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NOTE E DISCUSSIONI RIFLESSI DI STORIA CONTEMPORANEA NELL’OPERA DI CESARE BATTISTI Cinquantanni dopo il sacrificio di Cesare Battisti la casa editrice « La Nuova Italia » ha pubblicato la raccolta degli scritti di lu i l. Di questi scritti, due volumi contengono l’epistolario, che va dal 20 novembre 1893 al 9 luglio 1916, e si chiudono col testo di quelle ultime parole che Ce' sare Battisti dettò all’impiegato del tribunale militare austriaco subito dopo la condanna a morte, perchè fossero consegnate al fratello Giuliano, allora relegato in Boemia nella compagnia di disciplina dei sospetti politici trentini. Il terzo volume raccoglie gli scritti politici e sociali, materia in gran parte edita, perchè qui confluita dalla vasta attività di pubblicista e di oratore che costituì l’aspetto prevalente dell’opera di Cesare Battisti. E’ doveroso segnalare la ricchezza dei riferimenti e delle note che accompagnano i testi e che, illustrando uomini, fatti e circostanze ignote, sono di grande aiuto alla comprensione di un particolare ambiente, che, se nei problemi che lo travagliano attinge a motivi di un’importanza che valica ampiamente gli stretti confini della regione, pure, nello svolgersi minuto e frammentario degli avvenimenti, nel comportamento dei sin- goli individui, assume spesso> un carattere angustamente provinciale. Attraverso queste pagine possiamo ricostruire non solo la storia del Trentino dagli ultimi anni del sec. XIX fino al 1915, ma, quello che più conta, possiamo in esse vedere rispecchiati nei loro termini essenziali molti dei problemi che caratterizzarono la storia d’Italia e sotto certi aspetti anche la storia d’Europa, nel quarto di secolo che precedette la prima guerra mondiale. I principi che ispirarono il moto risorgimentale del XIX see. si stanno ormai estinguendo nel loro compimento, che avrà la sua ultima crisi nel- l’oscuro travaglio delle trattative della pace di Versailles; tuttavia, quei principi, a più di trent’anni dalla presa di Roma e a più di vent’anni dalla Triplice Alleanza, hanno ancora in sè tale residuo di potere da te- nere accesa nella coscienza di una minoranza qualificata la passione del- l’irredentismo sia nel Trentino che nella Venezia Giulia. La politica repressiva dell’Austria nelle province italiane pone le po- polazioni in condizione di non poter tollerare le grettezze e i soprusi di un regime che minaccia la vita stessa dei territori soggetti e che, impe- 1 C esare B attisti , Scritti politici e sociali, a cura di Renato Monteleone. Introdu- zione di Alessandro Galante Garrone, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1966, pp. 612, L. 5000. C esare B attisti , Epistolario, a cura di Renato Monteleone e Paolo Alatri. Introduzione di Paolo Alatri, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1966, voli. 2, pp. 965, L. 8000.

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N O T E E D I S C U S S I O N I

RIFLESSI DI STORIA CONTEMPORANEA

N ELL’OPERA DI CESARE BATTISTI

Cinquantanni dopo il sacrificio di Cesare Battisti la casa editrice « La Nuova Italia » ha pubblicato la raccolta degli scritti di lu il. Di questi scritti, due volumi contengono l’epistolario, che va dal 20 novembre 1893 al 9 luglio 1916, e si chiudono col testo di quelle ultime parole che Ce' sare Battisti dettò all’impiegato del tribunale militare austriaco subito dopo la condanna a morte, perchè fossero consegnate al fratello Giuliano, allora relegato in Boemia nella compagnia di disciplina dei sospetti politici trentini.

Il terzo volume raccoglie gli scritti politici e sociali, materia in gran parte edita, perchè qui confluita dalla vasta attività di pubblicista e di oratore che costituì l’aspetto prevalente dell’opera di Cesare Battisti.

E ’ doveroso segnalare la ricchezza dei riferimenti e delle note che accompagnano i testi e che, illustrando uomini, fatti e circostanze ignote, sono di grande aiuto alla comprensione di un particolare ambiente, che, se nei problemi che lo travagliano attinge a motivi di un’importanza che valica ampiamente gli stretti confini della regione, pure, nello svolgersi minuto e frammentario degli avvenimenti, nel comportamento dei sin­goli individui, assume spesso> un carattere angustamente provinciale.

Attraverso queste pagine possiamo ricostruire non solo la storia del Trentino dagli ultimi anni del sec. XIX fino al 19 15, ma, quello che più conta, possiamo in esse vedere rispecchiati nei loro termini essenziali molti dei problemi che caratterizzarono la storia d ’Italia e sotto certi aspetti anche la storia d’Europa, nel quarto di secolo che precedette la prima guerra mondiale.

I principi che ispirarono il moto risorgimentale del XIX see. si stanno ormai estinguendo nel loro compimento, che avrà la sua ultima crisi nel­l’oscuro travaglio delle trattative della pace di Versailles; tuttavia, quei principi, a più di trent’anni dalla presa di Roma e a più di vent’anni dalla Triplice Alleanza, hanno ancora in sè tale residuo di potere da te­nere accesa nella coscienza di una minoranza qualificata la passione del- l’ irredentismo sia nel Trentino che nella Venezia Giulia.

La politica repressiva dell’Austria nelle province italiane pone le po­polazioni in condizione di non poter tollerare le grettezze e i soprusi di un regime che minaccia la vita stessa dei territori soggetti e che, impe-

1 C e s a r e B a t t i s t i , Scritti politici e sociali, a cura di Renato Monteleone. Introdu­zione di Alessandro Galante Garrone, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1966, pp. 612, L . 5000.

C e s a r e B a t t i s t i , Epistolario, a cura di Renato Monteleone e Paolo Alatri. Introduzione di Paolo Alatri, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1966, voli. 2, pp. 965, L . 8000.

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dendo l’attuarsi di provvedimenti adeguati, mortifica le istituzioni, l’eco- nomia, la cultura, in una parola la civiltà di regioni di nobile tradizione, e ricche di vitali possibilità di sviluppo.

Quando Cesare Battisti adolescente si volge a considerare i pro­blemi del Trentino con il proposito già acquisito di recare un contributo fattivo allo sforzo per riscattare la sua terra dall’oppressione austriaca, sente che, per giungere a tal fine, non si possono più battere le vie tra­dizionali ormai consunte, ma è necessario, invece, percorrere una via nuo­va, nella quale i problemi di libertà e di indipendenza non si disgiungano da quelli che i tempi hanno maturato e che si impongono con le loro istanze ogni giorno ipiù vive alla dinamica di una società moderna : i problemi della giustizia sociale.

All’amico Assunto Mori nel 1894, all’età di diciannove anni, il Bat­tisti scrive :

« In questo mese mi applicai molto allo studio del socialismo e sono anch’io socialista convinto. Fra studenti trentini s ’è organizzato un piccolo circolo socialista con l’ intenzione di far propaganda specialmente nei paesi di campagna ». (Episto- lario, vol. I, pag. 24).

La sua natura di uomo d’azione lo porterà, perciò, a dare forma concreta alle sue nuove aspirazioni, e gli farà superare le più aspre diffi­coltà per dar subito vita ad un organo di stampa che sarà « L ’Avvenire » edito a Vienna per eludere i rigori della polizia di Trento. Su questo foglio uscirà nel 1895 lo scritto « Patria e socialismo » nel quale il Battisti chiarisce a se stesso la possibilità di conciliare i presupposti ideologici del socialismo con le esigenze del movimento, prima autonomistico, poi irre­dentistico, e giungere così alla soluzione del problema politico del Tren­tino, attraverso la soluzione del problema sociale.

