma Seute diede soltanto la paga di venti giorni: Eraclide diceva di non aver potuto ricavare di più dalla vendita del bottino. Senofonte, contrariato, gli disse allora non senza imprecare: «Mi pare, o Eraclide, che non ti preoccupi quanto dovresti degli affari del tuo signore. Se te ne preoccupassi avresti portato tanto denaro da soddisfare interamente l' esercito. In mancanza di altro, avresti fatto anche un debito, o venduto il vestito». Questa frase irritò Eraclide, che temette di perdere l'amicizia di Seute. Da quel giorno cominciò a porre Senofonte in cattiva luce agli occhi di Seute, ricorrendo a ogni sorta di calunnie. Dal canto loro i soldati attribuivano la colpa a Senofonte, se non percepivano la paga, e Seute gliene voleva per l'insistenza con cui gli chiedeva la paga dei soldati. Fino ad allora non aveva perso occasione per confermargli che, una volta tornati sulla costa, gli avrebbe ceduto Bisante, Carro e Forte Nuovo; da allora non fece più alcuna menzione di tutto questo, perché Eraclide aveva insinuato che era rischioso cedere fortezze a un uomo provvisto di soldati. Senofonte cominciò allora a pensare ai casi suoi, se gli conveniva cioè inoltrarsi ulteriormente con la spedizione verso l'interno del paese; mentre Eraclide, accompagnati da Seute gli altri generali, li sollecitava a proclamarsi capaci di guidare l'esercito non meno bene di Senofonte. Quanto alla paga, promise che entro pochi giorni avrebbero percepito le intere spettanze di due mesi. In sostanza li invitava a proseguire la spedizione con Seute. Ma Tima-sione dichiarò: «Per quanto mi concerne, dovessi

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ricevere cinque mesi di paga, io non proseguirei senza Senofonte». Frinisco e Cleanore ripeterono le stesse parole, per cui Seute cominciò a inveire contro Eraclide, colpevole di non aver invitato al colloquio anche Senofonte. Questi ricevette in seguito un invito a recarsi da Seute lui solo; ma vi si recò accompagnato da tutti i generali e i capitani, poiché sapeva di cosa fosse capace Eraclide. Evidentemente voleva renderlo sospetto agli occhi dei colleghi. Seute non mancò di convincere tutti a proseguire. Partirono, avendo il Ponto sulla destra, e attraversarono il paese dei Traci Melinofagi, come vengono chiamati, fino al territorio di Salmidesso, ove molte delle navi che veleggiano dentro il Ponto si arenano e vengono buttate a riva per un ampio tratto di mare a causa del basso livello delle acque. Gli indigeni hanno eretto lungo la costa alcuni cippi, che la suddividono in settori, e ognuno depreda le navi che finiscono nel proprio settore. Correva voce che prima di adottare quella ripartizione avvenivano stragi intestine per la bramosia della preda. Sulla spiaggia si trovavano in grande copia divani, cofani, rotoli scritti di papiro e molti altri oggetti che i navigatori portano nelle loro casse. Sottomesso il paese, l'esercito tornò indietro. A questo punto le truppe di Seute erano più numerose delle elleniche. Molta altra gente era scesa dal paese degli Odrisi e si era unita a lui; poi le popolazioni che via via si arrendevano, gli davano man forte. Nella pianura sopra Selimbria, una trentina di stadi lontano dal mare, si pose il campo. E non si vedeva ancora l'ombra di un soldo. I soldati erano adiratissimi verso Senofonte, Seute non lo trattava più familiarmente. Ogni volta che andava a trovarlo per trattenersi con lui, sorgevano subito molte occupazioni, che impedivano a Seute di riceverlo. VI. Erano ormai trascorsi quasi due mesi, quando arrivarono Carmino il Lacone e Polinico, inviati da Tibrone, con 1’annuncio che i Lacedemoni hanno decretato guerra a Tissaferne, sicché Tibrone è salpato per assaltarlo, e gli occorrono le truppe che stazionano in Tracia, a cui promette un darico il mese ogni soldato, il doppio per i capitani, il quadruplo per i generali. Giunti al campo i lacedemoni, appena Eraclide seppe che erano venuti a ingaggiare l'esercito, avverte Seute che miglior cosa non poteva capitargli. «I Lacedemoni hanno bisogno delle truppe, disse, tu non ne hai più bisogno; cedendo l'esercito, farai loro cosa gradita, e i soldati lasceranno il paese senza chiederti conto ulteriormente della paga». Seute, dopo averlo ascoltato, fa introdurre i messi, e appena costoro ebbero dichiarato di essere venuti a prendere l'esercito, proclamò che lo cedeva loro di buon grado, volendo essere amico e alleato del loro paese; poi li invitò a un banchetto d'onore e li ospitò con magnificenza. Non invitò invece né Senofonte né alcun altro dei generali ellenici. I lacedemoni gli chiesero che tipo fosse Senofonte. Seute rispose che nell'insieme non era un uomo malvagio, ma troppo affezionato ai soldati, e questo aspetto del suo carattere lo guastava. «Cerca forse una popolarità fra le truppe, costui?», domandarono gli ospiti. «E come», fu pronto a rispondere Eraclide. «È dunque capace d'impedirci che le portiamo via?», chiesero. Ed Eraclide: «Voi, disse, adunate gli uomini e promettete loro la paga. Vedrete che vi seguiranno di corsa, senza preoccuparsi molto di lui». «Come potremo adunarli?», chiesero.

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«Domani per tempo vi condurremo da loro, rispose Eraclide, sono certo che, non appena vi vedranno, cor-reranno tutti verso voi gioiosi e festanti». Così si concluse quella giornata. L'indomani Seute ed Eraclide portano i laconi ai quatieri delle truppe, che vengono adunate. E così dissero i due laconi: «Sparta ha deciso di rompere le ostilità con Tissaferne l'uomo che vi ha trattato così male. Venite con noi, e prenderete la rivincita sul vostro nemico, oltre a ricevere ciascuno un darico al mese, i capitani il doppio, i generai il quadruplo». Questo discorsetto riuscì gradito ai soldati. Si alza subito un tale dal gruppo degli arcadi e comincia ad attaccare Senofonte. Anche Seute, desideroso di sapere come si sarebbe conclusa la vicenda, era presente. Aveva preso posto in un punto da cui poteva udire i discorsi, poiché era in grado di comprendere da sé quasi tutto ciò che si diceva in lingua ellenica. Pure, teneva a portata di mano un interprete. Così disse il soldato: «Saremmo con voi già da un pezzo, o lacedemoni, se non fosse per colpa di Senofonte, che ci indusse a venire in questo paese. Qui abbiamo combattuto una battaglia dopo l'altra, senza respiro, la notte come il giorno, nel crudo dell'inverno. E dei nostri disagi lui ha colto il frutto. Seute lo ha caricato d'oro, tutto per lui solo, e noi priva del soldo. Per ciò vorrei vederlo lapidato, a punizione dei guai in cui ci ha tratti; in tal modo mi parrebbe di aver ricevuto il compenso che mi spetta, e non mi rincrescerebbero neppure tutte le fatiche sopportate ». Un altro si alzò a parlare dopo costui e�ripeté le medesime accuse; così un terzo. Alla fine prese la parola Senofonte. «Un uomo, disse, per il fatto di essere uomo, deve attendersi di tutto dalla vita, evidentemente, se a me ca-pita di sentirmi lanciare da voi queste accuse, mentre ho coscienza di aver operato per il vostro bene con zelo totale. Ero già in viaggio per casa mia, quando tornai indietro, non perché mi fosse giunta notizia, per Zeus, che le cose si mettevano bene per la spedizione, ma anzi perché fui informato delle difficoltà in cui versavate, e quindi per porgervi aiuto nei limiti delle mie possibilità. Come arrivai, cominciarono a giungermi messi su messi, inviati da Seute, qui ora presente, e mi furono fatte da lui promesse su promesse affinché vi inducessi a passare nelle suefile. Io non gli diedi retta, e voi lo sapete. Vi condussi invece in quel punto della costa, donde pensavo che più rapido sarebbe stato il vostro trasferimento in Asia: che era, a mio giudizio, quanto meglio rispondeva ai vostri interessi e ai vostri voti. Ma arrivò Aristarco e ci precluse con le sue triremi il passaggio dello stretto. Soltanto allora vi convocai per decidere cosa convenisse fare; ed è fuori di dubbio che chiunque avrebbe agito così. Voi, di fronte all'aiternativa di un trasferimento nel Chersoneso, come voleva Aristarco, e dell'invito di Seute ad accompagnarlo in una�spedizione militare, lodaste concordemente il secondo partito, o no? Come vi avrei dunque fatto violenza in quel momento, se vi condussi dove voi stessi avevate deciso unanimemente di andare? Poi Seute cominciò a lesinare il soldo, contro la parola data. Ma l'ho mai approvato io per questo suo modo di agire? Solo in tale caso avreste ragione di accusarmi e di odiarmi. Invece io fui, sì, il suo maggiore amico, ma ora ne disapprovo più di chiunque altro la condotta e mi schiero dalla vostra parte, anziché dalla sua. E voi mi fate una colpa dei miei dissensi con Seute? Come può mai essere? O forse qualcuno insinua che sì tratta di una commedia, che io recito perché Seute ha versato nelle mie mani il denaro che spettava a voi? Ebbene, una cosa almeno è indubitabile: se Seute mi diede qualcosa, non lo fece certamente per il gusto di perdere del

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denaro, rimanendo pur sempre debitore a voi del resto. Il suo scopo, penso, sarebbe stato questo, di cavarsela con minore spesa, pagando me, anziché voi. È così? Voi pensate che le cose stiano così? Ebbene, potete rendere vani all'istante i nostri calcoli: vi basterà di chiedergli il denaro che vi spetta. È chiaro che Seute, in tale caso, mi chiederebbe la restituzione delle somme che avesse a me versato; e a ragione me le chiederebbe, poiché io non gli avrei reso il servizio per cui mi facevo pagare. Senonché le cose stanno ben diversamente, e io non detengo affatto ciò che vi appartiene. Giuro in nome di tutti gli dèi e tutte le dee che Seute non mi ha dato nemmeno ciò che mi aveva promesso come mio personale compenso. Egli è qui presente, ode le mie parole, sa tanto bene quanto ne se io spergiuro o meno. Ma non basta, voglio sbalordirvi ancor più: giuro nel nome degli stessi dèi che non ho ricevuto neppure quanto gli altri generali, e persino meno di certi capitani. Quali le ragioni della mia condotta? Pensavo, o signori: se io condivido ora le sue strettezze, l’avrò amico il giorno in cui sarà divenuto potente. Oggi lo vedo in auge, e conosco il suo carattere. «Ma dunque, dirà qualcuno, tu ti lasci abbindolare così scioccamente, e non te ne vergogni? Per Zeus, me ne vergognerei sì, qualora fosse stato un mio nemico a ingannarmi. Per un amico ingannare è più vergognoso, secondo me, che essere ingannato. E in ogni caso, se uno deve prendere qualche precauzione anche verso gli amici, io sono certo che voi avete preso ogni precauzione possibile per non offrire a costui qualche valido pretesto, col quale vi neghi la paga che aveva promesso. Noi non gli abbiamo fatto davvero il minimo torto, non abbiamo compromesso con la nostra infingardaggine le sue imprese, né mancato per viltà di adempiere alla missione per cui ci aveva ingaggiati. «Però, direte voi, bisognava richiedergli subito qualche garanzia per impedirgli di tradirci, anche se l'avesse voluto. Udite la mia risposta, una risposta che non avrei mai espresso in sua presenza, se non vi vedessi verso di me quanto mai ingrati e molto poco riconoscenti. Richiamate alla vostra mente quali erano le vostre condizioni al momento in cui io vi salvai, conducendovi da Seute. A Perinto, Aristarco il Lacedemone vi chiudeva le porte in faccia, se vi accostavate alle mura, e v'impediva l'ingresso in città. Non è così? E non eravate accampati sotto le stelle, nel cuore dell'inverno? E i viveri? Dovevate comprarli al mercato, e se ne vedevano pochi in giro, e pochi mezzi avevate per comprarli. Di più, dalla Tracia non potevate muovervi, poiché davanti a voi era ormeggiata una squadra di triremi che v'impediva la traversata; rimanere colà significava poi vivere in una terra nemica, formicolante di cavalieri e di peltasti ostili. Possedevamo, certamente, un nerbo di opliti, marciando in forze contro i centri abitati avremmo potuto forse procurarci del grano, eppure non in quantità notevole. Ma con quali armi inseguire il nemico, catturare schiavi e bestiame? Io non lo so, io, che, quando arrivai, non trovai nelle vostre file un corpo ancora saldo di cavalleria o di peltasti. Supponete che, mentre eravate come prigionieri di una situazione così angosciosa, io vi avessi procurato semplicemente l'alleanza con Seute, senza chiedergli una paga, e avessi aggiunto alle nostre forze la cavalleria e i peltasti di cui egli disponeva, voi mancavate: vi pare che sarebbe stato un espediente nocivo per voi? Fu invero grazie all'apporto della sua gente, che poneste le mani su una quantità più abbondante di grano nei villaggi, da cui i Traci dovettero fuggire prima, se volevano salvarsi, e v'impadroniste di un numero più alto di bestie e di schiavi. Aggregata alle nostre forze quella dei cavalieri, non incontrammo più neppure un nemico, mentre fino a quel giorno erano i nemici a inseguirci con baldanza, e la loro cavalleria o i peltasti non ci permettevano mai di dividerci in piccoli drappelli per ottenere cibo più abbondante. Se colui che vi ha aiutato a rendervi sicuri e tranquilli, non vi ha

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anche pagato troppo lautamente per il servizio che vi ha reso, è questa una sciagura così atroce, da farvi credere che non mi si deve assolutamente lasciar partire vivo di qui? « Osservate le vostre condizioni attuali, all'atto di lasciare questo paese. Avete passato l'inverno in mezzo all'abbondanza, avendo in più quel poco o quel tanto che Seute vi ha dato: perché le spese del vitto le facevano i nemici, senza che uno solo di voi sia morto sotto i vostri occhi o scomparso, cadendo prigioniero del nemico stesso. Alla gloria, che serbate intatta, delle imprese compiute combattendo i barbari in Asia, ora avete aggiunto una seconda nomea, non meno bella, quella che vi hanno dato le vittorie ottenute nella guerra contro i Traci in Europa. Io vi dico invero che dei fatti per cui siete irritati verso di me, dovreste essere grati agli dèi, come di altrettanti benefici che vi hanno concesso. «Ma lasciamo ora di parlare di voi. Considerate, vi prego, la mia situazione. Tempo fa io mi apprestavo a far ritorno in patria. M'incamminavo allora cinto di grande gloria, per grazia vostra, famoso tra tutti gli elleni, per merito vostro; e godevo la fiducia dei Lacedemoni, evidentemente, se mi rimandarono da voi. Ora parto screditato presso i Lacedemoni, per colpa vostra, odioso a Seute, per aver preso le vostre difese, mentre proprio presso ai lui mi ripromettevo di trovare, per i molti benefici che gli resi col vostro aiuto, un asilo onorevole e sicuro per me e per i miei figli, se ne avrò. «E voi? Per affetto verso di voi mi sono procurato tante inimicizie, di uomini, per giunta, più potenti di me; per voi mi do da fare tuttora senza respiro, con tutte le mie forze; eppure, ecco quali intenzioni nutrite verso di me. Ebbene, mi avete nelle vostre mani, né io cerco scampo con la fuga. Fate ciò che dite. Ma sappiate che avete ucciso un uomo, il quale ha trascorso gran notti vegliando per il vostro bene, che ha sopportato spesso fatiche e corso pericoli al vostro fianco, quando gli toccava e anche quando non gli toccava; che col favore degli dèi e il vostro aiuto ha innalzato un grande numero di trofei per altrettante vittorie sui barbari; che ha lottato con tutte le sue forze perché non vi rendeste ostile alcuna fra le città degli Elleni. Così oggi voi potete trasferirvi dove volete, per terra come per mare, senza correre rischi. E che fate invece? Poiché vi vedete nuotare nell'abbondanza, poiché siete in procinto di spiegare le vele alla volta dei paesi sospirati da tempo, poiché il popolo più forte del momento vi chiama, e appare ai vostri occhi la possibilità di ottenere una paga, voi stimate sia tempo di mettermi a morte quanto prima. Non avveniva così, quando sprofondavamo nella disperazione, o uomini dalla strepitosa memoria. Allora io ero per voi il vostro padre, promettevate di serbare ricordo imperituro di me, come di un benefattore. Coloro che sono giunti ora al vostro campo sanno ben giudicare, tuttavia, e voi non guadagnate nella loro opinione, a mio avviso, tenendo un simile atteggiamento nei miei confronti». Ciò detto, tacque. Carmino il Lacedemone si alzò e disse: «Per i due Dioscuri, pare anche a me che siate ingiusti a prendervela con questo gentiluomo. Anch'io personalmente posso testimoniare in suo favore. Quando chiedemmo a Seute, io e Polinico, che tipo fosse Senofonte, non trovò altro da rimproverargli, se non il suo amore eccessivo per i soldati, che gli nuoce sia agli occhi di noi, lacedemoni, che di lui, Seute». Dopo Carmino si alzò Euriloco di Lusi, che disse: «Pare, a me almeno, che il vostro primo atto, o signori Lacedemoni, in qualità di generali, dovrebbe essere quello di esigere da Seute il nostro soldo, sia o non sia disposto a versarlo; senza di che dovreste rifiutarvi di condurci via di qui».

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E Policrate di Atene, sollecitato da Senofonte, disse: «Vedo qui, o signori, anche Eraclide, per la verità, quegli che prese il bottino che ci era costato tante fatiche, e le vendette, senza consegnare il ricavato né a Seute né a noi, tenendoselo invece per sé, come un ladro. Mettiamogli le mani addosso, se non siamo sciocchi. Non è neppure un trace, - concluse, - ma un elleno, che fa torto ad altri elleni ». Eraclide, all'udire tali parole, fu preso da grande terrore. S'avvicina a Seute e dice: «Saremmo ben sciocchi a rimanere qui, in balia di questa gente». Montarono dunque a cavallo e partirono al galoppo in direzione del loro quartiere. Là giunto, Seute manda a Senofonte il suo interprete personale, Abrozelme. Per bocca di costui lo invita a rimanere al suo servizio insieme a mille opliti, assicurandogli in compenso il possesso delle piazzeforti sul litorale e di ogni altra cosa che gli aveva promesso in precedenza. In segreto gli comunicò questa notizia, che disse di aver avuta da Polinico: appena fosse caduto in potere dei Lacedemoni, era certa la sua morte per mano di Tibrone. Come Seute, molte altre persone avvertirono Senofonte che era bene stesse in guardia, poiché le calunnie lanciate contro di lui lo avevano reso sospetto. Egli, come ne fu informato, prese due vittime e fece fare un sacrificio a Zeus Re, per sapere se era più conveniente e opportuno rimanere con Seute o partire con l'esercito. Il dio gli indicò di partire. VII. In seguito Seute spostò il suo accampamento un po' più all'interno, gli elleni si attendarono invece in alcuni villaggi col proposito di rifornirsi di viveri e oggetti nella maggior quantità possibile, per poi scendere al mare. I villaggi appartenevano a Medosade, che li aveva avuti da Seute. Al vedere che quanto contenevano veniva sistematicamente consumato dagli elleni, Medosade si sentì montare il sangue alla testa. Prende con sé uno dei capi più potenti degli Odrisi scesi dalla parte settentrionale del paese, e una trentina di cavalieri, si porta al campo ellenico e chiama fuori Senofonte. Senofonte prende con sé qualche capitano e altri amici, poi esce. Medosade gli dice: « Voi compite un sopruso, o Senofonte, saccheggiando i nostri villaggi. Perciò io a nome di Seute, e questo gentiluomo che è al mio fianco, inviato dal re dell'alta Tracia, Medoco, v'ingiungiamo di abbandonare il paese. Se disubbidite, vi bloccheremo con la forza e difenderemo il paese dalle vostre devastazioni, come foste nemici ». Al che Senofonte rispose: « A sentirti parlare in questo tono, ripugna anche solo il darti una risposta. Ciò nonostante parlerò, per un riguardo verso il giovane signore che ti accompagna, affinchè sappia chi siete voi, e chi siamo noi. Ci fu un tempo, spiegò, prima che si facesse tra noi alleanza, in cui percorrevamo questa terra a nostro arbitrio, ora saccheggiando, ora bruciando, come più ci piaceva. Tu venivi a trovarci in qualità di ambasciatore, e allora mettevi la tua tenda vicino alle nostre, senza timore di nemici. Da soli, però, non vi siete mai arrischiati su queste terre, o, se mai vi metteste piede, vi sentivate insicuri, tanto che, nell' attendarvi, tenevate i cavalli col morso in bocca. Poi avete ottenuto la nostra alleanza. Grazie a noi, cioè all'aiuto che vi abbiamo prestato, e per concessione degli dèi, ora questo territorio è vostro, e voi cercate di espellerci dal suolo che pure avete ricevuto dalle nostre mani, perché noi lo conquistammo combattendo, e i nemici non furono più capaci di ributtarci, come sai anche tu. Perciò dovresti reputare tuo dovere colmarci di doni e benefici, in cambio dei benefici che hai ricevuto da noi, prima di congedarci abilmente. Invece fai quanto è in tuo potere per impedirci di rimanere accampati qui in attesa della

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partenza. Tutto questo esponi senza provare pudore degli dèi e dell'uomo che ti accompagna, ai cui occhi appari come ricco sfondato, mentre prima di essere nostro amico campavi la vita di rapine, per tua stessa confessione. E poi perché vieni a dire queste cose proprio a me? - chiese Senofonte. - Chi comanda qui non sono più io, bensì i Lacedemoni. Avete rimesso nelle loro mani l'esercito, perché lo conducessero via di qui, senza neppure interpellarmi nella vostra squisita gentilezza: se mi resi inviso ai Lacedemoni allorché portai a voi queste truppe, ora avrei potuto rendermi accetto, consegnandole a loro». Il gentiluomo Odriso, come udì queste parole, disse: « Per conto mio, o Medosade, mi sento sprofondare sottoterra per la vergogna, nell'udire queste parole. L'avessi saputo prima, non ti avrei accompagnato. Ora come ora, me ne vado. Il mio re, Medoco, non approverebbe certo la mia condotta, se cercassi di espellere da queste terre chi ci ha beneficato ». Pronunciò queste parole mentre saliva a cavallo, quindi partì al galoppo, seguito dagli altri cavalieri, tranne quattro o cinque. Medosade, cui rincresceva il saccheggio del paese, pregò Senofonte di far venire i due messi di Sparta. Senofonte si recò da Carmino e Polinico in compagnia delle persone più adatte allo scopo. Disse loro che Medosade voleva vederli: li avrebbe certamente sollecitati a lasciare il paese, come aveva fatto con lui. «Penso, disse, che voi potreste ottenere da lui il soldo dovuto all'esercito. Dovreste parlargli così: l'esercito ci ha pregato di appoggiare le sue richieste, volte a ottenere ad ogni costo la paga di cui Seute gli è debitore; i soldati promettono di venir via volentieri insieme a noi, se ottengono il denaro che loro spetta; a noi sembrano aver ragione, perciò abbiamo promesso di non muoverci finché abbiano ot-tenuto giustizia». I laconi assicurarono Senofonte che avrebbero ripetuto davanti a Medosade i suoi argomenti, insieme a quanti altri potessero giovare, e s'incamminarono immediatamente, accompagnati da tutti coloro che potevano intervenire utilmente nella conversazione. Giunti alla presenza di Medosade, Carmino chiese: «Hai qualcosa da dirci? Diversamente ne abbiamo noi alcune da dire a te ». Medosade rispose in tono molto remissivo: «Ho da dirvi qualche parola, anche a nome di Seute. Vi chiediamo di rispettare chi è divenuto nostro amico. Le angherie che fate a lui, le fate a noi, ormai, poiché si tratta di nostri sudditi». «Noi partiremo, replicarono i laconi, quando i soldati che vi hanno aiutato a fare queste conquiste saranno stati pagati. Se ciò non avviene, verremo noi ad aiutarli e a punire chi calpesta i giuramenti o li tratta con iniquità. Se fra costoro siete anche voi, cominceremo da voi a fare giustizia». Aggiunse Senofonte: «Gli abitanti di questo paese, a quanto dite, vi sono amici. Acconsentireste dunque, o Medosade, a lasciare a loro di decidere con una libera votazione se voi o noi dobbiamo sloggiare di qui?» Medosade respinse la proposta. Quanto alla paga dei soldati, consigliò i due laconi di parlare anzitutto con Seute: a suo avviso Seute non l'avrebbe rifiutata; oppure di mandare con lui Senofonte. Da parte sua avrebbe detto una buona parola, promise. Ma supplicò di sospendere gli incendi dei villaggi. I laconi mandano a Seute Senofonte, facendolo accompagnare dalle persone che sembravano più indicate allo scopo. Giunto in presenza di Seute, Senofonte dice: «Non vengo a chiederti nulla, o Seute. Voglio soltanto convincerti, se mi è possibile, che ti sei adirato a torto verso di me, quando ti chiedevo vibratamente di tener fede alle promesse fatte ai soldati. Io ero persuaso che a te convenisse versare il denaro, non meno che a loro riceverlo. Furono loro infatti, per quanto so, a sollevare le tue sorti: e sia pure che in tale faccenda il merito spetta anzitutto agli dèi. Essi poi

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ti fecero re di un vasto paese e di molta gente. Nessuna delle tue azioni ormai, delle onorevoli come delle turpi, potrebbe passare inosservata. Ebbene, per un personaggio tanto ragguardevole a me sembrava fosse importante non respingere pubblicamente i propri benefattori, senza mostrare alcuna gratitudine, e pure importanti le lodi di seimila persone; ma più importante di tutto che nessuno dubitasse della sua fedeltà alla parola data. Per mia esperienza posso affermare che, quando una persona è sleale, le sue parole si perdono nell'aria, vane, inefficaci, spregiate. Diversa la sorte di chi mostra ossequio per la sincerità: se chiede qualcosa, le sue preghiere non sono meno potenti che in altri la forza, per ottenere quanto vuole; se cerca di ridurre alcuno alla ragione, le sue minacce so che ottengono lo scopo non meno delle repressioni effettivamente usate da altri; e basta una promessa, a uomini simili, per ottenere più che altri con doni immediati. « Ma pensa al tuo stesso caso. Quale anticipo ci hai dato per averci alleati? Ricordi? Nulla. Bastò la fiducia che avresti attuato le tue promesse, per indurre una vera moltitudine di persone a entrare in guerra al tuo fianco e a edificare per te un regno che non vale solo i trenta talenti a cui ammonta, nella loro stima, il tuo debito verso i soldati, ma assai, assai più. E tu baratteresti per una somma tanto esigua la fiducia che prima godevi e che ti ha procurato un regno? Ma ricorda, via, quale valore attribuivi alla conquista del paese che ora ti appartiene. Io non dubito che per attuare l'impresa da noi attuata tu avresti rinunciato volentieri non ad una, ma a molte somme di denaro equivalenti a quella che ti si chiede. Ai miei occhi sarebbe uno smacco maggiore e più ignominioso il perdere ora quanto possiedi, che mancarne allora la conquista. Pas-sare dalla ricchezza alla povertà è più penoso che non aver mai conosciuto la ricchezza, così com'è più doloroso ridursi da re a privato cittadino, anziché non aver mai conosciuto il regno. «Tu sai poi come gli attuali tuoi sudditi accettarono di lasciarsi governare da te non per un sentimento di af-fetto, ma perché costretti dalla forza, essi cercherebbero di recuperare la loro indipendenza, se non fosse la paura a trattenerli. Ebbene, quando credi che la loro paura e i| rispetto verso di te crescerebbero? se vedessero i soldati ben disposti nei tuoi riguardi, tanto che un solo tuo cenno: basterebbe per trattenerli al tuo servizio, o il bisogno, per farli tornare all'istante al tuo fianco, e vedessero altri pronti a sostenerti, qualora li chiamassi, per il gran bene che hanno udito dire di te dai primi; oppure se prevedessero che nessuno verrebbe mai più in tuo aiuto per la diffidenza che ispirasse in tutti il tuo comportamento in questo affare, e�constatassero che pure i soldati ora al tuo fianco nutrono maggior simpatia per loro, i sudditi, che per te? La popolazione si è piegata al tuo dominio non perché noi fossimo più numerosi, ma perché essa difettava di capi. Ebbene, ora sussiste anche questo pericolo: che metta alla propria testa qualcuno di coloro che si ritengono vittime della tua ingiustizia, e persone ancora più potenti, i Lacedemoni: pericolo tanto più acuto, se i nostri soldati promettono di combattere per i Lacedemoni con maggior entusiasmo, qualora costoro ottengano da te adesso quanto devi all'esercito; e i Lacedemoni acconsentiranno alla loro richiesta, perché ne hanno un grande bisogno. Quanto ai traci caduti sotto il tuo dominio, è chiaro che preferirebbero combattere contro di te, che con te, poiché una tua vittoria significa per loro la servitù, una sconfitta la libertà. «Tu poi devi provvedere immediatamente al benessere di questo paese, che da te dipende. Ebbene, quando ritieni, che sarebbero minori le sue sventure: dopo la partenza di questi nostri soldati, che, ricevuto quanto esigono, lasceranno la pace dietro di sé; oppure con la presenza di un esercito che si considera in territorio nemico, e delle forze ancora più numerose, con cui tu cercassi di respingerlo, e che dovresti mantenere? Ma

