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Rivista Trimestrale anno I, Nr. 1 Un figlio a tutti i costi di Vera Paola Termali Alzheimer o diabete III di Federica Sciacca Radioterapia e gravidanza di Giovanna Sartor Intervista al Prof. Massimo Saita Preside della Facoltà di Economia della Bicocca

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Rivista Trimestrale anno I, Nr. 1

Un figlio a tutti i costi

di Vera Paola Termali

Alzheimer o diabete III

di Federica Sciacca

Radioterapia e gravidanza

di Giovanna Sartor

Intervista al Prof. Massimo Saita

Preside della Facoltà

di Economia della Bicocca

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Medicina di Frontiera Iscrizione al Tribunale di Como N° 3/2011

Direttore responsabile: Vera

Paola Termali Direttore

Scientifico Samorindo Peci

Redazione: Federica Sciacca Responsabile di

redazione Andrea passi

Giorgio romandini

Federica Peci

Collaboratori:

Massimo Saita

Presidi facoltà economia bicocca Giorgio

Maria calori Primario traumatologia

Marianno Franzini

Presidente SIOOT Fabio

Catalano

Unità tecnica antartide

Concetto Battiato primario

ortopedico Giovanna Sartor

Fisica medica Nuscleare

Emanuela Cafiso Psichiatra

Anna Frinsinghelli Cardiologa

FESC Gioacchino Giugliano Direttore unita’ neoplasie tiroidee

Paolo Ferroli Primario

Neurochirurgo Giorgio

D’alessandro Fisiatra

Rita Buoncristiano

Anestesista Massimo

Lemma Direttore unita semplice di cardiochirurgia

David satanassi

Bioeticista Massimo

giraudi Cardiologo

Donatella Vasaturo responsabile

struttura asl Ulrich Erdmann

Presidente sindacato Berufsverband Girolamo

Simonetta Europrogettista

Valentina Vena Economia

sanitaria Elisabetta

Montano Funzionario

europeo Laura Pontigga

Funzionario ERC

Addetto stampa: [email protected] Editing - Grafica -

Impaginazione: Cerifos

Tel. 02 26416162 - Fax 02 89038641

Email: [email protected]

sito: medicinadifrontiera.cerifos.it

Editore: Cerifos Sede: P.zza

Carlo Schiavio 2

22020 Veleso Como

Stampa: Litograf editor srl Citta di Castello Pg Info pubblicità:

[email protected]

Sommario

3 Editoriale di Vera Paola Termali

4 La crisi della Sanità di Massimo Saita

8 Radioterapia e gravidanza di Giovanna Sartor

10 La coxartrosi prima dell’artrosi di Concetto Battiato

12 Morbo di Alzheimer o Diabete III di Federica Sciacca

14 Dal futuro uno sgardo alla medicina del passato di Fabio Catalano

16 Pubblicazione scientifica (Boswellia serrata Simon Kriste)

24 Cardiologia riabilitativa di Anna Frisinghelli

26 Andare oltre verso l’eccellenza di Federica Sciacca

29 Piede diabetico di Marianno Franzini

30 Un figlio a tutti i costi? di Vera Paola Termali

32 Fare di necessità virtù: Certificare la vera eccellenza di Federica Peci

34 I fondi europei alla ricerca: chi sa cercare, trova! di Vera Paola Termali

35 Quanti soldi per la ricerca 2014-2020? di Federica Sciacca

37 Siamo tutti stakeholder! di Girolamo Simonetta

38 Spin Off di Valentina Vena

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Editoriale

Vera Paola Termali

Medicina di Frontiera:

Cos’era, cos’è?

Il termine Medicina di Frontiera risale ai tempi del-

la conquista del West. Nelle nuove comunità che si

creavano, in questa continua occupazione di territo-

ri, in cui la frontiera si spostava sempre più in là, non

esistevano strutture per la cura dei malati e i medi-

ci, da poco affrancati dal ruolo di cerusici, curavano

con quel poco che avevano a disposizione e anche

con quel poco che sapevano, non essendo i percorsi

formativi per l’esercizio della Medicina altro che un

anno di teoria e tre anni di apprendi-

stato a fianco di un medico più an-

ziano.

La salute era in mano alle donne di

casa che disponevano di una farma-

cia domestica fatta di tinture madri

e erbe secche; il parto, momento

cruciale ed estremamente perico-

loso, era in mano alle ostetriche e,

solamente quando la cosa si faceva

grave, si andava a chiamare il medi-

co. In queste situazioni di frontiera

non è che il medico disponesse di

molti più strumenti delle donne, ma

era abituato a fronteggiare situazioni

rischiose e tentava il tutto per tutto,

certo che i pazienti e loro famiglia-

ri gli sarebbero stati grati per averci

provato, con scienza e coscienza, e mai gli avrebbero

fatto causa per aver ricomposto male una frattura o

non essere riuscito a salvare una vita. Quello che ca-

ratterizzava il medico di frontiera era la curiosità, la

voglia di capire, lo sperimentare, l’andare oltre pri-

ma di tutto con la mente e poi costruendosi strumen-

ti e tecniche che potessero garantire al suo paziente

maggiori possibilità di vita.

Ecco, questo unisce la medicina dell’ottocento nello

sconfinato ovest degli Stati Uniti alla medicina dei no-

stri giorni, in cui dalla frontiera geografica si passa alla

frontiera intellettuale.

La frontiera esiste sempre: se non è fisica, è nella mente

degli uomini che non riescono a vedere oltre, a imma-

ginare soluzioni, a credere che debba esserci un’altra

strada. Quando il sapere diventa una palla al piede, un

pregiudizio, che ci tiene legati al noto, non possiamo

fare Medicina di Frontiera, non possiamo accettare le

sfide che il contesto in cui viviamo

ci pone.

Il medico di frontiera non è mai ras-

segnato, mette sempre in discussio-

ne il suo sapere, ha sete di conoscen-

za, si pone obiettivi e sfide, perché

riconosce che la frontiera, il limite, è

soltanto dentro la sua testa.

E così oggi Medicina di Frontiera

significa nuove aree di ricerca, in-

novazione scientifica, medicina ri-

generativa, terapie biologiche nelle

nuove aree delle patologie da invec-

chiamento e errati stili di vita, nelle

allergie e nelle malattie autoimmuni,

nel cancro e nelle neuroscienze, in

tutti quei contesti che possono mi-

gliorare la qualità della vita.

Per fare tutto questo, per diventare un medico di fron-

tiera non basta esserlo nel proprio intimo, passo pur

sempre essenziale, ma occorre avere a disposizione

del vil denaro per portare avanti le proprie ricerche.

Proprio per questo, per sostenere la ricerca italiana,

Cerifos fa formazione in Europrogettazione e dedica

a questo argomento una sezione di questa rivista, che

vuole essere una selezione di spunti di riflessione per il

medico che vuole andare oltre.

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La crisi della sanità di Massimo Saita

MASSIMO SAITA

Laureatosi in Economia e

Commercio presso l’Uni-

versità Cattolica del Sacro

Cuore, già Preside della

Facoltà di Economia pres-

so l’Università degli Studi

di Milano – Bicocca,è at-

tualmente presidente della

Scuola di Economia e Stati-

stica dell’Università Milano

-Bicocca è professore ordi-

nario di economia aziendale

nel dipartimento di scienze

economico-aziendali e di-

ritto per l’economia presso

l’Università degli Studi di

Milano Bicocca. Direttore

di corsi di dottorato in Eco-

nomia e Strategia Aziendale

e in Economia Aziendale,

Management ed Econo-

mia del Territorio. Insegna

all’Accademia della Guardia

di Finanza di Bergamo. Già

visiting research professor

presso l’Università di Ber-

keley (California) è compo-

nente del comitato editoriale

della rivista “Il controllo

nelle società e negli enti” e

de “I quaderni” della Scuola

di Alta Formazione (Ordine

dei Dottori Commercialisti

di Milano).;è inoltre editor

in chief della collana del

Centro studi aziendale della

collana in inglese azienda-

le e della collano edita da

Franco Angeli a del Diparti-

mento di scienze economico

aziendale e diritto per l’eco-

nomia

E’ direttore e docente presso

numerosi Master universita-

ri e specialistici ed autore di

numerose pubblicazioni tra

cui “Manuale di contabilità

bilancio e controllo” (Il Sole

24 Ore, 1999);

I dati più recenti, ripetutamente presentati dal

Presidente del Consiglio, stanno ad indicare

che non solo in questi anni di crisi, ma an-

che nei prossimi anni, la sanità rappresenterà

il vero grande problema economico, sociale e

politico per l’Italia.

Tutti i maggiori centri di ricerca nazionali,

(Cergas, Censis, Ambrosetti, ecc..) denuncia-

no concordi l’impossibilità della copertura

pubblica per la spesa sanitaria degli italiani.

Tende a prendere forma una violenta critica

allo slogan: “in sanità si possono garantire gli

stessi risultati di salute con meno risorse”.

Si ritiene invece che la lotta agli sprechi ed

una strategia più puntuale di allocazione delle

eccellenze in sanità, evitando inutili doppioni

e puntando su una sana gestione aziendale,

possa consentire di evitare di essere sommersi

da un profondo deficit.

Tra i molti esperti penso tenda a prevalere

il parere di Nerina Dirindin che, pur essen-

do docente all’Università di Torino, ha avuto

esperienze di governo sanitario sia a livello

nazionale, sia a livello regionale. Secondo la

Dirindin si “può vantare uno spread positivo

nella sanità anche verso la Germania”. La sa-

nità italiana nelle sue punte di eccellenza non

teme alcun confronto a livello mondiale, ma

purtroppo alcune distorsioni portano a spre-

care risorse finanziarie. Non si può infatti di-

menticare che il “buco” della sanità è stimato

ormai intorno ai 40 miliardi di euro, che il

numero delle regioni commissariate a settem-

bre 2012 è pur sempre elevato, infatti dopo

le verifiche del governo per le 8 regioni sot-

toposte a piano di rientro, mentre si riscontra

un miglioramento dell’Abruzzo e seppure in

parte dalla Sicilia, si rilevano recuperi drogati

dall’aumento delle tasse in Puglia, Piemonte

e Lazio. Chi proprio non riesce a superare i

disavanzi sono Campania, Calabria e Molise

secondo i resoconti del tavolo di monitorag-

gio.

Tuttavia lo snellimento in corso ha portato a

pericolose e irrazionali riduzioni e a tagli ge-

neralizzati di circa 100 mila posti letto negli

ultimi 15 anni in Italia. E’ opportuno ricorda-

re che si è partiti dal 1997 con una riduzione

di circa 20.000 posti letto, per pervenire nei

primi anni duemila ad ulteriori riduzioni di

50.000 posti letto ed in questi ultimi anni

fino al 2011 ad ulteriori tagli per circa 30.000

posti letto; ma non basta per il 2013 si pre-

vede un ulteriore taglio di 7.000 posti letto.

Tuttavia se si va a ben vedere il buco di 40

miliardi di euro dal 2001 al 2011 è concen-

trato per 33 miliardi nelle regioni commissa-

riate; si può pertanto affermare con un certo

ottimismo che disavanzi di 7 miliardi nelle

restanti regioni possono essere risanati gra-

zie ad una più attenta ed efficiente gestione

operativa.

Un ulteriore spunto di ottimismo deriva

dall’analisi della distribuzione dei disavan-

zi negli ultimi 10 anni. Infatti dai picchi di

6 miliardi nel 2004 e di altrettanti nel 2005,

progressivamente il disavanzo è diminuito

fino a pervenire a 1,8 miliardi nel 2011; pare

pertanto eccessivo il de-finanziamento pre-

visto tra il 2012 e il 2015 per ulteriori miliar-

di di euro.

Altre soluzioni quali i ticket non rappresen-

tano una particolare soluzione del problema,

ancorchè dai 14,3 euro pro capite del 2009

si è passati a 21,8 euro pro capite del 2011.

Quali allora le soluzioni per affrontare con

possibilità di successo questa crisi econo-

mica di una sanità che pur mantiene livelli

qualitativi di eccellenza nel contesto inter-

nazionale? Alcuni propongono il ritorno a

soluzioni centralistiche, individuando nel

decentramento regionale la causa di così ele-

vati disavanzi, non ritengo che questa possa

essere la sola soluzione perché il decentra-

mento non deve essere considerato un alibi

per la deresponsabilizzazione.

Altri propongono una più accentuata priva-

tizzazione del sistema sanitario, ma anche su

questo punto bisogna fare alcune riflessioni.

Porto ad esempio il caso di due grandi ospe-

dali privati di ottimo livello qualitativo con

una grande attrazione di pazienti da tutta Ita-

lia quali il San Raffaele e l’Istituto Europeo

di Oncologia.

Il San Raffaele nell’ambito della razionaliz-

zazione aziendale conseguente all’entrata

di Rotelli alla fine di ottobre di quest’anno

dichiara una perdita prevista per il 2012 di

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5 5 milioni di euro e comunica di poter ridurre i

licenziamenti del personale di comparto a 244

unità contro i 450 annunciati a maggio 2012. Se-

condo la direzione dell’ospedale i licenziamenti,

poiché riguardano amministrativi ed ausiliari e

non personale sanitario, non dovrebbero impatta-

re sulle prestazioni. Nel contempo viene avanzata

una proposta riguardante il passaggio al contrat-

to privato rispetto a quello pubblico che fornisce

meno garanzie occupazionali.

Questo piano è fortemente contrastato dai sinda-

cati e anche da alcuni infermieri in modo clamo-

roso e supera anche l’ accordo dell’ottobre 2010

che prevedeva incentivi al personale per 8,5 mi-

lioni di euro.

La controproposta del sindacato prevede anche

un coinvolgimento del personale medico e pare

che possa congelare temporaneamente la situa-

zione in attesa del consueto incontro con il Mini-

stro della Sanità.

Questa proposta di coinvolgere il personale me-

dico nell’azione di ottimizzazione dei costi del

San Raffaele viene fortemente sostenuta anche

dall’Assessore alla Sanità di Regione Lombardia,

ma si ritiene che la Regione sia al momento estre-

mamente debole politicamente. Mentre sussisto-

no ancora dubbi sulle future relazioni sindacali, al

contrario molto positivi sono i risultati del nuovo

concordato preventivo, che è stato omologato dal

tribunale fallimentare di Milano.

Infatti i creditori per debiti prededucibili (178 mi-

lioni di euro) e i creditori privilegiati (49 milioni

di euro) dopo sei mesi dall’inizio delle procedure

concorsuali sono già stati rimborsati al 100% ; e

già a fine anno è iniziato il pagamento della prima

tranche pari al 19% dei debiti chirografari ( 715

milioni di euro). Si ricorda che i chirografari sono

banche, fornitori, professionisti, società control-

lanti, collegate ecc. , si sottolinea inoltre che il

passivo della Fondazione San Raffaele, pubblica-

to dal tribunale a fine agosto, era pari a 847 mi-

lioni di euro oltre ai 300 milioni accollati da parte

di Rotelli - San Donato. Certamente, ancora una

volta, un ruolo di rilievo ha avuto l’accordo rag-

giunto tra la Fondazione San Raffaele e l’Agenzia

delle Entrate ove, a fronte di un contenzioso di

250 milioni di euro, si è conclusa una favorevo-

lissima transazione per soli 28 milioni.

Un caso molto vicino al San Raffaele per l’ele-

vata eccellenza riguarda l’Istituto Europeo di

Oncologia, che per il 2012 prevede una pesante

perdita di circa 13 milioni di euro in parte dovuta

alla spending review, ma in gran parte dovuta a

situazioni organizzative interne (circa 8 milioni

di euro). A differenza del San Raffaele tuttavia

nell’IEO si giunge ad un accordo con i dipendenti

nell’ottobre 2012.

Può essere utile ricordare alcuni punti di tale ac-

cordo quali ad esempio il taglio di 30 contratti a tempo determina-

to, il taglio del 50% dell’incentivo ai medici per attività scientifica

nel biennio 2012-2013, la riduzione del 10% dei compensi per li-

bera professione sino al 2013.

Meno pesanti sono le altre misure quali: l’incentivazione all’eso-

do e l’obbligo ad utilizzare le ferie maturate entro il 2013, senza

possibilità di monetizzarle. In questo accordo certamente i medici

rinunciano ad un valore pari a circa una mensilità, ma forse potran-

no ottenere recuperi nell’ambito di un piano di partecipazione agli

utili nel 2014-2015.

Da queste riflessioni si sarebbe portati a ritenere che una soluzione

potrebbe essere il passaggio da un contratto pubblico ad un contrat-

to privato, e che una seconda soluzione (IEO) potrebbe riguardare

un piano di partecipazione agli utili. Questi due casi potrebbero

confermare che il privato è in grado di raggiungere un equilibrio

economico, pur mantenendo elevati livelli di eccellenza sanitaria.

Tuttavia esistono anche situazioni in cui si possono risanare azien-

de sanitarie pubbliche senza dover necessariamente passare a for-

me di privatizzazione contrattuale o di partecipazione agli utili.

Una riflessione può riguardare una gestione forte e probabilmen-

te anche autoritaria con cui i commissari dell’Asl 1 di Napoli e

dell’Asl di Salerno, provenienti entrambi dall’arma dei Carabinie-

ri, sono riusciti ad ottenere risultati sicuramente rilevanti.

Solo per ricordare alcuni risultati nell’Asl di Napoli 1:

- il debito consolidato a fine 2011 era di 900 milioni di euro contro

1,3 miliardi di debiti nel 2010;

- l’acquisto di beni era sceso nel 2011 del 10%, mentre quello di

servizi del 5%;

- il costo del personale era diminuito del 20%;

- ma soprattutto la velocizzazione dei pagamenti aveva portato una

riduzione del 50% nelle spese per pignoramenti.

Questo intervento aveva portato un disagio nei cittadini conse-

guente alla chiusura del pronto soccorso San Gennaro nel centro

storico e nei dipendenti per la chiusura della sede nel centro dire-

zionale. I dipartimenti amministrativi si erano ridotti da 8 a 3 e i

dipartimenti sanitari da 17 a 12.

Il caso dell’ASL di Napoli 1 non è l’unico attuato con successo

nel centro sud; anche l’ASL di Salerno con un colonnello dei ca-

rabinieri, nominato commissario nel 2011 ha raggiunto risparmi

per 168 milioni di euro, azzerando le spese legali, remunerando le

prestazioni entro 60-90 giorni, contro i 500 giorni raggiunti nella

gestione precedente.

