Riflessioni Sul Cinema Di Peter Brook Di Franco Vazzoler

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7/23/2019 Riflessioni Sul Cinema Di Peter Brook Di Franco Vazzoler http://slidepdf.com/reader/full/riflessioni-sul-cinema-di-peter-brook-di-franco-vazzoler 1/9 1 Lo schermo, la scena, l' "altrove". Cinema e teatro attraverso le pagine autobiografiche e le riflessioni di Peter Brook «Da bambino avevo un idolo. Non era un nume tutelare, ma un proiettore. Per lungo tempo non mi fu consentito di toccarlo, perché soltanto mio padre e mio fratello potevano comprenderne la complessità. Poi arrivò il giorno in cui fui considerato abbastanza grande per fissare e infilare le piccole bobine da 9 millimetri e mezzo della Pathé Film, montare un piccolo schermo in cartone dentro il proscenio del mio teatrino e guardare sempre con lo stesso immutato stupore i fotogrammi grigi e graffiati».  1  Peter Brook pone questo ricordo - è il primo - quasi in apertura della sua autobiografia. Subito dopo Brook ricorda il primo spettacolo per bambini a cui assistette su un teatrino dell'Ottocento (la prima esperienza teatrale «e a tutt'oggi [...] la più vivida ma anche la più reale») e la prima volta che vide una trasmissione televisiva («un'immagine grigia e puntiforme su un piccolo schermo di vetro»), quando si sentì come «risucchiato dentro lo schermo», sperimentando «con quanta rapidità un'illusione può agganciarsi saldamente a noi, con quanta facilità la nostra sostanza si dissolve fino a farci scomparire nell'irreale».  Attraverso questa sequenza, evidentemente ben costruita ad arte, che ha al centro il ricordo del teatro, Brook sembra contrapporre la nota dominante del colore grigio delle immagini riprodotte dallo schermo ai colori che caratterizzano lo spettacolo e lo spazio teatrale: i palchetti variopinti, le luci della ribalta, il sipario rosso e giallo, il cartone blu dell'acqua dipinta del mare e del cielo con le nuvole bianche, l'arancione delle schegge di un'esplosione contro il «fondalino cinereo» . Ma al di là di questo, però, malgrado il grigiore del mezzo («Il proiettore nonostante il mio amore per le immagini che produceva era una immagine cupa e priva di fascino»), lo stupore e l'attrazione per «un mondo che era molto più convincente di quello che conoscevo fuori» fanno sì che il ricordo del cinema permanga in modo persistente attraverso il feticcio di «due preziose bobine cinematografiche di un film professionale» recuperate da un qualche mucchio di rifiuti e che improvvisamente si colorano, 1 Peter Brook, I fili del tempo , trad. it di Isabella Imperiali, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 13-14. 

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Lo schermo, la scena, l' "altrove".

Cinema e teatro attraverso le pagine autobiografiche e le riflessioni di Peter Brook 

«Da bambino avevo un idolo. Non era un nume tutelare, ma un proiettore. Per lungo

tempo non mi fu consentito di toccarlo, perché soltanto mio padre e mio fratello potevano

comprenderne la complessità. Poi arrivò il giorno in cui fui considerato abbastanza

grande per fissare e infilare le piccole bobine da 9 millimetri e mezzo della Pathé Film,

montare un piccolo schermo in cartone dentro il proscenio del mio teatrino e guardare

sempre con lo stesso immutato stupore i fotogrammi grigi e graffiati». 1 

Peter Brook pone questo ricordo - è il primo - quasi in apertura della sua

autobiografia. Subito dopo Brook ricorda il primo spettacolo per bambini a

cui assistette su un teatrino dell'Ottocento (la prima esperienza teatrale «e a

tutt'oggi [...] la più vivida ma anche la più reale») e la prima volta che vide

una trasmissione televisiva («un'immagine grigia e puntiforme su un piccolo

schermo di vetro»), quando si sentì come «risucchiato dentro lo schermo»,

sperimentando «con quanta rapidità un'illusione può agganciarsi

saldamente a noi, con quanta facilità la nostra sostanza si dissolve fino afarci scomparire nell'irreale».

