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risk risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA

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riskriskQUADERNI DI GEOSTRATEGIA

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• DOSSIER •

Gli Stati Uniti del SudGennaro Malgieri

Le mille e una faccia di GheddafiMaurizio Stefanini

Dall’asse del male all’asso di ObamaEnrico Singer

Il monopoli nordafricanoRoberto Cajati

Tutto fuorché promesse da marinaioAndrea Nativi

Al Qaeda sfida il MaghrebAndrea Margelletti e Antonio Picasso

I tre colossi dell’energiaDavide Urso

pagine 4/55

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 56/57

• SCENARI •

L’isolamento diplomatico di GerusalemmeJohn R. Bolton

Nato sì, ma in salsa franceseMichele Marchi

pagine 58/71

• SCACCHIERE •

Unione EuropeaGiovanni Gasparini

MediorienteEmanuele Ottolenghi

America LatinaRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 72/79

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 80/85

• LIBRERIA •

Mario ArpinoAndrea Tani

pagine 86/91

• RUBRICHE •

Beniamino Irdi Pierre Chiartano

pagine 92/95

quaderni di geostrategiaS O M M A R I O

riskrisk

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.

Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

Amministrazione: Cinzia RotondiAbbonamenti: 40 euro l’anno Stampa Gruppo Colacresi s.r.l.

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REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000

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DIRETTOREAndrea Nativi

CAPOREDATTORELuisa Arezzo

COMITATO SCIENTIFICOMichele Nones

(Presidente)Ferdinando Adornato

Mario ArpinoEnzo Benigni

Vincenzo CamporiniAmedeo Caporaletti

Carlo FinizioRenzo Foa

Giovanni GaspariniPier Francesco Guarguaglini

Virgilio IlariCarlo Jean

Alessandro Minuto RizzoRemo Pertica

Luigi RamponiStefano Silvestri

Guido VenturoniGiorgio Zappa

RUBRICHEArpino, Incisa di Camerana,

Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, GefterWondrich, Ottolenghi, Tani

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IL COLONNELLO (E DINTORNI)

I dettagli sono ancora da mettere a punto, ma la data ormai è certa. Il colonnello Muammar Gheddafi dal10 al 12 giugno sarà in visita ufficiale inItalia. Sarà una prima assoluta, unavisita che il colonnello bisserà il mesedopo in occasione del G8 dell’Aquila,al quale è stato invitato questa volta inqualità di presidente dell’Unione africana. Una doppia visita, certamentestorica. Che chiude, ancora non sappiamo se del tutto e comunque framille polemiche, gli strascichi antichidel colonialismo italiano in Tripolitaniadopo il pubblico mea culpa di SilvioBerlusconi a nome dell’Italia intera.Ora, è la risposta di Gheddafi, le aziende italiane che vogliono investire in Libia hanno la precedenzasu tutte le altre, e gli italiani che furonocacciati nel 1970 potranno tornare perlavoro e turismo. L’accordo, già ratificato dal Parlamento italiano, prevede che l’Italia finanzierà la realizzazione di infrastrutture sul territorio libico per una spesa complessiva di 5 miliardi di dollari(circa 4 miliardi di euro) nell’arco di 20anni. Ma quale sono i nostri interessi inLibia e – evidentemente – nell’interasponda nordafricana, il cosiddettoGrande Maghreb (Tunisia, Algeria,Marocco, Libia, Mauritania) nel qualenon rientra l’Egitto, ma che per noi èimprescindibile in un’analisi completadell’area, anche alla luce della prossima presidenza italiana (nel 2010)dell’Unione per il Mediterraneo?Abbiamo provato a risponderetracciando un quadro esaustivo siasotto il profilo culturale che tecnico:dall’energia all’industria, dall’economiaalla difesa, dalla sicurezza al fondamentalismo islamico e al terrorismo. E perno di questo ragionare è sempre lui, il colonnellolibico. Abbiamo scelto invece, di non approfondire il tema immigrazione,dove avremmo rischiato di esseresuperati dalla cronaca giornalistica diquesti giorni. Tuttavia, all’indomani dell’entrata in vigore del protocollod’intesa firmato dal Presidente delConsiglio con Gheddafi, rimane unadomanda inesplorata: quale respirotemporale potrà avere la strategia deirespingimenti degli immigrati clandestini verso la Libia inauguratadal ministro dell’Interno? Sarà in gradoTripoli, da sola, di reggere l’urto delrientro di migliaia di disperati sulle proprie coste, rischiando l’aggravarsidi una emergenza umanitaria? Con lepolemiche sul diritto alla richiestad’asilo sono questi gli interrogativi cheaccompagnano la “svolta” annunciatadal governo.

Firmano il nostro speciale: Cajati,Malgieri, Margelletti, Nativi, Picasso,Singer, Stefanini, Urso.

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era stato realizzato per non essere diviso. E le divisionisono diventate, con il passare del tempo, lacerazio-ni. Oggi il Mediterraneo è un mare dalle molte rivee non più di una riva sola. E non è più neppure ilmare che bagna tre continenti, ma lo si percepiscecome il “luogo” sul quale si affacciano tre conti-nenti profondamente diversi. La differenza èsostanziale, non soltanto geografica e naturale.Infatti, una volta segnava l’unità di un mondo; poiè diventato lo spazio del conflitto tra civiltà o,quantomeno, di incomprensioni e diffidenze diordine culturale, religioso, economico, politico estrategico. Un’area “liquida”, insomma, nellaquale il confronto è sfuggente e dove i popoli noncooperano nell’unico modo possibile tramandato-ci dal mondo antico: attraverso il dialogo e l’inter-scambio di esperienze, presupposti per l’integra-zione civile. A lungo si è immaginato che l’idearomana di “prossimità” tra le culture potesse esse-re il presupposto moderno di un rinnovato impe-gno comune nel Mediterraneo al fine di fronteg-giare le sfide del presente, così come nell’antichi-tà ci si ritrovava per contrastare gli aggressoriesterni. E fino a quando l’universalità romana e

poi cattolica ha resistito all’usura del tempo e allecontraddizioni interne che andavano sviluppando-si sotto le forme delle eresie religiose e delle ten-sioni politiche ed economiche, è stato possibileche il Mare Nostrum preservasse le proprie carat-teristiche essenziali: mare, appunto, con un’unicariva segnata dalle diversità che fornivano al baci-no una ricchezza mai più eguagliata nella storia eduna solidità amministrativa gestita da un’autoritàpolitica riconosciuta della quale si sentivano tuttipartecipi. Questo, ovviamente, molto tempo fa.Quindi, dopo gli scricchiolii, l’impero di FedericoII tentò di riprendere l’arcana idea di una koinèfondata sulle differenze, ma non resse a lungoall’urto dello scontro di civiltà. La barbarie siaffermò premendo sulle diversità che diventaronoegoismi politici e l’Europa si ritrasse dalMediterraneo, mentre gli arabi cercavano di ege-monizzarlo contro quella stessa idea universale dicui erano stati partecipi. Da entrambe le sponde siaffermò la considerazione del grande spazio dovenacquero gli dèi come un “naturale” campo terrifi-cante di battaglie senza fine. La guerra mediterra-nea continua ancora. Nonostante la fine dei con-

NEL 2010 L’ITALIA ASSUMERÀ LA PRESIDENZA DELL’UNIONE PER IL MEDITERRANEO

GLI STATI UNITI DEL SUDDI GENNARO MALGIERI

n tempo il solo nome di Mediterraneo evocava l’impero romano. Questomare, infatti, era un “mare interno” circondato dai territori dell’imperostesso, dunque aveva un’unica riva sulla quale avvenivano commerci,comunicazioni, si scambiavano idee e culture sotto il controllo di unasola e riconosciuta sovranità. La storia s’è incaricata di dividere ciò che

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flitti dichiarati. Le forme sono altre. Non sparanole cannoniere, gli abbordaggi navali non usanopiù, ma resta il più sottile dei mali a minare la pacepossibile: la frattura religiosa usata come armaimpropria volta ad alimentare le angosce, parados-salmente nel mare della tolleranza. Eppure il Suddel Mediterraneo domanda una politica di coope-razione e di partenariato all’Europa per superaredifficoltà che appaiono insormontabili pensandosidistante; e l’Europa non chiede di meglio peraprirsi un varco tra gli integralismi che minaccia-no la sponda meridionale e mettono a repentagliola sua stessa sicurezza. Insomma, un po’ tutti vor-rebbero rifare l’impero romano, ma il sogno nonpuò divenire realtà.

Tuttavia uno spirito comune mediterraneo sulquale lavorare esiste, indiscutibilmente. Ed è datoda una serie di fattori sui quali investire: il clima,gli stili di vita, la struttura familiare, l’organizza-zione sociale, e se non proprio una medesimavisione del mondo quanto meno una tendenza apacificare popoli che il passato ha visto uniti inrealizzazioni storiche i cui segni scorgiamo in ognidove addentrandosi nei Paesi mediterranei.

Dunque, il filo del discorso può esse-re ripreso anche dopo le incompren-sioni recenti? Credo di sì, a patto cheognuno abbia l’intelligenza politica el’onestà di intellettuale di riconoscer-si tessera di un mosaico che deve ten-dere a ricostruire la comunità euro-mediterranea partendo dallo sviluppodella cultura, passando per la via eco-nomica e finendo per costruire un’or-ganizzazione politica. Il percorsoinverso, che sarebbe stato forse il piùnaturale, si è rivelato fallimentare equanti l’hanno tentato sono staticostretti ad abbandonarlo. Così comel’investimento sulla linea di fagliastrategica e geopolitica si è rivelata

fragile. Il realismo testimonia la volontà dell’im-presa e su di esso è necessario puntare. D’altraparte in qualcosa bisogna pur credere. Non perottimismo di maniera, ma per l’indispensabileragionevolezza da cui talvolta scaturisce la buonapolitica. Il ché vale in particolare per i processi dicooperazione internazionale, soprattutto quandohanno le ambizioni che mostra di avere la neonataUnione per il Mediterraneo, “inventata” daNicolas Sarkozy all’indomani della sua elezione,come “rilancio” dello stagnante “Processo diBarcellona” il quale dal 1995 non ha prodotto altroche illusioni, fino ad essere abbandonato quandonon sconfessato dai suoi stessi promotori. Eppurenacque sotto i migliori auspici. Fin dall’inizio essovenne considerato lo strumento centrale delle rela-zioni euro mediterranee, con un partenariato ditrentanove governi e oltre settecentocinquantamilioni di cittadini. Il processo ha rappresentatoindubbiamente un fattore di impulso al dialogo peril quale sono stati spesi dalla Commissione euro-pea oltre sedici miliardi di euro provenienti dalbilancio comunitario, ma i risultati politici sonostati piuttosto scarsi al punto che si è pensato diinvertire la rotta e ricominciare daccapo. La vitali-

Gli Stati Uniti del Mediterraneo,come qualcuno chiama la complessa operazione, non possono vedere l’Italia in posizione marginale o defilata.L’area del mondo più dinamica e nuova che attrae maggiori investimenti dall’estero viene ritenuta la sponda sud del Mare Nostrum. DallaMauritania alla Turchia è in corso uno sviluppo senza precedenti

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tà del nuovo progetto, smentendo tutte leCassandre della vigilia, si è concretizzata in undocumento comune elaborato dai ministri degliEsteri dei quarantatre Stati membri a Marsiglia il3 e 4 novembre 2007, con il quale si è dato l’av-vio alla costruzione di un grandioso (ma anchespettacolare) ponte tra le civiltà allo scopo diincentivare dialogo e comprensione, non più pervia prioritariamente politica, ma attraverso gliscambi che dovrebbero vitalizzare una sorta diempatia tra culture ed economie nella prospettivadel dispiegamento di una dinamica tesa alla paci-ficazione dell’inquieto bacino mediterraneo. Ilcoinvolgimento dell’Unione europea, dell’Africadel Nord e del Medio Oriente nell’ambizioso ten-tativo di dare stabilità all’area e creare le premes-se per una maggiore e più proficua intesa su tuttele questioni connesse al “vicinato” tra i popoliinteressati, è certamente “storico” anche se qual-cuno ha ironizzato sull’aggettivo alla vigilia del-l’incontro di Marsiglia. Dal quale incontro non èscaturito il solito rituale documento redatto inpolitichese ed in “diplomatichese” ma, insiemecon tanti “distinguo” e qualche compromesso ditroppo forse, che comunque non l’hanno fattonaufragare come ci si aspettava, anche decisioniimmediatamente operative che certamente offri-ranno la base strutturale per l’avvio di una politi-ca di scambi e, ragionevolmente, per un avvicina-mento di posizioni al punto da calamitare nelMediterraneo una strategia di appeasement a tuttocampo rivolta perfino a chi geopoliticamente èestraneo alla nuova Unione. L’interesse dei Paesidell’Est europeo è considerevole, infatti, e attra-verso i “buoni uffici” della Germania certamentetroveranno il modo di intervenire nel processo senon costituente, in quello immediatamente succes-sivo. Non a caso nella comunicazione dellaCommissione europea al Parlamento europeo e alConsiglio dei ministri dell’Unione, prendendo attodei progressi compiuti dopo l’iniziativa diSarkozy, ha precisato che «tutti i partner mediter-

ranei dell’Ue sono uniti da stretti vincoli storici eculturali. Il partenariato euro mediterraneo ha per-messo di affrontare molte questioni strategicheregionali in materia di sicurezza, tutela dell’am-biente, gestione delle risorse marittime, relazionieconomiche attraverso gli scambi di beni e servizie gli investimenti, approvvigionamento energetico(paesi di produzione e di transito), trasporti, flussimigratori (origine e transito), convergenza norma-tiva, diversità culturale e religiosa e comprensionereciproca. Occorre però mettere maggiormente inrilievo, soprattutto a livello politico, la centralitàdel Mediterraneo per l’Europa. L’importanza deinostri legami, la profondità dei nostri rapporti sto-rici e culturali e il carattere impellente delle sfidestrategiche comuni».

La “comunicazione” è coerente con leintenzioni di Sarkozy, il quale, dopo il suo “rilan-cio”, il 23 ottobre 2007, in un discorso a Rabat,richiamandosi al modello fondativo dell’Europacomunitaria, esplicitò il suo disegno dicendo chesi augurava che gli Stati contribuissero a «farlavorare insieme persone che si odiavano per abi-tuarle a non odiarsi più». Nella stessa occasione, ilpresidente francese sottolineò non solo la centrali-tà del Mediterraneo per l’Europa, ma anche il fattoche l’Europa vi si gioca il suo futuro se vuoleadoperarsi, come da tutti viene ammesso, allacostruzione di un progetto di civiltà. E ribadì per-tanto la priorità della dimensione culturale delMediterraneo come “luogo” della civiltà del dialo-go, precisando che la scelta stessa della parola“Unione” debba avere un significato simbolico edevocativo, non diversamente dal significato avutonella costruzione europea. E concluse: «Per quin-dici secoli, tutti i progetti che miravano a resusci-tare questa unità sono falliti, come sono falliti untempo tutti i sogni di unità dell’Europa, perchéviaggiavano sulle ali di sogni di conquista infran-tisi contro il rifiuto di popoli che volevano rima-nere liberi. Il progetto che oggi la Francia propo-

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ne a tutti i popoli del Mediterraneo di costruireinsieme, è un progetto che viaggia sulle ali dellapace, della libertà, della giustizia, un progetto chenon sarà imposto da nessuno, ma voluto da tutti».I “distinguo”, comunque, sulla sponda sud, nonsono mancati. Il solito Gheddafi ha cercato diseminare zizzania; il Marocco pur condividendol’iniziativa s’è mostrato scettico sul programma diSarkozy, la Giordania ha mostrato un atteggiamen-to piuttosto passivo dicendosi peraltro disposta acollaborare. Il mondo arabo-mediterraneo, purcomprendendo l’importanza strategica ed econo-mica del progetto mostra segni di cedimento alleopinioni pubbliche che guardano all’Europa conuna certa diffidenza per via soprattutto della guer-ra israelo-palestinese.

Tuttavia, nonostante le preventivate difficol-tà, il vertice di Parigi del marzo 2008 ha fatto pro-pria l’iniziativa francese che è poi stata ratificata,sia pure con qualche aggiustamento, dalParlamento europeo e dal Consiglio europeo cheha incaricato la Commissione europea di predi-sporre proposte che sono state discusse dai parla-menti nazionali e da questi sostanzialmente in totocondivise. L’avviato processo, dunque, ha regi-strato l’importante tappa richiamata di Marsigliadove, tra l’altro, è stato stabilito che la Lega degliStati arabi parteciperà a tutte le riunioni, ed è statodeciso che la sede del segretariato generaledell’Unione per il Mediterraneo sarà a Barcellona.Un altro punto a favore dell’attivismo intelligentee instancabile della diplomazia spagnola. Non èuna conquista di poco conto. Anche perché ilsegretariato avrà un posto centrale nell’architettu-ra istituzionale del nuovo soggetto politico; si atti-verà nel coordinare scambi commerciali e dialogointerculturale; avrà un peso politico enorme nellacostruzione di rapporti tesi alla pacificazionemediterranea; sarà dotato di una personalità giuri-dica e di uno statuto autonomo. Non sfuggirà anessuno che la “logistica” di un tale organismo ha

la sua importanza e non è affatto indifferente chesia un Paese piuttosto che un altro ad ospitarlo.Certo, non è il caso di fare rivendicazioni impro-prie e assolutamente eccentriche rispetto al proget-to in esame rilevando come la Spagna vada assu-mendo sempre di più una centralità che le derivadall’attivismo dei suoi governanti, ieri di centro-destra oggi di centrosinistra, impegnati nel garan-tire al loro Paese quel protagonismo attivo che adaltri, per esempio all’Italia, sfugge da tempo nelleistituzioni comunitarie e, più in generale, in quelleinternazionali. Già si vocifera, per esempio, che sede della Bancaeuromediterranea, prevista dal processo diBarcellona e poi dall’Unione per il Mediterraneo,dovrebbe acquisirla la Francia e, più precisamenteMarsiglia. Se ciò dovesse accadere, l’Italia, tra iPaesi più “esposti” dal punto di vista politico egeografico, rimarrebbe a bocca asciutta. Un’altravolta. E non si capirebbe perché dal momento chese c’è un Paese con una vocazione storica (oltreche geografica) intimamente connessa alla storiamediterranea questo è il nostro. Meraviglie (si faper dire) della politica del piede di casa… Unsospetto, comunque, lo avanziamo: il nostroParlamento ed i nostri governi credono poco, oalmeno non molto si adoperano perché si possaritenere il contrario, ad una centralità italiana nellepolitiche mediterranee, sia di cooperazione che dirapporti culturali.Del resto se si guarda alle cifre che vengono stan-ziate c’è da restare interdetti. Per fortuna, sia purenel disinteresse generale, l’istanza parlamentaredell’Unione per il Mediterraneo, vale a direl’Apem, l’assemblea che raggruppa membri dellecamere legislative dei Paesi interessati, oltre airappresentanti del Parlamento europeo, sta assu-mendo una vitalità sconosciuta fino ad oggi el’Italia è attivamente impegnata sia nelle commis-sioni permanenti che nel bureau dove un grupporistretto ne determina il funzionamento. Pochisanno, anche tra gli stessi deputati e senatori, che

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il nostro Paese è stato tra i fondatori del-l’organismo rappresentativo nel 2003 enel 2010 ne assumerà la presidenza diturno. Abbiamo le carte in regola, dun-que, per svolgere un nostro ruolo, tutt’al-tro che marginale, in seno all’Unione:basta volerlo ed attivarsi di conseguenza.Anche perché per noi è più facile stabili-re contatti produttivi di dialogo con chiha difficoltà a rapportarsi, per motivi sto-rici essenzialmente, con Paesi e popoliche guardano con diffidenza a buonaparte dell’Europa dopo le note vicendedel Novecento.Gli Stati Uniti del Mediterraneo, comequalcuno chiama la complessa operazione, nonpossono vedere l’Italia in posizione marginale odefilata. L’area del mondo più dinamica e nuovache attrae maggiori investimenti dall’estero vieneritenuta la sponda sud del Mediterraneo. DallaMauritania alla Turchia è in corso uno svilupposenza precedenti. Reggere le sfide che vengonodalla Cina e dall’India, per l’Europa significa rico-noscere come fondamentale l’affidamento ad unpartenariato mediterraneo aggressivo e produttivo.Cominciando dalla cultura. Jean Monet, padre dimenticato dell’Unione euro-pea, riconoscendo che il destino continentale nonpoteva essere prioritariamente economico, comeinvece è stato, diceva che se si potesse rifondarel’Europa l’avrebbe fatto dalla cultura. Oggi dicia-mo la stessa cosa. E non è detto che gli scambi egli investimenti non aiutino, ma servirebbero apoco se tutta la politica di prossimità con il mondoarabo-mediterraneo e, naturalmente, con Israele,si limitasse a fare profitti per le diverse aziendenazionali. Le risorse, non dimentichiamolo, sono ipopoli. Il fine è la pace. Non una pace qualsiasi,ma una giusta pace fondata sul riconoscimento ditutte le sovranità affinché ogni Stato sovrano rico-nosca un giorno una sovranità più grande, quellamediterranea appunto.

I rischi dell’ambizioso progetto sono noti, bastasaperli affrontare con la giusta determinazione,senza rinunciare a impegnarsi neppure nella parti-ta più difficile. Credendoci, naturalmente. E, perquanto riguarda l’Italia, con un pizzico di consa-pevolezza in più riguardo alle sue possibilità in uncampo, anzi in un mare, che mai come oggi offreopportunità di grandissima rilevanza.

Il Mediterraneo non sarà mai più ciò che èstato nel lontano passato. Ma un compito di stra-ordinaria importanza l’unione dei popoli che su diesso si affacciano può adempierlo: ritrovare unadimensione umana in un mondo che sembra aver-la smarrita. I diritti dei popoli, la sovranità delleculture, il riconoscimento delle differenze sono glielementi di una nuova politica globale nel MareNostrum. Non sembra, a prima vista, che tutto ciòintrighi particolarmente i politici, ma è da questoinsieme che bisogna ricominciare se si vuol daresostanza ad un progetto riscattandolo dalla ipotecatecnocratica che alla lunga finirebbe per sconten-tare tutti. Occorre un’audacia spirituale unita adun coraggio istituzionale perché nasca davvero enon resti soltanto un’aspirazione l’Unione per ilMediterraneo.

Il mondo arabo-mediterraneo,pur comprendendo l’importanza strategica ed economica del progetto,mostra segni di cedimento alle opinioni pubbliche che guardano all’Europa con una certa diffidenza per via, soprattutto, della guerra israelo-palestinese

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folla inveisce, a un certo punto irrompe nella sala:divisa kaki da combattimento, mano sul pistolonesfilato a metà della fondina. Con un gesto che gliè ancora tipico quando discute, appoggia un piedesulla sedia mentre si tiene il mento con un palmo,e parla: «Rogers, io non so proprio che cosa lei stiacercando di trattare. Da questo momento lei ha treore di tempo per dirmi, con esattezza, quante set-timane vi servono per sbaraccare e andarvene. Unasettimana o due? Quanto? Naturalmente, ci paghe-rete l’affitto della terra dal ’54 a oggi, l’energiaelettrica che avete consumato, l’acqua, le bollettedel telefono, tutto per 16 anni. Intendiamoci: par-tono gli uomini, non le armi. Armi, aerei, carriarmati, missili, apparecchiature se volete prender-li ce li pagate al prezzo di oggi e come se fosseronuovi di fabbrica. Qualcosa in contrario? Perchése c’è qualcosa in contrario lo dico al popolo, quisotto, in piazza. E ci pensa il popolo a persuader-vi». Trentaquattro anni dopo, ancora Gheddafi è alpotere, ma invece di esigere il ritiro americano aforza di tumulti popolari è lui che si è invece pie-gato a rinunciare alle armi di distruzione di massache la Libia stava approntando: in particolare la

bomba atomica, ma anche l’iprite e il gas nervinodell’impianto di Rabta e forse anche armi batterio-logiche. È la seconda resa agli anglo-americani,dopo che nel 1999 ha accettato di consegnare allamagistratura scozzese i due indiziati della strage diLockerbie. E quando il 7 ottobre è Berlusconi ilprimo leader straniero a venire in visita dopo lafine dell’ostracismo, un terzo gesto Gheddafi lo faverso l’Italia: cancellando quella “giornata dellavendetta” che commemorava la sconfitta dellenostre truppe coloniali avvenuta a Sciara Sciat il24 ottobre 1911, e permettendo perfino di tornarein visita ad alcuni dei 20mila nostri connazionalida lui espulsi il 21 luglio 1970, assieme a 40milaebrei. Pure l’Italia è il megafono attraverso il qualespiega al mondo la sua evoluzione, quando il 6dicembre riceve a Tripoli l’équipe Rai di GiovanniMinoli. Con sorpresa dopo aver attraversato unacittà dal traffico caotico la troupe passa la triplicecinta di mura che circonda la residenza ufficiale, escopre un piccolo angolo di deserto riprodottosullo sfondo delle rovine del palazzo presidenzia-le distrutto dal bombardamento Usa del 15 aprile1986. Tra palme e cammelli un gruppo di tende, in

PANARABISTA, ANTITALIANO, TERRORISTA, PROAFRICANO E ORA AMICO DI BERLUSCONI

LE MILLE E UNA FACCIA DI GHEDDAFIDI MAURIZIO STEFANINI

11 giugno del 1970 è a Tripoli il segretario di Stato Usa William Rogers,per trattare la richiesta di ritiro della base americana. Non però con il28enne colonnello Muammar Gheddafi, capo del golpe che il primo set-tembre 1969 ha destituito il re Idris I, che preferisce in principio resta-re fuori. Ma mentre i colloqui tirano per le lunghe e fuori dal palazzo la

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cui trascorre la vita il rais. Solo lì sotto riesceinfatti a dormire tranquillo, anche se forse non lefa più spostare ogni notte di qualche centinaio dichilometri, come al tempo dell’altra famosa inter-vista a Oriana Fallaci.

Altro cambiamento: Gheddafi non si pre-senta più in divisa ma in una bizzarra camicettachiara decorata da mappe dell’Africa in marrone.Perché nel frattempo l’indefesso propugnatoredell’unità araba ha pure deciso che il panarabismoè una chimera, è uscito dalla Lega Araba si è dedi-cato all’altra causa dell’unità africana, di cui haassunto la presidenza pochi mesi fa.Nell’intervista, arriva a chiedere all’Europa ditrattare direttamente con l’Africa senza mescolar-vi i dibattiti coi Paesi del Medio Oriente mediter-raneo: «Sono Asia, è un’altra cosa». Il vecchiopanislamista dice pure che se l’Unione Europeaammetterà la Turchia tra i suoi Stati membri «avràfatto entrare il cavallo di Troia di Bin Laden». E sivanta di aver fatto vincere le elezioni a George W.Bush: «alla decisione della Libia di rinunciare alsuo programma nucleare deve almeno il 50% disuccesso della sua campagna elettorale».Insomma, è il suo il vero “Islam moderato”: «néreazionario, né terrorista». Chiama alla sorve-glianza contro i «regimi teocratici tipo i Taleban»,e dichiara addirittura di sentirsi cittadino diquell’Italia cui per tanti anni ha continuato a rim-proverare il passato imperialista e a rivendicare idanni di guerra, appellandosi proprio alle leggisulla cittadinanza ai libici concesse dall’ammini-strazione coloniale. «Potrei candidarmi alle ele-zioni», annuncia ridendo. Anche ora dice però di parlare in nome del popo-lo. Anzi, dice che è il popolo il vero sovrano inLibia. «Se io fossi al potere sarei già finito da tantotempo. Il potere l’ho consegnato al popolo libiconel 1977. In effetti, dal punto di vista formale luinon ha oggi alcuna carica, se non quelle onorifichedi “Leader Fraterno e Guida della Rivoluzione” e

“Guida della Grande Rivoluzione del PrimoSettembre della Jamahiriya. Socialista PopolareAraba Libica». Jamahiriya è appunto un neologi-smo creato dallo stesso Gheddafi modificando ilnormale jumhuriya, “repubblica”, in modo da far-gli significare qualcosa tipo “Stato delle masse”.L’uno e l’altro titolo lui li traduce in questi termi-ni: «Sono l’incaricato di mobilitare il popolo aesercitare il potere senza rappresentanza». Anzi,dice che se entrasse veramente in politica in Italia,lo farebbe per «consegnare anche al popolo italia-no il potere», attraverso il sistema di democraziadiretta per congressi del popolo e comitati di baseprevisto da suo “Libretto Verde”. In quell’intervista Gheddafi parla anche del deser-to. «Il deserto è pulizia, è purezza, è quiete, è unadelle grandi testimonianze di Dio. Io non potreivivere senza il deserto. La mia vita è intimamentelegata al deserto». Anche se confessa che i suoifigli sono ormai “un’altra generazione”. Al-Saadi,calciatore in Italia: due partite in tre stagioni, unasqualifica per doping e il soprannome “AlzatiGheddafi”. Aisha, avvocatessa di SaddamHussein. Hannibal, all’origine di una guerra diplo-matica con la Svizzera per due giorni di arresto aGinevra in base a un’accusa per maltrattamento didomestici. Saif al-Islam, erede designato con unastoria d’amore impossibile per un’attrice israelia-na. Nel deserto Gheddafi è nato, in una tenda dipelli di capra a venti chilometri a Sud di Sirte, dadue beduini analfabeti. La data di nascita esattanon si sa, perché allora i nomadi si sottraevanoancora all’obbligo della registrazione anagrafica.Ma viene collocata attorno al 1942: proprio quan-do in Libia infuriava la lotta tra Rommel eMontgomery. Sull’avambraccio destro porta anco-ra la lunga cicatrice lasciatagli da una mina italia-na che scoppiò in un campo dove stava giocandoquando aveva sei anni, e che uccise due suoi cugi-ni. Anche di lì deriva l’acerbo risentimento a lungocovato contro il nostro Paese. Più tardi, tra i 4 e i19 anni frequentò le scuole islamiche, prima a

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Sirte e poi a Sebha, capoluogo della regione deser-tica del Fezzan. Era così povero che dormiva inmoschea, per tornare con una camminata di 30chilometri a dare una mano ai genitori nel week-end islamico, giovedì e venerdì. Una volta fusospeso, per aver invitato un’insegnante di madre-lingua inglese ad andarsene dal Paese. Ma quandopoi riuscì ad iscriversi all’Accademia militare diBendasi, proprio in Inghilterra fu mandato tra1965 e 1966, a specializzarsi in trasmissioni.

“Operazione Gerusalemme” venne chia-mato il golpe. Fu appunto Gheddafi a parlare allaradio, promettendo una società «in cui nessunosarà né padrone né servo». In quel momento gra-zie al petrolio la Libia ha già il reddito pro capitepiù alto dell’Africa, ma distribuito malissimo. Larivoluzione raddoppia i salari minimi e dimezzagli stipendi dei ministri, creando ospedali e ambu-latori e promuovendo la partecipazione dei lavora-tori alla proprietà delle imprese. Ma in quelmomento Gheddafi è anche il primo antesignanodi quella che sarà negli anni a venire l’agitazioneintegralista. Bandisce infatti l’alcool, chiude icasinò e i locali notturni, fa sparire i caratteri lati-ni dalle insegne, fa vietare perfino l’insegnamentodella lingue straniere nelle scuole. Fonte del dirit-

to è proclamata la Sharia, anche se in seguito ci sirenderà conto che il raís la interpreta a modo suo,escludendovi in particolare tutti quei “detti” attri-buiti dalla tradizione al Profeta e che però nonstanno nel corpus del Corano. All’unità islamica Gheddafi esorta comunque neisuoi primi appelli radio. Dopo che nel corso delprimo anno di potere aveva proceduto alla chiusu-ra delle basi militari straniere, alla nazionalizza-zione delle imprese e alla cacciata di italiani eebrei il 27 dicembre 1970, Gheddafi sottoscrivecol presidente egiziano Nasser e col sudaneseNimeiry, una Carta di Tripoli per la creazione diuna federazione tra i tre Stati. In seguito tenta nel1971 la Federazione delle Repubbliche Arabe conEgitto e Siria; nel 1972 un progetto di integrazio-ne bilaterale con l’Egitto; nel 1974 unaRepubblica Araba Islamica con la Tunisia; nel1981 un’unione con il Ciad; nel 1984 una federa-zione col Marocco: tutti progetti finiti l’uno peg-gio dell’altro. Con l’Egitto ci sarà addirittura unamini-guerra in cui aerei egiziani bombarderannouna base libica. Un’altra mini-guerra di confine cisarà tra Libia e Tunisia. Col Marocco non ci saran-no scontri diretti, ma Gheddafi riconoscerà uffi-cialmente il Fronte Polisario, animatore di unaguerriglia contro l’annessione marocchina delSahara Occidentale. Un vero e proprio Vietnamlibico sarà la guerra in cui si impantanerà in Ciadtra 1980 e 1987 un corpo di spedizione mandatoin appoggio ai seguaci di Goukouni Oueddei inrivolta contro il regime filo-francese di HissèneHabré. A un altro disastro andrà incontro nelmarzo 1979 il corpo di spedizione inviato inUganda a sostenere il regime di Idi Amin Dadacontro l’invasione dell’esercito tanzaniano aiuta-to da milizie di esuli. E andrà male anche il con-fronto diretto con gli Stati Uniti nel Golfo dellaSirte, culminato col già citato bombardamentoaereo di Tripoli e Bengasi del 14 aprile 1986 enell’abbattimento di due Mig libici nel gennaio1989. Ma il rapporto degli americani con

Indefesso propugnatoredell’unità araba ha poi deciso che il panarabismo era una chimera, è uscitodalla Lega Araba esi è dedicato all’altra causadell’unità africana, di cui ha assunto la presidenza pochi mesi fa

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Gheddafi, in fondo, è speculare a quello diGheddafi con gli italiani: un’ossessione che diven-ta quasi odio-amore. Gli italiani, in particolare,dopo averli cacciati come coloni il raís li richiam-herà subito come tecnici e imprenditori, mante-nendo il nostro Paese come suo primo partnercommerciale. Già nel 1972 l’Eni dà vita a unasocietà mista col governo libico, la nostra tecnolo-gia fornisce alla Libia non solo impianti petrolchi-mici, ingegneria del territorio e macchinari maperfino armamenti, nel 1976 Gheddafi acquista il10% delle azioni Fiat, dando alla società torineseuna straordinaria iniezione di fiducia e capitali inun momento difficile, e già nel 1978 si è ricosti-tuita una comunità di 16mila italiani che è tornataa essere la seconda del Continente dopo quellasudafricana. Il 1978 è anche l’anno in cui va aTripoli il presidente del Consiglio Andreotti, pro-prio con il fine dichiarato di convincere Gheddafisulla bontà degli Accordi di Camp David.Anche gli americani all’inizio hanno continuato apuntare sulla Libia, perfino dopo la sommossacontro Rogers. Per la mentalità dell’amministra-zione Nixon, in fondo, un regime musulmano ècomunque anticomunista, Gheddafi non mancainfatti di fare dichiarazione antisovietiche, speciein occasione di quella guerra indo-pakistana del1971 in cui Mosca ha preso le parti di New Delhicontro il Paese islamico, e all’indomani del tratta-to tra Mosca e Bagdad del 1972. Inoltre Gheddafiappoggia l’espulsione dei consiglieri sovieticidecisa dal presidente egiziano Sadat in quello stes-so 1972, e ancora nel novembre di quell’anno uneditoriale dell’Observer definisce Gheddafi «il piùgrande flagello del comunismo internazionaledopo Foster Dulles». Poi i rapporti peggiorano,anche per il riavvicinamento tra Tripoli e Mosca,che specie dopo la visita di Gheddafi del 1976 e isuoi abbracci con Breznev inizia a fornirgli mate-riale bellico. Ma secondo il biografo di Gheddafi,J.K Colley, ancora sotto l’Amministrazione Fordla Cia «era probabilmente più incline a proteggere

che non a far cadere Gheddafi», pur se ilPentagono inizia a studiare l’ipotesi di occupazio-ne delle aree petrolifere libiche. Sotto Carter letensioni iniziano a venire alla luce, anche se fannolobbying a favore di Gheddafi alcuni importantiambienti affaristici e lo stesso fratello del presi-dente, Billy. In particolare, Washington è delusaper la mancata risposta alla richiesta di mediazio-ne con l’Iran dopo il rapimento degli ostaggi del-l’ambasciata Usa a Teheran, mentre d’altra parte laLibia sta portando al parossismo la sua agitazionecontro la pace tra Egitto e Israele. Quando Reaganva al potere, dunque, il colonnello è un comodoobiettivo per un’Amministrazione che vuolemostrare i muscoli dopo le umiliazioni degli ulti-mo decennio, ma scegliendosi avversari non trop-po ostici. E Gheddafi è un “cattivo” stravagante eantipatico quasi in modo cinematografico, matutto sommato isolato e alla testa di uno staterellodi non oltre i 2 milioni di abitanti. Ovviamente, nelsuo tentativo di essere amica a entrambi i conten-denti, l’Italia si trova in mezzo. Da una parte, nelsuo territorio i servizi segreti libici attaccano euccidono in quantità gli esuli: una risposta delregime alla sfida interna che dopo i moti studente-schi del 1976, le purghe di intellettuali del 1977 ela fallita rivolta militare di Tobruk del 1980 haportato nel triennio 1980-83 a vari tentativi digolpe. Anzi, ci sono 23 pescatori di Mazara delVallo che sono arrestati e detenuti a Tripoli conl’accusa di essere sconfinati nelle acque territoria-li libiche, in cambio della cui liberazione Gheddafichiede ai nostri servizi gli indirizzi di questi dissi-denti, per poterli più facilmente raggiungere.Dall’altra, nel giugno 1980 c’è il misterioso episo-dio di Ustica, in cui un aereo di linea italiano cadein uno scenario che molte ricostruzioni hannoricostruito come un tentativo di attacco di cacciafrancesi e americani a un aereo con a bordoGheddafi, per il quale il velivolo della Itaviasarebbe stato scambiato.Nell’agosto 1981 due aerei libici sono poi abbattu-

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ti dagli Usa nel Golfo della Sirte; tra 1981 e 1982la Libia è colpita da un’offensiva sui mercatipetroliferi; e nel marzo del 1982 è soggetta aembargo. Che Gheddafi abbia risposto a colpi diattacchi terroristici è stato ormai lui a confessarlo,anche se forse non è farina del suo sacco tuttoquello che gli è stato attribuito. Nel marzo 1986,comunque, gli americani rispondono con un’eser-citazione aereo-navale nel Golfo della Sirte, inacque che loro considerano internazionali eGheddafi invece libiche. E il 15 aprile, dopo i tremorti in un attentato a una discoteca di BerlinoOvest frequentata da soldati statunitensi e attri-buita ai servizi di Gheddafi, c’è l’attacco aereoalla Libia in cui anche la residenza di Gheddafi èdistrutta, sua moglie ferita e una sua figlia adotti-va uccisa. Clamoroso ma innocuo è il susseguente lancio didue missili libici Scud-B sull’isola italiana diLampedusa. Ma in quello stesso 1986 i libici sonoaccusati di aver “acquistato” un ostaggio america-no in Libano che poi morirà nelle loro mani, e diun attentato all’ambasciata Usa in Togo. Nel 1988due agenti libici compiono il famoso e già citatoattentato di Lockerbie, con 270 morti, tra cui 200americani. Sempre nel 1988 agenti libici compiono attentati alibrerie Usa in Colombia, Perù e Costa Rica. Nel1989 sono presi a Chicago agenti libici che si pre-parano a colpire aerei con missili. Nel 1989 c’è unattentato a un aereo francese in volo sul Niger percui nel 1999 un tribunale francese condannerà seilibici. Inoltre ci sono le uccisioni di oppositori invarie capitali europee: nel 1984 a Londra è unapoliziotta britannica a essere colpita a morte da uncolpo di arma da fuoco partito dall’ambasciatalibica contro un raduno di oppositori. Nel dossiervi è poi il traffico di armi Usa che la Libia svolgein particolare negli anni ’70. E le azioni di gruppiterroristi sponsorizzati dalla Libia: Ira, Eta, AbuNidal, Armata Rossa Giapponese, FronteRivoluzionario Unito della Sierra Leone, ribelli

islamici filippini. Anche se dopo il suo “ravvedi-mento” Gheddafi userà la sua influenza con questiultimi per mediare la liberazione di ostaggi.Qualcuno ritiene il pentimento di Gheddafi conse-guenza dell’embargo Usa, qualcun altro apprezzala sua capacità di comprendere i nuovi scenariaperti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica edalla Guerra del Kuwait, ma altri pensano piutto-sto alla sua crescente contrapposizione all’integra-lismo islamico, di cui pure è stato antesignano, eche finisce per creare un’inopinata convergenza diinteressi tra lui e gli americani.

Già dal 1981, va ricordato, una commissio-ne teologica riunita alla Mecca aveva definito“anti-islamica e apostata” l’interpretazione delCorano contenuta nel suo Libretto Verde.«Tagliate loro la testa e gettatela nella strada comequella di un lupo, di una volpe, di uno scorpione»,dice lui degli integralisti, «più pericolosi dell’aids,del cancro e della tubercolosi» per il tentato golpedel 1993 e i moti del 1996. Il processo non è linea-re, visto che nel 1992 il governo libico finiscesotto un nuovo embargo, questa volta Onu, peraver rifiutato di consegnare i due sospetti dellastrage di Lockerbie, mentre nel 1993 è annunciatol’allestimento dell’impianto per la produzione diarmi chimiche di Tardunah. Ma nel 1999, come siè ricordato, i due imputati di Lockerbie sono infi-ne estradati, dopo l’11 settembre 2001 Gheddafisostiene il diritto degli americani a attaccare ilregime dei Taleban, e infine arriva la già citatariammissione nella comunità internazionale del2004. Certo, però, che la Libia continua a non fare laminima apertura all’interno. Quanto all’Italia,messa tra parentesi anche la sommossa contro ilnostro consolato per la maglietta del ministroCalderoli con una vignetta anti-islamica danese,l’accordo di riconciliazione è stato infine portato atermine, e la Venere di Cirene restituita. Però dallecoste libiche i clandestini continuano a partire.