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il denaro stesso, te ne occorrerebbe di più per pagare a questi il tuo debito, oppure per assoldarne altri, lasciando insoddisfatto il loro credito ? Secondo Eraclide - lo ha dichiarato in mia presenza - la somma che ti si chiede è enorme. Eppure rappresenta una pratica assai più lieve per te l'esigere e il versare tale somma�

oggi, che una sua decima parte nei tempi che precedettero la nostra venuta. Non è l'entità di una somma che la rende grande o piccola, ma le risorse di colui che deve versarla ed esigerla. Ebbene, le tue rendite annue d'ora in�poi�saranno maggiori dell'intero capitale che possedevi in passato. «Nel pronunciare questo mio discorso, o Seute, io ho avuto di mira i tuoi interessi come quelli di un amico. È infatti mio desiderio che tu appaia degno in tutto delle fortune che gli dèi ti concessero, e�io non perda completamente la reputazione che mi sono guadagnato fra i soldati. Devi sapere che oggi come oggi, per quanto lo volessi, non potrei servirmi di queste truppe per assalire i miei nemici, né sarei in grado di aiutarti, se desiderassi farlo ancora una volta, tanto sono mutati i sentimenti dei soldati nei miei riguardi. Eppure tu mi sei testimone, assieme agli dèi che tutto vedono: io non ho ricevuto da te alcuna somma di denaro perché accettassi di condurre l'esercito sotto le tue insegne, né ti ho mai chiesto per la mia persona denaro o altro, che spettasse ai soldati; anzi, non ho neppure preteso quel tanto che mi avevi promesso. Del resto, credimi pure, nemmeno le tue insistenze me l'avrebbero fatto accettare, se prima non fosse stato garantito ai soldati ciò che era loro dovuto. Che vergogna sarebbe stata, fare i miei affari e disinteressarmi dei loro, che si mettevano male, tanto più che allora godevo della loro fiducia. Indubbiamente Eraclide è del parere che di fronte al lucro, comunque ottenuto, tutto il resto non conta nulla. Io invece, o Seute, ritengo che non vi è per un gentiluomo, e in modo particolare per un capo, possesso più glorioso e splendido di quello della virtù, rettitudine, generosità. Chi possiede tali qualità è ricco, poiché possiede molti amici, e molti intorno a lui aspirano alla sua amicizia�� poiché nell'ora della fortuna trova chi condivide la sua esultanza, negli attimi della sfortuna non manca di soccorsi immediati. «Può darsi, però, che tu non abbia capito dal mio modo di agire come io ti fossi amico dal più profondo del cuore, e�neppure possano convincerti di ciò le mie parole. In tal caso considera almeno quanto hanno detto i soldati: eri presente anche tu, quando alcuni presero la parola per censurarmi. Un'accusa che allora mi mossero davanti agli inviati dei Lacedemoni fu che io facevo maggior conto di te che� dei Lacedemoni stessi; poi mi accusarono di avere più a cuore il buon andamento dei tuoi affari, che la sistemazione dei loro. Qualcuno disse pure che io avevo ricevuto da te dei donativi. Ora, perché credi che mi accusassero di aver ricevuto doni da te: perché mi vedevano indifferente, ostile nei tuoi riguardi, oppure perché notavano in me un grande interessamento per le tue sorti? Io per mio conto penso che tutti concordino nel ritenere doverosa la devozione verso chi ci facesse dei regali. Tu agli inizi, prima ancora che io ti avessi reso qualsiasi servizio, mi ricevesti amabilmente, con buona cera, con buone parole, con i doni che si offrono agli ospiti, e mai ti saziavi� di farmi promesse. Ora hai realizzato i tuoi sogni, sei diventato un uomo potentissimo, quanto io potei renderti: e permetti che io diventi cosi screditato agli occhi dei miei soldati? No, io confido che ti deciderai a pagare i� tuoi debiti. Il tempo ti sarà maestro. Presto ti diventerà intollerabile il vedere che chi ti ha reso benefici ora lancia accuse alla tua�persona. Provvedi, ti prego, nel momento in cui verserai il soldo alle truppe, a ristabilire la mia posizione presso di loro: che io torni a essere ai loro occhi quale ero prima di pormi al tuo servizio». Seute, ascoltato che ebbe questo discorso, maledisse l'uomo che era responsabile del mancato, puntuale pagamento del soldo alle truppe: e tutti sospettarono che alludesse a Eraclide.

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«Perché io, dichiarò, non ho mai avuto intenzione di defraudare chicchessia di ciò che gli spetta, e pagherò quanto devo». Allora Senofonte riprese a dire: « Se ti proponi di pagare�il�soldo, come vedo, vorrei pregarti di una cosa: pagalo per mezzo mio�� Non permettere che per colpa tua io sia scaduto nella stima dei soldati, che era grande al nostro arrivo presso di te ». Seute rispose: « Non temere, non perderai la fiducia dei soldati per colpa mia. Rimani anzi nei miei territori, e sia pure con stille opliti soltanto. Avrai da me le fortezze e gli altri doni che ti promisi ». Senofonte rispose: « Non è possibile; tutto ciò che puoi fare per noi è congedarci ». « Eppure, Seute insistette, -so che, per te alcuni sarebbe più sicuro rimanere qui, presso di me, che tornare a casa ». E Senofonte replicò: « Apprezzo la tua sollecitudine, ma non mi è possibile rimanere. Devi però credere che dovunque si avrà stima di me, di riflesso ne trarrai vantaggio tu pure ». Allora Seute esclama: « Non ho denaro, o ben poco. Ma quel poco, un talento , lo consegno a te, insieme a seicento buoi, quattromila pecore e centoventi schiavi circa. Prendi tutto quanto, aggiungivi gli ostaggi appartenenti ai popoli che ti hanno attaccato a tradimento, e parti ». Senofonte rispose con un sorriso: « Supponiamo che tutto ciò non basti per pagare i soldati. Il talento, a chi dirò che appartiene? La mia vita è in pericolo: non è meglio che mi guardi dalle pietre, quando me ne andrò? Hai udito anche tu le minacce dei soldati ». Così per quel giorno Senofonte rimase con Seute. L'indomani Seute diede ai suoi ospiti ciò che aveva promesso, e li fece accompagnare da alcuni uomini, che spinsero al campo il bestiame. Nel frattempo i soldati andavano dicendo che Senofonte era andato da Seute non per altro, che per stabilirsi sulle sue terre e ricevere quanto gli aveva promesso. Al vederlo tornare ne furono lieti e gli corsero incontro. Senofonte, come scorse Carmino e Polinico, disse: « Tutto ciò che grazie alla vostra autorità si potè recuperare e riservare all'esercito, è qui. Io ve lo consegno. A voi ora venderlo e distribuire il ricavato fra le truppe. I due laconi presero in consegna ogni cosa e procedettero alla vendita per il tramite di alcuni ufficiali, da lui

designati. L'operazione suscitò non poco malcontento. Senofonte non si fece vedere. Fece capire anzi che si apprestavano a tornare a casa. In Atene, infatti, non si era ancora avuta la votazione sul suo esilio. Tuttavia quanti al campo gli erano amici, andavano a trovarlo e lo pregavano di non lasciare l'esercito prima di averlo condotto via di là e consegnato nelle mani di Tibrone. VIII. E si fece vela finalmente alla volta di Lampsaco. In questa città Senofonte trova l'indovino Euclide di Fliunte, figlio del Cleagora, che in un dipinto del Liceo ha rappresentato i Sogni. Egli si rallegrò con Senofonte, per aver riportato salva la vita, e gli domandò quanto oro recava con sé. Senofonte rispose, confermando le sue parole con un giuramento, che non ne aveva neppure tanto da pagare le spese del viaggio fino a casa, a meno di vendere il cavallo e i vestiti; ma l'altro non gli prestò fede. La città di Lampsaco inviò a Senofonte alcuni doni in segno di ospitalità. Egli fece un sacrificio ad Apollo, in cui ebbe come assistente Euclide. Dopoché Euclide ebbe osservato le viscere delle vittime, esclamò:

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«Credo bene, ora, che tu non abbia denaro con te. Dirò di più: quand'anche avessi la possibilità di ottenerne, ti troveresti sempre innanzi qualche ostacolo: la tua stessa indole, per lo meno ». Senofonte si dichiarò d'accordo con lui. Un altro ostacolo è Zeus Milichio: hai già eseguito un sacrificio in suo onore? Ricordi che a casa usavo sacrificare per vostro conto al dio e offrirgli olocausti». Senofonte rispose che, da quando era partito, non aveva fatto al dio nessun sacrificio; e l'indovino gli consigliò di non indugiare oltre: avrebbe tratto grande vantaggio, disse, dai sacrifici che gli erano abituali. Il giorno dopo Senofonte si recò senz'altro a Ofrinio e fece fare il sacrificio. Furono bruciate per intero, secondo l'usanza del suo paese, le carni di alcuni porci, e le vittime diedero segni favorevoli. Quello stesso giorno arrivarono Bione e Nausiclide con il soldo da versare all'esercito. Stringono rapporti di ospitalità con Senofonte, e il cavallo che aveva venduto a Lampsaco per cinquanta darici, sospettarono che l'avesse venduto per bisogno, poi seppero che gli era molto caro, e così lo riscattarono e glielo resero, rifiutandosi di accettare il prezzo del riscatto. Di lì l'esercito proseguì la marcia attraverso la Troade, superò l'Ida e arrivò prima ad Antandro, poi, con una marcia lungo il litorale, a Campo Tebano, nella Misia. Ripartito di là, muove per Adramittio e Citonio alla volta di Campo di Caico, supera quest'ultima località e giunge a Pergamo, nella Misia. A Pergamo Senofonte è accolto come ospite in casa di Ellade, moglie di Gongilo di Eretria, madre di Gorgione e Gongilo. Da lei viene a sapere che un gentiluomo persiano, certo Asidate, viveva nella pianura circostante, e che sarebbe bastato assalirlo di notte con trecento uomini per catturarlo insieme alla moglie, ai figli e agli averi, che erano ragguardevoli. Come guida nell'impresa gli fornì suo cugino e un certo Dafnagora, che teneva in grande considerazione. Senofonte, arrivati costoro, cominciò col fare un sacrificio alla presenza dell'indovino Basia l'Eleo. Questi dichiarò che le vittime erano quanto mai favorevoli, e il nemico poteva cadere senz'altro nelle sue mani. Così dopo il pranzo Senofonte si mise in marcia, portando con sé i capitani che gli erano più cari, e i soldati che gli erano sempre stati fedeli. Voleva in tal modo ricompensarli della loro bontà. Ma altri uomini, malgrado la sua opposizione, si uniscono al drappello, e così partecipano alla sortita seicento persone. I capitani si lanciarono innanzi a cavallo, desiderosi di non dividere il bottino con gli altri, quasi che le ricchezze del persiano attendessero soltanto di essere prese. Il grosso giunse sul posto verso mezzanotte, e tanta era la brama d'impossessarsi di Asidate e dei suoi tesori, chiusi in una torre, che gli assalitori si lasciarono sfuggire incolumi, con la maggior parte del bestiame, gli schiavi che abitavano nei dintorni, per sferrare senz'altro un attacco contro il castello. Senonché la torre, alta, grande, punita di numerosi bastioni e di molti difensori pugnaci, non si lasciava scalare. Si tentò allora di scavare un pertugio nel muro, che aveva lo spessore di otto mattoni di terracotta. All'aurora il pertugio era scavato. Ma, appena apparve il sole attraverso la fessura, qualcuno dall'interno, usando uno spiedo che serviva per arrostire i buoi, trapassa la coscia del soldato più vicino. Un fioccare poi di frecce attraverso l'apertura rendeva ormai pericoloso anche solo avvicinarvisi. Frattanto gli assediati avevano cominciato a gridare e accendevano segnali luminosi. Così arrivarono tosto in loro aiuto Itamene alla testa dei suoi uomini; un'ottantina di opliti assiri e cavalieri ircani, essi pure al soldo del re, da Comania; altri da Partenio, da Apollonia e dalle fortezze vicine, nonché alcuni cavalieri.

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Era tempo ormai di cercare un modo per ritirarsi. Gli elleni raccolsero i buoi, le pecore e gli schiavi che poterono trovare, li posero al centro del loro quadrato e li portarono via con sé. Ciò fecero non perché pensassero ancora al bottino, ma per evitare che la ritirata prendesse l'aspetto di una fuga, come sarebbe avvenuto, se avessero abbandonato ogni cosa. In tal modo ai nemici sarebbe cresciuta la baldanza, e ai soldati la sfiducia. Invece si ritirarono combattendo, quasi in difesa della preda che avevano fatto. Appena Gongilo scorse gli elleni che si ritiravano in un gruppo sparuto, inseguiti da una grande massa di nemici che li tallonavano da presso, esce anch'egli dalla città con i suoi uomini, malgrado il divieto della madre, volendo prender parte all'azione. Altri rinforzi giunsero da Alisarne e Teutrania, sotto la guida di quel Procle, che discendeva da Damarato. Frattanto continua la marcia degli uomini di Senofonte che, flagellati ormai da ogni parte dagli archi e dalle fionde, si sono disposti in cerchio per opporre ai proiettili gli scudi. Al passaggio del fiume Calco, che fu effettuato con grande disagio, quasi metà erano feriti. Là è ferito Agasia di Stinfalo, che per tutto quel tempo non cessò un istante di lottare contro i nemici. Quando, finalmente, si mettono al sicuro, si trovano ad avere con sé un duecento schiavi e bestiame a sufficienza per eseguire i sacrifici. L'indomani Senofonte, dopo il sacrificio, conduce l'esercito fuori dell'abitato durante la notte. Il suo piano era questo: addentrarsi il più possibile nella Lidia, affinchè Asidate, deposto ogni timore che nasceva dalla sua vicinanza, abbandonasse ogni precauzione. Ma il persiano venne a sapere che Senofonte aveva fatto sacrificare col proposito di attaccarlo nuovamente, e quindi lo avrebbe assalito con tutto l'esercito. Si trasferisce perciò con i suoi in certi villaggi, situati ai piedi della cittadella di Partenio. Là lo trovano gli uomini di Senofonte e lo catturano con la moglie, i figli, i cavalli, ogni suo avere. Così ebbero compimento gli auspici del primo sacrificio fatto da Senofonte. Dopo questa azione l'esercito torna a Pergamo, ove Senofonte ringraziò la divinità. I messi laconi, i capitani, gli altri generali, i soldati, tutti lo invitarono a scegliere dal bottino comune ciò che più gli piaceva, fossero cavalli, o buoi, o qualsiasi altra cosa; di modo che ormai era in condizione di far anche dei regali. In quella arrivò Tibrone, prese l'esercito ai suoi ordini, lo incorporò nel resto delle truppe elleniche da lui dipendenti e iniziò la guerra contro Tissaferne e Farnabazo. �6(12)217(��(OOHQLFKH��WUDG��*��'DYHULR�5RFFKL��1. 1. In seguito, non molti giorni dopo, l'arrivo ad Atene di Timocare con un esiguo contingente di navi provocò un nuovo scontro navale tra Ateniesi e Spartani, in cui questi ultimi riportarono la vittoria sotto il comando di Agesandrida. 2. Poco tempo dopo questi avvenimenti, Dorieo, figlio di Diagora, arrivò nell'Ellesponto proveniente da Rodi con quattordici navi, all'inizio dell'inverno. Era l'alba. Fu subito avvistato dalla sentinella ateniese che si affrettò a informare gli strateghi. Prontamente essi si mossero per attaccarlo con venti triremi, ma Dorieo riuscì a sfuggire e, con una rapida manovra, ad approdare nei pressi del capo Reteo. 3. Tuttavia, l'improvviso sopraggiungere degli Ateniesi riaccese il combattimento, sia per mare che per terra, finché gli Ateniesi ripartirono alla volta di Madytos dove si trovava il resto dell'esercito, senza avere ottenuto alcun concreto risultato. 4. Dall'alto della rocca di Ilio, dove sacrificava ad Atena, Mindaro vide la battaglia e scese sulla riva per intervenire; fece prendere il largo alle sue triremi e soccorse le navi superstiti di Dorieo.

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5. Gli Ateniesi, che gli si erano fatti incontro lo impegnarono in uno scontro navale in prossimità della costa, vicino ad Abido, che durò dal mattino fino alla sera. Mentre da un lato vincevano e da un altro erano vinti, sopraggiunse Alcibiade con diciotto navi. 6. Donde avvenne la fuga degli Spartani verso Abido; a questo punto, intervenne anche Farnabazo, che, spingendosi a cavallo in mare fin dove la profondità dell'acqua non gli impediva di combattere incitava i suoi cavalieri e la fanteria. 7.1 Peloponnesiaci radunarono e schierarono le loro navi a ranghi serrati concentrando la difesa vicino alla costa. Gli Ateniesi riuscirono a catturare trenta navi nemiche senza equipaggio e a riprendersi quelle che avevano precedentemente perso, quindi salparono in direzione di Sesto. 8. Qui la flotta, tranne quaranta navi, fu suddivisa in contingenti separati e inviata a riscuotere i tributi nelle aree al di là dell'Ellesponto; Trasillo invece, uno degli strateghi, salpò alla volta di Atene per riferire gli avvenimenti e per chiedere rinforzi di uomini e navi. 9. In seguito arrivò nell'Ellesponto Tissaferne e Alcibiade gli andò incontro con una sola trireme, recando doni di ospitalità e altri presenti, ma fu arrestato e rinchiuso in Sardi (15). Il motivo addotto da Tissaferne fu di avere ricevuto ordine dal Re di fare guerra ad Atene. 10. Tuttavia, trenta giorni più tardi, Alcibiade riuscì a fuggire, di notte, da Sardi insieme a Mantiteo, che era stato catturato in Caria, si procurò dei cavalli e di notte fuggì a Clazomene. 11. Gli Ateniesi di stanza a Sesto, informati che Mindaro preparava un attacco con sessanta navi, durante la notte ripararono a Cardia Qui li raggiunse Alcibiade, proveniente da Clazomene con cinque triremi e una nave da corsa, ma avendo saputo che la flotta dei Peloponnesiaci era risalita da Abido a Cizico, raggiunse Sesto via terra, dove ordinò alle navi di fare il giro fino a lì. 12. Mentre si accingeva a prendere il largo per dare battaglia, poiché nel frattempo anche la flotta era arrivata, giunsero nella zona Teramene, proveniente dalla Macedonia con venti navi, e Trasibulo da Taso con altre venti, entrambi provvisti del denaro raccolto mediante la riscossione dei tributi. 13. Anch'essi ricevettero da Alcibiade l'ordine di abbassare le grandi vele e di seguirlo a Parion. Le navi riunite in Parion, complessivamente ottantasei, salparono la notte successiva per arrivare l'indomani, all'ora della colazione, a Proconneso. 14. Qui li raggiunse la notizia che a Cizico si trovavano sia Mindaro che Farnabazo con il suo esercito di terra. Per quel giorno non si mossero, ma in quello successivo Alcibiade convocò l'assemblea dei soldati per annunciare che lo scontro imminente avrebbe comportato combattimenti per mare, per terra e intorno alle mura, «perché» spiegò «non disponiamo di denaro, mentre i nemici ne ricevono in abbondanza dal Re». 15. Alla vigilia della battaglia, dopo avere gettato le ancore, radunò intorno alla sua tutte le navi, anche le piccole, per impedire che qualcuno lasciasse trapelare informazioni al nemico sull'entità della flotta e fece proclamare che quanti fossero stati sorpresi a navigare lungo la costa sarebbero stati puniti con la morte. 16. Al termine dell'assemblea fece tutti i preparativi per il combattimento e quindi salpò per Cizico sotto una pioggia scrosciante. Quando fu in prossimità della città, si ebbe una schiarita e il sole si affacciò tra le nubi. Così Alcibiade potè scorgere la flotta di Mindaro, costituita da sessanta navi, mentre effettuava delle manovre lontano dal porto ed era tagliata fuori da lui. 17.1 Peloponnesiaci, non appena scorsero le triremi ateniesi, molto più numerose di prima e ormai vicine al porto, fuggirono verso la costa dove ancorarono le navi una vicina all'altra preparandosi a sostenere l'assalto del nemico che navigava verso di loro. 18. Alcibiade, con venti delle sue navi, effettuò una rapida virata e sbarcò a terra. La manovra non sfuggì a Mindaro che scese anch'egli a terra, dove morì nello

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scontro, mentre i suoi uomini si davano alla fuga. Gli Ateniesi radunarono le navi catturate e le portarono a Proconneso, tranne quelle di Siracusa, che gli stessi Siracusani avevano incendiato. Il giorno seguente gli Ateniesi navigarono alla volta di Cizico. 19. Gli abitanti della città, abbandonati sia dai Peloponnesiaci che da Farnabazo, accolsero gli Ateniesi. 20. Alcibiade restò sul posto venti giorni, riscuotendo ingenti somme di denaro dai Ciziceni, senza peraltro infliggere ulteriori danni, quindi salpò alla volta del Proconneso e, di lì, navigò verso Perinto e Selimbria. 21. 1 Perinzi accolsero l'esercito in città, mentre gli abitanti di Selimbria si rifiutarono, ma, in compenso, offrirono somme di denaro. 22. In seguito raggiunsero Crisopoli di Calcedonia, dove cinsero la città di mura e vi posero una dogana allo scopo di riscuotere la decima da tutte le navi provenienti dal Ponto.Vi stanziarono inoltre una guarnigione di trenta navi agli ordini di due strateghi, Teramene ed Eumaco, con il compito di sorvegliare la regione e il traffico marittimo in uscita dal distretto, senza lasciarsi sfuggire nessuna occasione di colpire il nemico. Gli altri strateghi, invece, si di-ressero verso l'Ellesponto. 23. Si intercettò una lettera inviata da Ippocrate, luogotenente di Mindaro, a Sparta e la si mandò ad Atene. Il testo diceva : “ Navi perdute; Mindaro ucciso; gli uomini hanno fame, non sappiamo che fare”. 24. Per risollevare il morale delle truppe peloponnesiache e alleate Farnabazo andava dicendo a tutti che non era il caso di scoraggiarsi per un po' di legname perduto, quando le terre del Re ne erano provviste in abbondanza; più importante era che fossero salvi gli uomini. Diede a ogni soldato un mantello e risorse per due mesi di servizio. Quanto ai marinai trovò la soluzione di armarli e di porli come sentinelle lungo la costa della sua satrapia. 25. Quindi convocò gli strateghi e i trierarchi delle varie città e a ognuno di loro ordinò di provvedere alla ricostruzione, nei cantieri di Antandro, di un numero di navi pari a quelle perdute. Mise a disposizione il denaro necessario e li autorizzò a rifornirsi di legname nell'Ida. 26. Durante l'allestimento della flotta, i Siracusani collaboravano con gli abitanti di Antandro alla ricostruzione delle mura e si distinguevano tra tutti nel servizio di guardia. Per questo i Siracusani godono ancora oggi, in Antandro, del titolo di benefattori e del diritto di cittadinanza. Farnabazo, dopo avere preso queste disposi-zioni, partì immediatamente per soccorrere Calcedone. 27. In questo arco di tempo gli strateghi siracusani ricevettero un messaggio dalla patria con cui li si informava che il popolo aveva decretato il loro esilio. Senza indugio convocarono le truppe, alle quali Ermocrate, anche a nome dei colleghi, tenne un discorso. Compiangevano la loro disgrazia, facendo presente che erano stati tutti ingiustamente esiliati in maniera illegale; li esortarono a mostrarsi nel futuro ben disposti come nel passato e uomini fidati nel rispettare di volta in volta le consegne. Li invitarono quindi a scegliersi nuovi comandanti in attesa dell'arrivo di quelli designati dalla patria in vece loro. 28. A gran voce i soldati, soprattutto i trierarchi, i fanti di marina e i piloti, pretendevano che rimanessero al comando. Essi ribatterono che non bisognava ribellarsi alla propria città; se qualcuno aveva qualche cosa da rimproverare loro, dichiaravano che si doveva dargli la parola e tutti ricordavano: «Quante battaglie voi stessi avete vinto, quante navi avete catturato, in quante circostanze insieme ad altri sotto il nostro comando non avete subito sconfitte, conservando la migliore disposizione tattica grazie al vostro valore e alla vostra buona volontà che avete dispiegato per terra e per mare». 29. Poiché nessuno mosse delle accuse, gli strateghi, su richiesta dei soldati, mantennero la carica fino all'arrivo degli strateghi designati a sostituirli, Demarco, figlio di Epicide, Myskon, figlio di Menecrate, e

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Potamis, figlio di Gnosia. La maggior parte dei trierarchi, dopo aver giurato di farli richiamare una volta tornati a Siracusa, li lasciarono andare tutti dove volevano, elogiandoli. 30. Tuttavia, conversavano privatamente con Ermocrate e dicevano di rimpiangere la sua guida, la sua abilità e la sua disponibilità. Del resto, questi radunava ogni giorno, al mattino e alla sera, nella sua tenda i più capaci dei trierarchi, dei piloti e dei fanti di marina, per metterli a parte dei suoi progetti e li esercitava obbligandoli ad esporre discorsi, ora improvvisati, ora preparati. 31. Per questo Ermocrate godeva di grande fama nel sinedrio, in quanto sembrava prendere la parola e consigliare per il meglio. Tempo addietro Ermocrate aveva accusato a Sparta Tissaferne, avvalendosi della testimonianza di Astioco, e le sue accuse erano state accolte; di conseguenza, quando giunse da Farnabazo, prima ancora che ne facesse richiesta, ricevette del denaro con il quale asssoldò mercenari e allestì alcune triremi per prepararsi il ritorno a Siracusa. Nel frattempo giunsero a Mileto i nuovi strateghi inviati da Siracusa e assunsero il comando della flotta e dell'esercito. 32. Pressoché contemporaneamente, in Taso scoppiò una guerra civile; i filolacedemoni e l'armosta spartano Eteonico furono cacciati, mentre lo spartano Pasippida, accusato di avere tramato questa azione d'intesa con Tissaferne fu esiliato da Sparta. Al comando della flotta, che Pasippida aveva già raccolto tra gli alleati, fu inviato Cratesippida, che la prese in consegna a Chio. 33. Frattanto, mentre Trasillo si trovava in Atene, Agide fece una sortita da Decelea e si spinse fin sotto le mura. Trasillo fece uscire tutti gli Ateniesi e tutto il resto della popolazione che si trovava in città, schierandola in prossimità del Liceo [ginnasio], pronto a dar battaglia se gli Spartani fossero avanzati. 34. A questa manovra Agide rispose con una rapida ritirata, ma alcuni uomini della sua retroguardia in piccolo numero restarono uccisi dalla fanteria leggera. Gli Ateniesi perciò erano ancora più inclini a concedere a Trasillo ciò per cui era giunto. Fu votato un decreto che autorizzava la leva di mille opliti, di cento cavalieri e l'allestimento di cinquanta triremi. 35. Agide, che da Decelea poteva osservare il traffico del commercio cerealicolo nel porto del Pireo, si rendeva conto che a nulla sarebbe valso ostacolare gli Ateniesi per terra, se qualcuno non avesse bloccato il luogo da cui il grano giungeva via mare; a suo avviso, la soluzione più opportuna consisteva nell’inviare Clearco, figlio di Ranfia, che era prosseno di Bisanzio, a Calcedone e a Bisanzio. 36. La proposta fu accettata. Dopo che Megara e altre città alleate equipaggiarono undici navi, più adatte al trasporto che alla corsa, Clearco salpò. Nell'Ellesponto tre navi furono distrutte dalle navi ateniesi di stanza nella regione per sorvegliare il traffico marittimo, mentre le altre fuggirono a Sesto donde raggiunsero incolumi Bisanzio. ,,�����������17. Lisandro, costeggiando la Ionia, da Rodi raggiunse l’Ellesponto, sia per controllare il traffico delle navi in transito, sia per prendere i contatti con le città che avevano abbandonato l’alleanza spartana. Anche gli Ateniesi salparono da Chio e si diressero al largo perché l'Asia era loro nemica. 18. Lisandro da Abido navigò verso Lampsaco, alleata di Atene, mentre gli abitanti di Abido e�di altre località lo seguivano via terra sotto la guida dello spartano Thorax. 19. La città fu assalita e conquistata con la forza, mentre i soldati la spogliavano delle sue cospicue provviste di vino, di cereali e di altri generi di prima necessità di cui era rifornita in abbondanza; gli abitanti di condizione libera furono da Lisandro ri-lasciati. 20. Gli Ateniesi che navigavano sulle loro tracce, gettarono l'ancora davanti ad Elaious nel Chersoneso con centoottanta navi, e lì, mentre si accingevano al pasto del mezzogiorno, fu loro annunciata