E’ forse opportuno ricordare che il Presidente del Consiglio ha

dichiarato “ le sue preoccupazioni per la sostenibilità futura dei

sistemi sanitari” accennando anche a “nuove modalità di funziona-

mento e di organizzazione del sistema sanitario”.

In pratica si ricorda che con la prima manovra del 2011 si sono avu-

ti tagli variabili dal 50 all’80% su formazione, consulenze, spese di

rappresentanza, missioni, auto. Si erano inoltre stimati per il 2012

risparmi per 830 milioni di euro con l’introduzione del superticket

specialistico e per l’avvio dei prezzi di riferimento su dispositivi

medici, farmaci ospedalieri, beni e servizi, prestazioni sanitarie.

Altre stime relative al 2013 riguardavano i risparmi per dispositivi

medici in 800 milioni di euro. Con la manovra estiva dell’agosto

2011 si prevedevano ulteriori tagli per 8 miliardi nel 2013-2014,

un gettito di ticket per 2 miliardi , un ripiano per eventuale sfon-

damento della spesa farmaceutica, di cui il 35% sarebbe stato a

carico delle imprese farmaceutiche. Grandi speranze venivano ali-

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mentate dalla partenza dei costi standard nel 2013.

Il governo Monti conferma i tagli di 8 miliardi, lavora alla

riduzione delle esenzioni e lancia la cosiddetta “operazione

Bondi”, che prevede ulteriori 1,5 miliardi di risparmi, grazie a

risparmi su acquisti per un valore di circa 30 miliardi , utiliz-

zando la Consip.

Il governo Monti interviene ulteriormente con la cosiddetta

spending review dove sono previsti numerosi interventi:

• sconti a partire dall’entrata in vigore della legge sulla

spesa dei farmaci, di cui, a carico farmacie 1,82%-2,25% per il

2012- 2014,

• aumento dello sconto a carico delle aziende farmaceu-

tiche per il 2012 dall’1,83 all’4,1%,

• tetti per la farmaceutica territoriale : 13,1% per il 2012,

11,35% per il 2013 , contro il precedente 13,3%,

• nuovo tetto per la farmaceutica ospedaliera : per il

2013 pari al 3,5%, contro il 2,4 precedente e ripianamento

dell’eventuale sfondamento a carico delle aziende farmaceuti-

che per 50%,

• dal 2013 avvio di un nuovo metodo di remunerazione

della filiera farmaceutica da concordare con AIFA,

• anticipo al 2012 dell’obbligo di indicare in ricetta solo

il principio attivo, non il nome commerciale , salvo la clausola

di non sostituibilità motivata,

• riduzione del 5% di importi e prestazioni per tutta la

durata dei contratti, in caso di differenze superiori al 20% ri-

spetto ai prezzi Consip o Centrali di committenza regionali; i

contratti possono essere rinegoziati o rescissi senza pagamento

di penali,

• riduzione in misura percentuale stabilita dalle Regioni

dell’acquisto di prestazioni sanitarie da soggetti privati, al fine

di ottenere una riduzione rispetto al 2011 dell’0,5 nel 2012 e

del 1% e del 1,5% per gli anni successivi,

• ulteriori interventi riguardanti la riduzione dei posti

letto a 3,7 per 1000 abitanti, di cui 0,7 per riabilitazione e lun-

go degenze post acuzie, di cui almeno per il 50% a carico dei

presidi ospedalieri pubblici, attraverso la soppressione di unità

operative complesse,

• adeguamento delle dotazioni nei presidi ospedalieri

pubblici con riferimento a tassi di ospedalizzazione pari a 160

per 1000 abitanti, di cui il 25% con ricoveri diurni,

In sintesi gli interventi in sanità derivanti dalla spending re-

view comporteranno riduzione del finanziamento alla sanità

per 900 milioni nel 2012, per 1,8 miliardi nel 2013, per 2 mi-

liardi nel 2014.

Il Decreto Legge definito Balduzzi, approvato in Senato il 31

ottobre 2012 riguarda prevalentemente i medici di famiglia, i

pediatri di libera scelta, gli specialisti ambulatoriali , la guardia

medica, che dovranno prevedere l’accesso per 24 ore al giorno,

sette giorni su sette, con forme monoprofessionali o multipro-

fessionali. Si perviene infatti con questa legislazione a definire

il ruolo unico dei medici di medicina generale.

Il D.L. Sanità Balduzzi del 31 ottobre 2012 tocca anche la li-

bera professione, la depenalizzazione della colpa medica, per

quanto riguarda le nomine di direttori generali e primari si pre-

vedono regole di maggiore trasparenza.

Infine si prevede un nuovo prontuario dei farmaci entro giugno

2013 nel quale numerosi farmaci obsoleti verranno riallocati

in classe C.

Grandi prospettive vengono date al nuovo patto per

la salute 2013-2015, che prevede maggiore equità nel

sistema di compartecipazione alla spesa, revisione

dei Livelli Essenziali di Assistenza e soprattutto un

riesame della rete ospedaliera con standard e rapporti

tra amministrativi e sanitari.

E malgrado tutto questo emergono i dubbi del go-

verno, la tentazione di privatizzare la sanità, il ten-

tativo di introdurre, come nel modello americano le

assicurazioni o fondi sanitari che riprendono modelli

statunitensi, ma alla fine di tutto non si dimentichi

che la spesa sanitaria totale italiana è al 9,1% del Pil

2010 e ben sette paesi spendono più dell’Italia. La

percentuale pubblica su questa spesa sanitaria è del

79,6%, seconda solo a UK e Giappone.

Questi dati OCSE penso dovrebbero fare riflettere.

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Due righe sull’editore Il Centro Ricerca e Formazione Scientifica (Ce.Ri.Fo.S), nasce dall’esigenza di promuovere la ricerca italiana indipendente verso la

cura delle malattie rare ad indirizzo endocrino - metabolico e verso le tecnologie avanzate. Ce.Ri.Fo.S ha la necessità di aprire una

finestra di scambio di informazioni con il personale medico di base, ospedaliero e il paziente, e l’esigenza di formare il personale

atto a occuparsi del paziente con lo scopo di creare un beneficio per la collettività.

Ce.Ri.Fo.S, pensato e creato da un gruppo di ricercatori italiani, si pone i seguenti tre obiettivi.

1. La ricerca della cura, affrontando le tematiche delle terapie biologiche e lo studio delle alterazioni cellulari.

2. L’informazione attraverso la rivista “Medicina di Frontiera” che si rivolge sia al medico sia al paziente. Per il medico seleziona

le più interessanti pubblicazioni scientifiche, corrispondenti al proprio approccio terapeutico.

Al paziente fornisce informazioni che possono trovare applicazione terapeutica nell’immediato, preoccupandosi di fornire indica-

zioni anche su metodiche sperimentali e alterazioni fisiologiche di tipo farmacologico, ambientale ed emozionale.

3. La formazione di personale medico e paramedico con corsi accreditati e non affinché l’approccio con il paziente sia sempre più

cosciente e empatico nella visione di risk management d’eccellenza. La formazione in Europrogettazione per fornire ai ricercatori

italiani gli strumenti per acquisire finanziamenti europei.

Come non scrivere due righe sul mio Professore,

il mio mentore, il relatore della mia tesi?

Due righe che non possono essere una recensio-

ne, non ne ha bisogno, ma vogliono essere una

manifestazione di stima e riconoscenza.

Parlo dell’attuale Preside della Facoltà di Medi-

cina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore,

Prof. Rocco Bellantone, persona di poche parole,

di grande valore umano e spessore professiona-

le, uomo in continua ricerca, uomo che investe

sui giovani che gli stanno vicino.

Io sono arrivato a lui un po’ vecchietto e quin-

di non ho potuto assaporare l’importanza di una

formazione originale, improntata all’osservanza

delle procedure e dei rapporti.

Ho visto ragazzi soffrire e gioire per essergli vi-

cino, alcuni inviati in altre università per impara-

re e riporatare il succo dell’esperienza maturata

all’estero.

Nel secolo della gelosia, lui è stato sempre di-

sponibile all’insegnamento, alla condivisione

del sapere, cosa molto rara e preziosa in ogni

Università.

Io spero che questo suo libro diventi una pietra

miliare per la chirurgia come il Sabiston ed altri.

Per me, per il contenuto, per gli autori e per le

cose dette in precedenza, lo è già.

Dott. Samorindo Peci PhD

Responsabile Scientifico

Il libro segnalato

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RADIOTERAPIA E GRAVIDANZA di Giovanna Sartor

Ai fini della valutazione del danno provocato dalla radioterapia alla gravidanza,

è doveroso puntualizzare che il problema assume diverse sfumature a seconda

del punto di vista da cui viene affrontato: gravidanza futura, gravidanza in atto ed

infine assistenza a familiari sottoposti a radioterapia.

Per quanto riguarda una GRAVIDANZA FUTURA, è importante ricordare che

gli ovociti sono cellule particolari: derivano dalla trasformazione degli ovogoni,

già presenti nell’ovaio fetale, possono rimanere a riposo fino alla menopausa, e

si differenziano in cellula uovo, dopo la pubertà, solo per qualche giorno, com-

pletando la meiosi solo alla fine delle fecondazione. Circa due mesi prima della

nascita dell’individuo, gli ovociti raggiungono il massimo numero; da questo

momento in poi il loro numero diminuirà, fino all’esaurimento, all’epoca della

menopausa. Sugli ovociti il danno da radiazioni ionizzanti è sia di tipo cromoso-

mico strutturale sia di tipo cromosomico numerico.

Le aberrazioni cromosomiche strutturali a cui vanno incontro gli ovociti sono di

tipo cromatidico, datosi che negli ovociti la replicazione del DNA è già avvenu-

ta. Di queste, le più importanti sono quelle dovute agli interscambi cromatidici,

perché ne possono derivare anomalie stabili e trasmettibili alla progenie. Seb-

bene nella maggior parte dei casi essi non diano luogo a guadagno o perdita di

materiale genetico, in alcuni casi problemi di segregazione durante l’anafase II

possono portare a morte cellulare, coinvolgendo quindi la fertilità del soggetto, o

alla nascita di individui con malformazioni.

Le aberrazioni cromosomiche di tipo numerico sono dovute essenzialmente a

mancata separazione di cromosomi strutturalmente normali o a segregazione

scorretta conseguente ad interscambi cromatidici, e possono portare a danni ge-

netici correlati a ritardo mentale o malformazioni congenite.

Le evidenze sperimentali, in vivo ed in vitro su animali da laboratorio, dimo-

strano che esistono meccanismi di riparazione del DNA negli ovociti dei mam-

miferi, tuttavia il problema è ancora in fase di studio, e sicuramente le moderne

tecniche di analisi molecolare potranno dire molto su questo tema. In ogni caso,

il fatto che la quantità di ovociti sia limitata e non rinnovabile è un elemento di

fragilità, che può essere aggravato se vi è esposizione a radiazioni ionizzanti.

Per la donna, lo scenario indagato riguarda due situazioni: esposizioni a scopo

medico di bambine e donne in età fertile, ed esposizioni a seguito di incresciosi

eventi, quali le esplosioni nucleari e gli incidenti alle centrali nucleari, e riguarda

due danni che le radiazioni possono indurre, infertilità o danno genetico.

Per quanto riguarda l’infertilità, si possono ricavare informazioni da “follow up”

di pazienti irradiate in età pediatrica o fertile. L’esposizione ad alte dosi di ra-

diazione provoca infertilità, che interviene a dosi diverse per età diverse della

donna: per donne di età superiore ai 40 anni 6 Gy sono sufficienti per determinare

la completa cessazione dell’attività ovarica, mentre per le donne di età inferiore

ai 40 anni ciò accade per dosi superiori a 20 Gy. La sede irradiata, così come la

dose prescritta, sono fattori molto importanti per il superamento di questi valori

soglia, così come è molto importante l’utilizzo di farmaci in associazione con la

radioterapia, i quali possono modificare, in negativo, questi valori. Dosi minori

di 2 Gy distruggono il 50% dei follicoli ovarici. Senza entrare nello specifico

di patologie diverse, si può affermare che la moderna strategia clinica per la cura

del cancro in pazienti giovani, con varie associazioni chemio-radioterapia, ha

ottenuto importantissimi risultati, portando la sopravvivenza a valori molto alti.

Però, se da una parte la terapia è un salvavita, dall’altra esiste il rischio che essa

provochi sterilità. Negli ultimi 10 anni la conservazione della fertilità è diventata

un obiettivo per cui molti scienziati lavorano; esistono strategie mature e strate-

gie ancora sperimentali, ma è bene che venga effettuata una valutazione caso per

caso: essendo molte le variabili che possono influire sul danno, una valutazione

del rischio non può essere effettuata se non dopo indagine accurata sulle diverse

variabili che intervengono nel problema.

Per quanto riguarda il danno genetico, informazioni possono essere ricavate da

osservazioni effettuate su popolazioni esposte a

radiazioni ionizzanti a seguito di esplosioni nu-

cleari ed incidenti alle centrali nucleari.

Il gruppo più studiato, anche dal punto di vista

temporale, è quello dei discendenti dei supersti-

ti delle esplosioni delle due bombe atomiche di

Hiroshima e Nagasaki. Per dosi medie ricevute

dai genitori valutate attorno ai 200 mGy, non

sono state rilevate variazioni statisticamente

significative dello sviluppo psicofisico, di mal-

formazioni di origine genetica e di parametri di

natura citogenetica e biochimica, relativamente

ad una popolazione di individui i cui genitori

non erano stati irradiati.

Il secondo gruppo più studiato è quello che è

stato investito dalle radiazioni ionizzanti pro-

venienti dal fallout dopo l’incidente nucleare

di Chernobyl. Molti studi sono stati fatti, con

risultati controversi, ma non sembrano esserci

evidenze certe di aumento di malformazioni o

di mortalità infantile correlata all’esposizione

delle madri prima del concepimento (Nations

Chernobyl Forum – WHO - 2006).

Vale la pena di citare lo studio di Dubrovain cui

si riporta, per le famiglie vissute a Beskaragai

(Kazakistan) tra il 1949 e il 1956, ed irradiate

dal fallout proveniente da una serie di test ato-

mici di superficie con dosi tra 0,5 e 4,5 Sv, un

aumento dell’80% nel tasso di mutazione gene-

tica del DNA minisatellite, per la prima gene-

razione, e del 50% per la seconda generazione,

relativamente al resto della popolazione del Ka-

zakistan, di eguale etnia ma non irradiata, senza

però alcuna conseguenza sulla vita.

Per quanto riguarda la RADIOTERAPIA E

GRAVIDANZA IN ATTO, il problema si com-

plica, in quanto il nascituro è dipendente dalla

vita della madre, ma non è il paziente. Quindi, la

prima considerazione che vale, e vale sempre in

tema di radiazioni ionizzanti, è che se la radio-

terapia è dilazionabile, è bene dilazionarla (Art.

10 D.L. 187/00 - Protezione particolare durante

8

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la gravidanza e l’allattamento). Le cellule

dell’embrione e del feto dimostrano attività

proliferativa e grado di differenziazione di-

versi nelle varie fasi della gravidanza, e la

radiosensibilità è fortemente dipendente da

questi due fattori.

Nella fase di preimpianto, naturalmente, non

ci sono dati sperimentali sulla donna, e quin-

di i dati a disposizione sono quelli sugli ani-

mali; da questi dati si deduce che il l’effetto

più probabile è il mancato impianto, evento

drammatico ma definitivo, anche se altri ef-

fetti non possono essere esclusi con certezza

assoluta.

Durante l’organogenesi, tra la seconda e

l’ottava settimana dal concepimento, si svi-

luppano gli organi, e quindi le cellule si tro-

vano un uno stato ad alta attività proliferati-

va e ad alta attività di differenziazione. Gli

studi sull’uomo derivanti prevalentemente

dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki

e gli esperimenti condotti su animali, indi-

cano che i danni sul nascituro riguardano

prevalentemente malformazioni, ritardo di

crescita e microencefalia, anche se aborto,

sterilità, cataratta e insorgenza di neoplasie

maligne non possono essere esclusi. Allo

stato attuale delle conoscenze questi danni

sono considerati di tipo deterministico, con

un valore di soglia pari a 100 mSv.

Tra l’ottava e la quindicesima settimana i

neuroblasti si moltiplicano velocemente e

migrano verso la corteccia cerebrale. L’e-

sposizione può influenzare negativamente

questi meccanismi, e quindi il danno sul

nascituro può essere il ritardo mentale, an-

che se possono intervenire anche ritardo di

crescita, sterilità, aborto, malformazioni,

cataratta, microencefalia e neoplasie mali-

gne. Gli studi condotti sui bambini esposti

in utero a seguito delle esplosioni nucleari di

Hiroshima e Nagasaki hanno rilevato che al-

cuni bambini hanno sviluppato un quoziente

di intelligenza (Q.I.) inferiore alla norma.

Allo stato attuale delle conoscenze, si stima

che la diminuzione del Q.I. sia proporzio-

nale all’aumento della dose di esposizione,

con una perdita di circa 30 punti del Q.I. per

sievert.

Tra la sedicesima e la venticinquesima set-

timana il ritardo mentale è meno probabile,

ma non si può escludere, così come non si

possono escludere ritardo di crescita, sterili-

tà, malformazioni, cataratta, microencefalia

e neoplasie maligne.

Dalla ventiseiesima settimana il feto diventa

più resistente, tuttavia non si possono esclu-

dere ritardo di crescita, sterilità, cataratta,

microencefalia e neoplasie maligne.

È importante ribadire comunque che, nel-

la malaugurata ipotesi che la radioterapia

sia terapia salvavita per una paziente in

stato di gravidanza, la decisione spetta

alla paziente, eventualmente supportata

dai familiari. I valori di dose ed i dan-

ni qui riportati non possono costituire un

parametro su cui fondare una decisione

delicata ed impegnativa, né tantomeno ci

si può basare su dati generici ricavati da

Internet. L’analisi del rischio di danno può

essere effettuata solo dallo specialista in

Oncologia Radioterapica o in Genetica, o,

sempre più spesso, da entrambi in colla-

borazione. Essi, sulla base di conoscenze

specifiche cliniche ed epidemiologiche e

della necessaria valutazione della dose

assorbita ai gameti, all’embrione o al feto,

effettuata dal Fisico Medico rigorosamen-

te caso per caso, sono gli unici specialisti

deputati a fornire informazioni specifiche

a supporto delle decisioni delle pazienti.

