Riflessioni Sul Cinema Di Peter Brook Di Franco Vazzoler
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7/23/2019 Riflessioni Sul Cinema Di Peter Brook Di Franco Vazzoler
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Lo schermo, la scena, l' "altrove".
Cinema e teatro attraverso le pagine autobiografiche e le riflessioni di Peter Brook
«Da bambino avevo un idolo. Non era un nume tutelare, ma un proiettore. Per lungo
tempo non mi fu consentito di toccarlo, perché soltanto mio padre e mio fratello potevano
comprenderne la complessità. Poi arrivò il giorno in cui fui considerato abbastanza
grande per fissare e infilare le piccole bobine da 9 millimetri e mezzo della Pathé Film,
montare un piccolo schermo in cartone dentro il proscenio del mio teatrino e guardare
sempre con lo stesso immutato stupore i fotogrammi grigi e graffiati». 1
Peter Brook pone questo ricordo - è il primo - quasi in apertura della sua
autobiografia. Subito dopo Brook ricorda il primo spettacolo per bambini a
cui assistette su un teatrino dell'Ottocento (la prima esperienza teatrale «e a
tutt'oggi [...] la più vivida ma anche la più reale») e la prima volta che vide
una trasmissione televisiva («un'immagine grigia e puntiforme su un piccolo
schermo di vetro»), quando si sentì come «risucchiato dentro lo schermo»,
sperimentando «con quanta rapidità un'illusione può agganciarsi
saldamente a noi, con quanta facilità la nostra sostanza si dissolve fino afarci scomparire nell'irreale».
Attraverso questa sequenza, evidentemente ben costruita ad arte, che ha
al centro il ricordo del teatro, Brook sembra contrapporre la nota dominante
del colore grigio delle immagini riprodotte dallo schermo ai colori che
caratterizzano lo spettacolo e lo spazio teatrale: i palchetti variopinti, le luci
della ribalta, il sipario rosso e giallo, il cartone blu dell'acqua dipinta del
mare e del cielo con le nuvole bianche, l'arancione delle schegge di
un'esplosione contro il «fondalino cinereo» .
Ma al di là di questo, però, malgrado il grigiore del mezzo («Il proiettore
nonostante il mio amore per le immagini che produceva era una immagine
cupa e priva di fascino»), lo stupore e l'attrazione per «un mondo che era
molto più convincente di quello che conoscevo fuori» fanno sì che il ricordo
del cinema permanga in modo persistente attraverso il feticcio di «due
preziose bobine cinematografiche di un film professionale» recuperate da
un qualche mucchio di rifiuti e che improvvisamente si colorano,
1Peter Brook, I fili del tempo, trad. it di Isabella Imperiali, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 13-14.
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recuperando un inaspettato movimento e la possibilità di raccontare storie
infinite:
«Le tenevo controluce fra due dita e le facevo tornare in vita con piccoli scatti del
polso. Una aveva sfumature verdi e mostrava le sagome di due uomini su un tetto; l'altra
dava sul rosa e ritraeva una figura che lentamente apriva una porta. Da questi spezzoni
di azione ogni volta veniva fuori una nuova storia e scoprivo con gioia che le possibilità
erano inesauribili»2
Il movimento naturale delle mani, non quello meccanico del proiettore,
trasforma il cinema nel gioco, molto più appassionante, che già qualche
tempo prima il bambino Brook aveva cercato invano di realizzare con un
proiettore giocattolo, «in latta di colore rosso e oro» visto nella vetrina di unnegozio:
«L'ho desiderato ardentemente. Mio padre e mio fratello continuavano a spiegarmi che
questo oggetto dei miei desideri era niente in confronto al serio strumento per adulti che
avevamo in casa, ma rifiutavo di farmi convincere; il richiamo di quel rosso pacchiano era
più forte di qualsiasi altra tentazione che potessero offrirmi. Mio padre allora mi chiedeva:
"Che cosa preferiresti, un penny d'oro scintillante o una moneta sporca e grigiastra da sei
pence?". La domanda mi tormentava, ero in grado di coglierne l'insidia, ma ripiegavosempre sul penny luccicante».3
La memoria, si sa, quando si organizza in narrazione, produce una
selezione che lega il ricordo al destino del protagonista del racconto
autobiografico: «Cinema e teatro sembravano fatti apposta per aiutare ad
andare "altrove"».4
Un "altrove" che non è mai fuga dalla realtà e che si motiverà anche di
forti istanze politiche e filosofiche; c'è una fase, nel cinema e nel teatro di
Peter Brook, in cui l'impegno svolge un ruolo determinante: Tell me lies e
US, Incontri con uomini straordinari e i due Mahabharata sono straordinarie
riflessioni cinematografiche e teatrali sulla guerra e sulla ricerca della
saggezza.
