Rubin e il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione
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8/19/2019 Rubin e il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione
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LM MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA IN: SCIENZE POLITICHE E DELLE ORGANIZZAZIONI
TESI DI LAUREA
IN: STORIA DELL’ANALISI ECONOMICA
TITOLO
RUBIN E IL PROBLEMA DELLA TRASFORMAZIONE
CANDIDATO
Daniele Gnudi
RELATORE
Prof.ssa Manuela Mosca
SESSIONE I
NNO CCADEMICO 2012/2013
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Indice
Introduzione 5
Capitolo 1. Motivazioni e signicato dell’opera di Rubin 71. La critica di Böhm-Bawerk 8
Capitolo 2. La teoria marxiana del valore–lavoro 13
1. La premessa sociologica del marxismo 132. La forma mercantile che assume il lavoro 163. La “legge del valore” 21
Capitolo 3. La teoria del prezzo di produzione 291. Distribuzione del lavoro e distribuzione del capitale 292. Il prezzo di produzione 313. Componenti del prezzo di produzione 344. La trasformazione dei valori in prezzi di produzione 41
Conclusioni 43
Bibliograa 47
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Introduzione
Il modo particolare con cui Marx amplia il modello economico affrontato nei
primi due libri del Capitale , aggiungendo come prima cosa nel terzo volume la
situazione di concorrenza tra capitalisti, ha sollevato molti dubbi e generato una
controversia lunga più di un secolo – che ha preso il nome di “problema della trasformazione” – coinvolgendo economisti e loso anche di grossa fama¹. Chi
scrive è convinto fermamente che i motivi della mancata adozione della teoria
marxiana da parte del mainstream accademico non dipendano tanto dal proble-
ma della trasformazione e dalla mancanza di una “soluzione” a tale problema
interpretativo; tuttavia parte degli studiosi è ancora interessata alla questione in
oggetto che, noi riteniamo², è parte fondamentale e decisiva per la teoria marxia-
na. È dunque chiaro che questo problema non può non interessare in maniera
prioritaria ogni persona che affronti lo studio della teoria di Karl Marx.
Per far luce su questo argomento ho scelto di appoggiarmi principalmente
alla monograa di Isaak Rubin, Saggi sulla teoria del valore di Marx (1976), che
ho trovato essere il testo da me conosciuto che più di ogni altro tenesse conto di
tutti gli aspetti fondamentali della teoria marxiana³. In questo lavoro si vogliono
¹Sempre tenendo in considerazione che il III libro è uscito dopo la morte di Marx e da que-st’ultimo mai revisionato per la pubblicazione nale. Il II e il III libro sono infatti stati pubblicatida Frederich Engels elaborando i manoscritti dell’amico Karl. Anche se Engels, nella stesura delIII libro, assicura la massima fedeltà possibile all’originale e al pensiero dell’autore, essa rimanecomunque un insieme di bozze (per giunta non complete) riorganizzate da una persona diversa dall’autore. A nostro parere, per le motivazioni appena esposte, non bisognerebbe essere moltostupiti della presenza di alcuni punti oscuri in un’opera del genere; di conseguenza un approcciopiù critico e meno pedante sarebbe, probabilmente, più produttivo.
²E non solo noi; sebbene con nalità del tutto diverse, sia Böhm-Bawerk (ergo la scuola austriaca e derivate) che tutto il marxismo ortodosso ritengono indefettibile la teoria del valorenel sistema marxiano.
³Wikipedia sostiene che Rubin sia “considerato il più importante teorico ed esperto del suo
tempo nel campo marxista della teoria del valore” ( http://it.wikipedia.org/wiki/Isaak_Rubin, ver-sione del gennaio 2012). Un’analoga affermazione si trova anche nelle versioni dell’enciclopedia inglese, francese, tedesca e svedese.
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6 INTRODUZIONE
quindi illustrare i punti chiave che contraddistinguono la sua interpretazione e,
in particolare, la loro importanza e le loro conseguenze. La tesi mira a utilizzare
lo stesso metodo e la stessa concezione che, secondo noi, anima il lavoro di Rubin:
la contestualizzazione sociologica e storica dell’analisi economica. Il nostro meto-
do può anche essere così esposto: per noi l’analisi di un sillogismo logico è utile
all’analisi economica se e solo se è effettivamente è coerente e non anacronistico
con la realtà sociale. A tale metodo, che affermiamo con sicurezza essere quello
di Rubin⁴, contrapponiamo quello del capostipite della critica del marxismo, Eu-
gen von Böhm-Bawerk⁵. Lo scopo della tesi sarà dunque quello di sottolineare
e mostrare la superiorità del metodo di Rubin nella comprensione della teoria
marxiana, in particolare di quei punti oscuri dell’opera di Marx che necessitano
di una maggiore chiarezza.
Il primo capitolo è dedicato proprio ad approfondire quanto nora detto e ha
pertanto uno scopo introduttivo. Nel secondo capitolo è affrontata l’interpretazione
che Rubin fornisce alle fondamenta del marxismo: le premesse sociologiche fon-
damentali della società capitalista (teorizzate nella teoria del feticismo della mer-ce) e la conseguente teoria del valore , che da tali basi direttamente sorge. L’ultimo
capitolo è inne dedicato a trattare della trasformazione che la teoria del valore
(“primitiva” potremmo dire in quanto, per Rubin, si occupa solo di un aspetto
della società capitalistica) opera su se stessa per adattarsi alle esigenze della legge
dell’uguale protto per uguale entità di capitale (quest’ultima introdotta da Marx
nel III libro).
⁴Sicurezza che ci è data dall’autore stesso cominciando dall’introduzione e continuando quasia ogni pagina.
⁵Anche se soltanto menzionandone i punti più caratteristici, per coerenza con l’oggetto della tesi e anche per ovvie ragioni di spazio. Quest’ultimo limite, in particolare, ci impedisce di citarealtri grandi autori importanti, assai rappresentativi della concezione che vogliamo contrapporre a
quella di Rubin. Così gli esponenti dell’economia classica, che elaborarono anacronistici scambidi valore tra isolati cacciatori primitivi e robinsonate varie (Marx 1964, 108), non possono nostromalgrado trovare qui spazio.
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CAPITOLO 1
Motivazioni e signicato dell’opera di Rubin
Che la teoria del feticismo della merce, esposta da Marx principalmente all’inizio
de Il Capitale , sia “la tesi centrale intorno a cui ruota tutto il discorso” (Rubin
1976, VII), è una tautologia per il lettore del suo libro. A dircelo così diretta-
mente non è solo la prefazione e la quarta di copertina, ma l’autore stesso chenon cede neanche la prima riga del suo testo a lungaggini: “la teoria del fetici-
smo della merce di Marx non è mai stata valutata adeguatamente”. Per quanto
i suoi sostenitori e avversari gli possano aver riconosciuto meriti, la teoria del fe-
ticismo è stata al più considerata come un’appendice della teoria del valore, una
“brillante generalizzazione sociologica, una critica di tutta la cultura contempora-
nea fondata sulla reicazione dei rapporti umani” (ibidem). Anche chi l’accetta
nell’ambito dell’economia politica, generalmente gli riconosce il solo merito di
aver “fatto chiarezza” e rivelato la presenza di rapporti umani sotto l’apparenza
di relazioni tra cose, demisticando l’illusione della coincidenza tra apparenza ed
essenza dell’economia mercantile.
Ma per Rubin la teoria del feticismo non è soltanto questo; scrive infatti:
“Egli [Marx] non si limita a rivelare la presenza di rapporti umani sottoil velo della reicazione, ma dimostra la necessità per cui nell’economia
mercantile i rapporti sociali di produzione prendono forma di cose e siesprimono attraverso esse” (ivi, 6).
La conclusione dell’introduzione alla prima parte del libro non lascia alcun dub-
bio sull’importanza data da Rubin alla teoria del feticismo: essa è “la teoria genera-
le dei rapporti di produzione dell’economia mercantile, propedeutica all’economia
politica” (ibidem). Trascurandola, l’economia politica non sarà mai in grado di
cogliere l’essenza dei fenomeni e delle leggi della società capitalistica, che Rubin
vede come una specie della società mercantile semplice, seppur più complessa in
quanto prende in esame anche altri aspetti economici, oltre al semplice scambio
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8 1. MOTIVAZIONI E SIGNIFICATO DELL’OPERA DI RUBIN
di merci tra produttori. Un’analisi che non tiene conto di questo velo che ma-
schera i rapporti di produzione è un’analisi feticistica, che attribuisce alla merce,
oggetto materiale avente utilità materiale, proprietà sociali che non gli apparten-
gono naturalmente. A causa di questo suo vizio di fondo, una tale analisi è “de-
stinata a risultati disastrosi a prescindere da quanto possano essere acute certe
sue osservazioni¹” poiché “essa non spiega il meccanismo produttivo della società
contemporanea, né le condizioni per il suo funzionamento e sviluppo.” ( ibidem).
Questo è il punto dell’analisi di Rubin che riteniamo più importante e ricco di
conseguenze. La teoria del feticismo e la sua centralità e propedeuticità all’analisi
economica è una critica radicale a tutti gli altri modi di affrontare lo studio del
capitalismo. Non solo; dibattiti e diatribe viziate entrambe dal feticismo – da par-
te di marxisti come di antimarxisti – avrebbero tutt’al più affrontato qualcosa di
rintracciabile nell’economia politica classica, identicandolo indebitamente con
la teoria del valore marxiana (ivi , VII).
La teoria di Rubin vuole porsi come un’interpretazione “defeticisticizzata”
della teoria marxiana del valore–lavoro². Per il vigore di questi concetti, che per-mea in maniera esplicita ogni singolo paragrafo della sua opera, riteniamo che tale
teoria costituisca una risposta proprio alle interpretazioni feticistiche³. È quindi
di una certa utilità, in questa prima fase, dare un rapido sguardo alla concezione
fondamentale che, della teoria del valore, aveva il suo più popolare critico.
