RIFLESSIONI GEOPOLITICHE E GEOECONOMICHE SUL
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77RIVISTA ITALIANA DI INTELLIGENCE
Un tentativo di comprendere le dinamiche economiche epolitiche che ‘governano’ il calcio di oggi. Un fenomeno chenon è più sottoposto alle sole regole sportive, ma che semprepiù è assoggettato a leggi economiche e finanziarie, politichee geopolitiche. Si delineano all’orizzonte nuovi padroni delmondo calcistico, attratti da un business globale e dallavisibilità internazionale. Un’analisi che inizia e si sviluppaattorno al modello inglese, che più di altri è stato in gradodi cavalcare l’onda lunga della globalizzazione, perconcludersi con uno sguardo sulla ‘lunga marcia’ cinesealla conquista dello sport più diffuso e popolare al mondo.
PAOLO SELLARI
RIFLESSIONI GEOPOLITICHEE GEOECONOMICHE SUL
UN FENOMENO SOCIALE, UNA PRATICA ‘TRIBALE’
Unodei libri più noti tra i calciofili è certamente quello
dell’etologo e antropologo inglese Desmond Mor-
ris: Le tribù del calcio (1981). Nel volume, edito in Gran
Bretagna e tradotto in Italia nel 2016, l’autore cerca
di comprendere le radici del tifo confrontando i
comportamenti, i riti, le mitologie del football con quelle tribali. Da una parte i prota-
gonisti, che nella loro lunga evoluzione, si sarebbero trasformati da «cacciatori» a «cal-
ciatori». Dall’altra il pubblico, i gruppi sociali che convergono nella passione calcistica,
ponendo particolare attenzione ai fenomeni legati al tifo organizzato in gruppi struttu-
rati, i cui membri si riconoscono fra loro attraverso la comunicazione simbolica –
espressa dai loro abiti, dalle bandiere, dai cori, dalle liturgie – che, in una sorta di rito
collettivo, sanciscono e rafforzano l’identità dei tifosi.
CALCIO GLOBALE
Essa possiede molti più membri delle Nazioni Unite, tra cui le fede-
razioni di Hong Kong, Macao e Taiwan, le quali, pur non essendo ri-
conosciute come entità statali dall’Onu, mantengono il loro status di
autonomia calcistica. Parimenti la Palestina, a cui l’Onu riconosce la
condizione di osservatore permanente, ma che per la Fifa è un mem-
bro a tutti gli effetti sin dal 1998; così come il Kosovo, riconosciuto
‘solo’ da 115 paesi delle Nazioni Unite, ma membro effettivo della Fifa
dal 2016, così come Gibilterra4.
Il calcio, per la sua straordinaria presa sulle masse, è strumento per
l’affermazione dell’identità nazionale, d’indipendenza e sovranità, di
riconoscimento di un determinato potere geopolitico. Il 13 maggio
1990, nello stadio Maksimir di Zagabria, gli scontri tra Dinamo Zaga-
bria e Stella Rossa di Belgrado evidenziarono una situazione di
estrema ebollizione di rapporti che l’anno successivo sfociarono nel
sanguinoso conflitto balcanico. Un contesto, quello ex jugoslavo, che
ha visto di frequente utilizzare il rettangolo di gioco e gli spalti come
teatro di scontri politici e rivendicazioni nazionalistiche e, per molti
versi, geopolitiche.
GEOPOLITICA E MONDIALI
Il calcio, attraverso la sua espressione massima – il Campionato del
mondo – ha dato luogo a eventi ‘geo-politicizzati’: si pensi, ad esem-
pio, all’organizzazione del Mondiale del 1934 a celebrazione dell’Italia
mussoliniana e, ancora, alla decisione di assegnare all’Argentina dei
Generali la Coppa del Mondo del 1978 nel tentativo di normalizzare
agli occhi del mondo un paese sottoposto a un regime militare; si
pensi a ‘semplici’ ma significativi gesti di sfida al potere, come la de-
cisione imposta dal Duce di suscitare le ire francesi facendo indossare
la maglia nera alla nazionale italiana nei quarti di finale di Parigi nel
1938 contro i padroni di casa; al gesto del giocatore argentino Mario
Kempes il quale, sul palco della premiazione della finale del Mondiale
argentino – dove i vertici del regime non aspettavano altro che di es-
sere inquadrati dalle telecamere per prendersi quel tributo di gloria
che avrebbe significato aumento del consenso e un’immagine inter-
nazionale vincente – si voltò al momento della consegna della meda-
glia in segno di protesta contro Videla.