***
2 I fili del tempo, p. 15. 3 I fili del tempo, p.14. 4i fili del tempo, p. 15.
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Nelle pagine dell'autobiografia (accanto all'altro tema dominate, il viaggio)
questo sottile legame che unisce cinema e teatro è sempre presente.
Il cinematografo occupa all'inizio un posto fondamentale nella creazione
dell'immaginario di Brook: «I film erano le mie vere finestre su un altromondo».
Il cinema può suggerire per analogia un modo di guardare («[...] cominciai
a vedere, come in un film, il volto della mia amica in primo piano e sullo
sfondo, fuori fuoco, i pericolosi incidenti in strada») oppure un modo per
descrivere un ambiente e un'atmosfera («Chiunque abbia una predilezione
per i vecchi film francesi, le fotografie di Brassai dei caffé parigini di notte o
le canzoni della Piaf può capire perché lo spazio ristretto e ammuffito di un
piccolo "teatro di boulevard", con i riflettori sbilenchi e arrugginita e unsipario liso, ma dipinto per farlo sembrare di velluto di broccato, emanasse
un fascino speciale»5), che sembra prefigurare il fascino dello spazio
teatrale delle Bouffes du Nord.
Oppure sarà una forma dell'ispirazione delle regie d'opera, come un Boris
voluto «simile a un film», cioè con l' «energia [...] da far trattenere il respiro»
di un Potemkin o di un Alexander Nevskij.6
Così l'impressione più forte dell'incontro con Bertholt Brecht e Helene
Weighel (un incontro segreto, perché le autorità inglesi non gli avevano datoil permesso di farsi vedere in pubblico a parlare «con questo famigerato
comunista», per una «incomprensibile paura che una stretta di mano
potesse essere interpretata politicamente dalla stampa e creare imbarazzo
a qualsiasi politica alleata si facesse a quel tempo») è l' «atmosfera da film
di spionaggio» in cui si svolge nel salotto privato di un hôtel di Berlino, «la
cui entrata riservata dava in un vialetto sul retro».7
Ma in realtà il rapporto con il cinema, quello che il pubblico meno
conosce, che non appartiene all'immagine che tutti abbiamo di Brook,
quando lo identifichiamo con "il" Teatro, è più profondo: riguarda il doppio
binario della dell'attività artistica e creativa di Brook, un'attività che lo ha
portato, quasi all'inizio della sua carriera di regista lavorare con attori come
Laurence Olivier (nella tormentata e conflittuale realizzazione dell'Opera del
mendicante:), che lo lega a Marghuerite Duras (in Moderato cantabile, dove
dirige Jeanne Moreau e Jean Paul Belmondo).
5 I fili del tempo, p. 96. 6 I fili del tempo, p. 60. 7 I fili del tempo, p. 77.
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All'inizio, infatti, quella che Brook tenta, prima di diventare regista di teatro
e d'opera (i campi in cui realizza davvero le sue innovazioni) è la via del
cinema: «"Che cosa vuoi fare da grande?"... Il regista cinematografico».8
Ecco allora il progetto di prendere lezioni di fotografia «come primo passo
verso un'attività nel cinema»; poi il primo apprendistato negli studi di unaproduzione di documentari, assunto ai Merton Park Studios, nella zona sud
di Londra, dove si accorge
«che un teatro di posa non era, come avevo ingenuamente immaginato, un mondo
nuovo pervaso da un biancore futuristico e dal silenzio, ma uno spazio trasandato pieno
di mobilio accatastato, in cui parti di salotto e cucine luccicavano soltanto quando il
cameramen accendeva le sue lampade»9.
Ed è già questa un breve, ma essenziale, descrizione da cui si vede come
gli effetti del cinema possano apparire simili a quelli del teatro.