« Il socialismo tende a spogliare il sentimento nazionale da quell’orgoglio bar­barico che lo deturpa; il socialismo non vuole che si ripeta il nefando costume di onorare i propri grandi col detrarre quelli delle altre nazioni, che si riconosca l ’eroismo e la magnanimità solo nei martiri della propria patria per coprire di con­tumelie gli eroi nazionali degli altri .popoli, ili socialismo domanda, che, messo da parte ogni spirito di odio, si prenda il .bello e il buono dovunque si trovi, in Austria come in Francia, in Inghilterra come in America... Scopo della propaganda socia­lista è soprattutto quello di sollevare la condizione economica dei lavoratori perchè possano farsi coscienti della loro dignità d’uomini, dei loro doveri, dei loro diritti perchè l ’uomo che è abbrutito dalla miseria e che in causa di questa non ha fiducia in se stesso e nelle .proprie forze non può certamente assurgere a nobili grandi ideali. Per esempio il Trentino ha dato negli .ultimi anni tristissime prove di que­sta verità, che il sentimento patriottico di un paese è esclusivamente determinato dalle sue condizioni economiche. Dateci una massa di contadini poveri, sofferenti, pieni di debiti verso qualche signore; a un cenno del creditore, fatto arbitro della loro vita, essi rinnegheranno le idee più nobili e generose e proclameranno alta­mente che per essi patria vuol dire pane ». (Scritti politici e sociali, pag. 18-19).

Questa visione realistica porta di necessità il Battisti a rifuggire da quella forma di idealità patriottica che si manifesta attraverso la fatua retorica, che esaurisce se stessa nel vuoto delle parole; male antico di certa borghesia intellettuale italiana, che a Trento costituiva la maggior parte di quel partito liberale-nazionale, di cui il Battisti segnalava, fin

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dal 1894, con Prove di fatti, l’avanzata degenerazione. Fra queste prove vi è una testimonianza incredibile nelle parole di servile ossequio con le quali il vice-sindaco Dorigoni, ex-garibaldino, salutava l ’imperatore in visita a Trento. Commenta il Battisti:

« I pochi giovani che protestarono contro questo laido contegno, passarono per dei mattoidi squilibrati guastamestieri ». (Scritti politici e sociali, pag. 58).

Non c’era, d’altra parte, da stupirsi di ciò, quando si pensi che dopo il 1878 e più che mai dopo la Triplice, la questione dell’irredentismo trentino non fu più ufficialmente ammessa dal governo italiano. Nel 1889 il Crispi scioglieva, infatti, i comitati pro Trento e Trieste e condanna­va, perseguitandolo, il movimento irredentista.

« L ’ italianità del Trentino ebbe un solo sostenitore: l’Austria. Fu l'Austria che inferocendo sempre più e cinicamente negando agli italiani ad essa soggetti ogni più piccolo diritto, li mantenne in stato di ribellione, li ritemprò nella lotta, nell'amore alla patria... La parola d ’ordine che da Roma giungeva ai giornali era: Silentium! Le cronache di Trento e Trieste furono soppresse da tutta la stampa. La Triplice continuava a rinnovarsi. I problemi degli italiani in Austria, i problemi dell’Austria stessa erano sistematicamente trascurati. (Scritti politici e sociali, pag. 565).

Erano gli anni in cui il Battisti, contemplando la situazione politica, vedeva con rammarico l’Italia dei Pelloux più reazionaria delBAustria stessa.

In questa atmosfera non è perciò strano che egli scrivesse nel feb­braio 1897 alla fidanzata queste amare parole:

« A Trento sono un vero solitario, un reietto dalla classe borghese. Non credo si possa trovar tanto facilmente un paese dove il sentimento di classe sia così forte come nel Trentino e così accanito l'odio per non dir la ferocia contro i borghesi socialisti. (Epistolario, vol. I, pag. 49).

Nulla, peraltro, poteva scoraggiare l’opera indefessa di un uomo che diceva di sè:

« Io non so scindere il cuore daU’ intelligenza e l’intelligenza dal cuore e dal carattere ». (Epistolario, vol. I, pag. 83).

Sotto questa luce dobbiamo considerare il suo socialismo, ben lon­tano, tuttavia, da quel vano sentimentalismo che egli stesso rimprove­rava anche ai migliori gregari, che, a suo giudizio, minacciavano di fare il partito « del buon cuore » a costo di farne anche « il partito senza testa ».

Non possiamo qui naturalmente seguire tutte le vicende dell'esi­stenza così complessa e movimentata di un uomo, che non disgiunse mai l’azione pratica, spesso umile, di organizzatore politico e di combattente dall’opera del pensatore e dello studioso e che sentì a tal punto l’impe­rativo della coerenza morale da scrivere preoccupato alla moglie nel­l’autunno del 1915-, quando egli era ancora soldato semplice e pareva che il Comando italiano volesse congedare i volontari trentini non graduati:

« Se ,vi è uno che in omaggio alla corrispondenza tra le parole e le azioni deve trovarsi alla fronte, sono proprio io ».

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L ’epistolario segna le tappe di questa esistenza ad orizzonti sempre più ampi; una prima fase «L a lotta politica nel Trentino» dal novem­bre 1893 al dicembre 19 13 ; successivamente « Il periodo della neutralità » dall’agosto 19 14 al maggio 19 15 ; l’ultima fase « Gli anni della guerra » dal maggio 19 15 al naturale suggello di questa sintesi armonica di vita: la morte coraggiosa nel fossato del Castello del Buon Consiglio.

Dal ristretto cerchio delle cose trentine, all’Università di Firenze, al parlamento di Vienna, all’instancabile propaganda per l’intervento attra­verso tutte le città italiane, al Comando supremo, fino alle trincee soli­tarie dell’Adamello in mezzo agli alpini, noi seguiamo quest’uomo di­nanzi al quale famiglia, onori, studi, interessi materiali, tutto è subordi­nato ad una sola idea dominante: l’indipendenza e l’italianità del Trentino.

Intorno a lui vediamo muoversi il mondo degli altri, amici e nemici, alcune figure di uomini di fede che operano con lui attivamente, quali l’Avancini, il Pischel, lo Zenatti, il Tolomei, i Pedrotti, il Lorenzoni, per citare solo alcuni di quelli il cui nome incontriamo più frequentemente nelle lettere. Un cenno a parte merita il breve soggiorno del Mussolini a Trento nel 1909, del quale potremmo qui osservare soltanto che, seper qualcuno la presenza del Mussolini in quei mesi servì a dare un im­pulso al movimento socialista trentino, in realtà, come bene giudica il Galante Garrone:

■« Certe iperboliche attestazioni sull’efficacia della sua propaganda vanno ac­colte con qualche cautela... Certamente, egli esasperò la campagna anticlericale (portandola a un livello piuttosto volgare), riuscì ad allargare la cerchia dei lettori del « Popolo » compiacendosi della cronaca scandalistica, agitò le acque sino ai limiti dello scandalo turbolento, fece parlare di sè e della sua espulsione, perfino al Parlamento italiano. Ma, nella sostanza, innovò ben poco... Mussolini portò soltanto nella lotta politica trentina, un tono più violento, una più clamorosa ri­sonanza: e se questo fu (come il De Felice ha ben dimostrato) un grosso vantaggio per la sua carriera politica, non si può dire lo fosse altrettanto per le sorti delsocialismo trentino». (Scritti politici e sociali, p . XXXVI).

I caratteri di questo movimento, infatti, ormai dominato dall’auto­rità del Battisti, lo avvicinavano' sotto alcuni aspetti alla corrente del ri­formismo italiano, che riconosceva come suo capo il Bissolati, al quale il Battisti si sentiva sempre più profondamente legato. Dal riformismo so­cialista, all’accettazione del principio di nazionalità il passo fu breve; il Battisti, naturalmente, vi inclinava già fin dagli anni della sua travagliata formazione ideologica; nel 1907, infatti, scriveva:

« La nazionalità ha per necessaria base la libertà e il riconoscimento di ogni diritto ipolitico e sociale che da essa dipenda ». (Scritti politici e sociali, pag. 281).

Sotto altri aspetti, quello di una maggiore intransigenza e di un più vivace spirito polemico, ebbe sugli orientamenti del Battisti un influsso profondo l’amicizia con Gaetano Salvemini, incontrato nel 1895, com- pagno di studi all’Università di Firenze.

