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CAPITOLO RISCHIO AMBIENTALE RISCHIO DI ORIGINE NATURALE RISCHIO ANTROPOGENICO 5

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CAPITOLO

RISCHIO AMBIENTALE

RISCHIO DI ORIGINE NATURALERISCHIO ANTROPOGENICO

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RISCHIO AMBIENTALE

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Introduzione

Il termine rischio è spesso usato come sinonimo di eventualitàdi una perdita o di un pericolo. In termini tecnici il Rischio consi-ste nell’atteso numero di perdite umane, feriti, danni a proprietà,interruzioni di servizi e di attività economiche, in conseguenza diun particolare fenomeno di origine naturale o determinato dalleattività umane. In genere, esso è espresso dal prodotto di tre pa-rametri: R = P x V x E, dove P indica la pericolosità, V la vulnera-bilità ed E il valore esposto. La pericolosità è la probabilità cheun dato evento si verifichi con una definita intensità in una dataarea e in un determinato intervallo di tempo. La vulnerabilità espri-me la propensione di opere antropiche e beni ambientali a subi-re un danno a seguito del verificarsi di un determinato evento ca-lamitoso. L’esposizione esprime il valore dell’insieme degli ele-menti a rischio (vite umane, infrastrutture, beni storici, architet-tonici, culturali e ambientali) all’interno dell’area esposta.Nella presente trattazione della problematica legata al Rischio siè scelto di suddividere il tema in due parti: il Rischio di origine Na-turale e il Rischio Antropogenico. La scelta è stata effettuata inquanto, seppur esistano connessioni tra il rischio naturale e quel-lo indotto dall’attività antropica, questi temi presentano delle ca-ratteristiche peculiari tali da poter essere esposte distintamen-te. Si noti che in questo capitolo verranno trattate le componen-ti del rischio naturale che coinvolgono direttamente la geosferae le componenti del rischio antropogenico che attengono all’at-tività industriale.

Il rischio consiste nell’attesonumero di perdite umane,feriti, danni a proprietà,interruzioni di servizi e diattività economiche, inconseguenza di unparticolare fenomeno diorigine naturale o antropica.

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Rischio di origine naturale

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Introduzione

I naturali processi evolutivi del territorio, del suolo e del sottosuo-lo interagendo con le componenti antropiche (popolazione, abita-ti, infrastrutture, ecc.) determinano frequentemente condizioni dirischio. Il rischio naturale è il danno atteso per l’uomo e l’ambien-te a seguito del manifestarsi di particolari fenomeni suddivisibi-li in due categorie principali rispetto alle cause scatenanti: feno-meni di origine endogena, cioè scatenati da forze interne alla ter-ra, ed esogena, dovuti all’azione di forze che agiscono sulla su-perficie esterna del pianeta. In particolare, i processi endogeni simanifestano attraverso l’attività vulcanica e tettonica, mentre i pro-cessi esogeni, spesso ma non necessariamente legati a eventimeteorologici estremi, operano sulla superficie terrestre e tendo-no a livellare il paesaggio modificandone l’aspetto attraverso l’ero-sione dei rilievi e la sedimentazione nelle zone depresse. Questeazioni (sia di natura endogena sia esogena), quali eruzioni vulca-niche, terremoti, frane, alluvioni (fluviali e costiere), valanghe ederosioni accelerate (di spiagge e alvei fluviali), mettono a rischiol’incolumità delle persone e, comunque, provocano danni consi-stenti alle infrastrutture e agli insediamenti antropici che ne so-no coinvolti. L’interazione tra i suddetti fenomeni naturali e le at-tività antropiche è di tipo reciproco, così che spesso modalità inap-propriate di utilizzo e gestione del territorio sono all’origine diun’amplificazione dei dissesti in atto o dell’innesco di nuovi. Ciòè particolarmente evidente per i fenomeni di degrado delle coper-ture pedologiche (suolo s.s.), che possono compromettere, sinoa generare aree desertificate, la funzionalità dei suoli (es. erosio-ne idrica, impermeabilizzazione, compattazione, salinizzazione, con-taminazione) e per i fenomeni di erosione costiera.

La situazione

La particolare localizzazione del territorio italiano, nel contesto geo-dinamico mediterraneo (convergenza tra le placche europea e afri-cana, interposizione della microplacca adriatica, apertura delbacino tirrenico) e le peculiari modalità di risposta in superficiealla dinamica profonda, fanno dell’Italia uno dei Paesi a maggio-re pericolosità sismica e vulcanica dell’area. L’elevata pericolo-sità sismica e vulcanica, associata alla diffusa presenza di ele-menti esposti (centri abitati, infrastrutture, patrimonio architetto-nico, artistico e ambientale) e all’elevata vulnerabilità degli

Il rischio naturale simanifesta attraverso lacomparsa di fenomeni diorigine endogena (attivitàvulcanica e tettonica) e diorigine esogena (erosione deirilievi e sedimentazione nellezone depresse) allorchèinterferiscono con le attivitàantropiche.

Un utilizzo inappropriato delterritorio da parte dell’uomopuò amplificare i dissesti inatto o innescarne nuovi.

L’Italia è uno dei Paesi amaggiore pericolosità sismicae vulcanica in Europa.

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stessi determina condizioni di rischio da elevato a molto elevatoper estesi settori del territorio italiano. Le aree a maggiore rischiosismico sono localizzate nel settore friulano, lungo la dorsale ap-penninica centro-meridionale, con particolare riferimento ai set-tori di bacino intrappenninico, al margine calabro tirrenico e nel-

L’Italia è uno dei Paesi amaggiore pericolosità sismicain Europa.Le aree a maggiore rischiosismico sono quelle delsettore friulano, lungo ladorsale appenninica centro-meridionale, (bacinointrappenninico), il marginecalabro tirrenico e la Siciliasud-orientale.

1 Fonte: Elaborato da Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani – INGV

Figura 5.1: Distribuzione sul territorio nazionale dei maggiorieventi sismici (magnitudo ≥ 5,5)1

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la Sicilia sud-orientale (Figura 5.1).Le condizioni di maggiore rischio vulcanico sono ovviamente le-gate alla vicinanza ai vulcani attivi italiani e riguardano, quindi, l’areavesuviana e flegrea, l’isola d’Ischia, il settore etneo, le Isole Eo-lie e, con tutta probabilità, i Colli Albani (Figura 5.2). Rischio de-

L’Italia è uno dei Paesi amaggiore pericolositàvulcanica.Le condizioni di maggiorerischio vulcanico riguardanol’area vesuviana e flegrea,l’isola d’Ischia, il settoreetneo, le Isole Eolie e i ColliAlbani.

2 Fonte: Elaborato da Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani – INGV

Figura 5.2: Distribuzione sul territorio italiano dei principali vulcani attivi2

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cisamente inferiore, ma non del tutto trascurabile, è connesso aivulcani sottomarini, sia nel Tirreno che nel Canale di Sicilia. Nelbacino tirrenico sembra confermata l’attività del Marsili, mentremancano dati relativi all’attività degli altri edifici vulcanici sotto-marini sia dell’area tirrenica sia dell’arco eolico. La pericolositàdi tali vulcani non è però legata solo alla loro attività, ma è ancheda mettere in relazione alla probabilità di attivazione di fenome-ni gravitativi con conseguenti onde di maremoto.Gli eventi sismici e vulcanici possono anche manifestarsi congiun-tamente, come spesso avviene nell’area etnea. Inoltre, molto spes-so, ai danni connessi al solo scuotimento sismico si aggiungono(e talvolta sono anche più rilevanti) quelli prodotti da fenomeni na-turali indotti o correlati al terremoto stesso, quali frane e crolli diroccia, liquefazione, consolidazione, tsunami, fagliazione in super-ficie. Anche le manifestazioni vulcaniche presentano spesso fe-nomeni collaterali quali: attivazione di colate di fango e/o detri-ti (lahars); instabilità e conseguente collasso dei fianchi o di set-tori sommitali dell’edificio vulcanico (che possono generare tsu-nami nel caso di vulcani che si sviluppano direttamente dai fon-dali marini, come nel caso di Stromboli nel 2002); fenomeni di bra-disismo (tipici dei Campi Flegrei).Sismicità e vulcanismo non hanno presentato manifestazioni pa-rossistiche durante il 2006. Nel corso del 2006, soltanto 4 eventi sismici hanno raggiunto osuperato la soglia di magnitudo 4,5 (Figura 5.3). L’evento più for-te è stato quello di Stromboli del 26 ottobre con magnitudo paria 5,7, anche se, a causa della notevole profondità ipocentrale, nonsi sono verificati danni significativi. Gli eventi del Mar Ionio (24 novembre, M=4,7) e dell’Adriatico me-ridionale (10 dicembre, M=4,5) hanno soltanto destato preoccu-pazione nella popolazione; il sisma del Gargano (29 maggio,M=4,8) ha prodotto come unico danno rilevante il crollo della tor-re di Castelvenere, in provincia di Benevento.