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residenza di Bab al Aziza dove l’intelligence Usa cre-deva fosse il raís. Uno dei 45 aerei incursori fu abbattu-to e i due piloti uccisi. Fu una fiammata di guerra. Unarappresaglia ordinata dopo l’attentato compiuto aBerlino nella discoteca “La Belle” da un commandolegato al regime di Tripoli che era costato la vita a unodei tanti soldati americani che frequentavano quel loca-le. La tensione tra i due Paesi era altissima. AlloraRonald Reagan definiva Gheddafi “un cane pazzo”, loaccusava di orchestrare il terrorismo internazionale e divolere armi di distruzione di massa, chimiche e nuclea-ri. Adesso il colonnello, che guida la Libia dallaRivoluzione Verde che lo portò al potere il primo set-tembre del 1969, dice che Barack Obama è «un raggiodi luce nel buio dell’imperialismo» e lo incontrerà alvertice del G8, dall’8 al 10 luglio in Abruzzo. Al tavolodei Grandi, Muammar Gheddafi è stato invitato comepresidente di turno dell’Ua, l’Unione Africana, che loha eletto suo massimo rappresentante nell’agosto scor-so. È tradizione dei summit del G8 avere dei corollari dicolloqui con gli esponenti delle regioni meno sviluppa-te del globo: una volta l’Asia, un’altra l’America latina.Questa volta tocca all’Africa e così il destino metterà di

fronte uno all’altro Obama e Gheddafi che, forse, nonerano pronti per organizzare un faccia a faccia a due,ma che a questo punto non si tireranno indietro. Anzi, illoro incontro si annuncia come l’appuntamento piùinteressante del vertice che doveva tenersi allaMaddalena e che Silvio Berlusconi ha deciso di sposta-re nel cuore delle zone terremotate provocando, oltre aun generale sentimento di solidarietà da parte dei laederinvitati, anche notevoli problemi logistici.In Sardegna tutto - o quasi - era pronto per ospitare ilG8. La struttura organizzativa, guidata da GuidoBertolaso, lo stesso che ora si occupa dell’emergenzaAbruzzo come capo della Protrezione civile, aveva giàapprontato la logistica. Il transatlantico “Splendida”della Msc era stato prenotato per accogliere i trenta tracapi di Stato e di governo che, complessivamente,saranno presenti alle diverse fasi del vertice: eccezionfatta proprio per Barack Obama e per MuammarGheddafi che dovevano essere ospitati il primo all’in-terno dell’arsenale militare, il secondo in una tenda ber-bera, quella che lo ha seguito ovunque come residenzanelle sue visite all’estero, dall’Eliseo al Cremlino.Erano state anche noleggiate le due navi da crociera che

AL G8 DELL’AQUILA, DOPO 20 ANNI, IL COLONNELLO INCONTRERÀ UN PRESIDENTE USA

DALL’ASSE DEL MALE ALL’ASSO DI OBAMADI ENRICO SINGER

ono passati 23 anni da quella notte tra il 14 e i 15 aprile del 1986,quando gli F-111 americani attaccarono Tripoli e Bengasi. Un solobombardamento combinato e contemporaneo che provocò la morte di41 libici, molti i civili, tra i quali anche Hanna, una giovane figlia adot-tiva del colonnello Muammar Gheddafi schiacciata sotto le macerie della

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dovevano essere ormeggiate al porto di Golfo Aranci:la “Orient Queen” e la “Coral”, di armatori greci eciprioti, erano destinate ai tremila uomini delle forze disicurezza. Tutta questa macchina, ora, è stata modifica-ta. Soltanto per Gheddafi non cambierà la sistemazio-ne: sarà sempre la sua tenda berbera anche in mezzoalle tendopoli azzurre dei terremotati. È presto per direse l’incontro con Obama rimarrà nei confini formalidella fase allargatata del G8 o se offrirà l’occasione aidue ex nemici di lanciare qualche segnale concreto diriconciliazione. Comunque sarà un momento-chiavedel processo di normalizzazione che è cominciato datempo, sotto la presidenza del repubblicano George W.Bush, e che dovrebbe trovare ulteriore impulso con ilnuovo presidente democratico che ha fatto dell’apertu-ra la linea di fondo della sua politica estera. Del resto gliStati Uniti, già nel 2006, avevano deciso di ristabilirepiene e normali relazioni diplomatiche con la Libia -interrotte da Jimmy Carter nel 1980 - e di riaprire la loroambasciata a Tripoli. La Libia è stata, inoltre, tolta dallalista degli Stati che sponsorizzano il terrorismo interna-zionale. Avallate dal presidente Bush, adottate dalsegretario di Stato, Condoleezza Rice, e annunciate dalsottosegretario David Welch, quelle decisioni hannosegnato la chiusura di una pagina di storia durante laquale Usa e Libia non solo non hanno dialogato, ma sisono a più riprese affrontate manu militari.

Quando Washington scatenò il raid aereo con-tro Tripoli e Bengasi, la Libia lanciò a sua volta controLampedusa due missili Scud che caddero in acqua acentinaia di metri dalla costa. Un gesto dimostrativo,più che altro. Anche perché è ormai accertato e ufficial-mente ammesso che fu proprio l’Italia a salvare la vitaal colonnello Gheddafi. Giulio Andreotti - che nell’86era ministro degli Esteri del governo Craxi - e il mini-stro degli Esteri libico, Abdul Rahman Shalgam, hannoraccontato nell’ottobre scorso una storia che più volteera stata scritta, ma mai confermata in modo così chia-ro e autorevole: il governo italiano avvertì Gheddafi chenella notte del 14 aprile ’86 la Us Navy avrebbe attac-cato Tripoli per punire la Libia che aveva organizzato

l’attentato contro i militari americani in Germania. «Sì,quell’attacco americano era un’iniziativa impropria ecredo proprio che dall’Italia partì un avvertimento perla Libia», ha raccontato Andreotti in un convegno orga-nizzato alla Farnesina. In effetti Bettino Craxi, all’epo-ca presidente del Consiglio, chiese al suo consiglierediplomatico, Antonio Badini, di avvertire l’ambasciato-re libico in Italia, quell’Abdul Rahman Shalgam cheoggi è il ministro degli Esteri di Gheddafi e che ha con-fermato la storia: «Craxi mi mandò un amico per dirmidi stare attenti perché il 14 o il 15 aprile ci sarebbe statoun raid americano contro la Libia». E fu proprio graziea questo avvertimento che probabilmente il leader libi-co si salvò. Craxi informò la Libia «due giorni primadell’aggressione, forse l’11 o il 12, e ci disse che l’Italianon avrebbe permesso di usare il mare e il cielo agliamericani per condurre il raid». In effetti, come ha rive-lato anche Margherita Boniver, allora responsabile este-ri del Psi, «qualche settimana prima dell’attacco, ilsegretario di Stato americano, George Shultz, arrivò inEuropa per consultazioni con i capi di Stato e di gover-no sull’intenzione americana di bombardare la Libiaper rappresaglia all’attentato alla discoteca “La Belle”di Berlino e per chiedere l’autorizzazione di sorvolo peri bombardieri Usa. Tutti gli europei dissero di no, tran-ne la Thatcher».Dopo quel primo, sanguinoso, scontro armato, tra Usae Libia c’è stato un altro episodio di guerra guerreggia-ta rimasto nella storia come “l’incidente del Golfo dellaSirte”. Il Khalij Surt, è la grande insenatura sulla costanordoccidentale libica che si estende da Misurata fino aBengasi. Con la dichiarazione del 19 ottobre 1973 -Gheddafi era al potere appena di quattro anni - la Libiarivendicò l’intero golfo come territorio nazionale trac-ciando una linea che arrivava anche a 302 miglia nauti-che dalla costa, detta “linea della morte”, il cui attraver-samento avrebbe comportato una risposta militare. Unamossa non riconosciuta dagli Usa e da tutti gli altriPaesi occidentali che accettano lo standard internazio-nale del limite delle acque territoriali a 12 miglia (22,2chilometri) dalla costa. La crisi si acuì quando gli StatiUniti accusarono la Libia di costruire un impianto per

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realizzare armi chimiche a Rabta e inviarono nel Golfodella Sirte, oltre la “linea della morte”, le portaereiKennedy e Roosevelt. Il 4 gennaio del 1989 ci fu unoscontro aereo tra due F14 Tomcat dello squadrone degliSwordsman (spadaccini) imbarcato sulla Kennedy edue Mig23 libici che furono abbattuti. A proposito dicombattimenti nei cieli, non si può non ricordare cheGheddafi, ancora nel settembre del 2003, accusò gliUsa di avere abbattuto anche il DC9 Itavia precipitatoa Ustica con 81 passeggeri e membri dell’equipaggio,tutti morti. «Gli americani erano sicuri che io fossi abordo di quell’aereo e per questo lo buttarono giù»,disse il leader libico nel suo discorso per la celebrazio-ne del 34esimo anniversario della Rivoluzione Verdedel 1969. Un’accusa mai provata, naturalmente, mache è l’ennesima dimostrazione di quanto fossero esa-sperate le relazioni tra Libia e Stati Uniti. Nel 2000 laCia aveva anche accusato Tripoli di avere armi di ster-minio, un’affermazione che Gheddafi smentì. La svol-ta nei rapporti tra i due Paesi avvenne alla fine del 2003,quando la Libia, che si era già assunta la responsabilitàdell’attentato di Lockerbie e aveva accettato di pagarnegli indennizzi, concluse un accordo con Washington eLondra in cui rinunciava ai propri programmi nuclearie di costruzione di armi di distruzione di massa. Si eranel pieno del clima di tensione internazionale seguitoall’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 edelle azioni militari in Afghanistan e in Iraq che sem-bravano, a quel punto, essersi rapidamente concretizza-te in un successo. Gheddafi, forse, si sentiva ancor piùisolato e accerchiato. E cominciarono i passi di riavvi-cinamento. Quando, nel 2004, Welch annunciò la deci-sione di riaprire almeno degli uffici di rappresentanza,primo atto della ripresa delle relazioni diplomatiche,disse che «il Dipartimento di Stato aveva valutato conattenzione il comportamento di Tripoli che ha fattopassi decisi nel prendere le distanze dal terrorismo». Da parte libica il ministro degli Esteri, Shalgam, parlòdi “una nuova pagina” nelle relazioni con gli Usa espiegò che la mossa non era una sorpresa e non era uni-laterale, ma «il risultato di contatti e negoziati, di unreciproco interesse, di accordi e comprensioni». Chi

non condivise la soddisfazione americana e libica, ful’opposizione in esilio che parlò di decisione «malau-gurata che non aiuta il popolo libico che sta cercando diottenere il rispetto dei diritti umani e ha bisogno del-l’aiuto internazionale», come disse dal suo esilio egizia-no Fayez Jibril, del Congresso nazionale libico. Ma ilcammino del riavvicinamento non s’interruppe. Alcontrario, ha segnato altre tappe decisive.

Il 5 settembre dello scorso anno, CondoleezzaRice, in quel momento ancora Segretario di Stato, èsbarcata a Tripoli. È stata la prima visita di un alto rap-presentante americano in Libia dopo quella che un altroSegretario di Stato, John Foster Dulles, aveva compiu-to addirittura nel lontano 1953, incontrando il re Idriss.La Rice dichiarò che il suo incontro con Gheddafi erastato “un buon inizio” anche se, tra tanti sorrisi, qualchedivergenza era rimasta. A proposito del rispetto deidiritti umani, per esempio: tema che Condoleezza sol-levò provocando la reazione del minstro Shalgam ilquale replicò che «la Libia non ha lezioni da prendereda nessuno». L’incontro con Muammar Gheddafi, chela stessa Rice definì «storico», fu organizzato dai libici,non a caso, nella residenza di Bab al Aziza, il comples-so dove la figlia adottiva del colonnello morì nel bom-bardamento del 1986 ordinato dall’allora presidenteRonald Reagan. La visita di Condoleezza Rice fu resapossibile dall’ultimo atto della lunga vicenda dei risar-cimenti alle famiglie delle vittime degli attentati diBerlino e di Lockerbie. E, tre mesi e mezzo dopo, il 29dicembre 2008, arrivò a Tripoli anche il nuovo amba-sciatore americano, Gene A. Cretz, che dopo 36 anni siè insediato come rappresentante degli Stati Uniti inLibia. A questo intreccio diplomatico Washington-Tripoli si è affiancata l’opera di normalizzazione conl’Italia che aveva già fatto passi da gigante negli ultimianni, ma che rimaneva sospesa alla doppia questionedei risarcimenti di guerra e delle scuse per il passatocoloniale. Poco prima che arrivasse Condoleezza Rice,era stato Silvio Berlusconi a incontrare, nell’agosto del2008, Gheddafi a Bengasi dove era stato firmato ilTrattato di amicizia e cooperazione con l’Italia.

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Attorno a quel documento si accese anche un gial-lo, perché il leader libico svelò alcuni retroscenadell’accordo appena siglato: in particolare l’impe-gno italiano a «non concedere mai il suo territorioper azioni contro la Libia». Una frase che provocòuna puntualizzazione da parte di Palazzo Chigi: «Inrelazione a quanto riportato dall’agenzia di stampalibica Jana sul trattato firmato tra l’Italia e la Libia,si precisa che l’accordo fa, come è ovvio, salvi tuttigli impegni assunti precedentemente dal nostroPaese, secondo i principi della legalità internazio-nale». Come dire che gli impegni con la Nato e,quindi, con gli Usa, non si discutono.

Ma Gheddafi ha insistito e ha riferito che,per convincere i negoziatori italiani ad inserire l’ar-ticolo 4 nel trattato, «abbiamo detto che la questio-ne altrimenti non sarebbe stata chiusa e che nonavremmo mai perdonato l’Italia per quello cheaveva fatto contro di noi». Su questo punto gli ame-ricani si sono limitati a dichiarare di “non avereinformazioni di merito”, ma per bocca del sottose-gretario di Stato, David Welch, hanno promosso ilpatto siglato tra Roma e Tripoli come «uno svilup-po positivo che si inserisce nel nuovo sentiero dicollaborazione intrapreso dalla Libia». La definiti-va pace tra Italia e Libia è cronaca di questi ultimimesi. È stata firmata solennemente nel deserto dellaSirte il 2 marzo di quest’anno. Accolto a bracciaaperte da Muammar Gheddafi sotto la sua tenda,Berlusconi ha chiesto scusa per “le colpe dei colo-nizzatori” e ha invitato formalmente il leader libicoal G8. Per sottolineare i nuovi rapporti con la Libia,Berlusconi ha anche annunciato di essere stato asua volta invitato il prossimo anno in Libia il 30agosto, per la “Giornata di amicizia tra il popoloitaliano e il popolo libico” e ha annunciato che sitratterrà a Tripoli fino al primo settembre per«festeggiare insieme il quarantesimo anniversariodella vostra grande rivoluzione». Calorosa e altret-tanto solenne è stata la risposta di Gheddafi che haaccettato «le scuse dell’Italia» e ha «pregato tutti i

libici di vincere i propri risentimenti e tendere lamano ai loro amici italiani» in un rapporto di rispet-to reciproco. In concreto, le aziende italiane cheintendono operare in Libia avranno la prioritàrispetto a tutte le altre ed anche gli italiani che risie-devano nel Paese prima dell’espulsione di massadel 1970 potranno liberamente rientrare in Libia perlavoro o per turismo. Disgelo completo con l’Italia,insomma. Normalizzazione con gli Usa. E riavvici-namento anche con la Russia. Il primo novembredel 2008 il leader libico è stato anche a Mosca dopo23 anni: la sua ultima visita in quella che era anco-ra l’Urss avvenne nel 1985. Gheddafi, che ha piaz-zato la sua tenda beduina all’interno delle mura delCremlino, è stato ricevuto da Dmitri Medvedev eda Vladimir Putin con i quali ha parlato dell’acqui-sto di armi e probabilmente di un accordo per sfrut-tare l’energia nucleare a fini pacifici in cambiodella concessione di una base di appoggio in Libiaper le navi russe nel Mediterraneo. Un ulteriore sdoganamento sulla scena internazio-nale è stata l’elezione a presidente dell’Ua. I dele-gati dei 53 Paesi membri dell’Unione Africana riu-niti nella capitale etiope Addis Abeba, la scorsaestate lo hanno designato come successore del pre-sidente tanzaniano, Jakaya Kikwete. Gheddafirimarrà in carica un anno, troppo poco per realizza-re il suo ambizioso programma: trasformare l’Ua inuna specie di Stati Uniti d’Africa con una solamoneta, un solo esercito e un solo passaporto emu-lando così il modello americano e superandol’Unione Europea a cui l’Ua si ispira per organizza-zione e finalità. Nata dalle ceneri della precedenteOrganizzazione dell’Unità Africana (Oua), franataper le divisioni interne e la strutturale inutilità, l’Uaha l’obiettivo dichiarato di favorire l’integrazioneeconomica e politica tra gli Stati membri. Ne fannoparte tutti i Paesi del continente tranne il Marocco,che nel 1984 abbandonò l’Oua per protestare con-tro il sostegno dato da numerosi Paesi africaniall’indipendenza del Sahara Occidentale. Dotata diuna Commissione esecutiva e di un Parlamento, i

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cui membri sono eletti dai deputati dei singoli Statie non a suffragio universale, l’Ua ha anche una suaCorte di Giustizia e un Consiglio per la Pace e laSicurezza che dovrebbe risolvere i contrasti primache degenerino in conflitti armati. Una specie dimix tra l’Onu e la Ue che, finora però, non ha datoi risultati sperati e che si dibatte negli stessi proble-mi della vecchia Oua. Nel febbraio scorso, proprioa conclusione dell’ultimo summit dell’Ua,Gheddafi ha detto che «il sistema democraticobasato sul multipartitismo in Africa porta con sé unascia di sangue perché i partiti politici sono tribaliz-

zati» e ha proposto come modello il sistema libicodove i partiti di opposizione non sono ammessi. Lefrasi di Gheddafi sono state contestate da diversirappresentanti di Stati africani dove vige un sistemamultipartitico democratico, come il Sud Africa, laNigeria, il Ghana e il Senegal.Sono le due facce del regime di Gheddafi. Apertura internazionale, chiusura interna. Un episo-dio significativo è anche la sorte che sta toccando asuo figlio, Saif al Islam, che era considerato il suodelfino e ora è caduto in disgrazia. Saif, figlio mag-giore della seconda, e preferita, moglie del colon-nello, laurea in architettura in Austria, specializza-zione a Londra, è il paladino dell’apertura. Ha lan-ciato battaglie per diritti umani e libertà d’espres-sione. Muammar Gheddafi gli aveva affidato ilruolo di capo informale della diplomazia nei nego-

ziati più delicati, compresi quelli con l’Italia e congli Usa. A lungo Saif era stato ritenuto il successo-re designato, il più stimato degli otto figli, tra i qualici sono anche un economista, un play-boy e un cal-ciatore che ha giocato in Italia. Ma, dall’agostoscorso, il vento è cambiato. Prima c’è stato un passo indietro da parte dello stes-so Saif che ha annunciato di non avere più ambizio-ni pubbliche. Era sembrata una mossa tattica: ildesiderio di evitare il ruolo del figlio-delfino. Ma isegnali che indicano il contrario si stanno accumu-lando. Alla fine del 2008 Saif si era trasferito in

Svizzera e si era parlato di una richie-sta di asilo politico, poi smentita, tantoche da qualche mese è tornato in Libiadove, però, la sua televisione satellita-re, Al Libiya, è stata presa di mira. Il 30aprile scorso, a metà del programma indiretta An Qurb (che vuol dire da vici-no), il segnale è stato oscurato e suglischermi di chi stava seguendo la tra-smissione è comparso il logo della retegovernativa. La conduttrice Hala al Musrati è statainterrogata e il direttore, Abdessalam

Mechri, è stato per un giorno agli arresti. Motivodichiarato: un’inchiesta sulle attività di tortura e ter-rorismo all’estero dei Comitati Rivoluzionari (inpratica, il partito unico libico) e le accuse lanciategiorni prima dal giornalista egiziano dissidenteAhmed Qandil contro il presidente Hosni Mubarakche aveva protestato formalmente. L’iniziativa con-tro la tv di Saif rimette in discussione tutte le ipote-si - per quanto davvero premature - sulla successio-ne di Muammar Gheddafi, che ha 67 anni e che,come sanno molto bene tutti quelli che lo conosco-no personalmente, ama giocare su più tavoli.Un’ultima prova?La sua definizione dei pirati che sequestrano lenavi, compresa l’italiana Bucaneer, nel Golfo diAden che per il leader libico sarebbero dei «com-battenti contro i nuovi colonialisti».

Quando Washington scatenò il raid aereo contro Tripoli e Bengasi, la Libia lanciò a sua volta due missili Scud verso Lampedusa. Un gesto dimostrativo. Anche perché è ormai accertato che fu l’Italia a salvare la vita al Colonnello

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imperialista, con le mire sulla Tunisia, delusedaiFrancesi nel 1881 e con la successiva conquista dellaLibia nel 1911. Meno conosciuti i nostri sforzi pervalorizzare gli interessi nazionali soprattutto di naturaeconomica, anch’essi in gran parte frustrati, inMarocco ed Egitto, sempre prima della GrandeGuerra.In un mondo profondamente diverso, quellodi oggi, quei Paesi continuano comunque a rappresen-tare per noi una priorità strategica ed economica.Innanzitutto la sicurezza energetica del nostro Paesedipende in maniera significativa da Libia ed Algeria.Gli ingenti esborsi finanziari necessari ad acquistaregas e petrolio sono fortunatamente compensati dallacapacità e dal dinamismo dei nostri imprenditori diritagliarsi una posizione di tutto rispetto sui mercatidell’Africa settentrionale e che garantiscono al nostroexport di figurare sempre ai primi posti. Più in gene-rale l’Italia insieme all’Unione Europea, è interessataa promuovere e sostenere uno sviluppo economicoequilibrato e assetti politici stabili in una regione, ilMaghreb più l’Egitto, che conta più di 150 milioni diabitanti e che non è del tutto scevra da possibiliminacce, dal radicalismo religioso al terrorismo, aiflussi migratori che risultano essere di difficile gestio-ne. Per quanto riguarda la sicurezza energetica l’Italiaè collegata ad Algeria e Libia da due arterie che garan-tiscono un costante flusso di gas pari al 43,2% delle

nostre importazioni totali. Le forniture nordafricaneconsentono all’Italia di diversificare le fonti, in quan-to oggi il nostro Paese dipende per il 32,9% del suofabbisogno estero dalla Russia. Il gasdotto Transmed,denominato “Enrico Mattei” collega l’Algeria allaSicilia attraverso la Tunisia e trasporta quasi la totali-tà del gas algerino acquistato dall’Italia, primo acqui-rente, che è pari a circa il 30,5%, delle nostre impor-tazioni. Attualmente sono in corso dei lavori diampliamento nel tratto tunisino (Trans TunisinaPipeline) che dovrebbe portare la capacità annuale delgasdotto da 27 a 33,5 miliardi di m3 entro il 2012. Nelnovembre 2007 è stato firmato un accordo con laSonatrach, la compagnia di Stato algerino nel settoreenergetico, con la partecipazione della regioneSardegna, Enel, Edison e altre imprese per la realizza-zione di un secondo gasdotto, il Galsi, finanziatoanche dall’Unione Europea con un contributo di 120milioni di Euro e che attraverserà la Sardegna per poicollegarsi con la rete di distribuzione europea daPiombino. L’altra arteria per il trasporto di gas nordafricanoverso il nostro Paese è il pipeline Greenstream l’ele-mento principale del Western Libyan Gas Project(Wlgp). Entrato in attività nel 2004 si estende per 370miglia, unendo le strutture di Melitah, sulla costa libi-ca (rifornite rispettivamente dai giacimenti di Wafa e

SICUREZZA ENERGETICA, MIGRATORIA E AMBIZIONI ECONOMICHE E COMMERCIALI

IL MONOPOLI NORDAFRICANODI ROBERTO CAJATI

•è •

sufficiente uno sguardo superficiale a una carta geografica per osser-vare quanto i Paesi della costa Sud del Mediterraneo siano importan-ti per il nostro Paese. L’interesse italiano per l’Africa del Nord si eraperaltro già manifestato in maniera evidente sin dagli anni immedia-tamente successivi alla nostra unificazione nazionale, in piena epoca

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di Bahr Essalam), con la Sicilia meridionale da dovepartono diverse ramificazioni verso il continente euro-peo. Il progetto realizzato dalla Società energetica sta-tale libica, la National Oil Corporation (Noc) e dall’Eni-Saipem ha avuto un costo di 7 mld. di Euro.L’Eni è impegnata anche allo sviluppo di impianti perla liquefazione del gas per consentirne il trasporto vianave. Complessivamente la Libia copre il 12,7% dellenostre importazioni di questa risorsa energetica.Perciò che concerne invece il petrolio, le importazioni ita-liane di greggio nordafricano sono pari al 33,5 % deltotale in gran parte di provenienza libica, superiori al27% del totale. Il restante proviene da Algeria, Egittoe residualmente dalla Tunisia. Dunque, Tripoli costi-tuisce il primo fornitore di greggio al nostro Paesedavanti a Russia Iran ed Arabia Saudita.

L’Eni detiene la prima posizione tra le com-pagnie straniere petrolifere operanti nella GrandeGiamahirya e sicuramente dopo l’accordo diAmicizia, Partenariato e Cooperazione, firmato il 30agosto 2008, che prevede un risarcimento da parte ita-liana alla ex-colonia di circa 5 miliardi di dollari in 25anni, ha consolidato la propria posizione. Questoaccordo, criticato da molti per l’ingente impegnofinanziario può essere giustificato dal fatto che le rela-zioni italo-libiche - soprattutto tra il 2003 ed il 2005 -hanno incontrato serie difficoltà. La preminenza italia-na a Tripoli ha corso il rischio di indebolirsi significa-tivamente proprio nel momento in cui il ColonnelloGheddafi era riuscito a ricucire i rapporti con l’occi-dente. In particolare. nel corso delle aste per l’assegna-zione delle licenze di prospezione nel gennaio 2005,l’Eni è rimasta del tutto esclusa dalle assegnazioni. Senegli anni Ottanta e Novanta, nonostante l’irrisoltonodo coloniale, l’Italia poteva avvantaggiarsi dall’iso-lamento internazionale di Tripoli, con il rientro diamericani, inglesi e francesi si è temuto un ridimen-sionamento delle relazioni speciali tra l’Italia e laLibia, con conseguenze negative anche sotto il profilodegli interessi economici del nostro Paese. Lo spau-racchio degli sbarchi degli immigrati clandestini

aggiungeva un motivo in più per risolvere in mododefinitivo le questioni pendenti con la Libia e consoli-dare la nostra posizione nella Grande Giamahirya. Al di là dell’importante ruolo che gioca l’Africa delNord nell’ambito della nostra sicurezza energetica,anche l’interscambio commerciale conferma un cre-scente interesse del nostro Paese per questa area. Intermini assoluti, il peso economico dell’import e del-l’export sul totale dell’Italia, rispettivamentedell’8,4% e del 3,6% non sembra apparire particolar-mente significativo. Tuttavia il giudizio cambia se siprende in considerazione la dimensione economica,vale a dire del Pil complessivo dei 5 stati considerati,Algeria, Marocco, Tunisia, Egitto e Libia, che è parisoltanto allo 0,8% del Pil mondiale. In termini relativiè dunque subito evidente che l’importanza dei rappor-ti economico commerciali con i nostri vicini delMediterraneo è senz’altro notevole. Inoltre si tratta diPaesi che sono lungi dall’avere realizzato i loro poten-ziali di sviluppo e che hanno tassi di crescita demogra-fica molto elevati. Non è un caso che negli ultimi treanni i trend del nostro export siano stati in una fase dinetta ascesa. Rispetto al 2003, oggi le nostre esporta-zioni verso Algeria, Marocco, Libia ed Egitto sonoraddoppiate in termini di valore, mentre relativamen-te più contenuta è stata la performance con la Tunisiacon un incremento del 67%. In Libia siamo in testacon una quota di mercato superiore al 21%, seguitidalla Germania (7,7%), Cina (7,2%), Tunisia (6,6%),Francia (6,2%) e Turchia (5,3%). Relativamentemeno forte è la nostra posizione in Egitto dove ci col-lochiamo al quarto posto con una quota di mercato del5,4% dietro a Usa (11,34%), Cina (8,2%), Germania(6,4%), ma davanti all’Arabia Saudita (5%). InMarocco, dove le nostre esportazioni hanno visto unbalzo in avanti negli ultimi 2 anni, siamo riusciti ascalzare il terzo posto dell’Arabia Saudita, ma siamoancora molto al di sotto dell’export francese e spagno-lo, forte di consolidati legami storici con quel Paese.L’export italiano ha avuto un’altra performance note-vole nel I semestre 2008 in Algeria, con un incremen-to addirittura dell’80%, che ha permesso al nostro

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Paese di superare la Cina con una quota di mercatodel 10%, tuttavia sempre alle spalle della Francia, checontinua a essere il primo fornitore di beni e servizi.Infine, anche in Tunisia l’export italiano è secondoalla Francia anche se di poco. Ambedue i Paesi -Francia e Italia - controllano più della metà dell’ex-port verso la Tunisia, seguiti a distanza da Germania,Spagna e Belgio. Complessivamente i settori neiquali riusciamo ad imporci su questi mercati sono inbuona sostanza quelli tipici del made in Italy, prodot-ti meccanici, elettrici, tessile di qualità, agro-alimen-tare e quelli legati all’indotto dei grandi lavori,impiantistica ed edilizia. Relativamente meno brillan-ti sono i risultati del nostro Paese per quanto riguardagli investimenti diretti (Ide) se si esclude il settoreenergetico e le attività italiane in Tunisia. Ad esempioin Algeria l’Italia è al decimo posto ed in Marocco altredicesimo. Dati che confermano la debolezza delnostro Paese come origine degli Ide in tutta l’areamediterranea (Paesi Meda), dove ci situiamo al quat-tordicesimo posto nei dati 2007 alle spalle anche diGrecia, Qatar, India, Spagna con circa 1,29 miliardi dieuro. Molto al di sotto dei principali investitori comegli Emirati Arabi (13,55 mld), Francia (9,51 mld),Regno Unito, (5,42 mld), Stati Uniti (4,12 mld),Arabia Saudita (3,83 mld).

L’Italia sconta purtroppo la struttura del pro-prio sistema economico basato sulle piccole e medieimprese, eccellenti esportatrici, ma in difficoltà quan-do si tratta di muoversi sui grandi investimentiall’estero. Qualche segno di miglioramento, anche sulfronte degli investimenti esteri nell’area sia Ide che diportafoglio, si comincia tuttavia a sentire. Il sistemabancario italiano sempre piuttosto reticente nel muo-versi all’estero, ha iniziato qualche operazione signifi-cativa anche in Africa del Nord con l’acquisizionedella maggioranza della Bank of Alexandria in Egittoda parte dei San Paolo IMI Banca Intesa, in seguitoalla privatizzazione della Banca egiziana. Molto attiveanche le imprese di costruzioni e del trasporto navaleche si sono aggiudicate commesse notevoli negli ulti-

mi anni. La Tunisia sembra essere un’eccezione sem-pre per quanto riguarda gli Ide italiani. In questo Paeseci collochiamo al terzo posto dopo il Regno Unito, gliStati Uniti, superando la Francia. Qui gioca a nostrofavore un’amministrazione locale relativamente effi-ciente che offre opportunità anche alle piccole impre-se. Non mancano peraltro grandi investitori italianicome la Benetton che sta contribuendo molto alla cre-scita del settore tessile in Tunisia.È di tutta evidenza che, data la prossimità geografica,l’interesse italiano per la regione nordafricana non èsoltanto di tipo strettamente economico-commerciale,ma comprende la questione della sicurezza sotto variprofili, dal terrorismo ai flussi migratori. Sviluppoeconomico e progresso graduale della democrazianella sua accezione più ampia costituiscono due ele-menti che possono contribuire alla stabilità politicadella regione. Data l’ampiezza dei problemi e l’eleva-ta dilemmaticità delle strategie da attuare, il nostroPaese deve necessariamente muoversi insieme ai par-tner dell’Unione Europea, che peraltro sono ugual-mente interessati ad assicurare una maggiore sicurez-za e quindi progressi più rapidi all’interno dei Paesidell’Africa del Nord, nel campo della governanceeconomica, dello stato di diritto e più generale di uno

L’interesse italiano per la regione nordafricananon è soltanto di tipo strettamente economico-commerciale,ma comprende la questione della sicurezza sotto vari profili, dal terrorismo ai flussi migratori e deve muoversi insieme ai partner europei

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sviluppo economico sostenibile ed equo. Lo scenarioche si presenta oggi non è scevro di ombre. I Paesi delMaghreb e l’Egitto possono vantare complessivamen-te performance economiche di tutto rispetto, con unarelativa stabilità del quadro macro-eonomico. Grazieanche alle pressioni di Banca Mondiale, FondoMonetario Internazionale e soprattutto dell’UnioneEuropea sono state attuate con ritmi diversi ed effica-cia non sempre soddisfacente una serie di riformestrutturali, come parziali privatizzazioni, e conformitàagli standard internazionali in vari settori. Vi è stata

inoltre una progressiva apertura dei mercati. Tutti iPaesi considerati ad esclusione della Libia sono legatiall’Ue da accordi di associazione. Marocco, Tunisiaed Egitto sono parte dell’accordo di Agadir che istitui-sce una zona di libero scambio tra i tre Paesi più laGiordania e che favorisce anche l’interscambio conl’Ue. Altro schema multilaterale finalizzato alla pro-mozione degli scambi è il Greater Arab Free TradeArea (Gafta) con 17 membri tra i quali tutti i Paesidell’Africa del Nord Algeria esclusa.Gi altri Stati dell’Africa del Nord ad esclusionedell’Egitto sono membri dell’Uma (Unione delMaghreb Arabo), che in teoria potrebbe essere la baseper creare un’area di libero scambio se non addirittu-

ra un’unione economica che favorisca un’auspicataintegrazione economica di quei mercati. Tuttavia perle rivalità interne, i progressi concreti, anche limitata-mente all’interscambio con i Paesi membri, sono statifino ad ora molto scarsi. È tuttavia innegabile cheanche in presenza di elevati incrementi del Pil neiPaesi dell’Afrca del Nord i benefici continuano adessere il più delle volte distribuiti iniquamente. Nontutto il tessuto sociale partecipa alla crescita economi-ca e gli elementi di autoritarismo nella gestione politi-ca permangono spesso evidenti. Un forte dirigismodello Stato che purtroppo si accompagna con ineffi-cienze della burocrazia ed elevata corruzione, sonoaltri elementi che concorrono a creare disagio socia-le. Questo è particolarmente chiaro per le nuove gene-razioni che si trovano spesso escluse da una gestionedegli interessi economici di tipo oligarchico e dove imercati che possano offrire buone opportunità a tuttisulla base del merito e dell’impegno individuale nonfunzionano a dovere. Ogni Paese dell’Africa del Nordha ovviamente le sue caratteristiche peculiari ed èsempre difficile generalizzare.

Il Marocco, lo Stato con il reddito pro-capite piùbasso, presenta ancora una situazione di accentuatodualismo. Basti pensare che il tasso di analfabetismoè del 47% e che soltanto il 18% delle case ruralidispone di acqua corrente. Negli ultimi anni sonostate attuate riforme economico sociali di un certorilievo dietro l’impulso di Banca Mondiale e UnioneEuropea. Gli investimenti esteri sono aumentati consi-derevolmente, soprattutto nel settore turistico edimmobiliare. L’aeroporto di Casablanca è divenuto unimportante hub internazionale e Air Maroc (Ram) èconsiderata una delle migliori compagnie aeree africa-ne. Infine è in corso di realizzazione quello che sarà ilpiù grande porto del Mediterraneo e decimo a livellomondiale, il Tanger Med II con una capacità di 5milioni di container. Tuttavia, forti sperequazioni deiredditi, una burocrazia poco trasparente, un sistemagiudiziario ancora poco affidabile e un mercato dellavoro molto rigido, impediscono un vero decollo eco-

Rispetto al 2003, oggi le nostre esportazioni verso Algeria, Marocco,Libia ed Egitto sono raddoppiate in termini di valore, mentre più contenuta è la performance con la Tunisia, con un incremento del 67 per cento

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nomico al Regno Alauita. La bilancia commercialecontinua a registrare forti deficit, solo parzialmentecompensati dalle rimesse degli emigranti, anche per-ché dipende per il suo fabbisogno energetico dalleimportazioni di petrolio. Con il 19% della popolazio-ne che vive al di sotto della soglia nazionale di pover-tà il Marocco risulta essere l’ultimo in graduatoria trai Paesi dell’Africa del Nord nell’indice di sviluppoumano del Undp e 126esimo a livello mondiale. L’Algeria, nonostante le immense risorse energetichee l’incremento dei prezzi di queste, non sembra riusci-re a capitalizzare i flussi finanziari dell’export di gas egreggio, che rappresentano il 97,8% delle entrate valu-tarie. Gli incrementi del Pil solo relativamente mode-sti e le tensioni sociali derivanti da un deterioramentodel potere d’acquisto delle classi più povere sono evi-denti. Secondo i principali organismi internazionali evari osservatori, giocano a sfavore del Paese le scarsecompetenze amministrative, una governance che è lapeggiore del Maghreb, e che determina di fatto unosperpero delle risorse. L’Algeria, secondo il FondoMonetario internazionale, per garantire un aumentostabile del potere d’acquisto e dell’occupazionedovrebbe avere tassi di crescita del Pil del 7%, obiet-tivo che sembra molto lontano dall’essere raggiunto.

La Libia, Paese che unisce il vantaggio dellaricchezza in termini di risorse energetiche pari al95%delle entrate valutarie a quello di una scarsa popola-zione, è un caso a se stante. Il regime del ColonnelloGheddafi è riuscito a dare stabilità politica alla nazio-ne, giocando su più piani in maniera molto abile. Glielementi di questa sono essenzialmente tre: una distri-buzione delle risorse con forti sussidi sociali, unapolitica repressiva e di forte controllo sociale e unabuona capacità di interpretare gli umori e le istanzeideologiche della popolazione. La Libia ha quindicondizioni di sviluppo sociale di testa tra i Paesidell’Africa del Nord con un 56 esimo posto a livellomondiale secondo l’indice di sviluppo umanodell’Undp. Se si guarda all’efficienza del sistema eco-nomico della Grande Giamahirya, il discorso cambia

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del tutto. Più dell’80% della forza lavoro è impiegatanel settore pubblico. La manodopera non qualificataattiva è costituita in gran parte da immigrati prove-nienti dalle aree più povere dell’Asia e dell’Africa. Ilfattore lavoro tecnicamente qualificato è scarso e laburocrazia pletorica e poco affidabile. Secondo unrecente studio, su 318 progetti esteri autorizzati tra il2003 ed il 2006 dall’ente libico degli investimenti, sol-tanto 150 sono arrivati alla fase della firma di impegnoe soltanto tre sono stati effettivamente realizzati.Grazie all’incremento del prezzo del greggio degliultimi anni i programmi di sviluppo nazionale preve-dono una grande quantità di lavori pubblici e infra-strutturali. Il Fondo Monetario ha tuttavia espressopreoccupazione per una tendenza del governo diTripoli a promuovere progetti a pioggia senza alcunavalutazione di costi e benefici.La Tunisia rappresenta al contrario una success story.Negli ultimi 10 anni ha avuto una media annuale diincremento del Pil del 5%. Grazie ad un’ottima capa-cità di attrazione degli investimenti esteri, con unosportello unico per le imprese che funziona ottima-mente, negli ultimi 10 anni è stata destinataria di capi-tali esteri superiori a quelli diretti verso il Marocco equasi pari a quelli diretti verso l’Egitto, Paese di tagliadecisamente superiore in termini geografici. L’indicedi competitività del World Economic Forum collocala Tunisia al 36esimo posto posizione superiore aquella italiana. L’economia tunisina è così riuscita asviluppare un fiorente settore turistico e manifatturie-ro nel tessile e da poco tempo anche meccanico e deimateriali elettici. Gli unici due nei del panorama diquesto paese sono un regime autoritario e una distri-buzione del reddito non ottimale che nel medio-lungoperiodo potrebbero alimentare insoddisfazioni e insta-bilità. Infine anche l’Egitto sembra dimostrare di averimboccato la strada giusta, con tassi di sviluppo del6,8% nel 2006 e 7,1% nel 2007. Questo Paese hasaputo diversificare la propria economia avvalendosianche di consistenti riserve di gas naturale e petrolio.Oltre ad una buona produzione agricola, esporta pro-dotti siderurgici, chimici e abbigliamento. Tuttavia

l’elevata crescita della popolazione (secondo recentistime del 2009 gli abitanti hanno superato gli 80milioni) e un sistema istituzionale ancora inefficiente,che avrebbe bisogno di ulteriori e più coraggiose rifor-me, impediscono che i progressi fino ad ora raggiuntisi traducano in un miglioramento degli standard divita della maggioranza della popolazione. L’Ue, con-sapevole dell’importanza strategica dell’area, fin dal-l’inizio degli anni Novanta ha intrapreso una comples-sa azione di sostegno dei sistemi Paese della regionemediterranea, attraverso la promozione di ampie rifor-me economiche e politico sociali. Gli strumentidell’Ue, oltre ai citati accordi di associazione, sonostati le Mésures d’accompagnement financières ettechniques (Meda), oggi sostituti dall’ EuropeanNeighbourhood and Partnership Instrument (Enpi)che hanno devoluto consistenti finanziamenti anche aiPaesi dell’Africa del Nord (esclusa la Libia che per-mane fuori dallo schema). I flussi finanziari sono stati destinati innanzitutto allolo sviluppo economico, infrastrutturale, istituzionale eal sostegno delle piccole e medie imprese; secondaria-mente ci si è concentrati sulla promozione dellagovernance e delle capacità amministrative; più limi-tate e prudenti sono state le politiche di sostegno allosviluppo delle istituzioni democratiche e del rispettodei diritti umani. L’idea base dell’Ue è, infatti, quelladi innescare un processo graduale di modernizzazio-ne, senza mettere in difficoltà eccessiva le autocrazieal potere, come premessa per futuri sviluppi sul ver-sante politico. Tale indirizzo graduale ha suscitato ampie critiche daparte di molti osservatori, posizione in parte condivi-sa dagli Stati membri dell’Ue del Nord Europa, chesostengono una più incisiva politica a favore delleriforme democratiche, del rafforzamento della societàcivile e del rispetto dei diritti umani. Non è casuale cheal contrario i Paesi membri dell’Ue del Mediterraneo,in particolare Francia, Spagna ed Italia preferiscanomantenere buoni rapporti con le oligarchie in Africadel Nord ed evitare di innescare azioni destabilizzan-ti, essendo più esposti ad eventuali crisi nell’area.