La battaglia socialista pose, naturalmente, il Battisti nella necessità di combattere aspramente nella sua regione su due fronti; da una parte

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contro il gretto conservatorismo della borghesia liberale trentina, dal­l’altra contro quel partito cattolico che« a seconda dell’opportunità e dei luoghi va camuffandosi da cristiano sociale, da antisemita, etc., ma che sempre, senza reticenza, si professa austriacante... E ’ partito fanatico per eccellenza e intollerante ». (Scritti politici e sociali, pag. 49).

Di qui l’ inconciliabile dissidio personale con Alcide De Gasperi, de­putato cattolico al Parlamento di Vienna, ed organizzatore della corrente clericale, dalla quale traeva forza la politica repressiva dell’Austria nel Trentino. Tale ostilità, di cui vedremo nelle lettere alcune testimonianze inedite, aveva origine più che dalle due avverse posizioni politiche, dal­l’opposta natura dei due uomini : l’uno generoso e pronto fino al sacri­ficio' alla lotta aperta per un ideale superiore di libertà e di giustizia, l’altro piuttosto incline per temperamento al freddo calcolo, soprattutto in quanto si sentiva al servizio di un partito, che fu sempre per lui, in ogni momento, il solo fine di qualunque direttiva.

Nonostante qualche giovanile apparenza contraria, esaltata più tardi dai suoi amici politici, nella realtà il De Gasperi si tenne legato all’Au­stria finche essa rappresentò il più genuino presidio della Chiesa politica; non esitò pertanto ad avviare un compromesso con l’Italia quando si de­lineo la possibilità di una guerra con l’Austria; in un primo momento, a neutralità dichiarata, tramando un intrigo pur di favorire l’Austria stessa; in un secondo tempo prendendo iniziative pur di salvare la sola cosa che gli stesse a cuore, il privilegio delle istituzioni cattoliche nel Trentino nell’eventualità di un’annessione a guerra vinta. In una lettera del Bat­tisti all’amico Giovanni Pedrotti, datata da Milano il 28 settembre 1914, leggiamo :

« Oggi ho veduto qui in galleria l ’on. De Gasperi. Vedermi ed ecclissarsi fu un istante solo. Se avessi avuto qualche giovanotto con me l’avrei fatto pedinare ». (Epistolario, vol. I, pag. 343).

Oggi noi sappiamo che il piano del De Gasperi in quel momento era di ottenere dal governo italiano un vettovagliamento al Trentino, mascherando così un aiuto dato all’Austria.

Parecchi mesi più tardi in un’altra lettera dell’aprile del 19 15 , il Battisti, scrivendo ancora al Pedrotti, lo informa:

« Da Don Vercesi ho potuto sapere che il dep. De Gasperi fu recentemente a Roma, dove col tramite dell’on. Longinotti presentò al governo un memoriale.

In detto memoriale si tratta :1. Delle congrue e benefìci ecclesiastici pei quali si chiede, in caso di annes­

sione, speciale considerazione.2. Del movimento cattolico. Si ammonisce il governo che il 75% della popo­

lazione è clericale. Se ne trae la conseguenza (e mi si dice, in tono piuttosto aspro) che il governo italiano deve aiutare — alla pari di quello austriaco — le istituzioni cattoliche. Si elencano i sussidi che lo Stato corrisponde alla Federaz. delle Casse rurali, alle Cantine, agli Essicatoi bozzoli, ecc., domandando che vengano conti­nuati. Si tratta in esteso delle banche cattoliche.

3. Si presenta uno schema di ripartizione elettorale del paese. Non so su quale base.

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4. Si domanda che il governo straordinario duri tre anni. Che passino cioè tre anni prima di applicare completamente la legge italiana.

Se Ella avesse occasione di conoscere più addentro o integralmente il memo- riale, sarebbe buona cosa.

Potrebbe risultare l’opportunità di presentare a suo tempo un memoriale che valga come eventuale confutazione. (Epistolario, vol. I, pagg. 406-407).

Il contenuto di questa lettera inedita testimonia in modo inequivo­cabile la posizione del De Gasperi, che lo poneva in contrasto anche con molti sacerdoti, come, ad esempio, quel don Giambattista Lenzi, parroco di un paese del Trentino1, fautore della propaganda interventista del Bat­tisti. Il 4 aprile 19 16 l’Austria condannò questo prete a due anni di car­cere duro nell’ergastolo di Salisburgo; amnistiato un anno dopo, egli morì quasi subito per le sofferenze subite, nell’ospedale di Innsbruck.

« Nè la Curia vescovile, nè personalità politiche, come De Gasperi, nella po­sizione politica assunta, naturalmente muovono un passo in suo soccorso. Ma fra le rare famiglie di patrioti ancora rimaste in Trento dopo gli arresti, gli interna­menti e le fughe, corre un senso di sdegno per quel disinteresse. E l’eco di quello sdegno giunse a noi quando ritornammo in Trento redenta » 2.

Più che nel volume degli scritti politici, in questo epistolario, in gran parte inedito, che abbraccia cronologicamente tutta la vita del Bat­tisti, noi possiamo cogliere i motivi fondamentali del suo tormentoso e spesso in apparenza contraddittorio processo ideologico, insieme con la visione drammatica di quel suo correre affannoso verso il martirio e la morte, che è un po’ l’immagine che si affaccia alla nostra mente quando pronunciamo il suo nome.

Il primo volume dell’epistolario finisce alla data del 17 marzo 19 15, chiudendo quel periodo della neutralità che aveva visto Cesare Battisti peregrino per l’Italia ad organizzare la campagna per l’intervento; il se­condo si apre con due lettere da Roma, ove si accenna, fra l’altro, ad una visita al re. Le lettere immediatamente successive, intorno al 30 maggio, già appartengono alla corrispondenza di guerra. Ormai ci sta dinanzi solo il volontario, il soldato che chiede per sè l’immediato impiego sul fronte di battaglia, che vuol dividere umilmente pericoli e disagi con i più oscuri compagni di trincea, che pone, sì, la sua esperienza di scienziato e di infallibile conoscitore della sua regione a disposizione dei comandi, per­chè se ne servano nei piani militari, ma che vuole soprattutto combattere per testimoniare, a prezzo di ogni sacrificio, le gravi responsabilità assunte di fronte all’Italia e al Trentino.

La fase culminante di tutta la preparazione attiva del Battisti è, per­ciò, da collocarsi nel giro di dieci mesi, dal luglio 1914 al maggio 19 15 ; dopo, tutto è logica conseguenza di quella premessa e compimento di quel destino.

Negli anni precedenti alla guerra abbiamo visto che i propositi di lui per la soluzione del problema trentino non potevano andare molto

2 E r n e s t a B a t t i s t i , Italianità di De Gasperi, Lettera aperta all’on. Meda, Parenti, Firenze, 1957, pag. 52.

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al di là della richiesta dell’autonomia amministrativa, il solo fine che por- tasse con sè ancora qualche vaga possibilità di conseguimento; quando, poi, nell’estate del 1914 affiorò la speranza di risolvere alle radici il pro­blema dell’irredentismo, con l’annessione del Trentino all’ Italia, l’opera di Cesare Battisti si affermò con un carattere più alto, poiché, attraverso il suo pensiero e la sua azione, un problema regionale assurse a problema europeo. In esso, infatti, vennero a rispecchiarsi quei motivi universali che agitavano già le profonde correnti di altri popoli soggetti alla mo­narchia degli Absburgo e che, come il Battisti sognava per il suo Tren­tino, avrebbero dovuto muoversi verso ideali degni di tempi, in cui la parola civiltà fosse sinonimo di libertà e di democrazia.

In questo senso ci sembra che guida spirituale del Battisti più di tutti sia stato il Mazzini, con quel suo porre il problema della patria, non fine a se stesso, ma solo come passaggio obbligato verso la soluzione del più vasto problema dell’opera umana al servizio dell’umanità stessa; anch’egli, come il Mazzini, intendeva che per ritrovare la patria, come anello indispensabile di quella catena che porta al fine ultimo dell’uma­nità, si possa pure operare concordi in tutto che miri « all’emancipazione del nostro suolo con quei che dissentono da noi », solo a condizione di « promulgare arditamente la nostra fede » 3.