Pur in assenza dimanifestazioni eclatantidurante il 2006, sismicità evulcanismo rimangono fontidi elevato rischio in Italia.

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Pur in assenza dimanifestazioni eclatantidurante il 2006, sismicità evulcanismo rimangono fontidi elevato rischio in Italia.Nel 2006 quattro eventisismici hanno avutomagnitudo pari o superiore a4,5. L’evento più forte è statoquello di Stromboli del 26ottobre con magnitudo pari a5,7.

3 Fonte: Elaborazione APAT su dati INGV

Figura 5.3: Principali eventi sismici registrati nel corso del 2006con indicazione dei 4 terremoti di magnitudo più elevata3

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In assenza di terremoti di magnitudo almeno prossima a 6, nonsono stati registrati effetti di fagliazione superficiale. Va però rilevato che il territorio italiano è caratterizzato dalla pre-senza di numerose faglie capaci (faglie attive in grado di produr-re dislocazioni/deformazioni significative della superficie topogra-fica), l’analisi della distribuzione delle aree urbanizzate in relazio-ne alle suddette faglie dimostra chiaramente come in molti set-tori del territorio italiano si raggiungano livelli critici di esposizio-ne a fagliazione in superficie (Figura 5.4).

Il territorio italiano ècaratterizzato dalla presenzadi numerose faglie attivecapaci di produrresignificative fratture nelsuolo, con spostamenti anchesuperiori al metro.

Le zone maggiormentecritiche sono localizzate inSicilia orientale, Calabriatirrenica e settore prealpinoveneto-friulano.

4 Fonte: APAT

Figura 5.4: Classi dei valori dell’Indice di Fagliazione Superficiale(IFS) per ciascuna delle zone della zonazione sismogenetica ZS94

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L’indice IFS (Indice di Fagliazione Superficiale), definito utilizzan-do come dati di ingresso le faglie capaci estratte dalla banca da-ti ITHACA (ITaly HAzard from CApable fault), la distribuzione dellearee urbane mappata dal CORINE Land Cover 2000 e la Zonazio-ne Sismogenetica ZS9, mostra come le zone maggiormente cri-tiche siano localizzate in Sicilia orientale, Calabria tirrenica e set-tore prealpino veneto-friulano (Figura 5.4).Per quanto concerne il “dissesto idrogeologico” (o meglio “geo-logico-idraulico”), i dati inerenti gli eventi alluvionali connessi aiprincipali fenomeni meteorici accaduti in Italia dal dopoguerra adoggi (1951-2006), evidenziano come, nonostante i recenti even-ti calamitosi di Sarno (1998), Soverato e Piemonte/Valle d’Aosta(2000), si assista a una certa diminuzione dei danni e delle vit-time prodotti dalle alluvioni nel tempo. In media, le vittime cau-sate da eventi alluvionali sono, infatti, passate da un centinaio peranno negli anni ’60, a qualche decina per anno nell’ultimo tren-tennio, anche se alcuni dati tra quelli riportati sono ascrivibili asingoli eventi meteorologici (1954, Salerno; 1998, Sarno) di ca-rattere estremo. Tra gli eventi considerati, molti sono quelli chehanno causato più di 5 vittime, mentre per 4 eventi è stata supe-rata la soglia del centinaio (Figura 5.5).Relativamente alla stima economica del danno, le informazioni ri-cavate da valutazioni effettuate da regioni e province, mostranoun danno complessivo non inferiore a 5 miliardi di euro per il pe-riodo 2001-2006.

Dissesto idrogeologico: negliultimi anni si è avuta unadiminuzione dei danni e dellavittime prodotte da eventiestremi.

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Il decremento che si riscontra nel numero delle vittime e dei dan-ni occorsi a seguito di eventi alluvionali potrebbe essere imputa-bile, oltre a un miglioramento dei sistemi di difesa del territorioe di mitigazione del rischio, anche a una naturale oscillazione del-l’intensità e della durata dei fenomeni. Sull’entità dei danni han-no peraltro notevole influenza anche parametri legati alla gestio-ne del territorio da parte dell’uomo, quali l’antropizzazione e la mo-

Frane e alluvioni rimangonotra le maggiori cause dirischio naturale in vasteporzioni di territorio.Negli ultimi anni si èregistrata una diminuzionedei danni e delle vittimeprodotte, da eventi estremi.Gli eventi che hannosuperato la soglia delcentinaio sono 4 e risalgonoal 1998, 1966, 1954, 1951.

La diminuzione dei danni èprobabilmente dovuta almanifestarsi di un insieme difattori, come il miglioramentodei sistemi di difesa delterritorio e di mitigazione delrischio e la naturaleoscillazione dell’intensità edella durata dei fenomeni.

5 Fonte: APAT

053003052002051001050 .n

2006200520042003200220012000199919981996199519941993199219911990198719861984198319821981197819771976197219701968196619651957195419531951

Vittime Sarno

Figura 5.5: Vittime delle principali alluvioni in Italia5

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difica delle aste fluviali, le variazioni d’uso del suolo, le pratichedi gestione dei suoli agricoli.Nel decennio 1990-2000 le aree urbanizzate sono aumentate dicirca il 6%, ciò si traduce, per le aree interessate, nella perdita del-la capacità di assorbimento e ritenzione idrica dei suoli e nell’au-mento del deflusso superficiale con maggiore possibilità di repen-tini eventi alluvionali. Effetti simili sono prodotti anche dai feno-meni di compattazione che interessano sicuramente, nonostan-te manchi ancora un quadro conoscitivo omogeneo, gran parte deiterritori agricoli nazionali adibiti a coltura intensiva.In merito ai dissesti di versante, l’Italia presenta un’esposizioneal rischio da frana particolarmente elevata (Figura 5.6), a causadelle sue caratteristiche morfologiche (75% del territorio monta-no-collinare). Le frane sono le calamità naturali che si ripetono con maggiorefrequenza e causano, dopo i terremoti, il maggior numero di vit-time e di danni a centri abitati, infrastrutture, beni ambientali, sto-rici e culturali. Solo in questi ultimi venti anni si ricordano gli even-ti catastrofici in Val Pola (1987), in Piemonte (1994), in Versilia(1996), a Sarno e Quindici (1998), nell’Italia nord-occidentale(2000) e nella Val Canale - Friuli Venezia Giulia (2003). A dicem-bre 2006, i fenomeni franosi verificatisi in Italia e censiti sono sta-ti quasi 470.000 e hanno interessato un’area di circa 20.000 km2,pari al 6,6% del territorio nazionale. Tale censimento è stato ef-fettuato tramite il Progetto IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosiin Italia), realizzato dall’APAT e dalle regioni e province autonome,con l’obiettivo di identificare e perimetrare i movimenti franosi se-condo modalità standardizzate e condivise. L’indice di franosità,pari al rapporto tra l’area in frana e la superficie totale calcolatosu maglia di lato 1 km, fornisce un quadro della distribuzione del-le frane in Italia (Figura 5.6b).