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ed economico ambito, al punto che gli si lascia acqui-stare ciò che desidera, comprese quote fin troppo rile-vanti di pezzi cruciali delle poche società italiane chehanno una rilevanza strategica. E poi c’è una Tunisiache non crea problemi e ha una economia dinamicamentre l’Algeria è un valido alleato nella lotta al terro-rismo (cominciando dal suo, naturalmente) e ilMarocco condivide pienamente l’opportunità di man-tenere rapporti cordiali con il mondo occidentale el’Europa, ma ancor di più con gli Usa e a sua voltaaffronta fenomeni terroristici con decisione. Però que-sto quadretto idilliaco, anche solo a voler approfondi-re un poco, si dimostra in realtà molto meno reale econsolidato di quanto possa apparire.Cominciamo dall’Egitto, che di fatto è sottoposto a unregime dittatoriale, che per ora regge, grazie al pugnodi ferro imposto sul Paese da Hosni Mubarak fin dal1981, con tanto di stato di emergenza istituzionalizza-to. Un Mubarak che però è tutt’altro che immortale.Nessuno può predire cosa accadrà dell’Egitto dopo lafine del regno di Mubarak, il quale naturalmente cercadi fare il possibile affinché ciò avvenga per via dinasti-ca, con Gamal delfino designato. Ma le variabili ingioco sono innumerevoli e sotto l’apparente tranquilli-tà il Paese scricchiola, mentre i movimenti più o menoestremisti continuano a guadagnare terreno anche pervia di una crescita demografica che presto porterà alla

ribalta una generazione relativamente facile preda delprecetto islamico, non moderato dal pragmatismo lai-cista della vecchia generazione. Una situazione analo-ga la troviamo anche in Libia. Anche in questo casoc’è un dittatore, Gheddafi, che spera di riuscire a per-petrare se stesso attraverso la sua genia, con Sayf alIslam, e che almeno può contare sui proventi dellerisorse naturali per evitare che certi fermenti siano ali-mentati da condizioni di vita ed economiche troppodifficili. Il relativo benessere è un antidoto che può ral-lentare, ma non fermare certi processi. Lo hanno spe-rimentato le monarchie del petrolio del Golfo. In Libiail vecchio sistema di potere basato sul potere tribale edegli anziani sta andando in frantumi, i giovani non visi riconoscono più. E qualche fenomeno di insurrezio-ne armata è già presente, anche se ha più che altro con-notazioni tribali/etniche.Peraltro l’Egitto ha una “pericolosità” maggiore per-ché dotato di uno strumento militare poderoso, costrui-to grazie all’aiuto ed ai sistemi d’arma statunitensi chehanno sostituito le reliquie dell’era filosovietica. Percerti versi l’Egitto presenta preoccupanti similitudinicon l’Iran dello Scià poco prima del collasso e dellarivoluzione khomeinista. La Libia, almeno per ilmomento, ha un apparato militare e di sicurezza apezzi, da ricostruire ex novo dopo lustri di embargointernazionale. E quindi non rappresenta una preoccu-

LA NOSTRA DIPLOMAZIA NAVALE HA FORTI LEGAMI CON MAGHREB ED EGITTO

TUTTO FUORCHÉ PROMESSE DA MARINAIODI ANDREA NATIVI

•A•

pparentemente tutto va splendidamente sull’altro lato del Mediter-raneo, ma sì, dimentichiamo per un momento la questione israelianae i suoi rapporti con Siria e Libano, guardiamo più a ovest. L’Egitto èin ottimi rapporti con l’Occidente e in particolare con gli Usa, la Libiaè uscita trionfalmente “dall’asse del Male” e ora è un partner politico

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pazione militare diretta. L’Egitto si. Un Egitto riarma-to dagli Usa e dall’Occidente è molto più temibile perIsraele di una Siria la quale, a dispetto degli ultimiacquisti in Russia, non ha potuto rinnovare dopo la finedella Guerra Fredda il proprio arsenale, nonostantel’aiuto super condizionato che gli arriva da Teheran enon solo. E questo a Tel Aviv lo sanno bene.Quanto all’Algeria, i generali non sono riusciti a stron-care la guerriglia islamica. Il Paese è uno stato di poli-zia, ma ciò malgrado germogliano rigogliosi i semipiantati da al Qaeda o per meglio dire dall’estremismoislamico armato salafita rinominato. Specie in Cabila,ma non solo. E anche il riconoscimento dei diritti dellaminoranza berbera è più formale che sostanziale.Senza dimenticare che i rapporti di buon vicinato conil Marocco sono più apparenti che reali e ogni mossadi potenziamento o ammodernamento militare cheviene deciso ad Algeri o a Rabat trova immediatarisposta nello storico rivale. Per qualche aspetto ci sonopunti di contatto con la situazione di India e Pakistan,con entrambi che vogliono armamenti occidentali ebadano bene che ciò che acquista uno sia negato all’al-tro. Il Marocco poi ha sempre la questione pendentedel futuro del Sahara Occidentale, con il rischio con-creto che la guerriglia possa tornare a divampare se lacomunità internazionale non affronterà la questionedella “autodeterminazione” sarahui. Nella consapevo-lezza che anche qui al Qaida sta cercando di trovareproseliti.

I problemi di sicurezza interna, sono comuni atutti i Paesi, ovviamente con gradazioni e connotazio-ni diverse, esacerbati dai problemi di immigrazioneclandestina, molto difficile impedire o anche solo con-trollare. E non è affatto detto che le ondate di derelittiche inseguono un sogno o uno speranza puntando anord, magari auspicando all’Europa, considerino iPaesi che si affacciano sul mediterraneo solo come unaporta di accesso e non come una destinazione finale,comunque preferibile alla situazione dei propri Paesi diorigine. Questi migranti sono molto più destabilizzan-ti, a livello sociale, economico e politico, per i Paesi del

sud mediterraneo che per l’Europa. Europa che nondovrebbe considerarsi soddisfatta se mai riuscisse abloccare gli immigranti clandestini nei Paesi Nord-africani mediterranei. Ed infatti molti sforzi vengonoprofusi per convincere i Paesi in questione a dedicaremaggiori risorse al controllo dei propri confini e delproprio territorio, oltre che a cercare di bloccare il tran-sito e il business della immigrazione illegale verol’Europa. Il che è difficile sia perché tali Paesi nonhanno un monitoraggio del fenomeno. E se anche lohanno e sono consci dei pericoli che può portare, d’al-tro canto sanno che l’immigrazione è un”arma” impro-pria…davvero asimmetrica, uno strumento di pressio-ne politica ed economica che se bene utilizzato neiconfronti degli europei può portare grandi vantaggi.L’Italia sa perfettamente come funziona “il gioco”,condotto principalmente dalla Libia, ma anche dallaTunisia. Sì, l’Europa parla con i Paesi sud mediterra-nei, ma naturalmente più che l’Europa si muovono isingoli governi europei, indipendentemente gli unidagli altri, anzi, il più delle volte in competizione traloro (Francia e Italia ad esempio, ma anche Germania)per conquistare un posto al sole, uno sbocco per il pro-prio export, un accesso alle risorse naturali ed in par-ticolare agli idrocarburi (ma non solo). E non è che gliUsa stiano a guardare, non lo hanno mai fatto e soprat-tutto oggi che considerano l’Africa, tutta, come uncontinente importante, che non si può trascurare,magari aspettando che l’Aids lo…spopoli o che vadacomunque in rovina, come sta avvenendo in tanti statifalliti, la cui lista continua ad allungarsi. Senza contareche il ritiro di Gran Bretagna e soprattutto della Francialascia spazi immensi non solo alla Cina. Tuttavia non èdetto che gli interlocutori dell’Occidente restino insella nel medio o lungo periodo, mentre, in assenza disistemi di democrazia “occidentali” non si può nean-che giocare (non apertamente almeno) con le “opposi-zioni” o con le altre componenti della “società”, anchenei Paesi apparentemente più moderni ed aperti. Ci sirende anche conto che se si applica troppa pressionesulle attuali classi dirigenti si rischia di compromettereequilibri già abbastanza instabili, accelerando processi

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disgregativi. Dopo quello che è accaduto in Iraq nes-suno, neanche a Washington, ha alcuna intenzione dipropugnare ed esportare la democrazia dove sarebbepericoloso farlo o dove comunque non funzionereb-be.In ogni caso i rapporti Nord-Sud al momento sonoglobalmente positivi e l’Italia in particolare ha svi-luppato con successo una “diplomazia navale” che haportato a stabilire e intrattenere relazioni via via piùintense e cordiali con le Marine dei Paesi africanimediterranei, con le quali ci sono scambi, anche diinformazioni, un certo coordinamento e collaborazio-ne anti-terrorismo e anti immigrazione, esercitazionicongiunte, tutte attività che hanno anche portato adun allentamento delle tensioni per quanto riguarda losfruttamento delle risorse ittiche nelle zone rivendi-cate sotto controllo esclusivo dai Paesi rivieraschi.Un complesso di relazioni che l’Italia dovrebbe sfrut-tare molto di più, capitalizzando quello che la Marinaha creato in questi ultimi anni. La Libia è un Paese immenso 1,7 milioni di chilome-tri quadrati, con 1.800 km di coste, con una popolazio-ne relativamente ridotta, appena 6,3 milioni di abitan-ti, e in larga misura giovanissima. La spesa per la dife-sa non è stata molto significativa per lustri, anche per-ché, a causa dell’embargo Onu, non c’era praticamen-te nessun Paese disposto a vendere armamenti, maanche solo ricambi o attrezzature ed equipaggiamentia Tripoli. Che comunque qualcosa riusciva a procurar-sela sul mercato nero. Ora, persino nei tempi “miglio-ri” l’apparato militare libico non era certo celebre perla sua efficienza. Quando ancora poteva, il Colonnellocomprava di tutto e di più un po’ ovunque, anche per-ché i contratti dipendevano da esigenze politiche edovevano soddisfare gli interessi dei vari esponentidella nomenklatura locale. Il risultato di questo shop-ping un po’ folle fu un affastellamento di mezzi emateriali che poi non si riusciva a far funzionare, nétantomeno a supportare. Quando poi è arrivato l’em-bargo c’è stato un vero crollo verticale: mezzi, aerei,navi specie quelli più sofisticati, sono presto rimastiimmobilizzati, letteralmente ad arrugginire, mentresolo con sforzi immensi si riusciva a far funzionare

qualcosa ed era impossibile effettuare anche l’adde-stramento elementare. Di fatto ora che la Libia è statariabilitata, ha consegnato le Wmd in suo possesso erelativi vettori e ha smantellato i programmi clandesti-ni si è trovata da dover ricostruire praticamente da zeroforze armate e in parte anche le stesse forze di sicurez-za. Ovviamente un primo sforzo è stato diretto a cerca-re di recuperare, rimettere in condizioni di funzionaree se del caso aggiornare una parte almeno del vecchiodispositivo militare.

E qualcosa si sta facendo, anche se chi mette lemani in arsenali e depositi spesso trova quantitàincredibili di materiale…marcito ancora nelle cassee negli imballaggi originali. In ogni modo anche ciòche può essere salvato è del tutto obsoleto, in parti-colare per quanto riguarda gli elementi elettronici.Gli interventi di “salvataggio”, per quanto costosi,sono volti a ricostituire una capacità iniziale in tempirapidi, in attesa che il Colonnello decida cosa faredella sua immensa lista della spesa. Peraltro vaosservato che la Libia non ha particolari contenziosiin atto con i vicini o minacce esterne da affrontare, iveri problemi riguardano per ora sicurezza interna econtrollo immigrazione. Tradizionalmente l’Italia èstato un fornitore privilegiato della Libia. Abbiamovenduto di tutto e di più in tutti i settori: semoventid’artiglieria, carri armati, blindati, elicotteri, aerei datrasporto, aerei da addestramento e controguerriglia,missili, unità navali d’attacco, armi leggere. Il fattoche l’Italia abbia fedelmente applicato le sanzioniOnu è costato moltissimo all’economia nazionale,che tanto esportava in Libia e che beneficiava di uninterscambio significativo per quantità e qualità edha anche privato l’industria aerospaziale e della dife-sa di uno dei suoi mercati più importanti.Ora che si potrebbe… ritornare ai fasti del passato,l’Italia da un lato sconta una certa incapacità di muo-versi a livello “sistemico”, a tutto campo, ed aggressi-vamente, dall’altro ha una certa pruderie per quantoriguarda l’export di armamenti. Ed infatti si è deciso dicominciare con la vendita alla Libia di tecnologie,

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sistemi ed equipaggiamenti relativi alla sicurezzainterna, al controllo dei confini, delle coste. Non solo,in larga misura l’Italia che deve cedere quasi gratissistemi ed apparati, visto che è tutto nostro l’interessea frenare l’immigrazione clandestina. Dopo l’accordodefinitivo che risolve definitivamente ed a caro prezzoil vecchio contenzioso (danni di guerra per l’occupa-zione della II Guerra Mondiale: anche in questo l’Italiadi distingue, perché a nessuna delle potenze che hannodavvero avuto un impero coloniale è mai venuto inmente di risarcire alcunché a qualcuno…ma noi italia-ni siamo così buoni!), ora si spera che le cose possanocambiare. Tuttavia va notato che la Libia questa voltanon chiede solo hardware, ma anche tecnologie, neilimiti in cui è in grado di padroneggiarle e comunquevuole investimenti locali e la disponibilità a crearejoint venture e attività industriali con contenuto cre-scente. E tutto ciò naturalmente diversificando fornito-ri e referenti. Sempre con le stesse strategie negozialidi tira e molla. Ciò malgrado, la Russia, altro tradizio-nale fornitore della vecchia Libia, si è fatta sottoaggressivamente e nel 2007 ha annunciato un colossa-le pacchetto di vendita di armamenti del valore di 2,2miliardi di dollari e comprendente 24 moderni caccia-bombardieri, due sottomarini, un buon numero di bat-terie antiaeree e assistenza per riparare i materialisovietici in servizio. Però non si è arrivati all’esecu-zione del contratto. Afine 2007 è stata la volta del pre-sidente francese Sarkozy, che dopo aver constatatoche l’andamento dell’export militare transalpino stavasubendo una stagnazione, con la perdita di mercati ecommesse, ha assunto direttamente il ruolo di “vendi-tore” e agendo a tutto campo, mobilitando le risorsenazionali e muovendosi aggressivamente e con spre-giudicatezza sta mettendo a segno un colpo dopo l’al-tro. In Libia in particolare il successo, sul versantemilitare, sarebbe clamoroso: una fornitura del valoredi 3-4 miliardi di euro che comprenderebbe una doz-zina di caccia Rafale, elicotteri Tiger da attacco, eli-cotteri da ricognizione e trasporto, semoventi d’arti-glieria, missili controcarro, un nuovo sistema dicomunicazione, due corvette, l’aggiornamento di vec-

chie motovedette missilistiche. Però ancora non è chia-ro se si sia arrivati alla firma di contrattioperativi…nella migliore tradizione libica.

Lo spazio per una analoga operazione da parteitaliana c’è tutto, considerando che Gheddafi ha soste-nuto che alle imprese italiane verrà accordata prioritànella assegnazione dei contratti, ma con tutta probabi-lità la stessa cosa fu promessa a Sarkozy e a Putin.Occorre quindi darsi da fare e neutralizzare le manovredei concorrenti. Del resto viste le esigenze della Libia,le opportunità per dare qualcosa a tutti i pretendentinon mancano. Sulla carta infatti la Libia spende per ladifesa circa il 3,5% del Pil, oltre 2,5 miliardi di dollari,il tutto per sostenere Forze Armate ridotte, non più di50mila effettivi, anche se in teoria gli organici dovreb-bero comprendere 70mila uomini, in larga misura gio-vani di leva che in base ad un sistema di coscrizioneobbligatoria selettiva servono in armi per 24-48 mesi.Vi sono poi forse di sicurezza interna e di milizia la cuiconsistenza arriva a 40mila uomini. L’Esercito, con35mila uomini dovrebbe avere 450 carri armati di pro-duzione russa, forse un migliaio di mezzi trasportotruppa, 350 mezzi blindati da ricognizione, 700 tra

L’Europa parla con i Paesisud mediterranei, ma a più voci. Si muovono i singoli governi europei,indipendentemente gli unidagli altri, il più delle voltein competizione tra loroper conquistare un posto al sole, uno sbocco per il proprioexport, un accesso alle risorse naturali

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semoventi e pezzi d’artiglieria, sistemi missilisticiantiaerei russi SA-6 SA-9 SA-13 e francesi Crotale,una dozzina di elicotteri leggeri, ma questa è sola teo-ria, perché numeri effettivi ed efficienza sono minimi.Basti pensare che gli elicotteri da trasporto pesanteCH-47C di produzione italiana sono stati ceduti agliEmirati Arabi Uniti e AgustaWestland gli ricostruiscee ammoderna prima di riconsegnarli al nuovo utilizza-tore. La Marina, con 8mila uomini, ha forse tre unità alivello corvetta in grado di navigare, sicuramente nondi combattere, e poi solo un piccolo numero di unitàleggere lanciamissili realmente operative. La operati-vità dell’Aerronautica, che avrebbe 18mila uomini (ineffetti molto meno) è ugualmente limitatissima, conben pochi dei caccia MiG e Mirage, dei cacciabombar-dieri Sukhoi, degli elicotteri da combattimento Mi-24/35 in grado di volare. Forse è proprio il settoreaereo quello più disastrato, mentre leggermentemigliore è la situazione della difesa contraerea, anchequesta però equipaggiata con sistemi missilistici russivecchi e inefficienti. La Francia sta rimettendo in con-dizioni di volare una dozzina di caccia Mirage F-1,l’Italia sta fornendo elicotteri A-109 per sorveglianzadei confini e sta rimettendo in linea una dozzina diaddestratori SF-260, mentre è stato acquistato un Atr-42 per il pattugliamento marittimo.

L’Egitto è il vero colosso tra i Paesi mediterra-nei africani e con una notevole proiezione anche versosud. Colosso perché ha una popolazione di oltre 76milioni di abitanti, la cui crescita, anche se controllata,crea crescenti problemi all’economia. Le ForzeArmate sono basate su una coscrizione obbligatoriaselettiva, la cui durata arriva a ben 36 mesi. Quindi ilcore delle Forze Armate è costituito da una massa dicoscritti, circa 250mila su un totale di 350mila uominialla armi. Nel contesto egiziano è molto importantel’apparato di sicurezza interna, che infatti può contaresu circa 300mila uomini, tra Guardia Nazionale (chedipende dalla Difesa) forze di sicurezza del ministerodegli Interni, Guardia Costiera e Corpo di Frontiera. Ilbilancio della difesa rappresenta circa il 3,4% del Pil,

però ammonta a poco più di 1,1 miliardi di dollari. Ese è vero che gli stipendi sono una voce di spesa pocorilevante, è anche vero che con i soldi disponibili sicompra poco. Di fatto le Forze Armate Egiziane dipen-dono dalla benevolenza statunitense, che si sostanziain due modi: da un lato ci sono gli aiuti diretti, il cuiammontare è superiore agli 1,3 miliardi di dollari e chesono determinati annualmente, ma senza mai superarela soglia dei 2/3 degli aiuti concessi ad Israele, dall’al-tro ci sono le cessioni di materiale militare dichiaratosurplus dal Pentagono, attraverso il programma Eda(Excess Defence Article). Date queste premesse ènaturale che la macchina militare egiziana sia model-lata su una impostazione statunitense, anche per quan-to riguarda dottrine operative ed addestramento, men-tre è evidente che in caso di guai, chiudendo il rubinet-to della assistenza logistica basterebbero pochi anniper rendere inutilizzabile un arsenale di prima gran-dezza, a livello regionale, ma anche assoluto. Il punto è che questa “finestra” è dannatamenteampia.Va notato che l’Egitto ha anche una capacitàindustriale militare relativamente significativa, che gliconsente una certa autonomia e indipendenza, almenoper quanto riguarda il funzionamento “ordinario”. Inqualche caso l’indipendenza arriva ad un assemblag-gio su licenza. Certo questo non è sufficiente a consen-tire un’autarchia e non è paragonabile alla capacità chel’Iran, costretto alla quasi autarchia, è riuscito a svilup-pare, ma nell’arco di lustri.Come è naturale in tutti i Paesi della regione, la partedel leone spetta sempre alle forze terrestri, anche se inrealtà l’Egitto ha una buona Aeronautica, con la solaMarina che si deve accontentare del ruolo di ceneren-tola, a dispetto dei quasi 2.500 km di coste da control-lare e difendere.. L’Esercito dunque conta ben 300milauomini, con 4 divisioni corazzate, 7 meccanizzate, 1 difanteria e poi quattro brigate meccanizzate (2 dellaGuardia), 3 di fanteria, 3 aviotrasportabili/parà Moltocurate sono anche le Forze Speciali, con 9 gruppi com-mando. L’eredità “sovietica” la si può trovare nellapresenza di 14 brigate di artiglieria, che vengono gesti-te dagli alti comandi. L’artiglieria è un’arma sempre

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privilegiata nel pensiero militare russo. Non mancanopoi due brigate missili balistici, dotate di Scud.Naturalmente gli Usa non ci tengono molto a ricorda-re questa capacità, né i vari tentativi compiutidall’Egitto per sviluppare e produrre missili con carat-teristiche e gittata superiori. Quanto ai mezzi, la flottacarri da combattimento è costituita da oltre 1.500 M-60A1/A3, nonché da un numero crescente di potentiM1 Abrams, che ormai sta per superare le mille unità.Ci sono poi ancora quantità ingenti di vecchi carrisovietici in riserva. Si consideri che l’Esercito italianonon avrà più di 200 carri armati.

Situazione analoga per quanto riguarda i mezzitrasporto truppa, con oltre 2.300 M-113 e un migliaiodi YPR-765, oppure nel campo dei veicoli da ricogni-zione. Il parco artiglierie invece affianca a materialeamericano, con oltre 700 semoventi da 155 mm M-109, a più di un migliaio di cannoni e obici russi e 400mortai pesanti, anche grazie alla maggiore longevitàdelle artiglierie. Anche i lanciarazzi multipli sono inlarga misura di produzione russa, ma non mancano 36potenti Mlrs statunitensi. Una situazione analoga dicoabitazione si riscontra anche nel campo della difesacontraerei, con un misto di sistemi russi e americani,con questi ultimi che comunque, gradualmente, rim-piazzano i precedenti. L’Aeronautica conta su 25mila uomini, mentre altri80mila sono inquadrati nella difesa contraerei che,anche in questo caso secondo il vecchio modello russo,è quasi un’arma indipendente. L’Aeronautica ha il suofulcro in oltre 200 cacciabombardieri statunitensi F-16,in varie versioni, ai quali si aggiungono una sessantinadi caccia francesi Mirage, di due diverse generazioninonché un numero decrescente di caccia russi MiG-21e relative controparti cinesi. Per l’addestramento cisono Alpha Jet francesi, Tucano brasiliani L-59 cechi,e un numero crescente di addestratori a getto K-8 cine-si, che diventeranno 120, assemblati localmente.Anche nel campo del trasporto le macchine principalisono una ventina di C-130 statunitensi, così come ame-ricane sono le aviocisterne e i velivoli da sorveglianza

radar. Quanto ad elicotteri l’Aeronautica ha la suapunta di lancia in 35 velivoli da combattimento statu-nitensi Apache, integrati da una quarantina di Gazelleeuropei, ci sono poi elicotteri da trasporto americaniChinook, inglesi Commando e una discreta massa dielicotteri russi, davvero anziani, ma che svolgonoancora un ruolo prezioso. Come detto la difesa aerea èuna componente privilegiata e molto consistente, cheschiera oltre un centinaio di battaglioni, per lo piùancora equipaggiati con i missili russi delle serie SA-2,SA-3 ed SA-6, ai quali si aggiungono gli I-Hawk ame-ricani e, per la difesa di punto, i Chapparal americani ei Crotale francesi. A questi si aggiungono circa 2milapezzi d’artiglieria con calibro compreso tra i 20 e gli 85mm. Ovviamente questo settore avrebbe bisogno di unammodernamento di vasta portata, ma sarebbe enor-memente costoso, a meno di non accettare una drasti-ca riduzione nel numero di reparti e sistemi schierati epoi…Israele non ha alcun desiderio di vedere spuntarein Egitto batterie missilistiche contraeree americanetroppo moderne ed avanzate. Infine la Marina ha 16mila uomini, con a componentealturiera costituita da 6 fregate cedute di seconda manodalla Us Navy, alle quali aggiungono 2 fregate leggereex spagnole e 2 unità cinesi di scarso valore. Scarso èil significato dei 4 sottomarini cinesi, obsoleti e che perora non si è riusciti a sostituire (anche qui, Israele nongradisce). Piuttosto consistente il settore delle vedettelanciamissili, tra le quali spiccano 5 unità ex tedesche.La componente anfibia è limitata a vecchie unità expolacche o di produzione russa, la forza contromisuremine ha le sue unità più moderne in due cacciamineceduti di seconda mano dagli Usa. Insomma, la Marinaavrebbe davvero bisogno di maggiori attenzioni, ma lepriorità di spesa sono diverse. Peraltro recentementesono state ordinate negli Usa 3 corvette lanciamissili.

L’Algeria è sempre in mano a un altro geron-to-Rais, Abdul-Aziz Bouteflika, che non a caso combi-na gli incarichi di capo di stato e ministro della Difesae che è stato riconfermato al potere nelle elezioni diaprile. Anche l’Algeria combina una vastissima super-

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fice, 2,3 milioni di chilometri quadrati, in larga misurainabitata e desertica, a una popolazione relativamenteconsistente, oltre 34 milioni di abitanti. Il bilancio delladifesa supera 2,5 miliardi di dollari l’anno, che consen-tono di soddisfare relativamente bene le esigenze diuna strumento di sicurezza che conta su 120milauomini nelle Forze Armate e 24mila uomini nellaGendarmeria (che ha anche reparti blindati, elicotteried armi pesanti). La coscrizione è obbligatoria e dura18 mesi, ma solo per l’Esercito, perché Marina edAeronautica sono già stati professionalizzati e peraltrolo stesso Esercito, che conta 100mila uomini, ha unapercentuale piuttosto elevata di volontari e professio-nisti , circa il 38%. L’Esercito è ovviamente la ForzaArmata più importante e può schierare 2 divisionicorazzate, 2 divisioni meccanizzate, una divisioneparà, 1 brigata corazzata indipendente e 4-5 brigate difanteria motorizzata indipendenti, nonché due batta-glioni ranger. Per molti anni l’Algeria si è approvvi-gionata di armamenti in Russia, anche se ultimamen-te ha ampliato il novero dei suoi fornitori guardandoall’Europa e non solo al tradizionale partner, laFrancia. L’Italia ad esempio ha venduto elicotteri, èstata selezionata per fornire un sistema integrato disorveglianza, comando e controllo per la sicurezzainterna e ha buone chance di aggiudicarsi anche com-messe per unità navali. Inutile dire che questi successidi Roma sono stati considerati come un vero smacco aParigi, se non come un tradimento da parte dell’excolonia. Per quanto concerne l’Esercito, il parco carri da com-battimento è quasi esclusivamente russo, con la puntadi lancia costituita da oltre 100 moderni T-90, ai qualise ne aggiungeranno almeno altri 200, dei quali 120saranno assemblati localmente. Già questo elementochiarisce quanto sia importante l’Algeria per la Russia,visto che anche il solo assemblaggio locale di carrimoderni non è concesso facilmente, mentre confermache le capacità industriali locali sono tutt’altro che ine-sistenti. I T-90 prendono il posto dei vecchi T-54/55 epoi anche dei T-62, mentre rimangono in servizio i piùmoderni T-72. Anche i veicoli da ricognizione sono in

larga misura di produzione russa. Stesso discorso per iveicoli da combattimento della fanteria, con 230 BMP-2 che vengono aggiornati allo standard 2M. A questi siaffiancano quasi 700 BMP-1 e 450 ruotati BTR-50/60.L’artiglieria, semovente e a traino meccanico, ma

anche lanciarazzi è integralmente di fornitura russa,così come la difesa contraerea. L’Algeria ha ancheacquistato gli efficaci semoventi contraerei Tunguska. La Marina ha appena 6.600 uomini e del resto le costehanno una estensione relativamente modesta, pocomeno di mille km. Ci sono 3 vecchie piccole fregatetipo Koni russe e 5 corvette, sempre russe, nonchéquattro sottomarini classe Kilo, tra i più moderni inlinea nella regione, nonché oltre 30 motovedette lan-ciamissili, poche unità anfibie e cacciamine e alcunebatterie missilistiche per la difesa costiera.Complessivamente la Marina è piccola, ma meglioequipaggiata di quella di molti vicini e sarà poi poten-ziata con l’acquisto di una nuova classe di fregate leg-gere e di un’unità da assalto anfibio in Europa.

Il fatto che l’Italia abbia fedelmente applicato le sanzioni Onu è costato moltissimo all’economia nazionale, che tanto esportava in Libiae che beneficiava di un interscambio significativo per quantità e qualità ed ha anche privato l’industria aerospaziale e della difesadi uno dei suoi mercati più importanti

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La situazione è simile per l’Aeronautica, che conta12mila uomini e ha forza combattente che comprendeMig-29, Mig-23, MiG-25 per la caccia, Su-24 e MiG-23 per l’attacco, velivoli americani C-130 per il tra-sporto, elicotteri da combattimento Mi-24 e da traspor-to Mi-8 Mi-171, L-59 per l’addestramento e i “soliti”sistemi missilistici russi Sa-2, SA-3 e SA-6 per la dife-sa antiaerea. Si tratta complessivamente di materialerusso di qualità superiore a quella normalmente pre-sente in altre aeronautiche della regione. L’Algeriaperaltro aveva ordinato in Russia 35 MiG-29 ultimogrido e circa 30 di ottimi SU-30 MKA, ma ha poi deci-so di non accettare i MiG-29 per concentrarsi suiSukhoi (più costosi, potenti e sofisticati), creando graviscrezi con Mosca, che alla fine ha dovuto tenersi i MiGe assegnarli alla propria Aeronautica. L’Algeria haanche ordinato addestratori Yak-130 e anche su questic’è qualche dubbio, nonché moderni e temibili sistemidi difesa antiaerea S-300 PMU-2 con i quali rimpiaz-zare Sa-2 e Sa-3.

Il Marocco è l’unica monarchia del NordAfrica mediterraneo e il giovane Mohammed VI staproseguendo, con la massima attenzione e prudenza, la

politica moderata del suo predecessore. IlPaese ha una densità di popolazione moltopiù elevata rispetto ai vicini, con quasi 34milioni di abitanti per una superficie di446.000 kmq, per il 40% costituita da deser-ti e con coste piuttosto lunghe, oltre 1.800km. Il Marocco deve affrontare i primi sinto-mi di estremismo/terrorismo islamico, oltreal problema Sahara occidentale e i rapportinon tesi, ma non per questo amichevoli, conl’Algeria. La spesa della difesa quindi rima-ne saldamente al di sopra del 5%, e rappre-senta oltre 2,2 miliardi di dollari. Le ForzeArmate hanno una notevole consistenza,quasi 200mila uomini, ai quali si aggiungo-no 25mila uomini delle forze paramilitariausiliarie e i 10mila della gendarmeria reale.Altra particolarità, le forze armate sono

costituite in larghissima misura da professionisti evolontari, anche se in teoria resta in vigore la levaobbligatoria con durata di 18 mesi. Non che questo sitraduca automaticamente in standard qualitativi eaddestrativi particolarmente elevati in termini assoluti,ma certo l’efficienza è superiore ai livelli abituali nellaregione. L’Esercito ha circa 175mila uomini ed è orga-nizzato non tanto su grandi unità organiche a livellodivisionale, quanto su più piccole formazioni a livellodi brigata, reggimento e battaglione. Ci sono quindi 3brigate meccanizzate, 2 di parà, 1 da fanteria leggera, epoi 10 battaglioni corazzati, 8 reggimenti meccanizza-ti, 12 gruppi d’artiglieria nonché naturalmente unaGuardia Reale forte di 1.500 uomini e bene addestrataed equipaggiata. Il Marocco acquista i sistemi d’armaun po’ ovunque e non disdegna neanche l’usato occi-dentale di qualità. Ecco che la linea carri include T-72russi, ma anche 320 M-60 statunitensi, 180 più vecchiM-48 e un centinaio di cacciacarri austriaci. Sono inve-ce americani, francesi, ma anche brasiliani e sudafrica-ni i mezzi trasporto truppe. Molto consistente il parcodi mezzi da ricognizione e blindati, in massima parte diproduzione francese. Quasi completamente occidenta-le è anche l’artiglieria che annovera anche ottimi can-

Il Marocco deve affrontare i primi sintomi di estremismo/terrorismo islamico, oltre al problemaSahara occidentale e i rapporti non tesi, ma non per questo amichevoli,con l’Algeria. La spesa della difesa quindi rimane saldamente al di sopra del 5%, e rappresenta oltre 2,2 miliardi di dollari

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noni trainati FH-70 e semoventi M-109. I sistemiantiaerei leggeri sono americani, francesi e russi, com-presi alcuni nuovi semoventi Tunguska. Gli elicotterisono francesi ed italiani. La Marina conta 10milauomini, inclusi in questo totale ci sono anche 2milauomini del corpo dei Marines. Il naviglio vede per oratre fregate leggere di produzione spagnola e francese epoi una serie di pattugliatori e unità leggere. La com-ponente anfibia è invece più consistente, perché devesupportare e trasportare il corpo di fanteria di marina.La Marina avrebbe in programma l’acquisizione diuna grande fregata missilistica tipo Fremm in Francia(non era in realtà né prevista né richiesta, ma la ha“appioppata” Sarkozy in una trattativa a pacchettogoverno-governo) nonché tre valide corvette lancia-missili Sigma di produzione olandese.L’Aeronautica conta 13mila uomini ed annovera unacomponente di combattimento un po’invecchiata, rap-presentata da caccia Mirage F-1 francesi e caccia leg-geri F-5 americani, che saranno però sostituiti da 24avanzatissimi e bene equipaggiati F-16 Block 52 sta-tunitensi. La Francia ha condotto un vero pressing percercare di vendere il caccia Rafale, ma senza esito.Piuttosto consistente la componente da trasporto conuna ventina di C-130 /( e presto 4 C-27J italiani) anchecisterne e CN-235. Gli addestratori sono rappresentatida T-34C, T-37, che saranno in parte sostituiti dainuovi T-6. Gli elicotteri sono piuttosto numerosi,anche se vecchiotti, acquistati in Italia e in Francia, conuna piccola componente da trasporto pesante con iCH-47 americani. Se l’Algeria ha in passato privile-giato la Russia come fornitore principale, il Maroccoha preferito puntare su sistemi occidentali, Europei eora in misura crescente statunitensi, sicuramente piùcostosi, ma anche più efficienti. E intende continuarecon questa politica. Anche se lo shopping negli Usanon è ben digerito a Parigi.

La piccola Tunisia governata da Zine el-Abidien Ben Ali ha una popolazione consistente, oltre10,4 milioni di abitanti in rapporto alla superficie di164.000 kmq, dei quali quasi la metà rappresentata da

deserto ed ha anche una notevole estensione costiera,di oltre 1.100 km. Ciò malgrado le Forze Armatehanno una consistenza modesta, appena 35mila uomi-ni, compresi 25mila soldati di leva che servono per 12mesi, ai quali si aggiungono 2mila uomini dellaGendarmeria e 7mila della Guardia Nazionale. Laspesa militare è modesta rispetto agli standard dei vici-ni e non arriva all’1,5% del Pil e non supera 1,5 miliar-di di dollari. L’Esercito annovera 27mila uominji e schiera 3 briga-te meccanizzate, 1 brigata desertica e alcune unità indi-pendenti. L’equipaggiamento è integralmente di origi-ne occidentale, con in evidenza il surplus statunitense,a partire da una settantina di carri armati M-60 , aiquali si affiancano una cinquantina di cacciacarriaustriaci. Francesi e brasiliane le blindo da ricognizio-ne, statunitensi e brasiliani i trasporto truppe.Relativamente moderne e basata su materiale america-no l’artiglieria conta circa 130 tra cannoni e semoven-ti, tutti di fornitura statunitense, mentre i missili con-traerei sono americani e svedesi. L’aviazionedell’Esercito comprende una trentina di AB-205/Bell205. La Marina ha appena 4.500 uomini ed ha le sueunità principali in 6 ex motovedette tedesche Type143, 5 motovedette missilistiche francesi, di due tipi, 6pattugliatori d’alto mare e 4 più piccoli, mentre altreunità leggere da pattugliamento alturiero e costierosono in linea con la guardia costiera. L’Aeronautica èdotata di pochi e superati aerei, visto che l’ammoder-namento risulta troppo costoso per il budget disponibi-le, quindi ci sono una ventina di caccia leggeri F-5 edaltrettanti vecci addestratori a getto italiani MB-326,oltre a un reparto controguerriglia/ addestramento conjet L-59T aggiornati e 18 SF-260 italiani. Pochi anchegli aerei da trasporto mentre più consistente è la flottaelicotteri che include altri 18 AB-205 e 6 UH-1e 24 eli-cotteri francesi di vario tipo. Considerato la mancanzadi reali minacce esterne, le priorità del presidente BenAli, altro longevo dittatore formalmente democratico,sono costituite dalla sicurezza interna, il controllo dellefrontiere e delle acque costiere e di interesse economi-co nazionale.

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attivi nel Maghreb appunto, e le tante fonti di in- stabi-lità interna dell’Egitto rendono la regione una som-matoria di squilibri. Se questi fattori si sviluppasse-ro, innescherebbero una serie di ripercussioni imme-diate non solo nel Medio Oriente, ma anche nellavicina Europa. Tuttavia, in questo ginepraio, l’aper-tura delle relazioni diplomatiche tra la Libia el’Occidente costituisce un risultato positivo e in con-trotendenza. In questi ultimi anni, il regime diGheddafi è passato dall’essere un Paese vicino alcosiddetto “Asse del male”, con un controverso pas-sato di finanziatore del terrorismo, a partner econo-mico per i governi di Europa e Stati Uniti. Undiscorso analogo di nuova cooperazione fra Tripoli ele cancellerie dei Paesi occidentali può essere fattonell’ambito delle politiche di sicurezza della regio-ne, sia verso il mondo islamico, sia nel quadrante delMediterraneo. Ne è conseguito che, il nuovo approc-cio - per quanto sia ancora all’inizio - ha trasforma-to il Paese in un territorio da monitorare e controlla-re, in quanto soggetto a potenziali infiltrazioni daparte di gruppi terroristi di matrice islamico-salafita,quindi associabili ad al Qaeda. Quest’ultima da unlato vede nella Jamahiriyyah un nemico dell’Islam,dall’altra considera il Paese nordafricano un tradi-zionale serbatoio di volontari, oltre che un puntostrategico per le sue mire nel bacino del Mediter-

raneo. In questo senso, le autorità investigative e disicurezza nazionali hanno avviato una fase di con-certazione con le controparti occidentali, specie conItalia, Gran Bretagna e Stati Uniti.Aprendo una breve parentesi storica, ricordiamocicome in passato Gheddafi abbia appoggiato l’Olp diArafat nella sua lotta armata contro Israele. Ed èaltrettanto certificato il sostegno materiale dei piùdiversi gruppi del terrorismo internazionale, tra cui ilpalestinese “Settembre nero” e l’Ira irlandese. Nel1972 gli autori dell’attentato alle Olimpiadi diMonaco sono accolti a Tripoli da eroi. L’episodio fada apripista alle accuse, nei confronti di Gheddafi, diessere il mandante degli attentati più eclatanti inEuropa di quel periodo. Nel 1986, poi, una bombadevasta la discoteca “La Belle Club” di BerlinoOvest e provoca 2 morti. Ma è la strage di Lockerbiea isolare la Libia dal resto del mondo. È il dicembre1988, un aereo della Pan-Am esplode nei cieli dellaScozia. Muoiono 270 persone. Il bollettino più disa-stroso di un attentato terroristico prima dell’11 set-tembre 2001. Di fronte al rifiuto del regime di con-segnare i presunti responsabili dell’accaduto, l’Onuapprova l’embargo economico contro la Libia. Pocomeno di un anno più tardi, l’attentato a un aereodella francese Uta provoca altre 156 vittime. Anchein questo caso, si attribuiscono le colpe alla Libia.

IN ALGERIA CRESCE L’ISLAM RADICALE E MIRA A DESTABILIZZARE L’INTERO NORDAFRICA

AL QAEDA SFIDA IL MAGHREBDI ANDREA MARGELLETTI E ANTONIO PICASSO

•M•

ai come in questi anni, il Medio Oriente ha presentato così tanti e com-plessi focolai di crisi. Uno diverso dall’altro. Il Nord Africa, in tal senso,è una delle zone che maggiormente rappresentano questo stato di cri-ticità disomogenea. La presenza dei gruppi ultra-ortodossi salafiti riu-niti nel cartello terroristico “al Qaeda nel Maghreb islamico” (Aqmi),

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Oggi questa spregiudicatezza di Gheddafi fa partedel passato. Il capitolo Lockerbie è stato conclusocon la promessa del rais di un risarcimento ai paren-ti delle vittime dell’attentato. Il problema del terro-rismo, quindi, si è trasformato dall’essere di compe-tenza della diplomazia internazionale a quella delleforze di sicurezza. Tripoli, infatti, non offre più ilsuo endorsement a qualsiasi organizzazione di sorta.Di conseguenza, la Libia appare agli occhi dei grup-pi terroristici attivi nel Nord Africa - in particolareAqmi e “Libyan Islamic Fighting Group” (Lifg) - inun avversario da combattere e abbattere.