Perciò vediamo il socialista Battisti che conduce la battaglia dell’in­tervento accanto al nazionalista Federzoni, a costo di incorrere nelle pro­teste dell’amico Salvemini; lo vediamo accostarsi a tutte le forze politiche italiane che operano nella stessa direzione, ai nazionalisti, come ai demo­cratici radicali ed alla massoneria, nonché alle correnti del socialismo in­terventista, senza, tuttavia, tacere mai il suo credo sociale e politico.

Questa lunga vigilia prima del 24 maggio del 1915, durante la quale noi seguiamo il Battisti attraverso l’Italia a predicare senza riposo, fra molti entusiasmi e qualche dissenso, la necessità dell’intervento, questa apparente fraternità di spiriti, la cui estrema labilità spariva sommersa dall'onda delle parole, tutti gli aspetti di una realtà effettuale che allora era impossibile percepire, considerati oggi a cinquantanni di distanza ci danno ancora una volta in Cesare Battisti l’ immagine dell’uomo solo. Noi oggi possiamo forse cogliere in lui quei motivi di verità che permangono, bruciate le scorie che la retorica, la mala fede, l’irriverenza avevano accu­mulato intorno al suo nome, dagli anni che seguirono alla sua morte fino a tutta l’esperienza del fascismo.

Il fascismo si impadronì di Cesare Battisti e lo fece suo; questa fu, forse, la più grande offesa, dalla quale si sforzarono di difenderlo i suoi più fedeli, soprattutto la moglie e il figlio Gigino. Essi recarono con sé attraverso i duri solitari anni della dittatura fino alla Liberazione il pa­trimonio spirituale del marito e del padre e ne testimoniarono la perenne validità, contro ogni tentativo1 di farne strumento di bassa speculazione

3 G. Mazzini, Ricordo dei fratelli Bandiera .

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politica. Così avvenne nell’ora più oscura e più triste per la lotta anti­fascista tra il 1935 e il 1936, quando le fortune del regime parvero of­frire a molti stanchi avversari la possibilità di riposare in un indulgente compromesso con la propria coscienza nel nome dell’Italia in armi, vit­toriosa in Africa, quando la vedova e il figlio di Cesare Battisti, divi­dendo la sorte dei pochi chiaroveggenti, ormai stranieri in patria, rifiu­tarono di consegnare la medaglia di lui per la raccolta dell’oro; quando il 26 maggio 1935, dinanzi alla salma riesumata del martire che stava per essere solennemente trasportata nel monumento sepolcrale di Doss Trento, la vedova impedì energicamente che si facesse l’appello fascista. E così fu sempre, nella riservata dignità della moglie e nell’audacia di combattente antifascista del figlio, che fu prodigo di sè durante tutti gli anni della cospirazione e nel fermento della Resistenza.

Il gretto nazionalismo di molti trentini che combatterono con Ce­sare Battisti si esaurì nel movimento fascista, nel quale qualcuno di essi ebbe onori e cariche, come quel Guido Larcher che incontriamo spesso nell’epistolario, che divenne console della milizia e senatore; altri o si ritirarono in disparte o manifestarono vive simpatie per il regime, nel quale parevano aver trovato adeguato compenso alla loro fede irreden­tista. Vi furono, invece, altri, e fra di essi molti operai, che si manten­nero coerenti alla causa di libertà e di giustizia per la quale avevano combattuto accanto a Cesare Battisti, e ne conservarono la tradizione idea­le, ribelli nell’Italia fascista come erano stati ribelli nell’Austria degli Absfourgo; fra questi non possiamo dimenticare i Manci e i Lorenzoni.

Quale eredità spirituale discese, dunque, dal pensiero e dall’azione di Cesare Battisti nel pensiero e nell’azione degli uomini della Resistenza? Dopo le considerazioni fatte fin qui, la risposta non è difficile: egli sentì soprattutto che non v ’era opera di redenzione o di libertà che possa giun­gere al suo fine senza la partecipazione del popolo lavoratore. L ’aver sentito che le conquiste economiche non possono disgiungersi dalla libertà politica, l’aver agito in questa direzione con ferma chiarezza e deliberato proposito, contando in gran parte su le forze del popolo per un rinno­vamento della vita stessa del Trentino; quel suo vedere nel lavoro social­mente produttivo la dignità dell’uomo e chiamare il lavoratore alla lotta per la conquista di questa dignità, accanto all’intellettuale, al professio­nista, allo studente, in una parola alle forze migliori della borghesia, qui egli ha davvero anticipato le forme ideali della Resistenza. E che questa sua concezione fosse qualche cosa di positivo e di concreto lo prova il largo consenso che nel 1914 il Battisti raccolse nella sua città, dove nelle ele­zioni dell’anno prima aveva votato per lui più del cinquanta per cento dei cittadini, operai e borghesi.

In lui vediamo perciò conciliate in un’unica sintesi le istanze poli­tiche e sociali con quella suprema istanza morale, che è il segno degli uomini superiori. In un certo senso fu uomo del Risorgimento, in quanto il problema immediato che gli stava dinanzi aveva in sè, come abbiamo visto, uno dei motivi fondamentali del Risorgimento stesso; ma, in quanto fu portato a superare i ristretti confini di un’ideologia ormai prossima al-

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l’esaurimento, con una visione più ampia di tutti i problemi che si ad­densavano sull’avvenire dell’Europa, in questo fu uno spirito moderno che presentì le profonde esigenze dei tempi nuovi.

« Distrutti i focolari di reazione che si annidano al centro di Europa, tolta al teutonismo la possibilità di soffocare le altre nazioni, potrà tramutarsi in realtà quello che fu il sospiro di Mazzini e il programma di Carlo Marx : la federazione degli Stati d'Europa. Per attuarla occorre ci siano gli Stati; ma per Stato non si deve intendere un conglomerato come il’Austria, un caos entro al quale ribollano dieci bandiere, dieci lingue, dieci nazioni, un forzato amalgama in cui si vorrebbe soppresso ogni sentimento di patria e di civiltà per sostituirvi una cieca devozione alla dinastia più esecrata del mondo; per Stato deve intendersi l’unione di quelli che parlano la stessa lingua, che hanno una comune coscienza storica e abitano in un territorio, quante più .possibile, ben demarcato da confini naturali.

Solo attraverso una tale costituzione degli Stati, arriveremo all’Internazionale. Questa sarà, come diceva Jaurès, una garanzia per la indipendenza delle nazioni, come nelle nazioni indipendenti l’ Internazionale avrà, alla sua volta, i suoi organi più possenti e più nobili. (Sritti politici e sociali, pag. 507).

Nel fascismo — come già abbiamo visto — confluì tutta la parte deteriore delle alleanze; vi confluirono coloro che, insensibili alla sostanza dei problemi, vi coglievano solo la parte superficiale, sulla quale affiora­vano le forme esteriori dei concetti di patria e di redenzione nazionale. Essi perciò ritennero soddisfatte tutte le loro aspirazioni con la vittoria delle armi italiane, con l’annessione del Trentino, con l’ instaurarsi del regime fascista rivendicatore, contro il sovversivismo, degli ideali patriot­tici. In nome di questi sentimenti, come abbiamo già detto, non tutti, ma molti della borghesia trentina, che pur avevano seguito il Battisti, passarono al fascismo, nonostante il suo cano, ben conosciuto a Trento, avesse lasciato là una scia di ricordi non molto graditi e per certa volga­rità di costume e per un abituale istrionismo di demagogo; gli operai, invece, nella maggior parte ne stettero lontani o lo avversarono. Pur­troppo, è cosa nota che, appena uno leva la bandiera della reazione,qualunque sia il suo passato, ha subito dietro di sè un seguito di bor­ghesi conservatori, il cui consenso incondizionato lo accompagna nella sua ascesa. Il fascismo fu. perciò, il banco di prova della consistenza degliideali di gran parte della classe borghese.

La parte migliore di essa, al contrario, schiera esigua di uomini che sentivano l’antica verità che la fede profonda e sincera non riposa mai e che una battaglia ideale è destinata a perpetuarsi nei giorni e neglianni, continuò nelle file dell’antifascismo quella stessa battaglia che sem­brò per breve tempo chiusa con la sconfitta dell’Austria. Fu una breve sosta; Cesare Battisti ritornò, compagno di questi pochi eletti nella lunga e drammatica lotta dell’antifascismo italiano.