Le frane oltre a essere tra lecalamità che si verificano conmaggior frequenza, sono,dopo i terremoti, anchequelle che provocano piùvittime.In Italia nel 2006 sono statecensite quasi 470.000 franee hanno interessato un’areadi circa 20.000 km2.

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I dati rilevati da IFFI evidenziano come le tipologie di movimentopiù frequenti (classificate in base al tipo di movimento prevalen-te) siano gli scivolamenti rotazionali/traslativi con circa il 33%, icolamenti lenti con il 15,5%, i colamenti rapidi con quasi il 15%e i movimenti di tipo complesso con l’11,6%. Gran parte dei fe-nomeni franosi presentano delle riattivazioni nel tempo; spessoa periodi di quiescenza di durata pluriennale o plurisecolare si al-ternano, in occasione di eventi meteorologici estremi, periodi dirimobilizzazione, come ad esempio accade per la quasi totalità del-le frane dell’Appennino emiliano romagnolo caratterizzate damovimenti lenti. Al contrario, i fenomeni di neoformazione sonopiù frequenti nelle tipologie di movimento a cinematismo rapido,quali crolli o colate di fango e detrito.I comuni italiani interessati da frane sono ad oggi 5.596, pari al69% del totale. Le elaborazioni GIS effettuate incrociando le in-formazioni contenute nel Progetto IFFI con gli elementi a rischio(Figura 5.7) al fine di ottenere una prima valutazione del rischio

In Italia il rischio da frana èparticolarmente elevato acausa della sua morfologia(75% del territorio èmontano-collinare).A dicembre 2006 i fenomenifranosi identificati, coprivanoil 6,6% del territorionazionale.

I comuni italiani interessatida frane sono ad oggi 5.596,pari al 69% del totale.

6 Fonte: APAT

Figura 5.6: a) Modello orografico d’Italia; b) Indice di Franosità (%)6

a) b)

Modello orografico d’ItaliaTerritorio montano-collinareTerritorio di pianuta

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da frana sul territorio italiano, evidenziano come 2.839 comunisiano stati classificati con livello di attenzione molto elevato (in-tersezione tra frane e tessuto urbano continuo e discontinuo, areeindustriali o commerciali), 1.691 comuni con livello di attenzioneelevato (intersezione tra frane e rete autostradale, ferroviaria e stra-dale, aree estrattive, discariche e cantieri), 1.066 comuni con li-vello medio (intersezione tra frane e superfici agricole, territori bo-scati e ambienti semi naturali, aree verdi urbane e aree sportivee ricreative) e 2.505 con livello di attenzione trascurabile (comu-ni nei quali non è stata censita alcuna frana).Non tutte le frane, però, sono pericolose in egual modo, sicura-mente quelle con elevate velocità di movimento (quali crolli e co-late rapide di fango e detrito) e quelle che coinvolgono ingenti vo-lumi di roccia o terreno causano i danni più ingenti.Attualmente circa il 10% del nostro Paese è classificato a eleva-to rischio per alluvioni, frane e valanghe, interessando totalmen-te o in parte il territorio di oltre 6.600 comuni italiani. Il censimen-to aggiornato a gennaio 2006 indica che su circa 30.000 km2 diaree ad alta criticità, il 58% di esse appartiene ad aree in frana,mentre il 42% ad aree esondabili. I risultati evidenziano una si-tuazione di assoluta fragilità del territorio italiano aggravata dalfatto che più di 2/3 delle aree esposte a rischio interessano cen-tri urbani, infrastrutture e aree produttive strettamente connessecon lo sviluppo economico e sociale del Paese.

L’Italia è un territorio fragile,circa il 10% è classificato aelevato rischio per alluvioni,frane e valanghe, e più di2/3 delle aree esposte arischio interessano centriurbani, infrastrutture e areeproduttive.

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Notevole rilevanza economica riveste anche il fenomeno dell’erosione idrica dei suoli. I danni arrecati dall’erosione, chesi manifestano in perdita di suolo, di fertilità, di biodiversità, so-no in molti casi tali da richiedere interventi correttivi, soprattut-to nei territori agricoli di pregio, economicamente molto rilevan-ti. Le elaborazioni evidenziano che circa il 30% dei suoli italianipresenta un rischio d’erosione superiore alla soglia di tollerabi-lità. Tali stime, realizzate tramite modelli a scala nazionale, risen-tono delle approssimazioni dei dati utilizzati. Un quadro più rispon-dente all’effettiva situazione è in via di realizzazione tramite il pro-

L’Italia è un territorio fragile,circa il 10% è classificato aelevato rischio per alluvioni,frane e valanghe, e più di2/3 delle aree esposte arischio interessano centriurbani, infrastrutture e areeproduttive.

2.839 comuni sono staticlassificati con livello diattenzione molto elevato,1.691 comuni con livello diattenzione elevato, 1.066comuni con livello medio e2.505 con livello diattenzione trascurabile.

Il fenomeno dell’erosioneidrica dei suoli generaimportanti ripercussionieconomiche.

7 Fonte: APAT

Figura 5.7: Livello di attenzione da rischio frana, su base comunale7

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getto di armonizzazione delle informazioni regionali coordinato daAPAT con la partecipazione del CRA, del JRC e delle regioni italia-ne (Progetto SIAS).I dati relativi all’erosione e all’allagamento delle aree costiere, fe-nomeni presenti con una rilevanza notevole nel nostro territorio evi-denziano, dagli anni ‘70 ad oggi, una generale tendenza all’arre-tramento delle coste sabbiose italiane. Attualmente sono già in evi-dente stato di erosione e a rischio allagamento 1.500 dei circa4.600 km di coste basse italiane, piane costiere comprese, ovve-ro quasi il 20% del totale dei circa 8.350 km di coste italiane.

La necessità di attuare una gestione integrata delle coste su am-pia scala e di adottare opportuni accorgimenti per contrastare l’ero-sione costiera, ha portato all’elaborazione di indici numerici perla valutazione delle condizioni di rischio nella fascia litoranea ap-plicando alle coste italiane i metodi proposti dal Progetto EURO-SION.

Il 20% del totale (8.350 km)di coste italiane sono in statoevidente di erosione e rischiodi allagamento.

L’erosione e l’allagamentodelle aree costiere incidononotevolmente sul nostroterritorio.Dagli anni ‘70 ad oggi, siriscontra una generaletendenza all’arretramentodelle coste sabbiose italiane.Il 20% del totale (8.350 km)di coste italiane sono in statoevidente di erosione e rischiodi allagamento.

La gestione integrata dellecoste ha richiestol’elaborazione di indicinumerici per la valutazionedelle condizioni di rischio.

8 Fonte: APAT

Figura 5.8: Variazione > 25m della linea di costa bassae dell’indice di dinamica costiera8

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Innanzitutto si è proceduto alla delimitazione della zona costieraindicata come RICE9, area potenzialmente soggetta a fenomeni dierosione e di inondazione entro i prossimi 100 anni (Figura 5.9a).Va evidenziato, in proposito, come l’area potenzialmente a ri-schio occupi 954.379 ha, pari al 3,17% dell’intera superficie na-zionale, e interessi 5.276.535 di abitanti, pari al 9,12% dell’inte-ra popolazione. Di questa area si stima che una superficie di336.746 ha (1,12% della superficie nazionale) e una popolazionedi 2.133.041 (3,69% della popolazione totale) si trovino espostea un rischio medio-alto o alto (Figura 5.9b).

L’area potenzialmentesoggetta a fenomeni dierosione e di inondazioneentro i prossimi 100 anni occupa 954.379 ha, pari al3,17% dell’intera superficienazionale e interessa circa5,3 milioni di abitanti, pari al9,12% dell’interapopolazione. Di questa areasi stima che una superficie di336.746 ha (1,12% dellasuperficie nazionale) e unapopolazione di 2.133.041(3,69% della popolazionetotale) si trovino esposte a unrischio medio-alto o alto.