Il concetto della Jamahiriyyah, per quantofaccia espresso riferimento al Corano, risulta ecces-sivamente intriso di idee laiche, socialiste e di ispi-razione occidentale, quindi empio e apostata (tak-fir). Già nel 2000, Scotland Yard è entrata in posses-so di un documento, la Declaration of Jihad againstthe Country’s tyrants: military series, nella qualeproprio la Jamahiriyyah viene bollata non solo comeuna manifestazione di eresia, ma anche come unatirannia militare da combattere.Storicamente il Libyan Islamic Fighting Group (al-Jama’a al-Islamiyyah al-Muqatilah) nasce all’iniziodegli anni Novanta. I fondatori, come accade nellavicina Algeria con il Gis, sono veterani della guerrain Afghanistan contro l’Unione Sovietica. Fin dasubito, il gruppo si prefigge l’abbattimento diGheddafi e l’instaurazione di un regime politicoispirato alla più ortodossa interpretazione delCorano. Da allora il rais libico è caduto vittima dialmeno quattro attentati. Tutti falliti e tutti firmatidal Lifg. Uno di questi sarebbe stato sventato grazieall’intervento del servizio di intelligence britannico,l’MI-6. In realtà di quest’ultimo episodio nessunoha mai avanzato una conferma. Ciò non toglie chese fosse accertato, dimostrerebbe come la coopera-zione tra le forze di sicurezza libiche e occidentali,nella lotta al terrorismo, si sia affermata ormai dapiù di dieci anni e che oggi proceda sulla base diquesti precedenti.

La forte connessione con la “rete del terrore”, chenegli anni successivi assumerà il nome di al Qaeda,pone il Lifg tra i gruppi più attivi nella lunga lista diattentati terroristici che hanno minato la sicurezzadel quadrante nordafricano di questi ultimi anni.Solo per ricordare gli esempi più recenti, sia le auto-rità locali sia le agenzie di intelligence occidentaliattribuiscono al gruppo libico una compartecipazio-ne negli attentati di Casablanca di maggio 2003.Tuttavia, si sospetta anche di una sua forte presenza,in termini di qualche centinaia di membri attivi esostenitori, anche in Europa. D’altra parte sappiamoche ben prima che al-Libi acquisisse gli onori dellecronache, il Lifg cooperava con il Gruppo IslamicoMarocchino per il Combattimento - anch’esso inclu-so in Aqmi - su tre direttrici: l’invio di volontari nor-dafricani in Afghanistan, l’affermazione di unoStato islamico in Marocco, destituendo ovviamentel’attuale monarchia, e il supporto delle attività di alQaeda in Occidente. Interessante è notare come la struttura organizzativadel Lifg presenti molte analogie con i gruppi tuttoraattivi in Afghanistan e vicini ai Talebani. Al suo ver-tice c’è un “Consiglio della Shura”, composto da unnumero variabile di membri dai 7 ai 15, che dispo-ne di poteri decisionali inappellabili. Da qui partonole direttive per le cellule presenti sul territorio nazio-nale, ma anche oltre frontiera. Tra gli esponenti piùillustri del Lifg meritano di essere ricordati: Abd al-Rahman al-Faqih, ricercato in Marocco appunto perl’attentato di Casablanca del 16 maggio 2003, maanche Ghuma Abd’rabbah e Abdulbaqi MohammedKhaled, entrambi legati alla Charity qaedista“Sanabal”, attraverso la quale sarebbero stati trasfe-riti denaro e documenti agli attivisti in GranBretagna. A questi bisogna aggiungere una serie diesponenti del Lifg operativi soprattutto inAfghanistan e quindi uomini di al Qaeda a tutti glieffetti. Abu Jaffar al-Libi, Abu Anas al-Libi - proba-bilmente coinvolto negli attentati contro le amba-sciate Usa in Kenya e Tanzania nel 1998 -Hamzallah al-Libi, Abu Abdel Qader al-Libi e Abu

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Laith al-Libi. Ancora più importante tra i comandan-ti qaedisti originari dalla Libia è stato Abu Laith al-Libi, classificato dal Pentagono al quarto posto nellasua lista di High Value Targets (Hvt), dopo binLaden, al-Zawahiri e il Mullah Omar e ucciso il 29gennaio 2008 in un “attacco missilistico” vicino alvillaggio di Mir Ali in Nord Waziristan (Pakistan).La lista dimostra come l’organizzazione di binLaden non possa che essere in un certo senso grataalla sua “filiale” libica per il contributo di uomini,ma anche di risorse nell’ambito del comando e del-l’operatività.Lo stretto legame tra il Lifg e i vertici di al Qaeda,nello specifico Aqmi, viene formalizzato diretta-mente da Ayman al-Zawahiri. Due anni fa, il medi-co egiziano ha postato su internet un suo interventoin cui riconosceva il gemellaggio tra le due organiz-zazioni. Sebbene la data del 2007 appaia tardiva e incontrasto con il rapporto pregresso e così stretto conal Qaeda, segna comunque fine di una serie di attri-ti di lunga data. Più volte infatti, nel corso dell’evo-luzione del Lifg, si è presentato un problema di scel-ta dell’obiettivo da combattere. Di fronte alla viaschiettamente “nazionale” di alcuni membri delConsiglio della Shura, di limitarsi a contrastare laJamahiriyya, altri esponenti - sulla base delle passa-te esperienze di mujaheddin in Afghanistan - hanno

fatto pressione affinché venisse sposatauna causa maggior respiro: il jihad pro-mosso dai salafiti del Nord Africa e dallastessa al-Qaeda. In quest’ottica va inseritol’impegno del Lifg a supportare in modocomunque strumentale la secondaIntifadah palestinese nel 2000 e il gruppodi al Zarkawi, “al-Qaeda in Iraq”, nelmomento in cui cominciò la sua guerriglianel 2004.

In questa prospettiva, le coste norda-fricane sono facili da raggiungere per imilitanti attraverso le piste poco controlla-te del Sahara, sfruttando le situazioni di

instabilità interna e quindi di scarse forze di sicurez-za in Corno d’Africa, Sudan e a sud-ovest inMauritania. La popolazione locale, inoltre, appareun prezioso bacino di reclutamento. Infine, per alQaeda il Maghreb si conferma essere un potenzialepunto di partenza per inviare nuovo membri e mili-tanti direttamente in Europa.Altro punto nodale è l’autonomia che il Lifg hasaputo conservare rispetto a tutti gli altri gruppi ter-roristici di matrice salafita nordafricani. Infatti, a dif-ferenza del Gruppo Salafita per la Predicazione e ilCombattimento algerino (Gspc), del Gsc marocchi-no e quelli minori in Tunisia e nella stessa Libia, ilLifg non ha rinunciato alla sua sigla. Anziché essereassorbito dal “trust” di Aqmi, nato anch’esso all’ini-zio del 2007, e quindi scomparire, ha deciso di coo-perare, in modo parallelo, in uno stato di indipen-denza. D’altra parte, per quanto riguarda Aqmi eLifg, bisogna sottolineare che la loro presenza inLibia non è finalizzata unicamente al contrasto delregime di Gheddafi e quindi limitata a una questio-ne nordafricana. Per la sua posizione geografica,infatti, il Paese appare strategico. Le sue coste sulMediterraneo rappresentano una potenziale testa diponte con l’Europa. Inoltre, essendo al centro dellegrandi vie di comunicazione nordafricane, costitui-sce un punto di incontro fondamentale fra le attività

La forte connessione con la “rete del terrore”, che negli anni successivi assumerà il nome di al Qaeda,pone il Lifg tra i gruppi più attivinella lunga lista di attentati terroristici che hanno minato la sicurezza del quadrante nordafricano di questi ultimi anni

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dei gruppi ultra ortodossi presenti in Egitto - in par-ticolare la “Gama’a al-Islamiyah” - quelli salafiti inAlgeria e infine quelli in Sudan. Già prima del 2007, le attività congiunte fra i grup-pi riguardavano reclutamento, indottrinamento teo-logico e addestramento operativo. Esse sono statesempre facilitate dalla porosità dei confini tra i quat-tro Paesi - a questi andrebbero aggiunti il Ciad e ilNiger - disegnati sulle carte geografiche e ricono-sciuti formalmente dalla comunità internazionale,ma praticamente inesistenti nel cuore del Sahara einsignificanti per le tribù nomadi che percorrono lepiste della regione. In questo senso le autorità libi-che, ma non solo, riescono a mantenere un control-lo sostanzialmente buono dei centri abitati, anchequelli all’interno e nelle oasi. Tuttavia, risulta perloro praticamente impossibile fare altrettanto inmezzo al deserto, dove anche gli strumenti tecnolo-gici di controllo, monitoraggio ed eventuale inter-vento armato sono esposti all’asprezza della natura.

In generale, però, possiamo dire che, anco-ra oggi, il Paese che rimane maggiormente minac-ciato dal rischio di una nuova escalation di attentatiterroristici è l’Algeria. Lo confermano gli ultimimessaggi audio firmati dall’Aqmi. Nel primo, data-to gennaio di quest’anno, il suo stesso comandante,Abu Musab Abdel Wadoud, è partito dalla condan-na dell’azione militare israeliana sulla Striscia diGaza, per poi concentrarsi in un nuovo attacco con-tro i regimi laici e filo-occidentali di Algeria edEgitto. Nel secondo intervento, diffuso ad aprile,l’emiro Abdelmaker Droukdel ha chiesto agli alge-rini di boicottare le elezioni presidenziali, che poihanno visto la conferma del Presidente Bouteflikaalla guida del Paese. A onor del vero, va detto che da un punto di vistaoperativo Aqmi è sostanzialmente ferma.Dall’inizio dell’anno a oggi, fortunatamente, ilgruppo terroristico non ha compiuto attentati dialcun genere. Tuttavia, siamo molto lontani dalpoter dire che Aqmi stia attraversando una fase di

stanca. Al contrario, per alcuni osservatori ilMaghreb costituisce proprio il nuovo fronte che alQaeda intende aprire. Questo in concomitanza conquello afghano, dove peraltro la sua leadership nelcomplesso mondo pashtun si è ormai ridimensiona-ta. Gli obiettivi prefissati sono gli interessi dei Paesioccidentali, Francia in particolare, ma anche Usa e iPaesi implicati militarmente in Iraq e inAfghanistan, così come le rappresentanze dell’Onue mettere in difficoltà l’economia mondiale attac-cando i settori nevralgici, per esempio quello ener-getico. Lo strumento dei rapimenti, a sua volta, per-mette l’autofinanziamento. Solo nel corso del 2007,le cellule locali di al Qaeda hanno incassato più diun milione di euro attraverso 115 sequestri di perso-na. Gli episodi si sono verificati tutti nel cosiddetto“quadrilatero della morte”, formato dalle città diTizi Ouzou, Boumerdes, Bouira, vicino alla Cabiliae alla capitale algerina.Tra i diversi fattori che stanno dietro alle attività ter-roristiche in Algeria, due appaiono i più rilevanti. Daun lato, le lacune del programma di riconciliazionenazionale fortemente voluto da Bouteflika, dall’al-tro i problemi economici, la povertà e l’elevato tassodi disoccupazione che creano un terreno fertile per ilreclutamento di giovani. La crescita dell’Islam radi-cale nel Paese sembra essere comunque in cima allepriorità del governo, che nel corso degli ultimi dueanni avrebbe bandito 53 imam e chiuso 43 moscheedi corrente salafita. La strategia messa in atto daAlgeri verso Aqmi pare seguire un duplice binario.Il primo chiama in causa le Forze di sicurezza nazio-nali, che intervengono con azioni militari e con atti-vità di intelligence. Dall’altro lato, appare efficace ilpiano governativo di educazione e formazione dellapopolazione. Si tratta di un progetto improntato afrenare la diffusione dell’estremismo islamico nellecarceri, dove è accertata una forte attività di celluledi Aqmi per il reclutamento di nuovi membri.Inoltre, è volto a fornire l’insegnamento di unmestiere per un futuro reinserimento nel tessutosociale del detenuto, nonché un’educazione religio-

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sa scevra da implicazioni violente. Volgiamo poi losguardo nel Sudan. Già tra il 1991 e il 1993, il Lifgaveva stretto contatti diretti con il vertice di al Qaedaallora rifugiato in Sudan. Alcuni suoi membri aKhartoum intrattenevano rapporti proprio conOsama bin Laben e con Hasan al-Turabi. Tuttavia,risalgono sempre a quegli anni le prime richieste, daparte di Gheddafi verso il governo sudanese, diestradizione dei membri libici del Lifg. Il governo diKhartoum rifiutò di collaborare con Tripoli, ciono-nostante impose loro di andarsene dal Sudan. Fuallora che questi tornarono in Afghanistan dove ave-vano già combattuto l’Armata Rossa. Effettivamen-te in quegli anni, Turabi era appena stato elettoPresidente del Parlamento sudanese. Di conseguen-za, con il leader nazionale dell’islamismo ultra-orto-dosso che ricopriva questo incarico comunque istitu-zionale, il Sudan preferì non compromettere le rela-zioni con la Libia. Oggi la posizione assunta dalSudan in quegli anni risulta ancora più chiara.Turabi, infatti, ha sempre sostenuto la necessità dipassare da una fase operativa, da parte di tutti i grup-pi ultra-ortodossi islamici, a una propriamente poli-tica, capace di seguire un percorso simile a quello dialtri movimenti radicali intenzionati ad assumere il

potere, adottando prima lo strumento della violenzae poi inserendosi nelle istituzioni nazionali. Un pro-getto, quello di Turabi, che è stato rifiutato dallamaggior parte dei gruppi islamici. Terrorismo,attentati e rapimenti - secondo al Qaeda, Aqmi, Lifge altri - continuano a essere la sola via per la defe-nestrazione dei regimi nemici e la successivainstaurazione di un governo islamico ultra-ortodos-so. Questo spiega è il motivo per cui il leader suda-nese ha subito una profonda emarginazione da partedi questi gruppi, compensata da una crescente atten-zione dimostrata dagli osservatori internaziona-li.Parliamo poi delle Charity, ovvero delle organiz-zazioni di carità attive nel mondo islamico e dellequali alcune hanno come sede legale e operativa laLibia. In termini generali, si tratta di Ong di dichia-rata fede islamica, sia sunnite sia sciite, che svolgo-no attività di mutuo intervento e soccorso, parallelee autonome rispetto a quelle dei governi nazionali edella Lega Araba, in aiuto delle popolazioni musul-mane. Tuttavia, al di là di questa rete assistenzialetransnazionale, in seguito agli attentati dell’11 set-tembre 2001, le indagini internazionali hanno avvia-to una serie di ricerche approfondite per verificarel’eventuale connessione, soprattutto in ambito finan-ziario, tra alcune di queste organizzazioni e alQaeda. Ne è emerso che molte sovvenzioni e dona-zioni a queste organizzazioni sono state effettuatenon per fini caritatevoli, bensì per finanziare le atti-vità terroristiche. In merito alla Libia, la famiglia Gheddafi è titolaredella “Gheddafi International Charity andDevelopment Foundation” (Gicdf), conosciutaanche come Gifca se intesa come rete di associazio-ni (Gheddafi International Charity and DevelopmentAssociations). Si tratta di una Ong fondata nel 1998e attualmente presieduta dal figlio del rais, Saif al-Islam Gheddafi. L’organizzazione è attiva in Ciad,Germania e nelle Filippine. Tuttavia, è assolutamen-te esclusa una sua qualsiasi connessione con attivitàdi finanziamento illecito in favore di gruppi ultra-ortodossi islamici. Va detto, però, che la Gicdf sta

Le coste nordafricane sono facili da raggiungere per i militanti attraverso le piste poco controllate del Sahara, sfruttando le situazioni di instabilitàinterna e quindi di scarse forze di sicurezzain Corno d’Africa, Sudan e a sud-ovest in Mauritania

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operando anche all’interno del territorio libico perfavorire una riconciliazione con i membri del Lifg,sulla base di un piano di reinserimento simile a quel-lo algerino. Nell’aprile 2008, su sua pressione, oltre90 ex terroristi sono stati rilasciati, e oggi si parla diuna nuova consistente “amnistia”. Un discorso del tutto diverso dev’essere fatto inmerito al “Sanabal Charitable Committee”. Questasocietà con sede in Gran Bretagna è stata posta sottosequestro e le sue attività bloccate a livello interna-zionale dopo che, nel 2006, venne certificato cheeffettuasse fund raising in favore del Lifg. Certamente, per riuscire realmente a ottenere unmaggiore successo nella lotta al terrorismo in NordAfrica, sarebbe necessaria una più forte cooperazio-ne con l’Unione Europea. Va detto che recentemen-te la Commissione Europea ha approvato uno stan-ziamento di oltre 225 milioni di euro per la lotta alterrorismo, fondo attraverso il quale si vorrebberosostenere quei Paesi centrali nella lotta al fondamen-talismo come l’Afghanistan, il Pakistan e, appunto,il vicinissimo Nord Africa. Alla base però, mancaancora una seria politica estera comune tra i Paesidell’Unione Europea, soprattutto per quanto concer-ne le tematiche relative all’immigrazione clandesti-na. Proprio il 21 aprile, il Parlamento Europeo haapprovato la relazione del deputato del Ppe, SimonBusuttil, che chiede con forza ai 27 paesi Ue dicoordinare le loro politiche in materia di immigra-zione, giudicando questo approccio come “essenzia-le”. La relazione parla di aspetti importanti come lacondivisione degli oneri, la gestione integrata dellefrontiere (aumento del potere della Frontex,l’Agenzia Ue per la cooperazione operativa dellefrontiere esterne), e una cooperazione più stretta conStati terzi (la stessa Libia viene menzionata). Unaopportuna azione comune in questo senso perciò,non permetterebbe solamente di ridurre l’inaccetta-bile continuo traffico di esseri umani, ma garantireb-be anche una limitazione dell’afflusso di estremistiaventi lo scopo di creare nuove cellule terroristichenel Vecchio continente.

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e Usa del 2003-2004, al Marocco che è l’unico gran-de importatore di idrocarburi nell’area nord-africanae che, per ridurre la sua dipendenza dall’estero, stacercando di rafforzare le interconnessioni di rete coni Paesi del Nord Africa.I cinque Paesi analizzati - Egitto, Algeria, Libia,Marocco e Tunisia - hanno evidenti tratti in comu-ne. Tutti hanno iniziato un processo di liberalizza-zione del mercato energetico nazionale attraversoun principio di privatizzazione ancora allo stato ini-ziale. Ciò è favorito dalla collocazione geografica ditali Paesi, soprattutto dall’essere il principale puntodi acquisto del fabbisogno energetico del mercatoeuropeo. Il Nord Africa si sta, infatti, caratterizzan-do per piani energetici governativi tendenti, ovepossibile, all’aumento della produzione di gas, alrafforzamento della capacità esplorativa dei giaci-menti di petrolio e di gas e al perfezionamento delletecnologie di raffineria. Tutto ciò per massimizzarela quantità di energia esportabile e per divenirePaesi strategici di transito. Viste le ingenti riserveinterne di idrocarburi - a esclusione del Marocco edella Tunisia - i Paesi del Nord Africa si candidano,nel breve-medio periodo, a essere i principali forni-tori di energia dell’Europa e a rafforzare il proprioruolo verso gli Stati Uniti e la Cina.Altro elemento a fattor comune è l’assoluta dipen-

denza della crescita del Pil nazionale e della stabiliz-zazione dei principali indicatori macro-economicidei singoli Stati dagli idrocarburi: gas e petrolio. Laquasi mono-produzione ha generato un sistema deltutto sbilanciato che sta oggi generando evidentivantaggi economici, ma che, senza un’adeguatapolitica di diversificazione del mix di produzioned’energia, potrebbe, nel lungo periodo, compromet-tere gli interi sistemi-Paese.

EgittoL’Egitto è storicamente produttore di petrolio e starapidamente aumentando il proprio rango tra i Paesiproduttori di gas naturale.

Petrolio. L’industria petrolifera gioca un ruolo chia-ve nell’economia. Conta per circa il 40% dei guada-gni dell’export; il solo settore dell’upstream percirca il 10% del Pil nazionale. Nel 2007, malgradoannunciate scoperte e miglioramenti nelle tecnichedi estrazione del petrolio, l’Egitto ha visto il proprioturnaround negativo nella produzione di greggio:dal picco di 950 mila b/g del 1995, nel 2007 ha pro-dotto 700 mila b/g, lo 0,87% della produzione mon-diale. La produzione proviene da quattro aree prin-cipali: il Golfo di Suez (circa il 50%), il desertooccidentale (27%, più del doppio rispetto al 2000),

EGITTO, ALGERIA E LIBIA SARANNO I PRINCIPALI FORNITORI DI UE, CINA E USA

I TRE COLOSSI DELL’ENERGIADI DAVIDE URSO

I •

l Nord Africa ha avuto, negli ultimi anni, un’esponenziale crescita nel settoreenergetico. Ciò per differenti ragioni connesse al rango e al ruolo che i singoliPaesi hanno giocato e giocheranno nel panorama geo-energetico mediterraneoe medio-orientale prima, e globale poi. Si passa da una nazione come la Libia,che ha iniziato la sua escalation energetica con la cessazione delle sanzioni Onu

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il deserto orientale e la Penisola del Sinai. Si trattadi giacimenti maturi e relativamente piccoli, con-nessi a più grandi sistemi di produzione regionali.La domanda interna di petrolio è in costante cresci-ta. Dal 1995 i consumi sono passati da 480 a 652mila b/g nel 2007, lo 0,77% del consumo mondia-le. Le speranze del Governo sono di ridurre ladomanda aumentando i sussidi, passati da 1,7 euronel 2004 a 7,5 euro nel 2008, il 71,3% più altorispetto al 2007. Affinché tale politica possa pro-durre i risultati sperati serviranno ancora moltianni. Nel 1995 vi è stato il picco di forbice tra pro-duzione e consumo di petrolio, pari a 470 mila b/g.Ciò ha permesso all’Egitto di puntare su una poli-tica di stabilizzazione del sistema energetico,anche attraverso l’aumento delle riserve petrolife-re, pari a 4,07 miliardi di barili, lo 0.32% delleriserve mondiali. Nel 2007, tale forbice si è di fattoazzerata, con una piccola differenza a vantaggiodella produzione. Se ciò, da un lato, ha permessoall’Egitto di evitare di entrare tra i Peasi importato-ri netti di petrolio, dall’altro, ha lanciato un allarmesulla capacità reale dei giacimenti di petrolio e aper-to un dibattito a livello governativo sulla necessitàdi diversificare il mix di produzione energetico. Ilgiacimento offshore di Saqqara - entrato in esercizionel 2008 con un tasso di flusso di 30 mila b/g e unpicco di produzione atteso di 40-50 mila b/g - èstato l’ultimo grande giacimento dal 1989.L’Egitto gode di un’invidiabile posizione geografi-ca. Il Canale di Suez e la Sumed Pipeline (Suez-Mediterranean) sono rotte strategiche per il traspor-to di greggio del Golfo Persico. Ciò fa dell’Egittoun importante corridoio di transito energetico.Secondo i dati del Middle East Economic Surveydel 2007, il greggio trasportato attraverso il Canaledi Suez ammonterebbe a 1.260 mila b/g. La mag-gior parte del transito, circa i tre quarti, è nella fron-tiera Sud del Canale di Suez. Interessante è che nel2006 il rapporto era esattamente l’opposto. Il cam-biamento della direzione dei flussi indica in modochiaro il calo della domanda europea rispetto alla

crescita del mercato asiatico. La Sumed Pipeline daAin Sukhna sul Golfo di Suez a Sidi Kerir sulMediterraneo ha una capacità di 2,34 milioni b/g.L’oleodotto è di proprietà dell’Arab PetroleumPipeline Company, una joint venture tra Egitto(50%), Arabia Saudita (15%), Kuwait (15%),Emirati Arabi (15%) e Qatar (5%). L’Egitto, con 9raffinerie e una capacità di processo di 726 mila b/g,ha il maggiore settore della raffineria del continen-te. La principale raffineria è la El-Nasr a Suez diproprietà del Governo con 146.300 b/g. È in proget-to la costruzione di cinque impianti petrolchimici eraffinerie.

Gas naturale. Rispetto al petrolio, la forbice produ-zione/consumo del gas evidenzia un andamentoopposto. Grazie alla scoperta di nuovi giacimenti,dal 1999 la produzione di gas ha avuto una crescitadel 30%, di gran lunga superiore alla domanda. Laproduzione di gas dell’Egitto, nel 2007, è stata di46,52 miliardi m3 (+4,2% rispetto al 2006), l’1.57%della produzione mondiale. Il consumo è stato di32,04 miliardi m3 (+9,9% rispetto al 2006), l’1,09%del totale mondiale. L’Egitto è un esportatore nettodi gas naturale. La regione del Delta del Nilo - con

Viste le ingenti riserve interne di idrocarburi, a esclusione del Marocco e della Tunisia, i Paesi del Nord Africa si candidano, nel breve-medio periodo, a essere i principali fornitori di energia dell’Europa e a rafforzare il proprio ruolo verso gli Stati Uniti e la Cina

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i giacimenti di Badreddin e Abu Qir - copre circa il50% dell’esportazione e della produzione di gas. Laseconda area più importante è il deserto occidenta-le, con i giacimenti di Obeiyed e Khalda. Il princi-pale progetto di esportazione è l’Arab Gas Pipeline(AGP), che connette l’Egitto alla Giordania e allaSiria. Le proiezioni dell’Egitto sono di esportare finoa 2,6 miliardi m3 nel 2013. Nel 2008, Turchia e Siriahanno siglato un accordo per connettere il gasdottoalla rete turca nel 2011 ed estendere l’esportazionedel gasdotto in Europa fino all’Austria, attraverso laBulgaria, Romania, e Ungheria. Sono in corso nego-ziati per connettere l’Agp al Libano e a Cipro. Ilgasdotto Arish-Ashkelon - che collega l’Egitto adIsraele, in esercizio dal 2008 - ha una capacità di 2,2miliardi m3/anno. Recentemente, la Libia si è accor-data con l’Egitto per costruire un gasdotto daAlessandria a Tobruk, Est della Libia, per importaregas dalla regione del Delta del Nilo. Le riserve di gasnaturale sono pari a 2,06 mila miliardi m3, grazie aglienormi investimenti nell’upstream, l’1.16% del tota-le mondiale: 81% nell’area mediterranea, 11% neldeserto occidentale, 6% nel Golfo di Suez e 2% nellaregione del Delta del Nilo. L’Egitto è al terzo postotra i Paesi africani per riserve di gas. La rete nazio-

nale gasiera è stata potenziata fino agli attuali 16.807km, con una capacità di 160 milioni m3. Il gas prov-vede al 58% della produzione di elettricità del Paesee al 26% del settore industriale. Secondo il trend inatto, nel prossimo futuro il gas prenderà il posto delpetrolio come motore del sistema energetico nazio-nale. Già oggi l’Egitto si candida ad essere tra i prin-cipali fornitori di gas naturale del Mediterraneo. Vistii bassi prezzi del gas rispetto al petrolio e il minorimpatto in termini di emissioni di gas serra, ilGoverno sta incoraggiamento i cittadini e i settoridell’industria e del commercio a utilizzare semprepiù il gas. Il piano dell’Egitto è molto ambizioso: tra-sportare gas a 5,5 milioni di case per il 2015, a fron-te dei 2,87 milioni del giugno 2008. L’Egitto ha treterminali di rigassificazione (Gnl) per un totale di14,8 milioni m3 di Gnl; 3,7 milioni m3 vanno agliStati Uniti. Il Paese sta anche puntando sull’utilizzodel gas naturale compresso come combustibile per iveicoli di trasporto. Ciò ridurrebbe il peso del petro-lio nel settore dei trasporti e, quindi, la domanda delcombustibile nero. A giugno 2008, i veicoli conver-titi a gas sono stati circa 12 mila.

Settore elettrico. Il Governo vuole espandere lacapacità elettrica a 32 GWe entro il 2010, rispetto a18 GWe del 2005. Il 75% dell’elettricità è prodottadal gas, il 14% dal petrolio e il restante 11% dal-l’idroelettrico. L’Egitto ha in progetto di generare,entro il 2017, 500 MWe dall’energia solare, 600MWe dall’eolico e 600 MWe dall’idroelettrico. LaWorld Bank garantirà finanziamenti per 328 milionidi dollari.

AlgeriaIl consumo di energia è coperto per il 62% dal gasnaturale, per il 36% dal petrolio e per l’1% dal car-bone. Il Paese produce 200 milioni tep, di cui circa50 attribuibili al petrolio e 150 al gas, valori che col-locano l’Algeria al 3º posto al mondo per la produ-zione di gas e al 15º per il petrolio, assicurando, nel2007, introiti per oltre 59 miliardi di dollari. La

Vista la crescita esponenziale della produzione negli ultimianni, l’Algeria è il principale esportatoredi petrolio del Nord Africa,con 1,85 milioni b/g. Gli Stati Uniti importano il 35% del loro greggio, i Paesi europei dell’Ocse circa il 37%

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domanda interna è in crescita e si colloca intorno ai10 milioni di tep, quantità simile a quella consuma-ta dal Marocco. Il settore degli idrocarburi da solocontribuisce al 45% del Pil e al 60% delle entratefiscali, ma solo al 2% dell’occupazione totale. Nel2007, l’Algeria ha esportato idrocarburi per 48milioni tep, con un aumento del 56% rispetto al2006, e pari 98,3% delle esportazioni totali algerine.Il ministero dell’Energia e delle Miniere ha un pro-gramma d’investimenti di 45,6 miliardi di dollariper il periodo 2007-2011, con l’obiettivo di accre-scere la produzione di petrolio, passando dal 3 al5% l’anno nell’estrazione del greggio e raggiunge-re i 2 milioni di barili, e quella di gas a 85 miliardim3/anno. L’Algeria è stato nel 2007 il nostro primofornitore di gas, con circa 27 miliardi m3/anno, parial 33% delle nostre importazioni (30% dalla Russiae 10% dalla Libia), e occupa il 9° posto tra i nostrifornitori di greggio, con quasi 2 milioni di tonnella-te. Nel 2008, si sono aggiunti i 6,5 miliardi m3/annoper i contratti entrati in vigore con quattro società(Edison, Mogest, Begas e World Energy), nell’am-bito della prima fase di estensione della capacità delgasdotto Transmed, che passerà da 27 a 33,5 miliar-di m3/anno nel 2012.

Petrolio. L’Algeria è un esportatore netto di petro-lio e il suo ruolo è in continua crescita. Con 12,3miliardi di barili di riserve provate, è il 3º Paesedell’Africa, dietro a Libia (41,5 miliardi) e Nigeria(36,2 miliardi), e il 15º al mondo. Le riserve sonolocate soprattutto nell’Est del Paese. Il bacino HassiMessaoud contiene il 70% delle riserve totali; larestante parte è nel bacino di Berkine. L’Algeria,secondo i dati dell’United States Geological Survey,ha il 95% di probabilità di scoprire ancora 1,7miliardi di barili di petrolio, il 50% di scoprirne 6,9miliardi, e il 5% di scoprirne 16,3 miliardi, con unvalore medio di 7,7 miliardi di barili. Pertanto, seb-bene sia un produttore di petrolio dal 1956, gli ana-listi industriali considerano il Paese ancora sottolivello d’esplorazione. La produzione di petrolio nel

2007 - cresciuta dal 2000 di oltre il 50% - è statapari a 2,13 milioni b/g, di cui il 65% greggio. Per laprima volta vi è stato un calo di produzione dello0,1%. Al ritmo attuale di sfruttamento, secondo l’exministro ed ex presidente della Sonatrach,Abdelmadjid Attar, non ci sarà più petrolio fra 18anni. Dal 1986 ad oggi, la domanda di petrolio èrimasta pressoché costante, pari a circa 270 milab/g. Vista la crescita esponenziale della produzionenegli ultimi anni, l’Algeria è il principale esportato-re di petrolio del Nord Africa, con 1,85 milioni b/g.Gli Stati Uniti importano il 35% delle esportazionialgerine di petrolio, i Paesi europei dell’Ocse circail 37%: Francia 8%, Italia 7% e Spagna 6%.L’Algeria utilizza sette terminali costieri per espor-tare greggio, prodotti di raffineria e Gnl. L’impiantodi Arzew pesa per circa il 40% dell’export totaledegli idrocarburi algerini. Il Governo vuole espan-dere l’area portuale di Arzew, inclusa la costruzionedi un complesso petrolchimico, una raffineria e unimpianto di desalinazione. L’Algeria possiede unefficiente sistema di connessione degli oleodotti daigiacimenti di produzione ai terminali di esportazio-ne. Sonatrach opera oltre 3.861 km di oleodotti con-nessi a terminali algerini. Inoltre, l’Algeria gestisceun oleodotto di 257 km, per 304 mila b/g, che con-nette il giacimento di Amenas nel Sud-Estdell’Algeria al terminale di esportazione di LaSkhira in Tunisia. La riforma approvata dalParlamento algerino sugli idrocarburi nel 2005-2006 introduce una disposizione che permette allaSonatrach di accrescere la sua partecipazione mini-ma, in tutti i contratti di ricerca, sfruttamento, raffi-nazione e trasporto per canalizzazione, al 51%.L’Agenzia di regolamentazione nazionale, Alnaft,promuove attività di esplorazione, stipula contrattinell’upstream, approva piani di sviluppo e detiene iproventi dalle tasse e dalle royalties.La Sonatrach - oltre all’esercizio dei giacimenti diHassi R’Mel, Tin Fouye Tabankort Ordo,Zarzaitine, Haoud Berkaoui/Ben Kahla e Ait Kheir- possiede il più grande giacimento di petrolio

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dell’Algeria: Hassi Messaoud. Esso è locato nelcentro del Paese e produce circa 450 mila b/g.L’obiettivo della Sonatrach è di incrementare la pro-duzione a 600 mila b/g nei prossimi anni. Molti ope-ratori stranieri stanno investendo nella produzionedi petrolio algerino. Il principale è Anadarko, conuna capacità di produzione di 500 mila b/g, e sta svi-luppando sette nuovi giacimenti di petrolio e gas nelbacino di Berline. L’Eni opera nel progetto RhourdeOulad Djemma nel Sud-Est dell’Algeria per sei gia-cimenti satellite con una capacità di produzione di80 mila barili/giorno. Altri investitori stranieri sono:Amerada Hess, Bho-Billiton, BP, Repsol, Shell,Statoil e Total. La capacità di raffinazione, pari a500 mila b/g - 37° posto al mondo - aumenterà conla costruzione di una nuova raffineria con capacitàdi 300 mila b/g.

Gas naturale. Nel 2004, la produzione di petrolioha ri-superato quella di gas. Il trend si era invertitoper la prima volta nel 1997. Nel 2007, la produzio-ne è stata di 74,7 Mtep, -1,7% rispetto al 2006, conun consumo di 22 Mtep, +2,7% rispetto al 2006. IlGoverno incoraggia l’uso domestico di gas, che rap-presenta il 62% dell’energia consumata nel Paese. Ilrestante gas è esportato, principalmente in Europa enegli Usa. Nel 2006, l’Algeria ha esportato 62miliardi m3 di gas - 60% via gasdotti e 40% comeGnl - e occupa il 4º posto al mondo, dopo Russia,Canada e Norvegia. La capacità d’esportazione digas naturale della Sonatrach è di circa 45 miliardi m3

e dovrebbe salire a 85 nel 2010; quella di Gnl è dicirca 27 miliardi m3. Gli introiti dalle esportazioni digas, tra i 15 e i 18 miliardi di dollari l’anno, rappre-sentano il 30% delle entrate dalla vendita di idrocar-buri. La regione di In Salah è cruciale per i piani diaumento della produzione di gas. I giacimenti dellaregione potrebbero produrre fino a 25 milionim3/giorno. L’Enel e il consorzio In Salah Gas hannosiglato nel 1997 accordi con per la fornitura di 11mila m3/giorno: la produzione è iniziata nel 2004.Clienti transeuroperi sono la Turchia e i Paesi del

Nord Africa. Ulteriori progetti per la produzione digas naturale sono in atto nella provincia Illizi, Sud-Est dell’Algeria, vicino alla frontiera libica.L’Algeria ha riserve pari a 4,52 mila miliardi m3, il31% del continente. È l’8º Paese al mondo per riser-ve di gas, il 2º dell’Africa, dopo la Nigeria, e ilsecondo tra i Paesi Opec, dietro l’Iran. Secondo ana-lisi geologiche, in assenza di scoperte significative,il gas - 100 miliardi m3 destinati all’esportazione,oltre ai 20 miliardi m3 per soddisfare la domandainterna - potrebbe esaurirsi tra 25 anni. Secondo ilministro dell’Energia Khelil, invece, le riserveaccertate non si esauriranno prima del 2040 e porte-ranno nelle casse dello Stato, da oggi al 2040, aprezzi costanti, introiti per circa 55 miliardi di dol-lari l’anno. L’Algeria è il 1º produttore al mondo diGnl e il 4º esportatore, dietro Indonesia, Malaysia eQatar, con circa il 13% del totale. I principali impor-tatori di Gnl algerino sono: Francia, Spagna,Turchia, Usa (15%) e Belgio. In termini di strategiaindustriale, la Sonatrach - con un fatturato annuo di61,3 miliardi di dollari, in continua crescita - hal’obiettivo di internazionalizzare le sue attività, rea-lizzando, nel 2015, il 15% del suo fatturato all’este-ro. Inoltre, intende aumentare del 31% le capacitàd’esportazione di gas, via gasodotti e metaniere, perraggiungere gli 85 miliardi m3 nel 2011-2012. Sonoin corso trattative con il gruppo americano SempraEnergy, in grado di aprire alla Sonatrach il mercatoamericano. In più, Sonatrach - che esporterà circa il10% del consumo di gas europeo attraverso igasdotti verso l’Italia e la Spagna e per nave versola Francia e l’Inghilterra – ha il progetto di esporta-re il 50% del Gnl algerino con proprie metaniere. Ilprincipale giacimento dell’Algeria è Hassi R’Mel,scoperto nel 1956, con una capacità di circa un quar-to della produzione totale di gas; è la base del siste-ma nazionale dei gasdotti, essendo collegato al ter-minale GNL sul mar Mediterraneo.Ci sono altre due connessioni di gas tra l’Algeria el’Europa: la Transmed (Trans-Mediterranean), di1.078 km, per 27 miliardi m3/anno, da Hassi R’Mel

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alla Sicilia, via Tunisia; e la Maghreb-Europe Gas(Meg), di 1.609 km, per 23 mila/giorno, gestito daun consorzio internazionale - guidato dalla spagno-la Enagas, dalla marocchina Snpp e dall’algerinaSonatrach - collega Hassi R’mel con Cordoba, viaMorocco, dove si connette con la rete gas dellaSpagna e del Portogallo. Il gasdottoMedgas - nato da un consorzio tra laspagnola Cepsa e la Sonatrach -lungo 193 km, collegherà Beni Saf adAlmeria (Spagna), con una possibileestensione alla Francia. Il gasdottoentrerà in esercizio nel 2009 con unacapacità di 8 miliardi m3/anno e uncosto di 900 milioni di euro. Ilgasdotto Galsi - accordo traSonatrach ed Enel - collegherà GassiR’Mel e El Kal, in Algeria, per rag-giungere Cagliari con una sezionesotto l’acqua. Avrà una capacità di 8miliardi m3/anno. Nel novembre 2006, Algeria eItalia hanno firmato ad Algeri cinque accordi dicommercializzazione di 8 miliardi m3/anno di gas: 2miliardi ciascuno a Sonatrach, Enel e Edison, 1miliardo a Hera e 500 milioni ciascuno per WorldEnergy e Ascopiave. Il gasdotto Trans-Saharan(Nigal) - consorzio tra Sonatrach e NigerianNational Petroleum Corporation (Nnpc) del 2002 -sarà lungo 4.128 km (137 km in territorio nigeriano,841 in Niger, 2.310 in Algeria), fino alla costa delMediterraneo, e dovrebbe essere inaugurato nel2015. Il costo del progetto - che prevede il traspor-to di 20-30 miliardi m3/anno e la costruzione di 18stazioni di pompaggio per un gasdotto di 56 pollici- si stima superiore ai 10 miliardi di dollari.

Settore elettrico. Il tasso di elettrificazione inAlgeria si aggira attorno al 97%, mentre quello dipenetrazione del gas ha raggiunto il 38%. Nel 2009,secondo stime della Sonelgaz, il 57% delle famigliesarà collegata al gas. L’entrata in funzione degliimpianti di due nuovi produttori indipendenti -

Kahrama Arzew e Kahraba Skikda - ha consentitol’aumento del 17,3% della produzione nazionalecommercializzata e rappresenta un inizio verso laliberalizzazione del settore. A fine 2006, la capacitàinstallata nazionale era ripartita: Sonatrach Spe6.744 MWe (85%), Kahrama 345 MWe (4,3%), Sks

850 MWe (10,7%). Nel 2007 sono stati firmati cin-que contratti per un totale di 800 milioni di dollaritra Sonatrach e tre società straniere - l’italianaAnsaldo, la francese Alstom e l’americana GeneralElectric - per la costruzione nel 2009-2010 di cin-que nuovi impianti elettrici a Batna, Larbaa,Relizane, Algeri e Annaba. La Sonelgaz, che operain regime di monopolio dal 1996, è fortemente inde-bitata (1,5 miliardi di euro) e non in grado di finan-ziare il piano di sviluppo elettrico 2007-2010 delcosto annuo di 2 miliardi di dollari, per soddisfarel’aumento della domanda d’elettricità, destinata acrescere da oggi al 2011 del 7% annuo. L’arrivo diinvestitori stranieri è pertanto necessario e auspica-to dal governo. Dall’altro lato, l’Algeria intende raf-forzare il proprio ruolo di esportatore di energiaelettrica, grazie soprattutto a due progetti d’inter-connessione Algeria-Spagna e Algeria-Italia, concavi sottomarini che correranno lungo i gasdottiMedgas e Galsi, con una capacità di generazione di2.000 MWe ciascuno. L’Algeria vuole produrre il5% del suo consumo d’elettricità con le energie rin-

L’Algeria è l’8º Paese al mondo per riserve di gas, il 2º dell’Africa,dopo la Nigeria, e il secondo tra i Paesi Opec, dietro l’Iran.Secondo analisi geologiche potrebbe esaurirsi tra venticinqueanni. Per il governo non terminerà prima del 2040

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novabili (centrali ibride solari-diesel e eoliche) entroil 2010. Con la creazione di una joint-venture traSonelgaz e l’ufficio marocchino dell’elettricità(OME), la Sonelgaz conta di esportare l’eccesso dielettricità in Spagna via Marocco. Rabat sta infattirealizzando 400 KWe che si collegheranno a unalinea della Sonelgaz ad Ovest del Paese. Il progettoè allo studio.