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RIFLESSIONI GEOPOLITICHE E GEOECONOMICHE SUL CALCIO GLOBALE
Gli studi sul fenomeno calcio fino alla fine degli anni Novanta, così come quello di
Morris, erano prevalentemente circoscritti alle componenti sociali del tifo, alla descri-
zione del ‘mito’ e alla narrazione eroica. Successivamente, al volgere del millennio, si
sono rivolti alle componenti e alle connessioni con la geopolitica e la geoeconomia, e
si sono allontanati dall’assunto di base che rappresenti ‘solo un gioco’. Esso si è rapi-
damente trasformato in un business sfrenato che gli ha sottratto parte del fascino pri-
mordiale del confronto sportivo, ma al tempo stesso lo ha eretto a soggetto industriale
e politico. Per questa ragione i paesi emergenti ricorrono anche a pratiche discutibili –
come evidenziato dal caso Qatar 2022 – pur di ottenere l’organizzazione di un evento
di portata e visibilità mondiale; le imprese globali ne cercano il controllo; le televisioni
e i mezzi di comunicazione di massa ne fanno il fulcro delle strategie di penetrazione
in nuovi mercati.
POLITICA E GEOPOLITICA INTORNO AL PALLONE
Pascal Boniface, direttore dell’Istituto per le Relazioni internazionali e strategiche di
Parigi, parlò per primo di Géopolitique du football nel suo libro del 19981, definendo il calcio
come «una specie di guerra non convenzionale, condotta con mezzi diversi dalle armi,
un veicolo diplomatico più efficace di lunghi discorsi e noiose risoluzioni dell’Onu» e
ancora «l’ultimo stadio della mondializzazione [...] uno dei fenomeni più grandi glo-
balmente riconosciuti, un impero enorme: più diffuso della democrazia, di internet e
dell’economia di mercato»2. Il calcio è un linguaggio universale, emozionale, capace di
muovere all’unisono passioni e denaro, ed è proprio grazie a questo suo universale ap-
peal sociale ed economico che la Fifa – istituzione che ne sovraintende l’attività inter-
nazionale – è riuscita ad affermarsi come un attore geopolitico di primo piano nel
sistema di governance globale. Il suo operato si è intersecato spesso con le dinamiche
della politica internazionale nelle procedure di riconoscimento delle federazioni nazio-
nali e, soprattutto, nell’assegnazione e organizzazione dei Campionati mondiali che,
insieme alle Olimpiadi, rappresenta la rassegna organizzata di sport / spettacolo sulla
quale si concentrano gli interessi economici delle multinazionali e le attenzioni dei
mass media globali. La Fifa rappresenta l’elemento ordinatore del calcio mondiale, la
struttura portante, autonoma, piramidale, organizzata in 211 federazioni nazionali e sei
confederazioni continentali, che ne hanno capillarizzato il potere3.
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PAOLO SELLARI
1. BONIFACE 1998. Ripreso e implementato nel volume del 2004, tradotto in italiano con il titolo La Terra è
rotonda come un pallone: geopolitica del calcio.
2. BONIFACE 2004.
3. Si tratta dell’Asian Football Confederation (Afc) in Asia, della Confédération Africaine de Football (Caf) in
Africa, della Confederation of North, Central America and Caribbean Association Football (Concacaf) in Ame-
rica settentrionale e centrale, della Confederacion sudamericana de Fùtbol (Conmebol) in America meridio-
nale, della Oceania Football Confederation (Ofc) in Oceania.4. Esistono anche stati, come il Principato di Monaco, le Isole Marshall, Palau e Tuvalu,
che aderiscono all’Onu ma non sono rappresentati calcisticamente.
tica e geoeconomica di nuovi attori: oltre ai significativi ed eclatanti mo-
vimenti finanziari tra le due sponde anglofone dell’Atlantico, di cui si dirà
in seguito, Russia, paesi del Golfo e Cina si sono progressivamente rivolti
al calcio con motivazioni che vanno al di là del semplice investimento.