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la presa di Lampsaco e, alla notizia, salparono immediatamente per Sesto. 21. Qui si rifornirono e, senza perdere tempo, ripartirono per Egospotami che si trova proprio di fronte a Lampsaco, dove consumarono la cena. In questo punto l'Ellesponto è largo circa quindici stadi. 22. Lisandro nella notte seguente, quando era quasi l’alba, diede il segnale di imbarco alla flotta dopo il rancio e prese tutte le misure come se si dovesse affrontare un combattimento navale, compreso lo spiegamento dei parafreccia; quindi ordinò che nessuno uscisse dai ranghi né prendesse il largo. 23��Al levar del sole gli Ateniesi si schierarono in linea davanti al porto come per affrontare una battaglia navale, ma poiché Lisandro non accettò il combattimento ed� era ormai giorno inoltrato, ripiegarono di nuovo su Egospotami. 24.�Lisandro ordinò alle sue navi più veloci di seguire gli Ateniesi e di ritornare a riferirgli quali manovre effettuassero dopo lo sbarco, proibendo all'equipaggio di scendere a terra prima del loro ritorno. Ripeté questa operazione per quattro giorni di seguito e ogni volta gli Ateniesi avanzavano. 25��

Alcibiade, dalle mura del suo castello, notava che gli Ateniesi, all'ancora davanti alla spiaggia e lontani�da ogni centro abitato, erano nella necessità di rifornirsi a Sesto, distante quindici stadi dalle navi, mentre i nemici, al riparo nel porto e in prossimità di una città, erano provvisti di tutto. Pertanto fece sapere che non avevano ormeggiato nel luogo più adatto e suggerì di spostarsi verso Sesto, vicino a un porto e a una città. «Da quella posizione» disse «potrete combattere in un qualsiasi momento.» 26.� Gli strateghi, invece, soprattutto Tideo e Menandro, gli ingiunsero di allontanarsi, perché essi erano i comandanti e non lui. Pertanto Alcibiade si allontanò. 27��Lisandro, quattro giorni dopo l’arrivo degli Ateniesi, diede disposizioni alle navi, che dietro suo ordine li seguivano, di curare il momento in cui i nemici fossero scesi a terra e si fossero dispersi nel Chersoneso, cosa che di giorno in giorno facevano sempre più spesso, sia perché dovevano acquistare lontano i viveri, sia perché sottovalutavano Lisandro che non li� attaccava. Quindi avrebbero dovuto immediatamente fare ritorno e, a metà navigazione, innalzare uno scudo. Gli ordini furono eseguiti. 28. Allora Lisandro diede subito il segnale di salpare rapidamente e imbarcò Thorax con la sua fanteria. Conone scorse la flotta che avanzava e diede il segnale ai suoi di prepararsi alla difesa con tutte le loro forze. Purtroppo gli uomini erano scesi a terra e sulle navi, non erano rimasti che i due ordini di rematori, anzi su alcune uno soltanto e altre erano perfino prive dell'intero equipaggio. La nave di Conone e le sette intorno, le uniche al completo, presero il largo in formazione compatta insieme alla Paralos, ma il resto della flotta fu catturato da Lisandro vicino alla costa. Questi radunò la maggior parte degli uomini a terra; altri fuggirono verso i fortini. 29. Quando Conone, in fuga con le nove navi, apprese che le sorti ateniesi erano perdute, si portò ad Abarnis, la rocca di Lampsaco, dove si impossessò delle grandi vele delle navi dì Lisandro. Dopo questa azione, con otto navi si recò a Cipro, da Evagora, mentre la Paralos fece vela per Atene per comunicare gli avvenimenti. 30. Lisandro portò le navi, i prigionieri e tutto il resto a Lampsaco e tenne sotto speciale sorveglianza gli strateghi, soprattutto Filocle e Adimanto. Il giorno in cui ultimò queste operazioni inviò Teopompo di Mileto, un corsaro, a Sparta, per riferire quanto era accaduto; questi raggiunse Sparta in due giorni e svolse la sua missione. 31. In seguito Lisandro radunò gli alleati e ordinò loro di prendere delle decisioni in merito ai prigionieri. In sede di riunione molte accuse si levarono contro gli Ateniesi sia per le illegalità commesse nel passato, sia per il decreto con il quale avevano approvato di tagliare la mano destra a tutti gli uomini catturati in caso di vittoria in battaglie navali; si fece anche presente che, tempo addietro, dopo la cattura di due triremi, una di Corinto e una di Andros, ne avevano gettato in mare l'equipaggio - lo

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stratego ateniese responsabile di quella esecuzione era stato proprio Filocle -.. 32. Si discussero moltre altre cose e, alla fine, fu deciso di uccidere tutti i prigionieri ateniesi ad eccezione di Adimanto perché fu l'unico, in ecclesia, a opporsi al decreto concernente il taglio della mano; anzi, fu da alcuni accusato di avere tradito le navi. Quanto a Filocle [colui che aveva fatto gettare fuori bordo gli Andri e i Corinzi], Lisandro dapprima gli chiese quale pena pensasse di meritare per avere trattato dei Greci in aperta violazione del diritto delle genti, quindi lo fece sgozzare. 2, 1. Dopo avere sistemato la situazione in Lampsaco, fece rotta per Bisanzio e Calcedone. Gli abitanti lo accolsero e con una convenzione lasciarono libera la guarnigione ateniese; i responsabili di avere consegnato Bisanzio ad Alcibiade si rifugiarono nel Ponto e, in seguito, ripararono ad Atene, dove ottennero la cittadinanza. 2. Tutte le guarnigioni ateniesi, e anche quegli Ateniesi nei quali gli capitava di imbattersi, furono da Lisandro rimandati ad Atene, muniti di salvacondotti validi soltanto per questa destinazione e non per altrove. Era infatti consapevole che, quanto più alta fosse stata la concentrazione di popolazione nella città e al Pireo, tanto più rapida sarebbe stata la carestia. Lasciò quindi lo spartano Stenelao a Bisanzio e a Calcedone come armosta ed egli salpò per Lampsaco, dove fece riparare le navi. 3. La Paralos giunse di notte e subito in Atene si diffuse la notizia del disastro. Un lamento corse dal Pireo, attraverso le Lunghe Mura, fino alla città, dove gli abitanti si passavano la notizia l'un l'altro. Quella notte nessuno dormì; tutti piangevano non solo i caduti, ma, ancor più, se stessi, prevedendo di dover subire la sorte che gli Ateniesi avevano inflitto agli abitanti di Melo, coloni spartani, quando li assoggettarono dopo un lungo assedio e, ancora, agli abitanti di Istiea, di Scione, di Torone, di Egina e a molte altre popolazioni della Grecia. 4. L'indomani fu convocata l'ecclesia nella quale si votò di chiudere tutti i porti, tranne uno, di mettere in efficienza le mura, di porvi delle sentinelle e di prendere tutte le misure necessario per preparare la città ad affrontare l'assedio.Gli Ateniesi si dedicavano a questi lavori. 5. Frattanto Lisandro con duecento navi dall'Ellesponto raggiunse Lesbo, dove stabilì la sua autorità su tutte le città, compresa Mitilene; quindi inviò nelle aree della Tracia dieci triremi sotto il comando di Eteonico, che impose nella regione governi filolaconici. . In seguito alla situazione che si era venuta a creare. Anche il resto della Grecia si ribellò ad Atene, tranne Samo; qui la popolazione fece una strage degli aristocratici e rimase padrona della città. 7. Dopo questi avvenimenti Lisandro mandò a dire ad Agide in Decelea e a Sparta, che era in procinto di arrivare con duecento navi. Gli Spartani, per ordine di Pausania, l'altro re di Sparta, uscirono dalla città con tutti gli uomini di cui disponevano, affiancati dagli alleati peloponnesiaci, ad eccezione degli Argivi. 8. Quando le truppe furono concentrate, Pausania ne assunse il comando e le fece accampare vicino alla città, nell'Accademia [così è chiamato un ginnasio]. 9. Lisandro giunse ad Egina e consegnò la città agli Egineti che si sforzò di raccogliere nel maggior numero possibile, così come aveva fatto con i Meli e con le altre popolazioni che erano state private della loro patria. Poi, dopo avere saccheggiato il territorio di Salamina, gettò l'ancora davanti al Pireo con centocinquanta navi, sbarrandone l'accesso alle navi mercantili. ,9���������8. 1. Questo era il corso delle operazioni di guerra sul fronte terrestre. Passiamo ora a descrivere le operazioni svoltesi sul mare o nelle città costiere, anche se, necessariamente, l'esposizione si limiterà a

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riferire gli avvenimenti degni di menzione, tacendo gli episodi secondari. Innanzi tutto Farnabazo e Conone, dopo la vittoria navale sugli Spartani, fecero il giro delle isole e delle città costiere scacciandone gli armosti spartani e impegnandosi in primo luogo a non fortificare le acropoli, in secondo luogo a rispettare la loro autonomia. 2. Tali promesse suscitarono un grande entusiasmo e le città manifestarono la propria approvazione con l'invio a Farnabazo di doni ospitali. 3 Mostravano, in sostanza, tutta la loro fondatezza i suggerimenti di Conone a Farnabazo, che gli aveva spiegato come, con l'attuazione di un programma basato su questi punti, si sarebbe accattivato la simpatia dei Greci, ma che, se questi avessero sospettato nel suo operato l'intenzione di assoggettarli, ogni singola città avrebbe opposto qualsiasi difficoltà e vi era il rischio di una coalizione greca, se si fossero intravisti tentativi in questo senso. 3. Farnabazo ne era stato convinto. Perciò si recò ad Efeso, dove consegnò quaranta triremi a Conone, gli diede appuntamento a Sesto e proseguì�il viaggio per terra fino ai suoi domini. Ora, al momento della battaglia navale, ad Abido si trovava Dercillida, suo nemico di vecchia data. Questi, anziché abbandonare la città, come fecero gli altri armosti, la tenne sotto il suo controllo e la conservò nell'amicizia con Sparta. Infatti convocò gli abitanti e rivolse loro il seguente discorso: 4. «Cittadini, al titolo di amici che da lungo tempo vi lega alla nostra città, le circostanze presenti vi offrono la possibilità di aggiungere quello di benefattori degli Spartani. Non vi è nulla di straordinario nel dimostrare la propria lealtà nella buona sorte, ma è impossibile scordare la solidarietà che viene offerta nei momenti difficili. Non siamo ancora al punto che una sconfitta navale sia sufficiente a distruggere la nostra potenza; già il passato, ai tempi della supremazia marittima ateniese, vi fornisce esempi di nostri interventi a favore degli amici e contro i nemici. Quanto maggiore è il numero delle altre città che, seguendo il corso degli avvenimenti, ci hanno abbandonato, tanto più la vostra fedeltà apparirebbe grande. Se vi trattenesse il timore di rimanere bloccati da un assedio, o per mare o per terra, ricordate da un lato che, al momento, non c'è una flotta greca sul mare, dall’altro, che qualsiasi tentativo di egemonia marittima da parte dei barbari urterebbe contro la resistenza di tutta la Grecia e che in queste condizioni, pertanto, la sua stessa sopravvivenza non può prescindere dalla vostra alleanza». 5. Le parole di Dercillida convinsero i presenti, anzi, infusero un grande entusiasmo. Da quel momento tutti gli armosti che arrivavano in città ricevevano una calorosa accoglienza e si giunse al punto mandare a chiamare quelli che si trovavano altrove. Dercillida riunì in questo modo nella città un numero consistente di uomini atti al servizio militare, quindi salpò verso Sesto, che si trova proprio dirimpetto ad Abido, a una distanza di otto stadi al massimo. Qui radunò tutti coloro che, con l’appoggio degli Spartani, avevano ottenuto di possedere una proprietà nel Chersoneso e perfino gli armosti cacciati dalle città d'Europa. Anche costoro accolse dicendo di tenere alto il loro morale. Li indusse a considerare che il potere del Re, da sempre esteso su tutta l'Asia, non aveva impedito la sopravvivenza di città, anche non grandi, come Temnos o come Aigai e altre località ancora dove potevano risiedere senza essere sottomessi all'autorità del Re. “Del resto» aggiungeva «non potreste trovare sede più sicura e inespugnabile di Sesto, il cui assedio richiede l'impiego simultaneo della marina e dell'esercito. » Con questi discorsi i proponeva appunto di impedire il diffondersi della paura. 6. Quando Farnabazo venne a conoscenza della situazione di Sesto e di Abido, mandò un ultimatum alle due città, ponendo la cacciata degli Spartani come condizione imprescindibile per evitare l'apertura di ostilità nei loro confronti. Poiché la risposta fu un rifiuto, diede a Conone precise disposizioni per bloccare la loro navigazione, mentre egli si sarebbe assunto personalmente

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il compito di saccheggiare il territorio di Abido. Tuttavia, queste operazioni non diedero il risultato di portare alla sottomissione delle due città, sicché Farnabazo decise di rientrare in patria, ma prima affidò a Conone l' incarico di guadagnarsi l'amicizia delle città dell'Ellesponto allo scopo di organizzare una flotta della massima entità per l’inizio della primavera. Infatti, l'ira che da tempo nutriva contro gli Spartani, per tutte le contrarietà subite a causa loro, lo spingeva a fare tutto il possibile per attuare i suoi propositi di vendetta con una invasione del territorio spartano. 7. Passò in questo modo anche l'inverno. All'inizio della primavera Farnabazo reclutò l'equipaggio per la sua ingente flotta cui aggiunse anche un forte contingente mercenario, e, con Conone, navigando attraverso l'arcipelago, sbarcò a Melo, sede prescelta come base per la spedizione contro Sparta. Da qui si diresse dapprima verso Pherai, il cui territorio fu saccheggiato, e da lì effettuò altri sbarchi nelle località costiere, cercando di trarre il maggior profitto dai sistematici saccheggi dei territori. Tuttavia, la configurazione geografica della zona, priva di porti, cui si aggiungevano la minaccia di un improvviso assalto nemico e la difficoltà di rifornimento, lo indusse a invertire la direzione in tutta fretta. Lungo la rotta del ritorno ormeggiò a Phoinikous, una località dell'isola di Cythera. 8. Lo sbarco preoccupò quelli che tenevano la città di Cythera; nel timore di subire un assalto, abbandonarono le mura e, in base ad accordi stipulati tra le due parti, ottennero il permesso di rientrare in Laconia. Secondo le disposizioni di Farnabazo, le mura di Cythera furono riparate e neIla piazzaforte subentrò una guarnigione agli ordini dell’armosta ateniese Nicofemo. Al termine di queste operazioni, Farnabazo raggiunse l'istmo di Corinto dove esortò gli alleati a combattere con impegno e a dimostrarsi degni della Re. Consegnò loro tutto il denaro che aveva con sé, quindi si dispose a ritornare in patria. 9. Conone gli fece presente che se gli avesse lasciato il comando della flotta, al cui mantenimento avrebbe provveduto autonomamente con i contributi delle isole, avrebbe potuto rientrare in Atene e dedicarsi alla ricostruzione delle Lunghe Mura e alla fortificazione del Pireo, progetto del quale disse di sapere che nulla sarebbe stato più traumatico per gli Spartani. «In questo modo- disse- ti procurerai la riconoscenza degli Ateniesi e contestualmente punirai i Lacedemoni; infatti, il risultato per il quale hanno maggiormente faticato, tu lo renderai vano”. Farnabazo dopo avere ascoltato, lo mandò volentieri ad Atene e, in aggiunta, stanziò un contributo per la ricostruzione delle mura. ,9����������� Gli Ateniesi interpretarono questa serie di azioni spartane tentativi di restaurazione dell'egemonia marittima cercarono di impedirlo opponendo loro Trasibulo di Stiria con quaranta navi. Questi, dopo essere salpato, si trattenne dal portare soccorso a Rodi, poiché era dell'opinione che non sarebbe stato semplice punire gli amici degli Spartani che occupavano un luogo fortificato e dal momento che Teleutias, loro alleato, si trovava sul posto con le navi, e, del resto, i loro amici non sarebbero caduti in mano nemica, in quanto tenevano le città, erano superiori di numero ed erano risultati vincitori in battaglia. 26. Prese la rotta dell'Ellesponto, ma l'assenza di avversari lo indusse a sfruttare la situazione per ottenere vantaggi a favore di Atene. E così, come prima iniziativa, avendo appreso della contesa tra Amedoco, re degli Odrisi, e Seute, signore della regione costiera, li riconciliò e li fece amici e alleati degli Ateniesi, nella convinzione che le città greche situate sul suolo della Tracia si sarebbero orientate più favorevolmente verso Atene se essi erano amici. 27. Su questo fronte la situazione poteva considerarsi calma e anche nelle città greche

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d'Asia, per gli amichevoli rapporti tra il re e Atene. Pertanto raggiunse Bisanzio. Qui appaltò la decima per le navi provenienti dal Ponto; abbattè l'oligarchia e instaurò la democrazia - intervento che valse a rendere accettabile al popolo di Bisanzio la presenza militare ateniese in città. 28. Riuscì anche a instaurare rapporti di amicizia con i Calcedoni e dopo questa serie di successi lasciò l’Ellesponto. In Lesbo trovò che tutte le città dell'isola, ad eccezione di Mitilene, seguivano una linea politica filospartana. Non ne assalì nessuna, ma prima radunò in Mitilene i quattrocento opliti della sua flotta, quanti degli esuli delle città si erano rifugiati a Mitilene, e vi aggiunse anche i più vigorosi della stessa popolazione di Mitilene. Fece intravedere la speranza, ai Mitilenesi che sarebbero diventati padroni dell'intera Lesbo nel caso che egli avesse preso le città, agli esuli che, se avessero assalito uniti le città una ad una, sarebbero stati in grado di ritornare in patria, ai fanti della marina che, rendendo Lesbo amica della loro città, avrebbero realizzato un grande afflusso di denaro. Dopo avere formulato questi incoraggiamenti e ordinato le truppe, le guidò contro Metimna. 29. Terimaco, che si trovava nella città in qualità di armosta spartano, alla notizia dell'arrivo di Trasimaco riunì gli opliti della sua flotta, gli abitanti di Metimna, nonché gli esuli di Mitilene presenti in città e marciò incontro al nemico per attenderlo al confine. Vi fu un combattimento: Terimaco morì, i suoi, volti in fuga, lasciarono sul campo un numero ingente di caduti. 30. In seguito all'esito del conflitto, Trasibulo guadagnò ad Atene molte città, mentre quante si mostravano refrattarie, furono saccheggiate per procurare bottino ai soldati. Dopo queste azioni si affrettò a raggiungere Rodi. Per ottenere anche qui il massimo rendimento delle truppe, prelevò denaro da varie città e giunse ad Aspendo, dove si ancorò alla foce del fiume Eurimedonte. Quando oramai aveva riscosso il denaro dagli abitanti di Aspendo, gli eccessi di violenza dei suoi uomini nei campi suscitarono la reazione di collera della popolazione di Aspendo, che durante la notte organizzò un attacco al campo. Trasibulo fu ucciso nella sua tenda. 31.Questa fu la fine di Trasibulo, altamente stimato come persona di merito. Gli Ateniesi lo sostituirono con Agirrio, che fu inviato ad assumere il comando delle forze navali. Gli Spartani intanto, dopo aver appreso che gli Ateniesi imponevano la decima in Bisanzio sui traffici commerciali della rotta pontica, che detenevano il controllo di Calcedone, che avevano instaurato amichevoli rapporti con le città dell'Ellesponto, grazie all'appoggio di Farnabazo, decisero che era necessario occuparsi della situazione. 32. Ora, a Dercillida non erano certamente imputabili deficienze o errori; tuttavia Anassibio, che godeva dell'amicizia degli efori, si diede da fare per andare lui stesso ad Abido in qualità di armosta. Se gli fossero stati concessi mezzi adeguati e una flotta, si impegnava a combattere gli Ateniesi con tale energia che i loro traffici nell'Ellesponto non sarebbero più andati bene. 33. Ad Anassibio furono concesse tre triremi e denaro sufficiente al reclutamento di un esercito mercenario di un migliaio di uomini e partì. Arrivato a destinazione, raccolse sul territorio un contingente di mercenari; staccò alcune città dell’Eolide dall'alleanza con Farnabazo; rispose agli attacchi mossi da altre città contro Abido con incursioni nel loro territorio, nel corso delle quali infliggeva alla regione saccheggi e devastazioni. Oltre alle navi che ricevette in consegna, ne equipaggiò altre tre fornite da Abido e impiegò queste forze in azioni corsare per intercettare e catturare navi ateniesi o alleate, 34 Apprendendo queste novità, gli Ateniesi temettero di vedere sfumare i risultati ottenuti da Trasibulo nell'Ellesponto e perciò mandarono nella zona Ifìcrate con otto navi e circa milleduecento peltasti. Si trattava, nella maggior parte dei casi degli stessi uomini che

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avevano combattuto ai suoi ordini a Corinto. Quando gli Argivi riuscirono a fare di Corinto un’altra Argo, gli comunicarono di non avere più bisogno di lui –in realtà aveva ucciso alcuni esponenti del partito filoargivo-. Era quindi ritornato in Atene, dove tuttora viveva conducendo vita ritirata. 35. Al loro arrivo nel Chersoneso in un primo momento Anassibio e Ifìcrate aprirono le ostilità, colpendosi reciprocamente con una serie di attacchi corsari, ma dopo un certo tempo Ificrate venne a sapere che Anassibio aveva raggiunto Antandro con i mercenari, le truppe spartane e i duecento opliti di Abido, e sentì dire che aveva ottenuto di stipulare un patto di amicizia con Antandro; con il sospetto che, dopo avere ristabilito la guarnigione del posto, ripartisse e riconducesse in patria gli Abideni, di notte attraversò lo stretto, sbarcando in un punto deserto del territorio di Abido, e da lì risalì sulle montagne per organizzarvi un'imboscata. Le triremi che lo avevano trasportato ricevettero l'ordine di bordeggiare, il giorno successivo, la costa del Chersoneso, dirigendosi a nord, per far credere che si disponessero a una delle consuete operazioni di requisizione. 36. Così facendo non si ingannò; di fatto Anassibio era sulla via del ritorno e, a quanto si dice, quel giorno i sacrifici non avevano dato presagi favorevoli, ma egli non se ne era preoccupato, perché la marcia si sarebbe svolta attraverso un territorio amico, come pure amica era la città che doveva raggiungere. Anche le informazioni raccolte durante il viaggio sugli spostamenti di Ificrate furono rassicuranti, in quanto lo dicevano in viaggio, per mare, verso il Proconneso. Procedeva dunque senza eccessive precauzioni. 37. Finché l'esercito di Anassibio avanzò su un terreno uguale, Ificrate non si mosse. Ma quando gli Abideni dell'avanguardia arrivarono nella pianura di Cremaste, dove si trovavano le loro miniere d'oro, mentre il resto dell'esercito era ancora impegnato nella discesa lungo il fianco della montagna - Anassibio con i suoi iniziava la discesa proprio allora -, Ificrate fece balzare fuori i suoi uomini e li spinse di corsa verso il nemico. 38. Anassibio si rese conto che non aveva la minima possibilità di salvezza. vedendo l'esercito disposto su una fila lunga e stretta e valutando che lungo il terreno in pendio l'avanguardia non sarebbe stata evidentemente in grado di portargli aiuto. Vedendo quindi tutti sconvolti a causa dell'imboscata, rivolse ai presenti queste parole: «Soldati, il mio dovere è di morire sul campo di battaglia, ma voi mettetevi in salvo, non attendete l’urto con il nemico». 39. Così dicendo strappò lo scudo dalle mani del suo ipaspista e morì combattendo sul posto. Ma il suo favorito non lo abbandonò. Quanto agli armosti delle città che si erano uniti a lui in Abido, una dozzina, caddero combattendo al suo fianco; il resto dei Lacedemoni perì nella ritirata, durante l'inseguimento che si spinse fino alla città. Le perdite ammontarono a circa duecento uomini dell'esercito e a una cinquantina di opliti abideni. Dopo questa azione Ificrate ritornò nel Chersoneso.

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',2'252�6,&8/2�;,,, (trad. P. Martino) �������������D�&���104. Trascorso quest’anno, ad Atene era arconte Alessia e a Roma vennero designati tre tribuni militari con potestà consolare: Caio Giulio, Publio Cornelio e Caio Servilio. Costoro essendo al governo, gli Ateniesi dopo l'esecuzione capitale degli strateghi incaricarono del comando Filocle e, affidata a lui l'armata navale, lo inviarono presso Conone con l'incarico di condividere con questo la direzione delle forze armate. Filocle arrivò a Samo da Conone e qui mise in assetto di guerra le navi, in numero di centosettantatré. Fu deciso di lasciare venti navi sul posto, mentre tutte le altre partirono per l'Ellesponto al comando di Conone e Filocle. Intanto Lìsandro, il navarco di Sparta, dopo aver raccolto trentacinque navi degli alleati più vicini in Peloponneso, approdò a Efeso. Fece venire la flotta da Chio e la mise in allestimento. Si recò inoltre nell'interno, presso Ciro figlio del re Dario, da cui ricevette ingenti finanziamenti per le vettovaglie ai soldati. Lo stesso Ciro, poiché il padre lo chiamava in Persia, affidò a Lisandro la sovrintendenza delle città che teneva a sé sottoposte, e dispose che i tributi fossero versati a lui. Lisandro dunque, avendo provveduto a ben organizzare ogni cosa per la guerra, fece ritorno a Efeso. Proprio in quel periodo a Mileto i fautori dell'oligarchia rovesciarono il demo con l'attiva cooperazione dei Lacedemoni. Per prima cosa, durante le feste Dionisie, misero le mani sui principali avversari, sorpresi nelle loro case - circa quaranta persone - e li ammazzarono; dopodiché, nell'ora del mercato pieno, eliminarono altri trecento che aggiunsero all'elenco, individuandoli fra i benestanti. Tra i cittadini di parte democratica i più ragguardevoli, che erano non meno di mille, impauriti dalla gravità della situazione, fuggirono presso il satrapo Tissaferne; questi li accolse generosamente e, dopo aver donato a ciascuno uno statere d'oro, li fece stabilire a Blaude, un borgo fortificato della Lidia. Quanto a Lisandro, con il grosso delle navi fece vela su Iaso in Caria (questa città era alleata di Atene) e la prese con la forza; fece strage degli ottocento maschi adulti, vendette bambini e donne e rase al suolo la città. Poi volse le prue contro l'Attica e contro altre località, ma non concluse azioni importanti né degne di memoria (che, pertanto, non mi sono preoccupato di registrare); da ultimo prese Lampsaco: concordò la resa della guarnigione ateniese, che lasciò libera; quindi, dopo il saccheggio, restituì la città agli abitanti. 105. Gli strateghi ateniesi, informati che l'intera armata lacedemone era all'assedio di Lampsaco, raccolsero triremi da ogni parte e mossero sollecitamente con centottanta navi contro il nemico. Trovarono la città già espugnata, e allora ormeggiarono le navi a Egospotami; e ogni giorno uscivano in mare, provocando il nemico a battaglia. Ma, poiché questi non veniva fuori, gli Ateniesi erano incerti sul da farsi, non potendo più a lungo provvedere al mantenimento dell'armata in quel luogo. Venne a trovarli Alcibiade: riferì che i re dei Traci, Medoco e Seute, erano suoi amici, e avevano acconsentito a fornire un numeroso esercito, se egli avesse voluto continuare a far guerra ai Lacedemoni; perciò pregava gli strateghi di rimettere nelle sue mani il comando, promettendo loro una delle due cose: o di stringere il nemico ad accettare la battaglia navale, o di proseguire lo scontro sulla terra con l'aiuto dei Traci. Ciò facendo Alcibiade desiderava che una grande impresa fosse compiuta per sua mano a favore della patria e che il demo, grazie a questo beneficio, tornasse all'antica benevolenza nei suoi riguardi. Ma gli strateghi ateniesi pensarono che in caso di insuccesso il biasimo sarebbe venuto a loro, mentre la riuscita

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sarebbe stata attribuita ad Alcibiade; così gli ordinarono subito di andarsene e di non avvicinarsi più al campo. 106. Dal momento che il nemico non accettava la battaglia navale, e che l’esercito si trovava in penuria dì viveri, Filocle nel giorno in cui il comando gli spettava ordinò agli altri trierarchi di armare le triremi e di seguirlo; quanto a lui, salpò in anticipo con trenta navi già pronte. Lisandro, informato di ciò da alcuni disertori, si mosse con tutta la flotta: mise in fuga Filocle e lo inseguì in direzione delle altre navi. Poiché le triremi ateniesi non erano ancora armate, tutti piombarono nella confusione a causa dell'inaspettata apparizione del nemico. Lisandro, vedendo lo scompiglio degli avversari, effettuò un rapido sbarco dei reparti abitualmente impegnati nel combattimento di terra, al comando di Eteonico: questi, sfruttando il momento critico, occupò parte dell'accampamento. Lisandro da parte sua attaccò con tutte le triremi in pieno assetto; agganciò con le mani di ferro le navi ormeggiate a terra e si mise a trascinarle via. Gli Ateniesi, sconvolti dall'evento imprevisto, non ebbero la possibilità né di manovrare le navi per il contrattacco né di disputare un regolare combattimento per via di terra; riuscirono a resistere ben poco, poi furono volti in fuga. Abbandonando di corsa chi le navi, chi l'accampamento, scapparono dovunque ciascuno poteva sperare di salvarsi. Soltanto dieci triremi sfuggirono al nemico, fra cui quella dello stratego Conone; questi, temendo la collera del demo, disperò di poter far ritorno ad Atene e cercò rifugio presso Evagora, che era a capo di Cipro e col quale aveva rapporti di amicizia. Il grosso dei soldati fuggì per via di terra e trovò scampo a Sesto. Lisandro catturò tutte le altre navi e prese prigioniero lo stratego Filocle, che tradusse a Lampsaco dove lo fece trucidare. Dopodiché inviò a Sparta il messaggio della vittoria sulla trireme migliore, adorna delle armi e delle spoglie più preziose. Andò poi in spedizione contro gli Ateniesi rifugiati a Sesto: espugnò la città e, pattuite le condizioni di resa, lasciò andare liberi gli Ateniesi. Dopo fece vela su Samo e si pose ad assediarla; nel contempo, affidò a Gilippo (l’uomo che in Sicilia aveva combattuto al fianco di Siracusa) il compito di portare a Sparta il bottino di guerra e, insieme con questo, millecinquecento talenti d'argento. Il denaro era contenuto in sacchetti, ciascuno dei quali aveva una scritta di « scitale » che registrava la somma; Gilippo, che non lo sapeva, aprì i sacchetti e sottrasse cento talenti. Ma gli efori lo scoprirono grazie alla scritta; così fu processato e condannato a morte. Caso pressoché identico era capitato tempo addietro a suo padre Clearco, processato sotto l'accusa di aver ricevuto denaro da Pericle per evitare l'invasione dell'Attica; condannato a morte, fuggì e andò a vivere a Turi in Italia. Questi uomini dunque, altrimenti stimati capaci, con tali azioni macchiarono ogni altro merito della loro vita. 107. Gli Ateniesi, avendo appreso la notizia della distruzione dell'armata, rinunciarono a protrarre la resistenza sul mare: si davano a fortificare le mura e a trincerare i porti, aspettandosi, com'era verosimile, di essere sottoposti ad assedio. E così fu ben presto: i re dì Sparta, Agide e Pausania, invasero l'Attica con una grande armata e posero il campo davanti alle mura; Lisandro si presentò al Pireo con più di duecento triremi. Pur stretti in una morsa così grave, gli Ateniesi resistevano; e non fu difficile difendere le mura per un certo tempo. I Peloponnesiaci allora, poiché l'assedio era difficoltoso, decisero di ritirare le fanterie dall'Attica, ma dì proseguire a oltranza il blocco navale, onde impedire al nemico i rifornimenti di viveri. La messa in opera di questo piano provocò in Atene una tremenda penuria di tutti i generi, specie alimentari, dato che questi ultimi provenivano di regola via mare. La calamità cresceva di giorno in giorno, e la città si riempì di

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morti; e così i vivi mandarono una ambasceria ai Lacedemoni e chiesero la pace, accettandone le conseguenti condizioni: distruggere le Lunghe Mura come anche le mura del Pireo, conservare non più di dieci navi da guerra, ritirarsi da tutte le città e subire l'egemonia dei Lacedemoni. Questa fu dunque la fine della guerra del Peloponneso, la più lunga che conosciamo, durata ventisette anni.