LibiaIl fabbisogno di energia è coperto per il 71% dalpetrolio e per il 29% dal gas. L’economia libica sibasa prevalentemente sulla produzione e l’esporta-zione di petrolio e di gas naturale che contribuisco-no al 72% del Pil, al 93% delle entrate di bilancio eal 95% delle esportazioni. In virtù delle renditepetrolifere la Libia ha potuto avviare un piano disviluppo quinquennale di circa 140 miliardi di dol-lari. Nel solo 2007 sono stati stanziati fondi perquasi 20 miliardi. Con l’entrata a regime del gasdot-to di Mellitah che trasporta gas dalla Libia in Sicilia,attraverso un metanodotto sottomarino di oltre 580km, la Libia è passata dal 34° al 7° posto nella gra-duatoria dei Paesi fornitori dell’Italia. Il valoreaggregato delle importazioni di gas e petrolio in

Italia si è assestato nel 2008, in termini monetari, a14 miliardi di euro, facendo registrare un incremen-to del 10,6% rispetto al 2007.

Petrolio. Il Governo di Tripoli, attraverso laNational Oil Company (Noc), ha l’obiettivo diaumentare la produzione di petrolio entro il 2013del 40%, da 1,8 milioni di b/g a 3 milioni, soprat-tutto attraverso l’attività di esplorazione. La Libia èil 1º Paese dell’Africa per riserve provate di petro-lio con 41,5 miliardi di barili, pari al 35,3% delleriserve mondiali. L’80% delle riserve sono locatenel bacino Sirte, che produce il 90% dell’output dipetrolio. Secondo studi di settore, il Paese è ancoraaltamente inesplorato e solo il 25% della Libia ècoperto da accordi di esplorazione con compagniepetrolifere. La sotto-esplorazione del Paese è con-

seguenza delle sanzioni imposte dall’Onu e dagliUsa, nonché da un regime fiscale stringente impostodal Governo libico alle compagnie petrolifere este-re. Da quando l’Onu e gli Usa hanno tolto le sanzio-ni alla Libia, nel 2003 e 2004, le industrie petrolife-re estere hanno aumentato gli investimenti nel-l’esplorazione di giacimenti di petrolio e gas.Fondamentali per gli obiettivi di aumento della pro-duzione e di sicurezza energetica saranno gli inve-stimenti esteri. Ciò anche perché i giacimenti gesti-ti dallo Stato hanno un tasso di produzione negativodel 7-8%. La Libia è considerata un’area fortemen-te attrattiva per gli investimenti esteri, visto il bassocosto dell’estrazione del petrolio (anche meno di 1dollaro a barile in certi giacimenti), l’alta qualità delsuo petrolio e la vicinanza ai mercati europei, sem-pre più assetati di energia. Inoltre, la Libia sta adot-tando un sistema normativo per aprirsi all’economiadi mercato. L’ultimo rapporto del Fmi sulla Libia haevidenziato i passi avanti nel processo di liberaliz-zazione. Come l’Algeria, anche la Libia ha vistonegli ultimi 20 anni aumentare la forbice produzio-ne/consumo a favore della produzione. Ciò ha con-sentito di aumentare le proprie riserve e di puntare -con una produzione di 1,850 milioni b/g e un consu-

L’economia libica si basa prevalentementesulla produzione e l’esportazione di petrolio e di gas naturaleche contribuiscono al 72%del Pil, al 93% delle entrate di bilancio e al 95% delle esportazioni.Il fabbisogno energetico è coperto per il 71% dal greggio e per il 29% dal gas

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mo di 284 mila b/g - all’export di petrolio permigliorare gli indicatori macroeconomici nazionali.La Libia esporta 1,525 milioni b/g, principalmentein Europa: Italia (495 mila b/g, 38% dell’exportlibico), Germania (253 mila b/g), Spagna (113 milab/g) e Francia (87 mila b/g). Gli Usa e la Cina con-tano rispettivamente per il 6% e il 5% delle esporta-zioni libiche. La Repsol Ypf ha annunciato nel 2005di aver trovato un deposito ricco di petrolio nelbacino di Murzuq. Si aspetta un over-produzione di100-120 mila b/g. Sempre nel bacino di Murzuq c’èil giacimento Elephant dell’Eni, 748 km a Sud diTripoli. Il giacimento ha iniziato la produzione nel2004 e produce circa 130 mila b/g. I giacimentidella Waha Oil Company’s (Woc) producono circa350 mila b/g, ma sono in fase calante, visto che nel1969 producevano 1 milioni b/g e 400 mila nel1986. Il settore della raffinera soffre ancora delperiodo delle sanzioni. La Risoluzione Onu 883dell’11 novembre 1993 proibiva alla Libia d’impor-tare equipaggiamenti di raffineria. Il paese ha cin-que raffinerie (Ras Lanuf, Az Zawiya, Tobruk,Brega e Sarir) con una capacità complessiva di 38mila b/g. Inoltre, la Libia opera in Europa con ilbraccio d’oltremare Tamoil, che permette al paesedi essere un distributore diretto di prodotto di raffi-neria in Italia, Germania, Svizzera ed Egitto.

Gas naturale. L’espansione della produzione di gasè una priorità strategica. Ciò per due ragioni. Primo,la Libia punta a usare più gas per il fabbisognonazionale, liberando più petrolio per l’export.Secondo, ha vaste riserve di gas naturale e intendeaumentarne l’export, soprattutto in Europa. Leriserve provate di gas sono 1,50 mila miliardi m3, 4ºposto in Africa, dopo Nigeria, Algeria ed Egitto. Igiacimenti principali sono: Attahadi, Defa-Waha,Hatiba, Zelten, Sahl e Assumud. La produzione digas della Libia è cresciuta negli ultimi anni. Nel2006, la produzione è stata pari a 14,8 miliardi dim3, più di due volte quella del 2005. Ciò grazieall’entrata in esercizio, nel 2004, del gasdotto sotto-

marino Greenstream (75% di proprietà dell’Eni),che esporta il gas in Sicilia, per poi dirottarsi inEuropa. Tale gasdotto, insieme al Western LibyanGas Project (Wlgp) - joint venture paritaria tra Enie Noc - hanno permesso alla Libia di aumentare inmodo esponenziale l’esportazione di gas in Europa.Il consumo di gas nel 2006 è stato 6,39 miliardi m3,di molto inferiore alla produzione. Ciò rende laLibia un esportatore netto di gas. Le esportazioninel 2007 sono state pari a 9,9 miliardi m3. Peraumentare la produzione, il marketing e la distribu-zione di gas, la Libia sta spingendo per incrementa-re la partecipazione e gli investimenti esteri ai pro-grammi nazionali del gas. Eni e Noc hanno firmatoun accordo per lo sviluppo di progetti congiunti perla produzione di gas e petrolio in Libia. Si tratta diun impegno di circa 28 miliardi di dollari per 10anni, le cui scadenze sono al 2042 per il petrolio eal 2047 per il gas. Tale accordo prevede un maggio-re coinvolgimento del Gruppo Eni nello sfruttamen-to dei giacimenti petroliferi e di gas in Libia con unraddoppio della produzione di gas ad oltre 16miliardi m3/anno. Ciò comporterà anche l’amplia-mento della capacità di trasporto verso l’Italia delgasdotto Greenstream di 3 miliardi m3/anno, nonchéla costruzione di un impianto di liquefazione di gasda 5 miliardi m3/anno. Inoltre, l’Eni ha proposto diconnettere le riserve di gas di Egitto e Libiaall’Italia attraverso un gasdotto. Entrambi i Paesiafricani hanno già un accordo per unire le propriereti di gas e le compagnie Noc ed Egyptian GeneralPetroleum Corporation hanno creato una joint ven-ture “Arab Company for Oil and Gas Pipelines”(Acog) per la costruzione di due gasdotti: uno pertrasportare gas dall’Egitto alla Libia e un altro pertrasportare petrolio libico ad Alessandria in Egittoper attività di raffinazione e consumo. Le societàitaliane Edison Gas e Energia Gas hanno stipulatoaccordi “take or pay” per acquisire rispettivamente4 miliardi m3/anno e 2 miliardi m3/anno di gas, peril mercato italiano. Altri 2 miliardi m3/anno sonoprodotti dalla Wlgp sia per il mercato interno libico,

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sia per l’esportazione in Tunisia. Tunisia e Libiahanno stipulato una joint venture per la costruzionedi un gasdotto dall’area Melitah alla città tunisinaGabes. Il gasdotto dovrebbe entrare in esercizio nel2010. Nel 1971, la Libia era il 2º paese al mondoper esportazione di Gnl, dopo l’Algeria. Da allora, il livello di esportazioni è rimasto pres-soché stabile, soprattutto a causa di limiti tecniciche non permettono alla Libia di estrarre gas dipetrolio liquefatto (Gpl) dal gas naturale. Con lacancellazione delle sanzioni, industrie straniere,come la Shell e la spagnola Repsol Ypf, stannoinvestendo in progetti Gnl.

Settore elettrico. La domanda interna di elettricitàè in forte aumento. La rete elettrica della Libia è dicirca 33.789 km. Nel 2007, la capacià installataera di 5 GWe, con una produzione di 23,98 miliar-di KW/h e un consumo di 20,71 miliardi KW/h.Occorrono ingenti investimenti per raddoppiare lacapacità di generazione elettrica al 2010. Inoltre,la Libia sta cercando di aumentare i collegamenticon le reti della Tunisia e dell’Egitto. Il 15% delgas prodotto è utilizzato per la generazione di elet-tricità. La maggior parte delle centrali elettrichesono state convertite da petrolio a gas naturale e lefuture centrali andranno a gas. Ciò permetterà aTripoli di aumentare l’export di petrolio. La socie-tà di stato General Electrical Libyan Co. (Gecol)sta costruendo nuove centrali elettriche. Nelle areeremote del Paese, la Libia ha in progetto di gene-rare elettricità con l’eolico e il solare.

Il futuro energetico della Libia. Il Governo libicoha lanciato un piano di sviluppo del settore ener-getico ed elettrico per oltre 8 miliardi di euro neiprossimi 5 anni. Tutto il progetto è gestito dallaGecol. Sono state avviate trattative con la HyundaiEngineering & Construction Co. per la costruzio-ne di una centrale elettrica. È stato finalizzato conl’Eni il raddoppio della centrale di Mellitah.Continuano i negoziati con società americane per

la costruzione di una raffineria vicino al confinecon la Tunisia. Per i prossimi anni è prevista lacostruzione di una centrale elettrica da 1.400 MWetra Bengasi e Tripoli e la costruzione di 42 sub-sta-zioni per la distribuzione principalmente traBengasi, Tripoli e Sabratha. Il programma com-prende la costruzione di reti di fornitura con laTunisia. La società sudcoreana DaewooEngineering and Construction ha dichiarato diaver ricevuto 845 milioni di dollari per la costru-zione di due centrali elettriche a ciclo combinato aBengasi e a Misurata con capacità di 750 MWeciascuna. Il piano di sviluppo delle fonti elettrichecomprende la costruzione di altri sistemi di produ-zione e di trasporto di elettricità per una capacitàcomplessiva di oltre 7mila MWe con il sistema dicombustione a vapore, gas e combinati. La Libiasta sviluppando processi di alta tecnologia. IlGoverno Libico ha concluso accordi con laFrancia per il trasferimento di tecnologia nuclearea scopi pacifici per la creazione di grandi impiantidi desalinizzazione dell’acqua di mare che dovreb-bero sorgere presso la città di Sirte; e con laSpagna, per un importo di 5 miliardi di dollari perl’energia. Interessante è il progetto per la creazio-ne di una nuova città dedicata alla realizzazione distudi e ricerca su energia (petrolio e gas) e tecno-logia in generale, che dovrebbe sorgere pressoSabrata su un’area di 528 ettari per un investimen-to totale di 3,8 miliardi di dollari.

MaroccoIl Marocco ha basse disponibilità di risorse fossili.Produce solo il 3% del suo fabbisogno. Le risorsedi idrocarburi si limitano al carbone estratto aDjérada e al petrolio di Sidi Kacem e Sidi Rhalem,che coprono in minima parte il fabbisogno energe-tico del Paese. Sono stati individuati altri giaci-menti nella regione di Essaouira e lunga la costadell’Oceano Atlantico, che però necessitano diingenti investimenti finanziari e nuovo know-how,oltre che di tempo. Il Marocco dipende per il 97%

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dalle importazioni delle risorse energetiche, dicui il 60% (6,1% del Pil 2008) riguarda il petro-lio e i suoi derivati. I principali Paesi di prove-nienza di tali importazioni sono: Arabia Sauditaper il 48%, Iran per il 39% e Russia 13%. Il con-sumo di energia nel 2008 è aumentato del 6,1%rispetto al 2007. La domanda è soddisfatta per il61% dal petrolio, il 25,8% dal carbone, il 3,7%dal gas naturale, il 7,5% dall’elettricità importatada Algeria e Spagna. Nel 2008, nonostante l’au-mento del costo del greggio su scala mondiale, leimportazioni di greggio sono salite del 17%, paria 210 mila b/g. A fronte di una produzione di 3,8mila b/g, il consumo è stato circa 190 mila b/g.Il Marocco si trova quindi oggi nella necessità didover cambiare la propria politica energetica, didiversificare il mix produttivo, cercando di ridur-re la dipendenza dall’estero e dagli idrocarburi, edi puntare alla liberalizzazione progressiva delsistema energetico nazionale per meglio integrar-si con il mercato euro-mediterraneo. Per quantoriguarda i rapporti con gli altri Paesi, la strategiadel governo punta a rafforzare l’interconnessionecon la Spagna e con l’Algeria e ad intensificare irapporti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi.L’ambizione del Marocco è di integrare il propriomercato dell’energia con il mercato europeo, inparticolare per quanto riguarda l’elettricità e ilgas. Nel 2008, il Marocco ha beneficiato dall’Uedi un finanziamento di 43 milioni di euro nel-l’energia. La strategia adottata dal Ministero dell’Energiamira a garantire la disponibilità e l’accessibilità dienergia al minor costo possibile e a diversificare lefonti sfruttando le caratteristiche geofisiche delPaese: elevata irradiazione solare, coste dotate diottima velocità del vento; ricorso, nel lungo perio-do, all’elettronucleare, alla valorizzazione dei sci-sti bituminosi (di cui il Marocco è tra i primi pro-duttori al mondo), alla biomassa (sfruttando lezone boschive del Paese), all’intensificazionedella ricerca degli idrocarburi. Gli investimenti

globali per il periodo 2009-2015, per le esplora-zioni petrolifere e valorizzazione dei scisti bitumi-nosi, ammontano a 180 milioni di euro. Nel 2008,gli investimenti per la ricerca del petrolio sonostati circa 56 milioni di euro. Fino a oggi questastrategia ha consentito di attirare 26 società petro-lifere straniere, principalmente inglesi, americane,spagnole, danesi e canadesi. In totale, tra il 2007 eil 2008, sono stati firmati 9 accordi petroliferi. Nelcomplesso sono 89 i permessi di ricerca di cui 52onshore e 37 offshore. Il gas - la cui produzione èpari a 60 miliardi m3/anno, tutto consumato -potrebbe essere un’alternativa al petrolio e al car-bone, qualora l’approvvigionamento sia offerto aprezzi competitivi sfruttando i gasdotti Maghreb-Europa.Il governo ha elaborato nuovi progetti di investi-mento per il settore energetico, per il periodo2008-2015, per 9 miliardi di euro, in larga misurautilizzati per le nuove centrali a carbone, per la

Il Marocco dipende per il 97% dalle importazioni delle risorse energetiche, di cui il 60% (6,1% del Pil2008) riguarda il petrolio e i suoi derivati. I principali Paesi di provenienza di taliimportazioni sono: ArabiaSaudita per il 48%, Iran per il 39% e Russia 13%. Il consumo di energia nel 2008 è aumentato del 6,1% rispetto al 2007

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costruzione di parchi eolici, per incentivare un uti-lizzo più intensivo delle energie alternative nel-l’industria e nella circolazione degli autoveicolicon carburanti

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più puliti, per facilitare il ricorso all’energia solare eper mitigare la tassazione che grava su taluni pro-dotti energetici. Per questo, Rabat ha iniziato a sti-pulare una serie di accordi di cooperazione in mate-ria di energie rinnovabili, come la costruzione di 10grandi e 50 medio-piccole dighe, per cui ilSecrétariat d’Etat Chargé de l’Eau et del’Environnement ha stanziato per il prossimo quin-quennio 2 miliardi di euro. Il piano energeticonazionale prevede ulteriori sviluppi nell’energiafotovoltaica attraverso progetti sperimentali per lacreazione di microcentrali per favorire la distribu-zione di energia fotovoltaica a livello locale fra pri-vati. L’obiettivo è passare dall’attuale 4% del con-sumo elettrico nazionale da rinnovabili al 12% nel2012, pari a circa il 20%.Inoltre, l’Accordo di Associazione concordato nel-l’ambito della politica europea di vicinato potrebbe-ro favorire forme di cooperazione più strette conl’Ue attraverso l’adesione alle reti energetichetrans-europee. Nel settore dell’elettricità, il PianoNazionale d’Azione Prioritaria 2008-2012 prevedela costruzione di oltre 2.500 km di nuove linee elet-triche, con un impegno complessivo di un miliardodi euro, e la costruzione di due centrali elettriche(Safi e Jorf Lasfar). Nel 1995 è stato lanciato ilProgramme d’Electrification Rurale Globale(PERG), con l’obiettivo di rendere l’elettricitàdisponibile, entro il 2010, nell’80% delle zone rura-li. L’obiettivo è stato raggiunto nel 2007, per untotale di 35 mila villaggi e 12 milioni di persone.Nel 2008 ha superato la soglia del 90%.

TunisiaLa Tunisia ha come ricchezze del sottosuolo ilpetrolio e il gas. Tuttavia, la limitata superficie delterritorio tunisino non permette né nuove attività diesportazione dei giacimenti, né autonomia energeti-ca. La Tunisia ha prodotto 98 mila b/g di petrolio(+40,2% rispetto al 2006). La domanda di petroliosuperiore alla produzione di circa 8 mila b/g e lescarse riserve petrolifere, pari a 400 milioni di bari-

li, fanno della Tunisia un importatore netto di petro-lio, con circa 90 mila b/g di petrolio. Inoltre, ancheil settore del gas registra una tendenza in negativo,anche se meno critica rispetto a quella del petrolio.Il consumo di gas è in costante crescita, pari a 3,9miliardi m3/anno, a fronte di una produzione di 2,6miliardi. Le riserve provate di gas sono pari a circa65 miliardi m3. Ciò non fa della Tunisia un importa-tore netto di gas, ma neanche permette al Governodi puntare sul settore gasiero come alternativa menocostosa e meno inquinante al petrolio. Il settore elet-trico è quello che evidenzia meno problematiche,almeno nel breve periodo. La produzione di elettri-cità è stata di 12,7 miliardi KW/h, contro un consu-mo di circa 11 miliardi KW/h. Addirittura, laTunisia nel 2007 ha potuto esportare elettricità percirca 135 milioni KW/h.L’attuale politica energetica di Tunisi è di aumen-tare la diversificazione del mix energetico, ridu-cendo la propria dipendenza dal petrolio, attraver-so lo sviluppo di un programma nucleare civile e ilricorso a fonti idriche alternative, attraverso ladesalazione dell’acqua marina. Il programma idri-co è di straordinaria importanza, visto che la mag-gioranza del territorio della Tunisia è desertico eche potrebbe essere utilizzato da tutti i paesi delNord Africa. La Tunisia ha intrapreso la liberalizzazione delproprio commercio con l’estero nel 1990, divenen-do membro del Gatt. Il Paese è ancora, secondol’Heritage Foundation Institute, “un’economiaprincipalmente protetta”. Tra le priorità del gover-no, definite nell’XI Piano quinquennale 2007-2011di sviluppo economico e sociale, vi è proprio l’in-tegrazione regionale e internazionale. Tunisia e Uehanno concluso il 1 gennaio 2008 la fase di abbat-timento tariffario prevista dall’Accordo diAssociazione. La Tunisia è entrata a pieno titolonell’area di libero scambio con i Paesi Ue per i pro-dotti industriali. La Dichiarazione di Barcellonaprevede l’instaurazione di una zona di libero scam-bio Euromediterranea nel 2010.

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Se decolla l’export militare

L’industria italiana della sicurezza, difesa e aerospaziosta vivendo una fase di forte espansione sul mercatointernazionale, tornando ad occupare una fetta di merca-to che corrisponde al peso complessivo del nostro Paese.I fattori di questo successo possono essere così schema-tizzati: la forza che può oggi esprimere la nostra indu-stria, e in primo luogo Finmeccanica, dopo il processo diconcentrazione, rafforzamento e internazionalizzazioneattuato durante questo decennio; la disponibilità di pro-dotti validi, sviluppati con la collaborazione e testatidalle Forze Armate italiane; il maggiore supporto assicu-rato da governo e amministrazioni; la spinta a trovaresbocchi alternativi a un mercato interno che si è andatoprogressivamente riducendo.Nel 2008 le autorizzazioni all’esportazione di prodottimilitari hanno superato quota 3 miliardi di euro, con unincremento di quasi il 30%. I dati sono stati pubblicati afine marzo nel Rapporto del presidente del Consiglio suilineamenti di politica del Governo in materia di esporta-zioni militari, il documento che dall’anno scorso vienereso pubblico sul sito web di Palazzo Chigi. Si può cosìevitare di dover aspettare la pubblicazione dellaRelazione fornita al Parlamento in base alla legge185/90 e di perdersi in oltre un migliaio di pagine di inu-tili dettagli imposti dalla legge: uno spreco di energie e disoldi sul quale sarebbe utile riflettere. Con questoRapporto l’Italia si allinea, per altro, con la prassi di tuttigli altri Paesi europei che predispongono analoghi rap-porti annuali, indispensabili per conoscere caratteristi-che e dimensioni del fenomeno esportativo e per poteresercitare il controllo parlamentare sulle linee direttriciin termini di Paesi di destinazione e di tipologia di pro-dotti e relativi valori. Il 62% (3,6 miliardi) è dovuto a 21autorizzazioni di importo superiore ai 50 milioni. Fraqueste primeggia il contratto per la fornitura di 53 elicot-teri da combattimento A 129 di AgustaWestland allaTurchia per un valore di oltre un miliardo di euro, a cui

si aggiunge la partecipazione alla fornitura degli elicot-teri medi da trasporto Nh 90 ad Australia e NuovaZelanda per quasi 200 milioni. Per Alenia Aeronauticapesano i velivoli da sorveglianza marittima Atr 42 aNigeria e Libia per un centinaio di milioni e perFincantieri la nave rifornitrice per l’India per 140 milio-ni. La classifica delle imprese esportatrici vede, conse-guentemente, al primo posto AgustaWestland con 1,5miliardi pari al 50% del totale movimentato, seguita daAlenia Aeronautica con 280 milioni pari al 9 %. Fra iPaesi di destinazione delle autorizzazioni al primo postovi è la Turchia con 1, 1 miliardi pari al 36%, seguita daRegno Unito con l’8%, India 5,7%, Francia 4,3%, Usa eAustralia 4,1%. In totale i Paesi Nato/Ue coprono il 70%delle autorizzazioni a conferma del fatto che le lineedirettrici della nostra politica esportativa sono indirizza-te verso i Paesi alleati. Il rafforzamento dell’industria italiana sul mercato inter-nazionale è confermato dal valore delle esportazionieffettuate, 1,8 miliardi di euro con un incremento del40%. È un dato importante perché se le autorizzazionievidenziano la capacità di acquisire ordini, le movimen-tazioni indicano il lavoro realmente effettuato nell’anno.Adesso il problema è mantenere le posizioni raggiunte.Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile ammo-dernare radicalmente il nostro sistema di controllo sulleesportazioni, alleggerendolo da troppo numerose incom-benze inutili ed europeizzandolo non solo nella forma, maanche nella sostanza. Il rispetto degli impegni assunti insede europea in questo settore ci offre l’occasione perevitare un ulteriore “revisione” ad una macchina chedimostra ormai tutti i suoi anni e per costruirne unanuova adeguata al nuovo scenario di riferimento. Ed èun’operazione a costo zero: serve solo un po’di coraggioper vincere le invitabili resistenze corporative della castaburocratica, sempre preoccupata di perdere qualche pic-cola fetta di potere.

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editoriali

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Certo Barack Obama non poteva scegliere unmomento peggiore per annunciare il suo duplicepiano di disarmo, tanto affascinante quanto irrealisti-co e caratterizzato da una micro-visione politica chetiene conto della politica interna più che delle realtàstrategiche. Già, mentre il presidente statunitenseproponeva di mettere al bando le armi nucleari,novella opzione zero, affiancata dal rilancio del trat-tato contro i test nucleari e aggiungeva che se un talerisultato sarà raggiunto gli Usa faranno a meno deipropri programmi di difesa antimissile, ecco che agustare le feste è arrivata la Corea del Nord, la quale,incurante di tutto e di tutti, ha pensato bene di lancia-re un bel missile balistico a raggio intermedio, ilTaepo Dong 2, travestito, come in precedenza, da vet-tore spaziale per un improbabile mini satellite pertelecomunicazioni. Poco conta che il lancio, al solito,si sia risolto in un insuccesso, con gli stadi del razzoche piombano in mare, portando con se il satellite(che naturalmente secondo Pyongyang funziona per-fettamente e trasmette nell’etere canzoni patriotti-che), quello che conta è che la minaccia missilisticanon è solo quella targata Iran. Minaccia missilisticache si accompagna a quella rappresentata dalle arminucleari, ma senza dimenticare le altri armi per ladistruzione di massa, chimiche e biologiche. Non solo, il secondo aspetto interessante è che, dopolustri e lustri di promesse, elementi del sistema didifesa antimissile statunitense stanno diventandooperativi, non solo negli Usa, ma anche presso glialleati che hanno deciso di prendervi parte, come è ilcaso del Giappone, il cui sistema navaleAegis/Standard SM-3 era pronto al battesimo delfuoco. È sicuramente lodevole auspicare un futurosenza armi atomiche, così come un futuro senzamalattia, povertà, miseria, guerre, ma è altrettantoutopistico. Intanto perché le armi, qualunque arma,

dopo che sono entrate in scena non possono più esse-re “disinventate”, al massimo spariscono solo perchésoppiantate da qualcosa di più micidiale. Chi labomba la ha, se la tiene, anche perché rappresentauna soluzione abbastanza semplice e relativamentecostosa per crearsi un deterrente, per contare qualco-sa, specie se si è poi così pazzerelli da far pensare chele proprie armi atomiche potrebbero effettivamenteessere impiegate. Ci sono poi Paesi, come la Russia,che solo grazie alle atomiche continuano ad essereconsiderate grande potenze o, come Israele, che purtenendo la sordina sul proprio arsenale, non ha nean-che bisogno di agitare lo spettro nucleare per farcapire a tutti i propri nemici di essere pronta a un olo-causto qualora la propria sopravvivenza fosse davve-ro messa a repentaglio. Anche l’Iran sa bene quantoaumenterebbe la sua rilevanza nello scacchiere inter-nazionale se arrivasse alla bomba. Le bombe sonoanche un “equalizzatore”: chi le possiede per difen-dersi/contare non ha bisogno di dotarsi di un arsena-le convenzionale, molto più costoso, basta avere l’ar-ma atomica o alimentare il ragionevole dubbio circal’esistenza di tali armi. Ma con le bombe fuorigioco…saranno le armi convenzionali a stabilire legerarchie internazionali e nessuno può o potrà maicontestare la leadership Usa in questo campo. GliUsa sono superpotenza con o senza atomiche, glialtri…no.Quanto allo scudo antimissile, per un presidentedemocratico si tratta di un anatema. Però, dopodecenni di investimenti e flop ora diversi programmiantimissile Usa diventano una realtà operativa. Esono in tanti a volere qualcosa di simile: da Israeleall’India, dal Giappone alla Corea del Sud, dagli Uaealla Turchia. Paesi che temono i missili a testatanucleare, certo, ma che non dimenticano che i missilipossono portare anche testate chimiche e biologiche.

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

I sogni di Obama naufragano in Corea del Nord

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Sebbene il loro quartier gene-rale sia ubicato nella stessazona in cui trovano spazio

alcuni dei più ingegnosi talenti tea-trali del mondo, le Nazioni Unitepreferiscono confortanti, scialbe etediose ripetizioni ad interessanti,inaspettati e drammatici colpi discena. E ciò risulta particolarmentevero nel momento in cui si discutedi Israele, sempre costretto adinterpretare il ruolo del cattivo eper il quale tutte le vicende di cuiè protagonista si concludono inmodo infausto. Così, ogni anno l’AssembleaGenerale delle Nazioni Uniteapprova ad ampia maggioranzarisoluzioni palesemente a danno diIsraele, spesso con i soli voti con-trari di Israele stesso, degli Stati Uniti e di un fede-le alleato come Palau e l’astensione di pochi ritar-datari europei. In certe occasioni, il Consiglio diSicurezza si riunisce in sessione straordinaria perprendere in esame presunti crimini contro l’umani-tà perpetrati dallo stato ebraico; il Consiglio è gre-mito in ogni ordine di posto da delegati e spettato-ri, vengono pronunciati molti accalorati interventi,e Israele riesce a sottrarsi da un’eventuale atto dicondanna solo grazie all’esercizio del potere diveto da parte degli Stati Uniti. Nel 2006 la

Commissione per i Diritti Umani,organo delle Nazioni Unite smac-catamente anti-israeliano, è statosostituito dal Consiglio per i DirittiUmani di recente creazione. Ma,senza che la cosa destasse scalpo-re o meraviglia da parte di alcuno,la nuova agenzia si è rivelata unamera prosecutrice dell’azionedella vecchia Commissione, in

quanto ha dedicato buona partedei propri lavori alla formulazio-ne di esplicite critiche a danno diIsraele o alla definizione di con-ferenze quali la Durban II, unazona di fuoco libero in cuidispiegare tutta la propria arti-glieria politica nei confronti diTel Aviv.Queste ed altre simili mosse

sono diventate così scontate da destare ben pocaattenzione da parte dei media statunitensi; la mag-gioranza degli americani ha semplicemente e com-prensibilmente smarrito interesse nello stereotipa-to teatrino delle Nazioni Unite. Nel mondo al difuori degli Stati Uniti la questione si tinge di con-notati molto diversi. All’estero persino i più stu-diati, meno spontanei e intollerabilmente pedantiincontri del circuito Onu generano una considere-vole attenzione mediatica, e questa a sua volta nonfa altro che acuire l’impressione di come Israele

ISRAELE

L’ISOLAMENTO DIPLOMATICO DI GERUSALEMMEDI JOHN R. BOLTON

SCENARI

Sul Vecchio continente, ormai in declino, non è più possibile fare affidamento.

Ma Israele non potrà mai fare a meno degli Stati Uniti.

Per uscire da questa inerziaserve una nuova strategia:

abbandonare l’Europa e gurdare a Medioriente,

Asia e Africa

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rappresenti una delle nazioni più sole sulla facciadel pianeta. Né tale isolamento appare confinato aifreddi corridoi delle Nazioni Unite. La preoccupa-zione degli israeliani concerne il sempre più evi-dente allontanamento da parte dei membridell’Unione Europea e non solo un’assenza disostanziale appoggio dell’Europa occidentale,bensì un evidente smarrimento di quella vicinanzae di quell’empatia instauratesi tra gli Stati del vec-chio continente ed Israele nei decenni passati. A rendere la frattura ancor più profonda contribui-sce il fatto che l’ostilità da parte dei Paesi dell’areamediorientale alla creazione e all’esistenza stessadello Stato di Israele, tragga ora nuova linfa dal-l’emergere di gruppi di militanti islamici con ten-denze radicali. E la nuova amministrazione inse-diatasi a Washington ha già dimostrato che nonvoler proseguire sulla strada di quell’intimo lega-me con la fulgida luce della democrazia in MedioOriente inaugurato dal precedente inquilino dellaCasa Bianca. Se la risposta statunitense alleminacce poste all’esistenza di Israele, come adesempio il programma nucleare iraniano, si doves-se rivelare non sufficientemente decisa, lo Statoisraeliano si ritroverà allora in una situazione incui dovrà fare affidamento solo sulla sua volontà esulle proprie forze?Quelli appena formulati costituiscono interrogativilegittimi, ma fortunatamente le risposte non appa-iono così chiare come potrebbero sembrare agliangosciati e spaventati amici e sostenitori diIsraele. La posizione diplomatica di Israele è indi-scutibilmente diversa da quella dei primi tempi,ma un’analisi obiettiva induce a pensare che que-sta non sia necessariamente peggiore: se cioè ilmetro di giudizio non è rappresentato dalla popo-larità di Israele ma piuttosto dalla sua abilità nelmanovrare e fungere da attore principale nel con-testo della comunità internazionale.Di rilevanza ancora maggiore è il fatto che persinoin tempi di crisi economica gli Stati Uniti si riveli-no di gran lunga più forti di quanto fossero all’api-

ce della Guerra Fredda, tanto in termini relativiquanto assoluti. Né gli Stati Uniti né tantomenoIsraele possono essere sconfitti mediante azionimilitari convenzionali condotte da qualsiasi coali-zione di avversari. Vi sono, è vero, serie minacce,addirittura all’esistenza stessa dello stato ebraico,originate dalla proliferazione di armamenti didistruzione di massa e dal dilagare del terrorismointernazionale, ma i problemi degli anni ’50 -’60devono essere consegnati alla storia. Ciò suonainequivocabilmente come una buona notizia. E tuttavia Israele risente ancora a livello emotivodelle catapulte e delle frecce rivolte nei suoi con-fronti. Una causa significativa di tale timore è datadalla constatazione, pienamente comprensibile,che dopo tutte le difficoltà con cui Israele ha dovu-to misurarsi lungo i 61 anni della sua esistenza, sidovrebbe giungere ad un punto in cui le tensionivissute con altri attori esterni possano placarsi edesso possa essere finalmente “accettato”. Questoappare come un sentimento particolarmente euro-peo, che affonda le proprie radici tanto nella tradi-zione feudale quanto in quella socialdemocratica,che si incentra sul presupposto secondo cui la sta-bilità rappresenta la norma e la minaccia l’eccezio-ne. Sfortunatamente però né per Israele, né per gliUsa né per qualsiasi altro attore esiste un limiteconvenzionale che assicuri la stabilità o la sicurez-za. Un limite di questo tipo semplicemente nonesiste. In ogni caso, le nazioni dell’Europa occi-dentale sembrano propense a guardare alla que-stione in termini diversi. Il principale elemento di forza esterno ad Israele,la sua vicinanza agli Stati Uniti, potrebbe ironica-mente rivelarsi l’artefice della svolta diplomaticacompiuta dall’Europa occidentale nei confrontidello Stato israeliano. Alle Nazioni Unite come inqualsiasi altra sede, i Paesi dell’Europa occidenta-le sanno che Israele non sarà mai prostrato politi-camente da risoluzioni o azioni fintanto che gliStati Uniti interverranno prima che danni irrepara-bili possano essere compiuti.

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Nella tediosa pratica fatta di bozze di risoluzioni,dichiarazioni ministeriali o comunicati stampa, lamaggior parte dei ministeri degli esteri dell’Ue sache gli Stati Uniti si accolleranno il carico piùpesante di lavoro - e toglieranno la colpa dallespalle degli avversari di Israele - al fine di raggiun-gere un’accettabile verbosità.La certezza dell’azione americana ha sollevato glistati dell’Europa occidentale da oneri diplomaticirelativamente ad Israele. Essi non hanno bisognodi dimostrare comprensione per la posizione delloStato ebraico, anche ove si dimostrassero propen-si a farlo. In effetti, risulta evidente come il ruolocentrale assunto dagli Stati Uniti abbia garantitoagli Stati europei la preziosa opportunità di espri-mere liberamente il proprio voto, un voto che pos-sono utilizzare in virtù dei propri interessi politici,tanto interni quanto internazionali. Tale atteggia-mento è motivo di grande dolore per gli israeliani,in special modo per i più anziani, molti dei qualinon possono far altro che rievocare i due decennisuccessivi alla conclusione del secondo conflittomondiale. Allora l’Europa appariva maggiormentelegata ad Israele, sia dal punto di vista emotivo chepratico; in effetti, al tempo le convinzioni colletti-vistiche di molti leader israeliani e le politicheinterne di stampo socialista generarono una mag-giore empatia in quegli esponenti europei che sirifacevano ad una simile tradizione che non inquegli Stati Uniti animati da ideali fermamenteindividualistici e capitalistici. I Kibbutz? Non inKansas, Dorothy. Al contrario, in alcune frangedella destra americana, il percorso ideologicointrapreso in origine da Israele costituiva un moti-vo di ostilità che echeggia ancora oggi, anche dopoche lo Stato ebraico ha compiuto la propria svoltapassando da un’economia ad impianto socialistaad un modello più affine a quello del libero merca-to. In quei giorni idilliaci, tra le elités di sinistradelle capitali europee Israele appariva come parteintegrante del proprio progetto. Ciò avveniva in quei giorni. Qualunque fosse il

motivo che indusse i socialisti europei ad accomu-nare i propri propositi a quelli di Israele, questo siè ora dissolto. Ed ancora più significativo appare ilfatto che il senso di colpa degli europei occidenta-li per il radicamento del sentimento antisemita nelcontinente ed il ruolo che questo svolse nell’ali-mentare le fiamme dell’Olocausto si sia pratica-mente dissolto. Monumenti, cerimonie del ricordonei cimiteri, riferimenti obbligati nei discorsi uffi-ciali sono tutto ciò che rimane. Proprio come la gratitudine europea nei confrontidell’America per averli liberati dal fascismo duròcosì poco, altrettanto avvenne con il senso di colpadel continente circa quanto era potuto accadere sulproprio suolo e nel proprio nome. E né la gratitu-dine né la colpa rappresenteranno, almeno nelbreve periodo, dei fattori così potenti da animare lapolitica europea.L’allontanamento di Israele dall’Europa occiden-tale costituisce uno dei più significativi indicatoridiplomatici del profondo lassismo, della prostra-zione da declino di civiltà che domina i membriUe nell’alveo dell’assise Onu ed in altri circolidiplomatici. Non rientra nei propositi di questoarticolo l’addentrarsi nelle cause di tassi di natali-tà che denotano un affaticamento sempre piùaccentuato, di una popolazione che invecchia consempre maggiore rapidità, di programmi di assi-stenza sociale sempre più onerosi, dell’incidenzadei flussi migratori: basti dire, però, che l’effettorisultante dalla combinazione di tutti questi fattoriè devastante. Aggiungete a ciò il desiderio da partedi molti europei di poter essere una volta per tutteliberati dal flagello dei conflitti transnazionali, e sicomprenderà come dal punto di vista europeo laquestione israeliana rimanga priva di soluzioni.Dalla prospettiva europea, le minacce alla stabilitàinternazionale derivano non tanto da forze esterneostili - nella loro visione, si ammette appena l’esi-stenza di elementi di questo tipo - quanto piuttostoda attori apparentemente amici come gli StatiUniti ed Israele.