1. La critica di Böhm-Bawerk
Eugen Böhm-Bawerk, nel 1896, formulò la prima rilevante critica alla teoria
marxiana, dalla quale prese poi il via il dibattito sul problema della trasformazione
che coinvolse, in modo differente e con nalità differenti, numerosi autori. La
critica di Böhm-Bawerk, nel suo La conclusione del sistema marxiano (1971) è una
critica distruttiva del marxismo in quanto mira a mostrarne le contraddizioni in-
sanabili e la sua invalidità scientica, nonché la sua certa ne (Böhm-Bawerk et
¹Il riferimento alla scuola austriaca e al marginalismo è, questa volta, esplicito.
²Cioè che tenga conto e si basi sulla teoria del feticismo della merce.³Ad esempio, tra le altre, la citazione di Böhm-Bawerk, a pagina 51, accusandolo di fatto di
una certa supercialità nell’aver ridotto la teoria marxiana del valore a una manciata di pagine.
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1. LA CRITICA DI BÖHM-BAWERK 9
al. 1971, 108-109). Egli vede nella teoria marxiana del valore-lavoro⁴ il pilastro
fondamentale del sistema teorico di Marx e che, essendo secondo lui viziata da
contraddizioni insolubili e dalla contrapposizione con la teoria del prezzo di pro-
duzione, fa crollare l’intero “castello”⁵ ⁶. Come già preannunciato in precedenza,
in questa sede di non formuleremo un giudizio di verità sui suoi assunti; è inve-
ce importante coglierne quei punti che, riteniamo, possano aver spinto Rubin a
tentare di dare un contributo alla comprensione della teoria marxiana.
Böhm-Bawerk, come si può vericare facilmente dalle pagine de Il Capitale
da lui citate come fonte nel suo primo capitolo Teoria del valore e del plusvalore ,
assume come base esclusiva della sua critica alla teoria del valore il primo capitolo
del libro I, escludendo chiaramente il paragrafo sul feticismo, mai menzionato. A
queste, contrapporrà i capitoli9 e 10 del libro III, contenenti la teoria del prezzo di
produzione, vedendo una contraddizione tra le due teorie e l’abbandono implicito
da parte di Marx della teoria del valore-lavoro in favore di quella del prezzo di
produzione.
L’interpretazione che Böhm-Bawerk da alla teoria del valore di Marx è rias-sumibile affermando che essa non sarebbe altro che una teoria dei prezzi relativi,
non dissimile dai tentativi dei classici, pur con le “conseguenze straordinariamen-
te interessanti e di vasta portata, […] alla più importante innovazione del terzo
volume” (ivi , 15) dell’opera di Marx. A pagina 59 (Marx 1964) trova il concetto
di valore e lo fa suo: siccome nello scambio si astrae dalle proprietà siche delle
merci (ovviamente incommensurabili tra loro) generatrici del valore d’uso delle
stesse, non rimane altro che il lavoro che le ha prodotte, lavoro umano genera-
le cristallizzato nelle merci in una sorta di riduzioni successive. Böhm-Bawerk,
pur sostenendo con Marx che il valore così denito non coincide con il valore di
⁴D’ora in avanti, se non diversamente specicato, semplicemente “teoria del valore”.⁵Come immediatamente e palesemente si evince gi dal titolo del capitolo quarto: “L’errore
nel sistema marxiano, la sua origine e le sue ramicazioni” (Böhm-Bawerk 1971, 59).⁶Finalità di “correzione” (quindi non distruttive) si possono rintracciare nei contributi di
Bortkiewicz (Böhm-Bawerk et al. 1971, 179), come già indica il titolo: “Per una rettica dei fondamenti della costruzione teorica di Marx nel III volume del Capitale” . Tuttavia la concezionefondamentale che l’autore, secondo noi, mostra di avere della teoria del valore marxiana è la
stessa di Böhm-Bawerk: anche se per Bortkiewicz “l’errore” starebbe nel fatto che “non è valido ilprocedimento con cui Marx calcola il saggio medio di protto” (Böhm-Bawerk et al. 1971, 179),rimane ferma l’esclusione della teoria del feticismo.
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10 1. MOTIVAZIONI E SIGNIFICATO DELL’OPERA DI RUBIN
scambio (espressione fenomenica del valore, rapporto proporzionale di scambio,
prezzo) ma ne è tuttavia “inseparabile” (Böhm-Bawerk 1971, 9) e derivato, non
va oltre e passa direttamente al concetto di grandezza di valore, che è quello che
gli interessa di più in quanto presunta fonte dei prezzi relativi delle merci. Nel-
la sua critica Böhm-Bawerk non cita in nessun modo la teoria del feticismo della
merce e riteniamo perciò di essere autorizzati dal silenzio dell’autore a pensare che
ne ignorasse il legame con la teoria del valore o che non la ritenesse signicativa.
Di particolare evidenza è il contrasto con la concezione di Rubin che vede invece
la teoria del feticismo come la spiegazione del concetto stesso di valore-lavoro, il
mattone indispensabile della teoria marxiana che spiega la natura sociale del valore
e il perché il lavoro è la sostanza del valore (Rubin 1976, 91).
L’analisi di Böhm-Bawerk è, a parere nostro, completamente differente da
quella di Rubin proprio perché risulta mancare dell’approccio dialettico – quindi
dinamico – allo studio di tali problemi. Secondo noi la critica di Böhm-Bawerk
assomiglia molto di più al tentativo tipicamente matematico di dimostrazione per
assurdo di un teorema, individuando e sviluppando le contraddizioni in forza del principio di non contraddizione , tipico di un’analisi statico-descrittiva⁷: di conse-
guenza, com’è ovvio, o i prezzi delle merci sono determinati dal valore-lavoro,
oppure lo sono dal prezzo di produzione, e in tal caso una delle due è falsa (Böhm-
Bawerk et al. 1971, 25)⁸. Siccome la teoria marxiana è composta da entrambe le
teorie, secondo questo ragionamento essa cade in una contraddizione.
Seguendo Böhm-Bawerk, il lavoro creerebbe il valore, e diverse quantità di
lavoro generano diverse quantità di valore. Il valore di una merce è dato dalla
quantità di lavoro “socialmente necessario” (cioè medio, almeno in un dato set-
tore produttivo). Conclude così che la conclusione non può essere altra che “le
⁷La quale, soprattutto se applicata allo studio dei fenomeni sociali, è per il losofo GeorgesPolitzer (1936) metodo metasico, in contrapposizione al metodo dialettico .
⁸In realtà il concetto non è presente solo nella citazione di pagina 25; tale metodo e giudiziosenza riserve permea chiaramente e indiscutibilmente ogni singola pagina di La conclusione del
sistema marxiano. Per esempio, già due pagine dopo si dice che “questa [contraddizione tra le dueteorie] è un impressione che chiunque ragioni secondo la logica non può non ricavare.” (ivi , 27,corsivo nostro).
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1. LA CRITICA DI BÖHM-BAWERK 11
merci si scambiano tra loro in proporzione del lavoro medio socialmente neces-
sario in esse incorporato” (ivi , 10) o, detta in altri termini, si “scambiano ai loro
valori”. Pur egli ammettendo che gli effettivi prezzi di mercato possono divergere
dai prezzi espressione dei valori, comunque in media e nel lungo periodo essi ten-
dono a eguagliare i valori; almeno tendenzialmente dunque i valori sono il centro
di gravità dei prezzi relativi delle merci.
Questo, per Böhm-Bawerk, è quello che sostiene Marx nel I libro: la sua teoria
del valore-lavoro sarebbe, a ben guardare, non molto dissimile dai suoi predeces-
sori classici (in particolare Ricardo) che tentavano di spiegare i prezzi delle merci.
E, analogamente alla loro teoria del valore-lavoro, sarebbe destinata a schiantarsi
contro la realtà del capitalismo descritta nel III libro (ivi , 26)⁹: diverse compo-
sizioni organiche ma uguali protti per capitali di grandezza uguale; divergenza
persistente tra valore e natural price , ecc.
Böhm-Bawerk argomenta in quattro punti principali le sue obiezioni al pas-
saggio che Marx compie per collegare la teoria del valore a quella del prezzo di
produzione, ritenendolo però errato e vedendo con ciò la conclusione del suo siste-ma , l’abbandono da parte sua della teoria del valore del I libro (ivi , 27). Quello
che a noi interessa qui è notare che Rubin non rimprovera tanto ai marginalisti di
essersi sbagliati nella logica interna della loro critica; il fatto è che, per lui, senza
la teoria del feticismo e le necessarie premesse sociologiche, l’economia politica
non sarebbe in grado di spiegare i meccanismi fondamentali della società (Rubin
1976, 68). Sarebbe dunque proprio il loro presupposto di partenza a essere sba-
gliato (ivi , 6) e, pensiamo noi, è proprio questa convinzione di tale mancanza
ad aver spinto Rubin in maniera decisiva a dare così tanta importanza proprio ai
presupposti dell’analisi economica: la teoria del feticismo della merce, sulla quale
è costruita l’intera sua interpretazione della teoria del valore.
⁹Posizione condivisa anche da Landreth e Colander (1994, 321).