 Attraverso questa sequenza, evidentemente ben costruita ad arte, che ha

al centro il ricordo del teatro, Brook sembra contrapporre la nota dominante

del colore grigio delle immagini riprodotte dallo schermo ai colori che

caratterizzano lo spettacolo e lo spazio teatrale: i palchetti variopinti, le luci

della ribalta, il sipario rosso e giallo, il cartone blu dell'acqua dipinta del

mare e del cielo con le nuvole bianche, l'arancione delle schegge di

un'esplosione contro il «fondalino cinereo» .

Ma al di là di questo, però, malgrado il grigiore del mezzo («Il proiettore

nonostante il mio amore per le immagini che produceva era una immagine

cupa e priva di fascino»), lo stupore e l'attrazione per «un mondo che era

molto più convincente di quello che conoscevo fuori» fanno sì che il ricordo

del cinema permanga in modo persistente attraverso il feticcio di «due

preziose bobine cinematografiche di un film professionale» recuperate da

un qualche mucchio di rifiuti e che improvvisamente si colorano,

1Peter Brook, I fili del tempo, trad. it di Isabella Imperiali, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 13-14. 

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recuperando un inaspettato movimento e la possibilità di raccontare storie

infinite:

«Le tenevo controluce fra due dita e le facevo tornare in vita con piccoli scatti del

polso. Una aveva sfumature verdi e mostrava le sagome di due uomini su un tetto; l'altra

dava sul rosa e ritraeva una figura che lentamente apriva una porta. Da questi spezzoni

di azione ogni volta veniva fuori una nuova storia e scoprivo con gioia che le possibilità

erano inesauribili»2 

Il movimento naturale delle mani, non quello meccanico del proiettore,

trasforma il cinema nel gioco, molto più appassionante, che già qualche

tempo prima il bambino Brook aveva cercato invano di realizzare con un

proiettore giocattolo, «in latta di colore rosso e oro» visto nella vetrina di unnegozio:

«L'ho desiderato ardentemente. Mio padre e mio fratello continuavano a spiegarmi che

questo oggetto dei miei desideri era niente in confronto al serio strumento per adulti che

avevamo in casa, ma rifiutavo di farmi convincere; il richiamo di quel rosso pacchiano era

più forte di qualsiasi altra tentazione che potessero offrirmi. Mio padre allora mi chiedeva:

"Che cosa preferiresti, un penny d'oro scintillante o una moneta sporca e grigiastra da sei

pence?". La domanda mi tormentava, ero in grado di coglierne l'insidia, ma ripiegavosempre sul penny luccicante».3 

La memoria, si sa, quando si organizza in narrazione, produce una

selezione che lega il ricordo al destino del protagonista del racconto

autobiografico: «Cinema e teatro sembravano fatti apposta per aiutare ad

andare "altrove"».4 

Un "altrove" che non è mai fuga dalla realtà e che si motiverà anche di

forti istanze politiche e filosofiche; c'è una fase, nel cinema e nel teatro di

Peter Brook, in cui l'impegno svolge un ruolo determinante: Tell me lies  e

US, Incontri con uomini straordinari e i due Mahabharata sono straordinarie

riflessioni cinematografiche e teatrali sulla guerra e sulla ricerca della

saggezza.

***

2 I fili del tempo, p. 15. 3 I fili del tempo, p.14. 4i fili del tempo, p. 15. 

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Nelle pagine dell'autobiografia (accanto all'altro tema dominate, il viaggio)

questo sottile legame che unisce cinema e teatro è sempre presente.

Il cinematografo occupa all'inizio un posto fondamentale nella creazione

dell'immaginario di Brook: «I film erano le mie vere finestre su un altromondo».