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Essi ritengono di essere minacciati da quellenazioni che hanno (sino ad ora) deciso di noncadere preda della vana aspirazione di volersidistricare dalla trama dei pericoli mondiali conl’assopimento o con un atteggiamento arrendevoledi fronte ad un attacco sferrato nei loro confronti.Ciò che il tedio dell’Europa occidentale e la suadiscesa nella fallace convinzione di aver oltrepas-sato la storia dimostrano è che l’atteggiamento delvecchio continente nei confronti dello Stato ebrai-co non comporterà alcuna modifica di atteggia-mento di sorta. Sia Israele sia l’America possono edovrebbero arrecare dei danni in termini diploma-tici, ad esempio esercitando un controllo sui mem-bri Ue al fine di rafforzare la posizione d’Israele;dopo tutto è questa l’essenza della diplomazia. Mal’affievolimento delle preoccupazioni europee nonsarà sufficiente a modificare il camino del-l’Europa. Al contrario, Israele dovrà rivolgersialtrove se vuole uscire dal proprio isolamento. Perquanto sorprendente possa sembrare, le prospetti-ve di successo in altre zone del globo si rivelanotutto fuorché scarse. La prima area verso cui rivolgere le attenzioni èrappresentata dal Medio Oriente, in cui la semprepiù evidente minaccia posta dall’Iran determina lecondizioni ideali per sancire alleanze di conve-nienza.Il pluridecennale programma iraniano disviluppo di armi nucleari e di missilibalistici, ed il suo ruolo di principalefinanziatore del terrorismo internazio-nale, costituisce ovviamente una diret-ta, mortale minaccia all’esistenza stes-sa dello Stato di Israele. Altri gruppiterroristici internazionali sostenuti eassistiti dall’Iran, tra cui i più noti sonosicuramente i talebani e al Qaeda,minacciano regimi quali il Pakistan. Iregimi arabi risultano sempre più pre-occupati dalle crescenti implicazioniinsite nell’aggressione iraniana. Il sostegno concesso da Teheran ai ter-

roristi è non settario, in quanto include gruppi amaggioranza sunnita come Hamas, i talebani e alQaeda, così come terroristi di estrazione sciitaquali il libanese Hezbollah. I sei Paesi produttoridi petrolio e di gas naturale membri del Consigliodi Cooperazione del Golfo (Ccg) - tra questi ilKuwait e gli Emirati Arabi Uniti - guardano per-tanto con timore ad un eventuale sostegno irania-no tanto alle popolazioni sciite dissidenti all’inter-no dei rispettivi Paesi quanto ai movimenti terrori-stici di altri estremisti islamici. Proprio comel’Iran ha assunto a pieno titolo un’egemonia subuona parte della Siria sunnita, e attraversoHezbollah ha allargato la propria sfera d’influenzaal Libano, così altri Paesi arabo-sunniti potrebberocorrere il rischio di rimanere avviluppati nellespire degli alleati di Teheran. In Egitto, il vuoto dipotere che si creerà quando l’ottantunenne HosniMubarak uscirà dalla scena politica, potrebbe for-nire un’allettante opportunità all’organizzazionedei Fratelli Musulmani, corrispettivo di Hamas.Ileader arabi non desiderano ripercorrere le orme diDamasco nel trasformarsi in satelliti dell’Iran.Inoltre, vedendo la cocciutaggine dimostrata daileader radicali palestinesi nel perseguire i propriobiettivi politici a spese del benessere quotidianodei propri cittadini, sempre più esponenti delmondo arabo iniziano ad apprezzare quanto

In passato, il collettivismo israeliano e le politiche socialistegeneravano più empatia nella Ue che negli Usa. Dividere la coalizione dei Paesi non allineati per Netanyahu dovrebbe essere una priorità, sia in ambitoOnu che in qualsiasi altra sede

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l’agenda del Presidente Obama si incentri più sullapolitica iraniana che non su una solidarietà traPaesi arabi. Bisogna stare attenti a non esageraretutti questi processi - il conflitto arabo-persianoche sembra ora emergere è opaco e multisfaccetta-to, e la tettonica delle placche della politica subiscefrequenti mutamenti. Tuttavia, il malevolo ruolo dell’Iran nel MedioOriente allargato rappresenta un problema da cuinessun leader arabo può permettersi di distoglierel’attenzione. Un Iran dotato di un arsenale nuclea-re costituisce un rischio evidente non solo perIsraele, e gli Stati arabi ne sono perfettamente con-sapevoli. E ciò è alla base del misterioso silenzioda parte del mondo arabo nel settembre 2007,quando Israele bombardò il reattore nucleare nord-

coreano quasi ultimato lungo il tratto siriano delFiume Eufrate. Israele individuò e pose fine ad unnuovo programma nucleare clandestino nel MedioOriente; un programma che non avrebbe potutovedere la luce senza un qualche sostegno da partedell’Iran. E l’assenza di rimostranze da parte deglialtri Stati arabi fu assordante.Allo stesso modo, gli Stati arabi rimasero, almenonelle prime fasi, in silenzio nel corso del conflittotra Israele e Hezbollah del 2006 e, più di recente,durante l’offensiva militare israeliana a Gaza. Soloquando le ostilità si sono protratte le leggi di ferro

del catechismo anti-israeliano hanno imposto agliStati arabi di unirsi alla condanna. Ma vediamo dinon commettere errori: in varie capitali del mondoarabo non si è celebrato alcun lutto per i colpiinferti a Hezbollah e Hamas. Allo stesso modo,qualora Israele dovesse portare attacchi miratiall’indirizzo del programma nucleare iraniano, inquelle stesse capitali si potrebbero udire silenziosiringraziamenti. Sembrerebbero pertanto aprirsidegli spiragli favorevoli ad una diplomazia israe-liana in sordina, in particolar modo sfruttandocanali secondari e prese di contatto non ufficiali, alfine di pervenire ad un’intesa ai danni del nemicocomune. Tra i possibili aspetti per l’avvio di unafruttuosa cooperazione possiamo citare: in primoluogo, lo scambio di informazioni di intelligence

sul commercio iraniano di tecnologianucleare per scopi tanto pacifici quantomilitari e sul commercio di missili bali-stici sempre da parte iraniana; in secon-do luogo, gli sforzi comuni per impedi-re che l’Iran fornisca assistenza, adde-stramento, equipaggiamento e finanzia-mento ai gruppi terroristici; ed infine, ladefinizione di procedure di notifica e dimeccanismi atti a ridurre l’incidenza diconflitti minori nell’eventualità del-l’apertura di ostilità con Teheran. Ovviamente, nessuno di questi puntidovrebbe virtualmente diventare pub-

blico, almeno nel caso in cui dovessero funziona-re. Né dovrebbero modificare di molto la retoricapubblica degli Stati arabi su temi quali la sorte delpopolo palestinese e di Gerusalemme. Nondimeno,spostando l’attenzione al tema della difesa dallaminaccia iraniana, si potrà guadagnare del tempoche potrà rendere possibile, anche se poco proba-bile, l’emergere di nuove svolte. La diplomazia sotterranea e la cooperazione controil comune nemico potrebbero come minimo farguadagnare tempo prezioso ad Israele ed ai palesti-nesi al fine di prendere in considerazione alternati-

In varie capitali del mondo arabonon si è celebrato alcun lutto per i colpi inferti a Hezbollah e Hamas. Qualora Israele dovesseportare attacchi mirati all’indirizzo del programmanucleare iraniano, in quelle stessecapitali si potrebbero udire silenziosi ringraziamenti

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ve diverse da quel punto morto rappresentato dal-l’espressione “soluzione che contempli la creazio-ne di due stati”.Un altro luogo di pesca fruttuosaper Israele è dato dal cosiddetto Movimento deiNon Allineati (Mna). Tale movimento, reliquiadella Guerra Fredda la cui creazione fu inizialmen-te proposta dal Maresciallo jugoslavo Tito e cheracchiudeva al suo interno Nazioni che intendeva-no prendere le distanze tanto dagli Usa quantodall’Urss, è ancora attivo a livello di NazioniUnite. Supportata a volte anche da Paesidell’America Latina e dell’Asia, la coalizione deiNon Allineati è ora in larga parte costituita da Statiarabi ed africani. Può rappresentare e spesso rap-presenta a tutti gli effetti un cospicuo blocco divoti all’interno dell’Assemblea Generale delleNazioni Unite. Il dividere tale coalizione su questioni chiave è siafattibile che auspicabile, e dovrebbe costituire unobiettivo occidentale di lungo termine in ambitoOnu ed in qualsiasi altra sede. Nel 1991, il votodecisivo dell’Assemblea Generale che abrogaval’infame risoluzione del 1975 dal titolo “Sionismoè razzismo” rappresentò il risultato diretto di frut-tuosi sforzi miranti ad insinuare delle divisioni inseno al Movimento dei Non Allineati. Fu un com-pito difficile e che richiese molto tempo, ma allafine molte Nazioni africane votarono a favore del-l’abrogazione o si astennero; l’America Latina(con l’eccezione su tutti di Cuba) votò anch’essain favore dell’abrogazione, e altrettanto fecerol’India e altri Paesi asiatici. Gli Stati arabi furonoisolati e sconfitti.Un’azione tesa a spaccare la coalizione dei NonAllineati dovrebbe essere uno degli aspetti princi-pali della strategia diplomatica di Israele (edell’America), nella speranza di favorire ulteriorisviluppi sul modello dell’abrogazione della risolu-zione “Sionismo è razzismo”. Oggi, l’Africa ha isuoi problemi con l’estremismo islamico, sul fron-te mediterraneo, nel Sahara e nella vasta regionesub-sahariana. L’India, uno dei Paesi fondatori del

Movimento dei Non Allineati, deve anch’essamisurarsi con una grave emergenza terroristica, epotrebbe pertanto essere investita di un ruolo dirilievo nell’imprimere una svolta agli istintiviattacchi dei Non Allineati all’indirizzo di Israeleverso obiettivi più consoni alle esigenze dei citta-dini dei Paesi membri. In ogni occasione, persino sporadiche incursionipolitiche nel territorio dei Non Allineati potrebbe-ro dissuadere i membri del Movimento dall’aiuta-re gli avversari di Israele a bruciarlo sul rogo delleNazioni Unite.

Il possedere l’abilità necessaria ad intrapren-dere tali contrattacchi diplomatici non implica cheil palco anti-sionista dell’Onu e di qualsiasi altrasede sia privo di significato. L’abuso pubblico vis-suto in questo periodo da Israele e la contempora-nea esplosione delle agitazioni antisemite inEuropa prostra il morale dell’opinione pubblicaisraeliana. Le stoccate imbevute di critica che si pongonocome obiettivo la delegittimazione delle sue misu-re di autodifesa contro la minaccia terroristicapotrebbero dissuadere la sua leadership politicadall’intraprendere altre iniziative che potrebberopotenzialmente generare ulteriori critiche.Ciononostante, il riconoscere il ruolo in declino diquegli attori un tempo sostenitori di Israele e lasorprendente ascesa di nuove ed astute opportuni-tà a livello diplomatico devono rappresentare lavera ricetta politica al fine di evitare o quantome-no minimizzare le minacce poste all’esistenza diIsraele, delle quali l’isolamento è solo una, e pernulla la più significativa. Ciò che ora appare più importante è il ruolo degliStati Uniti, per i quali semplicemente non esisteun sostituto. Questo è un punto che i simpatizzan-ti della causa israeliana devono avere ben chiaroin mente, in special modo negli Stati Uniti: la pro-tezione di Israele dalle minacce alla sua esistenzainizia dalla porta di casa.

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«Dal mio punto di vistale cose sono chiare: sideve parlare di

Europa della difesa e di Nato, non diEuropa della difesa o di Nato.Bisogna trattare i due temi insieme.Proprio perché verrà rafforzatal’Europa della difesa allora bisogne-rà rafforzare la Nato. È stato un graveerrore quello di indebolire uno deidue pilastri pensando di rafforzarel’altro. Io mi faccio carico di questascelta politica, per nulla semplice daassumere in Francia. […] In Franciaa lungo si è fatto credere che la Natofosse una minaccia per la nostra indi-pendenza. E nessuno si chiedevacome mai eravamo i soli a porci que-sta domanda. Io non farò mai nullache metta in discussione l’indipen-denza del mio Paese. Mai! L’alleanza con gli Usa econ l’Europa ben lungi dal mettere in discussione l’in-dipendenza del mio Paese, contribuisce a rafforzarequesta indipendenza». Con queste parole, pronunciate alla Conferenza sullasicurezza in Europa di Monaco del 7 febbraio scorso,Sarkozy aveva confermato la sua decisione, annuncia-ta nel corso della campagna elettorale e poi ribaditacon una serie di iniziative nei suoi primi due anni dipresidenza (tra gli altri il discorso di fronte alCongresso americano e l’aumento di truppe inAfghanistan): Parigi è pronta a chiudere con la sua

peculiare presenza all’interno dellaNato. La Francia di Sarkozy ha cosìcompletato il suo virage atlantiste,al momento l’unica vera e propriarottura rispetto alla tradizione golli-sta. Sono ancora le parole diSarkozy, pronunciate a Strasburgoil 4 aprile scorso di fronte ai mem-bri del Consiglio Atlantico ed inparticolare al presidente Obama, aconfermare l’apertura di un nuovocorso per la politica estera e di dife-sa transalpina: «La Francia ripren-de dunque il suo posto all’internodell’Alleanza. Noi facciamo partedella famiglia e dunque noi siamonella famiglia. Siamo alleati edamici. Abbiamo delle convinzioni,vogliamo essere alleati e amici inpiedi. Ciascuno qui può contare

sulla Francia e la Francia sa che può contare su ognu-no di quelli che sono seduti attorno a questo tavolo.Certo, bisogna rinnovare il nostro concetto strategico,risale al 1999. Da allora abbiamo cambiato secolo. Laquestione è chiara: serve una strategia per il XXI seco-lo e non per quello oramai concluso». In queste breviaffermazioni di Sarkozy possiamo trovare condensatetutte le novità e gli interrogativi che si porta dietro ladecisione definitivamente assunta dall’inquilinodell’Eliseo. Se da un punto di vista operativo il reinte-gro francese di tutti i comandi Nato (meno quello rela-tivo ai piani nucleari) non comporterà cambiamenti

FRANCIA

NATO SÌ, MA IN SAUCE FRANÇAISDI MICHELE MARCHI

Metà “ritorno a Canossa” e metàtentativo di riaggiornare una

grandeur fuori tempo già neglianni Sessanta. Il sigillo conclusivo

posto da Sarkozy al percorso direintegro francese nella Nato, una

volta ricondotto alle giuste coordinate storiche, pone in

evidenza una serie di criticità, sianel breve che nel lungo periodo

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radicali, la scelta operata da Parigi deve essere ricom-presa all’interno di un’evoluzione molto più ampia checoinvolge contemporaneamente la politica estera tran-salpina, l’evoluzione complessiva dell’AlleanzaAtlantica e infine i rapporti tra Nato e Unione europea.È su questi tre tavoli che si giocherà, nei prossimi anni,il futuro incerto di quel che resta dell’Occidente euro-atlantico. Vediamo come la novità che giunge daParigi può modificare alcuni dati significativi di unprocesso, è indispensabile ricordarlo, ancora tutto dadefinire e dunque soggetto a numerosi e repentinicambiamenti.

1. Il primo dato sul quale riflettere affrontan-do l’argomento è l’evoluzione storica del rapporto traParigi e l’Alleanza Atlantica. Si tratta di un passaggioobbligato e necessario per sgomberare il campo daequivoci: la cosiddetta rupture del 2009 deve in realtàessere considerata più il punto di arrivo di un processoin atto da tempo che l’avvio di una nuova era. Sarkozyal vertice di Strasburgo-Kehl ha posto il suo sigillo ori-ginale a un percorso che aveva coinvolto, con differen-ti approcci, altri due presidenti transalpini: FrançoisMitterrand e Jacques Chirac.Come la cosiddetta policy of alliance without integra-tion sancita da de Gaulle con la famosa missiva al resi-dente Usa Johnson del 1966 era frutto di almeno ottoanni di elaborazione e passaggi progressivi (tra i piùrilevanti il 1959, con il ritiro della flotta mediterranea,e il 1964, quello delle forze navali nell’Atlantico), cosìla scelta di Sarkozy è in larga parte debitrice di quelledei suoi due predecessori. Nonostante Mitterrand all’indomani del crollo delMuro di Berlino avesse più volte descritto la Natocome un’organizzazione “figlia del suo tempo” e dun-que destinata all’irrilevanza una volta sconfitto ilnemico comunista, nel 1991 la diplomazia franceseaveva intrapreso ripetuti contatti con Washington peravviare una riforma complessiva dell’AlleanzaAtlantica che avrebbe avuto tra le sue principali novi-tà il reintegro completo di Parigi. Fallito il tentativo edesploso il conflitto balcanico (che peraltro vide Parigi

in prima linea e di conseguenza informalmente nelcomando integrato) bisogna attendere l’elezione del1995 per avere un salto di qualità nel percorso di avvi-cinamento di Parigi alla Nato. Chirac, a differenza diMitterrand, era convinto che la via per creareun’Europa realmente unita passasse per il rafforza-mento della difesa comune, grande fallimento per ilprocesso di integrazione delle origini (la Ced nel bien-nio 1952-54), da portare però avanti parallelamenteall’evoluzione della Nato. Ebbene l’Europa della dife-sa avrebbe dovuto, nell’ottica di Chirac, costituire il“pilastro europeo” della Nato, creando un rapporto dicomplementarietà sempre più stretta tra integrazioneeuropea e solidarietà atlantica. Quindi si può senzadubbio affermare che la prima vera e propria rotturadel principio “gollista-mitterrandiano” di politica este-ra sia stato compiuto da Chirac. Sarà infatti il prede-cessore di Sarkozy ad abbandonare la schematicavisione gollista che tendeva a contrapporre Europadella difesa ad Alleanza Atlantica. Il vertice di Saint-Malo del 1998, atto di nascita simbolico di una Pesdfortemente voluta dalla coppia Chirac-Blair, è solita-mente considerato la risposta “sdegnata” di Parigidopo il “no” americano dell’anno precedente al pro-getto di reintegro francese nel comando integrato Natoalle condizioni dettate dalla diplomazia transalpina(una riforma complessiva e il comando della zona sudad un ufficiale francese). In realtà, come mostrano lesuccessive scelte di Parigi (e in particolare l’ingressodi un centinaio di ufficiali francesi allo Shape e all’Actnel 2004), all’Eliseo non smetteranno più di conside-rare indispensabile il ritorno completo della Franciaall’interno della Nato.Il rischio, come spesso accade, è quello di rimuoverepassaggi importanti e finire per sopravvalutarne altri.Rispetto a questo secondo punto è necessario liberarsidalla lettura giornalistica degli eventi successivi all’in-vasione statunitense dell’Iraq, che hanno finito peroffrire un’immagine deformata di Chirac, vero e pro-prio paladino dell’antiamericanismo, quando al con-trario il suo primo mandato si era mosso completa-mente nella direzione opposta. Rispetto poi alla rimo-

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All’inizio del Novecento l’Europa, illuminata dalla Belle époque, era divisa fratanti Stati separati da confini e barriere, ma era nel suo complesso la capitale

dello sviluppo industriale, della cultura e dei grandi impericoloniali. All’inizio del XXI secolo, cento anni dopo, passatiattraverso la catastrofe di due guerre mondiali, artefici e vitti-me dei grandi totalitarismi, perse le colonie, a lungo tenutidistanti dalla «cortina di ferro», gli europei scoprono di esse-re uniti e integrati come non lo sono mai stati in passato. E nonostante la profondità delle crisi economichee finanziarie che si sono susseguite, sanno anche di viverein una condizione di benessere, di protezioni sociali e ditutela dei diritti individuali come non succede in nessun’altra parte del pianeta. Però vedono anchequanto sia difficile capire dove passano le frontiere cheessi stessi hanno via via allargato, quanto coraggio civoglia per trovare la forza di affrontare i drammaticiproblemi esplosi sulla soglia di casa (come quelli dellaex Jugoslavia nello scorso decennio e del terrorismofondamentalista ora) o direttamente in casa (comel’incontro-scontro con l’immigrazione), quanto siaarduo tradurre princìpi e valori in azione politica enon avere paura del futuro. E, pur avendo assorbito

nel profondo i modelli americani (nella vita, nei consumi e così via), siaccorgono di voler segnare le distanze dagli Stati Uniti. Come è successo? In questo dialogo che ripubblichiamo – fra un padre e un figlio che hanno visto,con occhi e attenzioni diverse, l’uno tutto il Novecento e l’altro la sua secondametà e che hanno avuto fra di loro un particolare scambio intellettuale – c’è il racconto di come sono diventati gli europei lungo un secolo di grandi cambiamenti.

RENZO E VITTORIO FOA RENZO E VITTORIO FOA NOI EUROPEI

edizioni

104 pagine l euro 12,00104 pagine l euro 12,00

IN LIBRERIA

Un dialogo tra padre e figlio

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zione del passato è fondamentale non dimenticare chela nascita della Pesd del 1998 fu innanzitutto attaccatadall’allora Segretario di Stato Usa Madeleine Albright,la quale con il famoso contributo dalle colonne delFinancial Times finì per sostenere la validità dell’ap-proccio “gollista”, parlando del rischio delle tre “D”:dividere, duplicare e disgiungere. Ebbene senza laricostruzione appena accennata è difficile comprende-re le scelte odierne di Sarkozy. Egli, come spesso accade, unisce all’analisi del contin-gente una forte dose di pragmatismo. Rispetto allo svi-luppo in atto Sarkozy ha notato, perlomeno a partiredalla seconda amministrazione Bush (e ancor di piùdopo l’elezione di Obama alla Casa Bianca) lo strut-turarsi di un processo di progressiva convergenza trale due sponde dell’Atlantico. Usa e Ue sembranocondividere strategie simili di risposta alle minacceglobali, gli Usa poi hanno ripreso a considerare(come accaduto nel corso di larga parte della Guerrafredda) l’integrazione europea un’opportunità piutto-sto che una minaccia e in Europa le voci che vorreb-bero dare un’identità all’Ue contrapponendola agliStati Uniti sono divenute minoritarie.Il dato pragmatico non deve essere ugualmente tra-scurato. Sarkozy ha preso atto di quanto la Nato siaancora indispensabile per la sicurezza europea e dellaFrancia in particolare. In secondo luogo, dato perscontato il necessario ripensamento degli obiettivistrategici dell’Alleanza, Sarkozy ha scommesso sullemaggiori possibilità di influenza da parte di Parigi unavolta completamente all’interno del comando integra-to. In terzo luogo, troppe volte difesa europea eAlleanza Atlantica sono state presentate come unaescludente l’altra. La fine dell’anomalia francese,secondo l’inquilino dell’Eliseo, contribuirà a rassicu-rare gli alleati europei (in particolare quelli dell’est)che questa è una visione del distorta e superata. Infine,e questo è probabilmente il punto meno credibile del-l’attitudine pragmatica di Parigi, una volta chiusa laparentesi gollista rispetto alla Nato, la Francia otterràda Washington pressioni affinché Londra procedasulla via del contributo alla difesa europea.

Dunque sul fronte dell’evoluzione europea il discorsodi Sarkozy è chiaro (anche se sulla reale efficacia qual-che dubbio, come si vedrà, è lecito averlo): più Francianella Nato uguale più difesa europea. Si tratta di unasorta di baratto, un gioco a somma positiva nel qualetutti vincono.Se si osserva la scelta transalpina dal lato dell’evolu-zione dell’Alleanza Atlantica e dal ruolo peculiaredella politica estera francese all’interno dell’organiz-zazione si trova ulteriore conferma del dato di conti-nuità, piuttosto che di quello di rottura. Sarkozy non

rinuncia per nulla all’idea francese di grandeur.Portando a compimento il percorso avviato all’indo-mani del crollo del mondo bipolare egli cerca di defi-nire una declinazione rinnovata di grandeur. Dalpunto di vista europeo Parigi costiuisce infatti l’asseportante del rilancio della Pesd. Da quello della Nato,non solo Parigi si candida a guidare il pilastro europeodell’Alleanza, ma dall’interno si ripromette di eserci-tare la sua rinnovata grandeur contrastando sia l’ideaUsa di Nato globale che quella inaugurata alla finedella Guerra fredda dei continui allargamenti. Dunquemetà “ritorno a Canossa” e metà tentativo di ri-aggior-nare una grandeur per certi aspetti già fuori tempo neiprofondi anni Sessanta del Novecento, il sigillo con-clusivo posto da Sarkozy al percorso di reintegro fran-

Parigi costiuisce l’asse portante del rilancio della Pesd. Dallo scrannodella Nato, non solo la Francia si candida a guidare il pilastro europeodell’Alleanza, ma dall’interno si ripromette di esercitare la sua rinnovata grandeur

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cese nella Nato, una volta ricondotto alle giuste coor-dinate storiche, pone in evidenza una serie di criticità,sia a livello di politica contingente sia per ciò cheriguarda gli scenari futuri.

2. È senza dubbio indispensabile inserire ladecisione di Sarkozy nel tempo lungo l’evoluzione dipolitica internazionale post 1989 (e post 11 settembre2001) e altresì ricordarsi che essa non può esseredisgiunta dalle analisi contenute nei due libri bianchisulle prospettive strategiche di politica estera e difesanazionale (il più noto è quello sulla difesa, ma nondeve essere dimenticato quello sulla politica estera daltitolo La France et l’Europe dans le monde, coordina-to dalla coppia Alain Juppé-Louis Schweitzer). Non sipuò nemmeno trascurare il valore simbolico racchiusonella “diversità” francese rispetto alla Nato. L’idea“dell’alterità” francese all’interno del blocco occiden-tale da tratto distintivo del gollismo di Guerra fredda siè trasformato in vero e proprio elemento consensualenel corso del primo mandato di Mitterrand, per poi tra-mutarsi in “specificità identitaria” della politica esteratransalpina, fino a divenire strumento offensivo del-l’antiamericanismo più acceso nel corso dei recentieventi legati all’invasione statunitense dell’Iraq. Alla prova dei fatti lo “choc identitario” è parso colpi-

re molto più la classe politica transalpina rispetto allacittadinanza. Numerosi sondaggi hanno confermatolo stesso dato: una maggioranza consistente di france-si (52% per LH2-nouvelobs.com e addirittura 58%per Ifop-Paris Match) si sono detti favorevoli al ritor-no di Parigi all’interno del comando integrato dellaNato. A dimostrazione di quanto l’attitudine francesefosse considerata oramai anacronistica solo il 27% siè detto contrario e anche tra le file del Ps, massiccia-mente schierato contro la decisione di Sarkozy, unmilitante su due considera quella del Presidente unascelta coerente. Il livello di sostegno al reintegro si fapoi davvero massiccio (70%) tra i giovani di età com-presa tra i 18 e i 24 anni.Se l’opinione pubblica e la maggior parte degli esper-ti hanno minimizzato il carattere rivoluzionario della

decisione, la politica si è divisa in un dibattito per certiversi davvero paradossale. Il governo Fillon, per evita-re una lunga discussione parlamentare e il doppio voto(anche al Senato), ha scelto di impegnare la fiducia suun provvedimento più largo e di politica estera gene-rale contenente anche l’importante decisione relativaalla Nato. Il voto al Palais Bourbon è scivolato viasenza particolari problemi (329 contro 228) con 10astenuti e un contrario tra le file della maggioranza.Oltre ai malumori interni all’Ump, che resta pur sem-pre diretto discendente del partito gollista, di estremointeresse è stata l’attitudine dei socialisti e di ciò cheresta degli eredi del centrismo democratico-cristiano. In una sorta di evoluzione storica all’inverso, centristie socialisti che nel 1966 avevano condannato la sceltaanti-atlantica del generale de Gaulle, si sono posti innetta opposizione alla decisione di Sarkozy, in nome diuna specificità francese che avrebbe garantito a Parigiuna maggiore influenza nelle relazioni internazionaliin passato e potrebbe dimostrarsi ancora utile nell’evo-luzione del XXI secolo. Nel 1966 François Mitterrandalla guida della Fédération de la gauche démocrate etsocialiste aveva depositato una mozione di censura neiconfronti del governo guidato da Georges Pompidou eaveva usato parole durissime all’indirizzo di deGaulle. Aveva parlato di una sorta di «poujadismo ele-

A porsi in contrasto con la scelta presidenziale sonodue componenti storiche della destra transalpina:quella sovranista (e di antica tradizionemonarchico-legittimista)rappresentata da Philippede Villiers e quella di strettaosservanza gollista, guidatada Nicolas Dupont-Aignan

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vato a dimensioni universali», dicendosi incapace dicomprendere come mai si fosse deciso di allontanarsidagli «amici americani». Oggi sul fronte socialista ilcontrasto alla decisione di Sarkozy si è concentrato daun lato sull’illusione che maggiore integrazione nellaNato possa comportare più possibilità per lo sviluppodella politica di difesa comune (questa la critica diLouis Gautier, responsabile difesa del Ps e HubertVedrine, ex ministro degli Esteri, il quale ha anchericordato polemicamente a Sarkozy che la politicaeuropea si fa a Bruxelles e non a Washington).Dall’altro lato Laurent Fabius ha insistito sulla perditadi un tratto decisivo della politica estera francese, quel-la sua “singolarità” che, pur collocandola all’internodel fronte occidentale, le ha permesso di “fare da pontetra il Nord e il Sud e tra l’Est e l’Ovest del mondo”. Suun registro simile ha reagito anche il leader centristaFrançois Bayrou, erede di quella famiglia democrati-co-cristiana (lo scomparso Mrp) europeista e filo-atlantica. L’attuale leader del Modem ha ribadito chela scelta di Sarkozy impone a Parigi di «rinunciare aciò che ne faceva la singolarità, quel segno di indipen-denza che permetteva a Parigi quell’autonomia altri-menti impensabile nel concerto delle nazioni». Haconcluso poi Bayrou: «gettare alle ortiche l’ereditàgollista è un grave errore» sia per il presente che per ilfuturo del Paese. Più preoccupanti per gli equilibri diun quinquennato che Sarkozy sta, da oltre un anno,vivendo costretto a sopportare livelli di gradimentoquasi mai superiori al 40% sono i malumori interni alsuo partito, a proposito della scelta presidenziale didemolire “la cattedrale gollista” di politica estera. Aporsi in contrasto più o meno netto con la scelta pre-sidenziale sono due componenti storiche della destratransalpina: quella sovranista (e di antica tradizionemonarchico-legittimista) rappresentata da Philippe deVilliers e quella di stretta osservanza gollista, guidatada Nicolas Dupont-Aignan, il quale si è addiritturaspinto a fondare un movimento dal nome emblemati-co “in piedi, Francia”. Accanto a questa opposizionequasi folkloristica (che comunque non può essere tra-scurata dal momento che è risultata decisiva per la vit-

toria sarkozista del 2007) deve essere poi annoverataquella degli chiracchiani, in particolare l’ex primoministro Dominique de Villepin, per non parlare delredivivo Alain Juppé. Anche a destra le critiche si sonoconcentrate sulla supposta perdita di autonomia e sullanecessità di aprire un dibattito pubblico a proposito diuna scelta destinata a mettere in gioco l’avvenire dellaNazione. Come troppo spesso accade però la classedirigente politica si è ripiegata su se stessa in un dibat-tito autoreferenziale e guardato in maniera distratta daun’opinione pubblica favorevole alla ratifica formaledi un processo oramai portato a conclusione. In secon-do luogo l’approccio di natura ideologica ha finito pertrascurare una serie di incognite che, al contrario, nonpossono essere eluse se si osserva in maniera obiettivalo scenario del post vertice Nato di Strasburgo-Kehl.

3. Primo elemento che necessita di esserechiarito: il rapporto Pesd-Nato non è per nulla self-evi-dent. Oltre al rischio che si creino strutture di difesaridondanti non si deve dimenticare che, a causa dellesue debolezze strutturali, è molto probabile una dele-gittimazione della componente militare europea. Almomento lo scenario più plausibile, anche se solo teo-rico, sarebbe quello di una sorta di divisione del lavo-ro: alla Nato il peace-enforcing e all’Ue il peace-kee-ping e la ricostruzione civile in linea con gli accordiBerlin+ del 2003. I problemi relativi alle forti differen-ze di budget impiegati per la politica di difesa tra ledue sponde dell’Atlantico finirà inevitabilmente perripercuotersi nel rapporto tra ipotetico esercito euro-peo e Nato (per non parlare poi del computo delleforze realmente dispiegabili, solo il 30% degli effetti-vi in Europa). Se la prima è un’incognita essenzialmente materiale edi natura tecnica la seconda è prettamente politica. Larisposta del tutto insoddisfacente dell’Europa allerichieste Usa in Afghanistan mostra una cronica debo-lezza politica da parte dell’Ue sulle questioni cheriguardano l’impiego della forza militare. Il rischiodiventa duplice: un’Europa che si mantiene marginalerispetto alla Nato e all’interno di quest’ultima una

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• Il richiamo di Sturzo • Parola chiave partecipazione•

Alla ricerca di nuove convergenze • Modello tedesco •

Perché partito, perché nazione • Finché regge Berlusconi •

Nostalgia della politica • Il coraggio di uscire dal Palazzo •

Ricordiamoci di Bluntschli • Il rischio è il blocco dell’alternanza •

Un nuovo partito holding • Il blocco e il boom

Buttiglione, Pezzotta, Forlani, Tabacci, D’Onofrio, Romano, Malgieri, Folli, Pombeni, Sabbatucci, Cisnetto, Canali

in edicolail nuovo numero

I QUADERNIDI LIBERAL

Bipartitismo, riforma elettorale,

Partito della nazione:

dodici interventi sui nodi principalidella costruzione

del Centro

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scenari

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fascia di serie A (composta dai Paesi che fornisconomilitari combattenti, cioè Usa, Canada e magariGran Bretagna e Olanda) e una di serie B (i Paesi chemandano istruttori e personale civile, composta daItalia, Spagna, Francia e Germania).Ancora: rispetto alla dimensione più propriamenteeuropea del dibattito non ci si può esimere daldomandarsi se gli altri partner europei maggiori, adesempio Berlino, accetteranno di buon grado cheParigi diventi il portavoce del pilastro europeo dellaNato. La Guerra fredda è finita e con essa se ne èandata anche una peculiare declinazione dell’assefranco-tedesco. È di certo eccessivo enfatizzare i dis-sidi tra Parigi e Berlino, ma bisogna altresì ricordar-si che il tentativo di revisione della grandeur opera-to da Sarkozy attraverso il reintegro della Francianella Nato difficilmente non otterrà una risposta daparte di Berlino. Una quarta incognita è poi stretta-mente legata all’attitudine, al momento non ancorachiara, che la Francia deciderà di tenere di fronteall’elaborazione del nuovo concetto strategicodell’Alleanza Atlantica. Ha certamente ragioneSarkozy quando ricorda che l’ultimo update risale al1999 e ora servono riflessioni che affondino le radi-ci nel XXI secolo. Ma non bisogna dimenticare che dal Kosovo ad oggila tendenza è stata quella della “doppia globalizza-zione” della Nato (allargamento e aumento missionifuori area), due evoluzioni in linea teorica contrarieal punto di vista francese. Come si comporteràParigi? Asseconderà questa tendenza o continuerà afar sentire la sua voce fuori dal coro? Parigi spera,con la sua scelta di integrazione definitiva, di potercontare di più in questa delicata fase di ridefinizionedella missione e dei piani (dovrebbe essere così seriuscirà ad ottenere il comando dell’Act di Norfolk).Deve essere però chiaro che nessun avanzamento alivello di Pesd sarà possibile prima che la Nato avràdeciso la sua evoluzione futura. Ancora a proposito di questa ridefinizione del con-cetto strategico è lecito domandarsi se non sianoaltri, rispetto al reintegro francese, i fattori realmente

determinanti per lo strutturarsi dell’AlleanzaAtlantica del XXI secolo. Tra questi ad esempio ilnuovo rapporto tra Nato e Russia e le ricadute dellacrisi economico-finanziaria sulle dinamiche geo-strategiche mondiali. Il G20 di Londra ha tratteggia-to un quadro per nulla ottimistico per il futurodell’Europa. Il rischio della marginalizzazione delvecchio continente è evidente di fronte a gigantiquali India e Brasile, ma lo potrebbe diventare anco-ra di più se dovesse davvero formalizzarsi quellasorta di G2 (Usa-Cina) che ha dominato il summitlondinese. Infine, ma qui l’immagine è se possibileancora più impressionistica, almeno due eventirecenti hanno portato il barometro dei rapporti traFrancia e Usa a segnare tempo instabile. Prima le affermazioni di Obama riguardo allanecessità che la Turchia venga integrata nell’Ue,per evitare il rischio radicalizzazione dell’unicoislam ad oggi democratico. Poi i giudizi severidell’Eliseo a proposito delle affermazioni di Obamasul disarmo nucleare, parole giudicate da Parigiscontate e per nulla innovative.Il filo-atlantismo diNicolas Sarkozy prima di essere pragmatico e poli-tico è culturale e ideale. Proprio tali caratteristicheontologiche potrebbero, nel prossimo futuro, spin-gere il Presidente francese ad atteggiamenti e presedi posizione anche apertamente in contrasto conl’amministrazione Usa, pur continuando a rivendi-care la sua scelta filo-atlantica. Le eventuali accuse di anti-americanismo sono desti-nate a non scalfirlo e la nuova grandeur sarkozista,in quel caso, costituirà la declinazione pratica diquell’immagine di “alleato in piedi” ricordata dallostesso Sarkozy il 4 aprile 2009 a Strasburgo.Naturalmente, come nel caso di de Gaulle, sarà diffi-cile stabilire dove inizia la concretezza politica edove finisce la propaganda ideologica. È questo ilprezzo da pagare quando una media potenza nonaccetta la sua dimensione e continua a riproporre almondo e alla sua opinione pubblica, l’immaginedeformata della grandeur, in realtà un’istantaneaingiallita di un passato oramai remoto.

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lo scacchiereunione europea/il rilancio della natoe quell’alleanza sempre più difficile

Perché Europa e Usa devono unire le proprie forze

Il vertice dell’Alleanza Atlanticain occasione del suo sessantesi-mo compleanno non ha avutosolo una funzione celebrativa; aldi là dei rituali, i temi di discus-sione erano molti e complessi, di

grande attualità come l’impegno inAfghanistan e di decisivo impatto nellungo periodo, quali la nuova strategiadella Nato e l’allargamento. Gli aspetti

positivi non sonomancati, due sututti: si è potutoconstatare un rin-novato rapportotransatlantico, ed èstata rilanciatal’iniziativa di dialo-go nei confrontidella Russia. Certo,sarebbe stato diffici-le peggiorare unasituazione che, altermine degli ottoanni di imprudenzastrategica dell’am-m i n i s t r a z i o n eBush, ha toccato ilfondo lasciandoessenzialmenterovine e problemiincancreniti.