Per quanto riguarda l’ASSISTENZA

A FAMILIARI SOTTOPOSTI A RA-

DIOTERAPIA, è bene affermare con

molta forza che un corpo irradiato non

diventa radioattivo, e quindi non emette

radiazioni ionizzanti; le donne in gravi-

danza o in età fertile che assistono fami-

liari sottoposti a radioterapia con fasci

esterni o a brachiterapia con sorgenti non

permanenti non possono assorbire dose

dai familiari. Nel caso di brachiterapia

con impianti permanenti o di radioterapia

metabolica, invece, il materiale radioatti-

vo viene introdotto all’interno del corpo,

sia in forma liquida sia in forma solida,

e quindi per le donne in gravidanza, così

come per i bambini, è importante che l’e-

lemento radioattivo all’interno del pazien-

te perda pericolosità; per questo motivo si

devono seguire scrupolosamente tutte le

raccomandazioni che vengono di norma

illustrate prima dell’effettuazione della

terapia, e vengono impartite dall’Esperto

Qualificato.

Esse si riferiscono ad un concetto fonda-

mentale della radioprotezione: se non vi

è un motivo di necessità accertata o di

urgenza, nessuno deve ricevere indebi-

tamente dose di radiazione, e a maggior

ragione individui in stato di fragilità, e si

possono riassumere in tre regole da ri-

spettare:

• lasciare trascorre il maggior

tempo possibile tra l’esecuzione

dell’impianto e il contatto tra donna

in gravidanza e paziente portatore di

impianto; le sorgenti radioattive uti-

lizzate in clinica per impianti perma-

nenti perdono nel tempo la loro ef-

ficacia terapeutica e pericolosità, sia

perché la quantità di atomi che può

decadere si riduce fino ad un livello

trascurabile, sia perché, nel caso di

sorgenti liquide, il materiale viene

eliminato attraverso il normale meta-

bolismo;

• se il contatto è necessario, ri-

durre il tempo del contatto con la sor-

gente di radiazione, ovvero il pazien-

te stesso (meno tempo=meno dose) e

la donna in gravidanza, e, nel caso di

radioterapia metabolica, anche con

indumenti, biancheria ed oggetti con

cui il paziente viene a contatto;

• aumentare la distanza tra la

sorgente (il paziente stesso) e la don-

na in gravidanza; sostare in stanze di-

verse da quelle in cui vive il paziente.

Tutte e tre le regole hanno lo scopo

di riportare il rischio di effetti nocivi

a quello abitualmente incontrato du-

rante una normale gravidanza, così

come per i bambini e le donne in età

fertile.

Anche in questo caso è comunque

fondamentale ricorre al parere degli

esperti in materia, e non ricorrere a

notizie reperite da Internet, che pos-

sono essere non correlabili alla situa-

zione specifica da affrontare.

9 Un Fisco Medico del CRO di Aviano spiega effetti e

precauzioni per salvaguardare le donne e la loro fertilità

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Un’eccellenza in centro Italia nell’unità operativa di ortopedia di Ascoli Piceno

La coxartrosi

prima dell’artrosi di Concetto Battiato

L’eziologia dell’osteoartrosi è stata classicamente definita “primitiva” nei

casi ad eziologia legata ad una non specificata meiopragia costituzionale del-

la cartilagine articolare e “secondaria” nei casi legati a deformità congenite

od evolutive, a traumi, a necrosi, etc.

Pertanto il trattamento dell’osteoartrosi considerandola una patologia “dina-

mica” dovrebbe comprendere combinazioni di trattamenti conservativi/fisio-

terapici e trattamenti chirurgici di diversa tipologia. Infatti in caso di devia-

zioni assiali meccanicamente rilevanti, instabilità, lesioni intra-articolari che

comportino disfunzioni della cinetica coxo-femorale la correzione dovrebbe

essere causale ed effettuata prima dell’insorgenza della degenerazione. Nei

casi invece giunti a gradi clinico-radiografici di artrosi avanzata l’intervento

chiave è la sostituzione protesica. Per molti anni la ricerca farmacologica ha

tentato invano di trovare farmaci che potessero interferire con l’avanzamento

del processo degenerativo artrosico o addirittura potessero ricostituire i tes-

suti danneggiati.

Oggigiorno prende sempre più corpo che la coxartrosi cosiddetta primitiva in

realtà non lo sia e questo sta ovviamente cambiando l’approccio terapeutico

di tale patologia avvalorando sempre più un approccio non protesico all’anca.

Studi recenti supportano l’ipotesi che questa artrosi primitiva sia in realtà

secondaria a meccanismi di impingment femoro-acetabolare.

Quattro decadi fa , Murray ipotizzò una relazione tra una conformazione del

femore prossimale, la cosiddetta “tilt deformity” e lo sviluppo precoce di ar-

trosi coxofemorale. Tale deformità veniva interpretata come una forma lieve

di epifisiolisi a minimo scivolamento ed il femore prossimale veniva

assimilato,all’immagine di un “pistol grip”

Dopo le osservazioni di Murray, seguiro-

no quelle di Solomon in Sud Africa e di

Harris negli USA e l’osteoartrosi cosid-

detta idiopatica o primitiva veniva consi-

derata causata da deformità che vengono

recentemente chiarite ed organizzate in

modo completo da Ganz nella sindrome

da femoroacetabular impingement (FAI).

Tale sindrome da conflitto avviene più

frequentemente nella zona anterosupe-

riore dell’articolazione nel movimento di

intrarotazione con anca flessa a 90°. Sono

stati descritti due classi di impingement:

il tipo “CAM” , prevalente nei giovani maschi, causato da una patomorfo-

logia dell’offset tra collo e testa del femore che nel movimento dell’artico-

lazione provoca una delaminazione cartilaginea dell’acetabolo (outside-in)

ed un secondo tipo detto “PINCER”, prevalente nelle femmine di mezza età

causato da un impatto più lineare tra una ipercopertura acetabolare locale

Dott. Concetto Battiato Primario unità operativa Ortopedia

Area vasta 5 Ascoli Piceno

Email: [email protected]

(acetabolo retroverso) o generale (coxa

profunda/protrusio). In quest’ultimo

meccanismo il danno cartilagineo avvie-

ne più lentamente e coinvolge prevalen-

temente il bordo acetabolare. Comunque

più sovente il meccanismo dell’imping-

ment è di tipo misto con predominanza

di CAM.

Prima di formulare l’ipotesi di un im-

pingment femoro-acetabolare occorre

escludere tutte le forme infiammatorie

secondarie quali l’artrite reumatoide, la

spondilite anchilopoietica, la Sindrome

di Reiter, il lupus, così come le forme da

gotta, iperostosi, calcium pyrophosphate

disease (CPDD) ed emocromatosi. Van-

no altresì escluse le osteonecrosi aset-

tiche e le infezioni articolari nonché le

forme displasiche congenite od acquisite

quali la coxa valga subluxans, l’epifisio-

lisi ed il morbo di Legg-Calvé-Perthes.

In alto il meccanismo a pincer crea un

impatto lineare anteriore causato dall’i-

percopertura acetabolare. La prima strut-

tura ad essere danneggiata è il labrum

aceta bolare che può fessurarsi e presen-

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tare una degenerazione con neofor-

mazioni a ganglion. Col tempo si avrà

l’ossificazione sottolabrale che a sua

volta aggraverà l’impingment. Queste

lesioni sono ben visibili all’artrormn.

Con il tempo la cartilagine adiacente

andrà incontro a degenerazione e solo

successivamente a distanza di ulterio-

re periodo verrà coinvolta la testa del

femore nella zona postero-inferiore

per lesioni da contraccolpo

In questo caso l’offset patologico tra

testa e collo femorale crea un conflit-

to tra femore ed acetabolo che risulta

più distruttivo rispetto al pincer ma

all’inizio meno doloroso per un minor

coinvolgimento del labrum ricco di

nocicettori. Ciò infatti spiega l’osser-

vazione di una minore sintomatologia

riportata dal maschio affetto da CAM

impingment rispetto alla femmina

pincer.

Il paziente tipo è un uomo intorno ai

50 anni di età con un passato da atle-

ta con una storia di dolori intermittenti

innescati dalla posizione seduta statica

o dinamica (squats) ed il test che evi-

denzia il sintomo è la rotazione interna

ad anca flessa.

Diagnostica:

Esami radiografici: Proiezioni antero-

posteriore dell’anca affetta più falso

profile di Lequesne e laterale di Dunn o

Ducroquet. In tali radiografie si studia-

no i profili della giunzione testa-collo

femorale, la sfericità della testa femo-

rale, la copertura acetabolare relativa

ad eventuale retroversione o protrusio-

ne.

ArtroRMN: conferma la forma ovoi-

dale o sferica della testa femorale, il

profilo della giunzione testa-collo, la

conformazione acetabolare, ma in par-

ticolare identifica le lesioni labrali e

cartilaginee.

Trattamento. Si parla quindi oggi di

HIP PRESERVING SURGERY, di

artroplastiche che intervengano prima

delle manifestazioni artrosi che avan-

zate, interferendo con l’evolutività de-

generativa del processo di impingment.

Le metodiche descritte dalla scuola

Bernesi del Prof. Ganz sono di artro-

plastiche a cielo aperto mediante l’ac-

cesso chirurgico da lui ideato del FLIP

Trochanter, capace di conservare la va-

scolarizzazione della testa femorale.

Esiste anche una scuola artroscopia

che su alcune lesioni descrive risultati

sovrapponibili alla metodica open. Lo

scopo della chirurgia è quello di cor-

reggere le anomalie morfologiche del-

la giunzione testa collo ristabilendo la

conformazione concava fisiologica e

in caso di problema aceta bolare in-

tervenire eliminando l’overcoverage.

I risultati riportati in letteratura sono

più che soddisfacenti nell’80% dei

pazienti.

Ovviamente i risultati sono miglio-

ri nei casi operati precocemente in

assenza della degenerazione secon-

daria articolare. Risulta però diffi-

cile convincere un paziente pauci/

asintomatico che presenti limitazione

dell’escursione articolare in flessione-

intrarotazione a sottoporsi ad accerta-

menti e poi ad intervento chirurgico.

Per questo il medico di famiglia che

conosce questa patologia può essere

un valido “screener” di tale forma pre-

artrosica e successivamente un aiuto

alla scelta terapeutica del paziente in

un processo di decision-making che

coinvolgerà anche lo specialista orto-

pedico.

Rigenerazione cartilaginea attraverso fattori

proteici di crescita tissutale

per info [email protected]

11

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Morbo di Alzheimer o Diabete III di Federica Sciacca

Dott. Samorindo Peci, laurea in medicina e chirurgia con laude

all’Università Cattolica del Sacro Cuore Roma,

dottorato di ricerca in scienze endocrinometaboliche

ed endocrinochirurgiche sperimentali.

Specializzato in endocrinochirurgia e psiconcologia.

Direttore scientifico del Centro di Ricerca

Cerifos Milano

In genere ha un inizio subdolo: ci si comincia a dimenticare alcune cose e si finisce per arrivare a non riconoscere nemmeno i familiari più stretti. La demenza di Alzheimer che colpisce la memoria e le funzioni cognitive, oggi riguarda circa il 5% delle persone con più di 60 anni, e in Italia si stimano circa 500 mila ammalati, numeri che confermano questa patologia come una tra le più diffuse nella nostra civiltà. Ma i ricercatori di Cerifos, il Centro di Ricerche e Formazione Scientifica sulle malattie rare nel settore endocrinologico e immunologico, non hanno dubbi: oggi il morbo di Alzheimer può essere affrontato all’insorgenza e combattuto con successo. Il team del centro di studi Cerifos già da anni, infatti, conduce studi spe- cializzati in questo campo, parallelamente a quelli sul Diabete di tipo II. Approfondiamo l’argomento con il direttore scientifico del Centro, il dot- tor Samorindo Peci.

Dottor Peci, ci spieghi la sua innovativa definizione del Morbo di Alzheimer come Diabete III, e cosa hanno in comune questa due patologie

Oggi ritengo che sia importante considerare l’Alzheimer all’interno di un dismetabolismo dovuto principalmente al metabolismo degli zuccheri e al mancato apporto del glucosio al cervello causato da un deficit di funziona- mento del recettore insulinico. Bisogna, infatti, partire dal fatto che il cervello per il suo funzionamento necessita di circa 100-150 g di glucosio al giorno, ma il sangue ne può immagazzinare soltanto 5 g e quindi serve un approvvigionamento con- tinuo. Si tratta di un processo in cui è fondamentale il ruolo del recettore insulinico che, quando riconosce la presenza d’insulina, manda un segnale all’interno della cellula e fa sì che si apra un varco nella membrana cellu- lare nell’ esatto momento in cui necessita. Ciò che condividono Diabete e Morbo di Alzheimer però è proprio il difetto del ricettore insulinico, che mentre nell’Alzheimer riguarda il ricettore insulinico del sistema nervoso centrale, nel diabete quello delle cellule ß del pancreas. Un legame che giustifica anche il fatto, ormai risaputo, che il diabetico soffre molto più frequentemente di Morbo di Alzheimer rispetto a chi non ne è affetto. Ed è proprio a causa del deficit di questo recettore che si formano all’inter- no del tessuto cerebrale le temutissime placche amiloidi che, pian piano, fanno perdere efficienza ai neuroni fino a portarli alla morte: un proces- so di degrado, questo, abbastanza lento, che inizia molti anni prima della comparsa dei sintomi e che man mano si diffonde fino a raggiungere l’ip- pocampo, la struttura deputata al processo di memorizzazione. In sostanza quindi, più i neuroni muoiono, più le zone del cervello colpite iniziano a

rimpicciolirsi e il cervello comincia ad avere “fame di zucchero”. Ed è a questo punto che si rendono vi- sibili i primi segni di demenza.

Qual è la soluzione secondo gli studi condotti dai ricercatori di Cerifos?

La soluzione, almeno in parte, si chiama galattosio, uno zucchero che, a differenza del glucosio, per es- sere assorbito dalle cellule non richiede né l’insulina né il suo recettore, che come abbiamo visto mal fun- zionano nei pazienti colpiti dalla malattia. Il galatto- sio, infatti, per arrivare all’interno della cellula usa un canale preferenziale detto GLUT 3, e per questa ragione è l’unico elemento nutrizionale che può arre- stare la fame di zucchero del cervello. Se pensiamo, inoltre, che il galattosio è lo zucchero del latte materno, strettamente quindi legato alla cre- scita e alla strutturazione cellulare, intuiamo facil- mente a quale elemento primordiale ed essenziale ci stiamo avvicinando: per la rigenerazione del sistema neutotrasmettitore, danneggiato da patologie dege- nerative tra cui l’Alzheimer, utilizziamo in pratica lo stesso principio che viene utilizzato per il bambino per riparare, generare o rigenerare il sistema neuro- logico. Con questo, lo puntualizzo, non stiamo dicendo che il galattosio è la cura d’elezione per il Morbo di Alzheimer, ma che certamente questo zucchero può migliorarne notevolmente la sintomatologia, come ha anche dimostrato di fare nei nostri studi. Inoltre, visto che stiamo parlando di uno zucchero facilmente reperibile e somministrabile, ne consi- glio l’uso profilattico a tutti come integrazione ali- mentare: il galattosio infatti penetrando facilmente la cellula, nella quale viene trasformato in glucosio, senza appesantire altri organi, attiva un processo di assorbimento che appare particolarmente utile anche nelle performance sportive. Col riconoscimento dell’importanza del metaboli- smo degli zuccheri sta diffondendosi dunque l’iden- tificazione del Morbo di Alzheimer quale diabete di

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I vantaggi del galattosio

• Assimilazione indipendente dall’insuli- na, senza così incorrere in una sottrazione dell’insulina in forma enzimatica da parte del fegato.

• Compensazione del deficit di glucosio (utile al cuore)dovuto a stress metabolico.

• Disintossicazione endogena (eliminazio- ne di ammoniaca, elemento notevolmente tossico a livello neurologico per tutti i deficit di memoria).

• Metabolizzazione degli aminoacidi, quindi migliore assimilazione delle catene proteiche.

• Effetto anabolico con liberazione delle tossicità proteiche.

• Miglioramento delle prestazioni neurolo- giche.

• Assorbimento del glicogeno, soprattutto nella muscolatura, con miglioramento della funzionalità epatica enzimatica ed allon- tanamento delle complicanze cardiache da deficit metabolico.

• Garanzia di un metabolismo equilibrato

Le cause della malattia, il suo legame con il diabete di tipo II

e l’approccio terapeutico

secondo il Centro di Ricerca e Formazione Scientifica Cerifos.

Intervista al dottor Samorindo Peci

tipo III.

Quali sono stati i risultati raccolti finora dagli studi di Cerifos?

Abbiamo osservato miglioramenti dei valori glicemici in pazienti di Alzheimer con diabete di tipo ll. Ad esempio, in uno dei miei studi più recenti a pazienti con MCI (Mild Cognitive Impairment) è stato sommi- nistrato quotidianamente galattosio per sei mesi. Inizialmente, a metà e al termine della fase di intervento, è stata verificata la prestazione cognitiva con diversi tipi di test, nel corso dei quali sono stati riscontrati migliora- menti significativi in settori specifici delle funzioni cerebrali. I risultati di questo studio pilota fanno sperare che la somministrazione di galattosio migliori l’apporto di energia alle cellule cerebrali tanto da impedirne il decadimento pur con l’avanzare dell’età. Infine, un altro studio proiettato verso malati di diabete II con sommi- nistrazione bisettimanale di galattosio 10% in forma endovenosa e con assunzione orale di 10 g. giornalieri, ha evidenziato un notevole miglio- ramento dei valori della glicemia, riportandoli alla soglia entro 3 mesi. Questo lavoro verrà presentato in primavera a Gerusalemme International Conference on Neuroplasticity and Cognitive Modifiability.

Cosa mi dice su chi obietta che ci sono pubblicazioni scientifiche che evidenziano invecchiamento cerebrali dovuto all’utilizzo del galattosio?

Intanto è soltanto una e non è uno studio sul galattosio. Si tratta di un lavo- ro sull’efficacia di un’altra molecola, nel quale si è utilizzato il galattosio per accelerare il processo di invecchiamento del topo. Non per altro si usano i topi, perché il topo mostra, dato il suo ristretto tempo di vita, mol- to più velocemente i processi d’invecchiamento. Questa tempistica vie- ne ulteriormente accelerata, somministrando un fattore di crescita come il galattosio, ad un dosaggio cento volte superiore a quanto l’organismo del topo potrebbe sopportare. Usare quest’argomento per affermare che il galattosio fa degenerare il tessuto cerebrale significa non saper leggere una pubblicazione scientifica e farne un uso strumentale, da parte di chi ignora o di chi ha paura che il proprio orticello venga scalfito da una intergrazione cosi banale.