'HFUHWR�GL�$ULVWRWHOH��,*�,,ð���� �6\OO�ñ����� �7RG����� Sotto l’arcontato di Nausinico (378 a..C.) Era segretario Callibio figlio di Cefisofonte del demo Paiania. Nella settima pritania della tribù Ippotontide, la bulè e il demo decretarono, presiedeva Carino di Atmone. Aristotele propose: Alla buona fortuna degli Ateniesi e degli alleati degli Ateniesi; se i Lacedemoni lasciassero i Greci liberi ed autonomi, ci sarebbe la pace, avendo le proprie terre stabilmente...[linee cancellate: forse riferimento alla koiné eiréne] 15. Il demo decretò: se qualcuno, dei Greci o dei barbari che abitano il continente o le isole che non siano del re, voglia essere alleato degli Ateniesi e degli alleati, a quello sarà concesso di essere libero e autonomo, di governarsi con la costituzione che preferisce, non dovrà accettare presidi nè ricevere magistrati nè pagare un tributo, con le stesse condizioni stabilite per i Chii e i Tebani e gli altri alleati. 25. A coloro che fanno alleanza con gli Ateniesi e con gli alleati, il demo restituisca le proprietà fondiarie, quante siano degli Ateniesi, private o pubbliche, nel territorio di coloro che fanno l'alleanza, e su questo dia garanzia...se per caso in Atene ci fossero delle epigrafi non favorevoli alle città che aderiscono all'alleanza con gli Ateniesi, che la bulè abbia sempre la possibilità di farle cancellare. 35. A partire dall'arcontato di Nausinico, nessun Ateniese potrà sia a titolo privato sia a titolo pubblico possedere nei territori degli alleati né una casa né un fondo tanto se il possesso deriva da una vendita quanto se deriva da costituzione d'ipoteca o da qualunque altra causa. Se un Ateniese acquista per via di compera o sotto qualche altro titolo un immobile o ne riceve uno in annullamento di un credito, chi vuole degli alleati potrà denunciarlo al sinedrio dei simmachi. E i sinedri assegnino la metà dei beni resi al delatore, ed il resto sia proprietà comune degli alleati. 46. Se qualcuno attacca i membri della lega o per terra o per mare, gli Ateniesi e gli alleati verranno in aiuto per terra e per mare con tutta la forza per quanto possibile. Se qualcuno, magistrato o privato cittadino, parli o ponga ai voti contro questo decreto che debba esser abrogato quanto detto in questo decreto, dev'esser privato dei diritti civili, le sue ricchezze devono diventare pubbliche, e la decima della dea, e dev'esser giudicato dagli Ateniesi e dagli alleati in quanto nemico dell'alleanza, e sia punito con la morte o con l'esilio, come decideranno gli Ateniesi e gli alleati, se è punito con la morte, non venga ucciso nè in Attica né in territorio alleato. 63. Il segretario della bulè faccia scrivere questo decreto su una stele di marmo e la ponga presso Zeus Eleuterio. Diano il denaro per l'incisione della stele, sessanta dracme, i tesorieri della dea dai 'dieci talenti'. 69. Su questa stele si scrivano i nomi di tutte le città alleate e qualunque altra diventi alleata. Si scrivano queste, poi il demo scelga tre ambasciatori che partano subito per Tebe, per persuadere i Tebani che è bene ciò che possono.

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Furono scelti Aristotele di Maratona, Pirrandro di Anaflisto e Trasibulo di Collito

�',2'252�6,&8/2 ;9 (trad. D.P. Orsi) 28.(377-76 a.C.) Essendo arconte ad Atene Callia, i Romani al posto dei consoli elessero quattro tribuni militari: Lucio Papirio, Marco Publio, Tito Cornelio, Quinto Lucio. In questo anno, poiché i Lacedemoni avevano subito uno scacco a Tebe, i Beoti si fecero coraggio, si unirono e, stipulata una alleanza comune, formarono un considerevole esercito, convinti che i Lacedemoni sarebbero venuti in Beozia con ingenti forze. Gli Ateniesi inviarono i cittadini di maggior prestigio come ambasciatori nelle città soggette a Sparta, esortandole ad abbracciare la causa della comune libertà. Giacché i Lacedemoni, a causa della grande potenza di cui disponevano, dominavano sui sudditi in forme sprezzanti e gravose: per questo motivo molti di quelli erano favorevoli agli Ateniesi. Per primi accettarono di ribellarsi gli abitanti di Chio e di Bisanzio e, dopo costoro, gli abitanti di Rodi, di Mitilene e alcuni altri isolani; diffondendosi sempre più fra i Greci il movimento rivoluzionario, molte città si unirono agli Ateniesi. Il popolo, inorgoglitosi per il favore degli alleati, creò un sinedrio comune di tutti gli alleati e designò i rappresentanti di ciascuna città. Si decise di comune accordo che il sinedrio si riunisse ad Atene, che ogni città, grande e piccola con uguali diritti, disponesse di un sol voto, che tutte fossero autonome ma riconoscessero l'egemonia di Atene. I Lacedemoni, pur vedendo che era incontenibile lo slancio delle masse verso la rivolta, tuttavia si sforzavano di porre riparo all'ostilità degli uomini con ambascerie e discorsi amichevoli, ancora con promesse di benefici. Ma dedicavano pure grande attenzione ai preparativi per la guerra, convinti che la guerra beotica sarebbe stata lunga e difficile per loro, dal momento che alleati dei Tebanì erano gli Ateniesi e gli altri Greci che facevano parte del sinedrio. ;9���� (376-75 a.C.) Essendo arconte ad Atene Carisandro, i Romani al posto dei consoli elesserò quattro tribuni militari, Servio Sulpicio, Lucio Papirio, Tito Quinzio; gli Elei celebrarono la centounesima Olimpiade, nella quale vinceva la corsa dello stadio Damone di Turi. In questo anno, in Tracia, i Triballi, afflitti da una carestia, fecero in massa una spedizione nella zona oltre confine e si procuravano i viveri in terra straniera. Erano più di trentamila: percorsero la confinante Tracia e devastarono indisturbati il territorio degli Abderiti. Impadronitisi di molto bottino, ritornavano in patria indisciplinati e sprezzanti. Gli Abderiti marciarono in massa contro di loro, che facevano il viaggio di ritorno in gruppi sparsi e in disordine, e ne uccisero più di duemila. I barbari, incolleritisi per quanto era accaduto e volendo vendicarsi degli Abderiti, irruppero di nuovo nel loro territorio. Gli Abderiti, che avevano già ottenuto una vittoria e si erano esaltati per il successo, avevano poi ricevuto rinforzi dai confinanti Traci, scesero in campo contro i barbari. Si combatté una furiosa battaglia nella quale i Traci, all'improvviso, mutarono schieramento e gli Abderiti, rimasti soli, furono circondati dal gran numero dei barbari: quasi tutti coloro che partecipavano alla battaglia furono fatti a pezzi. Ma quando gli Abderiti, colpiti da una così grave sventura, furono sul punto di essere assediati, l'ateniese Cabria, apparso con un esercito, li sottrasse ai pericoli, scacciò i barbari dal loro

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territorio e lasciò una forte guarnigione nella città; Cabria fu poi ucciso a tradimento da taluni. Assunse il comando della flotta Timoteo e navigò fino a Cefalonia; si guadagnò l'amicizia delle città dell'isola e convinse ugualmente le città di Acarnania a volgersi verso Atene; ottenne l'amicizia di Alceta, il re dei Molossi e, in generale, estese l'influenza ateniese sulla maggior parte delle città in quella regione; vinse in battaglia navale i Lacedemoni presso Leucade. Compì tutte queste imprese rapidamente e con facilità, persuadendo con la forza delle parole, vincendo grazie al valore e alle doti di comandante. Per questa motivo godeva di largo consenso non solo presso i cittadini ma anche presso gli altri Greci. E per quel che riguarda Timoteo le cose stavano così. ;9����� (364-63 a. C.). Subito il popolo (tebano) decretò di costruire cento triremi e un numero corrispondente di arsenali e di esortare gli abitanti di Rodi, di Chio e di Bisanzio a collaborare al progetto. Epaminonda in persona fu inviato con un esercito nelle suddette città; egli intimorì Lachete - lo stratego degli Ateniesi che, con un'imponente flotta, era stato inviato a bloccare i Tebani-, lo costrinse ad allontanarsi e portò le città sotto l'influenza tebana. E' dunque opinione comune che, se quest'uomo fosse vissuto più a lungo, i Tebani avrebbero aggiunto all'egemonia sulla terraferma il dominio sul mare. Ma di lì a poco Epaminonda morì eroicamente nella battaglia di Mantinea. ;9, (D. P. Orsi) � (358-57 a.C.). Nello stesso periodo Filippo, il re dei Macedoni che aveva vinto in una grande battaglia campale gli Illiri e aveva reso suoi sudditi tutti coloro che abitavano fino al così detto lago Licnitide, ritornò in Macedonia, dopo aver stipulato una pace gloriosa con gli Illiri e godendo ormai di gran fama presso i Macedoni per i successi dovuti al suo valore. In seguito, poiché gli abitanti di Anfipoli gli erano ostili e gli offrivano molti pretesti per la guerra, marciò contro di loro con un considerevole esercito. Avendo accostato alle mura macchine da guerra e lanciando attacchi vigorosi e continui, abbatté con gli arieti una parte del muro; penetrato nella città attraverso la breccia e abbattuti molti degli avversari, si rese padrone della città, mandò in esilio quelli che gli erano ostili, sì comportò umanamente con gli altri. La conquista di questa città, situata in posizione vantaggiosa rispetto alla Tracia e alle zone vicine, favori molto l'espansione di Filippo. Subito, infatti, assoggettò Pidna, stipulò alleanza con gli Olinti e promise di procurar loro Potidea, per impadronirsi della quale gli Olinti avevano fatto grandi sforzi. Poiché gli Olinti abitavano una città potente e che aveva gran peso in guerra a causa del gran numero dei residenti in essa, la città era oggetto di contesa per coloro che aspirassero ad estendere la propria influenza; per questo motivo gli Ateniesi e Filippo erano in competizione fra loro per assicurarsi l'alleanza di Olinto. Tuttavia Filippo, espugnata Potidea, scacciò dalla città la guarnigione ateniese e, comportatosi umanamente nei suoi confronti, la fece tornare ad Atene: infatti usava grande cautela verso il popolo ateniese, data la potenza e il prestigio della città. Ridusse in schiavitù la città, la consegnò agli Olinti, cui donò insieme anche i possessi presenti nel suo territorio. In seguito si recò nella città di Crenidi: accrebbe il numero degli abitanti e le mutò il nome in Filippi, chiamandola così dal suo. Quanto alle miniere d'oro della città, dal rendimento proprio scarso e prive di importanza, le rese tanto produttive con i suoi interventi da riuscire a ricavare una rendita di più di mille talenti. Di conseguenza, accumulando in breve tempo ricchezze in

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quantità sempre maggiore, grazie all'ampia disponibilità dì danaro condusse il regno di Macedonia ad altissimo livello: avendo coniato una moneta d'oro (che da lui prese nome ILOLSSR), formò un considerevole esercito di mercenari e, per mezzo di quella, indusse molti Greci a farsi traditori della patria. Ma, quanto a questo, le imprese narrate in dettaglio renderanno noto ogni particolare, mentre noi passeremo ad occuparci degli eventi subito seguenti. ��(356-55 a.C.). In Grecia, Chio, Rodi, Cos, ancora Bisanzio, continuavano a combattere contro gli Ateniesi la guerra sociale: le due parti in guerra facevano grandi preparativi, perché volevano decidere il conflitto con una battaglia navale. Gli Ateniesi, che avevano già inviato Carete con sessanta navi in un periodo precedente, allora, armate altre sessanta triremi e avendovi posto a capo come strateghi i più illustri fra i cittadini, Ificrate e Timoteo, li inviarono a continuare, insieme con Carete, la guerra contro gli alleati ribelli. Chio, Rodi e Bisanzio, con gli alleati, armate cento navi, saccheggiarono Imbro e Lemno, che appartenevano agli Ateniesi; fatta una spedizione contro Samo con un numeroso esercito, devastarono la campagna, assediavano la città per terra e per mare; depredando molte altre isole soggette agli Ateniesi, raccolsero danaro per le necessità della guerra. Gli strateghi degli Ateniesi, riunitisi tutti, si accinsero in un primo momento ad assediare la città dei Bizantini; in seguito, poiché Chio e i suoi alleati posero fine all'assedio di Samo per portare aiuto a Bisanzio, tutte le flotte vennero a riunirsi nell'Ellesponto. Quando stava per svolgersi la battaglia navale, li investì un forte vento che bloccò il loro piano. Poiché Carete voleva combattere nonostante le condizioni atmosferiche e Ificrate e Timoteo gli si opposero a causa delle enormi ondate, Carete, chiamando a testimoni i soldati, accusò i colleghi di essere traditori e scrisse di loro al popolo che avevano rinunciato di proposito alla battaglia. Gli Ateniesi, irritatisi, sottoposero a processo Ificrate e Timoteo, li condannarono a pagare una multa di molti talenti e li deposero dalla strategia. ��� Carete, ricevuto il comando dell'intera flotta e volendo liberare gli Ateniesi dalle spese di guerra, tentò una impresa audace. Artabazo si era ribellato al re e stava per combattere con pochi soldati contro i satrapi, che ne avevano settantamila. Carete gli venne in aiuto con l'intero esercito e vinse quello del re; Artabazo, per ringraziarlo del favore, gli donò gran quantità di danaro, con il quale fu possibile rifornire di mezzi tutto l'esercito. Gli Ateniesi, dapprima, approvarono l'impresa di Carete ma poi, quando il re inviò ambasciatori e accusò Carete, mutarono opinione: infatti, si era diffusa la notizia che il re aveva promesso ai nemici degli Ateniesi di aiutarli a sconfiggere Atene, fornendo loro trecento navi. Il popolo, temendo ciò, decise di porre fine alla guerra contro i ribelli; trovando che anche quelli desideravano la pace, si riconciliò facilmente con loro. Dunque, la guerra chiamata sociale ebbe tale esito, dopo essere durata quattro anni. In Macedonia tre re si coalizzarono contro Filippo: i re dei Traci, dei Peoni e degli Illiri. Essi, che erano confinanti con i Macedoni e guardavano con sospetto all'ingrandimento territoriale di Filippo, non erano in grado di combattere da soli, essendo stati già sconfitti; ritennero che, combattendo insieme, lo avrebbero vinto facilmente. Per questo motivo, mentre essi riunivano le truppe, Filippo, apparso all'improvviso a soldati in disordine e avendoli gettati nel panico, li costrinse ad unirsi ai Macedoni. ��

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;9,�������74.(341-40 a.C.) Essendo arconte ad Atene Nicomaco, i Romani elessero consoli Gaio Marcio e Tito Mallio Torquato. In questo anno l’ateniese Focione sconfisse Clitarco, il tiranno di Eretria insediato da Filippo. In Caria Pissodaro, il più giovane dei fratelli, scacciò dal regno Ada e governò per cinque anni, fino al passaggio di Alessandro in Asia. Filippo, espandendosi sempre più, marciò contro Perinto, a lui ostile e favorevole agli Ateniesi. La cinse d'assedio e, accostando macchine alla città, ogni giorno lanciava attacchi contro le mura, alternando i soldati. Costruì torri alte ottanta cubiti, che superavano di molto le torri di Perinto, e, dall'alto, logorava gli assediati. Parimenti, scuotendo le mura con gli arieti e scavando sotto gallerie, abbattè il muro per ampio tratto. Difendendosi i Perinti vigorosamente e avendo costruito subito al suo posto un altro muro, si svolgevano scontri mirabili e battaglie presso le mura. Entrambi dispiegarono grande emulazione: il re, che aveva catapulte in gran numero e di ogni genere, con queste uccideva coloro che combattevano sugli spalti; i Perinti, che giornalmente perdevano molti uomini, ricevettero rinforzi, dardi e catapulte dai Bizantini. E così, raggiunta nuovamente la parità con i nemici, ripresero coraggio e affrontavano audacemente i pericoli in difesa della patria. Né, invero, il re desisteva dal suo sforzo: divise le truppe in più gruppi e, con turni ininterrotti, combatteva presso il muro giorno e notte. Avendo trentamila soldati, gran quantità di dardi e di macchine d'assedio, ancora altri mezzi in quantità smisurata, logorava gli assediati. 75. Poiché l'assedio si prolungava e dei difensori in città, molti erano uccisi, non pochi feriti, inoltre i viveri mancavano, si prevedeva la conquista di Perinto. Tuttavia, la sorte ebbe a cuore la salvezza di chi si trovava in pericolo e fornì un inaspettato soccorso. Infatti, poiché la notizia dell'espansione di Filippo si era diffusa in Asia, il re, guardando con sospetto alla potenza di Filippo, scrisse ai satrapi che governavano sulla costa di portare aiuto ai Perinti con tutte le forze. Per questo motivo i satrapi, di comune accordo, inviarono a Perinto gran numero di mercenari e danaro in abbondanza, grano in quantità sufficiente, dardi e tutto quanto servisse alle necessità di guerra. Parimenti, anche i Bizantini inviarono i migliori fra i loro comandanti e soldati. Ritornate pari le forze e rinnovatasi la guerra, di nuovo l'assedio riceveva impulso straordinario. Infatti Filippo, percuotendo di continuo le mura con gli arieti, le faceva crollare; respingendo con le catapulte i difensori sugli spalti, da un lato, attraverso i varchi apertisi nei muri crollati, faceva irruzione con i soldati in formazione serrata, dall'altro, con le scale, saliva sulle mura, là dove erano prive di difensori. Ecco perché, essendosi la battaglia trasformata in un corpo a corpo, gli uni morivano, gli altri cadevano colpiti da molte ferite. Il premio che attendeva i vincitori eccitava il valore dei combattenti: i Macedoni, sperando di saccheggiare una città ricca e di essere onorati con doni da Filippo, resistevano ai pericoli nella speranza di guadagno; gli assediati, avendo davanti agli occhi le atrocità connesse con la conquista, affrontavano coraggiosamente il pericolo per salvarsi. 76. La posizione della città contribuì molto alla vittoria finale degli assediati. Perinto, infatti giace sul mare, sull'alto istmo di una penisola (l'istmo è lungo uno stadio) ed ha le case costruite fittamente e di straordinaria altezza��Esse sono costruite in modo da elevarsi l'una sull'altra lungo il fianco della collina e fanno assomigliare l'intera città ad un teatro. Per questo motivo, pur essendo le mura di continuo abbattute, i Perinti non ricevevano alcun danno; infatti, ostruendo le viuzze, si servivano delle case di volta in volta situate più in basso come di muri fortificati. Per questo motivo, ogniqualvolta Filippo si impadroniva del muro a costo di molte fatiche e pericoli, se ne trovava di fronte uno più robusto, quello che si formava

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automaticamente con le case. Inoltre, poiché Bisanzio forniva prontamente tutto quanto fosse utile per la guerra, Filippo divise le truppe in due gruppi e lasciò la metà dei soldati a continuare l'assedio, al comando degli ufficiali più abili; egli, con gli altri, piombò all'improvviso su Bisanzio e la cinse di vigoroso assedio. I Bizantini, poiché i soldati, i dardi e le altre cose utili erano a Perinto, cadevano in grande difficoltà. E questa era la situazione a Bisanzio e a Perinto. Tra gli storici, Eforo di Cuma ha concluso qui la sua storia, narrando l'assedio dì Perinto. Ha inserito nel suo scritto le vicende degli Elleni e dei barbari, cominciando dal ritorno degli Eraclidi: ha coperto un periodo di circa settecentocinquanta anni, scrivendo trenta libri, a ciascuno dei quali ha premesso un proemio. Diillo di Atene ha iniziato la seconda sezione della sua opera là dove si interrompe la storia di Eforo e racconta le vicende successive, riguardanti i Greci e i barbari, fino alla morte di Filippo. �

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La colonizzazione della costa tracia del mare Egeo, della Propontide e del Ponto Eusino, prolunga in senso spaziale e temporale il movimento di colonizzazione che si era rivolto verso la Calcidica a partire dall’ VIII secolo e, se il fenomeno coloniale si sviluppa soprattutto a partire dal secondo quarto del VII secolo, alcune fondazioni come quelle di Taso, Astaco e Calcedone sono un po’ più antiche del 675; quindi, come si è detto, non si ha una cesura netta tra le due fasi che a noi è parso comodo distinguere. E’ effettivamente nel primo quarto del VII secolo (verso il 682?) che un primo gruppo di Parii, seguiti un po’ più tardi da un secondo contingente, venne a stabilirsi nell’isola di Taso, dopo avere consultato l’oracolo di Delfi. A capo del primo gruppo era Telesicle, padre del poeta Archiloco. Lo stesso Archiloco prese parte all’impresa, in merito alla quale i frammenti delle sue opere superstiti forniscono qualche preziosa indicazione. Benché l’isola fosse piuttosto fertile –diverrà poi celebre per i suoi vini- Archiloco sembrava rammaricarsi che la sua ricchezza non fosse eguagliabile a quella del sito che i Colofonii occuparono intorno allo stesso periodo a Siris, sul golfo di Taranto; in cambio, sia l’isola che la regione prospiciente posta sul continente erano ricche di giacimenti auriferi, che per larga parte furono all’origine della prosperità di Taso. Il sito in cui i Tasi si insediarono sulla costa nord orientale dell’isola non sembra avere ospitato in precedenza un sito indigeno importante. Ma violente lotte, di cui Archiloco ci ha conservato il ricordo, dovettero essere ingaggiate contro le popolazioni trace che abitavano l’isola e le regioni vicine, soprattutto quando i coloni

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decisero di popolare il continente. In virtù della loro consistenza numerica, - uno dei due contingenti, senza dubbio il secondo, sembra avere raggiunto un migliaio di uomini – i nuovi venuti ebbero la meglio. Essi a quanto sembra presero le proprie mogli tra le donne della comunità indigena, forse dopo avere preso accordi con quest’ultima, senza tuttavia che si possa accertare, né in origine né in seguito, l’esistenza di una città in comune tra Greci e Traci. I Pari di Taso cercarono quasi immediatamente di occupare la porzione di continente prospiciente alla propria isola. Questa Perea tasia fu una città piuttosto importante e, nel corso del VII o del VI secolo, essa venne ad occupare tutto lo spazio di costa che separa la foce dello Strimone da quella del Nesto, inclusa dunque la ricca regione mineraria del monte Pangeo. In quell’area si trovavano Galepso, Esime, Skapte Hyle, Daton (il cui sito sarà più tardi rinominato Filippi), Neapolis, (attuale Cavala), basi fortificate la cui sussistenza era assicurata dalla miniere d’oro e dai proventi portuali, ma anche dall’agricoltura, e che rimasero a lungo strettamente dipendenti da Taso. Più a oriente, i Tasi occuparono Strime, sembra dai tempi di Archiloco, e ancora più distante, una colonia tasia tentò di occuare il Bosforo, ma fu ostacolata dai Megaresi di Calcedone; la città ripiegò allora su Eno, alla foce dell’Ebro, sulla costa egea della Tracia, ma fu parimenti sconfitta. La resistenza delle bellicose tribù trace non fu in effetti la sola difficoltà che i Tasi dovettero affrontare nelle prime fasi della propria storia: altre città greche infatti, contesero egualmente con le ambizioni dei coloni dell’isola. Così, Nasso che aspirava alla stessa Taso; Andro, che occupò la costa occidentale di Perea Tasia; Chio, che colonizzò Maronea; Lesbo e Cuma, che fondarono Eno, senza contare le lotte civili che infiammarono la nuova fondazione. A partire dal VII secolo, tuttavia, e ben prima che i Corinzi (intorno al 600) fondassero Potidea sull’istmo della Pallene, l’occupazione della penisola calcidica fu ultimata in direzione orientale con la fondazione di quattro colonie provenienti dall’isola di Andro, che si disposero tra il monte Athos e l’imboccatura dello Strimone: Sane, Acanto, Stagira, città natale di Aristotele, e Argilo (Tucidide IV 84. 88. 103. 109; Pseudo- Scimno, v. 646; Strabone VII, fr. 31; Dionigi di Alicarnasso /HWWHUH� DG� $PPHR 5; Plutarco, 4XHVWLRQL�

JUHFKH,�30; Eusebio p. 87 Schöne; cfr. Strabone X 1, 10). Gli Andri, che la guerra lelantina aveva liberato dalla dominazione eretriese, fondarono le tre prime città intorno al 654 con l’aiuto dei Calcidesi. Essi si impadronirono di Sane con il tradimento e trovarono Acanto abbandonata dai suoi abitanti. In seguito sorse una contesa tra Andro e Calcide, cui pose fine un arbitrato di Samo, Eritre e Paro; e, malgrado il voto contrario di Paro, Andro rimase la metropoli delle quattro fondazioni, dove peraltro furono mantenuti elementi calcidesi. Le quattro colonie di Andro si sostennero soprattutto grazie all’agricoltura e non conobbero che una mediocre espansione. Dall’altro versante di Perea Tasia, fu compiuto un primo tentativo di fondazione di Abdera proprio nello stesso periodo in cui aveva inizio la colonizzazione di Andro, intorno al 655-652, ad opera di Ioni di Clazomene. Il tentativo però non fu coronato da successo, poiché le popolazioni trace erano riuscite a respingerli in mare. Solamente nel 545 altri Ioni, lasciando Teo per sfuggire all’armata di Ciro, riuscirono a insediarsi, facendo rapidamente fiorire la città. Maronea invece, posta in una regione celebre per i suoi vini, fu fondata da Chio al tempo di Archiloco, ovvero intorno alla metà del VII secolo, e superò vittoriosamente l’ostilità delle popolazioni trace che la circondavano così come quella dei Tasi di Strime.