E infatti il primo grande obiettivo dellanuova amministrazione Usa, pienamen-te raggiunto, era proprio il riallacciopieno dei rapporti con gli Alleati; l’ac-cordo con la Francia che vede il rein-gresso di Parigi anche nelle strutturemilitari della Nato dopo decenni d’as-senza ne è il simbolo. Il secondo succes-so di rilievo è venuto grazie all’adozionedi un rapporto pragmatico di apertura ediscussione nei confronti della Russia,secondo il principio di cooperare ovepossibile e discutere ove permane ildisaccordo. L’effettivo congelamentodell’ingresso di Ucraina e Georgia nellaNato (pur formalmente riaffermati), con-tribuiscono a svelenire il clima, cosìcome il rilancio delle iniziative di con-trollo degli armamenti strategici.L’Europa deve stare attenta a non farsitagliare fuori da questo dialogo bilatera-le fra Usa e Russia, cercando di inserirsial meglio nei dossier strategici in cui lasua competenza e interessi sono innega-bili, quali il rapporto energetico, le dife-se antimissile e la politica di vicinato.Certo le divisioni interne fra gli europeie una certa attitudine dei Paesi nuovientrati dell’Est a guardare al passatopiuttosto che al futuro non aiutano; colo-ro che vorrebbero una Nato in funzioneantirussa rischiano di generare una pro-

DI GIOVANNI GASPARINI

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fezia auto-rivelante. Questo non signifi-ca che la Nato non debba occuparsi didifesa collettiva, ma che questa funzionedebba essere svolta senza l’identificazio-ne di Mosca come nemico; d’altra parte,sarebbe opportuno che la Russia com-prendesse meglio che il suo futuro poli-tico, economico e sociale può volgere albello solo in un’ottica di interdipendenzacon l’Europa. La crisi economica e difiducia iniziata dal comportamento av-ventato di Mosca in Agosto 2008 controla Georgia dovrebbero far riflettere in talsenso. Al di là dei successi, molte sono leombre e dossier inevasi lasciati dal verti-ce. Innanzi tutto, manca una chiara indi-cazione strategica che funga da guidaper i prossimi anni di vita dell’AlleanzaAtlantica e si dovrà attendere il prossimovertice dei capi di Stato e di governo,sperando che l’equilibrio finale non siaun compromesso al ribasso, privo direali indicazioni, come avvenne nel1999. L’elezione di Rasmussen aSegretario generale a partire da Agostonon può certo essere considerata simbo-lo di un rilancio, quanto più che altro uncompromesso dettato dall’esigenza ditrovare un “sacerdote atlantista” che noncambi gli equilibri attuali, mentre sareb-be stata auspicabile la scelta di un espo-nente di un Paese “di peso” come laGermania o la stessa Francia. Inoltre, laDanimarca è l’unico paese dell’Ue a nonprendere parte alla Politica Europea diSicurezza e Difesa (Pesd), il che non èpropriamente un buon viatico per leessenziali relazioni fra le due istituzioni.In realtà, si dovrebbe immaginare diribaltare le tradizioni ed eleggere unSegretario Generale americano e asse-

gnare il comando militare ad un coman-dante (Saceur) di provenienza europea;ciò responsabilizzerebbe politicamentegli americani e pungolerebbe gli europeia sviluppare le loro capacità d’azione enon solo quelle dialettiche.La nomina di Ivo Daalder ad ambascia-tore Usa presso la Nato, già analista dipunta della Brookings Institution e soste-nitore da tempo di una Nato allargataalle democrazie anche non europeecome Giappone ed Australia, pare inqualche modo persino in contrasto con lasolenne Dichiarazione sulla Sicurezzadell’Alleanza, che sembra riportare inluce la particolarità del rapporto transa-tlantico, nonché lo stop almeno per qual-che tempo al processo di allargamento,con l’eccezione dei Balcani. Nonostantealcune pur lodevoliiniziative, qualil’avvio di una piùrobusta missione ditraining e il ricono-scimento di doversviluppare ulterior-mente la compo-nente non-cineticadell’impegno, nonsi assiste ad unvero rilancio dellastrategia versol’Afghanistan e no-di importantissimiquali il ruolo del-l’economia delladroga vengonoappena sfiorati (mala nuova parolad’ordine non era ilcomprehensive

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Come in ogni altra visita pastorale, il viag-gio di Papa Benedetto XVI in Terra Santaaveva una doppia dimensione: religiosama anche politica. I tre governi che lohanno ospitato - Giordania, Israele e

Autorità Palestinese - condividono senz’altro la speranzadi vedere un Vaticano più attivo sulla scena internaziona-le a promuovere il processo di pace, in che modo, natural-mente, dipende dai desideri della capitale in questione.Ma difficilmente il Papa poteva soddisfare questa aspetta-tiva, fosse ad Amman, Gerusalemme o Ramallah. IlVaticano tradizionalmente non scende in campo su temicontenziosi, preferendo guardinghe dichiarazioni pubbli-che e operando piuttosto dietro le quinte. Tuttavia, ladimensione religiosa del viaggio era ben più importante eil Papa ha saputo con grande abilità inviare messaggi adaudience diverse i cui contenuti erano potenzialmentecontraddittori e la cui valenza politica, per quanto vaga,generica o ambigua, si prestava a essere interpretata inmaniera soddisfacente dall’interlocutore designato. E non

poteva essere altrimenti, vista la natura altamente sperico-lata dell’equilibrismo richiesto al pontefice in questo viag-gio. Il Papa in fondo in cinque giorni ha parlato al mondomussulmano, ai cristiani in Medio Oriente e agli ebrei, maanche agli arabi, agli israeliani e ai palestinesi.Considerando le animosità e le aree di potenziale scontro,meno diceva e meno rischiava. Invece, nella consueta abi-lità diplomatica del Vaticano, il Papa è riuscito a dir molto.Al mondo mussulmano ha portato un messaggio di dialo-go improntato al rispetto, anche se non quel rispetto offer-to da altri leader occidentali la cui premessa è sempre unviaggio a Canossa dell’Occidente. Il Papa infatti hasostanzialmente ribadito il messaggio di Ratisbona,secondo cui la violenza stravolge la religione. Detto nelcuore del mondo arabo, mentre il papa si appresta a darmessa a migliaia di cristiani, il cui futuro è sempre piùincerto, le parole di conciliazione nascondevano un moni-to fermo. Il papa del resto poi lo ha immediatamente ripe-tuto proprio nel suo messaggio alle comunità cristiane.Non solo il Papa non ha ignorato le difficili circostanze

approach?). Inoltre, pur avendo già abbastanza proble-mi nell’ambito del suo core business, la Nato non resi-ste alla tentazione di andare a pesca di problemi che lariguardano solo marginalmente, come nell’ambitodella sicurezza energetica. Dunque il bicchiere è mezzopieno o mezzo vuoto? In realtà questa è una domandasbagliata; la vera questione è se il processo avviato il 4aprile permetta o meno di cominciare una seria inver-sione dell’attuale trend verso l’irrilevanza in cui versaora la Nato; temo non siano sufficienti i 62 punti delcomunicato finale né le autocelebrazioni per un passa-to glorioso, né tantomeno la scoperta dell’acqua caldadel “comprehensive approach”. Serve un nuovo impe-gno politico che veda coinvolti i due lati dell’Atlantico

per ridisegnare un nuovo percorso in comune.Washington deve uscire allo scoperto e terminare lapropria politica ambigua di promozione e freno del-l’autonomia europea di difesa, supportandola e pre-mendo i governi più riottosi a seguirla (Regno Unito,Danimarca, Polonia). Gli europei devono superare ilmito della loro capacità di influenza e sovranità nazio-nale, ed interiorizzare il fatto che solo unendo le proprieforze politiche, morali, economiche e militari sottoun’unica bandiera europea ed un unico scopo possonopensare di contare ancora qualcosa. Se entrambi i pro-cessi procederanno in parallelo, l’Alleanza rinascerà esarà capace di portare a termine anche i suoi compitipiù difficili, altrimenti si assisterà a un lungo declino.

medioriente/il viaggio del papa? un capolavoro di dioplomazia

La visita di Benedetto XVI in Terra Santa mira a unire ebrei e cristianiDI EMANUELE OTTOLENGHI

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dei cristiani, ma, ben lungi dall’incoraggiare un atteggia-mento di rassegnazione di fronte all’avanzare dell’Islamradicale, li ha invitati a resistere. La chiesa insomma rima-ne combattiva di fronte all’avanzare dell’integralismo - equesto lo ha detto in Giordania, subito dopo aver parlatodi rispetto e riconciliazione con l’Islam! Subito dopo, ilPapa si è recato in Israele, dove lo aspettava un esamesotto il microscopio di un Paese che guarda alla Chiesa diRoma con speranza e apprensione. Il suo arrivo è statoinevitabilmente accompagnato da critiche, da destra prin-cipalmente per la riammissione nei ranghi della Chiesadei vescovi lefebvriani, da sinistra per le posizioni conser-vatrici del papa su grandi temi sociali come l’aborto e lacontraccezione e dalla società in generale per l’annosadiatriba sulla beatificazione di Pio XII. Altri lo hanno cri-ticato per non aver istruito la sua diplomazia ad abbando-nare la sala del Consiglio dei Diritti Umani a Ginevrapoche settimane fa quando il presidente iranianoMahmoud Ahmadinejad ne usò il podio per ribadire lesue posizioni antisemite. Naturalmente, queste aspettati-ve sono malposte e destinate a restare deluse. Non ci sipuò aspettare dal Papa un gesto politico sull’Iran. Nétanto più si può realisticamente immaginare un ponteficeche rinnega la posizione della Chiesa sulla famiglia. Mala sua visita a Gerusalemme non mirava ad altro che acementare il dialogo ebraico-cristiano su base paritaria eriaffermare la centralità di questo dialogo nella visioneteologica di questo pontificato nel cuore dello Stato ebrai-

co, riconoscendo quindi il profondo legame esistente trapopolo ebraico, terra e stato d’Israele. In questo contesto,la condanna ineluttabile dell’antisemitismo pronunciatadurante la visita a Yad Vashem, il museo e memorialedell’Olocausto di Gerusalemme, non contiene riferimen-ti specifici né al Cardinale Williamson né al presidenteAhmadinejad, ma si può dedurre una condanna a entram-bi dal linguaggio usato, così come si può dedurre unmonito all’Islam radicale nelle parole concilianti pronun-ciate dal pontefice in Giordania. E del resto questo atto diabile equilibrismo il Papa lo doveva fare anche sul mina-to terreno politico del conflitto mediorientale, dove unadichiarazione di troppo avrebbe alienato uno dei suoi treospiti, mentre la riaffermazione del diritto internazionalee delle esigenze di pace e riconciliazione che la Chiesanon può esimersi per il suo ministero di esigere ha evita-to guai politici, e permesso di esaltare la dimensionepastorale del viaggio. Il fatto resta. Nei messaggi pronun-ciati chi vorrà potrà trovare un elemento politico impor-tante - che resta quello di papa Benedetto XVI sin dal-l’inizio, che fu contrassegnato, non dimentichiamolo,dalla visita alla sinagoga di Colonia e dal discorso diRatisbona. Da un lato, la Chiesa rimane schierata a fian-co dei Cristiani nel mondo contro l’avanzare dell’integra-lismo mussulmano e dall’altro, il dialogo con il popoloebraico avanza qualitativamente su premesse rivoluzio-narie rispetto al passato della Chiesa, portando a compi-mento il percorso iniziato dal Concilio Vaticano Secondo.

america latina/la svolta di cubatra che guevara e la mano tesa di obama

Avanti i contatti tra l’Amministrazione e i Castro ma il disgelo è lontanoDI RICCARDO GEFTERWONDRICH

L’obiettivo del quinto vertice dei Paesiamericani tenutosi a Trinidad e Tobagoil 17 aprile scorso era discutere deiprincipali problemi della regione: lacrisi economica, l’integrazione com-

merciale, l’energia, l’ambiente. Da mesi, tuttavia, era

chiaro che l’appuntamento rappresentava più chealtro il debutto formale della diplomaziadell’Amministrazione Obama nell’emisfero occiden-tale, e che il tema della politica statunitense nei con-fronti di Cuba avrebbe catalizzato l’attenzione gene-rale. Così come per decenni i rapporti con il regime

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castrista hanno influenzato profondamente la pro-spettiva con cui Washington ha guardato l’AmericaLatina, oggi si assiste alla situazione inversa. Per iPaesi latinoamericani Cuba ha assunto il ruolo di car-tina di tornasole di un mutato atteggiamento statuni-tense rispetto alle precedenti amministrazioni Bush eClinton, e ogni gesto a favore di Cuba è interpretatocome un gesto di riavvicinamento nei confronti dellaregione. Le attese erano quindi concentrate più sulla dimen-sione politica dell’incontro che sui risultati concreti inmateria economica. D’altro canto, dopo il fallimentodel progetto dell’area di libero scambio emisfericadisegnata da Bill Clinton nel 1994, la dimensionemultilaterale dello sviluppo economico ha lasciato ilcampo agli accordi bilaterali, e gli Stati Uniti hannopreferito approfondire le relazioni con alcuni singoliPaesi della regione, Brasile, Colombia, Cile,Messico, Costa Rica, Perù. Il presidente brasilianoLula Da Silva è stato il primo leader latinoamericanoad essere ricevuto da Obama a Washington nel marzoscorso. Il segretario di Stato Hillary Clinton e il pre-sidente Obama si sono recati a Città del Messico inaprile per discutere di crisi economica e narcotraffico.La Casa Bianca ha annunciato un prossimo viaggiodi Obama a Bogotà. È con questi Paesi che si declinal’agenda politica americana nella regione in otticastrategica. Cuba sarebbe un caso a parte, se non sifosse verificata questa particolare convergenza disolidarietà politiche verso L’Avana negli ultimi mesi.Ben sette presidenti latinoamericani hanno infattivisitato l’isola dall’autunno a oggi, oltre a quelli diCina e Russia. Il governo cubano è stato ammesso afar parte del Gruppo di Rio su spinta del presidentebrasiliano Lula. L’Unione delle NazioniSudamericane è arrivata il 10 marzo scorso a vinco-lare il miglioramento delle relazioni tra America lati-na e Stati Uniti addirittura alla rimozione dell’embar-go. Il presidente del Costa Rica Óscar Arias e il pre-sidente eletto del Salvador Mauricio Funes hannoannunciato la prossima normalizzazione delle rela-zioni diplomatiche, rispettivamente interrotte nel

1959 e nel 1961. Anche il Messico ha ormai ricom-posto le fratture generatesi L’Avana durantel’Amministrazione di Vicente Fox, e l’UnioneEuropea ha comunicato per bocca del Commissarioper gli Aiuti Umanitari Louis Michel che è arrivato ilmomento di rivedere la “posizione comune” -adotta-ta nel 1996 su iniziativa di José María Aznar - che laallineava sulle posizioni statunitensi. La democratiz-zazione del sistema politico e il rispetto dei dirittiumani e civili non paiono più precondizioni necessa-rie per mantenere fluidi rapporti con il governo deifratelli Castro. In questo scenario, Obama sapeva dinon poter arrivare al summit di Trinidad e Tobago amani vuote, e che l’occasione era propizia per miglio-rare la visione degli Stati Uniti che si ha in AmericaLatina. Aveva quindi manifestato fin dalla campagnaelettorale il proprio assenso alla modificazione dellerestrizioni ai viaggi e alle rimesse dei cittadini cuba-no-americani verso l’isola caraibica, una misura diportata relativamente modesta ma dal significatopolitico importante. Il processo parlamentare di rifor-ma di quel provvedimento si è concluso nei tempiprevisti, e ha permesso al governo americano di fir-mare la revoca delle restrizioni proprio alcuni giorniprima dell’inizio del vertice. Obama ha quindi annun-ciato la propria disponibilità a cercare la strada deldialogo con L’Avana e ha riconosciuto l’inefficaciadell’embargo per forzare un cambiamento in sensodemocratico a Cuba, rompendo un altro storico tabù.Con quest’apertura, il governo americano ha potutoevitare uno scontro politico con i principali alleati delgoverno castrista, disinnescando l’artiglieria diplo-matica preparata dal presidente venezuelano. HugoChávez aveva infatti anticipato che i Paesi apparte-nenti all’Alternativa Bolivariana per le Americhe -Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, RepubblicaDominicana e Honduras - non avrebbero firmato ladichiarazione finale del vertice quale gesto di solida-rietà nei confronti di Cuba, giacché il documento nonconteneva un impegno esplicito a eliminare l’embar-go statunitense. La giocata si è rivelata molto abile,poiché ha permesso di scaricare la tensione con Cuba

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lasciando ai fratelli Castro l’incombenza di fare laprossima mossa. La Casa Bianca sa bene che, conFidel e Raúl in vita, è difficile immaginare qualsiasiprocesso endogeno di apertura politica, e ogni con-cessione nei confronti di Cuba comporta costi politi-ci e risultati incerti. Obama tuttavia è ancora in lunadi miele post-elettorale e il fronte parlamentare favo-revole a una modifica delle relazioni con Cuba staguadagnando spazio. Il presidente aveva quindi il capitale politico necessa-rio per fare delle concessioni unilaterali. Raúl Castroper la prima volta si è detto disponibile a discutereanche di diritti umani e prigionieri politici, terminimai utilizzati in pubblico prima d’ora. Adesso è chia-mato a far seguire i fatti alle parole, in ciò differen-ziandosi dal fratello Fidel. Superata la “trappola cubana”, Barack Obama hapotuto utilizzare il proprio carisma e la propria abili-tà per guadagnarsi le simpatie dei presidenti latinoa-mericani, marcando un evidente punto di flessionerispetto all’amministrazione Bush. Ha ascoltato conestrema pazienza gli interventi dei presidenti diNicaragua e Argentina e le loro denunce del ruoloimperialista degli Stati Uniti nella regione. Ha rico-nosciuto gli errori commessi nella gestione della

politica emisferica, ma ha dichiarato con forza che laresponsabilità dei governanti è di guardare avantisenza cercare alibi esterni o rifugiarsi nella denunciadel passato. Ha infine riaffermato che il suo governointende trattare tutti i Paesi latinoamericani -anchequelli nei confronti di quali esistono profonde diffe-renze politiche e ideologiche- con rispetto, e che nonconsidera il Venezuela una minaccia per gli interes-si strategici americani. Dichiarazioni che hanno tro-vato l’appoggio entusiasta del presidente brasilianoLula, che si conferma una volta di più il principaleinterlocutore di Washington in America meridionale.Lo stesso Hugo Chávez ha pubblicamente apprezza-to la disponibilità all’ascolto, l’umiltà e il tatto poli-tico di Obama, annunciando la volontà di ristabilirele relazioni diplomatiche bilaterali interrotte dal set-tembre scorso. Questo rappresenta forse il risultatopiù concreto e insperato del summit di Trinidad eTobago. La Casa Bianca dovrà dimostrare nei pros-simi mesi di avere la volontà e la capacità di mante-nere un’agenda emisferica all’altezza delle aspettati-ve e delle aperture di credito ricevute. Il debuttodiplomatico di Obama in America latina può comun-que essere considerato un importante successo politi-co per gli Stati Uniti.

scacchiere

africa/la crisi del madagascarpunta a una quarta repubblica?

Dopo il golpe di Rajoelina non c’è pace per il popolo malgascioDI MARIA EGIZIAGATTAMORTA

Numerosi tentativi di mediazioneabortiti nel nulla, vecchi e nuovipresidenti a confronto, una situa-zione in rapida evoluzione: èquesta la fotografia attuale del

Madagascar, la Grande Ile dell’Oceano Indianoche negli ultimi mesi è venuta alla ribalta per gliscontri al vertice tra Marc Ravalomanana (alpotere dal 2002 dopo aver eliminato dalla scena

politica il leader marxista Didier Ratsiraka) eAndrey Rajoelina (l’enfant prodige della politicamalgascia, sindaco di Antananarivo dal dicembre2007). Due imprenditori prestati alla politica;due stili a confronto sostenuti da poteri forti,dalle grandi famiglie locali preoccupate di tutela-re i propri interessi economici. Da un lato colui che negli ultimi 7 anni ha aper-to il Paese all’economia di libero mercato, riu-

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scendo a ottenere il placet dei grandi attori inter-nazionali e l’annullamento del debito estero mache - a causa di una gestione privatistica del benepubblico - non è stato capace di sradicare lapovertà che resta ad oggi un male endemico; dal-l’altro un self-made man che ha iniziato il percor-so come disc jockey, divenendo poi un protago-nista nel settore radio e pubblicità e quindi unadelle voci politiche più trainanti dell’opposizio-ne. La crisi, covata per alcuni mesi e scoppiatacon tutta evidenza lo scorso gennaio, non sembradestinata a risolversi in tempi brevi e sta metten-do in evidenza tutta la debolezza dell’UnioneAfricana (Ua) e della Southern African Develop-ment Community (Sadc).Se inizialmente era forte il dissenso popolare neiconfronti del presidente in carica, Ravaloma-nana, una volta uscito di scena in modo rocam-bolesco il 17 marzo (costretto o meno dalle forzearmate e dall’opposizione, a seconda che si diacredito alle dichiarazioni da lui rilasciate nelleultime settimane) è stato palese il sostegnoall’amministrazione uscente di una parte nume-rosa della base sociale, che ha manifestato la suainsoddisfazione nei confronti del cambiamento.Subito sono state evidenti le contraddizioni delnuovo leader, Rajoelina, che ha violato laCostituzione sia per le modalità con cui ha assun-to il potere, sia per essersi investito di una caricaavendo un’età inferiore a quella prevista dallalegge, sia per aver chiuso immediatamente ilParlamento, impedendo il dissenso dei rappre-sentanti democraticamente eletti dal popolo.Anche in questo caso si è parlato di golpe, diruolo anomalo giocato dai militari che sono tor-nati ad essere l’ago della bilancia nella politicaafricana. Gli avvenimenti degli ultimi mesi inMauritania, Guinea Conacry, Guinea Bissauhanno, infatti, riportato l’attenzione su questo“potere occulto”, arbitro in campo e supporterdeterminante per un corretto andamento demo-cratico.

Effettivamente non è ancora chiara la funzioneche abbiano avuto alcuni alti ufficiali nella parti-ta in corso. Il potere che gli è stato affidato èinfatti stato subito trasmesso al gruppo diRajoelina, anche se in una fase precedente i ver-tici militari avevano garantito la loro neutralità.Disegno previsto o meno dai protagonisti dellavicenda, il Senato non è stato coinvolto (comeinvece indicato dalla Costituzione vigente) e inmodo anomalo, ma indolore, si è operata un’al-ternanza già da tempo nell’aria.La nuova Alta Autorità costituita per gestire lapolitica nazionale si è impegnata a rivedere tuttii contratti con imprese straniere e a promuovereun cambiamento generale, volto a tutelare lafascia più debole della popolazione che vive conmeno di 2 dollari al giorno. Demagogia oppure impegno serio? I risultati rag-giunti dalle Assises Internationales il 2 e 3 aprilenon permettono di intravedere ad oggi né un rin-novamento profondo né la volontà di dialogo conla vecchia dirigenza. A piccoli segnali formali diapertura da entrambe le parti si contrappongonoindizi sostanziali di netta chiusura e persegui-mento di percorsi paralleli, non orientati a soddi-sfare i reali bisogni della nazione.Il quadro politico attuale è molto confuso poichédi fronte all’incapacità di offrire nuovi percorsipolitici, chiari e necessari per rimettere in motol’economia locale, emerge solo la manovra cheviene fatta a latere dalle forze politiche incampo, capaci solo di spingere il popolo nellepiazze per manifestare il proprio supporto all’unao all’altra forza. Legalisti e fautori del cambiamento hanno mani-festato in diverse occasioni, portando in piazza indiverse occasioni 15.000-20.000 persone peresprimere la propria posizione e richiamare l’at-tenzione esterna, di mass media e grandi attoriinternazionali.La presenza di due governi, uno di transizione,legato ai cambiamenti in atto degli ultimi due

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mesi guidato da Monja Roindefo, l’altro legalema non fattuale diretto da ManandafyRakotonirina a partire dal 16 aprile, inducono anon credere - né tanto meno sperare - in unabreve, lineare e semplice risoluzione della que-stione malgascia. È vero che il nuovo esecutivo appare tecnico edequilibrato con esperti inseriti nei posti chiavedecisionali; è conclamato che la nuova AltaAutorità ha subito annullato l’accordo che preve-deva la vendita alla Daewoo di un vasto appezza-mento di terra (cosa inaccettabile per le tradizio-ni locali); è un dato di fatto che i nuovi verticipolitici abbiano fissato il percorso elettorale deiprossimi mesi ma per riportare la stabilità e unaparvenza di ordine istituzionale sono indispensa-bili altri segnali. Accuse alla precedente ammini-strazione, mandati di arresto per malversazionedi fondi all’ex presidente Ravalomanana e ai pre-cedenti responsabili delle finanze non sonomisure sufficienti a colmare lacune effettive,interne ed internazionali.Ormai in Africa sta prevalendo il messaggio cheè lecito sovvertire il potere con qualsiasi mezzo,che non ci sono regole o volontà popolare darispettare. Le sanzioni? Possono durare qualchemese ma poi rientrano. Le espulsioni da organiz-zazioni locali? Sono espedienti inutili che nonpossono prevalere sulla volontà di chi ha assuntoil comando. Il boicottaggio commerciale? Si puòproseguire sul proprio cammino. Anzi, sono gli stessi protagonisti che si autoe-scludono, non potendo accettare di subire l’ontadi essere messi alla porta da determinate struttu-re, come successo nei primi giorni di aprile conla fuoriuscita del Madagascar dall’organizzazio-ne regionale australe.Il Paese si sta chiudendo, politicamente e com-

mercialmente, nonostante l’accorata richiesta dialcuni operatori locali che vedono l’aperturadelle frontiere e gli sbocchi regionali come unconcreto vantaggio, capace di rendere maggior-

mente competitivi i prodotti nazionali.Quali sonogli scenari ipotizzabili? Un confronto diretto trale forze in campo, al limite della guerra civilenon è da escludere, ma d’altra parte non è nel-l’interesse effettivo delle parti.Il ritorno di Ravalomanana, promesso ma di dif-ficile attuazione nel breve periodo, deve esserefatto nella consapevolezza che i privilegi di cui siè usufruito un tempo, le commistioni tra interes-se pubblico e privato, sono finiti e non sonoriproponibili per una sana gestione dell’econo-mia nazionale. Il ritorno di vecchi fantasmi politici come gli expresidenti Didier Ratsiraka e Albert Zafy puòessere valutato solo come influenza sui protago-nisti odierni, ipotizzato al massimo in un tavolodi concertazione ampio e di larghe intese. NuoveAssise militari, in programma per la fine di apri-le, potrebbero chiarire il ruolo delle ForzeArmate locali e quanto meno esplicitare il lorocompito in una nuova dialettica con il poterepolitico, ma di fatto dovranno ribadire la neutra-lità e l’estraneità del corpo alla gestione del pote-re. Si potrebbe pensare anche ad una QuartaRepubblica ma su basi completamente diverse,con protagonisti alternativi e realmente innovati-vi. Non basta voler prendere ad esempio i gover-ni di coalizione di Kenya e Zimbabwe che nel-l’ultimo anno sono stati protagonisti di paginecruenti della stampa internazionale. I due casi in questione sono la prova tangibile diuna gestione capace solo di rinviare problemi,non pronta a fare un gesto di auto-accusa. IlMadagascar, come del resto l’Africa, non habisogno di una semplice cosmesi, di una pausatra uno scontro violento e l’altro, di un accordotra oligarchi. Il continente, tutto il continente, necessita di uncambiamento profondo che faccia emergereistanze dal basso e promuova un processo bot-tom-up. Per questo… il Madagascar ha ancoratempo per maturare la sua crisi!

scacchiere

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LLaa ssttoorriiaaLLaa ssttoorriiaa

di Virgilio Ilari

L’OPERAZIONECARLOTTA

DEL COMPAGNOFIDEL

L’OPERAZIONECARLOTTA

DEL COMPAGNOFIDEL

L’intenzione del-l’amministrazio-ne Bush era dibasare sulla spon-da meridionale delMediterraneo il

nuovo Africa Command (UsAfricom), isti-tuito il primo ottobre 2007 e attivato unanno dopo a Stoccarda. A seguito peròdel rifiuto opposto per ora da tutti i Paesinordafricani, si è ventilato di trasferirlo aNapoli, già sede delle Forze Meridionalidella Nato nonché storica base delle spe-dizioni italiane d’Oltremare e del-l’Afrika Korps. La creazione del sestodei combatant unified commands regio-nali americani è solo uno dei molteplicisegnali del crescente rilievo strategicodel continente africano, ma ha ancheofferto nuove armi alla polemica antim-perialista, ora flebile in Europa ma non

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nel resto del mondo, inclusi gli stessi Stati Uniti.Infatti è stato proprio un professore della JohnsHopkins University di Washington a rivalutare ilruolo dell’internazionalismo comunista nelle guerredi liberazione africane e nella sconfitta dell’apartheid,in un saggio del 2002 (Conflicting missions: Havana,Washington and Africa, 1959-1976, University ofNorth Carolina Press) che è divenuto un punto di rife-rimento per la storia strategico-militare dell’Africasub sahariana e ha ricevuto il premio Robert Farrelldella Society for the Historians of American ForeignRelations (la disciplina accademica in cui è incar-dinato l’autore).

Di origini italiane (nato aVenezia nel 1944 da un “uffi-ciale di marina” meridionaleche raccontava poi al figlio diessersi rallegrato della resi-stenza sovietica sul Don neldicembre 1941), formatosi aGinevra, Pietro Gleijeses èper certi versi una simpaticaicona del Sessantotto: studio-so dell’imperialismo america-no in America Centrale e neiCaraibi, insignito nel novem-bre 2003 della medaglia cuba-na dell’Amicizia, ha sposatouna scultrice giapponese assainota a Cuba, anche se menodella sorella Yoko Ono (lavedova di John Lennon, deiBeatles). Inoltre la tesi centra-le del suo libro, basato su soli-de ricerche negli archivi ame-ricani e cubani, è il ruolo autonomo e trainantesvolto da Fidel Castro nel decidere l’intervento inAngola invasa dai mercenari e dai reazionarisostenuti dagli Stati Uniti, dalla Cina, dalla Coreadel Nord, dallo Zaire di Mobutu e dal Sudafrica.Riecheggiando l’enfasi di un famoso articolo che

nel 1976 Gabriel Garcia Marquez dedicò“all’Operacion Carlota” (così denominata dallaferocissima schiava negra che aveva capeggiato larivolta cubana del 1843), Gleijeses dimostra chel’iniziativa di Fidel Castro fu all’inizio sconfessa-ta dall’Urss, il cui impegno seguì solo due mesipiù tardi, quando i volontari cubani avevano giàinvertito il rapporto di forze e salvato i comunistiangolani. La guerra civile tra il Mpla marxista diAgostinho Neto (1922-79) e poi di José EduardoDos Santos e l’Unita di Jonas Sawimbi (1934-2002) durò fino al 2002 con un bilancio di mezzomilione di morti. Altrettanti furono però i volonta-ri, tra militari e cooperanti civili, che si avvicenda-

rono nella Mision Internacio-nalista de cubanos in Angola(Mica) dal 1975 al 1991, condue picchi di 36mila e 50milamilitari nel 1976 e 1988. Perquesto gli Stati Uniti e ilSudafrica dovettero negoziarecon Cuba la pace in Angola e ilfuturo della Namibia, decisinell’Accordo tripartito di NewYork del 22 dicembre 1988. Èperò innegabile che l’accordoquadro era già stato raggiuntoil primo giugno nel vertice diMosca tra Reagan e Gorbaciove che fu l’Unione Sovietica adassumere la leadership diplo-matica e militare dell’interna-zionalismo comunista inAfrica e a dirigere l’impiegodelle truppe cubane. SecondoDouglas Rivero, uno storico

della distensione, quasi un terzo delle fornituremilitari sovietiche a Cuba (400 milioni di dollarisu 1.500) era in realtà destinato per procuraall’Angola, segno che l’Urss preferiva intervenirein Africa piuttosto che in America Latina. L’Urssperò non esiste più: e se la sinistra internazionali-

La battaglia di Cuito Cuanavale

avvenuta alla fine deglianni Ottanta (1987-1988)

in Angola, con la successiva caduta del presidente

Botha, può essere definita la Guadalajara di Fidel Castro.

Ma non rivaluta il ruolo dell’internazionalismocomunista nelle guerre di liberazione africane

e nella sconfitta dell’apartheidsudafricano

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sta coltiva ancora la “DdrNostalgia”, ha decretato un’ingratadamnatio memoriae nei confrontidella patria sovietica, ergendosicontro Putin e gli altri veri o pre-sunti epigoni, e a favore delle rivo-luzioni rosa o arancione nell’ex-“Impero interno” di Mosca. Delresto anche durante la guerra freddala sinistra respingeva con sdegnol’ossessione reazionaria di vedereovunque lo zampino sovietico, con-siderandola un tentativo di scredita-re le lotte di liberazione e di legitti-mare la repressione. Il regime cuba-no non ha mancato di sfruttare pro-pagandisticamente la tesi diGleijeses: il 6 dicembre 2005, inoccasione del trentesimo anniversa-rio della missione militare cubanain Angola, Fidel Castro sottolineòche fu decisiva per consolidare l’in-dipendenza dell’Angola e conse-guire quella della Namibia e contribuì in modosignificativo alla liberazione dello Zimbabwe ealla scomparsa dell’odioso regime dell’apartheid.Nel luglio 2007, in occasione del ventennale del-l’inizio della battaglia di Cuito Cuanavale, l’ulti-ma della guerra in Angola, Gleijeses l’ha comme-morata con un breve articolo, accreditando autore-volmente la tesi ufficiale che la considera la defi-nitiva disfatta inflitta dalle forze cubane alle trup-pe di Botha, nella più grande battaglia combattutain Africa dopo la seconda guerra mondiale e -secondo una fonte angolana - la “più grande maicombattuta al disotto dell’Equatore” (trascurandoperò Isandlwana e Adua, le due sconfitte del colo-nialismo britannico e italiano in Africa). La batta-glia fu combattuta nella provincia di CuandoCubango (compresa tra i due fiumi omonimi),incuneata tra lo Zambia ad Est e la Namibia a Sud(in particolare la striscia orientale di Caprivi che

separa l’Angola dal Botswana). Questo territorio,per ragioni etniche e sociali, era la roccafortedell’Unita, il movimento anticomunista appoggia-to dalla Cia e dal Sudafrica, che aveva impiantatouna capitale a Jamba, nell’estremo Sud a ridossodel confine con Zambia e striscia di Caprivi.

Fin dal settembre 1980, con l’appoggiodelle forze di difesa sudafricane (Sadf), l’Unitaaveva occupato l’ex-base portoghese di Mavinga,200 km più a Nord-Ovest, riaprendo così i fuochidi guerriglia nelle province settentrionali diMoxico e Lunda al confine con lo Zaire. Secondoil generale Huambo, capo dell’intelligence diSawimbi, nel 1986 le forze ribelli (Fala) contava-no 28mila regolari (44 battaglioni) e 37mila guer-riglieri, mentre i governativi (Fapla) erano da 50 a65mila, appoggiati da 58mila stranieri: 37milacubani (12 reggimenti di fanteria, 7 corazzati, 1

Lo schieramento delle forze militari in Angola alla vigilia della battaglia di Cuito Cuanavale.

Forze cubaneForze SADF-UNITAGolpe aereo a CaluequeFronte al 26.06.1988CaluequeBasi FAR-FAPABasi SAAF Scala 1:11.000.000

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d’artiglieria e 2 brigate contraeree con aviazione eistruttori, comandati da Gustavo Freitas Ramirez),2.500 sovietici (generale KonstantinShaknovich?), 2.500 tedesco-orientali (generalevon Status?), 2.500 nord-coreani, 3.500 comunistiportoghesi (colonnello Leitao Fernandes?) e10mila esuli dai paesi confinanti (1.400 katanghe-si, 7.500 namibiani dello Swapo e 1.200 sudafri-cani dell’Anc). Secondo il generale Rafael DelPino, che aveva comandato le forze aeree cubanein Angola e nel maggio 1987 fuggì negli StatiUniti, i cubani avevano avuto in Angola 10milamorti, feriti e dispersi e ben 56mila disertori. Giànel 1985 i governativi avevano tentato invano diriprendere Mavinga. Una seconda offensiva scattòl’11 luglio 1987, con l’evidente intento politico dirafforzare la posizione di Luanda nel negoziatobilaterale con gli Stati Uniti cominciato il meseprima e di accrescere l’impatto della visita fatta inEuropa dal presidente Dos Santos. Secondo leSadf a dirigere l’operazione Saludando Octubreerano i sovietici e le forze consistevano in 18milauomini (14 brigate Fapla e 2 cubane), con 150carri T-54/55 e 250 veicoli blindati, appoggiati dacaccia MiG-21/23 ed elicotteri Mi-8/24/25 ope-ranti dalla base aerea arretrata di Menongue (300km a Nord-Ovest di Mavinga e a 500 da Jamba,situata oltre il raggio operativo dei MiG). Il 4 ago-sto il presidente sudafricano Botha autorizzò unennesimo intervento militare in sostegnodell’Unita. Comandata dal colonnello DeonFerreira (che dopo la caduta dell’apartheid diven-ne il primo capo di stato maggiore del nuovo eser-cito sudafricano), l’operazione Modular fu con-dotta da 3mila uomini delle Sadf (32° battaglionecommandos, 61° meccanizzato, 20° artiglieria) edelle Swatf (Namibia), con 3 batterie di mortai,razzi Valkiri da 122 mm derivati dal russo Grad ecannoni a lunga gittata da 155mm (G-5 e G-6). LeFapla sferrarono un attacco diversivo da Nord(Lucusse) e uno principale da Est (CuitoCuanavale). In realtà l’avanzata fu poco decisa e il

13 settembre le Fala bloccarono la colonna aggi-rante di destra ad appena 40 km a S-E di CuitoCuanavale. Il 3 ottobre l’artiglieria sudafricanadistrusse la 47a brigata corazzata delle Fapla men-tre tentava disperatamente di ripassare a guado ilfiume Lombo. Fiera del successo, Pretoria rivendi-cò ufficialmente il merito, provocando l’irritazio-ne di Sawimbi.

Le Fala e le Sadf proseguirono intanto l’inse-guimento su Cuito Cuanavale, dove 3 brigateFapla (59a motorizzata e 21a e 25a di fanteria) siattestarono tra la sponda occidentale del Tumpo equella orientale del Cuito. La posizione era peròsotto il tiro dei pezzi da 155mm che dalle alture diChambinga, a 30-40 km di distanza, martellavanoil villaggio, il ponte sul Cuito e la pista di atterrag-gio, ostacolando i rifornimenti. La versione uffi-ciale delle Sadf fu poi che non intendevano impa-dronirsi di Cuito Cuanavale, ma solo completare ladistruzione delle forze governative e impedire chevi venisse creata una base aerea avanzata, da dovei MiG potessero effettuare raid contro la capitaledell’Unita. Secondo Luanda e l’Avana, invece,l’obiettivo di Pretoria era di conquistareMenongue e di installarvi il governo provvisoriodi Sawimbi. Il 15 novembre Dos Santos chieseaiuto a Castro, il quale gli mandò il meglio del-l’aviazione, migliaia di rinforzi, molto materiale eil famoso stratega Arnaldo T. Ochoa Sanchez, giàcomandante dell’operazione Carlota e poi dellaspedizione del 1977 nell’Ogaden, molto apprezza-to dai colleghi sovietici e insignito nel 1984 deltitolo di Eroe della Rivoluzione cubana. L’opera-zione fu battezzata Maniobra XXXI Aniversario delas Fuerzas Armadas Rebeldes; il 5 dicembre iprimi 200 specialisti e consiglieri cubani arrivaro-no a Cuito, il cui comando fu assunto dal generalecubano Leopoldo “Polo” Cintras Frias. I cubanifortificarono la testa di ponte con trincee, rifugisotterranei per elicotteri e munizioni, torrette dicarri interrati e soprattutto campi minati. Inoltre i

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MiG operanti da Menongue (sia pure vulnerabilisotto i 16mila piedi di quota ai micidiali missiliStinger forniti nel gennaio 1986 da Reagan aSawimbi) assicurarono la superiorità aerea tenen-do in rispetto i cacciabombardieri sudafricani(Mirage e Impala). Il 9 gennaio 1988 i sudafricaniriuscirono ugualmente a distruggere il ponte sulCuito con un aereo teleguidato di fabbricazioneisraeliana, ma i cubani ripristinarono i collega-menti con una passerella di legno e il 13 respinse-ro il primo di cinque assalti terrestri. FrattantoOchoa fu richiamato a Cuba e sostituito da CintrasFrias, mentre gli Stati Uniti accettarono di allarga-re il negoziato ai cubani e la delegazione, guidatada Jorge Risquet, arrivò il 28 gennaio. Esponendoal segretario del partito comunista sudafricano lasua strategia, Castro si paragonò ad un «pugile chepara col sinistro e colpisce col destro».

Così, raggiunto lo stallo a Cuito Cuanavale,l’8 marzo Cintras Frias concentrò il grosso delleforze cubane (40mila uomini) a Sud-Ovest,minacciando le Sadf alla diga di Calueque, 11 kma Nord del confine con la Namibia. Il 16 marzo ungiornale di Pretoria scrisse che il governo avevaofferto il ritiro “in” Namibia (e non “dalla”Namibia) contro quello dei cubani dall’Angola. Il23 marzo si svolse l’ultimo e più intenso assaltocontro Cuito Cuanavale, respinto dopo 15 ore dicombattimenti. Botha accettò di entrare nel nego-ziato e il primo incontro tripartito si svolse alCairo il 3 maggio. Risquet respinse però la richie-sta del ritiro bilanciato, dichiarando che Pretorianon avrebbe ottenuto a tavolino quel che nonaveva ottenuto con le armi. Il 27 giugno i MiGfecero un raid dimostrativo su Calueque. L’8 ago-sto fu concordato un cessate il fuoco e il 30 le Sadfsi ritirarono unilateralmente dall’Angola. Le per-dite dichiarate da Pretoria furono di 31 morti e 280feriti contro 4.785 e 1.800 Fapla e cubani, e di 3carri Oliphant, 5 trasporti truppe e 1 veicolo logi-

stico contro 94, 100 e 389. L’Unita perse 3milauomini su 8mila: quanto ai velivoli il bilanciosarebbe di 3 Mirage contro 9 MiG ed elicotteri. L’accordo tripartito fu firmato il 22 dicembre aNew York. Il ritiro cubano iniziò il 10 gennaio1989 e fu completato solo il 25 maggio 1991.Nell’aprile 1989 i delegati sudafricani riuniti aMatanzas per il VII congresso dell’Anc risposeroal saluto di Risquet inneggiando a CuitoCuanavale. Due mesi dopo, il 12 giugno 1989,Ochoa fu arrestato per corruzione e narcotraffico,condannato a morte e fucilato il 12 luglio aBaracoa, ad Ovest dell’Avana. Il suo nome è stato sbianchettato dalle commemo-razioni angolane, cubane e sudafricane e neppureGleijeses lo menziona nel suo articolo sul venten-nale della battaglia. Il 6 dicembre 2007 il ministrodegli Esteri angolano Paulo Teixeira Jorge,accompagnato da alcuni reduci, l’ha commemora-ta al Parlamento sudafricano, una cui delegazione,guidata dal presidente dell’Anc (e del Sudafrica)Jacob Zuma, ha visitato il campo di battaglia nelmarzo 2008. Queste iniziative sono state criticate dal capo del-l’opposizione, il liberale progressista Frederik vanZyl Slabbert, il quale ha esortato i concittadini anon «cadere in un’invenzione storica». Pur ricono-scendo di non aver avuto accesso alle fonti suda-fricane, ancora classificate, Gleijeses ha liquidatoin poche battute il tentativo “revisionista” deireduci delle Sadf, e in particolare dell’ex ministrodella Difesa Magnus André de Merindol Malan(classe 1930, la stessa del suo storico avversarioOchoa), di contestare la tesi della vittoria cubana.In effetti la maggior parte della cinquantina di libriche ho potuto reperire circa la guerra in Angola eNamibia e le covert operations (“Koevoet”) delleSadf, sono di impronta reducista e filo-apartheid,in particolare le memorie di Malan, i cinque saggidi Peter Stiff e i tre del colonnello dei paracaduti-sti Jan Breytenbach, già comandante del 32°

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Battaglione “Buffalo” formato nel 1975 coi vete-rani del Flna (guerriglieri angolani già inquadratinell’esercito zairese) inquadrati da ufficiali bian-chi (e tanto famoso da essere citato nel film BloodDiamond di Edward Zwick, del 2006, come l’uni-tà di provenienza del protagonista, interpretato daLeonardo Di Caprio).

Tuttavia questa riserva ideologica non puòinficiare studi indipendenti come quelli del mag-giore dei Marines Michael F. Morris, che ha con-siderato tecnicamente esemplare l’operazionecondotta dalle Sadf nel 1987-88 (Flying Columnsin Small Wars, 2000, PDF online); o di storicimilitari come James M. Roherty (State Security inSouth Africa: Civil-Military Relations under P. W.Botha, M. E. Sharpe, 1992), John Turner(Continent Ablaze. The Insurgency Wars in Africa,Cassell 1998) e Edward George (The CubanIntervention in Angola 1965-1991. From CheGuevara to Cuito Cuanavale, Frank Cass Military

Studies Series, New York 2005). Secondo George«Cuba’s much-heralded ‘victory’ over the SouthAfricans at Cuito Cuanavale is shown to havebeen no more than a costly stand-off, its real signi-ficate lying in the impetus it gave to the American-brokered peace process». In definitiva, Pretorianon cedette per la resistenza del caposaldo angola-no e la relativa superiorità aerea cubana, ma per lepressioni americane, l’isolamento internazionale ela crisi interna che condusse di lì a poco alledimissioni anticipate del presidente Pieter WillemBotha (1916-2006). Cuito Cuanavale ha avutonondimeno un effetto politico più duraturo eimportante: quello di concedere ad un regimeoppressivo un’attenuante morale e un alone disimpatia. E se è risibile il paragone conStalingrado, pure calza quello con Guadalajara.Anche quella una vittoria esagerata, ma il cui mitosopravvisse alla sconfitta dei repubblicani spagno-li e contribuì realmente alle future fortune dellasinistra internazionale.

Il generale Arnaldo T. Ochoa Sanchez detto “El Moro” (1930-1989), grande stratega e comandante delle forze cubane in Angola (1975) e in Etiopia(1977), fucilato per alto tradimento. Le locandine cubane di commemorazione del trentesimo anniversario della battaglia.