Qual è l’approccio giusto alla patologia secondo Cerifos?

Innanzitutto, un dato essenziale è lo stadio della malattia: intervenire ai primi sintomi migliora di molto la prognosi. Il protocollo è composto in quattro fasi, personalizzabili in base alle rispo- ste individuali. Per noi le novità terapeutiche, completamente biologiche, utilizzate per la patologia dell’Alzheimer oltre al galattosio da somministrare in miniflebo per la terapia d’attacco e in soluzione os in posologia di mantenimento, sono gli aminoacidi combinati, che servono per attivare la respirazione cellulare e gli estratti cellulari per la rigenerazione dei tessuti. E grazie al contributo di Merck Sharp & Dohme, Homo Novus e ATP, tutte aziende tedesche che hanno collaborato con noi per la produzione di queste mole- cole combinate, stiamo avendo risultati eccellenti. Non meno importante, infine, è la nutrizione chetogenica che affianca il tutto.

In cosa consiste la nutrizione chetogenica?

È un tipo di alimentazione a supporto delle malattie neurologiche. In caso di diagnosi di Alzheimer riteniamo utile affrontare una nutrizione preva- lentemente proteica facendo prevalere el proteine vegetali a quelle ani- mali senza introdurre carboidrati, se non nel giorno di riequilibrio il tutto monitorato dal ketur test che indica il valore di chetoni prodotti nell’orga-

nismo, questo comunque è un atto medico, devono essere presi in considerazione molti fattori funziona- li e fisiologici e monitorati nel tempo. Questo tipo di alimentazione prevede che venga in- crementata l’assunzione di acqua e vieta le bibite dolcificate, lo zucchero e il dolcificante, affronatto un nuovo modello culturale zuccherino attraverso l’utlizzo di altri zuccheri meno complessi e meno necessari per essere assimilati dall’insulina. L’olio, inoltre, deve essere extravergine d’oliva spremuto a freddo e deve sempre essere usato a crudo, e infine la verdura va cotta a vapore oppure grigliata. Dopo i primi dieci giorni e previo consulto col me- dico, poi, si può provare a reintrodurre piccole dosi di carboidrati, utilizzando i carboidrati meno com- plessi.

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DAL FUTURO UNO SGUARDO

ALLA MEDICINA DEL PASSATO

di Fabio Catalano

Le esplorazioni terrestri, subacquee,

stratosferiche e astrofisiche del conti-

nente più remoto ed inaccessibile del

pianeta costituiscono, tra l’altro, un

buon elemento di studio delle reazioni

fisiche e psicologiche dell’uomo alla

sopravvivenza in ambienti e condizioni

estreme in vista di un possibile viaggio

interplanetario. In Antartide, infatti, i

ritmi circadiani si stravolgono a causa

di una luce diurna di 24 ore per sei mesi

e di un buio notturno di 24 ore per altri

sei mesi. In realtà l’alba ed il crepusco-

lo antartico riducono il buio a circa 4

mesi l’anno. La temperatura ambienta-

le, inoltre, scende durante l’inverno a 80

gradi sottozero ed oltre. I venti posso-

no raggiungere i 300 Km/h. L’umidità

dell’aria è quasi assente al punto che,

pur trattandosi di un continente delle

dimensioni di una volta e mezzo l’Eu-

ropa interamente ricoperto da ghiaccio,

viene considerato il deserto più esteso

della Terra.

In tali condizioni la sopravvivenza è

consentita da un ottimo stato di salute,

da un abbigliamento tecnologicamente

evoluto, da ambienti adeguatamente ri-

scaldati. Gli “esploratori” sono in realtà

studiosi particolarmente specializzati

nelle rispettive aree di competenza e

tecnici di alta professionalità in grado di

sopperire alle numerose esigenze logi-

stiche.

In tutto questo sistema altamente tec-

nologico e specialistico viene richiesta

la figura di uno o due medici che sia-

no meno specializzati possibile visto

che si trovano ad operare da soli sen-

za nessuna possibilità di aiuto esterno

come invece avverrebbe in un ambiente

sviluppato. Per coloro che hanno più di

qualche capello bianco, ammesso che

abbiano ancora capelli, un richiamo alla

gloriosa figura del medico condotto for-

se può indicare la tipologia professio-

nale richiesta. Era un medico tuttofare,

dalla medicina interna alla otorinolarin-

goiatria, dalla ostetricia all’odontoiatria

e, paradossalmente, i suoi pazienti gli

dimostravano stima e affetto. Dico pa-

radossalmente in quanto la logaritmica

evoluzione dell’arte medica nel dispera-

to tentativo di assimilarsi ad una scien-

za esatta ha recentemente dimostrato

quanto, più di ogni altra branca, si sia

sviluppata soprattutto la “medicina di-

fensiva”. Nel mondo occidentale ed in

ossequio alla evoluzione tecnologica

non solo si sono sviluppate molteplici

branche specialistiche, ma siamo addi-

rittura giunti ad una superspecializza-

zione. Nel mio caso, essendo ortopedi-

co e … con i capelli bianchi o almeno

brizzolati, ho assistito alla comparsa di

super branche come l’artroscopia e già

intravedo iperspecialisti dedicati solo

alla spalla o solo al ginocchio.

Se volessimo partecipare ad un bando di

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concorso per essere medico di spe-

dizione su una navicella in partenza

per Marte, ammesso e non conces-

so che sia prevista la presenza di

un medico dato lo spazio ristretto a

bordo, come dovremmo qualificar-

ci? Essere un buon internista non

coprirebbe l’esigenza di effettuare

un intervento chirurgico d’urgen-

za, pur avendo a disposizione tut-

ta lo strumentario necessario così

come un anestesista, normalmente

pronto ad affrontare una situazione

di emergenza avrebbe difficoltà a

trattare una frattura. E se fosse ne-

cessario trattare una pulpite?

Cosa può fare il mondo della me-

dicina per prepararsi ad affron-

tare le sfide del futuro, beninteso

senza nulla togliere alla necessità

di avere professionisti prepara-

ti adeguatamente per fronteggia-

re le problematiche del presente?

Potrebbe sembrare un paradosso

dopo quanto ho appena scritto, ma

probabilmente occorrerebbe una

… specializzazione in “Medicina

degli Ambienti Estremi”.

Occorre ripartire da una materia

quale la “semeiotica”, ultimamen-

te troppo trascurata vista la facilità

con cui gli esami strumentali pos-

sono aiutarci nella diagnosi. E la

logica deduttiva che partendo dalla

anamnesi patologica prossima, e

non solo, e dai segni di un accurato

esame obiettivo ci induca a restrin-

gere il campo delle possibilità. An-

che se tutto ciò può sembrare anti-

storico tali radici dell’arte medica

costituiscono ancora oggi ciò che

differenzia il medico dal tecnico.

In un ambiente remoto, ove la dia-

gnostica strumentale non puo sup-

portare il medico se non in minima

misura, la sua abilità diagnostica,

prima ancora della sua capacità te-

rapeutica, costituisce un elemento

fondamentale che può fare la dif-

ferenza nella tutela della salute del

singolo componente del team o di

tutto il team. Certo non bisogna ri-

fiutare a priori ciò che la tecnolo-

gia può metterci a disposizione, ma

per questioni di spazio e per i costi

da affrontare non si può prevedere

di avere a disposizione quanto nor-

malmente è presente in un ambien-

te ospedaliero.

Un sicuro vantaggio per il medi-

co di spedizione può derivare, e

di fatto in Antartide deriva, da una

approfondita visita medica di sele-

zione prima della partenza. Avere

la certezza di confrontarsi con una

popolazione sana limita di per sé il

campo delle possibili patologie in-

sorgenti. Non tutto può escludersi

dato che non è possibile, anche per

motivi medico-legali, ricorrere a

diagnostica invasiva e che la forte

motivazione individuale potrebbe

indurre i candidati a “trascurare”

di informare l’esaminatore circa

alcune patologie pregresse o alcuni

sintomi importanti, tuttavia l’espe-

rienza di 25 anni di attività in am-

biente remoto non mi ha mai evi-

denziato problematiche che siano

sfuggite alla selezione medica.

Non è questa la sede per gettare il

sasso nello stagno, ma, forse, un

maggiore ricorso ad una semeio-

tica accurata riservando il ricorso

alla diagnostica strumentale solo al

chiarimento di dubbi o incertezza

potrebbe essere di aiuto anche alle

disastrate risorse economiche della

sanità nel nostro Paese.

Boswellia Carterii Boswellia Carteri o incenso africano

Immunomodulante, antinfiammatorio, antiflogistico, antidolorifico, antiedemigeno. Coadiuvante nelle malattie infiammatorie croniche, reumatiche e autoimmuni, colite

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Original Article

Boswellia serrata Acts on Cerebral Edema in Patients Irradiated for Brain Tumors A Prospective, Randomized, Placebo-Controlled, Double-Blind Pilot Trial

Simon Kirste, MD1; Markus Treier, MD2; Sabine Jolie Wehrle, MD1; Gerhild Becker, MD3; Mona Abdel-Tawab, PhD4;

Kathleen Gerbeth4; Martin Johannes Hug, PhD5; Beate Lubrich, PhD5; Anca-Ligia Grosu, MD1; and Felix Momm, MD1

Boswellia serrata (BS) is an extract of Indian frankincense. There are very few published data about the effects of BS in brain

edema and brain tumors. The most promising study came from Streffer et al,1 who investigated the use of the BS prepara-

tion H15 in 12 patients with cerebral edema and demonstrated a clinical or radiological response in 8 of 12 patients.

Boeker and Winking2 had similar results in a small prospective study. In a systematic review, Ernst3 found 7 controlled

clinical trials investigating the anti-inflammatory effects of BS. These studies were related to the treatment of asthma,

rheumatoid arthritis, Crohn disease, collagenous colitis, and osteoarthritis. No serious safety issues were raised in any of

the published BS trials. We conducted a randomized, placebo-controlled, double-blind study to investigate the efficacy of

BS on cerebral edema in patients irradiated for brain tumors.

MATERIALS AND METHODS

Patients A total of 44 patients were enrolled in the trial. Demographic, tumor, and radiotherapy data are depicted in Table 1. The 2 randomly assigned groups were well balanced. The CONSORT flow chart for the study is given in Figure 1. All patients received whole brain radiotherapy or partial brain radiotherapy to more than 60% of brain volume. Whole brain radiotherapy was planned by 2-dimensional x-ray simulation, whereas partial brain radiotherapy was 3-dimensional

Corresponding author: Felix Momm, MD, Department of Radiation Oncology, University Hospital Freiburg, Robert-Koch-Str. 3, 79106 Freiburg, Germany; Fax:

(011) 49-761-270-9547; [email protected]

1Department of Radiation Oncology, University Hospital Freiburg, Freiburg, Germany; 2Department of Neuroradiology, University Hospital Freiburg, Freiburg, Ger-

many; 3Palliative Care Unit, University Hospital Freiburg, Freiburg, Germany; 4Central Laboratory of German Pharmacists, Eschborn, Germany; 5Pharmacy of the

University Hospital Freiburg, Freiburg, Germany

DOI: 10.1002/cncr.25945, Received: August 27, 2010; Revised: December 19, 2010; Accepted: December 28, 2010, Published online February 1, 2011 in Wiley

Online Library (wileyonlinelibrary.com)

3788 Cancer August 15, 2011

BACKGROUND: Patients irradiated for brain tumors often suffer from cerebral edema and are usually treated with

dexamethasone, which has various side effects. To investigate the activity of Boswellia serrata (BS) in radiotherapy-

related edema, we conducted a prospective, randomized, placebo-controlled, double-blind, pilot trial. METHODS:

Forty-four patients with primary or secondary malignant cerebral tumors were randomly assigned to radiotherapy

plus either BS 4200 mg/day or placebo. The volume of cerebral edema in the T2-weighted magnetic resonance imag-

ing (MRI) sequence was analyzed as a primary endpoint. Secondary endpoints were toxicity, cognitive function, qual-

ity of life, and the need for antiedematous (dexamethasone) medication. Blood samples were taken to analyze the

serum concentration of boswellic acids (AKBA and KBA). RESULTS: Compared with baseline and if measured imme-

diately after the end of radiotherapy and BS/placebo treatment, a reduction of cerebral edema of >75% was found in

60% of patients receiving BS and in 26% of patients receiving placebo (P ¼ .023). These findings may be based on an

additional antitumor effect. There were no severe adverse events in either group. In the BS group, 6 patients reported

minor gastrointestinal discomfort. BS did not have a significant impact on quality of life or cognitive function. The

dexamethasone dose during radiotherapy in both groups was not statistically different. Boswellic acids could be

detected in patients’ serum. CONCLUSIONS: BS significantly reduced cerebral edema measured by MRI in the study

population. BS could potentially be steroid-sparing for patients receiving brain irradiation. Our findings will need to be

further validated in larger studies. Cancer 2011;117:3788–95. VC 2011 American Cancer Society.

KEYWORDS: brain edema, brain tumor, Boswellia serrata, radiotherapy, supportive care.

16

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Boswellia serrata for Cerebral Edema/Kirste et al

Table 1. Demographic, Tumor, and Therapy Data

Boswellia Placebo

Age, y, mean (range) 60 (32-74) 58 (39-83)

Sex, male/female 12/10 12/10

Smoker, y/n/former 8/11/3 7/12/3

Tumor, n

Primary brain tumor 4 7

(glioblastoma)

Metastases, n Lung cancer

NSCLC 8 6

SCLC 3 2

Breast cancer 2 4

Melanoma 2 2

Ovarian cancer 1 1

Kidney cancer 1 0

Esophageal cancer 1 0

Therapy

Total dose, Gy, mean 38 40

Dose/fraction, Gy, mean 2.5 2.4

radiotherapy in the brain; (4) age >18 years; and (5) writ- ten informed consent. Exclusion criteria were (1) Karnof-

sky index <50; (2) pregnancy; (3) dexamethasone >24 mg/day before radiotherapy; and (4) lack of adequate physical/psychological condition to provide written informed consent.

BS and Placebo

After careful advice from pharmacists considering con- tents, standardization, and availability, the BS product H15 (350 mg; Hecht Pharma, Stinstedt, Germany) was selected for use in the study. H15 does not contain any other ingredients apart from BS. The capsules were bought by the pharmacy of the University Hospital Frei- burg. Lot numbers of the product were exactly listed. The manufacturer was not informed about the trial.

After consulting with a pharmacologist, the dosage in the active treatment group was set at 4200 mg/day

Duration of radiotherapy

and BS/placebo, wk, mean

3.0 3.3 (3x4 capsules/day), primarily because of potential diffi- culties associated with swallowing a large number of cap-

NSCLC indicates non-small cell lung cancer; SCLC, small cell lung cancer;

BS, Boswellia serrata.

computed tomography planned (Oncentra MasterPlan,

sules. Because BS is available as a dietary supplement and no considerable adverse effects have been reported, there was no defined maximum dose. It is noteworthy that

2

Nucletron, Veenendaal, The Netherlands). Radiotherapy Boeker and Winking reported better results with 3600

was delivered by a 6MeV linear accelerator (Varian Clinac 600C).

Study Design

In Germany, H15 (the Boswellia preparation used for the current study) is sold as a dietary supplement. Because H15 has no reported adverse effects, a classical phase 1 dose escalation study to find a maximum tolerated dose was deemed unnecessary, and we decided to conduct a pilot trial. A double-blind, randomized design was selected to obtain data reflecting the smallest bias possible. The study did not change the well-established radiother- apy for brain tumors in any way, and it did not pose an extra risk for the patients.

All patients gave written informed consent to partici- pate in the study. The study was approved by the ethics committee of the Albert-Ludwigs-University Freiburg and was performed according to the Declaration of Helsinki.

Inclusion and Exclusion Criteria

Inclusion criteria were (1) primary brain tumor or brain metastases; (2) radiotherapy of whole or part of the brain

(>60% of brain irradiated) with a dose of 30-60 Gy in a fractionation of 5 x 1.8-3.0 Gy/week; (3) no former

mg BS extract than with 2400 mg and reported no effects with 1200 mg.

Placebo capsules contained the excipient lactose.

Blinding and Randomization

Randomization was performed by a pharmacist using a computer-generated randomization schedule over 48 treatment numbers. Allocation was performed using bal- anced blocks of 4 distributing BS/placebo 1:1. A consecu- tive treatment number was allocated to the individuals included in the trial.

For blinding, H15 capsules were sealed in another capsule in the pharmacy. Using these double-layer capsu- les, the characteristic smell of BS could not be perceived. Placebo capsules containing lactose were produced with the same coating. Supply for 1 week was transferred into plastic boxes, which were labeled with the individual patient treatment number.

The BS/placebo capsules were delivered to the Department of Radiation Oncology at University Hospi- tal Freiburg. For security reasons, envelopes for emer- gency decoding were also transferred to blinded staff. The randomization code was kept in the pharmacy until the study ended and the database was closed. No emergency envelope was opened. This procedure ensured that all

Cancer August 15, 2011 3789

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Original Article

Figure 1. A CONSORT flow diagram for the study is shown.

patients and staff were blinded. Additionally, the primary endpoint was rated by an independent neuroradiologist who did not know the patients and only disposed of the magnetic resonance images.

Study Course After providing written informed consent, patients received the BS/placebo in consecutive order following the randomization list in a box containing 84 capsules for

1 week (3X4 capsules/day starting with the first day of radiotherapy). Baseline examinations and weekly study visits (physical examination, EORTC-QLQ 30, mini- mental state, Common Toxicity Criteria [CTC], dexa- methasone medication) were performed by a physician. On every study visit, each patient returned the empty box and received the BS/placebo for the next week. After con- sidering the clinical status of each patient, the necessary dexamethasone dose was defined. At the end of radiother-

apy, BS/placebo was discontinued. The first follow-up visit occurred 4 weeks after the end of radiotherapy.

Study Endpoints The primary study endpoint was cerebral edema volume on T2-weighted magnetic resonance imaging (MRI) after therapy compared with volume at baseline (ie, before the

start of radiotherapy). Edema volume (cm3) was calcu- lated by multiplying the edema extent in 3 directions (x, y, z). Midline shift and size of ventricles were also meas- ured. MRI imaging was performed at 3 time points: before the start of therapy, at the end of therapy, and 4 weeks after the end of radiotherapy (plus BS/placebo).