Personaggi come Abramovic (Chelsea) o Rybolovlev (Monaco) hanno vo-
luto acquisire prestigio e rispettabilità, sia all’esterno che all’interno
dell’oligarchia russa. Gli investitori arabi hanno obiettivi più strettamente
legati al riconoscimento del loro ruolo geopolitico e alla trasmissione
all’esterno di un’immagine positiva di contesti dove, in realtà, l’apparato
politico istituzionale è molto arretrato e la ricchezza concentrata in po-
chissime mani. I cinesi utilizzano il calcio nel quadro della strategia di
soft power, che ha caratterizzato il loro espansionismo politico ed eco-
nomico a livello globale sin dagli anni Ottanta, e come strumento di coe-
sione identitaria interna. Il business e l’impatto sulla popolazione, sul
mercato e sul consumatore è d’altra parte enorme e la partita ‘calcistica’
si è andata arricchendo sempre più di nuovi asset economici, non sol-
tanto legati alla vendita dei biglietti delle partite ma in larga misura da
sponsorizzazioni, merchandising e diritti televisivi. Queste forze del cam-
biamento della struttura delle società e dell’intero sistema hanno portato
– conseguenza tipica dei fenomeni globali – a una marcata concentra-
zione della ricchezza in poche squadre di grandi città. Se analizziamo le
vincitrici dei principali campionati, oltre che della massima competizione
continentale, la Champions League, si osserva la concentrazione del po-
tere nelle città globali europee (Londra-Manchester, Parigi-Lione, Torino-
Milano, Monaco di Baviera, Barcellona-Madrid). Con la sola eccezione
della vittoria del Leicester nel 2016, il calcio che conta sembra essere po-
larizzato intorno ai grandi centri del potere non solo nazionale ma conti-
nentale e globale.
LE RIVOLUZIONI DEL CALCIO
Nel ponderoso volume dall’eloquente titolo Goal economy, Marco Belli-
nazzo osserva come nell’evoluzione economica e finanziaria del calcio si
possano individuare tre fasi accostabili per analogia a quelle dell’era in-
dustriale. Il periodo che va dagli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta
rappresenta la «prima rivoluzione del calcio». L’avvento della pay-tv è pa-
ragonabile all’invenzione della macchina a vapore di James Watt. In que-
sta fase il baricentro del calcio mondiale era saldamente in mano alle
squadre di quattro paesi europei: Italia (che tra gli anni Ottanta e Novanta
dominava la scena a livello di club), Spagna, Inghilterra e Germania.
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E ancora l’assegnazione dei Mondiali fuori dal circuito Europa-Sud America, nel 1994
in Usa e successivamente nel 2002 in Giappone-Corea del Sud, attraverso cui la Fifa
dava inizio alla realizzazione del disegno di universalizzare il calcio, ma soprattutto di
farlo diventare un business per le multinazionali e la comunicazione globale.
I Mondiali di calcio rappresentano (con le Olimpiadi) la ‘vetrina’ per eccellenza per un
paese che cerca affermazione, riconoscimento, credibilità su scala planetaria e costitui-
scono una grande occasione per la Fifa di realizzare i propri disegni geopolitici e geoe-
conomici, andando a sviluppare nuovi mercati calcistici e, quindi, un affare globale. Non
a caso le ultime tre rassegne sono state disputate in paesi Brics – Sudafrica, Brasile e
Russia, mentre l’edizione del 2026 verrà probabilmente assegnata alla Cina – e la con-
troversa assegnazione del 2022 al Qatar ha, in un certo qual modo, inteso premiare il
piccolo emirato per il suo ruolo geopolitico, regionale e globale5.
Sul Mondiale di calcio convergono le strategie delle più grandi multinazionali non solo
dello sport. Basti osservare l’impressionante crescita del valore dei ricavi da quello del
1990 in Italia (65 milioni di euro) a quello del 2014 in Brasile (2,1 miliardi di euro). Un
dato che fornisce l’immagine degli interessi globali sul movimento calcistico. Ad esem-
pio, l’allargamento a un numero sempre maggiore di squadre nazionali non appartenenti
allo storico bacino euro-sudamericano è stato funzionale sia al conseguimento del con-
senso ‘politico’ del blocco dei paesi emergenti, sia all’interesse verso nuovi mercati po-
tenziali, sempre più integrati e globali.