***
Al teatro Brook si rivolgerà subito dopo, ma con scarso entusiasmo,
considerandolo quasi un ripiego, negli anni della seconda guerra mondiale,
pur continuando a pensare al cinema (e, come surrogato, pretenderà anchedi girare spot pubblicitari di un dentifricio nello stile di Quarto potere di
Wells), passando dal progetto di una messa in scena della Duchessa
d'Amalfi al progetto di un film ricavato dal Viaggio sentimentale di Stern.
C'è una forte suggestione teatrale nel racconto della prima proiezione di
questo film, legata ad esigenze tecniche che trasformano quella prima
proiezione in un evento che ha poco della "riproducibilità tecnica" e molto
della improvvisazione teatrale:
«Sebbene avessimo girato senza sonoro su scarti di pellicola recuperata, avevamo
messo insieme un film di un'ora e ci eravamo inventati un sistema sonoro rudimentale,
apparentemente infallibile. In quegli anni era possibile fare registrazioni private su larghi
dischi fonografici e un paio di noi erano diventati molto esperti in un sistema di
sincronizzazione che consisteva nel tenere un dito sul dispositivo di controllo del piatto, in
modo da controllarne la velocità, rallentare il sonoro o sincronizzarlo con l'immagine
senza che nessuno se ne accorgesse. Non avevamo però fatto le prove con il proiettore
8 I fili del tempo, p.319 I fili del tempo, pp. 31-32.
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che si mise a girare a una velocità superiore al normale e il film, con nostro grande
orrore, cominciò a correre al galoppo. Quando spingemmo in avanti il dispositivo di
controllo della velocità, le voci degli attori salirono di tonalità e, mentre noi tentavamo
invano di sincronizzarle con le immagini in fuga, via via crebbero sempre di più finché
tutto il sonoro annegò nelle risate del pubblico»10
D'altra parte è possibile rendersi conto attraverso le pagine
dell'autobiografia come in un primo tempo il suo approccio al teatro sia
fortemente condizionato dal desiderio di fare cinema:
«Quando mi accostavo a una nuova regia non mi ponevo in termini intellettuali, ma
seguivo soltanto un desiderio istintivo di fare quadri in movimento. L'arco del proscenio
era come lo schermo di un cinema stereoscopico su cui luci, musica ed effetti eranoimportanti quanto la recitazione, perché il mio unico desiderio era di evocare un mondo
parallelo e più seducente»11.
E ritorna qui l'immagine infantile dei film proiettati sul cartone posto nel
proscenio del teatrino, immagine dello schermo come qualcosa di vitale, che
ritorna nel pensiero che attribuisce ai bambini-attori di Il signore delle
mosche:
«Prima di iniziare le riprese i ragazzi erano eccitatissimi all'idea di essere i protagonisti
in un film, anche se nessuno di loro sapeva bene di che cosa si sarebbe trattato. Forse
immaginavano di arrampicarsi fino a uno schermo e poi entrare in un mondo dove la vita
scorre con un ritmo meraviglioso ed a cui tutti gli aspetti noiosi del vivere sono stati
eliminati»12
(anche se poi gli stessi bambini scopriranno traumaticamente che «il
cinema è proprio l'opposto»).
L'idea forte di questa immagine, collegata alla fantasia infantile, è quella
della penetrabilità dell'arco scenico.
Solo in seguito l'idea dell'arco scenico come schermo, chiaramente
derivata dallo schermo cinematografico, alla quale egli è inizialmente legato,
verrà superata da Brook, quando gli apparirà chiaro che l'illusione teatrale
10 Il fili del tempo, p. 35. 11 I fili del tempo, p. 46.12Il punto in movimento, trad. it., di Isabella Imperiali e Raimonda Buitoni, Milano, Ubulibri,1987, p. 180.
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non si esaurisce nell'illusione della visione, ma si basa sullo spazio
intimamente condiviso fra attori e pubblico.
Il problema del ritmo-tensione, del non lasciare mai cadere l'attenzione
dello spettatore si presenta in termini analoghi: «Il fatto di lavorare fra il
cinema e il teatro mi rendeva sempre più consapevole dell'importanza diessere sensibile a un ritmo sotteso, difficile da scoprire, ma sempre in
attesa di essere percepito»: «Samuel Beckett - racconta Brook - mi spiegò
che quando scriveva una commedia, la vedeva come una serie di tensioni,
nel senso di fili d'acciaio tesi a congiungere un'unità a quella successiva [...]
Anche nel cinema la catena degli eventi non deve mai essere interrotta».