The secondary endpoints of the study were dexa- methasone medication (mg/week), toxicity (RTOG/ EORTC-CTC score), quality of life (average functioning scales of the EORTC-QLQ 30), cognitive functioning (mini-mental state examination), and progression-free

3790 Cancer August 15, 2011

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Boswellia serrata for Cerebral Edema/Kirste et al

survival. In addition, serum levels of boswellic acids were measured via high-performance liquid chromatography combined with mass spectrometry.

Dexamethasone dose was determined by each patient’s clinical situation before and during therapy. The dose was increased when symptoms of intracranial pres- sure occurred; it was decreased when the patient was asymptomatic. Because the study was a double-blind one, the physicians responsible for the dexamethasone dose did not introduce a bias. Dexamethasone doses were given as median and range, because the mean values were biased by single outliers. Data about the duration of steroid ther- apy prior to beginning radiotherapy were not collected.

Serum Levels of BS

Serum levels of boswellic acids have been shown to reach a peak 1-2 hours after oral ingestion and plateau 2 hours

later.4 The specified pharmacokinetic profile was verified in a test with a male subject; after oral ingestion of 1750 mg BS (H15), serum levels of the boswellic acids AKBA and KBA were measured hourly for 6 hours. This test proved that it was possible to take patients’ blood samples during the plateau phase at any time of the day.

Extracts from different Boswellia species consist of

different boswellic acid compounds.5 The BS preparation used (H15) is known to contain AKBA and KBA in rele-

vant concentrations.6 In the test subject, KBA serum levels up to 34.23 ng/mL were found. AKBA was found in low serum concentrations, with a maximum of 2.83 ng/mL and a minimum of 1.16 ng/mL, which is near the detec- tion limit. AKBA could not be shown in the study patients’ serum. This may be due to concentrations below the detection limit of 1 ng/mL.

Measurement of boswellic acid concentrations was performed in the Central Laboratory of German Pharma- cists (Eschborn, Germany). The blood samples were cen-

trifuged, and the serum was frozen at �80�C

immediately. The high-performance liquid chromatogra- phy/tandem mass spectrometry method for analysis has been published elsewhere.4

Statistics

In addition to descriptive statistics, the Wilcoxon rank

test (BS group versus placebo group) for significance (P < .05) was performed. For 2-sided testing, a power of 80% and a ¼ 0.05 a sample size of n ¼ 19 for each group was calculated and rounded up to n ¼ 20 per group. For better demonstration of the results, edema response was classi- fied according to the following groups: (1) increase of

Figure 2. Results are shown for the primary endpoint: relative

volume of cerebral edema compared with baseline for Bos- wellia serrata versus placebo after therapy and at follow-up (4 weeks after therapy).

edema, >105% of baseline (5% error); (2) constant edema, 75%-105% of baseline; (3) slight decrease of edema, 25%-75% of baseline; (4) large decrease of edema,

<25% of baseline. The raw data were the basis for statisti- cal testing.

Analysis of progression-free survival was performed using the Kaplan-Meier method and log-rank test. For data management and statistical calculations, Microsoft Excel 2002, jmp 5.01 (SAS Institute), and Sigma Plot 8.0 (SPSS) were used.

RESULTS

MRI Measurements

At the end of radiotherapy and at the first follow-up visit the relative changes of edema volume compared with baseline were evaluated. At the end of radiotherapy, 60% of patients who had received BS reached a decrease of

edema to <25% of baseline values or showed no edema at all. In the placebo group, only 26% of patients reached this optimal outcome (Figure 2). At that point, 13% of BS group patients and 21% of placebo group patients had

an increase of edema volume to >105% of the baseline value. At follow-up, 4 weeks after the end of therapy and

Cancer August 15, 2011 3791

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Original Article

Figure 3. T2-weighted magnetic resonance images of a patient from the Boswellia serrata group with metastases from lung cancer (adenocarcinoma) are shown (a) at baseline, (b) after radiotherapy, and (c) at follow-up (4 weeks after radiotherapy).

after discontinuing BS or placebo, the changes of edema volumes in both groups converged again (Figure 2).

The measured and calculated average volume of edema at baseline was 188.4 mL (range, 0-617.3 mL) in the placebo group and 159.3 mL (range, 0-506.2 mL) in

the BS group (P ¼ .86). During radiotherapy, these values

changed to 97.4 mL (range, 0-346.8 mL) in the placebo group and 45.7 mL (range, 0-264.0 mL) in the BS group

(P ¼ .023). After 4 weeks of follow-up, the values were

83.3 mL (range, 0-352.7 mL) and 73.9 mL (range, 0- 413.1 mL), respectively.

Typical MRI pictures of a patient receiving BS are shown in Figure 3. This patient did not need any dexa- methasone while on radiotherapy.

Stratifying the patients into primary and secondary brain tumors did not change the results. Due to low patient numbers in the subgroups, stratified results were not significant.

Because tumor response on radiotherapy may have a remarkable effect on edema outcome, this endpoint was investigated carefully. In the BS patients, tumor volume

(biggest lesion) changed from an average of 24.4 cm3

before radiotherapy to 2.9 cm3 after radiotherapy com-

pared with 19.9 cm3 to 16.1 cm3 in the placebo group.

This difference was statistically significant (P ¼ .008). Tu- mor response was also evaluated according to Response Evaluation Criteria In Solid Tumors (RECIST). In the placebo group, 18% of patients had progressive disease (PD), 36% stable disease (SD), 36% partial response (PR) and 10% complete response (CR). In the BS group, 0% had PD, 62% had SD, 25% had PR, and 13% had CR.

To investigate whether the BS group was experienc- ing primary edema reduction or secondary edema reduc- tion via a decrease in tumor volume, the ratio of T1-

weighted MRI tumor volume and T2-weighted MRI edema volume (T1/T2 ratio) was calculated. Before ther- apy, this ratio was 0.11 in the placebo group and 0.15 in the BS group. After therapy, it was 0.15 in the placebo group and 0.06 in the BS group. This may be a hint for the edema reduction by BS depending on an additional antitumor effect.

The MRI measurements of midline shift and the size of ventricles correlated with edema size but did not adduce significant results.

Use of Dexamethasone In the placebo group as well as the BS group, the median value of dexamethasone dose was 0 mg/wk before and during therapy. The ranges before therapy were 0-84 mg/ wk in the placebo and 0-112 mg/wk in the BS group. The ranges during therapy were 0-122 mg/wk in the placebo group and 0-84 mg/wk in the BS group. These differences were not statistically significant.

Adverse Effects Common adverse effects of radiotherapy were the same in the placebo and the BS group (dermatitis, alopecia). Symptoms of increased intracranial pressure (nausea, vomiting, dizziness, epileptic seizures, and headache) recorded by RTOG/EORTC-CTC score are shown in Table 2. Two patients had grade 3 and 4 toxicity, both of whom were in the placebo group (nausea grade 3 in 1 patient and epileptic seizure grade 4 in 1 patient). The patient with the epileptic seizure had to discontinue radio- therapy and the study.

In 6 patients from the BS group, diarrhea grade 1-2 occurred compared with no patients from the placebo

3792 Cancer August 15, 2011

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Boswellia serrata for Cerebral Edema/Kirste et al

Table 2. Intracranial Pressure Symptoms During Therapy, Numbers of Patients

Boswellia Placebo

CTC grade 0 1 2 3 4 0 1 2 3 4

Nausea 16 5 1 0 0 18 3 0 1 0

Vomiting 20 0 2 0 0 21 1 0 0 0

Dizziness 15 4 2 0 0 19 2 1 0 0

Epileptic seizures 22 0 0 0 0 21 0 0 0 1

Pain grade (VAS 0-10) 0 1-2 3-4 5-6 >6 0 1-2 3-4 5-6 >6

Headache 11 4 4 2 0 16 2 0 4 0

CTC indicates Common Toxicity Criteria; VAS, visual analogue scale.

group. There occurred no other adverse effect associated with the BS group or placebo group.

Many patients had a significant problem swallowing 12 relatively large capsules of BS or placebo per day, but most of the patients learned to cope with this problem. One patient who had metastases from esophageal cancer could not swallow the capsules. Two patients refused to further swallow the capsules and discontinued the study in the first treatment week.

Quality of Life and Mental Functioning The median Karnofsky index of the BS and placebo patients at baseline was 70 and 80, respectively. It did not change remarkably during radiotherapy (80 and 70 at the end of radiotherapy). After 4 weeks of follow-up the me- dian Karnofsky index was 80 in both groups. All differen- ces were not statistically significant.

Quality of life was measured using the EORTC QLQ-30 questionnaire at baseline, after radiotherapy, and after 4 weeks of follow-up. Using the functional scales (physical, role, emotional, cognitive and social function- ing, and global health status), the patients in the placebo and the BS group at baseline reached an average score of

55.9 and 54.3 points, respectively (maximum, 100 points). After radiotherapy and after 4 weeks of follow- up, the BS group scored slightly better, with 58.6 and 61.3 points, respectively, compared with 56.2 and 53.8 points in the placebo group. The differences were not stat- istically significant. All patients had a comparatively low quality of life.

In addition to the EORTC-QLQ 30 questionnaire, the patients underwent a mini-mental state test (MMT). The average MMT score at baseline was 28 points in the placebo group and 29 points in the BS group (maximum, 30 points). At the end of radiotherapy and after 4 weeks of follow-up, the BS patients reached an average of 27 and 29 points, respectively, versus 28 and 26 points in the pla-

Figure 4. A Kaplan-Meier plot is shown for progression-free survival. Patients who failed died or had tumor recurrence; patients who were censored were alive and were recurrence-

free at their last visit (log-rank test, BS versus placebo; P ¼ .68).

cebo group. The differences were not statistically significant.

At baseline, 100% of EORTC-QLQ 30 and MMT questionnaires in both groups were evaluable. After radio- therapy, 81% of the EORTC-QLQ 30 and 80% of the MMT questionnaires were evaluable. After 4 weeks of fol- low-up, 55% of the EORTC-QLQ 30 and 55% of the MMT questionnaires were evaluable. Missing question- naires were due to patient noncompliance or death shortly after therapy. This may bias the quality of life results.

Progression-Free Survival Progression-free survival, which could be a parameter for an antitumor effect of BS, did not differ between the 2 groups. This is shown by Kaplan-Meier plots in Figure 4

Cancer August 15, 2011 3793

21

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Original Article

(P ¼ .68; log-rank test, BS vs placebo). The median fol- low-up time was 250 days.

Boswellic Acid Serum Levels To prove BS uptake in the patients, the serum levels of the boswellic acids KBA and AKBA were measured. AKBA could not be shown in any of the 48 examined samples (concentration under the detection limit), and KBA was not shown in any of the 24 placebo patient samples. In 19 of the 24 BS samples, an average concentration of 64.9 ng/mL (range, 5.12-153.49 ng/mL) KBA was seen. In 5 of the BS samples, no KBA was found. Two of these samples came from patients who did not continue the study later on; 3 samples came from patients whose other samples were positive and who had difficulties with medication compliance.

In the patient with the highest BS serum levels (5 samples, all positive with an average KBA concentration of 123.1 ng/mL [range, 53.25-153.49 ng/mL]) one of the largest edema reductions was observed. His edema volume was reduced by more than 300 mL from baseline to the time after radiotherapy.

DISCUSSION In addition to spiritual use, Boswellia or frankincense has been used as a medication for hundreds of years.7 In recent years, mechanisms of action of boswellic acids have

been identified.8 Takada et al9 showed that AKBA can potentiate apoptosis, inhibit invasion, and abolish osteo- clastogenesis in different human cancer cell lines. The mechanism of these actions was found to be a suppression of nuclear factor jB (NF-jB) and NF-jB-regulated gene expression. It was further shown that boswellic acids pos- sess potent anti-inflammatory properties in vitro by inhib- iting 5-lipoxygenase, human leukocyte elastase, and the

NF-jB pathway.10,11 Cathepsin G was identified as

another target of boswellic acids.11

In clinical research, positive effects of boswellic acids in the treatment of inflammatory diseases could be

shown.3,12 There exist clinical trials about the use of bos-

wellic acids in asthma,13 rheumatoid arthritis,14 Crohn

disease,15 collagenous colitis,16 and osteoarthritis of the

knee.17,18 To our knowledge, there exist only first clinical observation results for the treatment of cerebral edema by

boswellic acids.1,2

In our study, patients taking BS extract had signifi- cantly less cerebral edema than patients taking placebo,

whereas the median dexamethasone dosage was the same in the BS and the placebo group.

As cerebral edema and its inflammatory processes are major causes of morbidity in brain tumor patients the treatment of these phenomena has always been of high importance. The most effective medication for cerebral edema patients is steroids, in most cases dexamethasone. However, steroids have reasonable adverse effects as immunosuppression, mental changes, or even Cushing syndrome. Furthermore, there is evidence that dexameth- asone influences cancer therapies through stabilization of blood-brain and blood-tumor barriers and reduction of

tumor perfusion.19 Several years ago, it was shown that the use of steroids influences vascular response to radia-

tion20 and directly inhibits apoptosis in human malignant

glioma cells.21 However, in spite of strong efforts, an adequate replacement medication for dexamethasone has not been found yet. Boswellic acids could be the basis for

a new kind of anti-inflammatory and thus antiedema medication with decreased adverse effects, the additional induction of apoptosis, and no modulation of drug (and

radiation) sensitivity.19 In addition to the first clinical

results,1,2 our study may be a further step in this direction. In this study, patients receiving BS showed a better

tumor response to radiotherapy. This was not a planned endpoint, and therefore, it has to be considered carefully. Nevertheless, this observation may be a hint to a cytotoxic or radiosensibilizing effect of BS which will have to be investigated in further studies with long-time BS medica- tion. It also has to be determined whether the impact of BS on cerebral edema may be caused by an antitumor

effect. The prospective, randomized, placebo-controlled,

double-blind design of this study makes its results highly reliable. Nevertheless, the study will have to be confirmed by a phase 3 trial. In the design of such a study, some weaknesses of the reported trial should be considered. First, most of the patients had problems swallowing 12 large capsules a day; future trials should attempt to pro-

vide the boswellic acids in a more concentrated form.22

Another possibility could be the development of a BS product with an isolated acting component and applicable intravenously. Second, considering the excellent toxicity profile of BS, a phase 3 study should use an even higher dose, particularly if the BS product can be more highly concentrated. Third, the food of the patients on study

should be closely observed. It was shown by Sterk et al23

that food intake can remarkably change the bioavailability of boswellic acids. By adding fat to normal nutrition, the

3794 Cancer August 15, 2011

22

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Boswellia serrata for Cerebral Edema/Kirste et al

serum levels of BS could be further increased. Fourth, the measurement of quality of life should be better adapted to the situation of brain tumor patients; neither the MMT nor the EORTC QLQ 30 seems to be the best instrument for quality of life measurements in this context. A further study might use more individual instruments tested in

palliative care, such as the SEIQoL.24 Fifth, duration of dexamethasone medication before the study should be recorded, and an exact schedule for decreasing dexametha- sone dose should be given. Finally, the effect of BS on the tumor should be included as a study endpoint.

A future phase 3 trial should consider the most im- portant points for a potential clinical benefit of BS: an effect on cerebral edema with possible reduction of the necessary dexamethasone dose and an antitumor effect. It will have to be investigated whether both are reflected in patients’ quality of life.

In our patients, BS significantly reduced cerebral edema measured by MRI. There were no severe adverse events concerning BS. The results of this study do not sug- gest the use of BS as a replacement of dexamethasone in patients treated with brain irradiation; nevertheless, they show that BS could allow for steroid sparing. The study will have to be confirmed by further investigations.

CONFLICT OF INTEREST DISCLOSURES The authors made no disclosures.

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Cancer August 15, 2011 3795

23

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a cura Anna Frisinghelli FESC

UO Cardiologia riabilitativa

AO “G Salvini” - Garbagnate Milanese MI

Cardiologia riabilitativa ancora troppo pochi i pazienti che ne usufruiscono

La Cardiologia Riabilitativa (CR) è un processo multifattoriale,

attivo e dinamico, che ha come fine quello di favorire la stabi-

lità clinica, di ridurre le disabilità conseguenti alla malattia e di

supportare il mantenimento e la ripresa di un ruolo attivo nella

società, con l’obiettivo di ridurre il rischio di successivi even-

ti cardiovascolari, di migliorare la qualità di vita e di incidere

complessivamente in modo positivo sulla sopravvivenza.

Nel nuovo millennio, di fatto possiamo affermare che la CR

è quella branca della cardiologia clinica che si occupa del pa-

ziente cardiopatico post-acuto nella sua totalità, avvalendosi di

una équipe multidisciplinare capace di lavorare in team [1]. E’

quindi un intervento a lungo termine, omnicomprensivo, arti-

colato in diversi momenti complementari tra loro: valutazione

medica/cardiologica; ottimizzazione della terapia; prescrizio-

ne dell’esercizio fisico; correzione dei fattori di rischio CV;

counselling.

Oggi, in Europa e in USA, vi è accordo sul fatto che un inter-

vento di CR - quando indicato e appropriato - migliori l’outco-

me dei pazienti rispetto alla “usual care”, e questa branca della

cardiologia è ampiamente riconosciuta come il modello stan-

dard per il trattamento globale del paziente cardiopatico in fase

post acuta o cronica, rappresentando il modello più efficace e

cost-effective per una prevenzione secondaria efficace.

Per questi motivi, la CR è raccomandata con il più alto livello

di evidenza (classe I) dalle Linee Guida (LG) ESC e ACC/AHA

per il trattamento dei pazienti affetti da cardiopatia ischemica,

scompenso cardiaco cronico o da esiti di recente cardiochirur-

gia.

Tuttavia, nonostante le raccomandazioni delle LG, nel mondo

reale le cose vanno diversamente. Come dimostrato nel 2008

dalla survey ISYDE, che ha raccolto dati

relativi all’attività di 165/190 centri di CR

su tutto il territorio italiano, solo 1/3 circa

dei pazienti eleggibili a interventi di CR

usufruisce effettivamente di tali program-

mi (e ciò è ancora più evidente per i pa-

zienti con scompenso, che solo nel 12%

circa dei casi risultavano avviati a un pro-

gramma di CR).