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CAPITOLO 2
La teoria marxiana del valore–lavoro
1. La premessa sociologica del marxismo
Secondo Rubin “il carattere distintivo della società mercantile è che in essa
la produzione è regolata e determinata da produttori di merci indipendenti” ( ivi ,
7), proprietari dei mezzi di produzione che adoperano e legittimi possessori dei
prodotti del lavoro; non sono soggetti ad alcun piano di produzione (come invece
lo sono gli operatori all’interno di una fabbrica o azienda) e sono organizzatori
autonomi della loro attività economica. Rubin specica che essi non sono pro-
duttori di semplici oggetti utili¹, ma di oggetti utili agli altri . Se un oggetto non
è alienabile, non è scambiabile con altri, non è merce . I soggetti economici sono
quindi solo apparentemente “indipendenti e autonomi organizzatori della loro at-
tività”, esclusivamente nella misura in cui i loro prodotti risultano scambiabili con
tutti gli altri , acquistando così lo status di merci , il lavoro del produttore quello di
lavoro parte del lavoro sociale complessivo e dunque dal punto di vista qualitativo la-
voro socialmente equiparabile a tutti gli altri (sebbene in proporzioni quantitative
diverse). Merci giudicate dal mercato “non utili” non sono merci e il lavoro che
le produce non è lavoro sociale. Al più possono essere regalate o consumate dal
produttore stesso², ma non possono essere vendute: sono valori d’uso, ma nonanche valori di scambio e quindi merci.
Rubin spiega così che il produttore di merci deve dunque fare continuamente
i conti con il mercato, potendolo inuenzare solo con i suoi prodotti³ da cui gli
¹Per “oggetti” intendiamo qui sia beni che servizi d’ogni genere.²Un oggetto, anche se non è merce e quindi non possiede la caratteristica della scambiabilità,
è pur sempre un valore d’uso.³Nel modello di società mercantile di Rubin i produttori possono incidere sul mercato e
sulla divisione sociale del lavoro solo attraverso le cose, i prodotti che vendono, e mai per le
loro eventuali caratteristiche personali o a causa dell’appartenenza a ceti o corporazioni. Esso èun modello basato sostanzialmente sui presupposti più tipici del pensiero economico moderno eclassico.
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14 2. LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE–LAVORO
altri dipendono, ma essendone lui stesso continuamente inuenzato, dipenden-
do a sua volta dalle merci degli altri. Nell’atto di scambio equiparano i prodotti
del loro lavoro come valori , attribuendo cioè alle loro merci un valore in dena-
ro espresso come equivalente di tale valore⁴. Tuttavia – essendo spinti nella scelta
dell’attività produttiva esclusivamente da calcoli di maggior vantaggio economico
– nelle equiparazioni dei loro prodotti essi niscono indirettamente per equipara-
re i loro lavori ; non coscientemente come equiparazione sociale di due lavori che
sono parte del lavoro sociale complessivo in vista della produzione materiale di
cose, ma indirettamente per mezzo delle cose (ivi , 13):
“Gli uomini dunque riferiscono l’un l’altro i prodotti del loro lavoro co-me valori , non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltantocome puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo⁵. Viceversa.Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come la-voro umano, equiparando, l’uno con l’altro, come valori , nello scambio,i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno.” (Marx 1964, 106)
Rubin specica che ai possessori di merci all’atto dello scambio interessa esclu-
sivamente trarre il maggior guadagno possibile dalle merci prodotte del loro lavo-
ro, di cui dispongono e che vogliono alienare ad altri; non conoscono quale sarà
l’utilizzo e il destino degli oggetti che hanno venduto e non li interessa. Ma è solo
attraverso questo scambio che i produttori possono entrare in contatto tra loro per
perpetrare o modicare la produzione sociale, e in nessun altro modo: i rapporti
di produzione nell’economia mercantile assumono la forma della compra–vendita
di merci. I rapporti tra persone – rapporti di produzione tra i soggetti economici
– sono così mascherati da rapporti tra cose ⁶:⁴La forma di denaro è l’ultima forma di valore analizzata da Marx (1964, 102) nel Capitale
come semplice espressione in denaro (oro o cartamoneta) della forma di valore dispiegata in cuiogni merce particolare viene socialmente equiparata quantitativamente a una merce equivalentegenerale, che funge da espressione del valore delle merci ad essa equiparate. Cosa “crea” questovalore di scambio manifestazione fenomenica di qualcos’altro (ivi , 86) è oggetto di studio delprossimo paragrafo, dedicato alla teoria del valore vera e propria.
⁵Cioè, aggiungiamo noi, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto comelavoro socialmente equivalente reicato in merci; infatti nella società mercantile non esiste alcunpiano della produzione sociale ed è impossibile per chiunque conoscere l’equivalenza sociale didue lavori se non attraverso l’uguaglianza del valore dei rispettivi prodotti.
⁶E ciò avviene, secondo Rubin, anche in forme più complesse di società mercantile, come il
capitalismo: i rapporti di produzione tra strumenti di lavoro (divenuti capitale) e lavoro umano(che ha assunto la forma di merce) si presentano con la veste reicata dello scambio di merci:salario contro forza-lavoro da alienata al capitale.
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1. LA PREMESSA SOCIOLOGICA DEL MARXISMO 15
“I lavori privati si effettuano di fatto come articolazioni del lavoro com-plessivo sociale mediante le relazioni sociali nelle quali lo scambio ponei prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti stessi, i produttori. Quindi
a questi ultimi le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono comequel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra per-sone nei loro stessi lavori, ma anzi, come rapporti di cose fra persone erapporti sociali fra cose .”(ibidem).
Sulla base di ciò Rubin spiega come Marx abbia dimostrato non solo e non
tanto che i rapporti di produzione mercantili appaiono sotto la forma di rapporti
tra cose, ma che in ogni società basata sui presupposti di quella mercantile (pro-
duzione sociale – appropriazione privata) questi rapporti hanno la necessità di
apparire in tale forma. È solo nell’atto dello scambio che i produttori possonoentrare in contatto tra loro nel processo sociale di produzione (di cui non hanno
conoscenza e non gli importa di averla), anche se lo fanno attraverso il “feticcio”
del valore della merci.
Ed è certamente difficile – se non impossibile – trovare o anche solo imma-
ginare un elemento o caratteristica materiale comune tra oggetti che sono valori
d’uso completamente differenti⁷. Eppure sul mercato merci molto differenti per
caratteristiche siche e per utilità materiali sono continuamente equiparate tra
di loro e, nello stadio della società dello scambio generalizzato e della divisione
del lavoro, per mezzo dello scambio tali merci vengono tutte equiparate alla mer-
ce equivalente universale: a una somma di denaro che affianca e si attacca alle
proprietà sico–naturali dei prodotti divenuti merci come espressione di valore
(ivi , 102). Secondo Rubin è questo l’unico modo in cui la società mercantile può
mettere in contatto i produttori autonomi e regolare la distribuzione del lavoro so-ciale complessivo, poiché solo nello scambio e attraverso il feticcio del valore di
scambio i produttori sono spinti a modicare o cambiare la loro produzione:
“Solo all’interno della scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevo-no un’oggettività di valore socialmente uguale , separatamente dalla lorooggettività d’uso, materialmente differente ” (ivi , 105).
I molteplici lavori privati non possono presentarsi e relazionarsi l’uno all’altro
se non sotto forma reicata , oggettivata in merce . Ma la relazione tra merci non può
⁷“Finora nessun chimico ha ancora scoperto valore di scambio in perle o diamante.” (ivi ,115).
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16 2. LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE–LAVORO
avvenire che per mezzo del valore, che dunque funge da “cinghia di trasmissione”
fondamentale della produzione atomistica mercantile (Rubin 1976, 66).
2. La forma mercantile che assume il lavoro
Secondo Rubin, ovunque esista una società di uomini che mettono in atto
tra loro una divisione del lavoro complessivo (qualsiasi sia la società e qualsiasi
sia il modo con cui si dividono il lavoro), essa deve porsi il problema del criterio
con cui stabilire l’equivalenza sociale dei vari lavori, parti del lavoro complessivo.
Senza questa operazione di equivalenza non può esistere divisione del lavoro, ma
solo caos e mancanza di integrazione dei compiti individuali.
All’interno di una fabbrica questa attività la compie in modo pianicato e
immediatamente esecutivo la direzione: essa analizza i bisogni del processo pro-
duttivo, stabilisce l’equivalenza tra i vari lavori e l’assegnazione nei reparti. Rubin
nota che diversamente accade nelle società mercantili, dove nessuno analizza diret-
tamente i bisogni sociali, nessuno stabilisce direttamente l’equivalenza dei lavori
singoli, nessuno dice ai produttori privati quanto e che cosa produrre. Comeabbiamo già visto, tutto questo però avviene, anche se post–festum: ovvero nel-
lo scambio, spontaneamente . È solo nello scambio che si afferma l’equiparazione
dei lavori, attraverso l’equiparazione delle merci: scambiabilità del prodotto con
denaro (cioè con il prodotto di qualsiasi altro lavoro) e dunque affermazione del
lavoro individuale come lavoro sociale; uguaglianza sociale dei lavori in base al de-
naro ricavato⁸; equivalenza delle merci dello stesso lavoro (prezzo unico per tipo
di merce).
Rubin ritiene quindi che a causa del feticismo della merce il lavoro assuma
storicamente trasformazioni analoghe a quelle della merce: i lavori privati si af-
fermano come lavoro sociale (sono parte del lavoro complessivo); lavori concreti
qualitativamente differenti per qualicazione e tecnica produttiva vengono quan-
titativamente uguagliati socialmente ⁹ come fossero lavoro in genere, lavoro astratto
⁸È sempre qui supposto da Rubin un periodo sufficientemente lungo da livellare le differenzeindividuali e i temporanei squilibri da eccesso/carenza di una determinata merce.
⁹La quantità di denaro rappresenta proprio la quantità di “lavoro generale”.