E allora finirà per cercare anche nel cinema le stesse modalità, pur nelle
differenze oggettive, del suo operare teatrale.
La principale di queste differenze / opposizioni sentita ed esplicitamente
dichiarata da Brook è il dominio dell'immagine vs potere evocativo-
suggestivo della parola, come nel Punto in movimento : «Nel cinema [...] vi è
un problema costante contro cui si deve sempre lottare: l'eccessivo potere
intrusivo dell'immagine, i cui dettagli rimangono nel campo visivo per un
tempo sempre superiore al necessario. se una scena di dieci minuti si
svolge in una foresta, non riusciamo mai ad eliminare gli alberi», adifferenza del teatro in cui la foresta è presente solo quando è evocata dalla
parola, anche «duecento battute più tardi» dalla prima: «Nell'intervallo tra
questi due momenti l'immagine è scomparsa, liberando lo spazio mentale in
cui impressioni di tipo diverso possono emergere, suscitate, per esempio,
da acute osservazioni dei pensieri e dei sentimenti nascosti sotto la
superficie del dramma». 13
Così è affascinato da un'idea di Salvator Dalì:
«Durante il pranzo parlò del film che voleva dirigere. E' una convinzione ridicola nel
cinema - disse - che la cinepresa sia sempre presente nei momenti drammatici di una
storia. Non è come la vita. Lui avrebbe chiuso con la consuetudine di inquadrare il centro
dell'azione. Lo spettatore, invece, avrebbe dovuto vedere una situazione banale e senza
senso - la cinepresa magari puntata su un pezzetto di muro - e di tanto in tanto
13 Il punto in movimento, p. 174.
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nell'inquadratura avrebbe fatto per qualche istante capolino un gomito o un pezzetto di
naso, suggerendo situazioni passionali ed eccitanti che accadevano fuori campo».14
Ed è quello che, sul piano della recitazione, mette in pratica con Jeanne
Moreau in Moderato cantabile.
«Jeanne Moreau, a mio avviso è l'attrice cinematografica ideale del nostro tempo
perché non caratterizza i suoi ruoli; recita nello stesso modo in cui Godard gira i suoi film
e con lei si riesce ad avvicinarsi il più possibile al documento sull'emozione. [...] Jeanne
Moreau lavora come un medium: d'istinto. Il personaggio le suscita un'impressione e
qualcosa poi in lei osserva mentre improvvisa e lascia che si sviluppi così come viene,
intervenendo appena come un bravo tecnico, qua e là quando, per esempio vuole
trovarsi in posizione frontale e a una giusta angolazione rispetto alla macchina da presa.Più che definire a priori come affrontare le difficoltà, Jeanne Moreau guida il flusso della
propria improvvisazione e quindi la sua recitazione è una continua proposta di minuscole
sorprese. All'inizio di ogni ripresa nessuno, nemmeno lei, sa esattamente che cosa
accadrà».15
Allora l'improvvisazione dell'attore è probabilmente una delle strade grazie
alla quale Brook cerca di superare le differenze fra teatro e cinema, di
trovare una analogia di metodo pur in due linguaggi e sistemi produttivi così
diversi.
Più che l'impalcatura teorica del rapporto fra linguaggio cinematografico e
linguaggio teatrale, conta il come questo rapporto è vissuto da ogni singolo
artista, come appare all'interno di una poetica, quali problemi crea, quali
soluzioni provoca, a quali risultati a quali sorprese, a quali invenzioni porta.
Quello che accomuna i due discorsi è quello che Brook chiama il «punto
di vista libero da tirannie»16, ben rappresentata dalla citazione della frase
che Renoir che avrebbe detto a Matisse: «dopo che ho sistemato un mazzo
di fiori per dipingerlo, lo giro sempre dall'altra parte e ritraggo il lato che non
avevo previsto». Ne è una testimonianza il racconto di come fu girato il
Marat-Sade:
«Questa volta chiesi all'operatore David Watkins di predisporre un'illuminazione di
base che lo lasciasse completamente libero durante le riprese; così, tenendo lui stesso la
14 I fili del tempo, p. 67. 15 Il punto in movimento, pp. 182-183. 16 I fili del tempo, p. 127.
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seconda camera, avrebbe potuto scegliere le sue inquadrature. al montaggio il materiale
più utile ed espressivo fu fornito in gran parte proprio da quest'occhio vagante».17
Ne Il Punto in movimento Brook mette spesso in rilievo le differenze dei
meccanismi di produzione, ma sembra muoversi anche in questo caso allaricerca di soluzioni analoghe: di qui la sua preferenza per un budget ridotto.