Il cinema può suggerire per analogia un modo di guardare («[...] cominciai

a vedere, come in un film, il volto della mia amica in primo piano e sullo

sfondo, fuori fuoco, i pericolosi incidenti in strada») oppure un modo per

descrivere un ambiente e un'atmosfera («Chiunque abbia una predilezione

per i vecchi film francesi, le fotografie di Brassai dei caffé parigini di notte o

le canzoni della Piaf può capire perché lo spazio ristretto e ammuffito di un

piccolo "teatro di boulevard", con i riflettori sbilenchi e arrugginita e unsipario liso, ma dipinto per farlo sembrare di velluto di broccato, emanasse

un fascino speciale»5), che sembra prefigurare il fascino dello spazio

teatrale delle Bouffes du Nord.

Oppure sarà una forma dell'ispirazione delle regie d'opera, come un Boris

voluto «simile a un film», cioè con l' «energia [...] da far trattenere il respiro»

di un Potemkin o di un Alexander Nevskij.6 

Così l'impressione più forte dell'incontro con Bertholt Brecht e Helene

Weighel (un incontro segreto, perché le autorità inglesi non gli avevano datoil permesso di farsi vedere in pubblico a parlare «con questo famigerato

comunista», per una «incomprensibile paura che una stretta di mano

potesse essere interpretata politicamente dalla stampa e creare imbarazzo

a qualsiasi politica alleata si facesse a quel tempo») è l' «atmosfera da film

di spionaggio» in cui si svolge nel salotto privato di un hôtel di Berlino, «la

cui entrata riservata dava in un vialetto sul retro».7 

Ma in realtà il rapporto con il cinema, quello che il pubblico meno

conosce, che non appartiene all'immagine che tutti abbiamo di Brook,

quando lo identifichiamo con "il" Teatro, è più profondo: riguarda il doppio

binario della dell'attività artistica e creativa di Brook, un'attività che lo ha

portato, quasi all'inizio della sua carriera di regista lavorare con attori come

Laurence Olivier (nella tormentata e conflittuale realizzazione dell'Opera del

mendicante:), che lo lega a Marghuerite Duras (in Moderato cantabile, dove

dirige Jeanne Moreau e Jean Paul Belmondo).

5 I fili del tempo, p. 96. 6 I fili del tempo, p. 60. 7 I fili del tempo, p. 77.

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 All'inizio, infatti, quella che Brook tenta, prima di diventare regista di teatro

e d'opera (i campi in cui realizza davvero le sue innovazioni) è la via del

cinema: «"Che cosa vuoi fare da grande?"... Il regista cinematografico».8 

Ecco allora il progetto di prendere lezioni di fotografia «come primo passo

verso un'attività nel cinema»; poi il primo apprendistato negli studi di unaproduzione di documentari, assunto ai Merton Park Studios, nella zona sud

di Londra, dove si accorge

«che un teatro di posa non era, come avevo ingenuamente immaginato, un mondo

nuovo pervaso da un biancore futuristico e dal silenzio, ma uno spazio trasandato pieno

di mobilio accatastato, in cui parti di salotto e cucine luccicavano soltanto quando il

cameramen accendeva le sue lampade»9.

Ed è già questa un breve, ma essenziale, descrizione da cui si vede come

gli effetti del cinema possano apparire simili a quelli del teatro.

***

 Al teatro Brook si rivolgerà subito dopo, ma con scarso entusiasmo,

considerandolo quasi un ripiego, negli anni della seconda guerra mondiale,

pur continuando a pensare al cinema (e, come surrogato, pretenderà anchedi girare spot pubblicitari di un dentifricio nello stile di Quarto potere  di

Wells), passando dal progetto di una messa in scena della Duchessa

d'Amalfi al progetto di un film ricavato dal Viaggio sentimentale di Stern.