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A oriente di Strime, le tre piccole città fortificate di Sale, Zone e Mesembria, furono fondata in epoca imprecisata dai Sami che si erano già stanziati a Samotracia. Presso la foce dell’Ebro, in una grande e fertile pianura, Eno fu colonizzata da Eoli che si erano già stabiliti nel Chersoneso tracio, ad Alopeconneso, e che mandarono a chiamare, per popolare la nuova città, altri Eoli, di Cuma e Mitilene. Questo insediamento eolio di Eno, di cui non possiamo stabilire la precisa cronologia di fondazione, deve, come la fondazione di Abdera e Maronea, essere messa in relazione con la colonizzazione della Troade, dell’Ellesponto e della Propontide. �

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La colonizzazione della Troade, del Chersoneso tracio, della riva dell’Ellesponto e del Bosforo, ebbe inizio certamente a partire dall’VIII secolo e dal principio del VII secolo, benché la prima fase di tale ellenizzazione sia poco conosciuta e difficile da datare con precisione. Ma l’ampio flusso migratorio verso queste aree si situa nel secondo quarto del VI secolo solamente. I Greci dell’Eolide d’Asia, a motivo della prossimità geografica, ebbero un ruolo primario nella colonizzazione soprattutto della Troade e poi del Chersoneso. In questa regione, invece, la loro influenza è stata inferiore. I Tenedi occuparono una porzione della costa occidentale della Troade prospiciente alla propria isola, mentre, sulla costa meridionale, i Metimni e soprattutto i Mitilenesi di Lesbo ebbero la propria Perea. Dalle dodici antiche città continentali dell’Eolide d’Asia, Erodoto distingue gli insediamenti eoli della Troade, apparentemente più tardi, tra cui ci sono noti Asso, Neandria, Larisa di Troade, e Kebren, all’interno, che fu colonizzata da Cuma d’Eolide. La tradizione non ci ha trasmesso data di fondazione; e da alcuni dati archeologici che possediamo, pare che l’ellenizzazione della Troade non sia cominciata prima dell’VIII secolo e che si sia sviluppata soprattutto a partire dal VII secolo a.C. Nel prolungamento di questa immigrazione eolica in Troade, Sesto e la sua meno famosa vicina, Madito, sulla riva europea dell’Ellesponto, furono colonizzate dai Lesbi, Sull’altra riva del Chersoneso tracio, in direzione nord-occidentale, fu fondata Alopeconneso da altri Eoli, di Mitilene e senza dubbio anche di Cuma, una parte dei quali andò a colonizzare Aenos, come abbiamo visto. Ma sulle rive della Propontide, sono i Megaresi da una parte, e i Greci della Ionia asiatica dall’altra, in particolare i Milesi, che giocano il ruolo principale. Astaco si credeva fondata poco prima della fine dell’VIII secolo a.C. da Megara, vicino al sito della futura Nicomedia, che più tardi la rimpiazzò. Benché la regione fosse fertile, Astaco non fu che uno stanziamento agricolo di modesta importanza, per via delle lotte che dovette sostenere contro gli indigeni dei dintorni. Calcedone, all’ingresso del Bosforo sulla riva asiatica, fu colonizzata poco dopo, intorno al 687, dagli stessi Megaresi, che ignorarono l’insediamento di Bisanzio, dirimpetto al sito in cui si stanziarono, poiché essi erano più interessati all’agricoltura che alla pesca ed ai commerci; di qui il rimprovero che fu loro poi rivolto, di avere agito come ciechi. Per la stessa ragione, i Megaresi fondarono prima di Bisanzio, Selimbria, sulla riva europea della Propontide, che fu un insediamento agricolo ben più importante di Astaco. Infine, colonizzando Bisanzio intorno al 660, Megara si assicurò il controllo dell’ingresso al Bosforo, prima che i Milesi potessero impadronirsene; ma a Bisanzio stessa, i nuovi coloni, che ridussero gli indigeni di Bitinia dei paraggi allo stato di servi, cominciarono a dedicarsi soprattutto all’agricoltura, e

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fu solo in seguito che l’eccellenza dei loro approdi e la pesca del tonno accrebbero in misura considerevolele loro risorse. Quanto agli Ioni d’Asia, il loro primo stanziamento, Pario, posto all’uscita dell’Ellesponto e dotato di un buon porto, sarebbe stato fondato, se dobbiamo dar fede ad Eusebio, poco prima della fine dell’VIII a.C., come Astaco, ed è in ogni caso anteriore a Lampsaco. Questa data antica può spiegare che i Milesi non furono i soli a fondare la colonia e si unirono a Pari e ad abitanti di Eritre. A giudicare dai dati archeologici, Cizico, la più grande delle colonie milesie della Propontide, non fu stabilita prima del 676, su di un’isola montuosa piuttosto ampia, divenuta a tutt’oggi penisola, ma che in antico era collegata alla riva asiatica solamente da due ponti. Poco dopo la fondazione di Cizico, i Milesi si stanziarono nella vicina isola di Proconneso e soprattutto ad Abido, sulla riva asiatica, nel punto in cui l’Ellesponto si restringe. A quel tempo, nel secondo quarto del VII secolo, il re lidio Gige si era impadronito della Troade e fu con il suo beneplacito che i Milesi realizzarono tale fondazione. Benché Abido e Cizico traessero dall’attività agricola, in particolare dalla viticoltura, una parte considerevole della propria ricchezza, l’una e l’altra – soprattutto Cizico che godeva di buoni porti – trovarono presto la fonte principale del proprio benessere economico nella funzione di scalo sulla rotta marittima del Ponto Eusino. Altre piccole fondazioni milesie, di carattere principalmente agricolo – o basate, come Cio, sulla pesca – furono edificate su questa riva asiatica dell’Ellesponto, e all’ingresso della Propontide: Arisba, Colone, Paiso e Priapo; più all’interno: Scepsi, nel Chersoneso, Cardia, ove i fondatori ricevettero l’aiuto di Clazomene, e Limne; a est, Artace, non lontano da Cizico, e sulla riva asiatica della Propontide, Cio, che più tardi prese il nome di Prusia. Questi insediamenti furono occupati nel corso del VII secolo – così Cio verso il 628, o anche del VI. Lampsaco, invece, che fu la città greca più importante sulla riva asiatica dell’Ellesponto, fu fondata nel 654 da Focei. Il re codride che regnava allora a Focea, racconta Carone di Lampsaco, essendosi recato a Pario per commercio ed avendo avuto l’opportunità di portare aiuto al re dei Bebrici, che abitavano sul sito della futura Lampsaco, fu invitato da quest’ultimo a condividere le terre dei suoi sudditi. Egli accettò ed inviò, sotto la guida del fratello, un gruppo di Focei che dapprima fecero una sola comunità con i Bebrici ma che furono presto invisi per via delle loro rapine e che divennero infine i soli padroni della città massacrando i propri ospiti. Ora, benché la memoria delle loro origini focesi sia rimasta a lungo viva presso i Lampsaceni, come attesta un’iscrizione del 196 a. C. relativa a Massalia, risulta da Strabone che Lampsaco intratteneva all’occasione buoni rapporti con le colonne milesie che la circondavano. Mirleìa, da parte sua, in una data che non possiamo precisare, ricevette una colonia di Colofone. Sulla riva settentrionale della Propontide, infine, Samo fondò Perinto, all’incirca nel 600, Perinto che divenne una città piuttosto importante, e successivamente Bisanthè ed Héraion Teichos. Noi sappiamo da Plutarco che codesti Sami ebbero contrasti con le colonie megaresi, loro vicine. Il resto della costa della Propontide rimase, in età arcaica, nelle mani degli indigeni o dei colonizzatori più antichi, qui Pelasgi che Erodoto ci descrive stabiliti a Plakià e Scilace, a est di Cizico. Infine, nel VI secolo, un’ultima ondata colonnizatrice si volge verso l’Ellesponto, da Atene, di cui questa fu l’unica impresa di epoca arcaica. Dal 600, dopo una guerra contro i Mitilenesi che occupavano la regione vicina, Atene, in virtù dell’arbitraggio del tiranno Periandro di Corinto, prese forse possesso all’ingresso dell’Ellesponto, a Sigeo. In ogni caso, Sigeo fu occupata, intorno al 533, da Pisistrato, che ne affidò il governo ad uno dei suoi figli; là Ippia si rifugiò quando fu costretto ad abbandonare Atene. Nel frattempo,

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intorno al 560, Milziade il Vecchio, che mal sopportava la tirannide di Pisistrato, fu, su esortazione della Pizia, invitato dai Dolonci del Chersoneso Tracio, in guerra con i loro vicini Apsinti, a regnare su di loro, ed egli condusse con sé un gruppo di Ateniesi, poi tra Cardia e Pactie, chiuse l’istmo del Chersoneso con un muro difensivo. Suo nipote Milziade II gli succedette, regnando sull’intero Chersoneso; egli invitò altri Ateniesi a stabilirsi a Lemno e ad Imbro, da cui cacciò gli abitanti Pelasgi. �

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Due città, Megara e Mileto, fondarono da sole, in forma diretta o indiretta, quasi tutte le colonie greche del Ponto Eusino. Ancora, Megara non ebbe che un ruolo del tutto secondario, con l’invio di solamente quattro colonie e non tra le più grandi; ma è questa città che, con Calcedone e Bisanzio, controllò l’ingresso del Bosforo, ed è in accordo con essa che Mileto colonizzò i suoi numerosi stanziamenti del Ponto Eusino, al punto che Eraclea Pontica e Bisanzio furono talora considerate, erroneamente, colonie milesie. Mentre sulle rive del Mediterraneo e anche della Propontide, i colonizzatori greci avevano trovato un clima piuttosto simile a quello della loro patria d’origine, sulle rive del Ponto Eusino, le condizioni geografiche erano affatto diverse, e tale differenza contribuisce in certa parte a spiegare il carattere particolare di alcune di queste colonie, soprattutto di quelle milesie. Per Megara, in effetti, le sue fondazioni furono, in certa misura, in origine, delle colonie agricole. Così Eraclea del Ponto fondata intorno al 560 da Megara (con un apporto di Beoti?) aveva certo un porto e dovette parte del proprio successivo sviluppo al commercio marittimo. Ma l’estensione della sua zona di influenza e il fatto che i colonizzatori greci vi ridussero gli indigeni Mariandini allo stato di servaggio indica quale posizione di rilievo abbia ivi occupato l’agricoltura. Sulla riva opposta del Mar Nero, Chersoneso Taurica occupava parimenti una posizione dotata di buoni approdi e in più facilmente difendibile, ma noi sappiamo che essa dovette una parte della propria ricchezza alla coltura della vigna, che ben si adattò in quell’area meridionale della Crimea. Essa fu fondata nel 422-421 da Eraclea del Ponto per ordine di un oracolo, forse con una partecipazione delia che, in ogni caso, non ha lasciato segno alcuno, né nel dialetto, puramente dorico, né nelle istituzioni cittadine. Quanto a Callati, essa fu colonizzata dai Megaresi di Eraclea del Ponto – all’epoca in cui Aminta divenne re di Macedonia, cioè intorno al 540, mentre Mesambria, che non era certo lontana, non fu occupata che nel 510 da Megaresi di Bisanzio e Calcedone che erano fuggiti dinanzi alla minaccia persiana di Dario. Se, nel Ponto Eusino, non più che in Propontide, noi non abbiamo alcuna traccia archeologica dello stanziamento milesio risalente all’VIII secolo, le prime colonie milesie vi furono inviate dalla metà del VII secolo. A questa epoca, in effetti, si data la fondazione di Sinope che, più importante ancora di Eraclea del Ponto, fu la città principale della costa settentrionale dell’Asia Minore. Un tentativo di insediamento compiuto una prima volta dai Milesi Abrandas era quasi completamente fallito, a quanto dicono le fonti, a causa della massiccia scorreria compiuta dai Cimmeri in Asia Minore nel corso del VII secolo. Poco dopo, intorno al 630 secondo Eusebio, Sinope fu nuovamente e definitivamente fondata da due esuli di Mileto e la città si accrebbe rapidamente, grazie alla propria posizione sull’istmo di una piccola penisola, ai suoi due porti ed alla sua flotta.

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A oriente di Sinope, quattro anni prima della fondazione di Eraclea Pontica, 564 a. C., Mileto colonizzò ancora Amiso, dove un’altra tradizione fa venire anche dei Focei. A occidente, senza dubbio nel VI a. C., essa fondò Sesamo, la futura Amastri e, di minore importanza, Tio, così come certamente Ionopoli. Tra queste città milesie della costa settentrionale dell’Asia Minore, Sinope rivestì presto una posizione preponderante e, a sua volta, inviò colonie. La più orientale, Trapezunte, (l’attuale Trebisonda), scalo in direzione di Fasi e della Colchide, fu probabilmente la più antica, ma la sua importanza crebbe soprattutto in età romana, dopo che il suo mediocre porto naturale fu risistemato. Altri fondachi di Sinope su questa riva, sia esistenti già nel VI secolo, sia solamente di epoca successiva, furono, a est, Cotiora e Cerasunte, futura Farnacèa; a ovest, Armene e Citoro. Della stessa origine sono ‘altre piccole città greche’, menzionate nel 3HULSOR dello Pseudo Scilace. Sappiamo da Senofonte che alla fine del V secolo alcune colonie di Sinope, come Trapezunte, Cotiora e Cerasunte, erano subordinate alla città e le pagavano tributo. Alle risorse agricole assicurate dalle pianure e dalle valli ben irrigate dalla costa, agli ulivi delle colline, all’allevamento di bestiame di ogni taglia, si aggiunsero, dall’età arcaica per le più antiche di queste colonie, lo sfruttamento delle foreste, la pesca del tonno, specialmente a Sinope, e il commercio con l’interno dell’Asia Minore. Una via commerciale permetteva infatti di raggiungere in sei o sette giorni, partendo da Amiso o da Sinope – posta sull’istmo di una penisola e dotata di due buoni porti- la pianura della Cilicia, dall’altro lato della penisola anatolica. &RORQLH�PLOHVLH�VXOOD�ULYD�RFFLGHQWDOH�H�QRUG�RFFLGHQWDOH�GHO�3RQWR�(XVLQR�

Le due più antiche colonie milesie in questa area furono Istro e Olbia. La prima fu fondata poco prima della metà del VII secolo, all’epoca dell’invasione cimmeria in Asia Minore, intorno al 657 a. C., secondo Eusebio. Benché la città non si trovasse alla foce dell’Istro, l’attuale Danubio, di dove essa traeva il proprio nome, la sua posizione, come quella dell’odierna Costanza, faceva di essa lo sbocco marittimo della valle del Danubio. Colonizzata alcuni anni più tardi, nel 646 per Eusebio, all’imboccatura in cui il Boristene (Dniepr) e l’Ipani (Boug) si gettavano nel mare, Olbia, chiamata anche Boristene, fu più nettamente ancora lo sbocco di una grande via fluviale. Tale è ancora la posizione di Tira, che sorse un poco più tardi all’imboccatura del Dniestr (Tira), mentre tra l’Ipani e il Tira il sito dell’attuale Odessa non conosceva stanziamenti importanti. Per avere uno scalo in direzione di questi tre porti i Milesi fondarono ancora tre città tra l’Istro e il Bosforo: Apollonia, che fu colonizzata mezzo secolo prima dell’avvento di Ciro, cioè a dire verso il 610 a.C.; poi, a nord della grande catena dell’Emo, gli attuali Balcani, Odesso (attuale Varna), fondata al tempo di Astiage, cioè a dire verso il secondo quarto del VI secolo; Tomi infine (l’attuale Costanza), un po’ più a nord e di minore importanza. A lato delle grandi colonie greche della riva occidentale del Ponto Eusino, che noi abbiamo menzionato, bisogna ancora segnalare qualche stanziamento più modesto di Ioni e Megaresi nei paraggi. Una colonia di Mileto, che non si deve tralasciare, è la città di Cruni, più tardi Dionisopoli (attuale Baltchik in Bulgaria). alcune sotto-colonie furono stabilite anche lungo la stessa costa: Apollonia fondò Anchialo (odierna Pomoria), mentre Mesambria fondò Nauloco, a sud delle ultime ramificazioni dell’Emo (I Balcani di oggi), che fu più tardi il 7HPSOXP�,RYLV dei Romani (attuale Obzor). Presso alcuni autori – antichi e moderni – la piccola città di Bizonè (Cavarna in Bulgaria) è segnalata come sotto-colonia di Mesambria, ma numerose

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testimonianze epigrafiche ed archeologiche mostrano che essa fu in origine uno stanziamento trace, la cui popolazione conservò il proprio carattere misto fino ad epoca tarda. Tra le risorse naturali della costa balcanica del Mar Nero e dell’interno, i ricchi giacimenti minerari delle montagne tracie attirarono particolarmente l’interesse dei coloni. In particolare, le città di Apollonia, Mesambria ed Anchialo dovettero la propria prosperità alle ricchezze minerarie di Strandja, montagna di cui ancora non conosciamo il nome antico. I porti di queste città erano gli sbocchi naturali per le miniere di ferro, piombo e rame, così come per l’esportazione di legno e carbone della Strandja e dei Balcani. Nell’enumerare le risorse naturali del Ponto Eusino, non si deve tralasciare la pescosità di queste rive e in particolare del Delta danubiano, che furono alla base della creazione di molte peschiere. Gli storioni ed altri pesci si trovavano dunque in abbondanza nell’estuario del Boug, del Dniepr – dove era stata fondata l’importante colonia milesia di Olbia – e di Tira (l’attuale Dniestr). Senza potersi confrontare con l’immenso granaio che furono anticamente le terre degli Sciti, le regioni del Basso-Danubio esportarono tuttavia, anch’esse, considerevoli quantità di grano in Grecia. Si aggiunga che le foreste trace erano molto ricche in cacciagione di ogni tipo e che i Traci erano famosi, da sempre, per l’allevamento la caccia e la pesca. /H�UHJLRQL�GHO�%RVIRUR�&LPPHULR�H�GHOOD�3DOXGH�0HRWLGH��

Già da un’epoca piuttosto antica, e sicuramente prima che, nel corso del V secolo, i tiranni di Panticapea cominciassero a riunire sotto il proprio dominio tutte le città greche di questa area, l’estremità orientale del Chersoneso Taurico (attuale Crimea) e, dall’altro lato del Bosforo Cimmerio (distretto di Kertch), l’odierna penisola di Taman, infine, più a nord, le rive della Palude Meotide (attuale Mar d’Azov) formarono, tra le colonie greche del Ponto Eusino, un insieme ben demarcato. La città più antica del Bosforo Cimmerio, Panticapea (odierna Kertch), fu fondata da Mileto sulla riva cimmeria dello stretto, in un’epoca che non sembra di molto anteriore al principio del VI secolo, stando ai dati archeologici. Altre due colonie milesie, Teodosia, anch’essa nel Chersoneso taurico, e Kepoi, dall’altro lato del Bosforo Cimmerio, si datano a quanto sembra alla prima metà del VI secolo. Sulla stessa riva orientale e senza dubbio intorno alla stessa epoca, Fanagoria fu colonizzata da abitanti di Teo. E’ anche serbata la memoria di un’attività di Cari e Clazomeni sulle rive della palude Meotide. Questi Cari e Clazomeni, come questi Tei, sembrano essere ivi giunti in qualità di amici e non di rivali dei Milesi. Furono senz’altro i Greci già stanziati sulle rive del Bosforo Cimmerio che, sicuramente intorno alla fine del VI secolo, fondarono a loro volta Tanai, alla foce del fiume omonimo (attuale Don). Alle ampie risorse presenti in queste regioni per la coltura del grano e per l’allevamento, si aggiunse la possibilità della pesca, attività che fu particolarmente fiorente alla foce del Tanai e sulla riva orientale della Palude Meotide. Ma la prosperità di queste nuove città fu soprattutto dovuta al commercio con le popolazioni indigene, che scambiavano vini e tessuti prodotti in Grecia con il grano, le pelli e gli schiavi. In secondo luogo, e solamente più tardi, vennero la conquista del territorio e lo sviluppo dell’agricoltura. /D�ULYD�QRUG�HVW�GHO�3RQWR�(XVLQR�In un’epoca che non è facile definire, forse a partire dal VII secolo, in ogni caso nel VI, i Milesi fondarono sulla riva nordorientale del Ponto Eusino alcune città che ebbero soprattutto la caratteristica di empori

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commerciali. La più antica fu come sembra Fasi, odierna Poti, che, attraverso il fiume omonimo poteva far pervenire i prodotti del Caucaso. Un po’ più a nord, Dioscurias (attuale Soukhoumi) e Pityus (odierna Pitzunda) dovettero la propria importanza al commercio del legname. (,,��)��&RUGDQR��%LVDQ]LR��JOL�$WHQLHVL�H�JOL�DOWUL����������D�&����LQ�3DUROD�GHO�3DVVDWR���������SS������

�������%LVDQ]LR�H�L�7HEDQL. La consapevolezza di dover allargare il potere tebano anche sul mare per ottenere l’egemonia44 sulle altre città della Grecia aveva indotto Epaminonda a costituire una flotta ed a cercare le opportune alleanze, naturalmente Bisanzio era al primo posto in una graduatoria di città potenti sul mare, chè non era difficile capire il controllo esercitato da questa città sulla navigazione lungo il Bosforo!45 I Bizanzi, sempre pronti ad accogliere la potenza dominante, accettarono la proposta di Epaminonda, anche se facevano parte della seconda lega ateniese46 , come gli altri altri due invitati , e forse non fecero a tempo ad incontrare grandi ostacoli, vista la precoce morte del condottiero tebano (362 a.C.). Infatti, sotto l’anno 364/3 a.C, leggiamo in Diodoro XV 79: “ 6XELWR�LO�SRSROR�GHFUHWz�GL�FRVWUXLUH�FHQWR�

WULUHPL�H�XQ�QXPHUR�FRUULVSRQGHQWH�GL�DUVHQDOL�H�GL�HVRUWDUH�JOL��DELWDQWL�GL�5RGL��GL�&KLR�H�GL�%LVDQ]LR�D�

FROODERUDUH� DO� SURJHWWR�� (SDPLQRQGD� LQ� SHUVRQD� IX� LQYLDWR� FRQ� XQ� HVHUFLWR� QHOOH� VXGGHWWH� FLWWj�� HJOL�

LQWLPRUu�/DFKHWH�±OR�VWUDWHJR�$WHQLHVH�FKH��FRQ�XQ¶LPSRQHQWH�IORWWD��HUD�VWDWR�LQYLDWR�D�EORFFDUH�L�7HEDQL±�

OR�FRVWULQVH�DG�DOORQWDQDUVL�H�SRUWz� OH�FLWWj�VRWWR� O¶LQIOXHQ]D�WHEDQD. (¶�GXQTXH�RSLQLRQH�FRPXQH�FKH��VH�

TXHVW¶XRPR� IRVVH� YLVVXWR� SL�� D� OXQJR�� L� 7HEDQL� DYUHEEHUR� DJJLXQWR�� DOO¶HJHPRQLD� VXOOD� WHUUDIHUPD�� LO�

GRPLQLR�VXO�PDUH.”(trad.D.P.Orsi)47. Le tre città individuate da Epaminonda come alleate perfette sono le protagoniste, insieme a Cos, della cosiddetta ‘guerra sociale’, degli anni 357-355 a.C, cioè della ribellione ad Atene di quei membri della seconda lega, che, morto Epaminonda, si appoggiarono al dinasta cario Mausolo, sicuramente insofferenti dell’alleanza ateniese e pure consapevoli della loro potenza economica; tornerò su quest’episodio, soprattutto per l’ intervento di alcuni importanti strateghi ateniesi. Bisanzio rimase in ottime relazioni con Tebe, tanto da finanziare due volte questa città durante la ‘terza guerra sacra’, molto probabilmente nel 355/4 a.C., il primo anno di guerra, e due anni dopo, 353/2 a.C., tali contributi sono registrati sotto l’arconte eponimo tebano, insieme ai contributi di Alizei e di altri, su una stele di pietra rinvenuta a Tebe (IG VII 2418)48. La prima volta Bisanzio ha versato 84 stateri d’oro lampsaceni e 16 dracme d’argento ateniesi, la seconda volta 500 stateri d’oro lampsaceni. L’oro, precisa l’iscrizione, venne portato a Tebe da V\QHGULRL di Bisanzio49; le monete di Lampsaco, che usavano lo

44 F. Cordano, (JHPRQLH� LQ� *UHFLD�� 7HEH� LQ� 6HQRIRQWH� HG� (IRUR, in D. Foraboschi e S.M. Pizzetti (a cura di),� /D�

VXFFHVVLRQH�GHJOL�LPSHULH�GHOOH�HJHPRQLH�QHOOH�UHOD]LRQL�LQWHUQD]LRQDOL��Milano 2003, pp.53-60��45 Demostene, 3HU�OD�FRURQD, 87. 46 M. Dreher, +HJHPRQ� XQG� 6\PPDFKRL�� 8QWHUVXFKXJHQ� ]XP� DWKHQLVFKHQ� 6HHEXQG, Berlin 1995, con bibliografia precedente. 47 Vd anche Isocrate V 53. 48 M.N.Tod, *UHHN�+LVWRULFDO�,QVFULSWLRQV, II, Oxford 1968, n° 106. 49 Non abbiamo testimonianza epigrafica di un V\QHGULRQ a Bisanzio, a Megara ci sono dei V\QHGULRL ma in iscrizioni del II sec.a.C. (IG VII 18,20,31). I contributi degli Alizei sono invece portati da “ambasciatori”.

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standard persiano, erano molto richieste e non solo per il metallo pregiato50 , quelle di Atene per la valuta sicura e di vasta circolazione; in quegli anni Bisanzio coniava monete d’argento di peso chiota51 che forse non erano gradite sul continente. I Beoti, intervenuti per primi in aiuto dei Locresi, ebbero un gran peso in questa costosa guerra contro i Focesi, i quali furono prima finanziati da Sparta e poi utilizzarono il tesoro sacro; anche se l’elenco dei sostenitori dell’Anfizionia è molto lungo (Diod. XVI 29) la conclusione della guerra si deve proprio ai Beoti, che nel 347 a.C. chiesero l’aiuto di Filippo II (Diod. XVI 58), ottenendolo solo parzialmente, ma determinando una svolta rilevante nella politica dell’intera Grecia che portò alla pace cosiddetta di Filocrate (346 a.C.).52 �����%LVDQ]LR�H�)LOLSSR�,,��In un noto passaggio (34) della Terza Filippica (341 a.C.) Demostene elenca i misfatti di Filippo contro i Greci, fra questi ci sono i Tebani, ai quali ha sotratto Echino, subito di seguito egli dice: MCKr� PW�P� G?RKr�%WUCPVKsQWX�RQTGWsGVCK�UWOOCsEQWX Q�PVCX��“ HG�RUD�SURVHJXH�YHUVR�L�%LVDQ]L�FKH�VRQR�DOOHDWL” , il che vuol dire alleati di Filippo, e non dei Tebani come qualche volta si legge53. Infatti, nell’ orazione 3HU�OD�FRURQD� Demostene ci dà testimonianza di questa alleanza, nata nel 342 a.C. per contrastare il re tracio Chersoblepte che sottometteva le città dell’Ellesponto (Diod.XVI 71); l’orazione di Demostene è molto esplicita su questa alleanza, al par. 87 egli dice che Filippo contava sugli alleati Bisanzi per far guerra agli Ateniesi, e dal momento che quelli si rifiutarono dicendo che l’alleanza aveva altri scopi – e questo è vero, aggiunge l’oratore, con un chiaro riferimento alla ostilità contro il re tracio – allora Filippo decise di assediarli; al par. 93, ancora più chiaramente, egli sottolinea la scelleratezza di chi assedia una città di cui è alleato! ^2�OGrP�ICrT�UWsOOCEQX�Y�P�VQK�X�%W\CPVKsQKX�RQNKQTEY�P�CW?VQWrX�G^YTCS�?�W^RQr�RCsPVYP. In realtà l’avvicinamento di Filippo al Bosforo era la logica conseguenza della espansione macedone in Tracia e sull’Ellesponto; Filippo pone l’assedio a Perinto ed i Bisanzi accorrono subito in aiuto dei loro vicini, fornendo “SURQWDPHQWH� WXWWR� TXDQWR� IRVVH� XWLOH� SHU� OD� JXHUUD”! (Diod. XVI 74-76), ed attirando inevitabilmente su di sè la vendetta del re macedone54 . L’attacco macedone a Bisanzio convince finalmente gli Ateniesi ad intervenire in aiuto delle città ellespontiche, ascoltando i consigli di Demostene55 , che ovviamente corrispondevano al forte interesse ateniese nel controllo della navigazione verso il Mar Nero e “GHO�SDVVDJJLR�GHO�JUDQR�FKH�VHUYH�D�ULIRUQLUH�

WXWWL�L�*UHFL”56 .

50 C.M.Kraay, $UFKDLF�DQG�FODVVLFDO�JUHHN�&RLQV, London, 1976, p.249. 51 G. le Rider, 6XU�OH�PRQQD\DJH�GH�%\]DQFH�DX�,9��VLqFOH, Revue Numismatique 13, 1971, pp. 143-153 e Kraay op. cit., pp.250-256. 52 M.Sordi, /D�WHU]D�JXHUUD�VDFUD, RivFilIstrCl 36, 1958, pp.134-166 (ora in “Scritti di storia greca”, Milano 2002, pp.241-269. 53 Per esempio nel commeto del Tod n° 160, cit., p. 178 e in 'HPRVWHQH�� )LOLSSLFKH� H� DOWUL� GLVFRUVL, a cura di L.Canfora, Torino 1991, p. 305. 54 Philoch.)*U+LVW�328 F54 sui PHFKDQpPDWD, e Hesych .Mil. )*U+LVW. 390 F28. 55 Dem. 3HU�OD�FRURQD, 88 e Plut., 'HP�9LWD, 17 56 Dem. 3HU�OD�FRURQD� 241.