Già nel 1924 il figlio Gigino insieme con Giannantonio Manci, con Egidio Bacchi e Giovanni Parolari, si propose la costituzione di un grup­po dell’ Italia Libera nel quale si concentrarono gli antifascisti trentini. Sciolti questi gruppi, l’opposizione si orientò verso .il movimento clan­destino di Giustizia e Libertà, nel quale il Battisti divenne uno dei più audaci cospiratori, svolgendo, fra l’altro, il compito di organizzare l’espa­trio degli antifascisti minacciati di arresto. L ’organizzazione era costituita

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da alcune guide alpine il cui capo, Ugo Perini, lasciò un memoriale pre- zioso a documentare tali rischiose imprese, che costarono a Gigino una mutilazione ad ambo le mani per congelamento; mutilazione che, tuttavia, non gli fece mai interrompere l’azione coraggiosa, che proseguì anche quando, essendo ormai difficile per lui vivere nella sua città, nel 1930 si trasferì con la famiglia a Milano.

Pur continuando, strettamente sorvegliato dall’Ovra, i rapporti con i gruppi antifascisti, anch’egli, tuttavia, non potè fare a meno di seguire in quegli anni difficili la sorte di tutti gli altri compagni costretti, dopo gli arresti e i processi avvenuti intorno al 1930, ad una ridotta attività cospirativa, che molte volte non poteva manifestarsi in altro modo che con incontri fuggevoli, nei quali si scambiavano notizie e fogli clande­stini per tener viva quella piccola fiamma di fede, che attendeva pazien­temente il momento di divampare. Chi ricorda Gigino in quegli anni lo rivede con quella sua figura lunga e magra, dal viso spesso corruc­ciato, sempre taciturno come chi mal sopportasse discorsi in apparenza vani, nell’attesa impaziente di passare al concreto dei fatti.

Gli amici trentini del Partito d’Azione, che lo ebbe aderente fin dall’origine, videro subito in lui un elemento indispensabile per stabilire in Svizzera, dove egli si era rifugiato dopo l’8 settembre e da dove rien­trò nell’autunno 1944 per partecipare alla vicenda dell’Ossola, dei colle­gamenti utili alla Resistenza italiana ancora ai suoi inizi. Di ciò sono testimonianze preziose le lettere scambiate fra Gigino e Giannantonio Manci, che era divenuto uno dei capi della Resistenza, che nel Trentino, separato ufficialmente dal resto dell’Italia ed inserito, come le province di Bolzano e di Belluno, nell’Alpenvorland agli ordini di un Gauleiter, assu­meva un carattere particolarmente drammatico.

Un verbale della polizia nazista sulla cospirazione trentina, ai primi di maggio del 1944, accusa fra l’altro il Manci di stare in rapporto « con un gruppo di persone nella Svizzera, che era diretto dall’irredentista dott. Luigi Battisti, un figlio del giustiziato Cesare Battisti nella guerra 19 15-19 18 ».

La corrispondenza fra Gigino e il Manci comincia già nel dicem­bre 1943, ed è segnata da una tale preoccupazione di cose concrete, come solo possono avere coloro che hanno l’abitudine di agire ispirati, non da motivi occasionali, come fa la maggior parte degli uomini, ma da una lunga consuetudine coi princìpi, che non è soddisfatta se non si traduce in azione, anche se questa vorrà dire sacrificio e morte.

11 24 maggio 1944 il Manci scrive a Gigino, che freme per lasciare la Svizzera e venire a combattere:

« Per quanto riguarda il tuo ritorno studieremo i mezzi per renderlo possibile con gli accorgimenti da te suggeriti e con quelli altri che possono apparirti oppor­tuni; mandati di cattura non ne esistono, ma non è possibile prevedere quali rea­zioni susciterebbe il tuo ritorno da parte dei vari organi di poi. ted. it. che agi­scono nel Trentino... Cerca di farci avere una raccolta, la più completa possibile delle leggi costituzionali svizzere con particolare riguardo a quelle cantonali. A voi che avete tempo e possibilità studiarne la pratica e sollecita applicazione specie per le zone d’Italia settentrionale adeguandole nel limite delle nostre aspirazioni, alle

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esigenze di carattere economico-sociale. E ’ un lavoro importante e necessario — per­chè parlare di autonomia regionale, di federalismo, di decentramento va bene, ma è assolutamente necessario, al momento opportuno, sapere cosa si vuole in ogni campo ed essere pronti ad impostare e risolvere i vari problemi o per lo meno quelli più importanti —•. Ho avuto una giornata di intenso lavoro. Non mi dilungo quindi molto, fra otto giorni io ritornerò. Cerca di farci avere tue nuove. Mi sembra e ci auguriamo che gli avvenimenti incalzino. Speriamo di essere a posto in linea e di arrivare in porto! Riscriverò. Per ora ti allego un nostro manifesto del febbraio che ha avuto notevoli adesioni e copia di uno che con la data di aprile, sta per uscire. Siamo purtroppo sempre in pochi e non dobbiamo farci soverchie illusioni » *.

Due mesi dopo, Giannantonio Manci, arrestato dalla Gestapo, si uccideva nelle carceri di Bolzano per il timore di svelare i nomi dei com­pagni, sotto lo strazio della tortura. Così discendeva in questi combat­tenti l’insegnamento di Cesare Battisti.

Intorno al suo nome si strinse tutta la generazione dell’antifascismo e della Resistenza; quando nel giugno 1924 Giacomo Matteotti cade tra­fitto, mani ignote depongono fiori sulla tomba di Battisti nel fossato del Castello del Buon Consiglio, ricordando in uno scritto che li accompagnava « entrambi i morti che si immolarono per dare libertà e giustizia al popolo italiano»; .il 25 aprile 1944 si costituisce vicino a Cavalese la prima for­mazione armata, che porta il nome di Cesare Battisti; il medico Mario Pasi, venuto dalla sua Romagna a Trento, orgoglioso di vivere nella città del martire, divenuto capo valoroso di una brigata partigiana comunista, preso dai tedeschi muore sulla forca, avendo con sè nel portafoglio una immagine di lui.

Se nella passione e nel sentimento del popolo trentino combattente nella lotta di liberazione, rivissero la passione e il sentimento di Cesare Battisti soldato della libertà trentina, nei problemi politici che la parti­colare situazione di quella regione era destinata a mantenere così vivi da costituire ancora oggi, come la questione dell’Alto Adige, uno dei problemi più preoccupanti per lo Stato italiano, non possiamo dimenti­care l’ammonimento di un uomo che, profondo conoscitore della sua pro­vincia, aveva misurato tutte le pericolose conseguenze di un’annessione del Tirolo all’Italia 5. 1

1 II Movimento di Liberazione in Italia, n. 37, pag. 32.5 Come testimonianza postuma del pensiero di Cesare Battisti riguardo alla que­

stione dell’Alto Adige, citiamo qui alcuni passi di una lettera inedita della vedova di lui, datata da Trento il 9 aprile 1946, quando la questione si stava dibattendo nelle trattative internazionali: « .. . E le anime come la mia sono sbattute come nel cerchio infernale, voltando e percotendo, da un’ infinità di problemi materiali, morali e politici, in cui pur vorrei dire anch’io la parola della mia fede. E poiché Lei mi .porge occasione di scriverLe, mi permetta di interessare anche Lei ad uno di questi.

Forse Lei avrà visto in un numero di « Popolo Sovrano » un mio articolo in cui sostengo funesta per l’Italia la pretesa del confine al Brennero. Dolorosa­mente, siamo in pochi a sostenere la tesi, .per cui all’Alto Adige si deve lasciare il diritto di optare per l ’Austria. V i sono tre ragioni fondamentali per smetterla con questa campagna .per l’Alto Adige: 1) il rispetto a quel diritto di indipen­denza nazionale, su cui si deve costruire la nuova Europa. E ’ rispetto alla giu-

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Questi pericoli egli li aveva considerati non soltanto da un punto di vista politico per rispetto a quel principio di nazionalità che egli stesso invocava per la sua terra, ma anche da un punto di vista sociale ed eco- nomico. Sotto questo aspetto, già fin dai lontani anni della battaglia autonomistica avevano giudicato gli stessi socialisti Punione del Tirolo al Trentino« dannosa allo sviluppo economico e quindi al sorgere di un proletariato ». (Scritti politici e sociali, pag. 21).