UN BUSINESS GLOBALE
La configurazione del calcio contemporaneo, fortemente piramidalizzato e concentrato
in pochi paesi e in pochi attori, è profondamente diversa da quella che fino a un ven-
tennio fa ha scritto la storia di questo sport, dal 1863 in poi, quando un gruppo di 11
squadre inglesi, formando la Football Association, si diedero regole comuni e avviarono
il gioco più diffuso nel mondo. Da allora, e a seguito della globalizzazione, il calcio è di-
ventato altro. Il numero dei giocatori è rimasto lo stesso, così come il senso del gioco
e le sue regole. Tutto il resto si è profondamente modificato, dagli arbitri – passati da
uno a tre e poi a quattro, a sei e ora di nuovo a quattro ma con il supporto tecnologico
del Video Assistant Referee (Var) – alla tipologia di pubblico (in principio era un gioco
rivolto a un’élite, per poi diventare progressivamente fenomeno di massa e, quindi, te-
levisivo / virtuale). A seguito dell’avvento delle televisioni, le immagini hanno avuto una
diffusione transnazionale e, da sport, il calcio si è trasformato nel binomio inscindibile
formato da business e spettacolo. Dal volgere del millennio, i correlati movimenti fi-
nanziari hanno disegnato traiettorie impensabili in concomitanza con l’ascesa geopoli-
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5. La successiva indagine dell’Fbi sulle presunte corruzioni antecedenti alla votazione che assegnò i mondiali
2022 al Qatar, condotta dal procuratore generale Loretta Lynch, portò alle dimissioni dei vertici della Fifa.
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I diritti televisivi elargiti alle società innescarono, al volgere del secolo, un processo cir-
colare di accumulazione di capitali spesso reinvestito nell’allestimento di una squadra
competitiva in grado di primeggiare, creando la base per operazioni di marketing e fi-
nanziarie tra cui la costruzione di stadi. Era la «seconda rivoluzione del calcio», parago-
nabile a quella industriale del 1870 con l’introduzione dell’elettricità e del petrolio. In
questa fase iniziò a consolidarsi il dominio dei campionati e delle squadre inglesi, te-
desche e delle due squadre spagnole del Real Madrid e del Barcellona. Dal 2010 siamo
entrati nella «terza rivoluzione del calcio», equiparabile a quella elettronica e informa-
tica. Questa fase è caratterizzata dalla finanziarizzazione del sistema, che vede il coin-
volgimento di tutti quei mercati emergenti nei quali le multinazionali – attraverso il
veicolo calcio – possono iniziare a operare o a rafforzarsi attraverso massicci investi-
menti. Una rivoluzione che sancisce l’ingresso a pieno titolo del calcio nell’economia e
nella comunicazione globale, che progressivamente lo de-territorializza per traslarlo in
una dimensione semi-virtuale. Le squadre più famose diventano attori globali al pari
delle star di Hollywood, i loro idoli conosciuti in ogni angolo del mondo. Si organizzano
tournée in luoghi calcisticamente remoti per esportare il proprio brand e dunque per
attirare nuovi capitali. Il calcio, in definitiva, diventa una vera e propria industria globale.
Il baricentro, pur restando tecnicamente in Europa, si sposta verso i poli geoeconomici
dominanti del pianeta: Stati Uniti, Medio Oriente petrolifero, India e Cina. Un ‘risiko’
planetario che vede i club come territori da assediare e occupare in una gara spasmodica
tra sponsor tecnici, multinazionali e grandi imprese, e nel quale poteri finanziari eco-
nomici e componenti geografiche confluiscono.
LA PRIMA RIVOLUZIONE: LE PAY-TV
Nel suo romanzo Infinite Jest (1996), David Foster Wallace evidenzia l’accumulo di spet-
tacoli televisivi e la dipendenza dal consumo visivo di immagini come tendenze domi-
nanti della nostra epoca. Dipendenza che ha bisogno di alimentarsi continuamente, che
diventa emozione derivante dal piacere estetico ma anche dall’identificazione dei con-
tendenti che, a sua volta, produce senso di appartenenza e narrazione mitologica.
Il calcio, così come molti spettacoli televisivi e sportivi, diventa sempre più un oggetto
del consumo televisivo di massa e sempre meno un evento che rappresenta la «secola-
rizzazione della forma teologica del giorno del riposo», la liturgia del sabato o della do-
menica con il radunarsi nello «stadio-tempio» da parte delle masse lavoratrici inurbate.
Esso subisce una vera e propria rivoluzione nel 1992 con la cessione dei diritti televisivi
tra la Premier League e l’emittente BSkyB di Rupert Murdoch. Nacque allora quello che
alcuni hanno definito come il neo-calcio o «seconda rivoluzione calcistica»6.