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2. LA FORMA MERCANTILE CHE ASSUME IL LAVORO 17
che si differenzia solo per quantità; superamento delle diversità individuali in una
determinata attività (lavoro socialmente necessario). Sono queste tutte denizioni
di lavoro che crea valore, perché solo in queste condizioni, nella società mercanti-
le, il lavoro privato è riconosciuto come sociale e genera un guadagno (in questo
caso di denaro) (ivi , 102–103). Il lavoratore all’interno di una fabbrica non rice-
ve un reddito perché il prodotto del suo lavoro si è rivelato ex–post scambiabile
con altri e quindi con denaro, ma perché egli esegue le direttive del piano della
direzione; a queste condizioni, per la società–comunità, il suo lavoro è immediata-
mente sociale ¹⁰ e percepirà un reddito¹¹. Il produttore mercantile può al massimo
tentare di prevedere se e quanto il suo lavoro sarà considerato socialmente equiva-
lente a quello degli altri. Non è immediatamente sociale, non gli basta “produrre”
concretamente: tale produzione deve poi equipararsi con una certa somma di de-
naro e solo alla ne il suo guadagno sistematicamente doppio rispetto, tanto per
fare un esempio, a quello di uno spazzino, può dirgli che il suo lavoro concreto è
socialmente equiparato al doppio rispetto a quello dell’operatore ecologico.
Rubin ritiene totalmente travisante del marxismo la concezione siologica dellavoro che crea valore, confondendola con quella “genuina” di lavoro astratto.
Essa vede nel lavoro tecnicamente e concretamente inteso (lavoro come fattore
di produzione ) non già un presupposto necessario del lavoro astratto¹² e di ogni
forma sociale in genere¹³.
¹⁰Prescindiamo in questo capitolo dal capitalismo, dunque dal fatto che il lavoro operaio nel
capitalismo si tramuta non in semplice lavoro sociale, ma in lavoro salariato; lavoro assolutamentemercantile che non solo crea valore, ma dal punto di vista marxista anche plusvalore.¹¹I criteri e le dinamiche con cui nasce e si ditermina questo reddito non sono ovviamente
qui affrontate.¹²È parere di chi scrive che un lavoro incapace di produrre alcun valore d’uso non è certamen-
te in grado di produrre valori d’uso per altri, merci. D’altra parte l’utilità materiale del lavoro èpresupposto di ogni lavoro, non solo di quello mercantile: il padre che costruisce in garage la bici-cletta per la glia svolge un lavoro certamente utile, probabilmente anche siologicamente ugualea quello di un produttore di biciclette, ma non per questo egli stesso produce valore regalandola alla pargoletta.
¹³Rubin ritiene (ivi , 110) che anche la concezione che vede un denominatore comune -siologico nei vari lavori è un presupposto dell’economia: se non fosse possibile per gli uominiintraprendere vari tipi di lavoro a causa di vincoli biologici, non vi sarebbe alcuna divisione socia-
le del lavoro, ma al massimo una società simile a quella delle api e delle formiche, dove la divisionedel lavoro complessivo non è sociale, ma naturale. E non muterà ntanto che non sarà la speciestessa a mutare.
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18 2. LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE–LAVORO
2.1. Il lavoro “astratto”. Secondo Rubin la teoria marxiana del lavoro astrat-
to parla dell’equivalenza sociale dei lavori per mezzo del valore delle merci, che è
tipica ed esclusiva dell’economia mercantile. Il lavoro astratto è un sottotipo di
lavoro socialmente equivalente: è quello reicato in merci e poi in denaro, che fa
astrazione di ogni caratteristica tecnico–concreta dei lavori, ma li eguaglia ad una
uguale somma di merce equivalente generale, il denaro, che rappresenta astrazio-
ne concreta di tutti i lavori (ivi , 112 e 123). Due lavori agli antipodi tra loro
concretamente, ma socialmente equiparati alla stessa quantità di denaro, sono
uguale quantità di lavoro astratto, di lavoro che crea quel valore attaccatogli. In
un’economia pianicata, invece, non c’è alcun bisogno che i lavori individuali
si traducano in “lavoro astrattamente generale”, poiché non entrano in contatto
tra loro se non per le esigenze tecnico–materiali del usso produttivo; essi sono
subordinati al piano, che stabilisce direttamente l’equivalenza funzionale degli
stessi.
Rubin fa notare che anche se l’equivalenza sociale dei lavori come lavoro astrat-
to si stabilisce mediante lo scambio, alcune proprietà che caratterizzano il lavoroconcreto hanno un’inuenza causale sulla determinazione quantitativa del lavoro
astratto, prima e indipendentemente dall’atto di scambio (ivi , 124); è dunque in
questo senso che dev’essere letta l’affermazione che il valore viene creato nella sfe-
ra della produzione e non dall’anarchia dello scambio. Un lavoratore che produce
con una produttività straordinaria (perché è più abile della media, perché è più
intelligente e sfrutta meglio i mezzi di produzione, ecc.) ritroverà il suo lavoro
concreto equiparato a una quantità di valore maggiore della media, come se aves-
se lavorato astrattamente 16 ore invece che 8, poniamo. Ma Marx (1964, 76)
precisa che tale livello medio è dato per una determinata società in un determi-
nato periodo; non appena il suo lavoro straordinario ritorna ad essere ordinario
rispetto agli altri lavoratori del suo settore, il suo lavoro di 8 ore verrebbe di nuovo
equiparato a 8 ore.
2.2. Il lavoro “socialmente necessario”. Rubin afferma quindi che sulla ba-
se dell’equiparazione di valore delle merci di uno stesso tipo, anche i relativi lavori
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2. LA FORMA MERCANTILE CHE ASSUME IL LAVORO 19
per la produzione di tali merci sono livellati ed equiparati ad una uguale quan-
tità di valore. Così le differenze di lavoro concreto individuali si trasformano
in uguale lavoro astratto, valore attribuito a quella merce. Tale valore è quello
che serve a impiegare il lavoro socialmente ritenuto necessario per la produzione
di quella merce particolare; così il valore di una merce non è tanto determinato
dalle condizioni di produzione più sfavorevoli, ma piuttosto dalle condizioni più
diffuse , quelle che apportano la maggior massa di merci. È dunque evidente che le
imprese a maggiore produttività rispetto alla media producano merci dal “valore
teorico” individuale più basso rispetto a quello di mercato, realizzando un extra–
protto; il contrario vale per quelle più improduttive. I lavori privati tendono
così a livellarsi anche a livello tecnico–produttivo – oltre che sociale – attraverso
l’equiparazione dei differenti lavori individuali con una quantità unica di lavoro
astratto.
2.3. Il lavoro “qualicato”. Rubin prosegue notando che, se il modo di pro-
duzione mercantile equipara quantitativamente lavori individuali differenti quan-
to a intensità, abilità, produttività, ecc., anche i lavori di differenti qualiche ven-
gono comparati e valutati tra loro. L’equiparazione dei lavori mediante quella
delle merci non può che trasformare in quantitativa soltanto l’equiparazione dei
lavori concreti qualitativamente differenti. Certamente un sarto che lavora molto
intensamente produce più abiti del suo collega di quartiere, acco e sonnolen-
te, rappresentante la media dei sarti della zona; questa equiparazione tra lavori
differenti in intensità è la teoria del lavoro socialmente necessario che premia la maggiore produttività attraverso l’attribuzione di un valore unico di mercato alle
merci dello stesso tipo che rispecchia le condizioni di produzione dominanti. Ma
anche lavori totalmente diversi tra loro vengono equiparati sul mercato, ricevendo
le loro merci un’attribuzione di valore, mentre i lavori ricevono la forma di lavoro
astratto solo quantitativamente differente tra loro. Tutti i lavori, infatti, presenta-
no diversi gradi di specializzazione, esperienza, qualicazioni; senza contare che
molti mestieri richiedono n da subito competenze speciche, che non possono
essere improvvisate o acquisite in tempi non considerevoli o che non possono
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20 2. LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE–LAVORO
essere acquisite affatto da tutti¹⁴. Il mercato valuta questi lavori in misura mag-
giore rispetto a quelli che non richiedono particolari specializzazioni o abilità, ma
non sulla base smithiana del maggior valore della forza–lavoro (ivi , 131), bensì
sulla base della necessità che la società ha di questi lavori e, di conseguenza, della
convenienza economica che anima i soggetti economici nella società di mercato:
“il valoredel prodotto del lavoro qualicato deve superare quellodel pro-dotto del lavoro meno qualicato di un ammontare sufficiente a com-pensare le differenti condizioni di produttività e a stabilire un equilibriotra i due. […] Il problema del lavoro qualicato si riduce all’analisi dellecondizioni di equilibrio tra forme diverse di lavoro diversamente qualica-te .” (ibidem).
Secondo Rubin l’economia mercantile si regola proprio sulla base del meccanismo
del vantaggio relativo rispetto agli altri lavori (ivi , 130): un produttore si specializ-
za, si qualica e affina le sue abilità rispetto al livello base della società¹⁵ se e solo se
il suo lavoro specializzato sarà posto socialmente come superiore al lavoro generi-
co, cioè solo se verrà posto equivalente ad una quantità maggiore di lavoro astratto,
il che signica che il lavoro qualicato è lavoro semplice moltiplicato. E ciò si veri-
ca se e solo se le merci che produce vengono valutate sul mercato un certo numerodi volte maggiore rispetto a quelle delle professioni più generiche. Il produttore
mercantile, infatti, non produce direttamente per i bisogni della società, ma per il
valore che spera di ricavare in cambio del suo lavoro; l’equiparazione tra lavori di
differente specializzazione è un fattore costante in una società basata sulla divisio-
ne del lavoro¹⁶, ma solo nella società mercantile questo fatto assume la forma di
¹⁴Ad esempio tutte quelle che richiedono studi e formazione particolari, iscrizione agli albi,particolari caratteristiche sico-attitudinali, ecc.
¹⁵“Tale livello cambia nei differenti luoghi ed epoche storiche, ma per una società in un certomomento, esso è dato.” (Marx 1964, 76). In altri termini, tanto per fare un esempio, potremmodire che nell’arretrata Russia del XIX secolo, il lavoro semplice di un qualsiasi operaio della indu-strializzata Inghilterra poteva essere considerato come lavoro qualicato, sulla base della differenza tra saper manovrare solo una zappa e saper far andare anche una macchina industriale a vapore.Ma all’interno della realtà inglese, anche un operaio altamente qualicato in Russia probabilmentealtro non era che fornitore di lavoro generico, semplice, non particolarmente qualicato rispettoa chiunque altro.