9 Radium of Influence of Coastal Erosion: il luogo geometrico dei punti che sod-disfano almeno una delle seguenti due condizioni: distanza dalla costa nonsuperiore a 500 metri; quota non superiore ai 5 metri slm*. Per tenere contodegli errori connessi con la definizione del DTM (Modello digitale del terreno)ed evitare la sottostima delle aree con quota non superiore a 5 metri, è stataconsiderata come curva di livello limite quella corrispondente al valore 10 m.10 Fonte: APAT

Figura 5.9: a) Area di RICE in Italia e b) Mappa del rischiocostiero, articolato per comune10

a) b)

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Le cause

Come precedentemente detto, fenomeni quali terremoti e vulca-nismo sono dovuti al particolare contesto geologico in cui si tro-va il nostro Paese. Queste manifestazioni, essendo collegate aprocessi naturali, comportano un rischio legato alla loro probabi-lità di accadimento e all’interazione con elementi connessi alleattività umane. Anche l’evoluzione dei principali fenomeni di dissesto, gravitativie idraulici attivi nella penisola italiana, viene influenzata sia da fat-tori naturali sia antropici. Tra i primi si evidenziano, oltre alla con-formazione morfologica del territorio, che dipende dall’assetto geo-logico-strutturale e dalle caratteristiche litologiche, il tipo e l’esten-sione delle coperture vegetazionali e le condizioni meteoclimati-che. Il particolare regime pluviometrico degli ultimi decenni, carat-terizzato da una riduzione media delle precipitazioni e da una va-riazione nella loro distribuzione temporale (con maggiore occorren-za di fenomeni intensi e di breve durata, detti “estremi”), da un la-to potrebbe aver indotto in alcune aree una diminuzione del nume-ro degli eventi alluvionali di media intensità, ma dall’altro potreb-be aver favorito un aumento dei fenomeni di dissesto dei versan-ti. I meccanismi fisici che regolano l’innesco e l’evoluzione di even-ti idrogeologici critici sono comunque molto complessi ed estrema-mente non lineari. La corrispondenza tra eventi pluviometrici e mo-vimenti franosi o eventi di piena è influenzata, infatti, da numero-si fattori, i quali possono provocare differenti effetti da luogo a luo-go, anche in situazioni apparentemente simili.Tra le cause del “dissesto idrogeologico”, quelle di origine antro-pica vanno assumendo un peso sempre più rilevante, in quanto le-gate a un uso del territorio non attento alle caratteristiche e ai de-licati equilibri idrogeologici dei suoli italiani. Le esigenze impostedallo sviluppo socio-economico e demografico hanno portato a unosfruttamento del territorio non sempre rispettoso delle sue voca-zioni naturali. Ne è un chiaro esempio la forte espansione post-bel-lica dei centri abitati e delle infrastrutture industriali in aree di pia-nura alluvionale. Tale sviluppo, insieme agli indubitabili benefici so-cio-economici, ha comportato anche un “ingessamento” del terri-torio a causa di opere sempre più invasive (come ad es. argini, di-ghe, canali, bonifiche,muri di sostegno) che ne hanno impedito l’evo-luzione secondo dinamiche naturali. Tali opere, più o meno effica-ci nel breve-medio periodo, necessitano, tra l’altro, di sempre piùonerosi e ingenti interventi di manutenzione.

L’evoluzione dei principalifenomeni di dissesto nellaPenisola italiana vieneinfluenzata da fattori sianaturali sia antropici.

I meccanismi fisici cheregolano l’innesco el’evoluzione di eventiidrogeologici critici sonomolto complessi, fortementenon lineari.Le cause di origine antropicavanno assumendo un pesosempre più rilevante.

L’uso del territorio nonattento alle caratteristiche eai delicati equilibri geologici-idraulici dei suoli italiani puòessere considerato, oggi, unadelle principali cause deldissesto idrogeologico.

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Nelle aree montane, invece, il progressivo spopolamento ha por-tato all’abbandono delle colture tradizionali con effetti anch’es-si negativi per la difesa del suolo. Nelle aree collinari e di pianura, lo sviluppo delle pratiche coltura-li associate all’agricoltura intensiva è alla base del forte incremen-to della perdita di suolo per erosione idrica, con conseguente di-minuzione di fertilità oltre a un incremento del trasporto solido deicorsi d’acqua e problemi di interramento dei bacini artificiali.Tali pratiche agricole sono anche responsabili dell’insorgenza deifenomeni di compattazione superficiali e profondi (suola d’aratu-ra), che limitando/impedendo la capacità di infiltrazione delle ac-que di precipitazione determinano frequenti sommersioni deisuoli, con gravi danni alle colture per asfissia radicale, e incremen-tano il deflusso superficiale determinando una diminuzione dei tem-pi di corrivazione nei bacini idrografici.

L’abbandono totale dellecolture tradizionali e l’impiegodi tecniche intensive hacomportato effetti negativiper il suolo in termini didiminuzione della fertilità ecompattazione.

Un suolo in condizioni naturali èin grado, in funzione della sua po-rosità, permeabilità e umidità, ditrattenere una grande quantitàdelle acque di precipitazione at-mosferica contribuendo a regola-re il deflusso superficiale.Al con-trario, in un ambiente antropizza-to, la presenza di superfici imper-meabilizzate, la riduzione della ve-getazione, l’asportazione dellostrato superficiale ricco di so-stanza organica e l’insorgere di fe-nomeni di compattazione deter-minano un grave scadimento del-la funzionalità del suolo. La dimi-nuzione dell’evapotraspirazione edella capacità di assorbimentodelle acque da parte del suolo de-terminano un incremento delloscorrimento superficiale, con au-mento dei fenomeni erosivi e tra-sporto nei collettori naturali digrandi quantità di sedimento. I va-lori riportati in figura sono pura-mente indicativi. Essi variano,anche sensibilmente, in funzionedi molteplici parametri (caratteri-stiche fisico-chimiche del suolo,topografia, geologia, durata e in-tensità delle precipitazioni, ecc.).

Figura 5.10: Schema indicativo di un suolo naturale e di unoantropizzato

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Anche gli ambiti costieri e i bacini idrografici a essi sottesi (sud-divisi in unità fisiografiche), presentano una conformazione cheè il risultato di una complessa interazione fra numerosi fattori, trai quali quello umano risulta essere preponderante. Questi para-metri comprendono in particolare i processi di erosione, il traspor-to e la deposizione, la costruzione di opere rigide per la difesa del-le coste e l’erosione, e l’instabilità dei versanti.Tra le cause dell’incremento dei processi di erosione costiera ed’inondazioni marine vanno dunque annoverate, unitamente all’in-cremento dell’urbanizzazione nella fascia costiera:� la riduzione di apporto solido fluviale alle spiagge intrappolato

dalle opere di stabilizzazione dei versanti, di regimazione fluvia-le e nelle opere di sbarramento o prelevato in alveo (a dominan-za antropica più che naturale);� gli effetti di mareggiata concomitanti con eventi alluvionali, che

comportano fenomeni parossistici di erosione nelle zone di fo-ce in cui l’ondata di piena giunge al mare;� l’aumento relativo del livello del mare a causa degli effetti con-

comitanti di abbassamento del suolo per subsidenza naturalee antropica, nonché movimenti eustatici.

Sebbene la conoscenza relativa allo stato del sistema costiero siaancora insufficiente in termini di omogeneità a livello nazionalee di dettaglio di scala, i dati raccolti sembrano evidenziare una con-tinua perdita di territorio litorale.