E’ evidente quindi che esistono delle bar-

riere all’accesso alla CR, che sono di tipo

culturale (l’assistenza cardiologica, nel

nostro Paese, ma non solo, è culturalmente

orientata più verso la fase acuta che verso

la fase post-acuta o cronica; ne consegue

la scarsa richiesta di accesso alle strutture

riabilitative da parte di quelle per acuti per

una sottovalutazione dell’importanza di

questo collegamento e per una sopravva-

lutazione dei risultati a lungo termine dei

trattamenti effettuati in fase acuta), e anche

di tipo economico (il problema della soste-

nibilità di programmi di esercizio e preven-

zione secondaria articolati in prestazioni

multidisciplinari e quindi apparentemente

costosi; il grande numero di pazienti po-

tenzialmente candidati a CR a fronte di una

recettività ancora insufficiente, soprattutto

nelle regioni del Centro-Sud).

In realtà, come già detto, è dimostrato che

24

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la CR è un intervento con un rapporto costo-efficacia molto

favorevole, sia dopo un evento coronarico che dopo un episo-

dio di scompenso; che è un intervento in grado di migliorare

la prognosi, riducendo le ospedalizzazioni e quindi le spese

per l’assistenza; e che i costi della CR per anno di vita salvato

sono paragonabili a quelli di altre terapia consolidate.

Quali sono le peculiarità di un programma di CR?

Il programma può essere ambulatoriale (percorso più agile e

meno costoso, indicato per i pazienti a “basso rischio”), oppu-

re degenziale (programmi intensivi, più complessi, di tipo om-

nicomprensivo), indicata per pazienti a “rischio medio-alto”.

Questi sono soggetti a rischio di nuovi eventi o di instabilizza-

zione clinica (ad es., pazienti con FE <35%, classe NYHA >II,

aritmie ipo- o ipercinetiche, o con necessità di terapia infusi-

va), oppure con decorso post-chirurgico complicato (ad es.,

per prolungata degenza in terapia intensiva, e/o necessità di

assistenza respiratoria), con complicanze “evento-correlate”

(ictus, embolia polmonare, necessità di reintervento, versa-

menti pleuropericardici massivi, infezioni, ferite complicate,

decubiti), con importanti comorbilità (BPCO, insufficienza re-

spiratoria cronica, IRC, diabete scompensato, deficit cognitivi,

disautonomie, fragilità), o con difficoltà logistico-assistenziali

e/o socio-assistenziali (questi ultimi soggetti sono in netto in-

cremento numerico negli ultimi anni). Qualsiasi programma

di CR (sia degenziale che ambulatoriale) deve assicurare co-

munque a tutti i pazienti un counselling sulla condizione di

malattia, sulle terapie a lungo termine, sulle abitudini di vita

(anche con percorsi strutturati tipo quelli degli “ambulatori

anti-fumo”).

L’esercizio fisico costituisce un elemento centrale dei pro-

grammi di CR (livello di evidenza 1+, grado di raccomanda-

zione A). Si raccomanda (possibilmente in ambiente supervi-

sionato), un programma di attività fisica aerobica della durata

di almeno 8 settimane a cadenza tri-settimanale, e di intensità

moderata (50-70% della frequenza cardiaca massimale), com-

binato con esercizi di potenziamento muscolare (30-50% del-

la massima contrazione volontaria. In seguito,

si raccomanda di continuare lo stesso tipo di

training a domicilio, il più a lungo possibile.

Quali sono quindi gli obiettivi di un program-

ma di CR ben strutturato e ben proposto?

Schematicamente, identifichiamo degli obiet-

tivi a breve termine (perseguire la stabilità

clinica; limitare le conseguenze fisiologiche e

psicologiche della malattia; migliorare la ca-

pacità funzionale, incrementando il grado di

autonomia e indipendenza), e degli obiettivi a

medio/lungo termine, che forse sono nell’im-

mediato meno apprezzabili perché più diffi-

cilmente inquadrabili dagli indicatori di esito,

ma che rivestono – come è intuibile – grande

importanza (ridurre il rischio di successivi

eventi/ospedalizzazioni, e questo soprattutto

per lo scompenso cronico; e ridurre la mor-

talità).

UO Cardiologia Garbagnate Milanese

25 Controindicazioni all’esercizio fisico

ASSOLUTE

- Recente instabilizzazione clinica (soprattutto per lo scompenso cronico)

- Aritmie ventricolari non controllate

- Ischemia a bassa soglia - Pericardite

- Stenosi aortica emodinamente significativa (grado medio-grave)

- Significative comorbilità contestuali (anemia grave, episodi infettivi)

- Ipertensione non controllata

RELATIVE (il singolo caso deve essere valutato dal Cardiologo)

- (per lo scompenso cardiaco cronico) segni di possibile peggioramento / instabilizzazione

(aumento del peso, contrazione della diuresi, peggioramento della dispnea)

- Tachicardia a riposo - Extrasistolia ventricolare, aritmie ipocinetiche

Calo pressorio durante esercizio - Insufficienza renale grave

- Diabete scompensato

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Andare oltre

verso l’eccellenza di Federica Peci

Un’azienda italiana invidiata nel mondo Tenacia, passione, intuito, ricerca. Una costante voglia

di andare oltre, di superare i propri confini, di capire le

esigenze e di trovare, primi fra tutti, le soluzioni, solo

con la forza delle proprie idee. Si può riassumere così la

storia imprenditoriale della famiglia Giglio, oggi a capo

del Gruppo Giglio, un’azienda che ha cambiato pelle

molte volte negli anni, cercando di spingersi sempre un

po’ più in là, fino a diventare oggi una delle realtà più

innovative nella tecnologia applicata alla gestione dei

farmaci.

È, infatti, una lunga storia quella del gruppo, iniziata a

Piacenza nel 1948 da Bruno Giglio, trasportando che-

rosene: prima la vendita di combustibili, poi la trasfor-

mazione in un’azienda di servizi per gli impianti della

gestione di calore, e poi ancora con il nome di Ingegne-

ria Biomedica Santa Lucia, al fianco di suo fratello Ser-

gio, l’ulteriore passo in avanti nel futuro, come azienda

di manutenzione di apparecchiature medicali. Fino ad

oggi, agli allori con la logistica del farmaco.

«Abbiamo dei competitor ma nessuno che fornisca un

sistema integrato come il nostro» racconta Paolo Gi-

glio, figlio di Bruno, oggi giovane trentenne, parte at-

tiva dell’azienda sia nel settore commerciale che nello

sviluppo estero. «Il progetto –spiega- è nato circa sette

anni fa.

Da tempo l’azienda si occupava di gestione e manuten-

zione delle apparecchiature medicali, servizio che anco-

ra oggi continuiamo a portare avanti, essendo una delle

realtà più significative in questo settore in Italia, ed è

stato proprio lavorando a stretto contatto con le strut-

ture ospedaliere che ci siamo resi conto di quelle che

erano le difficoltà e le problematiche che là sul campo

si affrontavano quotidianamente soprattutto per quanto

riguardava la gestione del processo dei farmaci, dei pro-

fili di rischio legati alla possibilità di errori e dell’as-

senza di strumenti di controllo idonei nel percorso che

fa il farmaco dalla farmacia fino alla somministrazione

al paziente. Basti pensare che, mediamente, il dato

di errore nella somministrazione, secondo la lettera-

tura medica, è di circa il 5%.

Degli sprechi in termini economici, poi, neanche a

parlarne: basta vedere la crescita costante dell’am-

montare della spesa pubblica. E allora, è da lì che si

è fatta strada l’idea: perché non provare a riorganiz-

zare, automatizzando tramite un software, il proces-

so di gestione dei farmaci?

Dall’idea al progetto, poi, c’è voluto un costante la-

voro di ricerca e sviluppo, anche perché i nostri in-

gegneri, per scelta aziendale, per mettere a punto un

software che rispondesse a tutti i criteri di semplici-

tà, sicurezza e dinamicità che si volevano ottenere,

non si sono affidati alle realtà già esistenti, ma ne

hanno fatto uno tutto nuovo, solo nostro. Una cosa

che è stata possibile anche grazie a una politica di

grandi investimenti: abbiamo rischiato molto, prima

ancora di avere un cliente, ed è stato questo il nostro

successo, crederci fino in fondo».

Logistica del farmaco, un software di gestione: di

cosa si tratta in pratica?

«Il processo in fondo è semplice e gestito e con-

trollato dal software in tutte le sue fasi. Si parte già

26

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dalla prescrizione medica che avviene via software: il medico,

infatti, la registra identificandola univocamente, grazie ad un

incrocio di codici a barra visto che anche ciascun paziente ha

il proprio, e il software dopo averla registrata,la comunica alla

farmacia ospedaliera e al nostro stabilimento per la prepara-

zione delle dosi unitarie, un impianto che abbiamo costruito

a Gragnanino, vicino a Piacenza, secondo gli standard di si-

curezza più avanzati e in conformità con le normative GMP

(Good Manufacturing Practice).

Con la supervisione dal nostro personale, tecnologie di roboti-

ca avanzata confezionano le monodosi di farmaci, tagliando le

confezioni dei medicinali in porzioni di blister e riducendole

così in dosi unitarie. Ognuno di questi blister viene poi con-

fezionato e racchiuso automaticamente in bustine dotate dei

corrispondenti codici a barre e contenenti tutte le informazioni

necessarie relative al medicinale contenuto (come ad esempio

data di scadenza, lotto di lavorazione, specialità medicinale,

principio attivo etc.. etc..)

A questo punto -continua a spiegare Paolo Giglio- i farmaci

monodose vengono spediti fisicamente ai reparti ospedalieri

presso i quali installiamo degli appositi armadi robotici capaci

di preparare automaticamente e in tempo reale, la terapia per

ogni singolo paziente sulla base della prescrizione elettroni-

ca fatta dal medico. Un brevetto internazionale di Ingegneria

Biomedica Santa Lucia di cui siamo molto orgogliosi. Quando

arriva, quindi, l’ora della consueta somministrazione, gli infer-

mieri, che sono tutti istruiti alla gestione del sistema, così come

i medici, grazie all’attività di formazione costante per l’utiliz-

zo del software che organizziamo presso le strutture ospeda-

liere da noi servite, attaccano il carrello di somministrazione

a questi armadi automatici che scaricano la

terapia prescritta per ogni singolo paziente

appartenente a quello specifico reparto, po-

nendola direttamente negli appositi cassetti.

Da lì si passa alla somministrazione. Anche

se in realtà prima della somministrazione

vera e propria, a garanzia della massima

sicurezza, si fa ancora un ultimo controllo,

sempre da parte del software per verificare

la corrispondenza dei codici a barre tra te-

rapia e paziente: un double check finale che

consente così di eliminare del tutto il rischio

di errore e che garantisce che ogni paziente

abbia la sua terapia corretta. Dati alla mano,

infatti, abbiamo portato il rischio di errore

allo 0,001%».

Un sistema, che tra l’altro, come spiega Pa-

olo Giglio, è funzionale e strategico anche

dal punto di vista dei costi. «Selezionare i

farmaci giusti e nelle corrette quantità ha

permesso anche di tagliare gli sprechi, sia

perché le farmacie, avendo una reale foto-

grafia dei consumi possono ottimizzare la

spesa, sia perché grazie al pieno controllo

informatico e alla tracciabilità dei farmaci,

si evita che questi nel flusso vadano persi,

oppure che scadano prima di essere utilizza-

ti. Anche la gestione delle scadenze, infatti,

è un grandissimo vantaggio del sistema».

E da quella prima installazione fatta nel 2008

all’ospedale San Martino di Genova. Infatti,

i numeri che gravitano intorno all’Ingegne-

ria Biomedica Santa Lucia non hanno fatto

che crescere: per fare qualche esempio, oggi

il Gruppo Giglio conta circa 450 dipenden-

27

Rivoluzionario contributo italiano alla riduzione dei costi del SSN.

La logistica del farmaco annulla sprechi e errori di somministrazione.

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28 ti (la maggior parte dei quali ha un’età media di 29 anni)

e gestisce circa 9000 posti letto complessivi sul territorio

nazionale.

«È stato un lavoro lungo di continuo sviluppo e di conti-

nui miglioramenti, un work in progress che ha visto anche

un dialogo costante con il Ministero della Salute, special-

mente in fase di progettazione del nostro stabilimento. Per

me- racconta - la cosa più entusiasmante è stata proprio

questa: vedere il progetto trasformarsi man mano e modu-

larsi sempre con l’obiettivo di essere più efficiente. Io sono

entrato nell’azienda di mio padre e mio zio quando tutto

era ancora in fase di sviluppo. All’inizio quindi cercavo

solo di assimilare, di ascoltare, poi però pian piano mi sono

buttato a capofitto nel lavoro e me ne sono innamorato,

fino a quando non ho avuto l’idea di rischiare ancora e pro-

vare ad abbattere i confini, cioè fare quello che mi hanno

insegnato mio padre e mio zio: andare oltre.

Così il mio obiettivo adesso è diventato quello di importare

il progetto anche fuori dall’Italia, e da un po’ lavoro per

cercare di estendere l’iniziativa in particolare al mercato

inglese: viaggiando mi sono infatti reso conto che tutte le

realtà ospedaliere si confrontano con problematiche simili

e, pur avendo ciascun sistema sanitario le proprie specifi-

cità, le finalità e le relative sfide sono le medesime. Perché

quindi non allargare questo

progetto anche in altre realtà?».

E a sentirlo parlare, Paolo Giglio, il fervore nei confronti

di questo progetto lo si sente tutto. Sarà la passionalità che

deriva anche dal suo amore per le arti che ha nel duo DNA,

una passione che continua a portare avanti a pari passo con

il suo lavoro nel gruppo: «Ho sempre avuto una propensio-

ne artistica. Sin da bambino amo l’arte e il disegno, e oggi,

grazie anche all’appoggio dei miei genitori che hanno sem-

pre sostenuto e che l’hanno anche alimentata, sono iscritto

alla Facoltà di Storia dell’Arte a Londra, città che coniuga

così il mio progetto di espansione del software del farmaco

e la mia voglia di studiare e imparare in questo

campo. Così di sera, quando ho finito il mio la-

voro, mi dedico alla storia dell’arte. Infatti, non

avrei mai creduto nella vita di fare un lavoro che

mi portasse ad avere a che fare con informatici

e ingegneri- ride-.Ma poi, facendolo ho scoperto

di quanto fosse importante la creatività in questo

campo. Creatività che poi, magari a differenza

delle arti, diventa reale, capace di trasformare

le cose del mondo, e di migliorarlo anche, pur

se in piccola parte. È questa, credo, la cosa più

bella: l’aver trovato in questo progetto la possi-

bilità di creare ogni giorno di più qualcosa che

sia capace di coniugare due aspetti che non sono

sempre facilmente conciliabili: l’aspetto econo-

mico e quello sociale. Se da un lato, infatti, si

abbattono i costi e gli sprechi razionalizzando

la spesa, dall’altro si garantisce a tutti i pazienti

il corretto trattamento terapeutico. Con sicurez-

za e senza possibilità di errore. Mi sembra una

grande cosa».

Così oggi dalla voce di Paolo Giglio sembra ri-

echeggiare quella del padre Bruno che qualche

anno fa, in occasione della sua investitura uffi-

ciale a Cavaliere del Lavoro, alla domanda fat-

ta dal presidente Giorgio Napolitano: “Ma cosa

sono esattamente questi farmaci monodose?”

aveva risposto: «Apparecchiature innovative

che permetteranno di salvare molte vite umane.

Uno degli aspetti del progetto che mi rende più

orgoglioso».

Paolo Giglio

Già da sette anni il Gruppo Giglio

ha collaudato un nuovo modello orga-

nizzativo per informatizzare il precorso

del farmaco in ospedale: un processo

capace di ridurre la spesa sanitaria e

soprattutto il rischio di errore di som-

ministrazione. Il futuro?

Esportare il progetto in altri Paesi:

parola di Paolo Giglio.

Page 29: Rivista Trimestrale anno I, Nr. 1 - medicinadifrontiera.it file24 Cardiologia riabilitativa di Anna Frisinghelli 26 Andare oltre verso l’eccellenza di Federica Sciacca 29 Piede diabetico

Il piede diabetico L’ozono nella cura delle

ulcere diabetiche Il piede diabetico è un quadro clinico di notevole

complessità, in cui le alterazioni vascolari (ma-

cro-microangiopatia) e nervose che caratteriz-

zano l’evoluzione della malattia diabetica sono

alla base di lesioni ulcerative spesso complicate

da sovrainfezioni batteriche.

I quadri clinici possibili sono

molteplici: si va dalla sempli-

ce distrofia della cute e degli

annessi a vere e proprie ulce-

re trofiche, fino alle più gravi

complicanze infettive come la

gangrena umida.

La comparsa di manifestazio-

ni ulcerative e/o gangrenose

delle estremità inferiori avviene frequentemen-

te anche in presenza di un efficace controllo dei

fattori favorenti (iperglicemia,

ipertensione arteriosa, fumo,

etc.) e di adeguate norme igie-

nico-profilattiche specifiche; la

progressione della distruzione

tissutale è spesso inesorabile,

con comparsa continua di nuove

zone necrotiche e progressivo

coinvolgimento dei piani sotto-

fasciali. In questi casi si impone

il ricorso all’intervento chirurgi-

co demolitivo.

La National Commission on

Diabetes (USA) ha calcolato che

il 5-15% dei diabetici va incon-

tro ad un’amputazione nel corso della vita. I risul-

tati dell’amputazione sono d’altronde deludenti,

con una mortalità del 34% nei primi 30 giorni

dall’intervento, mortalità che sale al 45, 58, 71

e 76% rispettivamente a 1, 2, 3 e 4 anni dall’in-

tervento. Uno studio italiano ha confermato so-

stanzialmente questi dati, con il 36% dei pazienti

sottoposti ad amputazioni deceduti nei 30 giorni

successivi all’intervento.

Da ciò si evince che non sempre il tradizionale

approccio terapeutico, e cioè l’ottimizzazione del

compenso metabolico, l’uso di antibiotici mira-

ti sull’antibiogramma, il courettage giornaliero,

l’uso di antisettici locali basati sul topogramma,

dà i risultati sperati per cui l’amputazione diviene

l’unico rimedio alla situazione evolutiva.

L’ulcera è infatti un fenomeno complesso, espressione di uno stato

ipossico ed ischemico che nella maggior parte dei casi è complicato

da sovrainfezione batterica. Quando l’ossigeno diminuisce si ha la

degenerazione del tessuto stesso e la comparsa dell’ulcera.