La necessaria brevità di questo scritto deve, purtroppo, limitarsi a pochi cenni anche su argomenti di vitale importanza; il lettore potrà in questi tre volumi, e soprattutto nell’epistolario, cogliere a fondo la per- sonalità di un uomo, la cui fisionomia, lungi dallo svanire col trascorrere degli anni, conserva ancora nei suoi tratti il tormento di quei forti pen­sieri, la cui vitalità non si estingue, ma si perpetua nei tempi:

« Così che doppio è il compito, che a noi oggi spetta: educazione civile e politica della borghesia, onde spingerla a riprendere le tradizioni gloriose contro gli avanzi del feudalesimo, e propaganda politica e sociale delle masse operaie.

In queste condizioni la causa deH’emancipazione operaia, la causa del socia­lismo si identifica, diventa una sola con la causa della libertà di pensiero e del progresso civile ». (Scritti politici e sociali, pag. 70).

Questa visione ideale che confortava la fede di Cesare Battisti nel lontano 1900, è la stessa che trasse i migliori alle battaglie della Resi­stenza, donde uscì la sostanza vitale di quei principi che ispirarono la nuova Costituzione del popolo italiano.

B ia n c a C e v a .

stizia ed alla libertà: che l’Alto Adige è storicamente ed etnicamente tedesco, tedesco, tedesco, nonostante l’ immissione di elementi italiani operata dal fascismo.2) La necessità di non trovarsi addosso il perpetuarsi di litigi nazionali e di trovar­si continuamente di fronte al ribollire di un irredentismo (tedesco naturalmente).3) La necessità di non infirmare, con tale pretesa, che è una smentita alla nostra capacità di rispetto alla giustizia nazionale, la sacrosanta difesa dell’ italianità di Trieste e delle coste istriane e delle isole antestanti.

Salvemini mi scrive dall'America del disastroso effetto fatto sull’opinione pub­blica americana dalla nostra pretesa sull’Alto Adige; tutta a danno del problema giuliano. Lo prevedevo e l'ho scritto da mesi!

Fin qui i fatti. Poi ci sono delle fondate supposizioni: i comunisti vogliono l ’Alto Adige come un’offa all’ Italia, per lasciar libera l ’espansione di Tito sulla Venezia Giulia; De Gasperi sogna una «regione» «A lto Adige + Trentino» per farne una mano lunga del Vaticano: una specie di repubblichetta di San V i­gilio. Se non proclamata, essa è già in atto, soprattutto nelle scuole.

4) Io sono desolata che proprio i repubblicani, su cui io fondavo tante spe­ranze, non capiscano come non si debba parlare nè di pretese per l ’Alto Adige nè soprattutto di « regione » (truffaldinamente chiamata tridentina) dal Brennero alla Chiusa di Verona. Battisti dimostrò chiaramente come per ragioni etnico- storiche ed anche orografiche questa regione non possa considerarsi unica, nè chiamarsi con un solo nome. [...]

Così per la prepotenza dei democristiani e l ’imperizia o l’insincerità di altri partiti, in Trento risorge (è risorta) l’ombra del Sacro Concilio e quella dell’A u­stria: due elementi che perduravano nel fascismo. (Lettera di Ernesta Battisti a B. C ., Trento, 9-4-1946).

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EMIGRAZIONE ITALIANA E RESISTENZA IN FRANCIA

Se fin dall’immediato dopoguerra è fiorita una memorialistica piut- tosto abbondante, soprattutto sugli avvenimenti relativi alla crisi delle forze armate italiane dislocate nei Balcani, e quindi al formarsi di un partigianato italiano inserito nella lotta di liberazione jugoslava, greca e albanese, non può dirsi, tuttavia, che il quadro della Resistenza italiana all’estero sia stato completato, attraverso quelle ricerche monografiche su fonti locali che consentirebbero di fondare scientificamente una valu­tazione complessiva e articolata del « contributo italiano » al processo di resistenza quale si è venuto svolgendo fuori d’Italia, non solo nei Balcani. In particolare, fino ad oggi, era mancato qualsiasi organico tentativo di considerare nei suoi termini storici e sociologici la partecipazione degli italiani alla resistenza francese, per tanti aspetti così diversa dalla fitta guerriglia popolare della Jugoslavia, per esempio, ma per altro verso assai più intimamente connessa alla storia del movimento nazionale anti­fascista dell’Italia. C’è poi da notare che questo tema della partecipa­zione degli italiani alla resistenza francese, di riflesso, è stato quasi del tutto trascurato, o trattato in misura insufficiente, e non di prima mano, anche in recenti pubblicazioni d’insieme: così Alfonso Bartolini, nella recente Storia della Resistenza italiana all’estero, ha potuto dedicarvi sol­tanto pochissime pagine, mentre Gabrio Lombardi, nel suo L ’8 settem­bre fuori d ’Italia, non fa cenno che alle vicende della Corsica. Eppure, qualitativamente, si tratta di eventi da non considerare « marginali », anche per le loro intrinseche caratteristiche. Ma l ’osservazione relativa al settore francese, si muove poi in un contesto più generale, che abbrac­cia un pò tutti gli studi sulla nostra Resistenza fuori d’Italia. C’è da aggiungere però che trattazioni monografiche e indagini approfondite sono da qualche tempo annunziate, e che vari studiosi, da Mario Pacor a Gaetano Arfé, stanno lavorando rispettivamente a ricostruire la vicenda dell’occupazione italiana in Jugoslavia e del contributo italiano alla lotta di liberazione degli slavi del Sud, e le vicende della emigrazione e del­l’antifascismo italiano in terra di Francia. Comunque, in attesa di nuovi studi che prendano finalmente in esame i singoli ambienti nazionali, in un contesto europeo di più ampio respiro, il libro recentissimo di Pia Leonetti Carena, di cui un’ampia scheda è già apparsa sul n. 85 di questa rassegna, che ha dietro di sè una vasta esperienza antifascista vissuta tanto in Italia quanto in Francia, dal primo dopoguerra in poi, cade nel momento opportuno e costituisce un buon passo avanti nella conoscenza e nella valutazione del contributo degli italiani al processo storico della Resistenza europea. L ’autrice, già appartenente al gruppo dell’Ordine nuovo di Torino, collaboratrice di Antonio Gramsci, emigrata in Francia nel 1928, si affida non tanto al ricordo, quanto alla ricerca. « L ’obbietti-

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vita scrupolosa della ricerca — scrive Ferruccio Parri nella presentazione del volume — garantisce il valore storico di questo lavoro, che non è una grezza documentazione ». Ma in quale rapporto stanno, l’esperienza personale e la ricerca documentaria? Nel libro appare una sola sezione dedicata a « testimonianze » più o meno dirette: ma tutte puntuali e precise nella scelta di punti nodali, di situazioni rappresentative, di figure e vicende esemplari. Tutti gli altri capitoli sono intessuti di dati, di elen­chi, di nomi, di notizie; un vero repertorio non completamente esau­riente ma tanto ampio da dare, alla fine, un’idea sufficientemente esatta del contributo politico e morale dei resistenti italiani alla Resistenza fran­cese. E tuttavia leggere in questo modo schematico — interpretazione e ricostruzione; documentazione e repertori — l ’opera della Leonetti Ca­rena, sarebbe travisarne l’animus più profondo e in fondo trasparente : che infatti, dietro l’asciuttezza dei dati, si rivelano un impegno morale e civile, un affetto tenace per una vicenda eroica e umile che per la prima volta si è cercato di ricostruire analiticamente.