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DE SAINT-EXUPÉRYE LA VERTIGINEDELL’IMPREVEDIBILEINCIDENTE AEREO

Se Il Piccolo Principe è il libro che ha reso rapidamente celebre Antoine de Saint-Exupéry in tutto il mondo, gli scritti raccolti in Manon Ballerina (ed altri inediti) rap-

presentano le sue prime prove letterarie. La vasta produzione, spesso inedita o pubblicatain raccolte di frammenti dopo la morte, è una vera miniera letteraria, che ancora oggi con-tinua a sorprendere e rappresenta una testimonianza fedele del modo di essere, di pensaree di comportarsi nella Francia tra le due guerre. Vi è da dire che nel caso di queste paginesi precorrono i tempi e lo sviluppo delle sue opere più celebri. Già emergono atmosfere epersonaggi che saranno poi da lui stesso approfonditi, come l’attenzione alla vita di tutti igiorni, alle notti parigine, alla vita sregolata di un giovane dell’epoca, la psicologia del-l’aviatore, le delusioni e gli slanci. Ma soprattutto traspare già l’elemento caratterizzantedi tutta la sua opera, l’amore per il volo e la riflessione profonda su tutto l’ambiente che locirconda. Sensazioni che diventano presto espressione di legame organico tra l’uomo, lamacchina e l’ambiente, in una reciproca interazione che ha l’alea del destino, e del miste-ro. Secondo i critici, in questi suoi primi scritti Saint-Exupéry è già forte, efficace, in gradodi disegnare con semplicità e immediatezza sia i sentimenti che le scene della vita quoti-diana. Come per Proust, c’è all’origine una forte capacità autobiografica, che l’Autorecerca continuamente di mascherare e nascondere. Senza però riuscirci del tutto. ManonBallerina non è, come abbiamo già detto, un vero libro, un’opera organica che contengauna storia attraverso la quale si sviluppa una sequenza, dal primo capitolo all’ultimo.Eppure la storia c’è, ed è, attraverso storie e personaggi diversi, la vita stessa dell’Autore,condita con i suoi sentimenti e le sue suggestioni. In questo senso le due storie giovanilidi apertura, che assieme formano il primo capitolo - Manon, ballerina e L’Aviatore - sonodue aspetti della stessa introspezione, e sono ben rappresentative, direi che sono i prodro-

di Mario Arpino

ANTOINE DE SAINT–EXUPÉRY

Manon ballerina (e altri inediti)

Bompiani Editorepp. 231 • Euro 19,00

L’Autore non ha bisogno di presentazioni. Noto ai piùcome autore de Il PiccoloPrincipe, era un pilota civile chenegli anni Venti e Trenta volavasu piccoli aerei del ServizioPostale da un punto all’altro del Sudamerca e dell’Africa occidentale. Nel corso dellaguerra, divenne pilota militarenell’aviazione della Francia libera. Scomparve un giorno del luglio 1944, durante una missione operativa isolatasul Mediterraneo, circondato da un’aureola di leggenda.

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mi di tutta l’opera romanzesca di Saint-Exupéry, pur essen-do molto diverse l’una dall’altra per trama e ambientazionedel racconto. Chi ha letto abbastanza dei suoi scritti, vi avràsempre trovato concetti e suggestioni che già sono embrio-nalmente presenti in questi suoi due racconti giovanili. Ilprimo, Manon, dove è possibile trovare gli echi degli anniparigini dell’autore, lo lasciamo scoprire interamente ai let-tori. Sul secondo è invece opportuno approfondire almenoun po’, perché in esso si trovano in anticipo già tutti i temifondamentali che Saint-Exupéry andrà poi sviluppandonelle successive esperienze letterarie. Il racconto viene pub-blicato per la prima volta nel 1926, su una rivista che nellaParigi di allora andava per la maggiore nell’ambiente dellacultura e delle arti belle: Le Navire d’argent. La figura cen-trale è l’uomo aviatore, con le differenze tra la vita consa-pevolmente rischiosa di un pilota e il lavoro degli altri, quel-li che svolgono un lavoro convenzionale, magari importan-te, ma “tranquillo” perché si svolge a terra. È ovviamenteuna visione romantica del pilota e del suo imponderabileambiente, ma, se pensiamo a cosa era all’epoca l’aviazione,si comprende come difficilmente l’approccio avrebbe potu-to essere diverso. Non è certo una storia a lieto fine, quella dell’Aviateur, cheperde un’ala durante una manovra acrobatica, e inesorabil-mente precipita e si schianta. Ma lo fa con incredulità emeraviglia, stupito che proprio a lui, che in quegli attimipassa in rassegna tutta una vita, stia capitando proprio in unmomento sublime “quell’imprevedibile” che lui, invece, inmodo inespresso sapeva che prima o poi sarebbe accaduto.Alla fine della storia, il lettore si scoprirà emozionato, mapiù come succede davanti a un vertiginoso quadro diAeropittura, piuttosto che davanti alla repentinità di unamorte presagita. Il secondo capitolo è formato da una pre-gevole introduzione di Alban Cerisier, che ha curato tuttaquesta raccolta, e contiene altri tre racconti, anche questibasici nell’opera dell’autore e costruiti su ragionamenti,impressioni e sentimenti sempre ricorrenti. È difficile,soprattutto per chi ha conosciuto un certo ambiente, nonriconoscersi in alcune situazioni o non ritrovare almenoalcuni dei propri sentimenti inespressi. Si tratta di Questasera sono andato a vedere il mio aereo, Il Pilota o Si puòcredere negli uomini. Anche in questo caso si tratta di

manoscritti inediti autografi, con diverse parentesi quadreche racchiudono puntini oppure la frase o la parola presun-ta laddove l’originale è risultato illeggibile. Il pilota, in veri-tà, non è un racconto, ma il testo di una delle tante conferen-ze che l’Autore, assieme ad altri due colleghi aviatori, veni-va invitato a tenere in varie capitali del Mediterraneo. Valela pena riportarne l’incipit, che ne dà tutto lo spirito.«…Non sarà una storia di viaggi in senso stretto. Non videscriverà Rio de Janeiro al tramonto. Non abbellirò, colo-randoli di verde, blu o rosa, i paesaggi aerei, tanto spessocosì monotoni. Ciò che di essenziale l’aereo insegna all’uo-mo non può essere sostituito da una collezione di cartoli-ne…Neanche l’Africa è traducibile in storie di caccia». Il terzo capitolo è una raccolta di materiale, lettere e appun-ti che riguardano i due suoi libri fondamentali del filoneaviatorio, ovvero Corriere del Sud e Volo di notte, mentre ilquarto raccoglie sette lettere dell’Autore scritte nel 1942 aNatalie Paley, principessa Romanoff nipote dello zarAlessandro II, sua ultima grande fiamma. Anche se fu unarelazione di breve durata, il critici ritengono che queste let-tere completano la figura di Saint-Exupéry rivelandone ilsuo tipico lirismo, che «…oscilla tra il bisogno di amare,quello di essere consolato e la disperata volontà di cercarenell’amore un rifugio per trovare pace…». A questo puntoè necessaria, oltre che doverosa dopo la discontinuità diquesta carrellata, qualche nota biografica dell’autore, la cuivita è già di per sé un romanzo misto di avventure, senti-menti e tormenti ad alta intensità. Nasce a Lione il 29 giu-gno 1900, terzogenito del conte Jean de Saint.Exupéry. Adodici anni, a Le Mans, riceve il suo “battesimo dell’aria”,volando con il pioniere del volo Vedrinés. In collegio pres-so i Padri Maristi a Friburgo, si forma culturalmente leggen-do sopra tutto Balzac, Pascal, Descartes, Baudelaire eDostoevskij. Nel 1921 compie il servizio militare aStrasburgo e in Marocco, ottenendo i brevetti di volo dipilota civile e, successivamente, quello militare. Congedato,riprende a volare nel 1926 a Orly, dove scrive L’Aviateur.Nello stesso anno viene assunto come pilota di linea dallaCompagnia Cenerale di Imprese Aeronautiche, che collega-va la Francia Meridionale con l’Africa occidentale, e vieneassegnato a uno scalo africano, da dove svolge serviziopostale con lunghi voli diurni e notturni sul deserto del

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Sahara, che lo affascina. Nel 1928 scrive Corriere del Sud,il suo primo successo letterario. Due anni prima di morireannoterà che «…chiunque abbia conosciuto la vita delSahara, dove tutto sembra essere solitudine e squallore, rim-piange quegli anni come i più belli della sua vita». L’anno successivo parte per Buenos Aires e diventa capopilota dell’Aeropostale argentina, dove diviene amico dipiloti leggendari come Mermoz e Guillaumet. Con questenuove esperienze, nel 1931 scrive il suo secondo romanzodi successo, Vol de nuit, che andrebbe letto per primo, comeintroduzione per ogni sua opera. Prima della guerra, come

pilota e giornalista, cerca di compiere raid di successo, mava incontro a gravi incidenti, tra i quali il peggiore avvienenel 1938 nel deserto africano. Si ferma per la convalescen-za negli Stati Uniti, dove nel 1939 scrive Terra degli uomi-ni, altra introspezione filosofica. Sebbene abbia il fisicoormai compromesso dagli esiti degli incidenti, si arruolacome pilota ricognitore nell’aviazione della Francia Libera,dove vola fino al tragico epilogo del 31 luglio 1944. Nelfrattempo non smette di scrivere. Il piccolo principe è del1943, mentre La Cittadella, uscito postumo e incompleto, èdel giugno 1944.

GLI USA E LA TRILOGIA DELL’ERRORECrisi economica, politica e militare: per la prima volta gli Stati Uniti affrontano tre emergenze assieme. È davvero l’era del tramonto?

Bel libro, acuto, denso, ben scritto. Sta avendo ungrande successo di vendite e di critiche anche

perché sembra aver preconizzato il lato geopolitico estrategico-militare della crisi americana in atto.Sarebbe un testo capitale di questi anni se le sue tesinon trasudassero una partigianeria affascinante manon sempre condivisibile. L’autore, Andrei J.Bacevich, è una singolare e insolita figura di polito-logo. Docente di relazioni internazionali alla presti-giosa Boston University dopo aver insegnato allaJohn Hopkins Unversity e a West Point, è stato uffi-ciale di carriera dell’Us Army per oltre un ventennio,dal 1969 ai primi anni Novanta, quando ha lasciato ilservizio con il grado di colonnello, probabilmenteper le conseguenze di un tragico incidente che hainteressato l’unità che comandava in Germania e delquale si è preso l’intera e – si dice - immeritataresponsabilità. Sin dai tempi delle varie scuole diguerra, il personaggio ha brillato per le sua acutezzanegli studi storici e politici, anche se non nelle vesticonsuete del “red neck” intellettuale in grigioverde,come tanti agguerriti e allineati prodotti delle sofisti-cate think tank del Dipartimento della Difesa. Eraallora - ed è adesso, ancor più - un battitore libero

della prateria culturale americana, un “cattolico con-servatore”, come egli si definisce, seguace e propu-gnatore delle idee di Reinhold Niebhur, il celebratoteo-politologo americano degli anni Cinquanta. Sviluppando e aggiornando le idee del suo maestro,Bacevich è pervenuto ad una critica totalizzante deidogmi consolidati “dell’eccezionalismo americano”,soprattutto da quando ha gettato la divisa alle orticheindossando la cappa del professore. E, possiamo ipo-tizzare, ancor più da quando è scaturito per lui, dalleconseguenze più recenti di tale eccezionalismo, unterribile dramma personale, con la perdita in Iraq delsuo unico figlio, ufficiale dell’esercito dislocato inquel teatro. Difficile pensare che questa sciagura nonlo abbia influenzato, accentuando un pessimismo cheaveva messo già solide radici. Questo pessimismonon è assimilabile alle posizioni delle correnti liberalpiù o meno radicali che hanno fatto a pezzi Nixon,Reagan, Bush, Cheney e Rumsfeld ma tutto somma-to salvano la parte buona dell’America Shining TownUpon A Hill. Per Bacevich questa dicotomia non esi-ste. L’America non è né buona né cattiva, e non bril-la affatto su una collina, ne ora né mai, come tutte lealtre istituzioni dell’uomo. Da un cinquantennio è

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costretta dalle circostanze e da una percezione di séeccessivamente lusinghiera e del tutto bipartisan,comune a liberal e repubblicani, a comportarsi inmodo scriteriato, inanellando un errore dietro l’altro. Analogamente ai suoi libri precedenti - fra quali inparticolare The long War (2007) e The new americanmilitarism: how America is seduced by war - anchequesto nuovo e intrigante saggio focalizza il ridi-mensionamento dell’autostima americana attraver-so una critica senza appello della politica estera diWashington della Guerra Fredda e della Pace Calda(o “Nuovo Ordine Mondiale”, definizione beffardacome poche). Secondo il nostro autore, per conse-guire i loro obiettivi gli Stati Uniti hanno sviluppa-to un’eccessiva consuetudine con l’uso della poten-za “hard” - militare - a detrimento di quella “soft” -diplomazia e influenza della propria cultura e civil-tà sugli altri. Ovvero l’arma più decisivadell’America nell’agone globalizzato. Questo èaccaduto anche perché il popolo yankee, e in parti-colare i suoi rappresentanti politici, hanno sempretenuto in eccessiva considerazione l’utilità e la per-corribilità dell’uso della forza bellica nei rapportiinternazionali, sedotti anche dalla rappresentazioneromantica del fenomeno guerra che la cultura popo-lare esprime, soprattutto, nella cinematografia. A questa visione distorta e contraffatta corrispondeparadossalmente una carenza di esperienza militarediretta nella maggior parte dei cittadini americani,sopratutto da quando la leva è stata abolita. Talecarenza riguarda anche le classi dirigenti, in parti-colare i decision maker politici. Dei tre ultimi pre-sidenti, nessuno ha mai visto la prima linea, e due diessi non hanno mai vestito un’uniforme (uno ha for-malmente eluso la coscrizione). Per contro, i novepresidenti della Guerra Fredda hanno tutti servito indivisa il loro Paese in guerra. Alcuni di loro sotto ilfuoco nemico, con ferite, sofferenze durate tutta lavita, commilitoni uccisi sotto i loro occhi e tutta laconsapevolezza della tragica complessità del feno-meno bellico, anche in termini del costante scolla-mento fra gli obbiettivi che i belligeranti si pongo-

no e i risultati che ottengono. L’effetto di questainterazione fra l’idealizzazione romantica dellaguerra e la mancanza di esperienza bellica di chi ladecide si tradurrebbe - secondo Basevich - in unapercezione americana della conflittualità del tuttofalsata. Essa finisce per suscitare autentici pericoliproprio per quel mantra della “Sicurezza Nazionaledegli Stati Uniti” in nome del quale più o meno tuttele iniziative vengono azzardate. La faciloneria e lasuperficialità con la quale il Paese viene trascinatoin conflitti dagli esiti incerti con motivazioni incon-sistenti finisce per essere una costante della politicaamericana degli ultimi decenni. È evidente il riferi-mento ai due ultimi episodi della corposa vicendaguerriera americana, Iraq e Afghanistan, anche sel’autore mette in luce che essi fanno parte di unalunga teoria di analogie pre e post Guerra Fredda,senza contare gli eventi precedenti all’impero glo-bale americano, di quando l’America era solo unimpero continentale in fieri. Oltre a questo difetto fondamentale di percezione edi impostazione dei rapporti con il mondo, lo smarri-mento americano di oggi descritto da Bacevichriguarda tre crisi interconnesse, alle quali vengonoriservati altrettanti capitoli fondamentali del libro. Laprima crisi è economica, definita «dello spreco, delloscialacquio, della dissolutezza (profligacy)», ovverouna propensione collettiva radicata nel pubblico e nelprivato americano «nell’acquistare a credito, nel dila-pidare, nell’indulgere in comportamenti chiaramenterovinosi e a volte anche fraudolenti, perseguiti ancherimuovendo con la forza qualsiasi ostacolo al loromanifestarsi». La pretesa tutta americana di dissiparesmodate quantità di energia a basso costo, fruire di uncredito personale illimitato e irresponsabile, consu-mare molto più di quanto non si produca, mantenereun iperbolico double deficit - federale e nazionale -,pretendere premi miliardari da aziende in fallimentofinanziate con denari pubblici - sono tutti aspetti diquesta fuga corale dalla responsabilità. La seconda crisi è politica e riguarda la concentrazio-ne abnorme del potere statunitense nell’Esecutivo di

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Washington, a detrimento dei dettaticostituzionali e del tradizionale checkand balance che avevano servito cosìbene l’Unione per due secoli. Ad essasi somma la svalutazione e l’inettitudi-ne del Congresso - la cui principalefunzione è, secondo l’autore, l’autoper-petuazione a detrimento del ruolo fon-damentale che la Carta Fondamentalegli assegna - nonchè la complessivamediocrità della governance che pre-siede al funzionamento delle istituzionifederali. Gli esempi di malgoverno chel’autore porta a sostegno della sua tesi- l’uragano Katrina, l’assistenza sanita-ria incompleta e costosissima, la sicu-rezza sociale che frana, la gestione fal-limentare dell’immigrazione - fannoormai parte della contro-mitologiadegli Stati Uniti, di quella presa dicoscienza universale che ha trasforma-to la “Speranza del genere umano”evocata da Reagan nel suo discorso peril Bicentenario in una utopia in liquida-zione. La terza crisi sarebbe militare erisulta la meno condivisibile (le altredue lo sono in toto). Deriverebbe daquella cultura nefasta della SicurezzaNazionale alla quale abbiamo accenna-to, in nome della quale tutto è giustifi-cato, anche combattere guerre sullequali si sa poco, nel momento menoopportuno e contro il nemico sbagliato.Secondo Bacevich i militari non sisarebbero opposti a sufficienza a que-sta deriva facendosi coinvolgere inconflitti rovinosi per i quali hannoraschiato il fondo del barile delle lorocapacità, senza ottenere i risultatiimposti con arroganza e presunzioneda referenti politici chiaramenteincompetenti. La tesi è alquanto

approssimata, almeno per un addetto ailavori, e meriterebbe un’analisi ben piùampia di quanto sia possibile qui e ora.Si può solo osservare che in democra-zia sono i leader rappresentativi dellavolontà popolare che decidono se lapolitica debba essere proseguita conl’uso della forza e di quale forza. Senzase e senza ma. I militari possono solodare consigli e fare al meglio quelloche è stato ordinato loro. Ed è quelloche “capi e i gregari” statunitensihanno fatto con capacità professionalidi altissimo livello e il risultato com-plessivo di abbattere un regime odiosoe destabilizzante, avviando ad una pro-babile rinascita un paese molto trava-gliato (Iraq), cercando nel contempo difare più o meno altrettanto in un conte-sto ancora più difficile (Afghanistan) ecombattendo altrove il resto della Waron Terror, la quale non era e non è unaquisquilia del terz’ordine. Per ora falli-menti non se ne sono visti ed è impro-babile che se ne vedano. In quanto alfondo del barile del Pentagono, è statoraschiato solo quello delle forze terre-stri, a suo tempo sottodimensionate -quando le tre vicende si sono avviate -per il ruolo da poliziotto globale degliStati Uniti. I barili della US Navy edell’Usaf sono invece colmi finoall’orlo. Il poderoso dispositivo aero-navale degli Stati Uniti è intatto e maicosì potente e combat ready comeadesso, anche per l’ottimizzazioneoperativa e logistica che la conflittuali-tà di questi anni ha determinato. Lasupremazia militare degli Stati Unitinei confronti degli altri stati - che sonoquelli che contano, non equivochiamo- è ancora “stellare,” di nome e di fatto.

ANDREW J. BACEVICH

Limits of powerThe end of America exceptionalism

Metropolitan BooksHenry Holt & Company pp. 224 • $ 14,00

Non sarebbero gli interessidegli affari o un militarismovecchio stile che guidano leambizioni di Washington oltreconfine. Sarebbe piuttosto il concetto espansivo che gli Usa hanno di libertà e di “good life” che nel corsodegli anni ha stimolato crescenti “appetiti” che pos-sono essere soddisfatti solo attraverso una Pax Americana. Ma un mondo a guida Usacon credito facile, petrolioabbondante e beni di consumo a buon mercatonon è sostenibile. Facendoeco alle idee di studiosi comeBarry Posen, Ian Shapiro edaltri, lo storico (e politologo)Andrew J. Bacevich, cattedraalla Boston University inRelazioni internazionali (dopo aver insegnato alla JohnHopkins Unversity e a West Point), invoca unagrande strategia di contenimento, riducendo il sovraesteso impegno militare e ritornando ad un’agenda di politica estera più modesta.

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• VICTOR DAVIS HANSONUna guerra diversa da tutte le altre. Come Atene e Sparta combattevano nel PeloponnesoGarzanti 2008

Victor Davis Hanson, autore-vole storico militare dell’anti-ca Grecia e uno dei più finiinterpreti degli eventi delnostro tempo, narra lo scontroche mise fine al predominiodella prima superpotenzaoccidentale. L’autore raccon-ta la guerra del Peloponnesodescrivendone i retroscenapolitici e, addentrandosi neidettagli tattici e operatividelle sanguinose battaglie chela scandirono, in terra e inmare, ne porta alla luce i pre-sagi dei lati più oscuri deiconflitti dei nostri giorni.Tortura, omicidi politici, ter-rorismo erano strumenticomuni, così come l’uso diguerrieri-bambini che com-battevano sui pony e l’inviodi superstiti delle epidemiefra le file nemiche con loscopo di infettarle. Con la suaabituale maestria narrativa,Hanson collega il passato alpresente e rende moderno ilsuo messaggio.

• JEAN MARIE COLOMBANIUn americano a Parigi. Le scelte e gli errori di SarkozyRizzoli 2009

Il Sarkozy di Colombani èdispotico, talvolta demagogi-co, ma ha l’innegabile meritodi avere riportato la Francia alcentro della scena internazio-nale. Tramite un rinnovamen-to della politica estera diParigi, e circondandosi di per-sonaggi-simobolo comeRachida Dati e il cofondatoredi Medici senza frontiereBernard Kouchner, il nuovo

• GILLES KEPELOltre il terrore e il martirioFeltrinelli 2009

Al centro dell’opera delmediorientalista francese c’èil contrasto fra la narrativaamericana della “guerra alterrorismo” e quella jihadistadell’esaltazione del martirio.Da un panorama fatto diostaggi sgozzati in Iraq, pri-gionieri abusati ad AbuGhraib e a Guantànamo, euna lunga scia di sangue cheda Gerusalemme va fino aMumbai, Kepel conclude cheentrambi gli schieramentihanno perso la loro battaglia.Ravvivando, anzi, l’anticoscontro interno al mondoislamico fra sciiti e sunniti,che ha restituito forza alnemico comune, l’Iran, eprodotto un Golfo Persicosempre più a rischio di insta-bilità. Dopo il fallimentodella strategia di Washington,argomenta Kepel, l’unicosoggetto che può restituire lapace al Medio Oriente èl’Europa, sul cui territoriovivono già milioni di cittadi-ni di religione musulmana,attraverso la costruzione diuno spazio di prosperità chericopra tutto il Mediterraneo.

• THOMAS L. FRIEDMANCaldo, piatto e affollatoMondadori 2009

Dopo avere annunciato la finedell’epoca dei grandi divari fraPaesi ricchi e quelli del terzomondo, attraverso lo slogan “ilmondo è piatto”, l’economistaamericano aggiunge ora cheesso è anche “caldo e affolla-to”, allargando così l’orizzontedi analisi dall’economiaall’ambito demografico edecologico. Se le immensepopolazioni asiatiche sono

Presidente ha restituito allaFrancia una parte della suagrandeur. La sua originefamiliare da parvenu dellapolitica, il tormentato divor-zio, il matrimonio con CarlaBruni, l’ostentazione dellusso e la cura dell’estetica,sono, agli occhi dell’autore,altrettanti elementi che fannodella vita privata di Sarkòuno spettacolo che, pur spes-so criticati, ricordano infondo la tradizione dei gran-di monarchi francesi. Ilnuovo inquilino dell’Eliseo,si chiede Colombani, è soloun governante improvvisatoe ambizioso, o ha scovato unmodo nuovo ed unico di ria-dattare al presente il protago-nismo assolutista dell’anticoregime?

• VIJAY PRASHADStoria del Terzo MondoRubbettino 2009

Il libro di Prashad è un tenta-tivo di riportare al centro deldibattito politico un soggettoche, spesso relegato dalla sto-ria a teatro di catastrofi uma-nitarie e ambientali, ha gioca-to un ruolo da protagonistanel Ventesimo secolo. Arenacontesa dalle due superpoten-ze nel corso Guerra Fredda,l’insieme dei Paesi in via disviluppo è stato anche unlaboratorio di idee, conce-zioni e visioni politiche, inlotta contro le formidabiliforze dispiegate dal coloniali-smo prima e dal neocolonia-lismo poi. L’autore ripercorrela storia di questo soggetto,dalla sua nascita in funzioneanticolonialista ai suoi falli-menti socioeconomici, sullacui eredità Prashad si interro-ga, anche alla luce del falli-mento, altrettanto catastrofi-co, del modello sovietico.

destinate a consumare lerisorse naturali al ritmo del-l’occidente, argomentaFriedman, il sistema ecologi-co globale si troverà prima opoi ad affrontare il rischio diun tracollo totale. Una viad’uscita, la concreta speranzadi evitare il disastro ecologi-co, secondo l’autore, dovràfondarsi su un nuovo modelloeconomico “verde” che puòrappresentare al contempo ilmotore di una crescita econo-mica forte e rapida, guidatadalla ricerca e dalla sperimen-tazione delle economie giàsviluppate.

• MARK R. LEVINLiberty and Tyranny: A Conservative ManifestoThreshold Editions 2009

Liberty and Tyranny è la chia-mata dell’autore all’Americarepubblicana, un manifestodel movimento conservatoreper il Ventunesimo secolo.Nel libro Levin mette in guar-dia dalla corrosione dei valoridella costituzione ad operadel movimento liberal, e dallatendenza di quest’ultimo atrasformare il Governo fede-rale in un conglomerato mas-siccio e privo di responsabili-tà. Portando, in ultima anali-si, verso la tirannia, mentre «ivalori conservatori sono l’an-tidoto alla tirannia, precisa-mente perché sono i nostriprincipi fondatori». In unaserie di saggi, Levin formulale sue proposte per una nuova“contro-visione” conservatri-ce che tocca i temi di maggiorrilievo per l’America di oggi,dall’economia, all’ecologia el’immigrazione, suggerendoche il cauto e graduale cam-biamento conservatore è sem-pre un passo in favore dellalibertà degli individui.

U S C I T I N E L M O N D O a cura di Beniamino Irdi

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VICTOR DAVIS HANSONPhony War: Afghanistanand the democratsWorld AffairsWinter 2009

Molti americani nel 2003 pen-savano che le guerre inAfghanistan e Iraq fosserocomplementari. La sinistraanti-guerra in Iraq era convin-ta che i due fronti fossero con-nessi, in maniera antitetica masimbiotica. Per loro la guerraunilaterale in Iraq veniva per-seguita a spese del ben piùlegittimo - sotto il cappello delmultilateralismo – conflitto inAfghansitan. È utili ricordare che quandogli Usa hanno invasol’Afghanistan, il 6 ottobre del2001, molti a sinistra avevanoprevisto un disastro militare.Nessuno, pensava chel’America non avrebbe piùsubito attentati per 7 anni. Lemontagne dell’Hindu Kusherano troppo alte. L’acquatroppo ghiacciata. Con l’ucci-sione di Massoud, l’alleanzadel Nord non sarebbe stata piùin grado di combattere. Lostesso infausto destino cheaveva accomunato le sconfittebritanniche e sovietiche inquelle terre stava aspettandoanche l’alleanza occidentale.

Il New York Times avevaricordava la disfatta inVietnam. La realtà da quelleparti ha però raccontato un’al-tra storia. La rapida sconfittadei talebani, così come lapresa del potere del governoKarzai, tranquillizzò per uncerto periodo le polemiche.Giusto un anno dopo i succes-si afghani erano diventati unmotivo per un maggior attivi-smo, non certo per una mag-giore cautela. Sull’onda diquesto clima i democratici,nell’ottobre del 2002 – pochesettimane prima delle elezionidi medio termine - votaronoper la seconda operazionemilitare: quella in Iraq. Moltidi loro pensarono che in Iraqsarebbe stata una passeggiata.Dopo una spettacolare vittoriamilitare ottenuta in sole tresettimane, il 70 per centodegli americani erano a favoredella guerra irachena. Poi nel2004 cominciarono i guai.Centinaia di militari Usa veni-vano uccisi. La passeggiata sitrasformò in un bagno di san-gue. Cambiò il vento nell’opi-nione pubblica. Ma la storiamilitare Usa ha insegnato chesi possono combattere guerresu più fronti, come avvennenel secondo conflitto mondia-le. Il mantra dei liberal ameri-cani che occorra lasciarel’Iraq per concentrasi inAfghanistan non terrebbeconto della storia, secondoHanson. La guerra in Iraq èsostanzialmente stata vinta. Aottobre del 2008 sono statisolo 7 i militari caduti, controi quaranta omicidi che media-mente avvengono, in un mese,solo a Chicago. Obama oggicon la responsabilità di un

2008. Sempre nello stessoperiodo, la quota di chi si dicecristiano è scesa dall’87 al 76per cento. Più che un’inversio-ne culturale, che suonerebbeun cambiamento storico,Linker parla di un Paese chedall’essere a «stragrande»maggioranza cristiana è passa-to a essere semplicemente unanazione a «grande» maggio-ranza cristiana. «Ma dovesarebbe la notizia?», si chiedel’autore. Jon Meacham di NWavrà voluto dire che l’Americaha avviato un trend che la por-terà ad essere meno cristiana,in tempi molto lunghi. Forse.Ciò che le sue statistichemostrano è meno epico diquanto affermato, ma forse piùinteressante da un certo puntodi vista. Le dispute sul ruolodella religione nella vita pub-blica statunitense vertonoquasi sempre su quale teologia– e in che misura – sia incor-porata, influenzi di più la reli-gione civile del Paese. Il chesignifica penetrare nelladimensione spirituale del-l’identità nazionale. Neidecenni a metà del Ventesimosecolo, la vittoria la ebbe ilprotestantesimo liberale eMecaham vedrebbe con favo-re un suo ritorno in auge.Negli ultimi decenni, invece, ilconservatorismo religioso hafatto uno sforzo enorme perpromuovere una sintesi fra tra-dizionalismo evangelico pro-testante e ortodossia cattolicaromana, portandola al centrodella vita pubblica americana.Ciò ha avuto come conse-guenza un certo malumore trala popolazione non cristiana,cristiana meno fervente, o cri-stiana non dottrinaria. E oggi

comandante in capo ha unavisione diversa. Non baste-ranno poche migliaia di mili-tari in più per battere i taleba-ni. Obama candidato eObama presidente non sonopiù d’accordo.

DAMON LINKERThe future of Christian AmericaThe New RepublicApril 2009

È veramente finita l’eradell’America cristiana? Sidomanda l’autore dell’articolosull’onda di una inchiesta delsettimanale Newsweek. No,non così presto. La risposta èpiuttosto chiara, ma nascondeun cambiamento comunqueepocale. «La stampa e l’edito-ria da anni amano stupirci,annunciando la morte dimode, politiche, tendenze cul-turali, ma se si vanno a legge-re i numeri poi, al di fuori del-l’effetto annuncio, rimane benpoco. Vale anche per il titolo diun pezzo che vorrebbe leggereuna svolta epocale nella cultu-ra d’oltre Atlantico, cristianaper nascita, laica per scelta». Idati dell’inchiesta vedono ilnumero di chi non si riconoscein nessuna fede religiosaaumentare da un 8 per centodel 1990 al 15 per cento del

L A R I V I S T A D E L L E R I V I S T E a cura di Pierre Chiartano

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Anche se il surge dovesse gode-re di altri 21mila uomini, questiservirebbero giusto a rimpiaz-zare le truppe in rientro neiPaesi europei nei prossimi 2anni. Ora, visto che gli obiettivimilitari sarebbero fuori portata,a Obama non rimane che ridefi-nire la politica afgana. In prati-ca abbassare il tiro e pretenderemeno da quella missione.Mantenere la lotta ad al Qaidasenza quartiere, ma aprire aquella parte di talebani chepotrebbero indulgere a più miticonsigli, se adeguatamenteincentivati. Specialmente quellial servizio dei narco-trafficantia 10 dollari al giorno. L’espe-rienza ha insegnato che ancheacerrimi nemici come il leonedel Panshir, Massoud e il gene-rale filosovietico, l’uzbekoDastun, potevano sedersi a untavolo per negoziare una tregua.Senza dimenticare che i 15milioni di Pashtun in Afgha-nistan e i 25 milioni in Pakistansono la chiave del problema.

spiega, in qualche maniera,perché un numero meno ele-vato di americani si dichiari-no cristiani e un numeromaggiore si definisca seco-larista. Ma non spiega qualecontenuto dovrà aver la reli-gione civile americana, orache la formula catollico-pro-testante si è sarebbe rivelatainadatta per le esigenze diuna società complessa emultietnica nel Terzo mil-lennio. L’autore propone laformula del sociologoChristian Smith: il deismoteologico-terapeut ico.Questa teoria presenta unatavola delle legge in cinquepunti, che definisce lui stes-so una forma «poco attraen-te», anemica e insipida dicristianogiudaismo. 1) Dioha creato un ordine univer-sale e veglia sugli uomini esul creato. 2) Dio vuole chegli uomini si comportinobene fra loro, come afferma-no tutte le religioni. 3)L’obiettivo principale dellavita è essere felici e sentirsisoddisfatti. 4) Dio non deveessere coinvolto nella vitadegli uomini, se non perrisolvere dei problemi. 5) Lagente che si comporta beneva in paradiso quandomuore. Allo scarso appealteologico di questa formula,si accoppia però una perfet-ta funzionalità politica: èanodina, inoffensiva e tolle-rante. Sul termine diAmerica cristiana si apredunque una disputa sui con-tenuti, e secondo la visone diLinker sembrerebbe tramon-tato il vecchio asse Washin-gton-Vaticano.

gy», il sistema migliore perconfrontarsi col nemico. Nondandogli la possibilità di rinta-narsi in attesa che il vento dellaritirata soffi più forte. In Patria,l’ala dei democratici più con-traria alla guerra, teme chel’approccio obamiamo invischil’America nel conflitto, ancorapiù profondamente. In realtàgli Usa ne sarebbero già dentromani e piedi. Il piano e la squa-dra del presidente che vedeschierati Hillary Clinton,Robert Gates, Richard Holbro-oke e David Petraeus dovrannoavere il coraggio per impostareun nuovo approccio e fare scel-te anticonvenzionale per inver-tire il corso della storia. I17mila uomini del surge afga-no, più i 4mila istruttori per leforze di sicurezza porteranno iltotale dei militari Usa a 60mila,cui si aggiungono i 30mila deiPaesi Nato. I sovietici ne ave-vano 120mila, ma ne sarebberoserviti 400mila per controllaretutto l’Afghanistan. Un contosimile era stato fatto anche dalPentagono, ai tempi di Bush. Ilproblema, già affrontato daMosca è l’impossibilità didispiegare una tale schiera-mento su di un terreno la cuimorfologia, piena di imbuti estrettoie, avrebbe reso inutilel’utilizzo di brigate e battaglio-ni. Nel 2008, intervistato dalDer Spiegel il generale DanMcNeil, già comandante diIsaf, aveva calcolato in400mila gli uomini necessariper pacificare il Paese. Numerisono al di fuori della portatadelle possibilità di Usa e Nato.I 5mila rinforzi dell’Allenzaprevisti non avranno un grandeeffetto sul campo.

MILTON BEARDENObama’s WarForeign AffairsMarch/April 2009

Obama va alla guerra. Sin daisuoi primi passi il conflittosugli altipiani afgani è statol’orfanello di Washington.Dall’ottobre 2001 l’impegnomilitare nell’Asia centrale nonera ai primi posti delle prioritàdella Casa Bianca. Oggi, inve-ce con il revamping della poli-tica, anche per il Pakistan,voluto dal nuovo presidente,rischia di diventare la guerra diObama. Ne è convinto l’autoredell’articolo, capostazione Ciain Pakistan dal 1986 al ’89 eche, in un precedente interven-to su FA del dicembre 2001,aveva sottolineato i fallimentidi tutti coloro si erano cimenta-ti in Afghanistan, da Alessan-dro Magno all’Unione sovieti-ca. Oggi, gli Usa si stanno con-frontando con l’elenco com-pleto degli stessi problemi giàvisti e patiti dai protagonistiprecedenti della lunga storiaafgana. Ciò che farà l’Americanel prossimo anno sarà decisi-vo, per vedere se saprà rompe-re questa tradizione storica disconfitte. La prima mossa diObama sarebbe stata positiva.«Non ha parlato di exit strate-

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KURT JACOBSEN E SAYEED HASAN KHAN Rough Justice in PakistanHarvard International ReviewWinter 2009

Oscar Wilde affermava cheottenere ciò che si vuole,potrebbe essere peggio che non

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ottenerlo. E Nawaz Sharifpotrebbe presto apprezzare ilsignificato della saggezza delpensiero occidentale. Tutticoloro che immaginavano chela partenza del presidentePervez Mushararf avrebbesignificato un miglioramentodella vita quotidiana inPakistan sarebbero degli otti-mi candidati per un istitutopsichiatrico. Questo scenarioda Alice nel Paese delle mera-viglie ha avuto sostanzial-mente due vincitori: NawazSharif e Asif Zardari le cuifortune si sono accumulate, inuna maniera più discutibile,del destino e delle fortune diun militare che, nonostantemolti errori, sembra fossemeno soggetto a certi vizi.Nel marzo 2007 Musharrafchiese le dimissioni del presi-dente della Corte suprema,Muhammad Chaudhry. Idisordini cominciarono inmaggio e il movimento degliavvocati indipendenti si misein luce nella battaglia politica.L’estromissione di Musharafdal governo del Pakistan fuparagonata – dalla stampainternazionale – alla cacciatadi Ceausescu e di Idi Amin. Ilmondo veniva così diviso fra idittatori con i loro vizi e idemocratici con le loro virtù.Ora che Musharraf non c’èpiù, i partiti al governo si ren-dono conto che non c’è più uncapro espiatorio per il caos incui versa il Paese. Insommagli utili “tartari” non sono piùall’orizzonte. Non solo, ma ilsistema giudiziario pakistanoche, in qualche modo, è statoprotagonista del cambiamentodi regime, è rimasto quello di

L A R I V I S T A D E L L E R I V I S T E

prima. Difficilmente questosistema può essere definito opercepito come un dispensato-re di giustizia. I cittadinipachistani hanno bene inmente il “listino prezzi” peruna sentenza favorevole.Benazir Bhutto, Musharraf emolti piccoli partiti d’opposi-zione avevano negoziato unaccordo per la transizioneverso la democrazia, avendoWashington come mediatore.Musharaf che cercava garan-zie, fu spiazzato dalla decisio-ne della Corte suprema che glidiede la sgradevole sensazionedi rischiare di essere dato inpasto ai lupi. I giudici forseavevano calcolato che pursabotando la transizione,avrebbero guadagnato in con-senso popolare. Fu forse l’uni-co momento in cui lo slogan“miliatri cattivi” e “operatoridella giustizia buoni” funzio-nò. Le elezioni del febbraio2008 andarono bene a dispettodell’assassinio della Bhutto.L’eroina aprì la strada a suomarito “mister dieci percento”, il Partito del popoloraggiunse un risultato anchepiù lusinghiero di quello con-quistato nel 1970 da Ali Bhutto. L’unica attività andata in portonel suo gabinetto di primoMinistro, però è stata per Sharifquella di far arrestare Zardari.Da quando è tornata la “demo-crazia” i prezzi dei generi ali-mentari e dell’energia hannopenalizzato la popolazionepachistana e l’attivismo deitalebani è esploso. L’Occidentedopo la caduta di Musharraf èdiventato giustamente nervoso.Il problema è: quale sarà laprossima mossa di Islamabad?

cento dei voti è schizzato alleultime elezioni al 33 per cento.I laburisti, nello stesso arco ditempo, sono passati dal 12 percento al 5 per cento: un verocrollo di consensi. A dimostra-zione che di fronte a i fatti – ilterrorismo – i discorsi elettoraliservono a poco. La stessa ten-denza la si può registrare anchenella capitale Gerusalemmeche, storicamente, è stata lacittà che ha più sofferto per gliattacchi terroristici. Nella piùsecolarizzata Tel Aviv, dovenon si sono visti razzi e kami-kaze, Kadima ha fatto il pienodei voti, Likud e YisraelBeiteinu, il partito della destraradicale di Avigdor Lieberman,hanno avuto un modesto incre-mento. I dati statistici ci rac-contano che è possibile scrive-re un’equazione diretta fraattentati e spostamento di con-sensi. Nelle città colpite, dopoogni episodio cruento, i partitidella destra guadagnavano1,35 per cento di consensi elet-torali. Si potrebbe addiritturaaffermare che Hamas abbiagiocato un ruolo centrale nel-l’affermazione del nuovo falcodella politica israeliana,Liebermann. Con i 15 seggiconquistati nella Knesset,potrebbe ridurre le chance pernuove concessioni ai palestine-si, ma potrebbe anche spingereHamas verso un accordo. Siaper le trattative per il rilasciodel militare Shalit, un ragazzi-no rapito più di due anni fa, cheper quelle sulla chiusura deitunnel del contrabbando traGaza e l’Egitto. Hamas potreb-be ritenere più convenientechiudere un accordo col gover-no uscente

CLAUDE BERREBIWhat the Israeli right owes to HamasForeign Policy (web esclusive)February 2009

Le elezioni in Israele, ancorauna volta, hanno fallito nelcompito di definire un vincito-re che possa governare ilPaese. Ma i risultati delle urnesegnalano due tendenze di cuitenere conto. Primo, l’attaccodi Hamas, che ha poi provoca-to la reazione israeliana, conl’operazione Cast lead, ha ulte-riormente spostato il baricentropolitico verso destra. Secondo,nella Terra Santa, come in altreparti del mondo, le scelte poli-tiche dipendono molto da dovevivi. In questo caso, se nella tuacittà hai subito di recente attac-chi suicidi o lanci di missili daparte di Hezbollah o Hamas.Quando si arriva a dover deci-dere sulla scheda elettorale, gliabitanti di quelle zone scelgo-no, indipendentemente dacome la pensano, per la propriadifesa. Cioè votano per ladestra. Berrebi fa l’esempiodella città di Sderot, particolar-mente colpita dal lancio deimissili Qassam e Grad che par-tivano da Gaza. Nel 2006 ilpartito Likud, di Netannyahu,che aveva preso solo il 10 per

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E F I R M EL del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa

JOHN R. BOLTON: Ambasciatore, Senior Fellow all’American Enterprise Institute, già Rappresentante Usa presso le Nazioni Unite

ROBERTO CAJATI: Capo Ufficio Studi dell’Is.I.A.O. - Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo

GIOVANNI GASPARINI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali e il CeMiSs

RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina

VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano

BENIAMINO IRDI: ricercatore

GENNARO MALGIERI: deputato Pdl, giornalista e scrittore

MICHELE MARCHI: analista presso il Centro Studi per il Progetto Europeo

ANDREA MARGELLETTI: presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali

EMANUELE OTTOLENGHI: direttore del Transatlantic Institute di Bruxelles

ANTONIO PICASSO: analista Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali

ENRICO SINGER: giornalista, esperto di Affari europei

MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore

ANDREA TANI: analista militare, scrittore

DAVIDE URSO: esperto di geopolitica

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