¹⁶È, a mio avviso, evidente che persino all’interno della quotidiana divisione dei compi-ti familiari tale differenza di esperienza e qualicazione viene tenuta in forte considerazionenell’equiparazione sociale dei compiti; così si premiano con rumorose effusioni e slanci d’orgoglio
i 10 minuti spesi dal bambino che per la prima volta ordinatamente aiuta i genitori a sparecchiarela tavola, mentre le ore passate dalla mamma a cucinare, lavare, stirare, pulire, ascoltare e, come senon bastasse, lavorare, vengono spesso equiparate con un semplice “che c’è da mangiare stasera?”.
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3. LA “LEGGE DEL VALORE” 21
lavoro qualicato come maggior lavoro astratto rispetto a quello semplice, distin-
to da esso solo per la maggiore quantità, cioè per il fatto di essere valutato come
una somma di denaro x volte superiore. Così l’equiparazione sociale tra i lavori di
bracciante agricolo e avvocato non si esprime nei soldi qualitativamente diversi che
il secondo guadagna rispetto al primo, bensì con i soldi quantitativamente mag-
giori che il principe del foro si intasca rispetto ai pochi spiccioli dei dannati della
terra. Se la teoria del lavoro socialmente necessario mira oltretutto a spiegare la
spinta al progresso tecnico nella società mercantile attraverso l’equiparazione dei
differenti lavori individuali nello stesso settore, la teoria del lavoro semplice intende
certamente spiegare anche la tendenza all’accrescimento del livello produttivo del
lavoro sociale attraverso l’equiparazione sociale dei differenti rami della produzione ,
spingendo i produttori a qualicarsi per poter investire il proprio lavoro in quei
rami produttivi maggiormente valutati. Nel tempo si tende a un certo equilibrio,
nuovamente rotto da nuovi lavori ancora più qualicati¹⁷.
Abbiamo n qui visto l’interpretazione di Rubin della forma che assume il
lavoro nella società mercantile, dunque in quale veste esclusiva esso crea valore edè sostanza di valore: quando da concreto diviene astratto, quando da individuale
diviene socialmente necessario, quando da diversamente qualicato diviene multi-
plo di lavoro semplice . Ora possiamo esaminare la “legge del valore”, che Rubin
denisce “la legge dell’equilibrio dell’economia mercantile ” (Rubin 1976, 54).
3. La “legge del valore”
Come appena accennato, la legge del valore è per Rubin il meccanismo che
l’economia mercantile si dà per regolare il lavoro sociale e integrare in esso i lavo-
ri dei produttori privati autonomi e indipendenti, liberi organizzatori della loro
attività economica e decisori d’ultima istanza per loro stessi su dove impiegare il
proprio lavoro, e perciò, fondamentalmente proprietari dei mezzi di produzione
che utilizzano (o comunque non asserviti a essi). In questo modello economico
¹⁷Come del resto l’equilibrio all’interno di un settore produttivo (cioè l’identità tra valoreteorico individuale e valore di mercato) viene continuamente spezzato dall’emergere di nuoveimprese ancora più produttive.
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22 2. LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE–LAVORO
teorico il “capitalista” non esiste ancora¹⁸ e verrà introdotto nel prossimo dedi-
cato all’analisi del prezzo di produzione come legge dell’equilibrio dell’economia ca-
pitalistica (ivi , 200–203); ci occupiamo quindi solo di un aspetto della società
capitalistica, quello dello scambio di merci tra semplici produttori.
I produttori non hanno altro modo di conoscere la distribuzione sociale del
lavoro se non attraverso il sistema dei prezzi che ricavano sul mercato dalla do-
manda in rapporto all’offerta. Nessun produttore può inuenzare la produzione
sociale se non con la sua capacità di offrire una diversa quantità di merci, modi-
candone quindi i prezzi di mercato variando il rapporto tra offerta e domanda
sociale: in caso di differenza di guadagni a parità di lavoro investito si veriche-
rà in un periodo sufficientemente lungo una redistribuzione sociale del lavoro da
quelli meno remunerativi a quelli più remunerativi, no a che una stessa quanti-
tà di lavoro socialmente equivalente ¹⁹ impiegata anche in rami differenti fornisca
a ciascun produttore uguali vantaggi, cioè la stessa quantità di valore , di denaro.
I lavori spesi per merci diverse dal valore uguale sono concretamente diversi , ma
socialmente eguali .La situazione ipotetica di equilibrio generale è il risultato della vendita dei pro-
dotti ai loro valori . Tutti i produttori hanno cercato di impiegare il loro lavoro in
quelle attività più remunerative, compatibilmente con la loro qualicazione; la
società ha ridistribuito le forze produttive, cessa ogni movimento. In questo stato
di cose i prezzi delle merci dei vari lavori corrispondono all’effettiva equiparazio-
ne che la società ha fatto di tali lavori: in quel dato momento, cioè con quel dato
livello di forze produttive, la vendita ai valori esprime effettivamente la distribu-
zione del lavoro coerente con il livello delle forze produttive sociali impiegate per
la produzione di ciò che la società – pagante – ritiene utile.
Tale situazione in cui tutti i lavori possono dirsi “socialmente eguali” è quella
¹⁸Tantomeno esistono le ulteriori specie di capitalisti, oggetto dell’analisi di Marx nel IIILibro del Capitale : imprenditori, capitalisti commerciali, banchieri, ecc.
¹⁹Rubin è molto rigoroso a non considerare come sinonimi il lavoro “socialmente equiva-lente” con quello “astratto”, cioè lavoro socialmente equivalente reicato in merci e tipico della
società mercantile. Tuttavia, siccome la nostra analisi è sempre riferita nel contesto della socie-tà mercantile, in questa sede utilizzeremo questi termini come equivalenti, se non diversamentespecicato, poiché ritengo il primo maggiormente immediato e chiaro.
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3. LA “LEGGE DEL VALORE” 23
di equilibrio generale : i prezzi delle merci non sono spuri a causa di momentanei
squilibri di domanda e offerta, ma corrispondono ai loro valori , la situazione
teorica in cui ogni trasferimento di lavoro da un ramo all’altro è cessato perché
nessun trasferimento ulteriore provocherebbe maggiori guadagni.
Numerose sono state le critiche mossecontro la teoria del valore–lavoro, obiet-
tanti che nella realtà i prezzi non sono praticamente mai uguali ai valori, che uguali
quantità di lavoro non sempre portano gli stessi guadagni. Tale divergenza costan-
te dei prezzi delle merci dai loro “prezzi d’equilibrio” – i valori – non sarebbe però
affatto un difetto della teoria del valore, ma anzi una sua conferma: è solo grazie
a questa divergenza dal prezzo d’equilibrio che la società può modicare al sua
produzione trasferendo lavoro da un settore all’altro, aumentando la tecnologia e
la produttività all’interno dei rami di produzione, innalzando le sua potenzialità
e qualiche (Rubin 1976, 64). Se le merci si scambiassero sempre a prezzi corri-
spondenti ai valori, la produzione mercantile non sarebbe in grado di rispondere
alle mutate esigenze della società nel tempo; nella produzione mercantile, che è
produzione cieca e anarchica, ogni legge regolatrice non può che essere legge di natura (Marx 1964, 107) al di fuori della coscienza degli uomini. Tale prezzo
d’equilibrio funge quindi da centro di gravità dei prezzi di mercato, quotidiana-
mente oscillanti e diversi dal prezzo medio ma sempre tendenti ad esso, come in
forza di una qualche legge .
A parere di chi scrive, la “scoperta” di questo prezzo d’equilibrio n qui espo-
sta non lascia spazio a particolari dubbi o difficoltà di comprensione: con le pre-
messe sociologiche fatte in precedenza, che nel modello di società capitalistica
ultra–semplicata di cui stiamo trattando²⁰ lo spostamento d’investimento del
proprio lavoro cessi non appena ogni lavoro dia gli stessi beneci, non è certo un
risultato che stupisce e potremmo considerarlo quasi un corollario delle premesse
sociologiche della società di mercato nora poste. Che le forze produttive di ogni
società mercantile (compreso il capitalismo) si distribuiscano sulla base del valore
di scambio delle loro merci, che deve gravitare attorno ad un prezzo d’equilibrio
²⁰E del quale trattano il Rubin dei capitoli no al diciottesimo, nonché il Marx della prima sezione del primo libro del Capitale .
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24 2. LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE–LAVORO
poiché ciò è l’unico meccanismo ordinatore, è cosa accettata persino dalla scuola
austriaca che non ha alcuna difficoltà ad ammettere e a sbandierare come i prezzi
delle merci gravitino effettivamente attorno al un prezzo quantomeno assimilabile
al “prezzo di produzione” (Böhm–Bawerk et al. 1971, 61).
Quello che interessa a noi, all’analisi marxiana e soprattutto a quella di Rubin,
è scoprire qual è la forza sociale che spinge i prezzi a uniformarsi al prezzo d’equilibrio;
la scoperta di tale legge è la scoperta del meccanismo fondamentale della società
mercantile. Il non aver proseguito adeguatamente questo aspetto è, per Rubin
e Marx, il grande limite dell’economia politica classica, che non si è “mai posto
neppure il problema del perché quel contenuto [il lavoro] assuma quella forma,
[…] del perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore ” (Rubin 1976, 91; Marx
1964, 112), il valore , e a sua volta collegarlo alla sua sostanza: il lavoro socialmen-
te necessario, che è una determinata quantità di lavoro astratto. Ma anch’esso,
fenomeno puramente sociale in quanto equiparazione sociale di lavori per mezzo
di merci, è causalmente determinato da quei fattori tecnico–concreti del lavoro²¹
(dato “il duplice carattere del lavoro, concreto e astratto”²²), dalla produttività del lavoro.