Nei casi di ulcere cutanee croniche, cioè lesioni tissutali che non

guariscono attraverso i normali proces-

si riparativi, l’obiettivo è prima di tutto

il controllo dell’essudato e la protezione

della cute perilesionale. L’ozono e le me-

dicazioni avanzate adsorbenti ad azione

antisettica portano alla diminuzione della

carica batterica, dell’essudato, della fre-

quenza del cambio delle medicazioni e

del dolore.

Nella gran parte dei pazienti dopo terapia

con ozono e medicazioni si ha la scomparsa dell’infezione batterica

e la progressiva guarigione dell’ulcera. Nelle arteriopatie obliteran-

ti dell’arto inferiore si assiste in sei settimane all’au-

mento dei tempi di marcia e alla diminuzione del do-

lore. Di fronte ad un paziente arteriopatico avanzato

(3° e 4° stadio), spesso candidato all’amputazione di

un arto, oggi è possibile avvalersi dell’ozonoterapia

che può salvare l’arto ischemico. L’ozono agisce su

flusso ematico, fattori reologici, emoglobina, (au-

menta la capacità di cedere ossigeno ai tessuti), ha

una potente azione antibatterica ed antimicotica ed

immunomodulatrice.

L’ozono è presidio terapeutico convenzionato con il

Sistema Sanitario Regionale Lombardo da circa ven-

ti anni per la cura delle ulcere, grazie al suo effetto

scientificamente dimostrato emoreologico, antimi-

crobico e cicatrizzante. Il trattamento del piede dia-

betico con ozono rappresenta un doppio vantaggio: evita interventi

demolitivi con conseguenze pesanti sulla vita del paziente e costi a

lungo termine per il SSN.

Queste due immagini mostrano il risultato di un

trattamento di due mesi su un’ulcera diabetica

Prof. Marianno Franzini

Presidente

Società Scientifica Ossigeno

Ozono Terapia

www.ossigenoozono.it

[email protected]

Tel.: 035/300903

29

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Un figlio a tutti i costi?

Anche se siamo bombardati dal problema del sovrappopola-

mento della nostra Terra, nei paesi industrializzati e in quelli in via

di sviluppo il tasso di fertilità è in continua diminuzione.

Lo stile di vita, le difficoltà economiche, ma anche la diffusione

della contraccezione portano le donne a posporre la prima gravi-

danza nel terzo decennio di vita, aumentando così il rischio di

malattie sessualmente trasmesse, fibromi uterini, endometriosi,

sindrome dell’ovaio policistico e anovulazione cronica, tutti fattori

che interferiscono con la procreazione.

Per di più le donne, ma anche gli uomini, arrivano al momento in

cui decidono di avere un figlio in una situazione di stress ormai

cronicizzato e magari dopo essere stati esposti lungamente a in-

quinanti ambientali.

Ci si trova così davanti a coppie estremamente nervose, preoccu-

pate del trascorrere del tempo e disposte a tutto pur di veder realiz-

zato il loro desiderio di un figlio.

“Ma la Natura ha i suoi tempi e le sue regole ed è giunto il momen-

to di comprendere che una gravidanza è il risultato naturale dello

stato di salute della coppia, che un figlio non può essere soltanto

il risultato della competenza tecnico-scientifica di un laboratorio

di inseminazione artificiale” mi dice il Dott. Samorindo Peci, di-

rettore scientifico di Cerifos Italia e di Forschung-Med Germania,

che ha messo a punto con la sua équipe una linea di ricerca clinica

multidisciplinare sulla fertilità, che verrà portata avanti in tutte le

sedi Cerifos. ”Oggi le pazienti che si rivolgono ai nostri centri,

sono convinte che basti avere delle mestruazioni più o meno rego-

lari per essere in grado di procreare, anche se si

è passata la quarantina. In realtà la fertilità inizia

a declinare già verso i 30 anni e si riduce drasti-

camente dopo i 35-40 anni. Sempre più vediamo

donne che si rivolgono a noi per altre patologie,

che hanno come “effetto collaterale” la difficoltà

a rimanere incinte.

Il nostro progetto di ricerca si ispira alle linee

guida internazionali che incoraggiano a definire

l’infertilità come un cofattore di un quadro di

salute alterato e come fattore prognostico allo

sviluppo di patologie future. La mancata procre-

azione deve essere considerata ormai un sintomo

di un qualcosa che non va nello stato di salute

della donna, un campanello d’allarme che deve

portarci ad un approccio multidisciplinare, in

grado di affrontare via via tutte le possibili cause

al fine di escludere patologie che a medio e lungo

termine possono danneggiare gravemente la sa-

lute della donna.

L’infertilità ha oggi radici che vanno ben oltre le

cause anatomiche femminili di esclusiva compe-

tenza ginecologica. Si tratta di fattori immunolo-

gici, genetici, ambientali e in primis endocrino-

logici. Ogni sistema d’organo che ha a che fare

con la produzione o il metabolismo di ormoni

sessuali può essere responsabile di infertilità. E’

importante, ad esempio, pensare alla mancanza

di ovulazione non come ad una diagnosi, ma

come ad un sintomo di un disordine endocrino o

sistemico che richiede una valutazione diagnosti-

ca completa per identificare la sottostante disfun-

zione e escludere o trattare patologie preesistenti,

al fine di evitare a lungo termine effetti negativi

per la salute della donna e assicurare il migliore

esito della gravidanza. C’è anche da considerare

che dare inizio ad una nuova vita in uno stato di

salute alterato può comportare una maggiore in-

cidenza di danni al feto. Feti di madri diabetiche

hanno, ad esempio, un tasso significativamente

maggiore di malformazioni.

30

di Federica Peci

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Dal momento che la gravidanza può essere considerata come

un “trapianto”, non è sorprendente che il sistema immunitario

svolga un ruolo importante nell’instaurarsi di una gravidanza

sana.

Le malattie autoimmuni possono influenzare direttamente la

maturazione degli ovociti e l’impianto oltre ad aumentare l’in-

cidenza di aborti spontanei. Lo stesso avviene con patologie

come la trombofilia e nelle pazienti con elevati livelli di omo-

cisteina, nel diabete, nell’obesità e nella sindrome metabolica.

Ci sono, tanto per fare un altro esempio, associazioni evidenti

tra l’endometriosi e il sistema immunitario e quindi pensare di

trattare l’endometriosi come un mero fattore meccanico, senza

considerare gli aspetti immunologici, non è una buona prassi.

Le persone non sono per niente informate sulle influenze incro-

ciate che malattie non prettamente legate all’apparato riprodut-

tivo possono avere sulla loro capacità di procreare. Persino la

celiachia è associata ad aumento della sterilità e in questi casi

non possiamo non considerare l’aspetto nutrizionale dell’aspi-

rante madre.

C’è poi tutto il mondo delle disfunzioni riproduttive maschi-

li, ancor oggi sottovalutate, nonostante ricoprano la metà delle

cause dell’infertilità di coppia. Anche nell’uomo si va ben oltre

le cause meccaniche, affrontabili con la sempre più specializza-

ta chirurgia andrologica.

Un altro aspetto da considerare nell’avanzare del percorso

diagnostico è quello dei rischi ambientali a cui noi prestiamo

molta attenzione. Una grande varietà di composti agisce come

interferente endocrino. Si sospetta che alcune sostanze abbiano

la capacità di danneggiare i geni, le ovaie e i testicoli. Questa

loro tossicità riproduttiva può manifestarsi anche dopo molto

tempo dall’esposizione ad esse.

Ci sono poi gli esiti di trattamenti oncologici chemioterapici o

radioterapici, anche subiti in età infantile, che lasciano spesso

esiti di insufficienza ovarica prematura o menopausa precoce.

La cura dell’infertilità in questi casi di danno così pesante ri-

chiede terapie innovative. Noi usiamo le terapie citochiniche

che sono in grado di riparare i danni e ripristinare le funzioni. Si

tratta di sopperire con fattori di omologhi organi sani ai deficit

di organi e tessuti ammalati.

Ho voluto dare qualche esempio di quanti fattori debbano esse-

re analizzati prima di bollare la coppia di infertilità fisiologica,

che potrebbe portarla a scelte precipitose di tecniche di fecon-

dazione assistita, alcune delle quali hanno pesanti implicazioni

etiche.

L’intento di questa ricerca è quello di migliorare il

percorso diagnostico e terapeutico nell’infertilità di

coppia, ma mi preme anche sottolineare che essa è

improntata ad un approccio globale alla salute che

mette al centro dell’attenzione la persona, la sua fi-

siologia, la qualità della sua vita, delle sue relazioni

nella famiglia e sul lavoro. Vogliamo forse continua-

re a sottovalutare quanto la mancata procreazione

metta a rischio il rapporto di coppia? La sofferenza

del malato per noi va ben oltre la sua malattia, verso

tutte quelle implicazioni psicologiche che la aggra-

vano, anche se poi si fanno terapie cellulari innova-

tive. Non si tratta di due cose contrastanti; le cellule

e la mente non sono entità diverse e senza alcuna re-

lazione fra loro. Esse trovano la loro sintesi in quello

che noi chiamiamo Uomo. L’obiettivo è consoli-

dare un approccio scientificamente valido, ma anche

umanamente appagante, nel quale la coppia senta

che la ricerca non è qualcosa che si fa in un lontano

laboratorio, ma è in quello che il medico le sta dicen-

do, nella proposta terapeutica che sta ricevendo.

Lo scopo è quello di raggiungere quello stato di

salute globale che permetta all’organismo di conce-

dersi una gravidanza che culmini nella nascita di un

bambino sano.

Centro Studi Infertilità Cerifos

Gravidanza.cerifos.it

31

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Fare di necessità virtù: certificare la vera eccellenza

di Federica Peci

Occorre standardizzare la struttura e il modo di lavorare degli

ospedali, per far sì che le istituzioni con ideali più eleva-

ti abbiano il giusto riconoscimento davanti alla comunità

professionale e che le istituzioni con standard inferiori si-

ano stimolate a migliorare la qualità del loro lavoro […]

In tal modo i pazienti riceveranno il trattamento migliore

e la gente avrà qualche strumento per riconoscere quelle

istituzioni che si ispirano ai più alti ideali della medicina”,

Terzo Congresso dei Chirurghi del Nord America, 1912.

A partire da questa affermazione sono state numerose le

forme e le modalità con cui si sono sviluppati, nelle di-

verse nazioni, sistemi di certificazione, che offrissero il

giusto riconoscimento alle strutture più

virtuose e spingessero l’intero sistema ad

un’erogazione dell’assistenza di elevata

qualità.

Il legislatore, nel nostro Paese, ha introdot-

to, con i D.Lgs. 502/92 e 517/93, quello che

è definito l’Accreditamento Istituzionale.

Scopo era allineare l’Italia ai meccanismi

concorrenziali di quasi mercato, già conso-

lidati in Europa, con il modello formulato

dalla riforma Thacher, ampliando, così, il

numero di erogatori, sia pubblici sia priva-

ti, che potessero aumentare l’efficienza del

sistema riducendo i costi per l’assistenza.

L’accreditamento è stato definito dalla sen-

tenza 416/1995 della Corte Costituzionale,

come “un’operazione da parte di una auto-

rità o istituzione (nella specie la Regione),

con la quale si riconosce il possesso, da parte di un sogget-

to o di un organismo, di prescritti specifici requisiti (stan-

dard di qualificazione) e si risolve in iscrizione in elenco,

da cui possono attingere per l’utilizzazione altri soggetti

(assistiti-utenti delle prestazioni sanitarie)”.

Secondo la normativa vigente, le strutture, prima di otte-

nere l’accreditamento, devono possedere l’Autorizzazio-

ne Obbligatoria, concessa sulla base di requisiti minimi,

strutturali, tecnologici ed organizzativi, che sono periodi-

camente monitorati e riverificati. Con il rispetto, poi, delle

c.d. Regole Comuni di Qualità, sono, invece, instaurati

dei nuovi rapporti, tra i soggetti che garantiscono l’assi-

stenza sanitaria, le ASL, e quelli che erogano prestazioni,

Aziende Ospedaliere e strutture sia pubbliche sia private,

fondati sull’accreditamento delle istituzioni, il pagamento

a prestazione e il sistema interno di verifica della qualità.

Momento essenziale di ogni programma di accreditamen-

to è la valutazione. Questa costituisce uno strumento di

verifica e di approfondimento dei risultati conseguiti, non-

ché permette l’analisi dei problemi interni alle strutture e

la possibilità di sviluppo di linee strategiche per control-

lare e regolare in maniera ottimale l’erogazione dell’assi-

stenza.

La valutazione delle strutture può avvenire anche su base

volontaria, facendo riferimento a quegli enti ed organismi

internazionali, che hanno costruito standard qualitativi,

maggiormente elevati, in aggiunta ai requisiti definiti dai

diversi Stati.

Nel contesto americano, dove l’accreditamento si basa su

un’adesione volontaria ed è a carico delle strutture che lo

richiedono, nel 1994 nasce Joint Commission Internatio-

nal (JCI), che si è posta l’obiettivo

del miglioramento continuo della

qualità sanitaria, attraverso servizi

di formazione, consulenza, accre-

ditamento e certificazione su scala

internazionale delle strutture sani-

tarie.

La commissione ha avuto sicura-

mente il merito di formulare degli

standard contenuti all’interno di un

manuale, seguendo i quali, e con

l’aiuto di diverse organizzazioni

presenti nelle diverse nazioni, ad

oggi ha già accreditato un ingente

numero di strutture nel mondo.

La valutazione JCI, però, si basa

sul riconoscimento di standard che

hanno carattere di mutualità e pro-

rogabilità. Questo porta all’accreditamento di strutture

che, spesso, non posseggono una totale aderenza agli stan-

dard dalla stessa commissione formulati. Si offre, infatti,

la possibilità di avvalersi di una certificazione anche in

mancanza di alcuni elementi. Si va a certificare, quindi,

sicuramente uno status di qualità, ma non una reale eccel-

lenza delle strutture sottoposte a valutazione.

La certificazione di qualità, quando richiesta, dovrebbe ri-

conoscere l’effettiva eccellenza della struttura richiedente

e non essere offerta alla stessa in ogni caso, attendendo

che riesca ad aderire a parametri predefiniti e/o anche in

mancanza di alcuni elementi, perché nell’assegnazione

del punteggio finale, comunque, si supera la soglia di ac-

cettabilità per assegnare l’accreditamento.

È, infatti, onere della struttura, che vuole distinguersi

come centro di eccellenza, cercare di soddisfare tutte le

caratteristiche di qualità richieste. L’organismo certifica-

tore ha, sicuramente il compito di suggerire le migliori

modalità, per raggiungere elevati standard di qualità, ed

32

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assistere la struttura nella loro realizzazione. Ha, però,

anche il dovere sociale di non elargire certificazioni

monche. Deve, infatti, alla comunità, che nella valuta-

zione dello stesso organismo pone fiducia, la possibilità

di affidarsi a strutture che siano realmente eccellenti in

ogni aspetto dell’erogazione dell’assistenza.

Attualmente, in Italia, un altro centro di ricerca scien-

tifica si sta muovendo verso la redazione di standard di

qualità, che vedano a promuovere e certificare l’eccel-

lenza delle strutture sanitarie e dei loro operatori: Ceri-

fos.

La struttura del nuovo corpo di valutazione compren-

de, anche, aspetti relativi al rischio clinico, in termini

di pianificazione, gestione e controllo dei processi, nel

rispetto delle nuove richieste, sia in campo internazio-

nale, dettate da UNI, sia in campo nazionale, nel testo

del prossimo Regolamento Balduzzi, redatto alla luce

delle istanze già avanzate dalla Spending Review.

Per andare in contro alle nuove esigenze nascenti dalla

continua evoluzione, in termini finanziari, economici,

assicurativi, istituzionali, organizzativi, e clinici, del si-

stema di erogazione dell’assistenza, Cerifos, in linea con

lo sviluppo delle direttive UNI, orienta i propri standard

a principi ben definiti, quali l’orientamento al paziente,

il miglioramento continuo, lo sviluppo di una leadership

all’interno delle strutture, il coinvolgimento del personale,

l’approccio alla gestione per processi, l’approccio sistemi-

co alla gestione, l’approccio fattuale al processo decisiona-

le e le relazioni basate sul concetto di reciproco beneficio.

Questi otto principi di gestione per la qualità sono i medesi-

mi individuarti dalla normativa UNI, inerenti alla famiglia

ISO 9000, e costituiscono la base per la formulazione di

standard di qualità, che possano effettivamente essere con-

siderati adatti alla definizione di status di eccellenza.

Alla luce della redazione degli standard di valutazione della

qualità nelle strutture ospedaliere, Cerifos si propone come

organismo di consulenza e certificazione di tutte quelle

strutture che, votate a Sistemi di Gestione della Qualità,

Clinical Governance ed elevata qualità nell’erogazione del-

le proprie prestazioni, in campo sia nazionale sia interna-

zionale, intendano attestare il loro status di “Eccellenze”.

Health Certification and Insurance

Produrre un vaccino attraverso

i propri allergeni

esclusivo per i medici

Richiedi informazioni in italiano: [email protected]

33

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I fondi europei alla Ricerca:

chi sa cercare, trova! di Vera Paola Termali

In questo periodo storico di cronica mancanza di finan-

ziamenti da parte dello Stato e degli enti locali, i finanzia-

menti europei diventano sempre più capaci di attrarre. Ma

“dal dire al fare c’è di mezzo il mare” ed è proprio questo

mare, fatto di mancata conoscenza, approssimazione, ti-

mori reverenziali, che Cerifos vuole cercare di colmare,

dedicando una parte di questa rivista all’Europrogettazio-

ne e formando collaboratori che possano rappresentare

punti di riferimenti sparsi sul territorio nazionale.

Sfatiamo subito il primo mito: i soldi con i quali l’Europa

finanzia progetti in ambiti diversissimi fra loro non sono

“dell’Europa”, ma degli stati membri, i quali conferiscono

all’Europa l’1% del loro PIL. Quindi

sono soldi “nostri”. Se noi italiani non

siamo in grado di presentare progetti

finanziabili, anche la parte di denaro

conferita dall’Italia, va a finanziare i

progetti di quei paesi per indole più

precisi e sistematici che continuano

a mantenere i primi posti nell’acqui-

sizione dei finanziamenti europei. In

primis parliamo della Gran Bretagna,

della Germania e dell’Olanda.