C'è una forte suggestione teatrale nel racconto della prima proiezione di

questo film, legata ad esigenze tecniche che trasformano quella prima

proiezione in un evento che ha poco della "riproducibilità tecnica" e molto

della improvvisazione teatrale:

«Sebbene avessimo girato senza sonoro su scarti di pellicola recuperata, avevamo

messo insieme un film di un'ora e ci eravamo inventati un sistema sonoro rudimentale,

apparentemente infallibile. In quegli anni era possibile fare registrazioni private su larghi

dischi fonografici e un paio di noi erano diventati molto esperti in un sistema di

sincronizzazione che consisteva nel tenere un dito sul dispositivo di controllo del piatto, in

modo da controllarne la velocità, rallentare il sonoro o sincronizzarlo con l'immagine

senza che nessuno se ne accorgesse. Non avevamo però fatto le prove con il proiettore

8 I fili del tempo, p.319 I fili del tempo, pp. 31-32. 

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che si mise a girare a una velocità superiore al normale e il film, con nostro grande

orrore, cominciò a correre al galoppo. Quando spingemmo in avanti il dispositivo di

controllo della velocità, le voci degli attori salirono di tonalità e, mentre noi tentavamo

invano di sincronizzarle con le immagini in fuga, via via crebbero sempre di più finché

tutto il sonoro annegò nelle risate del pubblico»10 

D'altra parte è possibile rendersi conto attraverso le pagine

dell'autobiografia come in un primo tempo il suo approccio al teatro sia

fortemente condizionato dal desiderio di fare cinema:

«Quando mi accostavo a una nuova regia non mi ponevo in termini intellettuali, ma

seguivo soltanto un desiderio istintivo di fare quadri in movimento. L'arco del proscenio

era come lo schermo di un cinema stereoscopico su cui luci, musica ed effetti eranoimportanti quanto la recitazione, perché il mio unico desiderio era di evocare un mondo

parallelo e più seducente»11.

E ritorna qui l'immagine infantile dei film proiettati sul cartone posto nel

proscenio del teatrino, immagine dello schermo come qualcosa di vitale, che

ritorna nel pensiero che attribuisce ai bambini-attori di Il signore delle

mosche:

«Prima di iniziare le riprese i ragazzi erano eccitatissimi all'idea di essere i protagonisti

in un film, anche se nessuno di loro sapeva bene di che cosa si sarebbe trattato. Forse

immaginavano di arrampicarsi fino a uno schermo e poi entrare in un mondo dove la vita

scorre con un ritmo meraviglioso ed a cui tutti gli aspetti noiosi del vivere sono stati

eliminati»12 

(anche se poi gli stessi bambini scopriranno traumaticamente che «il

cinema è proprio l'opposto»).

L'idea forte di questa immagine, collegata alla fantasia infantile, è quella

della penetrabilità dell'arco scenico.

Solo in seguito l'idea dell'arco scenico come schermo, chiaramente

derivata dallo schermo cinematografico, alla quale egli è inizialmente legato,

verrà superata da Brook, quando gli apparirà chiaro che l'illusione teatrale

10 Il fili del tempo, p. 35. 11 I fili del tempo, p. 46.12Il punto in movimento, trad. it., di Isabella Imperiali e Raimonda Buitoni, Milano, Ubulibri,1987, p. 180. 

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non si esaurisce nell'illusione della visione, ma si basa sullo spazio

intimamente condiviso fra attori e pubblico.

Il problema del ritmo-tensione, del non lasciare mai cadere l'attenzione

dello spettatore si presenta in termini analoghi: «Il fatto di lavorare fra il

cinema e il teatro mi rendeva sempre più consapevole dell'importanza diessere sensibile a un ritmo sotteso, difficile da scoprire, ma sempre in

attesa di essere percepito»: «Samuel Beckett - racconta Brook - mi spiegò

che quando scriveva una commedia, la vedeva come una serie di tensioni,

nel senso di fili d'acciaio tesi a congiungere un'unità a quella successiva [...]

 Anche nel cinema la catena degli eventi non deve mai essere interrotta».

E allora finirà per cercare anche nel cinema le stesse modalità, pur nelle

differenze oggettive, del suo operare teatrale.