Queste cose, imprendendo a parlare delle fittissime pagine, messe insieme con tanta intelligenza e pazienza, andavano dette: se non altro per rilevare che assai raramente è accaduto ai protagonisti stessi della lotta antifascista e della Resistenza, di porsi sul piano obbiettivo della ricerca. E solo qua e là — ma il fatto è ovvio e comprensibile — ed entro limiti del tutto compatibili, accade che la mozione degli affetti traspaia in qualche sfumatura del linguaggio. Se quelli — per rimanere all’esem­pio dato —- che hanno partecipato in diversa posizione alla lotta anti­fascista fuori d’Italia, specialmente in certe regioni e paesi, com’è a dire delle Americhe, della Tunisia, dell’Egitto, facessero altrettanto, avremmo ben altra base di memorie, di studi, di documenti atti a configurare in tutta la sua estensione, con le sue ombre e le sue luci, la vicenda resi­stenziale degli « italiani all’estero » alla vigilia e nel periodo della seconda guerra mondiale. Ed anche questa osservazione vien fatta per stimolare, fin che si è in tempo, ricerche e scritti che a nostro parere risulterebbero estremamente preziosi e interessanti.

Mentre il contributo degli italiani nei paesi balcanici affiora, nella vicenda dell’8 settembre, dalla crisi delle nostre forze armate, dallo scon­tro diretto col tedesco e dall’incontro col partigianato greco e jugoslavo, le radici dell’impegno italiano nella Resistenza nazionale francese sono del tutto diverse, e affondano nella duplice storia dell’emigrazione economica, in gran parte proletaria, e dell’emigrazione politica antifascista fra le due guerre mondiali. Una storia sociale e politica complicata e complessa, cui ha contribuito a suo tempo Aldo Garosci, per l’aspetto politico, e che qui non poteva non rimanere sullo sfondo. I primi dati cui la Leonetti Carena si rifa sono quelli relativi alla consistenza e alla composizione complessiva della colonia italiana in Francia: 120 mila lavoratori edili, 50 mila me­tallurgici, altri 50 mila operai nelle industrie di trasformazione, 23 mila minatori e cavatori, quasi 30 mila addetti all’industria tessile e all’in­dustria del legno, 18 mila ai servizi pubblici, 20 mila ai servizi domestici, e poi 40 mila commercianti, 70 mila fra contadini e braccianti, 8 mila

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insegnanti ed impiegati : in tutto una massa di popolazione attiva di 437 mila unita, calcolata nel 1945* Insomma non meno di ottocentomila italiani, alla vigilia della guerra. Quanti fossero, fra questi, in origine, gli emigrati per antifascismo, è difficile dire: e finora se ne sono date stime diverse: forse una cifra oscillante fra il io e il 15 per cento. Certo è però che nonostante le molte e varie iniziative intraprese assai per tempo dal fascismo italiano in Francia e ispirate a interessi di parte e nazionalisti, la minoranza antifascista, muovendosi nelle pieghe offerte di volta in volta dall’ambiente democratico francese, anche nei mo­menti e nei tempi di maggiori e più aspre difficoltà, riuscì sempre a con­dizionare, influenzare ed orientare la grande massa dei lavoratori resi­denti in Francia. L ’emigrazione politica e il grosso dell’emigrazione eco­nomica non solo erano più o meno contemporanee (nel dopoguerra il flusso migratorio raddoppiò rispetto all’anteguerra), ima traevano dagli stessi strati sociali: e perciò il lavoro e l’agitazione tempestivamente av­viati dai partiti di sinistra, che costituivano certo più del novanta per cento delle forze del fuoruscitismo, e specialmente il lavoro e l’organizi- zazione dei comunisti valsero a conseguire un tale risultato. Come osservò l'ambasciatore Guariglia, accadeva che nelle colonie italiane all’estero lo jus loci prevalesse sullo jus sanguinis, nonostante l’opera di assistenza e di propaganda dei Fasci all’estero, diretta e coordinata dall’ampia rete diplo­matica e consolare. Ma ciò si verificò tanto più e tanto meglio in quei paesi, di civiltà politica neolatina, come l’Argentina e la Francia, in cui i gruppi democratici ed antifascisti seppero rivolgere gran parte della loro attenzione all’insieme della colonia italiana, e insieme inserirsi nella vita associativa e sindacale del paese ospite creando gravi problemi alla poli­tica del governo e del movimento fascista.

Del resto il fascismo fu sempre particolarmente attento alla situa­zione, agli orientamenti, agli stati d’animo degli italiani in Francia, che anzi furono visti e definiti — all’inizio degli anni trenta — « italiani in pericolo » (a causa dell’influenza dell’antifascismo fuoruscito oltre che della politica francese delle « naturalizzazioni »). Era il tempo in cui da una parte lo scontro fra fascismo e antifascismo era di là dalle Alpi vivacis­simo e cruento, tanto che il Gran Consiglio del Fascismo dovette occu­parsene e piangere i suoi « martiri » ; e, d’altra parte, stava venendo avanti da parte del regime fascista una politica globale di rivendicazione nazio­nalistica della massa emigrata. Dalla Francia, inoltre, nel ’36 e al principio del ’37, furono poi reclutati i quattro quinti dei volontari italiani affluiti nelle Brigate internazionali a difesa della Spagna repubblicana: — un altro dato estremamente sintomatico dell’indirizzo democratico di sinistra, che si rafforzò nell’emigrazione italiana degli anni del Fronte popolare giusto alla vigilia della guerra.

Questa è forse la parte del discorso che nel lavoro e nell’interpreta­zione della Leonetti Carena avrebbe potuto essere approfondita, e che pur è accennata, nella premessa, attraverso le testimonianze e i giudizi di Jean Cocteau e di Louis Aragon. E veniamo così ai dati più specifici, riguardanti non le premesse politiche e di massa della Resistenza, ma

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la Resistenza stessa, la Resistenza degli italiani. La Leonetti Carena for- nisce notizie sufficientemente precise di circa seicento caduti — forse, secondo la sua stessa valutazione — , « dal 30 al 40 per cento degli ita­liani immolatisi in Francia combattendo per la libertà di tutte le patrie ». I combattenti: non è fatta alcuna cifra, ma certo furono diverse migliaia. Le notizie raccolte sono il frutto (fra l’altro) di informazioni che Pia ed Alfonso Leonetti, come risulta dalla nota premessa al volume, hanno rac­colto e ottenuto attraverso il Comité d ’Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale e i suoi corrispondenti. Ne esce un quadro, ordinato diparti­mento per dipartimento, da cui risulta abbastanza chiaramente la notevole presenza di antifascisti o figli di antifascisti emigrati dalffitalia; ai quali si aggiunge la partecipazione dei soldati della IVa Armata e di marinai, della flotta italiana di Tolone, che passano al maquis proprio nel mo­mento in cui i francesi scendono in battaglia con maggiori forze e con maggiore slancio. All’elenco dei caduti si innesta poi — anche questo ordinato per dipartimenti — l’elenco dei deportati nei campi di concen- tramento tedeschi : sono state rintracciate notizie di circa centosessanta italiani provenienti dalla Francia.

Da quanto abbiamo detto finora sui motivi ispiratori del lavoro e sulla tecnica seguita — quella di offrire per intanto la più larga messe possibile di notizie e informazioni sia pure succinte, raccolte e schema­tizzate in quadro molto vasto e vario — emerge anche che la ricerca si è spinta in tutte le possibili direzioni : forse sarebbe stato meglio ren­dere più espliciti i risultati affioranti della documentazione; e sono risul­tati che investono sia la composizione politica e sociale dei caduti, dei deportati, ecc., sia i dati cronologici del contributo italiano, sia la dislo­cazione di questo contributo nelle diverse regioni della Francia. Il lavoro ha dunque le caratteristiche di una ricerca pilota, di avanguardia, e viene a colmare, come si è detto, una lacuna sentita. Si tratta, del resto, di indagini che anche condotte in équipe o promosse direttamente da istituti specializzati, non potrebbero approdare che a risultati più o meno parziali e indicativi. La bibliografia specifica sull’argomento è infatti quasi inesi­stente, se si prescinde da una « inchiesta » di Alfonso Leonetti su Les italiens dans la libération de la France, pubblicata nel 1945 in Cité-Soir, da un opuscolo dell’Unione Donne Italiane di Parigi su Le donne italiane nella lotta liberatrice in Francia, pure del 1945, nonché da una pubblica­zione del Comité Démocratique France-Italie — Italiens tombés en France pour la liberté — anch’essa del 1945. Insomma il primo approccio all’ar- gomento, avviato vent’anni or sono e poi rimasto interrotto, è stato ora ripreso e approfondito, con un diverso taglio, avvalendosi anche della pubblicistica e della memorialistica dedicata nel frattempo alla Resistenza tanto in Italia quanto in Francia, nonché delia stampa periodica ed anti­fascista (e prima fra tutti l’Italia libera del 1944-48, organo del Comitato Italiano di Liberazione Nazionale pubblicato a Parigi).