Le soluzioni

Le attività sismiche e vulcaniche, le inondazioni, le frane e i feno-meni di erosione costiera sono espressione della naturale dina-mica del pianeta, pertanto l’uomo non ha grandi possibilità di in-tervento. Tuttavia, le condizioni di rischio possono essere note-volmente ridotte attraverso un’attenta pianificazione del territo-rio e l’introduzione di strumenti normativi che dispongano limita-zioni d’uso del suolo e/o prescrizioni tecniche ingegneristiche. Perun’efficace azione di mitigazione del rischio è, quindi, indispen-sabile superare l’approccio emergenziale, che prevede una rispo-sta post evento, attraverso un’azione congiunta di previsione e pre-venzione.Mentre la previsione può essere effettuata tramite specifici stu-di delle zone soggette a rischio, al fine di determinare la proba-bilità dei tempi di ritorno degli eventi, la prevenzione dovrebbe con-sistere nella determinazione di scelte e nell’applicazione di accor-

L’azione dell’uomo ha avutonotevoli effetti anche sullecoste e sui bacini idrografici.

Per limitare le situazioni dirischio occorre un’attentapianificazione e l’introduzionedi adeguati strumentinormativi.

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gimenti tecnici calibrati sulla base delle conoscenze acquisite. Pur-troppo in tale campo non sempre sono state fatte scelte oppor-tune: gran parte degli edifici del nostro Paese non rispetta i ne-cessari requisiti antisismici, sia perché il patrimonio storico so-lo raramente è stato adeguato alle normative antisismiche vigen-ti, sia perché la forte espansione urbana dal dopoguerra sino adoggi ha risentito della mancanza di una attenta pianificazione ter-ritoriale e troppo spesso è stata caratterizzata dal deprecabile ri-corso all’abusivismo edilizio. La classificazione sismica del ter-ritorio nazionale, evolutasi soprattutto a seguito del terremoto del-l’Irpinia del 1980, rispecchia lo stato dell’arte delle conoscenzesulla pericolosità sismica in Italia (Figura 5.11). Essa fornisce inmodo dettagliato i valori di accelerazione orizzontale massima alsuolo e consente l’adozione di adeguati criteri progettuali antisi-smici, la cui obbligatorietà è però fissata soltanto per le nuove co-struzioni, senza considerare l’eventualità di adeguamenti antisi-smici del patrimonio edilizio esistente.

La previsione può essereeffettuata tramite specificistudi delle zone soggette arischio.La prevenzione dovrebbeconsistere nelladeterminazione di scelte enell’applicazione diaccorgimenti tecnici calibratisulla base delle conoscenzeacquisite. Purtroppo in talecampo non sempre sonostate fatte scelte opportune.

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Analogamente, l’incontrollato sviluppo urbano in aree a elevatapericolosità vulcanica, come quella dei Campi Flegrei, di Ischia edel Vesuvio, rende tali aree tra le più a rischio al mondo. Nel ca-so di Vesuvio e Campi Flegrei, il Dipartimento di Protezione Civi-le ha predisposto appositi piani di emergenza, attualmente in re-

La classificazione sismica delterritorio nazionale, evolutasisoprattutto a seguito delterremoto dell’Irpinia del1980, rispecchia lo statodell’arte delle conoscenzesulla pericolosità sismica inItalia.

La mappa esprime lapericolosità sismica in terminidi accelerazione massima dalsuolo con probabilità dieccedenza del 10% in 50anni riferita ai suoli rigidi(Vs30 > 800 m/s; cat. A,punto 3.2.1 del DM14.09.2005).

Figura 5.11: Mappa di pericolosità sismica del territorio nazionale11

11 Fonte: INGV

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visione, volti a gestire le fasi emergenziali di eventuali eruzioni an-che tramite l’evacuazione delle aree ritenute a rischio sulla basedegli scenari eruttivi di riferimento. Sarebbe, comunque, neces-sario e auspicabile che tale pianificazione fosse accompagnatasia da un’azione di decongestionamento di una situazione urba-nistica inconciliabile con la presenza di strutture vulcaniche atti-ve, sia da un’opera di corretta sensibilizzazione della popolazio-ne che comprenda la coscienza dell’ineluttabilità dell’evento, del-la possibilità di lunghi tempi d’attesa e di falsi allarmi, e la pos-sibilità che l’eruzione si manifesti con intensità e modalità diver-se da quelle previste. Va, inoltre, rilevato che in molti settori delterritorio italiano l’urbanizzazione si è sviluppata su strutture tet-toniche attive in grado di produrre dislocazioni/deformazioni si-gnificative della superficie topografica (faglie capaci). In tali casi,la valutazione del rischio sismico, tradizionalmente fondata suglieffetti indotti dallo scuotimento, è sottostimata in quanto non tie-ne conto degli effetti legati alla fagliazione superficiale. Il quadro normativo e programmatico in materia di difesa del suo-lo è tuttora sostanzialmente regolamentato, in Italia, in manieraorganica dalla Legge 183/89 (attualmente in via di modifica/abro-gazione con il D.Lgs. 152/06). Questo provvedimento normativoha profondamente innovato la materia della difesa del suolo, di-sponendo l’integrazione degli istituti speciali tramandati dalla le-gislazione precedente in un nuovo quadro organizzativo-istituzio-nale. Su tale base viene definita una programmazione degli inter-venti di mitigazione del rischio secondo quanto contenuto nel Pia-no di Bacino Idrografico, inteso come piano territoriale di setto-re, strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo me-diante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le nor-me d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valoriz-zazione del suolo. Per una migliore pianificazione territoriale, nel-la Legge 183/89 viene prevista la possibilità di redazione di pia-ni stralcio relativi a settori funzionali, intercorrelati rispetto ai con-tenuti del Piano di Bacino, che rimane comunque lo strumento ge-nerale e organico dell’azione di pianificazione.A settembre 2006 lo stato di attuazione dei PAI (Piani stralcio perl’Assetto Idrogeologico) a livello nazionale era ormai giunto allafase conclusiva con l’approvazione di 27 PAI, l’adozione di 8 pro-getti di PAI, mentre in 3 casi la pianificazione risultava ancora incorso.Un contributo determinante nell’applicazione della normativa perla difesa del suolo si deve al DL 180/98 (detto “Decreto Sarno”,

A settembre 2006 risultavanoapprovati 27 PAI e adottati 8progetti di PAI. In tre casi lapianificazione risultava incorso.

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convertito in Legge 267/98), emanato nel 1998 dopo la tragediadi Sarno (Campania) con l’intento di accelerare l’applicazione del-la Legge 183/89 (sino ad allora in gran parte disattesa), con prio-rità assoluta per le aree “a rischio idrogeologico elevato e moltoelevato”. Si deve a questo Decreto Legge, oltre a un’immediata in-dividuazione delle zone con maggior criticità (Piani Straordinari),l’introduzione e la definizione di “Programmi di interventi urgentiper la riduzione del rischio idrogeologico”. In questo contesto normativo, divengono fattori predominanti perla previsione e la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la prope-deutica fase conoscitiva finalizzata al censimento e alla raccoltadi informazioni sui fenomeni (es. Progetto IFFI, Progetto AVI, etc.),il monitoraggio con reti strumentali e la simulazione di scenarid’evento. Una corretta politica di pianificazione territoriale vieneattuata mediante la programmazione di interventi sia di tipo nonstrutturale (adozione di misure di salvaguardia, applicazione di vin-coli di disciplina d’uso del territorio, pianificazione di attività di pro-tezione civile, con la redazione di piani di emergenza), sia di tipostrutturale (realizzazione di interventi di sistemazione varia, manu-tenzione degli alvei e delle opere di difesa, delocalizzazioni o piùin generale di modifica attiva delle dinamiche e dei dissesti in at-to). A tale riguardo il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Ter-ritorio e del Mare a partire dal 1998, ai sensi del DL 180/98 es.m.i., ha finanziato 2.270 interventi urgenti per la riduzione delrischio idrogeologico, in larga parte di tipo strutturale, per un tota-le di oltre 1,7 miliardi di euro. In particolare, gli interventi finanzia-ti interessano per la maggior parte dissesti gravitativi (47%), su-bordinatamente dissesti idraulici (21%) e dissesti misti o valanghi-vi (per il 29% degli interventi non viene indicato, nel decreto di ap-provazione la tipologia di dissesto prevalente).Un contribuito alla programmazione degli interventi di mitigazio-ne del rischio idrogeologico viene dato anche dalla realizzazionedel progetto ReNDiS (Repertorio Nazionale degli interventi per ladifesa del suolo), ideato dall’APAT con lo scopo di fornire un qua-dro unitario, sistematicamente aggiornato, delle opere e delle ri-sorse impegnate nel campo di difesa del suolo, da condividere tratutte le Amministrazioni che operano nella pianificazione e attua-zione degli interventi stessi. In tale ambito il ReNDiS si proponecome uno strumento conoscitivo, potenzialmente in grado di mi-gliorare il coordinamento e, quindi, l’ottimizzazione della spesa na-zionale per la Difesa del Suolo. Mediante la pubblicazione dei da-ti, il Repertorio vuole rispondere alle esigenze di “trasparenza” sul-

Per la previsione e laprevenzione di fenomeni didissesto sono determinanti lefasi conoscitiva, le azioni dimonitoraggio con retistrumentali e scenarid’evento, nonchéun’opportuna pianificazioneterritoriale.