Se nel teatro conta la possibilità di aver tempo nelle prove, se la libertà
sta nel disporre di un gran tempo per le prove («il vero significato di "ricerca"
non è "più sperimentale", ma è semplicemente che il tempo non ha limiti
precisi e che non si è soggetti a pressioni per produrre un buon risultato
entro una data stabilita»)18, l'equivalente al cinema è avere tanti metri di
pellicola:
«Mi è sempre sembrato assurdo che gli amministratori delle produzioni più ricche
accettino senza porre alcuna difficoltà le spese più folli, ma si scandalizzino al minimo
spreco di pellicola; è come se uno scrittore avesse paura di fare delle cancellature per
timore che gli venga a mancare la carta.»19.
E proprio questo si dimostra il segreto per realizzare Il signore delle
mosche:
«Avevamo deciso di adottare un regime di stretta economia; [...] In questo modo
potemmo risparmiare migliaia di dollari e decidere che su due cose non si sarebbero fatte
economia: sulle esigenze dei bambini e sui metri di pellicola. [...] Fu la nostra salvezza,
perché, malgrado il cattivo tempo, le malattie, il fatto di non poter vedere il materiale
girato, la mancanza di un adeguato impianto luci, di attrezzature in genere, continuammo
a girare in contemporanea con diverse cineprese, filmando senza interruzioni sia quando
parlavamo con i bambini per dar loro indicazioni sia durante le diverse prove.
Alla fine avevamo sessanta ore ininterrotte di materiale filmato... e davanti a noi un
anno di montaggio; dai chilometri di nastro del sonoro che era stato registrato in ogni ora
del giorno, ricavammo il necessario per i dialoghi, incollando parola dopo parola alla
pellicola, come fossero francobolli…»20
***
17 I fili del tempo, pp.127-128. 18 I fili del tempo,p. 133. 19 Il punto in movimento, p.179. 20 Il punto in movimento, p. 179.
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«Una volta entro il teatro [...] restavo di solito incantato; ma non dalla storia o dalla
recitazione, erano le porte e le quinte a catturare la mia immaginazione. Dove
portavano? Come era organizzato il retro? Un giorno il sipario si alzò e la scena non era
quella delle pareti di un salotto. Era il ponte di una nave, di un vero transatlantico, ed era
inconcepibile che un così splendido transatlantico potesse finire all'improvviso dietro le
quinte. Dovevo sapere quali corridoi conducevano via da quelle spesse porte d'acciaio e
cosa c'era oltre gli oblò. Se non era il mare doveva essere l'ignoto».21
Credo ci sia uno stretto legame fra questo ricordo che ci riporta ancora
all'infanzia di Brook e il racconto dell'ingresso alle Bouffes du Nord, il teatro
parigino che forse meglio ci aiuta a rappresentare l' "altrove" di Brook: il
teatro «risorto dalle sue ceneri», «un teatro dimenticato e in rovina»; «uno
spazio raccolto » che può diventare un angolo di strada per scene crudeoppure un tempio per una celebrazione [...] esige dagli attori l'energia in
grado di pervadere un cortile, coniugata con la naturalezza con cui si recita
in una stanzetta»:
«L'edificio in cui ci intrufolammo era stato abbandonato da più di vent'anni ed era
utilizzato di tanto in tanto da senzatetto in cerca di un riparo. Non avevano esitato a
bruciare qualsiasi cosa fosse utile ad accendere un fuoco che poi soltanto la pioggia,
quando filtrava dai buchi del soffitto, provvedeva a spegnere. Le poltrone erano sparite, il
palcoscenico era sprofondato, il pavimento era ridotto a una serie di crateri pericolosi»22:
Se questa rievocazione, nelle pagine dell'autobiografia, è indispensabile
per capire l'atmofera di Histoire de Carmen e ne motiva il fascino
dell'ambientazione, è proprio nelle immagini del film girato nel teatro, più
che nell'approccio teorico, che possiamo cogliere il segreto della doppia
attività di Peter Brook.
Franco Vazzoler
21 I fili del tempo,p. 16. 22 I fili del tempo, p. 187.