Per Rubin l’aumento della produttività media è un fattore tecnico–materiale
che incrementa la produzione materiale non variando il tempo di lavoro speso,
cioè esprimendosi in una diminuzione della quantità di lavoro concreto speso in
media nella produzione per unità di merce. Tale diminuzione inuisce in manie-
ra determinante su quanto il nuovo lavoro sia equiparato sul mercato e su come
sia raggiunto il nuovo equilibrio, poiché il lavoro nelle nuove condizioni di pro-
duttività aumentata intende presentarsi dapprima sul mercato come “lavoro che
²¹Per “lavoro” qui si intende sempre l’attività lavorativa umana nel suo complesso, l’attività economica, e non il “lavoro” come fattore di produzione, lavoro materialmente umano. Sonolavoro quelle attività con cui l’uomo è artece della produzione materiale, anche in forma socia-le diretta o indiretta; d’altra parte dopo aver specicato dell’estraneità della teoria del valore da qualsiasi concezione che vede il valore delle merci come un fenomeno materiale che abbia originisiologico-materiali, è conseguente il rigetto totale anche di quelle teorie che vedono il valorecome una creazione di tutti i fattori di produzione (lavoro e capitale). Trattando del capitalismoinvece parleremo del lavoro inteso come lavoro materialmente umano in forma “uida”, poten-
ziale, come fattore di produzione, usando il termine adoperato continuamente da Marx: lavorovivo, contrapposto al capitale, lavoro morto, lavoro passato reicato in merce (anzi, capitale).
²²Rubin 1976, 56.
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3. LA “LEGGE DEL VALORE” 25
vale di più”, dal momento che con meno tempo produce quanto gli altri in più
tempo; così, per fare un’ipotesi, se prima i tessitori vendevano 10 metri10 metri
di stoffa a 1 sterlina l’uno impiegando una giornata (es. 10 ore) e ottenendo quin-
di un ricavo di 1 sterlina all’ora come tutti gli altri, ora in una giornata possono
produrre 20 metri e aspettarsi un ricavo di 20 sterline, sfregandosi le mani nel
pensiero di essere remunerati il doppio dei loro amici fabbri e di tutti gli altri.
Che vada in questo modo (espansione della produzione tessile) o in quell’altro
(cioè un mercato che non assorbe una produzione così elevata allo stesso prezzo
di 1 sterlina a metro), l’effettiva equiparazione sociale dei lavori che si compie nel-
la compravendita eguaglia i lavori che costituiscono parte del lavoro complessivo
con certe quantità di lavoro astratto, lavoro socialmente equivalente (ma reicato
in merci in funzione dell’equiparazione stessa). I maggiori guadagni rispetto alle
ore di lavoro investite è il segnale che attira a lavorare nella tessitura (e nelle nuove
condizioni) una parte di coloro che lavoravano in altri settori meno remunerativi
e che possono entrarvi²³, continuando a espandere la produzione ntanto che il
prezzo non si sarà livellato a un punto dove cessa il movimento di lavoro, la sua redistribuzione sociale. In tal punto cessa la nuova equiparazione sociale dei lavo-
ri e l’attribuzione della qualità e quantità astratta ai lavori concreti, ssandosi sul
mercato l’espressione della quantità di lavoro astratto, il valore: uguali quantità di
lavoro astratto creano uguali quantità di valore . In altre parole, potremmo dire con
un esempio che: supposta [dal mercato come risultante dell’equiparazione di mer-
ci e del conseguente processo di redistribuzione sociale del lavoro fondato sulle
forze produttive esistenti in quel momento nella società] l’equivalenza sociale di 8
ore da avvocato con 16 ore da bracciante agricolo, dunque che per la società 8 ore
da avvocato e 16 ore da bracciante sono la stessa quantità di lavoro astratto, la stes-
sa parte aliquota del lavoro sociale complessivo, allora tali lavori creano [reicandosi
in merci, dunque prodotti vendibili sul mercato] nello stesso tempo la medesima
quantità di valore .
²³Cioè possiedono le necessarie qualiche, capacità, esperienza, specializzazione, ecc. Siprescinde per ora dalla questione degli strumenti di lavoro e dell’organizzazione.
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26 2. LA TEORIA MARXIANA DEL VALORE–LAVORO
Secondo Rubin i prezzi di mercato delle merci – e ancor più quelli indivi-
duali dei singoli prodotti – non sono quindi sempre corrispondenti ai valori, ma
da essi vengono determinati. I prezzi coinciderebbero con i valori solo nel caso
puramente accidentale di un equilibrio generale: laddove ciò avvenisse, infatti, i
prezzi fornirebbero uguale valore per uguale quantità di lavoro astratto, uguale
quantità denaro per lavori considerati socialmente uguali, dove tale uguaglianza
sociale si afferma nel fatto che è cessato ogni trasferimento di lavoro da un setto-
re all’altro. Ma ciò è un caso estremamente raro poiché nelle società mercantili
i produttori sono autonomi nell’organizzazione della loro attività economica, ri-
voluzionando continuamente i loro processi produttivi e prodotti, creano nuovi
mercati, stabilendo di continuo nuovi standard, nuovi tempi di lavoro socialmente
necessari .
Rubin afferma che la redistribuzione sociale del lavoro è il movimento con
cui qualsiasi società basata sulla divisione del lavoro adegua il sistema produttivo
alle mutate esigenze; all’interno di una società-azienda si registrano cambiamenti
di produttività e conseguentemente di obiettivi, modicando la produzione perobbedire a nient’altro che alla “legge dell’efficacia e dell’efficienza”²⁴, cioè cercan-
do di fare in modo che la produzione giunga a risultato e che lo faccia nel modo
meno dissipativo possibile. Nella società mercantile semplice, invece, i lavori
vengono trasferiti da una parte all’altra in obbedienza cieca²⁵ alla legge del valore :
cambiamenti di produttività modicano le quantità di lavoro astratto delle merci,
che si rispecchiano in un diverso valore che, inne, determina la distribuzione del
lavoro sociale (Rubin 1976, 54). Nel precedente esempio, nessuno avrebbe avuto
il potere – a suon di decreti, di prediche o di maledizioni – né di avviare né di
far cessare l’afflusso di lavoro nel settore tessile, se non la legge del valore: a causa
dell’aumento della produttività del settore, il valore di queste merci è inferiore a
²⁴Che Marx chiama anche “legge tecnica dello stesso processo di produzione” (1964, 388),pur riferendosi in questo caso al tempo di lavoro socialmente necessario come forza esterna checondiziona i produttori. Viene sottolineata anche in questo caso la differenza tra lavoro immedia-tamente sociale (soggetto soltanto all’efficacia ed efficienza produttiva rispetto agli obiettivi) e il
lavoro sociale mediato dalle merci (soggetto soltanto al valore di esse).²⁵Poiché la legge del valore si presenta ai produttore come “legge di natura” (Marx 1964,
107), legge della distribuzione del lavoro complessivo nella società mercantile.
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3. LA “LEGGE DEL VALORE” 27
quello precedente perché per la loro produzione si sta spendendo già quel nuovo
tempo di lavoro lavorativo sociale che la società effettivamente può spendere per
quella merce (ivi , 65)²⁶, che è inferiore rispetto al precedente. Di conseguenza i
prezzi debbono crollare, adeguandosi al nuovo valore.
La legge del valore è dunque la legge dell’equilibrio dell’economia mercantile ,
forza che inuenza e determina i prezzi di mercato e attraverso essi il lavoro sociale:
“Leuttuazioni dei prezzi di mercato sono in realtà il barometro, l’indicedel processo di distribuzione del lavoro sociale che si svolge in profondi-tà della vita economica. Ma è un barometro alquanto insolito, che non
si limita ad indicare il tempo, ma lo modica. Le diverse fasi del tem-po atmosferico variano anche senza le indicazioni del barometro. Ma le fasi della distribuzione sociale del lavoro si succedono solo entro leuttuazioni dei prezzi e sotto la loro pressione.” (ibidem).
e ancora:
“Se il movimento dei prezzi di mercato collega due fasi della distribuzio-ne sociale del lavoro, possiamo porre unastretta correlazione tra l’attività degli agenti economici e il valore. La spiegazione di tale correlazioneandrà ricercata all’interno del processo sociale di produzione, non in fe-nomeni esterni […] che non siano collegati da un rapporto funzionale
permanente. Per esempio, non cercheremo la spiegazione nelle valu-tazioni soggettive individuali […] considerate astrattamente rispetto alprocesso produttivo.” (ibidem).
²⁶Marx scrive: “la legge del valore delle merci determina quanto la società può spendere,nella produzione di ogni particolare genere di merci, della somma di tempo lavorativo che ha disponibile.” (Marx 1964, 399).
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CAPITOLO 3
La teoria del prezzo di produzione
La teoria del prezzo di produzione è sorta dal tentativo di Marx di chiarire, nel
III libro del Capitale , i rapporti tra capitalisti nora trascurati in un modello di
società mercantile semplice, dove tale gura non esisteva. Il modello capitalistico
che prenderemo in esame è comunque ancora un modello semplicato della real-tà, visto che considereremo esclusivamente i rapporti tra capitalisti–capitalisti e
capitalisti–operai come se fossero le uniche due classi presenti nella società e perlo-
più senza distinguere sottoclassi al loro interno. L’intenzione di Rubin è dimostra-
re che, come la legge del valore è la legge regolatrice fondamentale dell’economia
mercantile sulla base dell’uguale vantaggio nell’investimento di lavoro, il prezzo
di produzione è la legge regolatrice del capitalismo sulla base dell’uguale saggio di
protto, cioè dell’uguale vantaggio nell’investimento di capitale ¹.