La principale di queste differenze / opposizioni sentita ed esplicitamente

dichiarata da Brook è il dominio dell'immagine vs potere evocativo-

suggestivo della parola, come nel Punto in movimento : «Nel cinema [...] vi è

un problema costante contro cui si deve sempre lottare: l'eccessivo potere

intrusivo dell'immagine, i cui dettagli rimangono nel campo visivo per un

tempo sempre superiore al necessario. se una scena di dieci minuti si

svolge in una foresta, non riusciamo mai ad eliminare gli alberi», adifferenza del teatro in cui la foresta è presente solo quando è evocata dalla

parola, anche «duecento battute più tardi» dalla prima: «Nell'intervallo tra

questi due momenti l'immagine è scomparsa, liberando lo spazio mentale in

cui impressioni di tipo diverso possono emergere, suscitate, per esempio,

da acute osservazioni dei pensieri e dei sentimenti nascosti sotto la

superficie del dramma». 13 

Così è affascinato da un'idea di Salvator Dalì:

«Durante il pranzo parlò del film che voleva dirigere. E' una convinzione ridicola nel

cinema - disse - che la cinepresa sia sempre presente nei momenti drammatici di una

storia. Non è come la vita. Lui avrebbe chiuso con la consuetudine di inquadrare il centro

dell'azione. Lo spettatore, invece, avrebbe dovuto vedere una situazione banale e senza

senso - la cinepresa magari puntata su un pezzetto di muro - e di tanto in tanto

13 Il punto in movimento, p. 174. 

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nell'inquadratura avrebbe fatto per qualche istante capolino un gomito o un pezzetto di

naso, suggerendo situazioni passionali ed eccitanti che accadevano fuori campo».14 

Ed è quello che, sul piano della recitazione, mette in pratica con Jeanne

Moreau in Moderato cantabile.

«Jeanne Moreau, a mio avviso è l'attrice cinematografica ideale del nostro tempo

perché non caratterizza i suoi ruoli; recita nello stesso modo in cui Godard gira i suoi film

e con lei si riesce ad avvicinarsi il più possibile al documento sull'emozione. [...] Jeanne

Moreau lavora come un medium: d'istinto. Il personaggio le suscita un'impressione e

qualcosa poi in lei osserva mentre improvvisa e lascia che si sviluppi così come viene,

intervenendo appena come un bravo tecnico, qua e là quando, per esempio vuole

trovarsi in posizione frontale e a una giusta angolazione rispetto alla macchina da presa.Più che definire a priori come affrontare le difficoltà, Jeanne Moreau guida il flusso della

propria improvvisazione e quindi la sua recitazione è una continua proposta di minuscole

sorprese. All'inizio di ogni ripresa nessuno, nemmeno lei, sa esattamente che cosa

accadrà».15 

 Allora l'improvvisazione dell'attore è probabilmente una delle strade grazie

alla quale Brook cerca di superare le differenze fra teatro e cinema, di

trovare una analogia di metodo pur in due linguaggi e sistemi produttivi così

diversi.

Più che l'impalcatura teorica del rapporto fra linguaggio cinematografico e

linguaggio teatrale, conta il come questo rapporto è vissuto da ogni singolo

artista, come appare all'interno di una poetica, quali problemi crea, quali

soluzioni provoca, a quali risultati a quali sorprese, a quali invenzioni porta.

Quello che accomuna i due discorsi è quello che Brook chiama il «punto

di vista libero da tirannie»16, ben rappresentata dalla citazione della frase

che Renoir che avrebbe detto a Matisse: «dopo che ho sistemato un mazzo

di fiori per dipingerlo, lo giro sempre dall'altra parte e ritraggo il lato che non

avevo previsto». Ne è una testimonianza il racconto di come fu girato il

Marat-Sade:

«Questa volta chiesi all'operatore David Watkins di predisporre un'illuminazione di

base che lo lasciasse completamente libero durante le riprese; così, tenendo lui stesso la

14 I fili del tempo, p. 67. 15 Il punto in movimento, pp. 182-183. 16 I fili del tempo, p. 127. 

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seconda camera, avrebbe potuto scegliere le sue inquadrature. al montaggio il materiale

più utile ed espressivo fu fornito in gran parte proprio da quest'occhio vagante».17 

Ne Il Punto in movimento Brook mette spesso in rilievo le differenze dei

meccanismi di produzione, ma sembra muoversi anche in questo caso allaricerca di soluzioni analoghe: di qui la sua preferenza per un budget ridotto.