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Se il Novecento era stato il secolo delle federazioni, delle regole, del potere piramidale,
nel XXI secolo il governo del calcio è concentrato nella base (le leghe nazionali) e si tra-
sforma rapidamente in un’attività ‘industriale’. Un’attività in cui non esiste l’accentra-
mento monopolistico ma che, al contrario, deve sostenere il numero più ampio di
competitori i quali, nell’ottica del business, si trasformano in attori di una cooperazione
forzata. Nessun club, per quanto potente e prestigioso, può produrre e vendere spetta-
coli sportivi da solo ma obbligatoriamente in accordo con altri club. Una caratteristica
dell’industria dello sport che deve fondarsi su un continuo allargamento della base degli
‘utenti’ (e da qui l’ampliamento di orizzonte verso i mercati emergenti) ma anche su un
progressivo approfondimento verticale della relazione con essi. Approfondimento che
si manifesta nella capacità di sviluppare, oltre ai brand globali – quelli delle grandi squa-
dre conosciute nel mondo – anche quelli ‘minori’ capaci di coinvolgere soggetti econo-
mici, pubblico, utenti e consumatori a livello locale.
Il mondo dello sport, e quello del calcio in particolare, vive – come la politica, d’altronde
– di una caratteristica transcalarità che fa sì che l’individuo possa essere considerato un
‘utente’ o un ‘consumatore’ locale e globale, a seconda del contesto di riferimento, e in
grado di passare continuamente tra le due scale. Si può essere contemporaneamente
tifoso della nazionale di calcio durante le competizioni internazionali, della Juventus a
livello nazionale, della Ternana a livello provinciale e del Gubbio a livello locale. E ad-
dirittura simpatizzare a livello globale per il Barcellona o il Real Madrid che, tra le proprie
fila, schierano i più grandi idoli del calcio contemporaneo. Caratteristica che rende il fe-
nomeno sportivo, e calcistico nello specifico, molto simile ai fenomeni che hanno ali-
mentato e trasformato la comunicazione globale, in grado di permeare processi di
socializzazione anche a distanza, di suscitare e controllare emozioni e di generare dina-
miche economiche geograficamente imprevedibili in un processo circolare che coinvolge
sempre più attori al di fuori del contesto storico rappresentato dai ‘bacini’ tradizionali.
L’ASSE EURO-ATLANTICO
Nel corso degli incontri del Mondiale negli Stati Uniti del 1994, un delegato della Fifa
posizionato a bordo campo comunicava all’arbitro il momento in cui poteva dare inizio
al gioco: momento che coincideva, non a caso, con la fine della pubblicità televisiva. Fu
evidente come poteri esterni a quelli tradizionali, all’«autonomia» dell’evento iniziassero
a sovrapporsi in maniera significativa alle dinamiche del gioco. Era la data d’inizio del-
l’irreversibile commistione d’interesse tra industria e calcio. Dagli Stati Uniti, con de-
stinazione Regno Unito, dunque arrivava il vento del cambiamento, che si manifestò al
volgere del nuovo millennio con l’acquisto (nel 2001) del glorioso Liverpool da parte
del gruppo Fenway (proprietario della squadra di basket Nba dei Boston Celtics) e diede
inizio all’epoca delle acquisizioni di club prestigiosi da parte di potentati finanziari stra-
nieri. Seguirono, tra le più note, quella del Manchester United nel 2005 da parte della fa-6. LIGUORI – SMARGIASSE 2003.
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Quella che fu definita «elitarizzazione» dello stadio calcistico8 fu il risultato della trasfor-
mazione del ‘teatro’ calcistico in un centro di attrazione per attività economiche che non
poteva tollerare i rischi di tensioni dovute al pericolo ‘ultras’, ed ebbe come conseguenza
la trasformazione dell’evento sportivo in spettacolo televisivo.
Da una parte, quindi, il calcio dal vivo diventava un prodotto per ‘ricchi’, disposti a spen-
dere per l’acquisto di prodotti del merchandising e di servizi ad alto valore aggiunto al-
l’interno dello stadio, dall’altro la base degli utenti garantiva alle pay-tv i fondi necessari
per alimentare il sistema calcio attraverso i diritti televisivi elargiti ai club.
A tale proposito una semplice riflessione di natura geografica permette di comprendere
il motivo per il quale alcuni paesi di grande tradizione calcistica siano stati progressi-
vamente emarginati dall’élite del calcio europeo a favore dei club dei paesi con una
base demografica molto più ampia. Si pensi, tra i tanti, al declino del calcio olandese –
fortissimo con l’Ajax e il Feyenoord sino ai primi anni Novanta – che non ha potuto con-
tare su una popolazione nazionale paragonabile a quella, ad esempio, della Gran Bre-
tagna, su cui costruire un mercato televisivo in grado di sostenere il proprio sistema
calcio. E così per altri contesti, come quello belga, quello austriaco, quello dei paesi
della ex-Jugoslavia che sono via via scomparsi dal protagonismo europeo.