Il MATTM ha finanziato 2.270interventi per la riduzione delrischio idrogeologico.

Il progetto ReNDiScontribuisce allaprogrammazione degliinterventi di mitigazione delrischio idrogeologico fornendoun quadro aggiornato dacondividere con leAmministrazioni.

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l’operato delle Pubbliche Amministrazioni nel campo della difesadel suolo. In questo modo si vuole contribuire a diffondere unamaggiore conoscenza sulle problematiche della difesa del suoloe su come esse siano strettamente legate a un corretto utilizzodel territorio.Anche la diffusione delle informazioni sui fenomeni franosi tra leAmministrazioni pubbliche centrali e locali e tra la popolazione,riveste grande importanza ai fini della prevenzione del rischio. L’In-ventario dei Fenomeni Franosi in Italia (IFFI) rappresenta, infatti,un importante strumento conoscitivo di base per una corretta pia-nificazione territoriale. La sensibilizzazione dei cittadini, inoltre,determina una maggior consapevolezza dei rischi che interessa-no il proprio territorio e dei comportamenti da adottare prima, du-rante e dopo l’evento. A tale scopo l’APAT ha realizzato un servi-zio di consultazione online della cartografia del Progetto IFFI(www.sinanet.apat.it/progettoiffi) che consente di interrogare labanca dati acquisendo informazioni sulle frane e visualizzare do-cumenti, foto e filmati.Iniziative atte a mitigare il degrado dei suoli agricoli sono state in-traprese, sia a livello nazionale con il nuovo PSN (Piano Strategi-co Nazionale di sviluppo rurale), sia a livello europeo con la nuo-va PAC (Politica Agricola Comune), che prevede l’obbligo di man-tenere i terreni agricoli in buone condizioni agronomiche e ambien-tali. Nel 2006 la Commissione Europea ha adottato la “Soil The-matic Strategy” che include una proposta di “Direttiva Quadro sul-la Protezione del Suolo” (COM(2006)232). Nella proposta sonoidentificate le principali minacce che possono compromettere lefunzionalità dei suoli (tra le quali erosione, impermeabilizzazione,compattazione, frane) per le quali sarà necessario identificare learee a rischio e predisporre le opportune misure di mitigazione.Per le alluvioni, originariamente incluse nella strategia(COM(2002)179), è attualmente in preparazione un’apposita di-rettiva.Anche per l’analisi dell’erosione costiera la diffusione dei dati rap-presenta un fattore rilevante. Si ritiene, infatti, estremamente ne-cessaria la fruizione e l’utilizzo dei dati di base esistenti a scalanazionale (di grande accuratezza e con teorica disponibilità di in-formazioni cartografiche, maggiore che in altri paesi) al fine di col-mare la rilevante lacuna riguardante la disomogeneità delle cono-scenze e le difficoltà di accesso ad esse. Ciò che manca, attual-mente, è una consuetudine all’accesso e alla condivisione di que-sti dati. È quindi fondamentale coordinare le tecniche e i prodot-

Un valido strumento diprevenzione del rischio è ladiffusione delle informazionisui fenomeni franosi tra lapopolazione e le pubblicheamministrazioni, consentendodi acquisire maggioreconsapevolezza delle insidiepresenti sul proprio territorio.

Strumenti quali il PSN e laPAC rappresentano validiinterventi per la mitigazionedel degrado dei suoli agricoli.

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ti del rilevamento e assicurare la condivisione incondizionata dibasi cartografiche ed elaborati tematici “strategici” tra i diversiEnti e ambiti amministrativi centrali, regionali e locali.Le opzioni di riduzione della vulnerabilità per le aree costiere ita-liane partono dal presupposto che non è economicamente soste-nibile immaginare interventi di difesa indiscriminati su tutti gli ol-tre 4.600 km di coste basse sabbiose italiane. Anche solo inter-venire sugli attuali circa 1.500 km di coste già in erosione richie-derebbe investimenti iniziali enormi (dell’ordine di 2 miliardi di Eu-ro) e ripetuti nel tempo, nonché l’impiego di quantitativi di sedi-menti per ripascimento dell’ordine di 150-200 milioni di metri cu-bi iniziali, senza contare i quantitativi necessari alla conservazio-ne degli interventi. Tali quantitativi, del resto, con le necessariecaratteristiche fisiche e di qualità, sarebbero difficilmente repe-ribili in tutte le zone interessate dai fenomeni, stante anche l’at-tuale normativa di settore. Le soluzioni possibili per attuare le strategie di adattamento sono:� l’abbandono di aree alla loro evoluzione naturale;� la conservazione e/o ricostruzione di zone naturali di interfac-

cia “morbida” tra terra e mare;� la conservazione e/o ricostruzione delle dune costiere;� la messa in atto di strategie di pianificazione territoriale per evi-

tare ulteriori compromissioni in termini di vulnerabilità anche at-traverso vincoli di pianificazione;� la difesa della posizione relativa terra-mare con opere morbide

(ripascimenti) piuttosto che rigide;� l’aumento della resilienza morfologica della spiaggia emersa (du-

ne) e sommersa (barre, ecc.);� interventi normativi volti a sovraordinare ai Piani Regolatori Co-

munali (PRC) le indicazioni dei piani di gestione costiera, e al-la introduzione della Valutazione Ambientale Strategica (VAS) nelprocesso di valutazione dei piani costieri. Il sistema di valuta-zione dovrebbe inoltre essere indipendente dal soggetto che ela-bora il piano.

La prima e la seconda strategia richiamano il principio di rinuncia-re alla guerra di posizione tra terra e mare aprendo alle opzioniche prevedono una modalità diversa di convivenza nelle aree co-stiere, in cui gli insediamenti abitativi e produttivi trovano un nuo-vo equilibrio con i valori e le dinamiche naturali. Questo implicaun’azione di pianificazione su un vasto areale (almeno regionale,se non a scala di versanti marini) che consideri non solo l’impat-to dell’opera nell’immediato territorio limitrofo, ma anche la sua

Il rischio di erosione costieranecessita di una attentapianificazione eprogrammazione degliinterventi, data la loroonerosità.

Le soluzioni possibili perattuare le strategie diadattamento sono molteplici ecomportano un diversodispendio di risorse.

Il rischio di erosione richiede unequilibrio tra insediamentiabitativi/produttivi evalori/dinamiche naturali.Occorre non solo prendere inconsiderazione l’impatto chel’opera produce nell’immediato,ma anche la sua interazionecon il sistema costiero amedio-lungo termine.