Se nel teatro conta la possibilità di aver tempo nelle prove, se la libertà

sta nel disporre di un gran tempo per le prove («il vero significato di "ricerca"

non è "più sperimentale", ma è semplicemente che il tempo non ha limiti

precisi e che non si è soggetti a pressioni per produrre un buon risultato

entro una data stabilita»)18, l'equivalente al cinema è avere tanti metri di

pellicola:

«Mi è sempre sembrato assurdo che gli amministratori delle produzioni più ricche

accettino senza porre alcuna difficoltà le spese più folli, ma si scandalizzino al minimo

spreco di pellicola; è come se uno scrittore avesse paura di fare delle cancellature per

timore che gli venga a mancare la carta.»19.

E proprio questo si dimostra il segreto per realizzare Il signore delle

mosche:

«Avevamo deciso di adottare un regime di stretta economia; [...] In questo modo

potemmo risparmiare migliaia di dollari e decidere che su due cose non si sarebbero fatte

economia: sulle esigenze dei bambini e sui metri di pellicola. [...] Fu la nostra salvezza,

perché, malgrado il cattivo tempo, le malattie, il fatto di non poter vedere il materiale

girato, la mancanza di un adeguato impianto luci, di attrezzature in genere, continuammo

a girare in contemporanea con diverse cineprese, filmando senza interruzioni sia quando

parlavamo con i bambini per dar loro indicazioni sia durante le diverse prove.

 Alla fine avevamo sessanta ore ininterrotte di materiale filmato... e davanti a noi un

anno di montaggio; dai chilometri di nastro del sonoro che era stato registrato in ogni ora

del giorno, ricavammo il necessario per i dialoghi, incollando parola dopo parola alla

pellicola, come fossero francobolli…»20 

***

17 I fili del tempo, pp.127-128. 18 I fili del tempo,p. 133. 19 Il punto in movimento, p.179. 20 Il punto in movimento, p. 179. 

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«Una volta entro il teatro [...] restavo di solito incantato; ma non dalla storia o dalla

recitazione, erano le porte e le quinte a catturare la mia immaginazione. Dove

portavano? Come era organizzato il retro? Un giorno il sipario si alzò e la scena non era

quella delle pareti di un salotto. Era il ponte di una nave, di un vero transatlantico, ed era

inconcepibile che un così splendido transatlantico potesse finire all'improvviso dietro le

quinte. Dovevo sapere quali corridoi conducevano via da quelle spesse porte d'acciaio e

cosa c'era oltre gli oblò. Se non era il mare doveva essere l'ignoto».21 

Credo ci sia uno stretto legame fra questo ricordo che ci riporta ancora

all'infanzia di Brook e il racconto dell'ingresso alle Bouffes du Nord, il teatro

parigino che forse meglio ci aiuta a rappresentare l' "altrove" di Brook: il

teatro «risorto dalle sue ceneri», «un teatro dimenticato e in rovina»; «uno

spazio raccolto » che può diventare un angolo di strada per scene crudeoppure un tempio per una celebrazione [...] esige dagli attori l'energia in

grado di pervadere un cortile, coniugata con la naturalezza con cui si recita

in una stanzetta»:

«L'edificio in cui ci intrufolammo era stato abbandonato da più di vent'anni ed era

utilizzato di tanto in tanto da senzatetto in cerca di un riparo. Non avevano esitato a

bruciare qualsiasi cosa fosse utile ad accendere un fuoco che poi soltanto la pioggia,

quando filtrava dai buchi del soffitto, provvedeva a spegnere. Le poltrone erano sparite, il

palcoscenico era sprofondato, il pavimento era ridotto a una serie di crateri pericolosi»22:

Se questa rievocazione, nelle pagine dell'autobiografia, è indispensabile

per capire l'atmofera di Histoire de Carmen  e ne motiva il fascino

dell'ambientazione, è proprio nelle immagini del film girato nel teatro, più

che nell'approccio teorico, che possiamo cogliere il segreto della doppia

attività di Peter Brook.

Franco Vazzoler

21 I fili del tempo,p. 16. 22 I fili del tempo, p. 187.