La globalizzazione del calcio britannico ha nel Medio Oriente e nell’Asia un altro pro-
pulsore fondamentale. La crescita del giro d’affari della Premier e la sua visibilità inter-
nazionale attirano investitori orientali disposti a enormi investimenti pur di aver accesso
ai network mediatici occidentali.
L’antesignano degli investitori extraeuropei fu l’imprenditore egiziano Mohamed Al
Fayed, proprietario di Harrods, che nel 1997 acquisì il Fulham, la più antica delle squa-
dre londinesi (1867). Nel 2007 la quota di maggioranza del Manchester City passò ai
thailandesi dell’UK Sport Investments. L’anno successivo il club venne acquisito dal
principe emiratino Mansour9. Il Leicester dal 2010 fu acquisito dalla cordata Asian Fo-
otball Investments guidata dalla King Power Group (multinazionale nel settore dei duty
free) mentre nel 2010 l’Hull City passò all’industriale egiziano Assem Allam.
Dalla nascita della Football Association nel 1863, passando per la creazione della Pre-
mier League nel 1992, il calcio è progressivamente diventato un mezzo, non il fine. Il
gol rappresenta non solo l’apoteosi della passione sportiva, ma soprattutto il ritorno
di un investimento per soggetti esterni al tradizionale coinvolgimento emotivo. Gli in-
glesi, prima e più degli altri paesi calcisticamente avanzati, hanno saputo interpretare
la globalizzazione e inserirsi nelle sue logiche assecondando la propria vocazione na-
turale all’internazionalizzazione, favoriti anche da fattori geopolitici derivanti dal legame
imperiale che la Corona è riuscita a mantenere con i paesi del Commonwealth e dal co-
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miglia Glazer (proprietaria della squadra di football americano Tampa Bay Buccaneers),
quella dell’Arsenal nel 2011 da parte della Kroenke Sports Enterprises (che raggruppa
diverse squadre professionistiche di basket, football americano e baseball). Nel mezzo,
quella del Chelsea nel 2003 da parte del magnate russo Roman Abramovic. Con l’esclu-
sione di quest’ultima, tutte le acquisizioni furono a opera di fondi finanziari e imprese
statunitensi, sfruttando il comune idioma ed esportando un modello di gestione del-
l’evento sportivo che aveva caratterizzato sino ad allora il panorama degli sport tipica-
mente ‘americani’. I grandi potentati statunitensi hanno trovato in Gran Bretagna l’humus
ideale per far maturare i propri interessi. Una scelta derivante dall’esistenza di un ‘sistema
calcio’ avanzato rispetto al resto d’Europa, anche e soprattutto in tema di infrastrutture
(le ristrutturazioni del ‘Piano Thatcher’ avevano impresso una decisa accelerazione verso
il concetto di stadio moderno – vedi infra) che potevano facilmente diventare il principale
asset della società calcistica. Le motivazioni non erano esclusivamente di natura finan-
ziaria. Il calcio poteva diventare uno dei terreni di scontro tra le economie dominanti per
la conquista di posizioni privilegiate sullo scacchiere internazionale. E gli Usa volevano
essere presenti nella contesa dell’industria dell’entertainment globale.
IL NUOVO PARADIGMA DEL CALCIO INGLESE
Il ‘calcio globale’ riesce a produrre effetti in comunità di persone a migliaia di chilometri
di distanza dal teatro di svolgimento dell’evento sportivo. Più individui si coinvolgono
più il potere è grande, secondo le regole e le dinamiche del processo di globalizzazione
economica. Il calcio inglese, in piena sinergia con le leghe professionistiche americane,
lo ha compreso e ha saputo intercettare flussi economici e finanziari che gli hanno per-
messo di diventare il calcio più ‘ricco’ al mondo7. Le trasformazioni e la crescita econo-
mica del calcio inglese sono state la conseguenza di molti episodi, alcuni dei quali
drammatici, legati al fenomeno hooligan, come le stragi di Bradford e dell’Heysel (maggio
1985) e quella di Sheffield (1989), a seguito delle quali il governo di Margaret Thatcher
operò una profonda riforma della gestione degli stadi, volta a garantire l’allontanamento
dei tifosi violenti e la massima sicurezza per il pubblico. Si decise, nello specifico, di tas-
sare del 2,5% tutte le scommesse sportive del Regno Unito per finanziare attraverso il Fo-
otball trust il riammodernamento, come avvenne, delle arene. Il calcio d’oltremanica
diventò man mano uno spettacolo che perdeva quella valenza sociale di attrattore delle
masse lavoratrici inurbate per diventare il palcoscenico sul quale i protagonisti dovevano
osservare regole rigidissime e sopportare costi significativamente maggiori.