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I Bisanzi, pur in grave pericolo, sono diffidenti verso gli Ateniesi, tanto che la prima flotta giunta sulla costa asiana del Bosforo, al comando di Carete, viene da loro respinta; e la seconda, comandata da Focione, verrà accolta in città solo perché Leone il primo fra i Bisanzi per valore, come dice Plutarco nella vita di Focione (14,7), si fa garante per il suo compagno di Accademia.57 . Anche se aneddottiche, sono certamente riferibili a questo Leone due citazioni di un certo Damone di Bisanzio, autore ellenistico di un’opera %LVDQ]LR ()*U+LVW 389)58. Nella voce “/HRQ�/HRQWRV� %\]DQWLRV” del lessico Suda (L265) sono invece sovrapposte due persone con quel nome e tutte e due di Bisanzio, il primo è il “ILORVRIR� SHULSDWHWLFR� H� VRILVWD”, allievo di Platone o, secondo altri, di Aristotele, e poi protagonista della storia della sua città negli anni centrali del IV sec.a.C.; il secondo è l’autore, di epoca ignota, di un cospicuo elenco di opere storiche fra le quali ci interessano qui 6WRULH�GL�%LVDQ]LR�DO�WHPSR�GL�)LOLSSR��� in sette libri, e una *XHUUD�VDFUD. Purtroppo ci rimangono solo i titoli, perché dei tre frammenti raccolti da Jacoby ()*U+LVW 132) solo il primo, da Ateneo (XII 74) è riferibile a Leone lo storico. L’azione combinata di Leone e Focione indusse Filippo a togliere l’assedio ad una Bisanzio rafforzata dall’esercito ateniese, perfino accolto dentro le mura, ed aiutata dai soccorsi di “&KLR��&RV��5RGL�H�DOFXQL�

DOWUL�*UHFL” (Diod.XVI 77,2), in altre parole dai vincitori della guerra sociale. ����%LVDQ]LR�H�JOL�VWUDWHJKL�DWHQLHVL. I Bisanzi non avevano un buon ricordo degli strateghi ateniesi, perché essi “ULXQLWLVL� WXWWL�TXDQWL” ad un certo momento della guerra sociale avevano preparato una spedizione contro Bisanzio, che non ebbe seguito solo perché i Chioti tolsero l’assedio a Samo (Diod. XVI 21). Plutarco, nella 9LWD�GL�)RFLRQH già citata (par.14), dice che l’idea di mandare a Bisanzio Carete fu degli “oratori” e che, non essendo stato accolto, egli “IX�FRVWUHWWR�D�YDJDUH�TXD�H�Oj��VRVSHWWR�D�WXWWL��VSLOODQGR�TXDWWULQL�DJOL�DOOHDWL�H�GLVSUH]]DWR�GDL�QHPLFL” (trad. C.Carena) e solo l’intervento di Focione fa cambiare idea agli Ateniesi 59 . Carete aveva dei sostenitori in Atene, ma anche degli oppositori; egli aveva combattuto i “Soci” ribelli insieme a Cabria (Diod. XVI 7), e aveva accusato i due colleghi Ificrate e Timoteo di non aver preso parte alla battaglia di Embata e per questo di averla persa; fu condannato solo Timoteo, ma l’opinione pubblica ateniese non fu certo ben impressionata da questo processo, che suscitava lo sgradevole ricordo di quello relativo ai fatti delle Arginuse. Dopo la pace fra Atene e gli insorti, che rimasero liberi, Carete aveva deciso di sostenere Artabazo III, il satrapo ribelle, e vinse in battaglia Titrauste, il satrapo fedele al Re di Persia, quest’ultimo naturalmente si lamentò con gli Ateniesi, che furono costretti a disapprovare l’impresa di Carete, pur avendone ricavato un buon guadagno (Diod. XVI 22). L’alleanza con Artabazo aveva una funzione importante a fronte di quella di Mausolo con le isole egee, infatti pure Tebe fu sua alleata (Diod. XVI 34).

57 Plu., 3KRF. 14; 1LF. 22, 3; Philostr., 9LW��VRSK. I 2. 58 In Ael., YDULD, III,14 e in Athaen. X 442. 59 C.Bearzot, )RFLRQH�WUD�VWRULD�H�WUDVIRUPD]LRQH�LGHDOH, Milano 1985.

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Carete, che dal 355 ha un possedimento nel Sigeo, non si fa una buona fama neppure sull’Ellesponto, dal momento che, nella conquista di Sesto, dà prova di crudeltà ammazzando tutti i giovani e facendo schiavi gli altri (Diod. XVI 34), in altre parole annullando completamente la città. Infine, delle due spedizioni da lui condotte in aiuto di Olinto (349 e 348 a.C.), solo la prima gli fu segnata a merito, perché con la seconda arrivò in ritardo60. Malgrado tutto ciò gli Ateniesi scelgono Carete per andare a difendere Bisanzio da Filippo II, fra gli oratori di cui parla Plutarco c’era Demostene, che nell’orazione 3HU�JOL�DIIDUL�GHO�&KHUVRQHVR , composta nel 341, poco prima della 7HU]D�)LOLSSLFD, sapendo che Filippo si sta avvicinando a Bisanzio (par.66), prevede che i Bisanzi, “SXU�QHOOD�ORUR�IROOLD”, chiederanno aiuto ad Atene e gli Ateniesi dovranno salvarla per il proprio interesse (parr. 14-16). ���³1RQ�VRQR�LO�PRQXPHQWR�ERYLQR�GHOOD�ILJOLD�GL�,QDFR´��Se è fuor di dubbio che la salvezza di Bisanzio si debba a Focione, la fama di Carete sopravvisse a lungo sul Bosforo, costa asiana, da un monumento certamente ancora visibile in età bizantina, chiamato 'DPDOLV dagli autori dei 3DWULD, queste testimonianze meritano una trattazione particolare, voglio però subito dire che esse tramandano anche l’epigramma al quale era stato affidato, non si sa in quale epoca, il ricordo dell’impresa di Carete. L’epigramma, che è raccolto nell’Antologia Palatina (VII 169)61 [recita così:

“ 1RQ�VRQR�LO�PRQXPHQWR�ERYLQR�GHOOD�ILJOLD�GL�,QDFR��H�QRQ�q�GD�PH�

FKH�LO�PDUH�%RVIRUR�FKH�PL�VWD�GL�IURQWH�SUHQGH�LO�QRPH��

4XHOOD�LQIDWWL�IX�XQ�WHPSR�FDFFLDWD�ILQR�D�)DUR�GDOOD�FROOHUD�GL�(UD��

LQYHFH�LR��FKH�VRQR�TXL��PRUWD��VRQR�GHOOD�FLWWj�GL�&HFURSH��

6SRVD�GL�&DUHWH��QDYLJDL�LQVLHPH�D�OXL�TXDQGR�YHQQH�TXL�SHU�DWWDFFDUH�OD�IORWWD�GL�)LOLSSR��

0L�FKLDPDYR�%RtGLRQ��RUD��VSRVD�GL�&DUHWH��

JLRLVFR�QHO�YHGHUH�L�GXH�FRQWLQHQWL”. “0RQXPHQWR� ERYLQR” è la traduzione di DQQrX� VWsRQX, si potrebbe anche dire “LPPDJLQH� ERYLQD”, e si riferisce alla giovenca posta in cima alla colonna, sulla base della quale era stato scritto l’epigramma; monumento che ricordava il mito di Iò trasformata in giovenca da Era ed eponima del Bosforo62 ; mentre i primi tre versi si riferiscono chiaramente a questo racconto, l’ultimo suggerisce la posizione del monumento bovino, che era stato innalzato per ricordare la figlia di Inaco. La sposa di Carete era ateniese e si chiamava %QKKsFKQP �� �, un diminutivo di DQW�X, e questo ha permesso all’ignoto autore dell’epigramma di collegarla con l’eroina e con il luogo.

60 Dem.IX 26, Iust. VIII 3. 61 Ed. Belles-Lettres1960 p.127; W.Peek, *ULHFKLVFKH� 9HUVLQVFKLIWHQ� DXV� .OHLQDVLHQ, N° 1802 e ,QVFKULIWHQ� YRQ�

.DOFKHGRQ , ed. R. Merkelbach, Bonn 1980, n°35. 62 Hesych .Mil. )*U+LVW. 390 F1 63 F. Bechtel, 'LH�$WWLVFKHQ�)UDXHQQDPHQ, Goettingen 1902, p. 87.

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Il luogo è un promontorio nei pressi di &KULVRSROLV 64, che veniva chiamato prima J^�%QW�X��Polib. IV 43,6-79), poi, con identico significato, �'CsOCNKX� ��nella tradizione bizantina alla quale si fa riferimento qui di seguito. Polibio dice che all’altezza di questo promontorio la corrente bosporana cambia direzione, e, non a caso è “XQD� ORFDOLWj� GHOO¶$VLD�� OD� SULPD�� VHFRQGR� L� PLWL�� QHOOD� TXDOH� JLXQVH� ,z� GRSR� DYHU� VXSHUDWR� OR�

VWUHWWR”. Infatti i Calcedoni che vogliono andare a Bisanzio devono andare a imbarcarsi a Crisopoli (ibidem 44,3-4), lì, prosegue Polibio, Alcibiade per primo impose il tributo per il passaggio verso il Ponto. La costa asiana di fronte a Bisanzio è quella dove si dirigono gli stranieri, con buone o cattive intenzioni, che poi vogliono passare a Bisanzio, anche Alcibiade fece così65. L’altro nome, Damalis, è quello che è rimasto in vita come toponimo almeno fino a Costantino figlio di Leone, cioè fino alla prima metà dell’VIII sec.d.C.66 , ed è il nome inserito nei racconti più tardi, quasi tutti di autori di Bisanzio, non identici fra loro, pur riportando i versi dell’epigramma senza nessuna variante. ����/D�WUDGL]LRQH�EL]DQWLQD�VX�'DPDOLV. L’autore più antico è Dionisio di Bisanzio, che, forse nel II sec.d.C., scrisse un $QDSORXV�%RVSKRUL�7KUDFL, a noi nota nella traduzione latina fatta nel XVI secolo da Pierre Gilles67 , con citazioni del testo greco e commenti personali; poi c’è la voce %QsUHQTQX�di Stefano di Bisanzio (VI sec.d.C.), la voce�%QKsFKQP�del lessico Suda, Esichio di Mileto (VI sec.a.C.) ed infine Costantino Porfirogenito68 ('H�7KHPDWLEXV II 12, p.99 Pertusi). Gilles così ha tradotto il passo che ci interessa: “,Q�KRF�SURPRQWRULR�H[VWLW� FROXPQD� ODSLGLV�DOEL�� LQ�TXD�H[WDW� %RV�� &KDUHWLV� LPSHUDWRULV� $WKHQLHQVLXP� FRQMX[�� TXDP� KLF� PRUWXDP� VHSHOLYLW�� ,QVFULSWLR� DXWHP�

VLJQLILFDW� VHUPRQLV� YHULWDWHP�� DW� LOOL�� TXL� YDQDP� UHGGXQW� KLVWRULDP�� SXWDQW� DQWLTXDH� %RYLV� VWDWXDP��

DEHUUDQWHV� D� YHULWDWH�� ,QVFULSWL� HQLP� LQ� FROXPQDH� EDVL� KL� YHUVXV� VXQW”, segue la trascrizione dell’epigrammma; fin qui la citazione di Dionisio, nel commento Gilles cita Giorgio Codino lì dove parla di Carete a Bisanzio. Codino, negli ([FHUSWD citati (10 A) racconta dell’arrivo di Carete con 40 navi ad “XQ�

SURPRQWRULR�GHOOD�3URSRQWLGH�FKH�q�D�PHWj�VWUDGD�IUD�&DOFHGRQH�H�&ULVRSROL”, dice anche della moglie di lui morta lì di malattia e di come Carete le abbia dato sepoltura “ LQQDO]DQGR�XQ�DOWDUH�H�XQD�FRORQQD��VXOOD�

TXDOH�q�SRVWD�XQD�GDPDOLV�GL�SLHWUD�ELDQFD” di modo che il luogo ha preso il nome da quella donna, Codino sa certamente che il nome era %QKKsFKQP�perché lo legge nei versi, ma sa anche che essi sono sinonimi; prima di ricopiare i versi, Codino dice che “VL�VRQR�FRQVHUYDWL�ILQR�DL�QRVWUL�JLRUQL”, certo può aver copiato

64 Scutari. poi Uskudar, dove ancor oggi è la stazione asiana dei traghetti di Istanbul; in Hesych .Mil. F1, eponimia da Chrises figlio di Agamennone e Criseide. 65 Crisopoli fu occupata da Alcibiade nel 410 a.C.; Xen. +HOO. I,1,2 e Diod. XIII 64,2, ma certamente non è stato il primo a imporre quelle tasse, altrimenti i Bisanzi non sarebbero stati in grado di pagare i forti tributi alla Lega delio-attica, vd. D.Meritt, H.T.Wade-Gery, M.F.Mc Gregor, 7KH�$WKHQLDQ�WULEXWH�OLVWV, Princeton 1939-1953, passim. 66 I. Bekker in G.Codini ([FHUSWD�GH�DQWLTXLWDWLEXV�&RQVWDQWLQRSROLWDQLV, Bonn 1843, 10 A; R.Janin, &RQVWDQWLQRSOH�

E\]DQWLQH, 1964², pp.495-496 67 K.Mueller, *HRJUDSKL�*UDHFL�0LQRUHV II Paris 1882, Fr.66, pp.92-93 e P.Gilles, 7KH�$QWLTXLWLHV�RI�&RQVWDQWLQRSOH, ed. Musto, New York 1988 68 'H�7KHPDWLEXV II 12,p.99, ed. A.Pertusi, Roma 1969.

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quest’affermazione dalla sua fonte, però la sua fonte dev’essere fra quelle che usano il nome Damalis, che sono del VI sesto d.C., Stefano di Bisanzio e Esichio di Mileto, e che dicono cose molto simili al riguardo. In Esichio troviamo due frasi identiche a quelle riprese da Codino, quella relativa alla posizione del promontorio e quella della dedica di Carete, evidentemente s’è cristallizzato il racconto. Infatti, Stefano, alla voce %QsURQTQX� ripete le stesse cose dopo aver citato una frase di Favorino: “%W\CPVKsYP� NKOJrP��%QsURQTQX�MCNGK�VCK” per approvarla tramite la presenza della colonna con l’epigramma a Crisopoli, un luogo della costa di fronte , sul quale “OCTOCTKsPJ�FCsOCNKX�KjFTWVCK”. Il passo, già citato, di Costantino Porfirogenito è identico a quello di Stefano di Bisanzio, anche nella citazione di Favorino. ���&RQFOXVLRQH�Il monumento chiamato 'CsOCNKX riassumeva due ricordi importanti per la grecità delle coste del Bosforo, quello del mito di Iò e quello della frequentazione ateniese, e non è un caso che esso si trovi sulla costa asiana: i due continenti “guardati” dalla giovenca si potevano vedere anche da quella europea, ma i Bisanzi non sembrano così ospitali da accogliere nella loro città chiunque, dei, eroi o uomini, voglia approdarvi! Nella pur rapida successione di alleanze, tratteggiata sopra per la Bisanzio degli anni centrali del IV sec.a.C., il ruolo maggiore sembra spettare agli Ateniesi; e qualche Ateniese ha voluto e potuto lasciare memoria scritta di una vicenda infruttuosa per Bisanzio, che comunque segnalava la presenza dell’ Ateniese Carete, e scritta su un monumento che ricordava il mito di Iò. Non si può escludere a priori che Carete stesso abbia organizzato tutto questo mentre provvedeva alla sepoltura della moglie , dal momento che non è tornato subito ad Atene. Del resto la memoria del passaggio di Iò era in quegli stessi anni affidata ad uno dei migliori mezzi di comunicazione, la moneta; infatti sulle monete di Bisanzio e di Calcedone compare un bovino69, che a Bisanzio è accompagnato nell’esergo da un delfino, a Calcedone dalla spiga di grano, con una interessante segnalazione della diversa attitudine economica delle due città. Se invece si vuol cercare,come alcuni hanno suggerito70, un momento successivo nel quale abbia avuto senso fare propaganda ad Atene in quel luogo, si può ricorrere alla vicenda di Demetrio Poliorcete, stranamente simile a quella di Carete. Questo Demetrio opera nell’Ellesponto, con trenta navi ateniesi, “SUHVVR� LO� VDQWXDULR� GHL� &DOFHGRQL” nel 302 a.c. (Diod. XX 111,3); Plutarco, nella 9LWD di lui (31-32) racconta come sia stato raggiunto dalla moglie Deidamìa, la quale “ULPDVWD�QRQ�PROWR�WHPSR�FRQ�OXL��PRUu�

GL�PDODWWLD´, la straordinaria coincidenza dei fatti e la volontà di ripristinare la memoria ateniese a danno di quella di Lisimaco, possono aver indotto Demetrio a far scrivere l’epigramma sulla base della colonna di Iò. �,,,��)��&RUGDQR��$OFXQH�FDUDWWHULVWLFKH�GHOOH�FRORQLH�PHJDUHVL��LQ�*�=DQHWWR�±�0�2UQDJKL��HGG����$UJXPHQWD�DQWLTXLWDWLV��0LODQR�������SS�������,�QRPL�GHOOH�FLWWj�Il nome della maggiore colonia megarese in Occidente è eccezionale per due aspetti, la ripetizione del nome della madrepatria, “Megara”, e l’omaggio al re siculo Iblone, costituito dal secondo nome “Ibla”; tale

69 Le Rider, op.cit.,contro ogni evidenza, nega che tali tipi monetali si riferiscano al mito di Iò. 70 Vd.commento ed. Belles Lettres ad Anth.Pal. 169, p.127.

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riconoscimento era dovuto, per come ce lo racconta Tucidide (VI 3), alla liberalità del re nel concedere il territorio necessario alla fondazione della città, ma anche, per quanto ne sappiamo noi oggi, alla partecipazione del nucleo cittadino di individui di nazionalità sicula71. Il caso di Megara – che prima si chiamava “Ibla”72 –, citato solo come premessa, è dunque particolare e va naturalmente visto all’interno della storia siciliana della fine dell’VIII secolo a.C., però l’inclinazione a concedere il nome della colonia alle popolazioni indigene è più generale e non riguarda solo i Megaresi; per esempio in Sicilia questo atto è certamente avvenuto per Zancle. Ciò non toglie che i Megaresi abbiano compiuto più volte questo importante atto politico nei riguardi delle popolazioni locali, in particolare, per l’Oriente, dei Traci: questo non stupisce a fronte di un popolo con una sviluppata identità nazionale. Gli esempi sono noti73, ma si possono aggiungere delle considerazioni curiose; inizio dai nomi composti con �EULD�perché i più numerosi, e la ripetizione della seconda parte del composto, parola tracia per «città» ne accresce l’interesse; la prima parte è sempre spiegata con nomi di eroi, anche se spesso il risultato finale è stato deformato. Il più famoso, 0HVHPEUtD, è diventata parola greca corrente, da un’originario 0HQHEUtD, come dice Strabone (VII 6, 1) a proposito della Mesembria Pontica «la città di Mena, Mena era il nome del suo fondatore e %ULD� nella lingua tracia, indica la città»; il nome dell’eroe può anche essere Melsos o Melsas, come si legge in una iscrizione di età romana in onore di una defunta di nome Julia, interessantissima perché vi si legge proprio questa etimologia74. Dell’altra 0HVHPEUtD, quella sulla costa egea si sa ben poco, ma la storia del nome è probabilmente stata la stessa75. Anche l’incertezza nel collegare in lingua greca le due parti del nome è significativa, Strabone così prosegue nel luogo citato: «È per questo che la città di Selys si chiama 6HO\EUtD, mentre Ainos si chiamava un tempo 3ROW\PEUtD». Anche 6HO\EUtD�è diventata per i Greci 6HO\PEUtD, in questo caso solo per motivi fonetici, così come 3ROW\PEUtD�di altri autori, e si suppone che pure Selys fosse un eroe locale, come il Poltys di cui ci parla Apollodoro (II 105) spiegando che SROW\Q� è parola tracia per «fortificazione in legno»76. $LQRV� è una città della Troade nota già dall’,OLDGH� (II 520-21) ed è di origine ionica: si può supporre che il cambiamento del nome indichi appunto la fondazione ionica. Sempre Apollodoro (II 9) la inserisce nella saga di Eracle, il quale «raggiunse Eno, dove fu ospitato da Poltide. Mentre stava partendo, sulla costa di Eno uccise con un colpo di freccia Sarpedone, figlio di Poseidone e fratello di Poltide, che era uomo violento».

71 Si veda M. GRAS - H. TREZINY - H. BROISE, 0pJDUD�+\EODHD����/D�YLOOH�DUFKDwTXH, Ecole française de Rome, Roma 2004, p. 338. 72 STRABONE VI 2, 2, che cita Eforo. 73 AL. FOL, /D�FRORQLVDWLRQ�JUHFTXH�HQ�7KUDFH��&URLVHPHQW�GH�GHX[�FXOWXUH, in (Thracia Pontica), IV, Sozopol 1988 (Sofia 1991), pp. 3-14, in part. p. 12. 74 G. MIHAILOV, ,QVFULSWLRQHV�*UDHFDH�%XOJDULDH, I, Sofia 1956, nr. 345; K. NAVOTKA, 0HOVDV��WKH�)RXQGHU�RI�

0HVDPEULD", in “Hermes” 122 (1994), pp. 320-26. 75 ERODOTO VII 108, 2; e vd. le poche notizie in “BCH” 96 (1972), p. 746 e p. 750, fig. 373. 76 D. DECEV, 'LH� WKUDNLVFKH� 6SUDFKUHVWH, Wien 1976, s.v. 0HVDPEULD, e Z. VELKOVA, 7KH� 7KUDFLDQ� *ORVVHV, Amsterdam 1988, pp. 95-96.

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Un buon riassunto della situazione è la voce 0HVHPEUtD�di Stefano di Bisanzio: «Città pontica. Nicolaos nel quinto libro, ha preso nome da Melsos, infatti i Traci chiamano la città EULD; come 6HO\PEUtD�la città diSelys, 3ROW\PEUtD�quella di Poltys, così 0HOVHPEUtD�è la città di Melsos, e per una migliore fonetica si dice 0HVHPEUtD». Mentre le parole del linguaggio comune offrono una fondata testimonianza della collaborazione fra Greci e Traci, i nomi degli eroi sono evidentemente frutto di ricostruzioni posteriori, il percorso delle quali è comunque a noi estremamente utile, soprattutto per la storia successiva delle città di riferimento e la mentalità in esse coltivata a proposito della propria fondazione. Per esempio, fra tutte le spiegazioni che gli antichi ci forniscono del nome Bisanzio, la più interessante in questa sede è quella che lo lega all’eroe Byzas77, il quale avrebbe fondato la città con la collaborazione di Posidone e Apollo, e da tale azione sarebbe scaturita la Bisanzio dalla sette torri che emettono il suono di una VDOSLQ[�o di una lira, suono che viene rimbalzato dall’eco dall’una all’altra torre; è evidente il richiamo alla leggenda della fondazione di Megara da parte di Alcatoo78, sia per la partecipazione di Apollo, sia per l’effetto musicale. La memoria dell’eroe è duratura, tanto che nei giardini del Topkapi c’è una colonna, detta “dei Goti”, che avrebbe sostenuto la statua di Byzas. Lo stesso Esichio di Mileto narra di un re Byzas, figlio della ninfa Semestre, che ha un altare a Bisanzio in posizione di prestigio, presso il santuario dei Dioscuri. Esiste anche una ninfa Bizyes, che richiama piuttosto il nome di Bizone, la città tracia distrutta da un terremoto nel I secolo a.C79. /H�WUDGL]LRQL�Le colonie megaresi, Selinunte compresa, dimostrano una particolare attitudine nel conservare o anche recuperare gli elementi tradizionali, narrativi, cultuali e istituzionali, che danno loro la possibilità di ricollegarsi alla antica madrepatria. Ad esempio, il ricordo della fondazione “musicale” di Megara non è solo riproposto, come si è detto, nella saga relativa a Bisanzio, ma è persino collegato da Ovidio80 alla città di Callatis, in quanto colonia di Eraclea Pontica81. La fondazione di Bisanzio da parte dell’eroe Byzas è rappresentata, come s’è detto, nella tradizione raccolta da Esichio di Mileto in modo speculare alla fondazione di Megara da parte di Alcatoo; l’unica differenza importante è la partecipazione di Posidone, il cui santuario è il principale della città. Egli ha senz’altro il primato nel pantheon cittadino: le fonti sono le stesse, Esichio di Mileto (I, 15): «il santuario di Posidone [Byzas] l’ha costruito sul mare, dentro c’era l’RLNRV�di Mena». Il rapporto con il mare non è solo ovvio ma necessario, infatti Dionisio di Bisanzio (9), oltre a sottolinearne l’antichità, ci dice che il tempio sovrasta il mare e che, quando i Bisanzi vollero spostarlo in luogo più bello e più grande sopra lo stadio, egli non lo permise «sia perché amava il posto sul mare sia per mostrare che poca cosa è la ricchezza nella pietà». Per la tradizione musicale è ancor più interessante un altro passo di Esichio (12): «Byzas disegnò

77 DIONISIO DI BIZANZIO, in **0�2, 18; ESICHIO DI MILETO in )*U+LVW�390 F 1, 11-12. 78 PS.-TEOGNIDE 773 ss., cfr. PAUS. I 42, 1. 79 STRABONE VII 6, 1. 80 OV. 7ULVW. I 10, 39-40. 81 B. ISAAC, 7KH�*UHHN�6HWWOHPHQWV�LQ�7KUDFH�XQWLO�WKH�0DFHGRQLDQ�&RQTXHVW, Leiden 1986, pp. 261-65.

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una città sul promontorio del mare Bosforano, con l’intervento di Posidone ed Apollo, così dicono, innalzò le mura ed eseguì al meglio tutto il progetto», non solo, le sette torri che scandiscono queste mura sono collegate l’una all’altra dall’eco, (13) «se infatti una VDOSLQ[� o altro strumento risuona nelle torri, l’una dall’altra riceve l’eco e la rimbalza fino all’ultima». Il numero delle torri svela una manipolazione recente del racconto, ma anche una consolidata affezione alle tradizioni musicali. Gli ambienti coloniali sono tutti conservatori, ma quello megarese sul Bosforo e sul Mar Nero lo è in modo eccezionale, mi riferisco non tanto alla intensità delle testimonianze, quanto alla recenziorità di esse; voglio dire che i Greci di queste città affermano le loro origini tramite un recupero protratto nel tempo delle tradizioni patrie, reso possibile dalla conservazione delle medesime, ma anche ricostruendo rapporti con le città della Grecia propria, Megara e non solo. La mia convinzione è suffragata, in particolare, dalle numerosissime testimonianze epigrafiche di età ellenistico-romana, alle quali farò riferimento qui di seguito solo per determinate magistrature, ma la letteratura non è da meno. Il racconto più interessante, per rimanere in ambito musicale, è quello dello stesso Dionisio di Bisanzio (28) contenente gli DLWLD�di alcuni toponimi della cosa europea del Bosforo, Delfino e Karanda: un certo Chalkis di Bisanzio, citaredo di professione, cantava un QRPRV�RUWKLRV�così bene che un delfino usciva ogni volta dall’acqua per sentirlo e tornava in acqua quando quello smetteva; la bellezza di questo canto suscitò l’invidia di un pastore di nome Karandas che abitava lì vicino e che uccise il delfino, Chalkis lo seppellì con onore e «i luoghi furono chiamati Delfino e Karandas, l’uno per onorare la memoria, l’altro perché era stato punito». L’epiteto 2UWKRVLD� con il quale i Bisanzi onoravano Artemide è certamente collegabile con il FDUPHQ�

RUWKLXP; questo culto e la partecipazione di Apollo alla fondazione della colonia fanno di Bisanzio una delle città dei due divini gemelli, proprio come Megara82, e la collegano con Delo; del resto la preghiera pseudo-teognidea ricordata sopra è rivolta ad Apollo Delio e, secondo me, l’Apollo Archegetes è quello di Delo83. Per il collegamento con Delo sono importanti alcuni versi dello Pseudo-Scimno (822-930, F12) e la storia della fondazione di Chersoneso Taurica da parte di Eracleoti e Delii84; inutile ripetere che Apollo ha necessariamente un ruolo nella fondazione “musicale” di una colonia megarese. Le tracce del suo culto si trovano sparse dappertutto. Per esempio ancora Dioniso dice di un luogo chiamato «$XOHWHV, dal momento che un auleta di nome 3\WKRQ� vi avrebbe abitato; la memoria onorava l’arte di Apollo in virtù di tale denominazione» (27). Nel testo di Dionisio si trovano altre testimonianze delle tradizioni megaresi, fortemente legate ai riti e perciò conservate nei luoghi: per esempio l’offerta di vittime all’indovino Polyeidos e a i suoi figli «ogni anno, per l’anno passato e per l’anno futuro» è fatta secondo un costume megarese (10); poi, sul NHUDV�c’era la tomba dell’eroe megarese Ippostene (24) ed ancora, dopo le Sykides,

82 F. BOHRINGER, 0pJDUH��7UDGLWLRQV�P\WKLTXHV��pVSDFH�VDFUp�HW�QDLVVDQFH�GH�OD�FLWp, in “Ant.Cl.” 49 (1980), pp. 5-22. 83 L.D. LOUKOPOULOU, &RQWULEXWLRQ�j�O¶KLVWRLUH�GH�OD�7KUDFH�SURSRQWLTXH, in (Melethemata) 9, Athènes 1989, pp. 103-09. 84 S.J. SAPRYKIN, +HUDFOHLD� 3RQWLFD� DQG� 7DXULF� &KHUVRQHVXV� EHIRUH� 5RPDQ� 'RPLQDWLRQ� �9,�,� FHQWXU\� %�&��, Amsterdam 1998, pp. 57 ss.; oracolo in STRABONE VII 6, 2.