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interazione con il sistema costiero, e ispirata al principio che “nonvengano più finanziati interventi che inducono erosione”. Bisognerà anche avere il coraggio di rimuovere, ove possibile, leopere di difesa tradizionali che con i cambiamenti climatici vedran-no diminuire la loro efficienza.Alla luce di quanto detto, diventa tanto più urgente l’implementa-zione delle raccomandazioni della CE in materia di ICZM (Recom-mendation of the european parliament and of the council, concer-ning the implementation of Integrated Coastal Zone Managementin Europe del 30 maggio 2002), elaborando linee guida naziona-li condivise con le amministrazioni e gli enti che hanno attualmen-te le competenze della pianificazione. Sono altrettanto urgenti in-terventi di definizione normativa del “Piano Coste”, definendonela minima estensione in base a criteri di dinamica costiera (comead esempio le unità fisiografiche) e non amministrativi, e preve-dendo la sua sovra-ordinazione rispetto ai piani regolatori comu-nali e agli altri strumenti di pianificazione. Considerando l’entità degli investimenti che si renderanno neces-sari per la pianificazione costiera, sarà indispensabile attuare unasinergia tra investimenti pubblici e privati, attraverso strumenti le-gislativi che favoriscano gli investimenti privati funzionali anchealle esigenze dell’adattamento ai cambiamenti climatici. È inoltre necessaria una forma di coordinamento nazionale sul te-ma delle coste (ricerca, monitoraggio, metodologie, criteri di pia-nificazione, ecc) in modo che chi opera a livello locale non sia iso-lato rispetto al contesto generale, che le esperienze oggi limita-te ad alcune realtà diventino effettivamente patrimonio dellacollettività e che si valorizzino i risultati dei progetti di ricerca. Ilcontributo dei progetti interregionali EU non ha colmato questa ca-renza. Si propone pertanto l’istituzione di forme di aggregazionea livello centrale delle iniziative, progetti e programmi da avviarenell’ambito costiero attraverso, ad esempio, un comitato nazio-nale sulle coste con la partecipazione di rappresentanti istituzio-nali, delle regioni e del mondo accademico.

Gli interventi necessari allapianificazione costierarichiedono: una sinergia trainvestimenti pubblici e privati;un coordinamento trainterventi a livello locale enazionale.

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Rischio antropogenico

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Per “rischio antropogenico” s’intende il rischio (diretto o indiret-to) derivante da attività umane potenzialmente pericolose per l’am-biente e la vita umana. In questa ampia definizione rientra il co-sì detto “rischio industriale”, cioè derivante da attività svolte al-l’interno di stabilimenti industriali. Si definisce “stabilimento a Rischio di Incidente Rilevante” (sta-bilimento RIR), uno stabilimento che detiene (utilizzandole nel ci-clo produttivo o semplicemente in stoccaggio) sostanze potenzial-mente pericolose, in quantità tali da superare determinate sogliestabilite dalla normativa “Seveso” (Direttiva 82/501/CEE e suc-cessive modificazioni). La detenzione e/o l’uso di grandi quantità di sostanze classifica-te come tossiche, infiammabili, esplosive, comburenti e perico-lose per l’ambiente, può portare, infatti, alla possibile evoluzionenon controllata di un incidente con pericolo grave, immediato o dif-ferito, sia per l’uomo (all’interno o all’esterno dello stabilimento),sia per l’ambiente circostante, a causa di: � emissione e/o diffusione di sostanze tossiche per l’uomo e/o

per l’ambiente;� incendio;� esplosione.Negli anni ottanta la Comunità Europea prese per la prima voltain considerazione questa tipologia di stabilimenti, al fine di dimi-nuire il verificarsi di gravi incidenti nelle industrie, per una mag-gior tutela delle popolazioni e dell’ambiente nella sua globalità,emanando una specifica direttiva (la citata 82/501/CEE, nota an-che come direttiva “Seveso”).L’applicazione operativa da parte degli Stati membri della Comu-nità Europea ha messo in evidenza la necessità di aggiustamen-ti e modifiche con la conseguenza che la Direttiva Seveso ha avu-to negli anni due aggiornamenti, le Direttive 96/82/CE e2003/105/CE, i cui recepimenti nazionali sono stati il D.Lgs.334/99 e il D.Lgs. 238/05. Lo scopo di tali normative è quello di ridurre la possibilità di ac-cadimento degli incidenti e del loro conseguente impatto sull’uo-mo e sull’ambiente. A tal fine, i gestori degli stabilimenti industria-li potenzialmente a rischio di incidente rilevante, hanno l’obbligodi adempiere a specifici impegni quali: l’obbligo di predisporre do-cumentazioni tecniche e informative specifiche e di mettere in at-to specifici sistemi di gestione in sicurezza dello stabilimento; inol-tre, sono sottoposti a specifici controlli e ispezioni da parte del-l’autorità.

Il“rischio antropogenico” èquello che scaturisce(direttamente oindirettamente) da attivitàumane potenzialmentepericolose per l’ambiente e lavita umana.

Lo scopo della normativaSeveso e s.m.i. è quello diridurre la possibilità diaccadimento degli incidenti edel loro conseguente impattosull’uomo e sull’ambiente.

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La situazione

Le informazioni sugli stabilimenti a rischio di incidente, fornite daigestori alle autorità competenti (tra cui il MATTM ai sensi di spe-cifici obblighi previsti dal D.Lgs. 334/99, che prevede sanzioni am-ministrative e penali, in caso di mancata o carente dichiarazione),sono raccolte dall’APAT, d’intesa con il MATTM, mediante la pre-disposizione e l’aggiornamento dell’Inventario Nazionale per le at-tività a rischio di incidente rilevante (industrie RIR), previsto dalD.Lgs. 334/99 (art.15 comma 4), e vengono validati anche me-diante comparazione con le informazioni in possesso delle regio-ni e Agenzie ambientali regionali territorialmente competenti. Grazie alle informazioni contenute nel suddetto Inventario è pos-sibile fornire un quadro generale delle pressioni esercitate daglistabilimenti a rischio di incidente rilevante sul territorio italiano. Conoscendo per esempio:� il “numero di stabilimenti a rischio di incidente rilevante, per am-

bito regionale” (Figura 5.12);

APAT, d’intesa con il MATTMraccoglie le informazioni suglistabilimenti a rischio diincidente, fornite dai gestorialle autorità competenti.

Le regioni a maggiorconcentrazione di stabilimentia rischio d’incidente rilevantesono: Lombardia, EmiliaRomagna, Veneto e Piemonte.Seguono Lazio, Campania eSicilia.

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Artt. 6/7 Art. 8

Figura 5.12: Distribuzione regionale degli stabilimenti soggetti alD.Lgs. 334/99 e s.m.i.12

12 Fonte: Elaborazione APAT su dati Ministero dell’ambiente e della tutela delterritorio e del mare

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� il “numero di stabilimenti a rischio di incidente rilevante, per am-bito provinciale” (Figura 5.13);� i “comuni con 4 o più stabilimenti a rischio di incidente rilevan-

te” (Figura 5.14); è possibile mettere in evidenza le aree in cuisi riscontra una particolare concentrazione di stabilimenti RIRe, di conseguenza, adottare opportuni controlli e misure caute-lative affinché un eventuale incidente in uno qualsiasi degli sta-bilimenti non finisca per coinvolgerne altri, con conseguenze gra-vi sia per l’uomo sia per l’ambiente.

Conoscere il numero e ladistribuzione sul territoriodegli stabilimenti a rischio diincidente consente ditracciare mappe del rischio.

Il maggior numero distabilimenti a rischiod’incidente rilevante siconcentra nelle province delCentro-Nord.Spiccano, in particolareTorino, Milano, Bergamo,Brescia e Ravenna al Nord;Roma e Napoli al Centro-Sud.

Figura 5.13: Numero di stabilimenti a rischio di incidente rilevan-te - distribuzione provinciale13

13 Fonte: Elaborazione APAT su dati Ministero dell’ambiente e della tutela delterritorio e del mare

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Dall’analisi delle tipologie di stabilimenti (Figura 5.15) è possibi-le poi trarre ulteriori considerazioni sulla mappa del rischio indu-striale nel nostro Paese. Tale informazione consente, infatti, di evi-denziare le tipologie di attività industriali maggiormente diffuse tragli stabilimenti a rischio di incidente rilevante e la loro distribuzio-ne sul territorio nazionale. L’attività di uno stabilimento permette di conoscere preventivamen-

Tra i comuni con 4 o piùstabilimenti a rischiod’incidente rilevante spiccanoVenezia, Ravenna, Roma eNapoli.