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7. Secondo il Football Money League Report stilato dalla Deloitte, una multinazionale di servizi e studi sulla co-
municazione, dei 30 club più ricchi d’Europa ben 17 sono inglesi. Complessivamente, la Premier ha introiti
per 4,5 miliardi di euro, la Bundesliga ha di poco superato la soglia dei tre miliardi, la Liga – spinta dal duo-
polio Real-Barcellona – si attesta sui 2,8 miliardi, la Serie A ristagna sotto i due miliardi, mentre la Ligue 1
francese è intorno a 1,5 miliardi.
8. BELLINAZZO 2015.
9. L’operazione era legata anche a interessi economici nel settore aereo che videro la compagnia Ethiad im-
pegnarsi a trasformare l’aeroporto di Manchester in un importante hub.
PAOLO SELLARI
di squadra, incarna in maniera unica valori e modelli politici, coniugando patriottismo,
impresa, aggregazione sociale e influenza internazionale, integrandosi perfettamente nella
politica del soft power. Le strategie sono indirizzate agli investimenti sulla Chinese League
e all’acquisizione di quote societarie nel calcio europeo. Questo obiettivo si è materializ-
zato con l’ingresso del gruppo Wanda nel pacchetto azionario dell’Atletico Madrid, del
club olandese Ado Den Haag, di quello francese del Sochaux, dello Slavia Praga, dell’Espa-
nyol di Barcellona, del Granada, del Nizza, dell’Aston Villa, del Birmingham city del Wol-
verhampton e, infine, delle due squadre milanesi dell’Inter e del Milan. Si tratta,
probabilmente, dei primi passi della ‘lunga marcia cinese’ alla conquista dello sport più
popolare al mondo. D’altronde Arsene Wenger, allenatore dell’Arsenal, nel 2016 aveva av-
vertito: «I cinesi hanno i mezzi economici per saccheggiare il calcio europeo». Affermazione
confermata dalla successiva sessione invernale del mercato nella quale i club cinesi su-
perarono per valore di mercato quelli della Premier League, investendo una cifra che da
sola era maggiore della somma di quelle della Serie A, della Liga, della Bundesliga e della
Ligue 1. La scelta di Pechino di stimolare gli investimenti nel calcio non è solo legata a
interessi economici delle proprie imprese e all’espansione dei rispettivi mercati, ma ha
anche ragioni di natura geopolitica. Verso l’interno, Xi vorrebbe ridurre il peso degli sport
individuali, nei quali la Cina primeggia da anni, a favore degli sport di squadra, che favo-
riscono l’identificazione e rafforzano il sentimento nazionale. La creazione di un campio-
nato nazionale di primissimo livello concentrerebbe, inoltre, l’attenzione della crescente
classe media e, come già successo per i bacini della manodopera dell’Inghilterra di metà
Novecento, rappresenterebbe un elemento catalizzatore dell’interesse delle masse lavo-
ratrici inurbate. Verso l’esterno, eventuali successi calcistici futuri a livello internazionale
avrebbero un riverbero mediatico tale da rafforzare il prestigio cinese. Si tratta, con ogni
probabilità, di pura propaganda, in considerazione del fatto che il fenomeno calcio ha, al-
trove, radici profonde e lontane, vive e si alimenta anche grazie a un patrimonio culturale
sedimentato nei decenni. Più verosimile è l’accrescimento dell’interesse cinese verso il
business del calcio europeo e le ipotesi recenti di far effettuare incontri di rilievo in Cina
– ad esempio le finali delle Coppe nazionali europee – allontanando lo spettacolo sportivo
dai tradizionali bacini di utenza, rendendolo sempre meno ‘espressione territoriale e cul-
turale’ e sempre più ‘fenomeno virtuale’. La globalizzazione, d’altro canto, è anche questo
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mune linguaggio comunicativo, realizzando una sorta di ‘neo-imperialismo’ calcistico
globale10. In Europa la sola Spagna sembra poter reggere il confronto, potendo sfruttare
meridiani e lingua, oltre alla forza di attrazione di due grandi club. A questo va aggiunta
anche una notevole capacità organizzativa e manageriale che punta a valorizzare i settori
giovanili. Tuttavia, la quasi totale concentrazione della ricchezza e della competitività
in due sole squadre (Real Madrid e Barcellona) non può far parlare di ‘modello spagnolo’
di sviluppo del calcio globale. Si tratta di due club dal grandissimo blasone e di due
brand, costruiti con anni di storia e di successi, che hanno saputo attrarre eccellenze
calcistiche che hanno alimentato un circolo virtuoso stimolato anche da un sistema di
defiscalizzazione favorevole. Tuttavia, l’interesse di investitori stranieri è sempre più cre-
scente anche nel calcio iberico, come testimonia l’acquisto di parte del pacchetto azio-
nario dell’Atletico Madrid da parte del colosso commerciale cinese Wanda.