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c’è il temenos di Schoiniclos, «la cui memoria i Bisanti hanno portato da Megara (0HJDURWKHQ)» e «dicono che fosse il cocchiere dell’indovino Anfiarao» (26). $OFXQH�LVWLWX]LRQL�Accennavo poco fa al recupero del passato, che è chiara espressione della volontà di affermare alcune tradizioni e nello stesso tempo testimone della buona conoscenza delle tradizioni stesse, ed in alcuni casi di una scelta fra tradizioni discordanti fra loro; ebbene, gli esiti di un atteggiamento simile sono le monete di Bisanzio e Mesembria con quei segni arcaici, del EHWD�e del VDPSL

85, che non avevano nessun senso nelle epoche nelle quali circolavano quelle monete, ma erano bandiere di una antica discendenza, sicuramente interpretabile nel caso di Bisanzio, che andando a ripescare un segno alfabetico usato per il EHWD�a Megara di Grecia diffondeva, con un sicuro strumento di comunicazione, il messaggio del suo legame con la madrepatria; più difficile decifrare il messaggio di Mesembria, al di là dell’affermazione di una antica grecità, dal momento che le monete sono più recenti di quelle di Bisanzio e perché il segno del VDPSL�(non ignoto perché usato per 900 nel sistema numerale alfabetico) sembra appartenere all’ambito ionico, in quanto anatolico, mentre gli abitanti di Mesembria non danno nessun’altra indicazione di voler smentire le proprie origini, anzi, come tutti sanno, ancora in età ellenistica parlano e scrivono un dialetto dorico. La distinzione fra città grecodoriche e greco-ioniche sembra rafforzarsi con il progredire del tempo, tanto da essere esplicitamente usata nel periplo del Mar Nero di Arriano (13) a proposito di Eracle e di Tio: Arriano certamente dipende in questo da una sua fonte perché non usa tale classificazione per altre città. Anche le pubbliche istituzioni hanno trovato un rinvigorimento in età ellenistica, per esempio il KLHURPQDPRQ�come magristratura eponima dell’anno è caratteristica delle città doriche, ma è soprattutto evidente in quel periodo, e la stessa cosa succede in Sicilia: voglio dire che l’affermazione della doricità emerge in special modo durante l’ellenismo, e non solo per la maggior documentazione. Nella bibliografia relativa alle istituzioni di Bisanzio, Calcedone e Mesembria si legge spesso che il KLHURPQDPRQ�eponimo è in contrasto con le tradizioni megaresi perché a Megara non esiste, infatti lì è il EDVLOHXV� che dà il nome all’anno86; ebbene, secondo me il contrasto non è con la madrepatria ma con la cronologia, in altre parole, l’abbinamento di questa magistratura con il calendario è uso molto diffuso in tutte le parti del Mediterraneo greco in età ellenistica, ed è una novità che ha un significatopreciso, dal momento che le SROHLV�non sono più politicamente autonome e preferiscono usare una magistratura dalla valenza religiosa87. All’interno di un’altra carica si trova testimonianza dei cambiamenti istituzionali avvenuti in età ellenistica: è quella degli strateghi, che sotto il dominio macedone diventano sei (da cinque) sia a Megara di Grecia che a Mesembria. Nella subcolonia abbiamo delle testimonianze speciali di questo collegio magistratuale: mi riferisco ai noti rilievi, con i sei strateghi e il loro segretario a banchetto, sicuramente in occasione di un rito importante, GLHV�QDWDOLV�o funerale di uno di loro; comunque è una chiara espressione di quel recupero del passato di cui parlavo prima, nel senso di un contatto recente con Megara, dove nel III secolo a.C.il numero

85 M. GUARDUCCI, /¶HSLJUDILD� JUHFD� GDOOH� RULJLQL� DO� 7DUGR� ,PSHUR, Roma 1987, p. 86 e LOUKOPOULOU, &RQWULEXWLRQ�j�O¶KLVWRLUH�GH�OD�7KUDFH, pp. 158-59, con bibliografia specifica. 86 ISAAC, *UHHN�6HWWOHPHQWV�LQ�7KUDFH, p. 235. 87 Ciò non toglie che abbiano preso esempio da Perinto, come diceva LOUIS ROBERT (+HOOHQLNj�VII, pp. 38-39) per KLHURPQDPRQ�e territorio di Bisanzio.

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degli strateghi è cambiato. Si può anche dire che è del tutto casuale oppure che sarebbero due per tribù, ma questo non fa difficoltà, perché può essere vero in qualunque città dorica. Con questo voglio dire che i legami “etnici” possono esser stati recuperati a fronte del diffondersi della potenza macedone, e poi di quella romana: infatti i rilievi di Mesembria sono datati al I secolo a.C88. Per finire, le città greche del Bosforo e del Mar Nero, anche quelle di tradizione milesia, dimostrano un eccezionale attaccamento alle specificità dialettali ed onomastiche, soprattutto in età tarda, e questo non dipende dalla recenziorità dei documenti, ma dalla necessità di esibire queste loro bandiere a fronte del mondo, prima dei loro vicini greci e non greci, e poi dei dominatori macedoni o romani. In questo caso particolare, mi pare molto interessante cogliere testimonianze esplicite di relazioni mantenute, o recuperate dopo secoli, da parte di Greci abitanti in zone remote, proprio con lo scopo di dimostrare le proprie origini. Più in generale, con queste poche riflessioni sulle colonie megaresi, vorrei ribadire che non si può e non si deve riportare al momento della fondazione, e quindi alla madrepatria, tutto quello che si trova nelle testimonianze su una colonia o, ancora peggio, ribaltarlo nella madrepatria all’epoca della colonizzazione, età della quale in genere non si sa niente. ��,9��92&,�(1&,&/23(',&+(�68�%,6$1=,2�,1�(7¬�$5&$,&$�(�&/$66,&$�Byzantion (escerpto rivisitato della voce di Kubitschek et alii, %\]DQWLRQ, in 3DXO\V�5HDO�(QF\FORSDHGLH�GHU�

FODVVLVFKHQ�$OWHUWXPV�:LVVHQVFKDIW (5(), III, 1 (1897), coll. 1116-1158). 3RVL]LRQH�Gli straordinari vantaggi della posizione di Bisanzio, che senz’altro risaltarono pienamente quando fu scelta come capitale dell’Impero Romano, sono determinati sul piano geografico dalla presenza dello stretto canale del Bosforo, che offre una comoda rotta navale dal Mediterraneo in direzione dei lidi pontici e che rese possibile l’espansione della colonizzazione greca verso settentrione, senza essere nella sua modesta estensione un ostacolo per il passaggio dei popoli attraverso la regione tracia, specialmente grazie all’insenatura del Corno d’Oro, che all’uscita del Bosforo si dirama verso ovest, e che viene a formare, separandola dalle terre circostanti, una penisola vantaggiosamente idonea alla fondazione di una città, rappresentando al contempo uno dei porti naturali migliori del mondo. Quanto alla sua formazione geologica, bisogna intendere questo incomparabile golfo come la fase conclusiva di immersione di un processo di erosione del Thal (ndr: forma cava aperta formatasi per processi di erosione e denudazione) e bisogna collocarlo tra le forme di progressivo interramento ed insabbiamento quali noi le incontriamo specialmente nel nord del Ponto, ma anche nella Propontide ad ovest di Bisanzio, dove le spiagge del grande e piccolo Tscheckmedsche (presso l’antica Atira e Reggio) mostrano forme piuttosto simili, ma trovandosi tuttavia in condizioni ancora intermedie di interramento ed insabbiatura. Sembra tuttavia che presso il Corno d’Oro certi rapporti tettonici avessero determinato la formazione del Thal e così avessero contribuito alla formazione della penisola di Bisanzio; dal momento

88 V. VELKOV, 1HVVqEUH� �, Sofia 1980; M.A. VIANU, /¶LFRQRJUDSKLH� GHV� UHOLHIV� DX[� VWUDWqJHV� GH� 0HVDEULD, in “St.Cl.” 24 (1986), pp. 99-107.

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che a nord di questa il Bosforo si insinua in una zolla di era devoniana89, il bordo della Propontide ad ovest di Bisanzio è costituito da una sedimentazione avvenuta nel Miocene, da cui si formò l’intera penisola. La superficie di quest’ultima è una dorsale piatta che con le sue curve accompagna le sinuosità del Corno d’Oro, elevazioni ed avvallamenti in cui la semplificante riflessione del tempo antico individuava, entro l’area della città più tarda, sei colline, mentre la settima collina, necessaria al completamento del numero simbolico, il sette, nel quale gli antichi cercavano di infilare a forza anche relazioni di tipo geografico (si confrontino oltre al Nilo e al 6HSWLPRQWLXP anche i Septem maria, le septem acquae, le sette porte di Tebe di Beozia etc.) veniva riconosciuta nell’estremità triangolare di una seconda catena di colline, che si inserisce a cuneo da ovest tra la prima serie di colline e la costa della Propontide. Questa imponente collina, più tardi denominata ;HURORSKRV è articolata da un Thal ancora oggi riconoscibile, nel quale scorre il fiume Lykos. Questo avvallamento scorre parallelo al Corno d’Oro, distanziandosene per circa 16 Km, e una volta terminava in una insenatura (il porto di Teodosio), che ora è coperta da giardini (Vlanga Bostan). Il punto nodale dello sviluppo di Bisanzio e Costantinopoli si trovava naturalmente alla fine dell’alto promontorio che sporgeva tra il Corno, il Bosforo e la Propontide e che era perfetto per il controllo dello Stretto (KLF�ORFXV�HVW�JHPLQL�LDQXD�YDVWD�PDULV,�Ovidio 7ULVWLD I, 10, 32) e per garantire in modo eccellente l’unione ed il contatto tra le due coste europea ed asiatica (DUWLVVLPR�LQWHU�(XURSDP�$VLDPTXH�GLYRUWLR�%��LQ�

H[WUHPD� (XURSD� SRVXHUH� *UDHFL, Tacito, $QQDOL, 12, 63). Questi vantaggi naturali del luogo erano già riconosciuti in antico e segnalati specialmente dal proverbiale modo di dire relativo alla cecità dei primi coloni insediatisi a Calcedone, espressione che Erodoto attribuiva al persiano Megabazo ((URGRWR, IV, 144), mentre 6WUDERQH�(VII 320) e Tacito (ORF��FLW�) ad un oracolo di Apollo (cfr. Esichio di Mileto IV, 21). Polibio tra gli antichi scrittori ha offerto la più accurata descrizione della posizione di Bisanzio (3ROLELR, IV, 38; 43 ss). Oltre ai passi succitati si trovano riferimenti anche in Dione Cassio (LXXIV 10,1); Zosimo (II, 30, 2), Procopio 6XJOL�HGLILFL�GL�*LXVWLQLDQR I, 5. Alla straordinaria posizione strategica e di controllo del mare si aggiungono i pregi della pesca nel Bosforo, beneficiata dalla corrente, nonché la fertilità del territorio che circonda la città. &OLPD�Posta sotto la 41 ma latitudine nord, che attraversa l’orlo meridionale della penisola (H. Sophia 41° 0’ 16’’), quasi alla stessa latitudine di Napoli, Madrid, Pechino, New York, Bisanzio è caratterizzata da un clima fresco e piuttosto variabile, che con l’eccezione dei mesi estivi, per lo più gradevoli e solo raramente eccessivamente afosi e caldi, risente per la gran parte dell’anno del mutevole influsso di Borea che soffia dalle steppe Pontiche e a cui il Bosforo serve come ‘via d’accesso’. D’altro lato Bisanzio si trova anche sotto l’influsso del vento del sud più di quanto avvenga ai luoghi posti più a nord sul Bosforo, i quali pertanto, specialmente sul tratto rivolto in direzione del Ponto a Therapia e Böjüdkdere, l’antica Bathykolpos, permettono una villeggiatura eccellente ed allettante per il clima e con pochi confronti nell’area. In seguito a più recenti osservazioni la media annuale si assesta sui 12,4°, la media del mese più

89 Era che copre l'intervallo di tempo compreso tra 395 e 345 milioni di anni fa circa, e prende nome dalla località di Devon, in Inghilterra, dove le rocce sedimentarie di quel periodo furono studiate per la prima volta (ndr).

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caldo e di quello più freddo (febbraio ed agosto) 5,2 e 23, 4 (questo valore è forse troppo alto di 0,4°), i massimi estremi da 20 anni, 37, 3° e -8,2°, l’ammontare annuo di precipitazioni 718 mm; dicembre 121 mm, luglio 29 mm. Si confrontino le medie di Atene (37° 58’ latitudine nord: media annuale 17, 3°; gennaio 8,2°, luglio 27°, precipitazioni 408 mm (novembre 70, 4mm; luglio7, 4 mm). Perfino Roma, nonostante sia posta più a nord (41° 54’) è decisamente più calda: media annuale 15,3°, gennaio 6,8°, luglio 24,6°.

�7RSRJUDILD�Dionisio di Bisanzio ed Esichio di Mileto90 in alcuni passi delle loro opere informano concordemente che la prima fondazione della città ebbe luogo nella parte superiore del Corno d’Oro presso l’altare di Semistra, dove sfociano i fiumi Barbise e Cidari. La leggenda del corvo, grazie al quale poi fu individuato il luogo propizio alla fondazione, viene menzionata anche da Simone Logoteta insieme ad altri esempi simili. Sebbene il piano di fondazione di una città in una insenatura interna e molto ben protetta, che una volta non

90 Dionisio di Bisanzio, definito dal /HVVLFR� 6XGD� µHSRSRLzV¶ (poeta epico) scrisse un $QDSOR� GHO� %RVIRUR ed altre opere erudite, e visse probabilmente nel II secolod.C. come sembra evincersi dalla sua opera. Esichio di Mileto, denominato ‘l’Illustre’, fu letterato e storico greco del VI secolo d.C. Scrisse una 6WRULD�URPDQD�H�XQLYHUVDOH in sei libri, un 2QRPDWRORJRV (contenente biografie di uomini illustri) ed un’opera su Costantinopoli.

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era ancora così ampiamente interrata e che era navigabile più di quanto non sia oggi, non sia improbabile, noi conosciamo la Bisanzio storica solo sulla punta della penisola dove l’odierno Serraglio segnala la posizione dell’antica Acropoli. Questa posizione della città su un alto e vantaggioso promontorio circondato per tre lati dal mare è stato descritto bene già da molti antichi scrittori. Gilles aveva erroneamente attribuito alla antica Bisanzio una circonferenza di 40 stadi. Sulla base del testo antico di Dionisio trovato nel frattempo la tradizione è stabilita con chiarezza; tuttavia le cifre creano ancora alcune difficoltà. I 5 stadi= 925 m. per il lato della città rivolto verso il continente appaiono veramente troppo poco rispetto alla larghezza della penisola, che ai nostri giorni non misura meno di 1600 m.; tuttavia bisogna ricordare che sul lato sud una insenatura portuale per la prima volta colmata (od occupata) dai Turchi, ora detta Kadriga Liman, aumenta la misura complessiva di circa 200mt. e anche sul lato nord nei pressi dell’odierna stazione il mare sembra essere stato spinto indietro. Quanto alla circonferenza di Bisanzio nell’estensione che ebbe a prendere in tempi successivi, non si può ipotizzare che abbia superato i 5 Km., cosa che potrebbe concordare solamente con il valore veramente modesto dello stadio pari a 185 mt. Le mura dell’antica Bisanzio correvano all’incirca, stando allo Pseudo-Codino91, dalla torre dell’Acropoli fino alla torre di Eugenios, salivano allo Strategion e si snodavano fino al cosiddetto Bagno di Achilleus, dove il cosiddetto Arco di Urbikios aveva sostituito una più antica porta di accesso all’area della città, proseguivano poi ai Chalkoprateia fino al cosiddetto Milion dove ancora era posta una porta. Di lì si estendevano fino alle sinuose colonne tîn tzugkalar…wn (trasl. WzQ� W]\NDODUuRQ�� da ��������� trasl. WVRXNjOH= vaso; dunque corrispondente all’attico ��������), poi discendevano nella zona detta 7zSRL�

(trasl. WzSRL), e raggiungevano di nuovo l’Acropoli, dopo avere piegato attraverso i quartieri Mangana e Arkadiana. Lungo l’intera muraglia erano incastonate 27 torri. Più breve e non del tutto perspicua è la descrizione redatta da Zosimo (II, 30, 30), secondo cui ‘le mura si spingono giù dalle alture occidentali (�������������������������������������������������) fino al tempio di Afrodite ed al mare, dirimpetto a Crisopoli, sul lato settentrionale ����������������������) ma allo stesso modo anche verso il porto, detto Neorio, ed oltre fino al mare, posto proprio dinanzi alla foce (���������������������������� attraverso cui si sale verso il Ponto Eusino’. Qui sembra che l’autore descriva per primo il muro meridionale che andava da ovest ad est ed il suo proseguimento nella più estrema direzione, poi il muro settentrionale da est ad ovest e infine quello occidentale, mentre Codino cominciava dalla parte est della città, l’Acropoli proseguendo attraverso nord verso ovest e sud. Secondo Codino si poteva spostare l’estensione occidentale non oltre l’ippodromo; anche la sua informazione, secondo cui il Forum Constantini coincideva con la tenda di questo imperatore (nell’assedio del 323 d. C.), una asserzione che d’altronde porta lo stampo di una creazione artificiale, si concilia poco con ciò che segue. Se ora Esichio di Mileto (39) dice che le mura non erano poste oltre il Forum Constantini, la cui posizione è ben chiarita dalle ‘colonne bruciate’ e se Zosimo (II, 30, 2.4) posiziona ivi una porta, dinanzi

91 Giorgio Codino fu curopalate (ossia intendente presso la corte dell’imperatore di Bisanzio) nel XIV secolo. Gli sono attribuiti un 7UDWWDWR�VXOOH�FDULFKH e un’altra opera dal titolo ([FHUSWD�GH�DQWLTXLWDWLEXV�&RQVWDQWLQRSROLWDQLV, che a noi qui interessa.

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alla quale terminavano le Palestre di Severo, si è da ciò resi inclini a spiegare queste due diverse e contraddittorie notizie con una espansione della città ad opera di Severo. In generale l’espansione della città, delimitata su tre lati dal mare, viene ben spiegata da una linea che ad ovest va dalla stazione fino a Kadriga Limani, di modo che anche la prima e la seconda collina appartenenti ad un conteggio più tardo (Serraglio ed Ippodromo) venivano racchiuse nella cerchia di mura della città (vedere carte nella pagina precedente). )RUWLILFD]LRQH�Una tale fortificazione fu decisa fin dall’inizio per la difesa contro gli assalti traci (vedere il paragrafo relativo�� e si è dimostrata efficace in numerosi assedi, specialmente quello ad opera di Filippo II. I più tardi resoconti storici locali riconducevano l’edificazione di quelle mura straordinariamente resistenti a Byzas, che le avrebbe costruite con l’aiuto di Apollo e Poseidone. Stando a Pausania (IV, 31, 5) Bisanzio e Rodi avrebbero avuto le mura più resistenti, seconde alla sola Messene. Queste erano costituite di pietre squadrate e poste l’una accanto all’altra così strettamente da sembrare ricavate dalla stessa pietra; e pure le rovine, stando ad Erodiano, permettevano ancora di figurarsi sia l’abilità di chi le aveva costruite così come la forza d’urto di chi le distrusse. E, dando non minor segno di apprezzamento, si pronuncia Dione Cassio sulla stabilità delle mura; esse insistevano sopra un muro esterno (�����, trasl. WKzUD[) di imponenti pietre squadrate, tenute insieme da lastre di ferro; dietro si alzavano dei terrapieni (cèmata, trasl. FKzPDWD) e altre costruzioni a protezione (������������, trasl. RLNRGRPqPDWD) che si presentavano come un insieme coerente, e che portavano ad un passaggio nel terrapieno (�����������������������������������������������). Le mura erano particolarmente alte dalla parte in cui confinavano con la terraferma, meno dalla parte del mare, dove già la pendenza del terreno roccioso e il mare formavano una difesa naturale. Anche da Senofonte si chiarisce che le mura dalla parte del mare erano rese sicure contro lo sciabordìo delle onde da una pur mediocre altezza del promontorio e oltre a ciò da un terrapieno roccioso (chl», trasl. FKHOq), e pertanto esse dovevano in ogni caso snodarsi proprio al confine con il mare. Una porzione delle mura dalla parte della terraferma subì delle migliorie durante l’assedio di Filippo II grazie all’apporto di pietre tombali (che pertanto dovevano essere poste dentro la cerchia muraria?) e portò da allora il nome di TumbosÚnh (trasl. 7\PERV QH). Un’opera mirabile erano le sette torri, la cui struttura acustica permetteva al suono di propagarsi dall’una (cioè dalla prima) all’altra in successione, secondo numerosi scrittori antichi. Stando a Dione queste sette torri scendevano verso il mare a cominciare dalla Porta Tracia, e da Cedreno risulta che sotto l’ultima a nord si riteneva vi fosse il Corno d’Oro. Da un passo attribuito a Codino conservatoci in un manoscritto parigino, faceva parte delle torri anche la Torre detta di Eracle da Esichio e Codino, torre che, grazie alla sua struttura che favoriva una straordinaria ‘conduttività’ acustica tradiva ‘i segreti’ dei nemici assedianti; le opere su Bisanzio scritte da Esichio e Codino testimoniano che essa era posta entro le mura, mentre l’autore di un trattato anonimo la poneva sullo spazio dell’Acropoli poi denominato .\QHJLRQ. Ne consegue che le sette torri dovrebbero distribuirsi sul percorso che si snoda dalla porta tracia, che va cercata più o meno a metà del lato occidentale, fino al porto ed all’Acropoli, e si dovrebbe annoverare inoltre anche la robusta torre rotonda che secondo la

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testimonianza di Dionisio chiudeva la città nel bassopiano del porto, e che dunque costituiva l’angolo nordoccidentale delle mura. Che l’Acropoli fosse separata, cosa del tutto fuori del comune� è attestato da un passo senofonteo (6HQRIRQWH, $QDEDVL VII, 1,20). Dalla parte della terraferma Codino indica espressamente due porte, a meno che qui non si parli di una sola porta, quella menzionata da Senofonte come LO�SDVVDJJLR�

LQ�GLUH]LRQH�GHOOD�7UDFLD, e da Dione e Cedreno semplicemente come la porta tracia. 3RUWL�Accanto alla fortificazione muraria, i porti rappresentavano le costruzioni più importanti di Bisanzio. Dionisio di Bisanzio ne menziona tre nella prima insenatura della costa dopo il promontorio bosforeo (��������������, trasl. %RVSyULRV�iNUD), di cui quello centrale piuttosto profondo e ben protetto, e poco sicuro solamente rispetto al vento sudoccidentale, in difesa del quale aveva argini fortificati. Siamo debitori allo scrittore di aver qui preziosamente aggiunto che ancora al suo tempo tale porto si chiamava 1HRULRQ (Neèrion). Di conseguenza la famosa denominazione più tarda di 1HRULRQ è sufficientemente assicurata per il porto centrale, e così il nome %RVSRULRQ� a meno che essi non siano equivalenti, deve spettare al porto orientale, cui più tardi conduceva la Porta di Eugenios. Da Dionisio appare che il terzo porto sia stato del tutto irrilevante dal momento che Dione parla espressamente di soli due porti, che ‘ si trovavano entro le mura, erano chiudibili con catene ed erano resi sicuri da entrambi i lati da torri poste sopra argini sporgenti’. In base a ciò è alquanto probabile che nella zona spianata posta dietro all’odierna stazione una volta vi fosse una insenatura marina piuttosto profonda: infatti, che la linea di costa della penisola di Bisanzio ancora nel Medioevo fosse articolata da tali calette portuali in forma molto più netta di quanto non sia oggi, era vero specialmente per la porzione meridionale della città, nei luoghi ora detti Vlanga Bostan e Kadriga Limani; e infine, la cala portuale interrata nel XVImo secolo, il porto giuliano (sofiano) della Bisanzio imperiale, era certo già usata in età antica, sebbene senza dubbio alcuno il traffico navale di Bisanzio si sia certamente concentrato nell’arco di tutta la sua storia all’ingresso del Corno. Tra i luoghi e le costruzioni entro le mura vi era nei pressi dell’Acropoli da menzionare il mercato, di cui faceva menzione Senofonte in alcuni luoghi della sua opera e che noi probabilmente dobbiamo cercare sull’altura delle due colline nelle vicinanze della Chiesa di Santa Sofia. Zosimo parlava di una grandissima DJRUj�WHWUiVWRRV, che doveva esser posta in zona sopraelevata, dal momento che ad essa conducevano dei gradini (����������������…); questi quattro padiglioni che circondavano il mercato non sono però da confondere con il 7HWUiVWRRQ al cui centro, secondo il Malalas92, si trovava una colonna di ferro che rappresentava figurativamente Helios e sul quale furono da Severo addossate le terme di Zeusippo. Poco più ad occidente, all’altezza delle Porte Trace, bisognerebbe forse collocare la piazza d’armi tracia di cui Senofonte scrisse: “il luogo detto WKUDNLRQ è da annoverare tra i migliori per il dispiegamento dell’esercito, perché privo di case e piano”. Forse è in questo stesso luogo che il (peraltro ignoto) Stratego Protomachos

92 Giovanni Malalas fu un retore e storico greco vissuto ad Antiochia tra il 491 ed il 578 d. C., autore di una &KURQRJUDSKLD (&URQDFD�8QLYHUVDOH). Una congrua porzione del libro XVIII di questa opera tratta di Costantinopoli, adifferenza del resto dello scritto, centrato su Antiochia. Autore molto importante, soprattutto per la ricostruzione degli eventi a lui contemporanei o vicini, Malalas è tuttavia spesso confuso e acritico.