1. Distribuzione del lavoro e distribuzione del capitale
Nel capitalismo i soggetti economici organizzatori della produzione non sono
più semplici produttori di merci, ma capitalisti : proprietari dei mezzi di produzio-
ne separati dalla forza–lavoro, divenuta merce e fattore di produzione al pari della
macchina. Essi investono i loro capitali nei settori che paiono garantire maggiori
protti, facendovi così affluire le forze produttive della società, in particolare lavo-
ro vivo; questa è la prima fondamentale conclusione dell’interpretazione di Rubin
della teoria del prezzo di produzione: nel capitalismo la distribuzione del lavoro è
regolata da quella del capitale , dunque le leggi di distribuzione del capitale sono
¹A differenza del capitolo precedente dove ritenevano necessarie certe premesse di ordine
sociologico, tralasceremo qui di effettuare un’analisi del capitale, della sua nascita, delle sue leggidi accumulazione, della teoria del plusvalore, mercicazione della lavoro umano, ecc. in quantoesulano completamente dagli scopi di questa tesi e le riteniamo – almeno in parte – assodate.
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30 3. LA TEORIA DEL PREZZO DI PRODUZIONE
imprescindibili nell’analisi se si vuole poi comprendere la distribuzione del lavoro
nel capitalismo (Rubin 1976, 180).
Per l’artigiano semplice produttore di merci il valore delle stesse si presentava
nella formula M = c + (v + pv), cioè si sottrae dal ricavo lordo solo c (logorio
degli strumenti di lavoro), rappresentando v il suo sostentamento e pv il resto
(eventualmente per l’espansione della produzione). Per il capitalista lo stesso va-
lore è M = (c + v) + pv; c e v per lui non sono altro che costi (di produzione)²,
mentre il rimanente, pv , rappresenta il suo reddito come capitalista. Ne conse-
gue che i costi di produzione sono per il capitalista “una scommessa” che deve
essere rapportata ai beneci economici che la produzione gli procura, per calco-
larne la convenienza e l’opportunità: se tale calcolo risulta generalmente essere
un rapporto tra beneci e rischi (o spese), in termini di capitale si presenta come
p′ = pvc+v
= pvk , dove k sono i costi di produzione e p′ è il saggio del protto. Se il
capitalista regola il suo comportamento (cioè le sue scelte di investimento) sulla
base di p′, allora il saggio del protto è il regolatore della distribuzione del capitale
(ivi , 181).Rubin spiega che, non essendo cambiate le ipotesi di perfetta concorrenza e
libertà di investimento, ogni capitalista cercherà di investire il suo capitale C =
c + v laddove può garantirgli un protto almeno pari a p′, al saggio medio (o
generale) del protto, che è a sua volta quel saggio di protto risultante dalla ten-
denza al livellamento dei diversi saggi di protto nelle sfere di produzione, tale da
far procurare lo stesso protto a capitali di valore uguale investiti anche in settori
diversi . I capitali dunque ottengono un protto proporzionale alle loro dimensioni ,
a prescindere dalle quantità di lavoro astratto che mettono in moto; riportando
l’esempio precedente tra spazzino e avvocato, supponendoli ora entrambi lavo-
ratori salariati presso capitalisti, i loro lavori potranno invece questa volta essere
considerati dalla società reciprocamente uguali in tutto e per tutto (cioè stessa par-
te del lavoro sociale complessivo), ma solo a patto che i loro capitali ottengano la
stessa quantità di protto, proporzionalmente alle loro dimensioni.
²Ovviamente: c rimane lo stesso, v è la spesa per il sostentamento degli operai salariati cheassumiamo pari a quella del sostentamento dell’artigiano.
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2. IL PREZZO DI PRODUZIONE 31
2. Il prezzo di produzione
Nel capitalismo il prezzo della merce che garantisce un tale stato di cose è il
prezzo di produzione, denito come PP = k + kp′; capitali quantitativamen-
te uguali (k uguali) producono in equilibrio merci vendute allo stesso prezzo di
produzione . La distribuzione del capitale – che avviene sulla base del saggio del
protto – comporta anche una determinata distribuzione del lavoro; capitali di
eguale entità producono merci dell’eguale prezzo di produzione, anche se essi do-
vessero avere una composizione organica³ molto differente, cioè essere composti
da masse di lavoro “morto” e lavoro “vivo” che potrebbero essere non consideraticome socialmente equivalenti in un contesto mercantile semplice, privo del co-
mando del capitale sul lavoro e della sua espropriazione a quest’ultimo del potere
di organizzare l’attività economica.
Noi sappiamo che questa possibilità per le merci di essere vendute nel lungo
periodo a un prezzo non corrispondente al loro valore (bensì al prezzo di produzio-
ne)⁴ ha dato il via a una lunghissima serie di critiche a Marx, alle quali abbiamo
solo appena accennato nel primo capitolo. Per Rubin invece questa contraddi-
zione non esiste in Marx; viceversa, esisterebbe un ponte tra prezzo di produzione e
valore basato su quello tra distribuzione del capitale e distribuzione del lavoro (ivi ,
186). Rubin suppone una situazione d’equilibrio, due capitali di eguale grandez-
za (es. 100), la stessa capacità di “sfruttare” la manodopera (es. 100%: ogni ora
di lavoro richiede come salario soltanto la metà del valore aggiunto imputabile a
tale ora di lavoro nel processo produttivo), ma con diversa composizione organi-
ca: 4:1 contro 2,33:1 (cioè 80c + 20v contro 70c + 30v). L’ipotesi d’equilibrio ci
dice che i due capitali producono merce dal prezzo di produzione identico, cioè
³Che ricordiamo essere il rapportotra capitale speso in mezzi di produzione e capitale speso insalari, cioè c
v . La composizione organica, caratteristica del capitale, va distinta dalla composizione
tecnica o produttività del lavoro, che è cosa dell’attività produttiva in sé indipendente dal mododi produzione: MP
L , mezzi di produzione in rapporto al lavoro necessario per metterli in moto.
⁴Che in realtà non è una semplice possibilità, ma una vera e propria certezza, dal momentoche la totale identità tra prezzi di produzione e valori si ha solo con l’uguaglianza della com-posizione organica dei capitali. Data l’impossibilità di questa evenienza per via delle differenti
quantità di lavoro che richiedono materialmente le varie produzioni, si ha che generalmente iprezzi d’equilibrio delle merci nel capitalismo coincidono con i prezzi di produzione, e non coni valori.
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32 3. LA TEORIA DEL PREZZO DI PRODUZIONE
pari a 125 ciascuno con un protto di 25, pari al 25% del capitale; siccome en-
trambi i capitali ottengono il medesimo saggio del protto nell’investimento, si
ha una situazione d’equilibrio dove non si hanno più né migrazioni di capitali né,
soprattutto, ulteriore distribuzione sociale del lavoro. In altri termini: attraverso
l’equilibrio del capitale si verica l’equilibrio nella distribuzione sociale del lavoro
dove in un contesto mercantile semplice non si sarebbe vericata⁵. Dunque la
formula dell’equilibrio del lavoro si fa più complessa perché a sua volta dipende
da un altro equilibrio, quello dei capitali (ivi , 187): diverse quantità di lavoro cor-
rispondenti a capitali eguali sono poste socialmente equivalenti se e solo se sono
rappresentate dal medesimo prezzo di produzione.
Riportiamo la famosa tabella del III libro del Capitale , supposti 5 capitali
di uguali dimensioni che distribuiscono il lavoro sociale complessivo, sempre
supposto il saggio del pluslavoro del 100%:
Distribuzione deicapitali
Composizione or-ganica del capitale
Distribuzione dellavoro (valore dellemerci in Marx)
Prezzo di produzio-ne e differenza col
valore
I. 100 80c + 20v 120 122 (+2)
II. 100 70c + 30v 130 122 (–8)III. 100 60c + 40v 140 122 (–18)IV. 100 85c + 15v 115 122 (+7)V. 100 95c + 5v 105 122 (+17)
T . Distribuzione sociale del lavoro e prezzo di produzione; tabella rielaborata da Rubin (ivi, 192) basata su quella di Marx (1965, 197).
La terza colonna rappresenta la distribuzione sociale del lavoro, le quantità di la-
voro (astratto!) che i vari capitali mettono in moto e distribuiscono, derivate dalla
composizione organica. Il fatto che la seconda e la terza colonna siano espresse
in valori, unito alla “consapevolezza dell’errore” (Marx 1965, 206) che Marx stes-
so avrebbe sul fatto che anche i prezzi di costo dei capitali sono in realtà prezzi
di produzione e non valori, è visto da molti come la grande contraddizione della
teoria del prezzo di produzione e la “dimostrazione” che tra valore e prezzo di pro-
duzione non esiste alcun legame; le due teorie sono dunque alternative. A nostro
⁵Infatti avremmo che 125−8020
= 2, 25 per ogni v nel primo caso; 125−7030
= 1, 83 perogni v nel secondo caso, che non è affatto una situazione di equilibrio e comporterebbe una
redistribuzione sociale del lavoro. Qualora mantenessimo ssa l’ipotesi del 100% di pluslavoroavremmo 120−80
20 = 2 per ogni v nel primo caso; 130−70
30 = 2 per ogni v nel secondo caso, con
una situazione di perfetto equilibrio.