Il modello tedesco appare, invece, decisamente diverso dal resto d’Europa. A differenza
della Premier che ha imperniato il suo modello sulla crescita dei ricavi e sull’interna-
zionalizzazione, la Germania ha preferito una crescita lenta e costante e, soprattutto,
un regime di autarchia che si fonda sulla regola del 50%+1, che di fatto impedisce a un
singolo investitore di controllare un club il cui pacchetto di maggioranza, salvo alcune
eccezioni, deve appartenere a un’associazione di tifosi. Il sistema è ‘garantito’ da una
ferrea alleanza con il forte sistema industriale – che restituisce il proprio supporto so-
prattutto sotto forma di sponsorizzazioni11 – e fonda il suo successo su stadi modernis-
simi e su un mercato interno solido che assicura grandi sinergie, oltre che su un’efficace
programmazione giovanile e sull’integrazione multietnica.
LA LUNGA MARCIA CINESE
Nell’ottobre 2015 il presidente Xi Jinping, durante una visita all’Academy del Manchester
City, dichiarò: «Mi auguro che la mia nazionale possa diventare una delle migliori al
mondo e che il calcio giochi un ruolo importante per le persone per rafforzare spirito e
corpo». Nell’aprile 2016 fu pubblicato a Pechino il Piano di sviluppo di medio e lungo termine del
calcio cinese (2016-2050) che – secondo le dichiarazioni dello stesso Xi – dovrebbe portare
all’organizzazione della Coppa del Mondo di calcio e alla vittoria cinese della prestigiosa
manifestazione. Il Piano contempla la costruzione di nuovi stadi, di centri sportivi e la
creazione di 20.000 scuole calcio. La Cina è all’ottantesimo posto del ranking Fifa e ha
dunque un ruolo del tutto marginale. Tuttavia, gli investimenti e i proclami fanno presup-
porre uno sviluppo senza precedenti. Xi ha scelto di puntare sul calcio perché, come sport
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BIBLIOGRAFIA
M. BELLINAZZO, Goal economy. Come la finanza globale ha trasformato il calcio, Baldini & Castoldi, Milano 2015.M. BELLINAZZO, I veri padroni del calcio, Feltrinelli, Milano 2017.P. BONIFACE (a cura di), Géopolitique du football, Complexe, Bruxelles 1998.P. BONIFACE, La Terra è rotonda come un pallone. Geopolitica del calcio, Il Minotauro, Roma 2004.J.C. CATALIOTTI – T. FABRETTI, Il business nel pallone, Mursia, Milano 2015.G. LIGUORI – A. SMARGIASSE, Calcio e neocalcio. Geopolitica e prospettive del football in Italia, Manifestolibri,Roma 2003.D. MORRIS, Le tribù del calcio, Rizzoli, Milano 2016.P. RUSSO, Gol di rapina. Il lato oscuro del calcio globale, Edizioni Clichy, Firenze 2014.D.F. WALLACE, Infinite Jest, Einaudi, Torino 2006 (trad. di Edoardo Nesi).
10. La proprietà di oltre il 60% delle squadre della Premier League è in mano a investitori di Emirati, Usa,
Russia, Svizzera, Egitto, Malesia.
11. Il Bayern Monaco, ad esempio, ha tra i propri soci le multinazionali Adidas, Allianz e Audi (per il 25%
totale) mentre il 75% è posseduto dall’associazione sportiva che annovera più di 250.000 membri. Alcune
squadre appartengono al 100% all’azionariato popolare (è il caso del Werder Brema, dell’Augsburg, dello
Schalke 04), altre sono collegate alle imprese del territorio (ad esempio, lo Stoccarda è legato alla Mercedes,
il Wolsfburg alla Volkswagen e il Leverkusen alla farmaceutica Bayer).
PAOLO SELLARI