La nostra nazione, rispetto agli importi impegnati per il

bilancio dell’Unione, ha avuto mediamente un rientro del

30%, mentre altri paesi hanno una percentuale di rientro

persino dell’80 %. Nonostante si presentino molti proget-

ti per richiedere finanziamenti, il problema essenziale di

questo bassissimo risultato italiano si può riassumere in

tre criticità fondamentali: la scelta del bando giusto, il

rispetto delle tempistiche, la qualità della progettazione.

Questi problemi sono superabili solamente con l’acquisi-

zione di strumenti adatti a realizzare un progetto ad hoc

da presentare alla Commissione Europea. Lo strumento

principale è costituito dalla formazione, dalla capacità

cioè di presentare un progetto secondo i canoni stabiliti

dalla Commissione Europea. E’ evidente che questa capa-

cità non può assicurare il finanziamento, ma sicuramente

una buona qualità progettuale garantisce una maggiore at-

tenzione da parte dei funzionari.

Per venire incontro alle necessità della ricerca italiana,

Cerifos organizza periodicamente il suo ormai famoso

Master in Europrogettazione con stage finale a Bruxelles

che affronta tutt’e tre le problematiche evidenziate sopra.

La scelta del bando giusto: speriamo che con Horizon

2020 le cose migliorino un po’, ma fino ad ora le linee

di finanziamento deliberate dalla Commissione per la

salute

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e la ricerca scientifica sono state coniugate in dozzine di

rivoli, premi, sovvenzioni. Se da una parte la cosa è com-

prensibile, perché il concetto di “Salute” è ormai talmen- te

trasversale da andare a toccare ambiti apparentemente

lontani, dalla ricerca di base ai problemi dell’invecchia-

mento, dall’integrazione di altre culture con problemati-

che di salute particolari all’innovazione che può essere

sviluppata dalle PMI, dall’altra essa rende la ricerca del

bando giusto per la propria idea un’impresa titanica. Que-

sta ricerca va iniziata molto per tempo, anche un anno pri-

ma della partecipazione al bando, perché quando questo

uscirà avremo poco tempo.

Il rispetto delle tempistiche è un

grave problema per noi italiani. I tre

mesi che normalmente corrono fra

l’apertura e la chiusura del ban- do

sarebbero a stento sufficienti, se il

ricercatore non si dedicasse ad al- tro,

senza considerare che la maggior parte

dei bandi comporta dei partner di altri

paesi che non possono essere trovati in

corso d’opera.

La qualità della progettazione si-

gnifica possedere gli strumenti indispensabile per tradurre il

proprio linguaggio da ricercatore in quello dei progetti

europei. Troppo spesso si pensa che basti un copia/incolla

di una propria pubblicazione scientifica, ma, se si pensa

così, non si riuscirà mai ad ottenere un finanziamento eu-

ropeo. L’idea è importante, importantissima, ma quel che

serve è tradurla analiticamente in azioni e obiettivi scandi- ti

nel tempo con adeguato supporto economico.

Anche se difficilmente la frequentazione del Master per-

metterà di essere autonomi al 100% nella progettazione,

essa creerà delle interfacce indispensabili all’europroget-

tista che seguirà il vostro progetto, che, per quanto bravo,

non potrà mai conoscere la vostra idea come la conoscete

voi.

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Quanti soldi per la ricerca

2014-2020 ?

Era il 30 novembre 2011, quasi un anno fa, quando la

commissaria Androulla Vassiliou presentava l’agenda

strategica per l’innovazione dell’Istituto europeo di

innovazione e tecnologia (IET) nell’ambito del pro-

gramma “Orizzonte 2020”. «Serve una nuova visione

della ricerca e dell’innovazione europea in un con-

testo economico radicalmente mutato- aveva detto-.

“Orizzonte 2020” stimolerà direttamente l’economia,

garantendo la base scientifica e tecnologica e la com-

petitività industriale per il futuro, spalancando le porte

a una società più intelligente, sostenibile e inclusiva.

Grazie ad “Orizzonte 2020” per la prima volta tutti gli

investimenti dell’UE per la ricerca

e l’innovazione saranno riuniti in

un programma unico».

Un progetto ambizioso, dunque

che proprio per questo, come spie-

ga Elisabetta Montano funziona-

rio dell’European People’s Party

(EPP) al Parlamento Europeo, ne-

cessitava di un budget adeguato.

«Il budget proposto dalla Commis-

sione per “Orizzonte 2020” era

stato infatti di 80 miliardi euro- spiega la dottoressa-:

un bilancio che, peraltro, era stato condiviso anche dal

voto del Parlamento Europeo che crede fermamente

che bisogna fare innovazione e continuare a finanziare

le ricerche già cominciate».

Peccato che si sia dovuto assistere ad una “fumata

nera” come hanno titolato le testate il giorno dopo il

vertice europeo di Bruxelles dello scorso 23 novem-

bre. Come si sa, infatti, il Consiglio Europeo in cui si

è discusso il bilancio pluriennale per il periodo 2014-

2020, si è concluso senza che i capi di stato e di gover-

no dell’UE abbiano trovato l’accordo su tutto il quadro

finanziario: per approvare il programma multiannuale

di bilancio europeo, infatti, ci vuole il consenso di tutti

i 27 Paesi, (diversamente da quanto accade per i bilan-

ci annuali dove basta ottenere la maggioranza qualifi-

cata). E questa unanimità, appunto, non si è raggiunta.

Un mancato raggiungimento che rischia così di far sal-

tare tutti i giochi: «Se anche “Orizzonte 2020” si ritro-

verà fortemente ridotto - commenta Elisabetta Monta-

no- non si farà che colpire ancora la ricerca. Cosa che,

in sostanza, significa impedire all’Europa di rimettersi

in moto, di competere sullo scenario globale, di inven

Siamo di fronte alle scelte “illogiche , accetterà una

” di alcuni stati europei, tra cui in primis il Regno

Unito».

L’ostacolo principale, infatti, è provenuto soprattutto

dalla Gran Bretagna, che insieme alla Germania, ha

insistito sui tagli alla bozza di bilancio.

D’altronde il premier britannico David Cameron,

lo aveva anticipato già al momento del suo arrivo

a Bruxelles per l’incontro, dicendo di non essere

soddisfatto: «In un momento in cui stiamo facen-

do dolorosi tagli alla spesa nei nostri paesi -aveva

detto- è sbagliato proporre un aumento del bilancio

dell’Unione Europea. Intendiamo batterci per otte-

nere un buon accordo per i contri-

buenti britannici ed europei e per

difendere il rimborso alla Gran

Bretagna». E sulla stessa linea era

anche l’Italia: anche Enzo Moave-

ro, ministro per gli Affari Europei

del governo Monti, infatti, aveva

detto chiaramente a Bruxelles che

l’Italia sarebbe stata pronta a met-

tere il veto se l’accordo sul bilan-

cio UE 2014-2020 non fosse stato

equo per i cittadini e gravoso per il paese.

Per capire perché sono proprio questi paesi a chiede-

re i tagli maggiori bisogna fare un passo indietro e

ricordare che il programma multiannuale di bilancio

europeo fissa i capitoli di spesa dell’Ue per tutti i

sette anni di programmazione in oggetto, ma ogni

Paese contribuisce in maniera differente in base a un

calcolo che prende in considerazione variabili come

la popolazione totale e il Prodotto Interno Lordo:

questi soldi, vengono poi usati da Bruxelles per fi-

nanziare progetti di ogni tipo in giro per l’Europa,

sono quindi soldi che in teoria ritornano nei Paesi

membri sotto forma di investimenti. Il punto, però, è

che ci sono paesi che danno più di quanto ricevono:

una situazione che, specialmente in tempi di crisi,

fa saltare gli equilibri, come infatti è accaduto. Nel

2010, ad esempio, tra questi ci sono stati la Germa-

nia, la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio e l’Italia:

per questa ragione sono stati soprattutto i governanti

di questi paesi ad aver chiesto i maggiori tagli.

Adesso, intanto, mentre i paesi restano su posizioni

diverse, si aspetta che venga riconvocata a gennaio

la riunione per la ricerca di un compromesso, anche

se il Parlamento europeo ha già annunciato che non

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L’approvazione del bilancio di

Horizon 2020 slitta a gennaio,

ma si tratta soltanto apparen-

temente di una questione di

merito. Le implicazioni vere ce

le spiega Elisabetta Montano,

funzionario al Parlamento

Europeo.

diminuzione significativa del budget complessivo.

«Speriamo- conclude la dottoressa Montano- che la prossima

presidenza irlandese dell’Unione europea, sotto la quale si gio-

cherà la partita del bilancio pluriennale e quella di “Orizzonte

2020”, sappia trovare una soluzione ragionevole con gli sta-

ti membri più ostili a un adeguato bilancio europeo, e sappia

convincerli che la vera scommessa per il futuro dell’Europa

non è solo la politica agricola comune e i fondi strutturali. Ma

più investimenti in ricerca ed innovazione, il vero successo per

l’avvio di una Nuova Europa».

Ci sono altre questioni che influenzano notevolmente la deci-

sione di investire l’1,01 % del Pil nazionale nel budget euro-

peo, che varierebbe semplicemente dell’0,1% rispetto al prece-

dente. La prima da affrontare è decisamente quella del rinnovo

delle cariche di governo in alcuni stati membri, tra cui Germa-

nia e Inghilterra. Angela Merkel in questi giorni è stata ricon-

fermata premier dei democristiani della Cdu con il 97,94% di

consensi. I sondaggi d’opinione, che la vedono sfiorare il 70%

dei consensi alle pros-

sime politiche le dan-

no la forza per punta-

re i piedi in Europa.

La seconda questione

riguarda le trattative

che gli stati membri

stanno affrontando

su temi spinosi come

l’unione fiscale, mo-

netaria e la cessione di

sovranità all’Unione

Europea. Il piano stilato dall’attuale presidente Van Rompuy

propone ai Governi dell’Unione l’obiettivo di rafforzare l’as-

setto istituzionale della zona euro. Il progetto conferma tra le

altre cose l’idea di creare un bilancio dell’unione monetaria e

di imporre agli Stati membri impegni contrattuali con le istitu-

zioni europee sul fronte delle riforme economiche. L’analisi

della battuta d’arresto subita dall’approvazione di bilancio non

si può quindi leggere in base ad un semplice calcolo econo-

mico dovuto alla variazione di percentuale di Pil da mettere a

disposizione, ma va considerata in base a fattori socio-econo-

mici e politici, in un momento storico in cui l’Europa cerca di

darsi nuove regole.

di Federica Sciacca

Capire l’ERC

Milano

Rimini

Lecce

www.cerifos.it

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37 Siamo tutti Stakeholder! Come partecipare alle decisioni europee e conoscere in anticipo le linee guide sulla ricerca

“Chi decide le tematiche della ricerca?” e “Perchè l’Italia percepi- sce così pochi fondi?” sono le domande che sorgono più facilmente quando mi trovo ad affrontare il tema dei fondi europei. In questo articolo voglio esporre un concetto, riguardante la parteci- pazione alle scelte delle linee guida sulla ricerca diffuse dalla Com- missione Europea che vengono utilizzati nei bandi. Le “call” (bandi di sovvenzione) del VII Programma Quadro (per sovvenzioni alla ricerca) escono tipicamente a partire da Luglio di ogni anno e rimangono aperti per tre mesi circa. Con l’avvento di Horizon 2020 (per sovvenzioni alla ricerca dal 2014-2020) si pensa che le tempistiche rimangano invariate. Ritengo di fondamentale importanza far capire che è impossibile preparare un progetto da presentare alla Commis- sione Europea in così poco tempo. In questo articolo voglio dimostrarvi che anticipare le tempistiche per conoscere le linee guida sulla ricerca è possibile, basta essere un po’ più Stakeholder. Permettetemi la definizione alquanto economica di Freeman datata 1984 per introdurre il concetto di Stakholder: “Gli Stakeholder primari, ovvero gli Stakeholder in senso stretto, sono tutti quegli individui e gruppi ben identifi- cabili da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza. In senso più ampio Stakeholder è ogni individuo ben iden- tificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizza- zione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In questo più am- pio significato, gruppi d’interesse pub- blico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, associazioni imprenditoriali, concorrenti, sin- dacati e la stampa, sono tutti da considerare Stakeholder”. In termini più europeistici, gli Stakeholder sono tutti quei gruppi di interesse che influenzano le attività e le scelte della Commissione Europea nel definire le linee guida dei programmi di finanziamento. In ambito sanitario possono essere: associazioni di pazienti, associa- zioni di categoria, istituzioni pubbliche, gruppi di istituti privati, enti pubblici (ad esempio Regione Lombardia). La Commissione Europea, attraverso le direzioni generali, continua- mente pubblica richieste di consultazione dove gli stakeholder devo- no dichiarare i loro interessi su tematiche specifiche. Questo avviene anche per la ricerca (Direzione Generale Ricerca ed Innovazione) e per la sanità (Direzione Generale Salute e Consuma- tori). La consultazione è lo strumento principale utilizzato dalla Commis- sione Europea per decidere le linee guida future. Nel Luglio di ogni anno, all’apertura dei bandi del VII Programma Quadro, noi vediamo il frutto della consultazione degli Stakeholder insieme al lavoro della Commissione Europea che trasforma le linee guida in “call” per supportare la ricerca europea. L’intervallo di tempo che intercorre tra la consultazione e la “call” non è di brevissima durata. Siamo in grado quindi di poter parteci- pare alle decisioni o di capire in anticipo dove si concentreranno le sovvenzioni alla ricerca.

di Girolamo Simonetta Per dare una risposta più esauriente alle doman- de introdotte ad inizio articolo devo suddividere ulteriormente il mondo degli Stakeholder. Mitchell, nel 1997, suddivide gli stakeholder in base a tre fattori: potere, credibilità/diritto rico- nosciuto, impellenza In base a questo concetto non basta essere uno stakeholder per vedere realizzati i propri bi- sogni. In un’Europa formata da 27 stati, nella quale i bisogni sono diversi da stato a stato. Le decisioni prese dalla Commissione Europea

vengono quindi influenzate da- gli Stakeholder che hanno tutte e tre le caratteristiche sopra in- dicate. La nostra nazione, attualmente, non è in grado di identificar- si un “definitive stakeholder” poiché manca una linea unica di interesse da portare a livello europeo durante le consultazio- ni riguardanti la ricerca. Ognuno vuole coltivare il pro- prio orticello, quindi viene a mancare una linea di unità per poter influenzare le decisioni della Commissione Europea. I paesi che fanno da padrone durante le consultazione sono i paesi del Nord, non casual- mente sono quelli che ricevono più fondi per la ricerca. Il loro modo di agire è principalmente diverso dal nostro; essi adotta-

no una linea guida unica per più stati membri influenzando con il loro potere le decisioni della Commissione Europea. L’adozione di una linea guida comune unica influisce nettamente di più rispetto a diverse linee guida, differenti tra loro e presentate da un unico stato membro. In conclusione, quello che la nostra nazione deve essere in grado di fare è attirare l’interesse di tutti gli attori coinvolti nella ricerca per poter indicare una coerente linea guida da presentare alla Commissione Europea durante le consul- tazioni; noi dalla nostra parte possiamo essere più partecipi alla vita europea tenendoci costan- temente informati su ciò che è ricerca in ambito europeo.

Girolamo Simonetta

Europrogettista

Presidente EPCA

European Project

Consultants Alliance

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Spin Off Un soluzione italiana vincente nella ricerca

di Valentina Vena

Fondamento delle innovazioni è sempre stata la ricer-

ca. Nel contesto attuale i singoli sono spinti a propor-

si individualmente, sviluppando iniziative di carat-

tere imprenditoriale. Già i D. Lgs. 297/1999 e D.M.

593/2000, prospettavano la possibilità di costituire

società finalizzate all’utilizzazione industriale dei ri-

sultati della ricerca con la partecipazione azionaria,

il concorso o l’impegno di professori, ricercatori uni-

versitari, università, im-

prese, società ed enti di

ricerca. Le Università

sono chiamate, quindi,

a perseguire le loro fina-

lità di carattere pubblico

anche attraverso stru-

menti privatistici di im-

presa. Opportunità, que-

sta, fattibile grazie allo

Spin Off Universitario

(SOU): un’iniziativa im-

prenditoriale, avviata da

ricercatori e professori

universitari ed esclusi-

vamente nella forma di

una società di capitali di

diritto privato, per la va-

lorizzazione economica

di trovati, know-how e

competenze della ricer-

ca accdemica.

Affinché sia possibile

si richiede al ricerca-

tore di pianificare ogni

aspetto organizzativo,

gestionale e finanziario finalizzato all’avviamento

dell’iniziativa, anche con il ricorso a società esterne o

sviluppando all’interno del proprio gruppo specifiche

competenze manageriali. L’economicità dell’opera-

zione esige, inoltre, la pianificazione nel breve perio-

do, di un equilibrio finanziario, che garantisca perdu-

rabilità alla società, soprattutto dopo il primo triennio,

quando dovrà essere in grado di svolgere la propria

attività senza alcun altro sostegno.

Il contributo dell’Ateneo è offerto nella fase di start

up delle iniziative, quando, coerentemente con le

proprie finalità, concede l’utilizzo di spazi e di attrez-

zature, riconosce la licenza per l’uso della dizione di

Spin-off dell’Università, inserisce le nuove iniziati-

ve imprenditoriali all’interno del sistema delle sue

relazioni con il tessuto economico ed istituzionale,

offre ai propri ricercatori la possibilità di accedere al

portafoglio della Proprietà

Intellettuale dell’Ateneo.

Alla base della costitu-

zione delle nuove socie-

tà è l’idea. Perché questa

possa essere di successo

è necessario che risponda

ad alcuni requisiti: l’O-

riginalità, l’Innovatività,

l’Applicabilità industria-

le, la Potenzialità di mer-

cato e la Difendibilità dei

prodotti.

L’iter di presentazione,

valutazione e approva-

zione o rifiuto, si articola

come nella flow chart ri-

portata in Figura 1.

Nella formulazione del

Business Plan il gruppo

di ricercatori può essere

supportato da una terza fi-

gura, costituita all’interno

dello stesso Ateneo: il Di-

partimento per la Ricerca.

Quest’ultimo non si occu-

pa unicamente dell’avviamento dei progetti impren-

ditoriali, ma costituisce il vero e proprio incubatore

della ricerca, all’interno dell’Università, favorendo

anche la sensibilizzazione e l’informazione in merito

alle opportunità offerte dagli SOUs.

Coloro, i quali fossero interessati a porre in essere

iniziative di SOU, sono invitati a prendere contatto

con Cerifos, Progetto Spin Off.

email:[email protected]

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Lago di Monte Colombo

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