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eresse un 7URSDLRQ (trofeo) per via del successo conseguito sui Traci e precisamente nel luogo del più tardo 0LOLRQ, così che poi il Tracio corrisponderebbe più o meno al più tardo $XJXVWDLRQ e l’indicazione ‘Porta Tracia’ si addicerebbe a quella meridionale delle due porte indicate da Codino. Non lontano dall’agorà in direzione nord era lo 6WUDWHJLRQ, nel quale si può agevolmente riconoscere l’edificio ufficiale delle più alte autorità cittadine per l’epoca preromana (Esichio Milesio 39: QHOOR�VSLD]]R�GHWWR�6WUDWHJLRQ��GRYH�XQD�YROWD�

L� PDJJLRUHQWL� GHOOD� FLWWj� HVHUFLWDYDQR� OH� SURSULH� IXQ]LRQL); una oziosa invenzione è al contrario la testimonianza di alcune fonti antiche che attribuivano ad Alessandro questa costruzione più tardi risistemata da Settimio Severo. Ai ritrovi pubblici appartengono poi gli VWiGLD�NDL� J\PQiVLD� NDL� GUyPRL� QpRQ� HQ� WRLV� HSLSpGRLV (VWDGL� H�

JLQQDVL� H� OH� VSLDQDWH� GRYH� FRUURQR� L� JLRYLQHWWL), che Dionisio di Bisanzio colloca ‘vicino al tempio di Poseidone e pertanto ancora dentro le mura’, dunque alle pendici settentrionali della collina del Serraglio. Infine si trovano in uno spazio pubblico anche le Cisterne, che in caso di mancanza di acqua potabile erano di grande utilità e che si trovavano nel pavimento roccioso della città. Numerosi sono i templi e gli altri luoghi di culto sia entro la città che nei suoi dintorni, i quali in età storica si trovano sistematicamente raggruppati. Stando a Dionisio di Bisanzio, al %RVSyULRV� iNUD seguiva immediatamente (“poco dopo di esso” in successione sulla costa), l’altare di Atena Ekbasia, che rimandava allo stanziamento ed alle controversie dei primi coloni, nei pressi del quale si erigeva, sul mare, un tempio di Poseidon, antico e spoglio (OLWyV, che il Gilles ha erroneamente tradotto con ODSLV, mentre tutte le antiche rappresentazioni che fanno riferimento alla storia lì raccontata, portano a rettificare tale traduzione). Gli altri santuari indicati da Dionisio si trovano già oltre la città sul Corno d’Oro e al Bosforo. 6WRULD�Nome. Rispetto ad altre etimologie si deve rinviare a nomi traci somiglianti, (quali Byzìa, B ]HUHV��

Byzantìs, il fiume Barb ]HV�FKH�VL�ULYHUVD�QHOO¶LQVHQDWXUD�GL�%LVDQ]LR��SURSULR�FRPH�Dnche per altre città greche sono noti più antichi nomi traci. La località deve essersi chiamata prima della fondazione della città Lygos (come risulta da alcune fonti; cfr. il nome del ruscello Lykos nella stessa Bisanzio). Epoca di fondazione Come anno di fondazione, Eusebio ricorda il 669/659 a.C.; San Gerolamo il 659/8. Secondo (URGRWR IV, 144 Bisanzio fu fondata 17 anni (per Esichio, 20: 19 anni) dopo Calcedone. (Eusebio pone la fondazione di Calcedone nel 785/4, dunque 27 anni prima di Bisanzio, Busolt ritiene di dover ipotizzare una svista di Eusebio). Giovanni Lido faceva riferimentoi all’Olimpica 38=628/25. Con Eusebio concordano le stime sia di Cassiodoro sull’epoca di Tullo Ostilio sia di Niceforo sull’epoca di Manasse, con Giovanni Lido concordano le stime di Cedreno e Polluce sul tempo di Iosias. La datazione diodorea è priva di valore. Miti di fondazione Una tradizione popolare in merito alla fondazione non sembra esser stata forgiata; ciò che in alcuni autori viene raccontato in forma cursoria sono combinazioni eziologiche o imprestiti di origine erudita, ad esempio nel caso della leggenda della costruzione delle mura ad opera di Apollo e Poseidon; tradisce

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invece un carattere più espressamente popolare la notizia di Dionisio su una prima fondazione in un’altra località- il corvo sacro ad Apollo indica il luogo voluto dagli dei. Come Byzas anche lo Zeuxippo menzionato da Giovanni Lido non è una figura storica o pertinente ad una saga ancora viva e sentita. Gli oracoli di fondazione riportati da molti scrittori sono una tarda e goffa invenzione. Una generale e condivisa tradizione in merito alla madrepatria non sussiste in alcun modo. L’origine degli errori in Giustino (IX,1,3: FRQGLWD�D�3DXVDQLD�UHJH�6SDUWDQRUXP) e Ammiano Marcellino ( XXII, 8, 8: $WWLFRUXP�FRORQLD) emerge dalla storia della città. Un semplice errore ha luogo anche nella narrazione di Velleio Patercolo, quando dà Bisanzio per una colonia milesia. Il fatto che Bisanzio fosse una colonia dorica è confermato dal dialetto; dagli autori più tardi Megara è pochissimo menzionata come madrepatria. Convincenti pezze d’appoggio poi non si possono ricavare da toponimi culti e simili. Le indicazioni di Dionisio di Bisanzio sull’origine di numerosi culti da Megara (Ippostene, Schoiniklos; Aiace Saron Polieido) non sono confermati da ulteriori notizie su Megara e sono pure ipotesi di Dionisio. Diversamente le serie delle divinità venerate in entrambe le città mostrano una sicura concordanza, ma quasi solo in culti comuni a tutti i Greci; degno di menzione è il culto diffuso della Artemis Orthosia e probabilmente di Apollo Karinos, così come il titolo KLHURPQDPRQ, e infine il nome di mese bizantino PDOHIRUXV; cfr. il culto della Demetra Malophoros in Nisaia (Paus. I, 44, 3). Sulla moneta di entrambe le città appare la mezzaluna (ma anche altrove, ad esempio a Tespie). Anche nei toponimi non è presente alcuna concordanza. Il presunto SURPRQWRULXP�LVWKPLFXP esiste solamente nella traduzione latina; i nomi 3HUDLNRV�in 'LRQLVLR 21 (cfr. Steph. Byz. 3HUDLD��6NLURQLGHV�SHWUDL) potrebbero ben venire ricondotti a Corinto, come appare negli ultimi casi anche da Dionisio; per il resto entrambi i nomi hanno carattere appellativo. Una seconda fondazione ad opera di Megaresi fu anche ipotizzata ma erroneamente da Giovanni Lido e Dionisio. Che gli éSRLNRL� fronteggiassero gli antichi abitatori testimonia Aristotele, e senza dubbio si tratta qui di immigrati di età successive; le notizie di una partecipazione di un’altra città alla fondazione restano oltremodo incerte. Totalmente prive di senso in questa relazione sono le indicazioni che si basano sulle pure interpretazioni dei toponimi sul Bosforo. I coloni argivi erano espressamente citati per primi da Esichio (3,32): è possibile che questo voglia rappresentare una semplice conclusione rispetto alla relazione della leggenda di fondazione con la saga argiva di Io. Anche la notizia di una partecipazione dei Corinzi alla fondazione (sempre in Dionisio) suona piuttosto inesatta; una conferma di tale notizia potrebbe essere individuata nella forma della città in epoca bizantina, così come nella probabile concordanza del nome di un mese a Bisanzio con uno corcirese. Vi è poi una notizia isolata secondo cui Corinzi, Caristi e Micenei avrebbero partecipato alla fondazione. Il culto di Zeus Apsasios deve poi essere, stando ancora a Dionisio, provenuto dagli Arcadi. In merito ad un elemento beotico testimonia Diodoro. Fino all’ingresso nella Lega Delio-Attica. La città dovette fin dal principio guerreggiare contro i vicini Traci, come anche traspare da alcuni racconti della saga di fondazione (Esichio, 17 segg; 'LRQLVLR�GL�%LVDQ]LR 8, 16, 53). Anche Bisanzio, come le altre città d’Asia Minore non riuscì a sottrarsi al predominio dei Persiani. Allorché Dario in marcia contro gli Sciti attraversò il Bosforo non lontano dalla città (513 a. C. circa?), erano al suo servizio nella flotta che egli conduceva in direzione del Danubio, anche navi bizantine sotto il

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comando del tiranno Aristone. Durante l’impresa di Dario, Bisanzio come le altre città greche sul Bosforo e lungo la Propontide deve avere irritato il risentimento e la diffidenza del Gran Re a causa di defezioni o di un comportamento ambiguo, forse a causa della distruzione del ponte sul Bosforo; la città venne dunque assoggettata da Otane, il successore di Megabazo. Nel corso della rivolta ionica gli Ioni occupano il luogo; alla battaglia di Lade Bisanzio non prese parte; Istieo si concesse di intercettare qui le navi dal Ponto. Dopo la repressione della ribellione ionica i Bizantini fuggirono dinanzi all’ira persiana insieme con i Calcedonii e crearono la colonia di Mesambria sul Mar Nero� la stessa Bisanzio fu rasa al suolo. Forse la città di Mesambria era già stata fondata in precedenza ma gli scrittori antichi che ne trattano non rendono necessaria questa ipotesi. Risulta evidente che i Persiani videro in questo luogo un fondamentale baluardo del proprio predominio nell’area. Dopo la sconfitta di Platea Artabazo rientrò passando da Bisanzio. Nel 478 Bisanzio fu espugnata da Pausania, e in quell’occasione un gran numero di nobili persiani, tra cui anche persone appartenenti alla famiglia del Gran re, caddero in mano greca. Le navi ateniesi erano sotto il comando di Aristide e Cimone, e Cimone fu nominato arbitro per la spartizione del bottino. Si ricordi poi il dono votivo offerto da Pausania nello +LHURQ sul Bosforo. A Bisanzio Pausania intrecciava trattative proditorie con Serse, e qui si imponeva, contro la volontà spartana, stando a Giustino, per sette anni, dunque fino al 471 o 470 (ma non tutti gli studiosi moderni accolgono questa cronologia). Aneddoti sulla tirannide di Pausania a Bisanzio si ritrovano in molte fonti antiche (vedi VXSUD, pp. 36 e ss). Gli Ateniesi dovettero costringerlo ad andarsene con un convenzionale assedio della città, prima della cui fine, a quanto sembra, egli si sarebbe allontanato dalla SROLV stessa. Fino all’assedio ad opera di Filippo di Macedonia. Bisanzio divenne socia della Lega Delio Attica. Della sua rapida ascesa e della fioritura della città testimonia l’alto prezzo del tributo (SKRURV), che ammontava nel 450 a 15 talenti; nel 43 a 15 talenti e 4300 dracme e nel 441 15 talenti e 460 dracme. L’ipotesi del Duncker secondo cui già in occasione del viaggio di Pericle nell’area del Ponto a Bisanzio fosse stato installato un luogo di dazio ateniese, si oppone alla testimonianza di 3ROLELR (IV 44, 4) e va rigettata. La concessione accordata ai Metonei con un decreto popolare di esportare granaglie in misura fissata da Bisanzio, andrebbe per alcuni studiosi ricollegata ad un blocco del grano giudicato necessario durante la guerra del Peloponneso. Per ragioni sconosciute, Bisanzio ha preso parte alla insurrezione samia. Come appare dalle liste dei soci tributari della Lega, nel 441/40, Bisanzio ha ancora pagato tributo mentre manca nel 440/439. Di una seria lotta contro Bisanzio, di un sostegno portato ai Sami da parte di Bisanzio, non vi è notizia, Tucidide menziona solamente il rientro della città nella Lega dei sudditi di Atene. Nella lista del 438/37 Bisanzio appare senza la cifra del tributo; mentre nella lista del 436/5 il tributo corrisponde a 18 Talenti e 1800 dracme. Nel corso della guerra del Peloponneso, Bisanzio si schierò dalla parte di Atene. Quando il tributo fu soggetto ad un generale innalzamento nel 425/4, quello di Bisanzio fu fissato a 21 talenti e 3420 dracme; una squadra venne inviata una volta sulla costa tracia, forse per evitare una temuta defezione delle città di quell’area.

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Nel 416 Diodoro ricorda una campagna dei Bizantini contro i Bitini, intrapresa unitamente ai Calcedonii e condotta con grande durezza. Dopo lo sfortunato esito della spedizione in Sicilia Bisanzio fu oggetto di una accanita lotta tra due fazioni. Dopo avere trattato con Sparta la città defeziona dalla lega nell’estate del 411 (ma Diodoro pone la defezione di Bisanzio insieme a quella degli altri alleati nel 412). La guarnigione fu rafforzata da Clearco, che era prosseno di Bisanzio, su incarico del re Agide, per bloccare l’approvvigionamento di grano verso Atene. Dopo la sconfitta di Cizico, nel 410, fu da Alcibiade allestita a Crisopoli, di fronte a Bisanzio, una dogana per la tassa di passaggio delle navi –cui veniva chiesta la decima parte dei beni trasportati dal ponto verso il Mediterraneo. Nel 409 gli Ateniesi mossero contro Calcedone e Bisanzio, e sotto il comando di Alcibiade assediarono la città difesa da Clearco; dopo la cacciata di Clearco alcuni cittadini aprirono agli ateniesi le porte della città, oppressa dalla fame, in direzione della terraferma (persino gli Spartani, come attesta Plutarco, riconobbero più tardi che il tradimento era giustificato dalla situazione di grave necessità). Si venne ad uno scontro nell’DJRUj, in cui gli abitanti portarono aiuto alla guarnigione spartana, fino a che Alcibiade non fece annunciare la clemenza per i Bizantini. La lista delle perdite ateniesi, dove sono riportati anche i caduti dinanzi e dentro Bisanzio, è riportata in una iscrizione ateniese. La conquista seguiva al più tardi nell’inverno del 409/8. Presumibilmente il posto di dogana fu spostato a Bisanzio. Bisanzio da quel momento paga nuovamente il tributo (408/6), 15 talenti e 100 dracme. Dopo la disfatta di Egospotami (405) Bisanzio fu occupata da Lisandro; la guarnigione ateniese fu rilasciata grazie ad un accordo; coloro i quali avevano messo Bisanzio nelle mani di Alcibiade fuggirono verso il Ponto e poi diventarono cittadini ateniesi. Il primo DUPRVWD* fu Stenelao. Oppressi dai dissidi interni e dagli assalti dei Traci, i Bizantini richiesero uno VWUDWHJR* da Sparta; così nel 403 fu inviato Clearco il quale ben presto mise in piedi un governo del terrore, fino a che gli Spartani non lo attaccarono apertamente (molte fonti antiche testimoniano ciò, mentre Senofonte, laddove parla di Clearco, ne tace tali poco lodevoli gesta). Nel corso della ritirata dei &LUHL� (i Diecimila), che nel 400 giunsero prima a Crisopoli e poi a Bisanzio, era armosta di Bisanzio Cleandro. In quel frangente, il subdolo comportamento del QDYDUFR*� spartano Anassibio di stanza a Bisanzio condusse la città al rischio di saccheggio ad opera dei Diecimila, che qui sotto la guida di Senofonte avrebbero voluto stabilirsi; ma grazie ad un discorso Senofonte fu in grado di calmare i soldati infuriati. Anche allora tuttavia i Bizantini furono in disaccordo tra loro. Successore di Cleandro fu Aristarco che su disposizione di Anassibio vendette come schiavi i Cirei che erano rimasti a Bisanzio nel 400. Per la città doveva essere vantaggiosa la campagna bellica mossa da Seute con i Cirei contro i Traci di Salmidesso. Dopo la battaglia di Cnido, assai probabilmente nel 390, Trasibulo fece cessare il dominio spartano e l’oligarchia a Bisanzio. La dogana per la riscossione della tassa di passaggio fu ripristinata e data in gestione ai Bizantini. Archebio ed Eraclide, che consegnarono la città a Trasibulo, furono poi banditi ma vennero accolti ad Atene con grandi onori, stando a Demostene ma anche probabilmente ad una iscrizione pubblica ateniese. Trasibulo, allorché fu incriminato, deve avere tentato di stabilirsi a Bisanzio. E’ dubbio se sia stata stipulata un’alleanza ufficiale tra Atene e Bisanzio. Certamente la pace di Antalcida pose fine alla riscossione del pedaggio doganale; secondo Isocrate tuttavia anche dopo la pace Bisanzio rimase dalla parte di Atene. Già prima della fondazione della seconda Lega navale (378/77), Bisanzio, così come Chio ed altre città dell’area, avrebbe stipulato patti separati con Atene. Questa Lega non aveva di fatto una sicura stabilità: nel

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suo tentativo di assicurare una egemonia talassocratica ai Beoti, Epaminonda ricorse con successo anche a Bisanzio (nel 364 o 363). Stando al racconto ininterrotto di Nepote nella sua biografia dedicata a Timoteo, si dovrebbe pensare ad un assoggettamento (Timoteo era allora stratego in Tracia). Nel 362 ed al principio del 361 i Bizantini fecero azione di disturbo del passaggio del grano verso Atene, infatti costrinsero le navi piene di granaglie ad entrare nel porto della città ed a scaricare il proprio carico (sul concetto di NDWjJHLQ v. 3VHXGR�$ULVWRWHOH, (FRQRPLFR�II, 1346 b ss.); la flotta allestita nel 362 su richiesta di Aristofonte aveva anche soprattutto il compito di porre rimedio a questa situazione di emergenza. Nell’autunno del 361 la flotta pontica che portava granaglie da Ierone fu protetta dalle navi ateniesi. Non ci sono notizie in merito a quanto a lungo Bisanzio rimase alleata di Tebe (oltre la battaglia di Mantinea?). In ogni caso Bisanzio deve essere tornata a rapporti amichevoli con Atene; ma nel 357 i Bizantini aderirono alla defezione di Rodi Cos e Chio incitata da Mausolo; portarono il proprio appoggio a Chio e devastarono Lemno Imbro e Samo; inoltre sembra che in una occasione un contingente bizantino avesse insidiato pericolosamente gli Ateniesi. La città fu infruttuosamente assediata dagli Ateniesi ('LRGRUR, XVI, 7, 3. 21-22,2), ma la notizia è messa in discussione da alcuni studiosi. I requisiti della pace non sono conosciuti – sono accennate in Demostene - tuttavia significavano lo scioglimento dalla Lega delle città ribelli. Bisanzio approfittò dell’esito felice della guerra per estendere la propria influenza su Calcedone e Selimbria, contro i patti; la costituzione di Calcedone fu riformata in senso democratico sul modello di Bisanzio. Bisanzio non venne in aiuto ai Rodi contro Mausollo. Nel corso della guerra focidese (III guerra sacra), Bisanzio ha concesso due volte il tributo ai Beoti. Trovandosi invischiata in un conflitto con Chersoblepte di Tracia Bisanzio concluse un patto con Filippo di Macedonia, nel cui territorio vi era ovviamente un passaggio verso la Tracia. Di una partecipazione della città contro Atene non resta traccia nelle fonti, tuttavia gli Ateniesi dovettero permettere che Bisanzio costringesse le navi di passaggio ad entrare in porto e a subire il NDWDJHLQ. Ma nonostante Filippo avesse combattuto contro Chersoblepte, nemico delle città greche nel 343, stando a Diodoro, presto l’amicizia di Filippo con i Bizantini si guastò; come motivo Demostene adduce il rifiuto dei B. a portare guerra ad Atene in ragione dei patti con Filippo ('HPRVWHQH, 6XOOD�FRURQD 87), cosa poco credibile (contro questa spiegazione è Schaefer che pensa invece ad una violazione del territorio di Bisanzio da parte di Filippo). Filippo riconobbe il valore della città e volle impadronirsene con la violenza. Nel discorso sulle faccende del Chersoneso (inizio del 341) Demostene attendeva l’assedio di Bisanzio per il tempo degli etesii, cioè per l’estate; al tempo della terza )LOLSSLFD (maggio 341) Filippo mosse contro Bisanzio, facendo sì che si realizzasse un’alleanza tra Atene e Bisanzio contro di lui. Filippo per prima cosa si rivolse contro Perinto, sostenuta da B. Dopo che l’assalto a Perinto fallì nel 340, Filippo aggredì B., il cui esercito si trovava ancora a Perinto. Non si deve pensare ad una difesa in campo aperto. Leone di Bisanzio compose una storia dell’assedio in sette libri. L’assedio rimase a lungo impresso nella memoria ed offrì lo spunto per la creazione di invenzioni leggendarie; inaffidabile il resoconto di Esichio che ad esempio pone Carete tra gli strateghi di B.; anche in Dionisio di Bisanzio non si riesce a scacciare il sospetto di invenzioni leggendarie di natura eziologica. Così il racconto della battaglia presso i 7KHUPHPHUuD (in Dionisio di Bisanzio) può derivare dal nome dell’utile fenomeno luminoso o dal culto della (NDWH�3KRVSRURV messo in relazione con l’evento – persino il Bosforo può averne tratto il nome.

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Anche i distici del presunto monumento della sposa o della amata di Carete, che dovrebbe essere morta in quella circostanza, non sono forse autentici. B. ricevette il sostegno di Atene, che ora dichiarava guerra a Filippo, e poi di Chio, Cos, Rodi ed altri Greci. Comandante del primo contingente ateniese mandato in aiuto ai B. fu Carete che tuttavia non seppe guadagnarsi alcuna fiducia; a capo della seconda squadra stavano Focione e Cefisofonte; alla guida degli strateghi b. era Leone. Focione che lo conosceva personalmente fu accolto entro le mura della città; Demostene prestò anche personalmente soccorso e donò una trireme; tra i trierarchi vi era anche Iperide. A capo dei B. era lo stesso Leone (forse da non confondere con lo scrittore), un amico di Focione ed allievo di Platone (lì si trovano infatti aneddoti su di lui); se va identificato con il Leone citato in $WHQHR (X, 442, vedi VXSUD) allora si sforzò in primo luogo di ristabilire la disciplina tra i B. Un Apelle di Bisanzio, che collaborò con gli Ateniesi, fu nominato prosseno. Sulle misure adottate da Filippo – i PHFKDQqPDWD� di Poliido fecero epoca nell’arte poliorcetica- si diffondono gli scrittori antichi. In sè non destano sospetti neppure le affermazioni di Dionisio di Bisanzio secondo cui Filippo al fine di facilitare l’approvvigionamento avrebbe costruito un ponte sul Corno d’Oro e che l’avrebbe reso stabile inabissando blocchi di pietra a fungere da basamento, e che per di più, per poter avere materiale da costruzione, avesse lasciato smantellare un tempio di Plutone posto innanzi alla città. L’assedio fallì; la fine dell’assedio probabilmente è da collocare nella primavera del 339. Il ringraziamento nei confronti di Atene è in Demostene. Di un trattato di pace ufficiale tra Filippo e B. non abbiamo notizia; che i Bizantini avessero proseguito la guerra attiva non si può neppure concludere. Leone fu poi calunniato da Filippo presso i B. e si diede la morte. In base a ciò Droysen accoglie la conclusione di un trattato ufficiale tra Filippo e B. Al tempo di Filippo B. fu in lotta con il re scita Ateas. Bisanzio rimase autonoma durante il regno di Alessandro, mantenendo la propria zecca monetaria. Nel corso del passaggio del Danubio Alessandro fu sostenuto da una squadra di Bizantini che entrò nel fiume. La fondazione dello 6WUDWpJLRQ è ricondotta da Malalas al tempo di Alessandro, ma non correttamente. Le guerre dei Diadochi sembrano avere creato pochi problemi a Bisanzio. Nel corso della guerra di Poliperconte contro Antigono, la città si schierò dalla parte di quest’ultimo; due battaglie navali si svolsero dinanzi a Bisanzio (nell’anno 318); in seguito Bisanzio rimase invece neutrale nel conflitto tra Antigono ed i suoi avversari Lisimaco e Cassandro (Ds XIX, 77, 7 anno 313). Di una politica ossequiosa nei confronti di Antigono e Demetrio testimonia l’epigrafia; la stessa benevolenza nei confronti di questa famiglia riappare anche più tardi; i Bizantini dopo il 282, al più tardi nel 277/6 dedicarono effigi di Antigono Gonata e di suo padre Demetrio a Olimpia (Pausania VI 15, 7). Il re del Bosforo Cimmerio Eumelo si adoperò per guadagnarsi l’amicizia di Bisanzio (nell’anno 310). La città fu minacciata ma probabilmente non asservita da Lisimaco (3OXWDUFR, /D� IRUWXQD� R� OD� YLUW�� GL�

$OHVVDQGUR�0DJQR, II, 5) Dopo la battaglia di Curupedio Eraclea stipulò un’alleanza con B. per difendersi da Seleuco. B. ebbe a soffrire duramente dell’invasione dei Celti (dal 278). Un’orda celtica devastò il territorio e impose alla città un tributo, da ultimo di 80 talenti. Il tributo doveva essere pagato (probabilmente ai Celti rimasti in Europa) fino al tempo del loro sovrano Cavaro, contemporaneo della guerra combattuta tra Bisanzio e Rodi, dunque anche dopo che i Celti furono in parte trasferiti in Asia grazie ad un patto con Nicomede di Bitinia (278 o 277). Nel patto furono coinvolti anche gli alleati di Nicomede, tra i quali

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figuravano Bisanzio ed Eraclea. Un certo Demetrio di Bisanzio scrisse un’opera in tredici libri sul passaggio dei Galati dall’Europa in Asia. I Bizantini chiesero il sostegno degli altri Greci per via della grave difficoltà economica in cui versavano, ma solo in pochi offrirono il proprio aiuto, come Eraclea. Probabilmente fu in questo periodo che vennero adottate le direttive finanziarie straordinarie di cui parla lo Pseudo Aristotele; fu istituito anche un dazio doganale sulle navi di passaggio, cosa che portò alla guerra contro i Rodii. I Bizantini furono anche sottomessi ai tutori impiegati da Nicomede per i suoi figli. Bisanzio fu alleata ad Eraclea anche contro Antioco II di Siria. E proprio costui sembra avere asseditao la città negli anni 262-258. L’installazione del dazio doganale ad opera dei B. diede il via alla guerra contro Rodi (220/19). Alleato dei Rodii fu Prusia re di Bitinia, incollerito dall’amicizia dei Bizantini con Attalo I di Pergamo; alleati dei B. erano Acheo, Attalo I, Tibete, imparentato con Prusia di Bitinia, e che soggiornava in Macedonia. Ma quest’ultimo morì, mentre Acheo fu vinto dai Rodii mentre Prusia incalzò duramente la città in alleanza con i Traci, prendendo loro lo +LHURQ e i possedimenti in Misia; così fu conclusa una tregua con l’intermediazione di Cavaro, in base alla quale i Bizantini rinunciavano alla dogana, recuperando tutto ciò che Prusia aveva loro sottratto. /RWWH�FRQWUR�L�7UDFL��Nei tempi più antichi le invasioni dei Traci, attirati dalla fertilità del suolo bizantino, costituirono una piaga incessante per la città. Nel frattempo i Bizantini vennero ad imporsi come i dominatori di quella regione. Attraverso la messa in sicurezza del passaggio delle navi contro i Barbari che abitavano le coste dello Stretto Bisanzio si rese benemerita nei confronti della Grecia intera. Da Bisanzio fu probabilmente creato anche il faro che ai tempi di Dionisio era in rovina. 5DSSRUWL�FRQ�&DOFHGRQH�Esichio parla di rapporti amichevoli con Calcedone. Per un periodo ebbe luogo anche una coniazione comune alle due città (anni 277-270 a. C.). Ragione di conflitto fu il possesso dello KLHURQ sul lato asiatico del Bosforo, che i Bizantini volevano per sè. Sull’influenza di Bisanzio sulla costituzione di Calcedone si è visto in precedenza. &RVWLWX]LRQH�HG�LVWLWX]LRQL�� Per i tempi più antichi non si sa nulla; le notizie di Esichio non meritano alcuna attenzione. Erodoto ricorda ai tempi di Dario un Aristone tiranno di Bisanzio. L’oligarchia installata presumibilmente per la prima volta da Lisandro fu abolita da Trasibulo e sostituita da una costituzione democratica. Per la fine del V e la metà del I a.C. sappiamo dell’esistenza di lotte intestine; Aristotele ricordava una rivolta degli qSRLNRL. La popolazione era suddivisa in HNDWRVW HV, una partizione documentata anche per Eraclea Pontica. L’assemblea del popolo si chiamava DOuD. Il popolo poteva ordinare l’azione agli strateghi su proposta, ed esisteva anche l’autorità della Boulè. Stando a Dittenberger, poi, i V�R�XQHGURL non erano i consiglieri della città ma semplicemente gli emissari della città mandati al V\QHGULRQ. E’ possibile che anche i %RLRWRL�

fossero una carica.

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I funzionari pubblici che avanzano le proposte si chiamano nelle iscrizioni VWUDWHJRL, e secondo Polieno erano due. Tale fu la carica rivestita anche da Ecatodoro ed Olimpiodoro citati da Polibio: SURqVWDVDQ�WR��

SROLWqXPDWRV. Il loro ufficio era forse il menzionato 6WUDWHJuRQ. Sulle monete soprattutto di età imperiale da Traiano in poi troviamo figure ufficiali e sacerdoti con e senza titolo.[...] Se KLHURPQjPRQ fosse anche eponimo è cosa dubbia nonostante. Questo titolo era stato assorbito certamente da Megara dove contraddistingueva il sacerdote di Posidone, e appare anche a Calcedone. 6LWXD]LRQH�ILQDQ]LDULD�Le entrate della città erano molto importanti per via dei tributi dovuti agli Ateniesi e più tardi ai Celti. Che i proventi della pesca e la vendita del sale fossero originariamente appartenuti allo stato è concluso da alcuni studiosi, sulla base dello 3VHXGR $ULVWRWHOH, (FRQRPLFR, 1346 b 20, ma difficilmente a ragione. Demostene menziona liturgie in un falso decreto ('HPRVWHQH�� 6XOOD� FRURQD� 90). A causa di un grande bisogno di denaro, – certamente in seguito all’emergenza dei Galli (o Galati)- i Bizantini svilupparono una grande abilità nell’escogitare nuove fonti di guadagno; si vendevano così pubblicamente terreni, si tassava l’attività della pesca, del commercio del sale, della taumaturgia, della divinazione, della farmacia, si introducevano tasse di vendita ed una forma di monopolio bancario,si vendeva il diritto di cittadinanza a certuni che per nascita non erano cittadini a pieno diritto, ai meteci si vendeva il diritto all’acquisto di una proprietà terriera (vedere ancora il summenzionato 3VHXGR $ULVWRWHOH�. Resta al contrario una questione aperta se l’uso di monete di ferro al tempo della guerra del Peloponneso sia da mettere in relazione con un fabbisogno di denaro. Byzantion (tratto e tradotto dalla voce di I. von Bredow, %\]DQWLXP�� %L]DQ] in 'HU� 1HXH� 3DXO\��

(Q]\NORSlGLH�GHU�$QWLNH, coll. 866—880), città greca posta sulla costa meridionale del Bosforo, in una penisola confinante a nord con il Chrysokeras (il Corno d’Oro) e a sud con la Propontide, corrispondente alla odierna Istanbul; restano tracce di insediamento preistorico. Fondazione megarese (basti confrontare nomi; la ripartizione delle tribù, le istituzioni, il calendario, il pantheon) del VII a.C. (parteciparono anche coloni da Argo, Corinto e Beozia: Dionisio di Bisanzio IU� 10; Eusebio, &KURQLNRQ 2, 87). Dopo le guerre persiane accolse un governo oligarchico, nel 478 a. C. fu occupata da Pausania, dal 476 fu retta da un ordinamento oligarchico e divenne alleata della Lega Delio-attica pagandone l’oneroso tributo. Nel 411, in seguito ad un conflitto con Samo entrò nella Lega del Peloponneso. Alcibiade nel 407 riuscì a riportarla alla causa ateniese. Sei anni più tardi lo spartano Clearco infierì contro la città, nel 390 Bisanzio fu costretta ad entrare nella seconda Lega navale ateniese, defezionando nel 356. Nel 340/339 Filippo assediò Bisanzio senza successo. Nel 220 a.C. Bisanzio condusse una guerra economica contro Rodi a causa dei pedaggi imposti alle navi. Nelle guerre di Roma contro Filippo V, Antioco III e Perseo Bisanzio si alleò con i Romani, ragion per cui Bisanzio divenne FLYLWDV�OLEHUD�HW�IRHGHUDWD.

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