Figura 5.14: Comuni con 4 o più stabilimenti a rischio di inciden-te rilevante14

14 Elaborazione APAT di dati forniti dal Ministero dell’ambiente e tutela del ter-ritorio e del mare

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te, sia pure in termini generali, il potenziale rischio associato. I de-positi di GPL e i depositi di esplosivi, come pure le distillerie e gliimpianti di produzione e/o deposito di gas tecnici hanno, per esem-pio, un prevalente rischio di incendio e/o esplosione con effettiriconducibili, in caso di incidente, a irraggiamenti e sovrappressio-ni più o meno elevati, con possibilità di danni strutturali agli im-pianti ed edifici e danni per l’uomo. Gli stabilimenti chimici, le raf-finerie, i depositi di tossici e i depositi di fitofarmaci, associanoal rischio di incendio e/o esplosione, come i precedenti, il rischiodi diffusione di sostanze tossiche o ecotossiche, anche a distan-za e, quindi, la possibilità di pericoli immediati e/o differiti nel tem-po, per l’uomo e per l’ambiente.Per quanto concerne la tipologia delle attività presenti sul territo-

Conoscere l’attività di unostabilimento consente diindividuare il rischio a essoassociato.

Si riscontra una prevalenza distabilimenti chimici e/opetrolchimici e di depositi digas liquefatti (essenzialmenteGPL), che insiemerappresentano circa il 50%del totale degli stabilimenti.

0 50 100 150 200

n.

Art.8

Art.6

0

Altro

Impianti di trattamento

Acciaierie e impianti metallurgici

Produzione e/o deposito di gas tecnici

Galvanotecnica

Centrale termoelettrica

Produzione e/o deposito di esplosivi

Distillazione

Deposito di tossici

Desposito di fitofarmaci

Deposito di oli minerali

Raffinazione petrolio

Deposito di gas liquefatti

Stabilimento chimico o petrolchimico

Figura 5.15: Distribuzione nazionale degli stabilimenti soggetti alD.Lgs. 334/99 e s.m.i. per tipologia di attività15

15 Elaborazione APAT di dati forniti dal Ministero dell’ambiente e tutela del ter-ritorio e del mare

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rio nazionale, si riscontra una prevalenza di stabilimenti chimicie/o petrolchimici e di depositi di gas liquefatti (essenzialmenteGPL), che insieme sono circa il 50% del totale degli stabilimenti.Al riguardo si rileva una concentrazione di stabilimenti chimici epetrolchimici in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto.L’industria della raffinazione (17 impianti in Italia) risulta, invece,piuttosto distribuita sul territorio nazionale, con particolari concen-trazioni in Sicilia e in Lombardia, dove sono presenti rispettivamen-te 5 e 3 impianti. Analoga osservazione può essere fatta per i de-positi di oli minerali, che sono particolarmente concentrati in pros-simità delle grandi aree urbane del Paese. Per quanto concernei depositi di GPL, si evidenzia una diffusa presenza nelle regionimeridionali, in particolare in Campania e Sicilia, oltre che inLombardia, Toscana, Veneto ed Emilia Romagna. Questi impian-ti sono spesso localizzati presso aree urbane con concentrazio-ni degne di nota nelle province di Napoli, Salerno, Brescia, Vene-zia e Catania.

Le cause

La pressione degli stabilimenti a rischio di incidente rilevante nelcontesto italiano è paragonabile a quella degli altri grandi Paesiindustriali europei, anche se indubbiamente presenta delle spe-cificità connesse alla storia e allo sviluppo dell’industria naziona-le e alle scelte effettuate in passato, ad esempio in materia di ap-provvigionamento energetico. Al riguardo basti pensare alla concentrazione di raffinerie che siriscontra in Sicilia e Lombardia, alla presenza dei grandi poli pe-trolchimici sviluppatisi, negli anni del dopoguerra, nella Pianurapadana (Ravenna, Ferrara), nella laguna di Venezia (Marghera) e,a partire dagli anni ‘60 e ‘70, nel Mezzogiorno (Brindisi, Priolo, Ge-la, Porto Torres, ecc.). Una specificità nazionale, nel quadro eu-ropeo degli stabilimenti a rischio, è quella connessa al notevolesviluppo della rete dei depositi di GPL, con la funzione di approv-vigionamento per le zone del Paese non raggiunte dalla rete distri-buzione di metano. Una caratteristica nazionale è anche la presenza di distretti indu-striali, caratterizzati dalla concentrazione di piccole e medie indu-strie con produzioni similari o connesse nella medesima filiera pro-duttiva, come ad es. la chimica e la farmaceutica in alcune areelombarde (la Lombardia detiene il 25% degli stabilimenti a rischiodi incidente rilevante) e nell’area pontina, o la galvanica in Vene-

In Italia si riscontra unaprevalenza di stabilimentichimici e/o petrolchimici e diGPL (circa 50%). I primi sonoconcentrati essenzialmentenel nord mentre i secondisono molto diffusi anche nelleregioni meridionali.

L’Italia si caratterizza peravere un’estesa rete didepositi di GPL con funzionedi approvvigionamento inzone non raggiunte dalmetano…

…e per la presenza di distrettiindustriali, caratterizzati dallaconcentrazione di piccole emedie industrie con produzionisimilari o legate allamedesima filiera produttiva.

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to, Piemonte e Lombardia. Tali attività operano spesso in conte-sti territoriali congestionati, in stretta connessione con ambiti ur-bani o comunque densamente abitati e caratterizzati dalla presen-za di centri altamente sensibili in caso di incidente.

Le soluzioni

Il quadro normativo a livello europeo e nazionale dei controlli suirischi di incidenti rilevanti è ormai definito e maturo, essendo pas-sato attraverso tre successive Direttive e relativi recepimenti na-zionali. Le attività di risposta messe in atto in Italia sono in lineacon quelle adottate negli altri Paesi UE: ciò conferma un sostan-ziale allineamento agli standard europei, pur con margini di miglio-ramento connessi a:– snellimento e accelerazione degli iter di valutazione dei rappor-

ti di sicurezza e incremento dei controlli ispettivi; – maggior consapevolezza delle Amministrazioni comunali della

problematica del rischio industriale, con conseguente incremen-to delle attività di controllo del territorio e di informazione del-la popolazione;

– miglioramento, sia qualitativo sia quantitativo, delle attivitàconnesse alla pianificazione di emergenza esterna in caso di in-cidente.

I miglioramenti sopra evidenziati potranno essere conseguiti in pre-senza di:– risorse certe per Amministrazioni e organi tecnici coinvolti, an-

che attraverso l’introduzione, prevista dalle norme Seveso, di unsistema di tariffe a carico dei gestori di stabilimenti a rischio diincidente rilevante in relazione ai controlli effettuati dalla P.A.;

– progressivo decentramento dei controlli a livello regionale, coeren-temente con quanto previsto dalla Bassanini, previo accertamen-to della presenza di competenze locali e/o garanzie del loro incre-mento, specie nelle regioni meridionali, predisposizione e man-tenimento di procedure di monitoraggio da parte del MATTM;

– definizione puntuale e tempestiva a livello statale di criteri e ri-ferimenti tecnici dettagliati per l’indirizzo delle Autorità e orga-ni tecnici preposti localmente ai controlli.

In questo quadro appare centrale l’aspetto del rafforzamento delSistema delle Agenzie ambientali, che per ruolo, competenze edesperienze maturate può dare il suo rilevante contributo, in con-corso con altri soggetti, alla soluzione di molte delle problemati-che evidenziate.

Le attività di risposta messein atto in Italia sono in lineacon quelle adottate negli altriPaesi UE.

Il Sistema agenziale può dareun valido contributo alleproblematiche connesse alrischio antropogenico.

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