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2. IL PREZZO DI PRODUZIONE 33
avviso, riprendendo le pagine di Marx stesso, egli è solo consapevole del fatto che
il modo di esposizione del problema “a tabella” presenta anche lo svantaggio di
far pensare che in ogni sfera di produzione avvenga un reale passaggio tra valore e
prezzo di produzione: “un errore è sempre possibile quando, in una determinata
sfera di produzione , il prezzo di costo della merce viene identicato col valore dei
mezzi di produzione in essa consumati.” (ibidem). Tuttavia “se il plusvalore che
entra in una merce è eccessivo, quello che entra in un’altra è troppo piccolo” ( ivi ,
202); se in forza della legge dell’uguale rendimento per uguale capitale, una merce
in regime di equilibrio di capitali può essere valutata maggiormente sul mercato
rispetto al regime di equilibrio del lavoro astratto, ciò non toglie che la massa to-
tale del lavoro non pagato non può variare da come i capitalisti si distribuiscono
la ricchezza. Notare che anche i prezzi di costo sono espressi in prezzi di produ-
zione non signica altro, a nostro avviso, che la distribuzione del plusvalore in
base all’entità del capitale (e non al saggio di protto in termini di valore) avviene
continuamente, proprio perché il processo della trasformazione è un fatto stori-
co, non contabile ; pertanto avviene senza soluzione di continuità e temporalità,poiché tutti i prodotti sono espressi in prezzi di produzione da quando la classe
borghese domina l’economia. Siccome i capitali della società non acquistano con-
temporaneamente tutti i fattori di produzione in prezzi corrispondenti ai valori,
per poi rivendere i prodotti tutti contemporaneamente in prezzi di produzione, si
può ritenere che la rappresentazione matematica usata nelle tabelle di Marx non
sia né dirimente né indispensabile per la spiegazione, ma solo uno strumento co-
me un altro per aiutare a comprendere un aspetto del problema e sottolineare la
differenza con il precedente modello economico.
Rubin risponde ai critici che ritengono la colonna dei “valori” articiosa (per-
ché non rappresenta i prezzi delle merci di ciascuna sfera di produzione) che un
riuto del genere signica “respingere la stessa teoria economica, che ha per ogget-
to essenziale proprio la distribuzione sociale del lavoro” (Rubin 1976, 187–188),
collegando la distribuzione sociale del lavoro con la composizione organica dei
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34 3. LA TEORIA DEL PREZZO DI PRODUZIONE
capitali. Attraverso il prezzo di produzione si modica la distribuzione dei capita-
li e, inne, quella del lavoro sociale; Rubin intende ora esaminare il primo anello,
il prezzo di produzione, per scoprire se è a sua volta in relazione con quella cate-
na propria della società mercantile analizzata dalla teoria del valore (ibidem), cioè
vericare se la “legge del valore” inuenza ancora – e in che modo – la distribuzio-
ne sociale del lavoro nel capitalismo. Tuttavia già da ora è possibile scorgere un
primo accenno di “ponte” tra la teoria del valore e quella del prezzo di produzio-
ne: “la quantità totale del fondo per l’espansione del consumo e della produzione
[plusvalore] rimane immutata.” (ivi , 195).
3. Componenti del prezzo di produzione
Per sfuggire al circolo vizioso di voler determinare il prezzo di produzione at-
traverso il valore delle merci che lo compongono, che a loro volta è determinato
dai prezzi di produzione⁶, Rubin procede all’esame delle condizioni delle variazio-
ni delle componenti dei prezzi di produzione: costi di produzione e saggio medio
del protto.
3.1. Costi di produzione. Rubin afferma che, fermo restando il saggio me-
dio del protto e quello del plusvalore, i costi di produzione possono variare in
due casi: 1) quando mutano le necessità di lavoro e mezzi di produzione per la
produzione di quella merce, cioè quando varia la produttività del lavoro (in que-
sto caso di quel settore produttivo); 2) quando cambiano i prezzi dei fattori di
produzione, cioè quando varia la produttività del lavoro di tutte le altre indu-
strie produttrici di merci che, in qualsiasi modo, entrano nei costi di produzione.
In entrambi i casi “i costi di produzione variano in relazione a mutamenti della
produttività del lavoro, ossia, in ultima analisi, alle leggi del valore–lavoro” (ivi ,
189)⁷.
Per chiarire meglio il collegamento tra la legge del valore e i mutamenti dei
costi di produzione, utilizziamo quello che Rubin chiama “il diagramma 2” del
⁶“In realtà è un bel cercle vicieux il voler determinare il valore della merce mediante il valore
del capitale, poiché il valore del capitale è uguale al valore delle merci, di cui esso consta.” (Marx 1863) e anche in Rubin (1976, 188).
⁷Ma anche in Marx (1965, cap. 12).
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3. COMPONENTI DEL PREZZO DI PRODUZIONE 35
“metodo comparativo” di Marx⁸ (ivi , 193–194). Si tratta di quel metodo che
Marx avrebbe usato per descrivere e confrontare i vari passaggi da un’economia
mercantile semplice a una capitalistica compiuta, passando attraverso uno stadio
puramente logico–astratto, derivato dall’introduzione di una sola variabile per
volta: quella di capitalisti visti puramente come parassiti estorsori di valore gene-
rato dal lavoro altrui, in nessun rapporto competitivo tra loro, per cui il plusvalore
non si presenta in realtà come protto, ma è più simile a una rendita .
Rubin fa notare che siamo in una società dove, sostanzialmente, non è cam-
biato nulla nella determinazione del valore delle merci, eccetto l’introduzione del
concetto di lavoro salariato e di un capitalista piombato dal cielo sulla schiena
di ogni produttore che gli ruba tutto il ricavo eccetto quel minimo che serve
al produttore–salariato per continuare a lavorare in quelle particolari condizioni.
La società valuta allo stesso modo le merci, perché in ogni società mercantile sul
mercato ci sono solo compratori e venditori; che una merce sia prodotto di lavoro
autonomo o salariato non fa differenza per la sua equiparazione sociale con le altre
merci. Il venditore è rappresentante di una determinata parte della produzionesociale di quella merce, contrapponendosi ad altri venditori e confrontando le
produzioni. Che mille metri di stoffa siano stati prodotti da un artigiano o da un
operaio salariato sotto le dipendenze di un capitalista, ciò cambia solo per il fatto
che il guadagno personale del primo si presenta come v+pv , mentre tale somma
viene ripartita dal secondo in pv per lui e v per l’operaio, ed entrambe ovviamente
debbono detrarre lo stesso c .
Rubin ricorda che il mercato si limita a equiparare le merci attribuendo loro
un prezzo e, attraverso questo, a inuenzare e regolare la produzione sociale in
virtù del feticismo della merce . Così se il mercato pone l’equivalenza sociale tra
1000 metri di stoffa e una causa in tribunale (e lo fa attribuendo a entrambe le
merci lo stesso valore in virtù del fatto che forze produttive della società in quel
dato momento richiedono quella determinata spesa di lavoro sociale per quelle
⁸Che è il nome che Rubin da al modello teorico che Marx esamina nel primo libro del Ca-
pitale , che è quello preso in esame dalla seconda sezione del libro in avanti, un capitalismo senza concorrenza e rapporti di produzione specici tra capitalisti. Marx, però, non gli attribuisce alcunnome.
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36 3. LA TEORIA DEL PREZZO DI PRODUZIONE
due attività), i due lavori si equivalgono socialmente e sono la stessa quantità di
lavoro astratto, producono la stessa quantità di valore; poco importa se il tessitore
e l’avvocato sono entrambi salariati e possono guadagnare diversi v : se il valore
della merce è lo stesso, supposte invariate le condizioni di produzione (cioè identi-
ca composizione organica), ciò che il salariato guadagna in v lo perde il capitalista
in pv . Scrive Rubin:
“Il valore totale del prodotto e le parti individuali di cui si componerimangono invariati. La differenza sta nel fatto che ora il fondo perl’espansione del consumo e della produzione (o di plusvalore) non rima-ne nelle mani dei produttori diretti, ma passa in quelle del capitalista.
La stessa quantità di valore è divisa cioè diversamente tra le classi sociali.”(ivi , 194–195).
Così, in questo modello puramente teorico, viene ammessa anche la diversità
dei saggi di protto nelle varie sfere di produzione:
“Poiché il valore prodotto nelle singole sfere non è cambiato, il plusva-lore si distribuisce come in precedenza tra le diverse sfere e i capitalistiindividuali. […] Ma essi calcolano queste masse di plusvalore in rappor-to all’intero capitale investito. Di conseguenza si hanno saggi di prottodifferenti, in assenza della concorrenza tra le diverse sfere.” (ibidem).
Rubin fa notare che nel “diagramma” descritto sopra è evidente che i costi
di produzione possono variare soltanto in base alla legge del valore: c è il valore
dei mezzi di produzione, v quello della forza–lavoro. Se le altre aziende impie-
gano meno tempo di lavoro astratto nella produzione dei mezzi di produzione
e/o dei beni di consumo degli operai, i costi di produzione diminuiscono, poi-
ché diminuito è il loro valore. Se l’azienda diviene più produttiva, abbassando
la composizione organica⁹ si risparmia lavoro e dunque si abbassa il costo di pro-duzione poiché minore è il tempo di lavoro astratto impiegato nella produzione
della merce, minore è il suo valore sul mercato.
Egli spiega che nel capitalismo (“diagramma 3”, capitalisti in concorrenza
tra loro) (ibidem) le cose si complicano, perché il capitalista non è solo colui
che si appropria di pv quasi fosse una semplice rendita, ma è anche divenuto
l’organizzatore dell’attività economica, il proprietario dei mezzi di produzione e
⁹E sempre supposta la produzione al massimo dell’efficienza possibile, quindi senza sprechidi capitale costante.
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3. COMPONENTI DEL PREZZO DI PRODUZIONE 37
delle merci prodotte dal lavoro altrui. Ed esso, in forza di tale potere, dirige la
produzione dove più gli piace, cioè dove può trarre maggior guadagno possibile
e, comunque, mai inferiore al livello medio.
Se la vendita delle merci ai propri valori e la presenza di capitalisti (“diagram-
ma 2”) comporta la diversità dei saggi di protto individuali, il caso di capitalisti
in concorrenza tra loro per ottenere il medesimo saggio del protto implica ne-
cessariamente che le merci non possono essere vendute al loro valore perché lo
stesso prezzo di produzione è composto da quantità diverse di lavoro astratto.
Ma anche in questo caso è la legge del valore a determinare le variazioni nei costi
di produzione, anche se tali variazioni si esprimono in nuovi prezzi di produzio-
ne. Indipendentemente dal tipo di domanda aggregata, una variazione positi-
va della produttività del lavoro dell’impresa del capitalista comporta pur sempre
un abbassamento del prezzo di produzione a causa della