L ’autrice non ha inteso darci una vera e propria storia dei gruppi resistenti italiani in terra di Francia, ma ha tuttavia toccato molti proble­mi di una tale possibile storia. Sia direttamente, sia indirettamente. Da

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questo punto di vista i nodi da affrontare sarebbero diversi, e tutt’altro che semplici: il nesso tra fascismo-antifascismo e Resistenza come fatto morale, politico e militare (quindi i rapporti tra la matrice antifascista in senso stretto e la partecipazione dopo l’8 settembre, della IVa Armata); le relazioni fra la Resistenza francese (nei suoi vari periodi, nelle sue varie formazioni) e l’attività degli italiani a fianco dei francesi e degli altri im­migrati nella lotta contro l’occupazione tedesca. L ’autrice, nell’introdu- zione soprattutto, e nei primi capitoli (per la sua esperienza di rifugiata in Francia, e forse anche per il fatto che il volume è destinato più im­mediatamente agli italiani) ha affrontato questi problemi prevalentemente nel quadro nazionale della storia della Resistenza francese : l'ambiente, le condizioni in cui operano gli italiani sono del resto contrassegnati da una periodizzazione che non può non essere quella della storia francese del 1938-45.

Due soli esempi: la storia politica del Comitato di Liberazione Na­zionale degli Italiani in Francia (su cui si riproduce una suggestiva testi­monianza di Ottone Schwarz), in questo quadro meriterebbe probabil­mente una indagine diversamente approfondita (difficoltà radicale a dar vita a un organismo politicamente simile a quello italiano, per l’assenza dei cattolici e dei liberali; propaganda verso i soldati e gli ufficiali della IVa Armata ecc.); ed altrettanto si dica ad esempio del nodo rappre­sentato dalla campagna antifrancese condotta dal governo italiano dopo Monaco e poi nel periodo della a non belligeranza ». Insomma il criterio metodologico adottato — inquadratura della vicenda degli italiani nella storia politica e spirituale della Francia e considerazione della base di massa costituita dalle centinaia di migliaia di italiani residenti nella Repubblica francese — ci sembra non solo valido ma suscettibile di approfondimenti anche monografici. A un approdo particolarmente felice perviene del resto questo lavoro — anche sul piano interpretativo — là dove si colgono con notevole sensibilità i rapporti di immediata dedizione della maggior parte degli italiani alla lotta per la libertà nel clima morale e politico francese. Grazie a questa sensibilità lo studio della Leonetti Carena consegue i risultati positivi cui si è accennato, e dai quali sarà necessario partire per ogni ulteriore ricerca sull’argomento.

Enzo Santarelli.

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RICORDO DI CARLO E NELLO RO SSELLI*

Mi vien fatto talvolta di riandare col pensiero al primo periodo del- l’opposizione al fascismo, impadronitosi dello Stato, al periodo cioè che va dalla marcia su Roma sino al 1930, nel quale la dittatura è andata gradualmente rafforzandosi e dichiarandosi in tutto il suo significato e perciò stesso dividendo il popolo italiano, fuori dei ranghi delle camicie nere, in due schiere diverse: quella cioè (una minoranza) degli indoma­bili spianti i segni di una possibile riscossa vicina o lontana che fosse, e ad essa cospiranti; quella (la maggioranza) dei rassegnati o dei fidu­ciosi nella virtù risolutiva dell’ulcera duodenale per l’addomesticatrice virtù del successo e pel machiavellismo spicciolo dei furbi abilissimi nel­l’arte di rimanere a galla nonostante le tempeste.

Non posso allora non vedere dinanzi agli occhi della mente due figure che entrambe appartennero alla prima delle due schiere, pure in essa diversamente militando, Carlo e Nello Rosselli.

E appunto perchè diversamente appartenenti a quella minoranza che al fascismo seppe, sin dall’inizio, dire no senza infingimenti o sapienti arzigogoli mascheratori di un adattamento vile, di quella minoranza sta­vano e stanno a testimoniare la vitalità, la fecondità, preannuncio di quella felice efficienza che in un tempo storicamente maturo riuscì a suscitare la unità di intento politico — cui la esperienza tragica subita dal paese diede slancio incontenibile —- alla quale si deve il rovesciamento della dittatura come conquista cosciente e non come dono della storia.

Carlo Rosselli, impetuoso spirito realizzatore che lo studio conside­rava strumento di azione politica, che l’analisi politica ed economica pie­gava a guidare la costituzione ardita della società nuova più libera e giusta;

Nello Rosselli, che la società nuova, più libera e giusta, parimenti sognava, ma, pacato osservatore e indagatore acuto dei fatti nel loro svol­gimento storico, di questo sapeva non potersi forzare i tempi, ma doversi preparare nelle coscienze il loro avvento;

Carlo, proiettato verso la conquista di una meta luminosa per la quale non misurava le forze come non misurava gli ostacoli, investendoli e travolgendoli per l’impeto di una volontà ferrea e ardente;

Nello, suscitatore di forze mediante l’approfondimento, la consape­volezza del loro operare verso mete non vacuamente palingenetiche, ma meditate e volute — anche a duro prezzo — perchè fatte chiare da una rigorosa valutazione etica e civile.

* Testo della testimonianza sulle >« Origini e sviluppo del movimento di Giustizia e Libertà (1925 - 1930) » tenuta da Riccardo Bauer il 5 giugno a Milano, in occa­sione della mostra storica organizzata per il trentesimo anniversario della morte dei fratelli Rosselli.

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Diverso fu il mio incontro con i due uomini, eguale l'amicizia nata dall’indovinare, sotto gli apparentemente contrastanti caratteri della per­sonalità, l’identico fuoco suscitato da uno sconfinato amore di libertà al quale la scuola salveminiana aveva dato giusta impronta moderna. Della personalità in cui era superato ogni particolarismo ingannatore che pur potesse essere inconsciamente suggerito dall’estrazione sociale; in cui real­mente l’idea di libertà assurgeva a universale valore umano, pel quale appunto tutto poteva e doveva essere sacrificato.

Per capire gli sviluppi dell’opposizione al fascismo nell’Italia setten­trionale, è necessario fissare alcuni punti di riferimento che si presentano come manifestazioni critiche e polemiche all’avvento del regime, traverso alcune caratteristiche pubblicazioni: «La Rivoluzione Liberale» a To­rino; il « Non Mollare » a Firenze; « Il Caffè » e « Il Quarto Stato » a Milano.

Non è il caso di tracciare la storia dei quattro periodici anche solo per accenni; solo credo necessario ricordarli perchè v ’è tra essi — pur così diversi — un legame significativo.

Gobetti e la sua « Rivoluzione Liberale » hanno anticipato, su un piano di critica storica e dottrinale, contro il mondo ch’era andato inpezzi col conflitto 1914-18, gli orientamenti di una ripresa che signifi­casse avanzamento sociale senza sacrifìcio dei valori che il moto liberale seguito alla rivoluzione francese aveva pur affermati e che però richie­devano logico ed adeguato svolgimento.

Sullo stesso piano si poneva più tardi il « Quarto Stato ». « NonMollare » e « Il Caffè » rispondevano — pur con lo stesso intendimento chiarificatore di contro alla confusione ideologica suscitata dal moto rea­zionario — ad una esigenza più immediata, di sommovimento dell’opi­nione pubblica contro il regime e la sua opera di progressivo strangola­mento di ogni libertà politica. Specialmente opponendo a chi pensava che la tempesta delle camicie nere non sarebbe a lungo durata (giolittia- namente soffocata dall’esercizio del potere), la consapevolezza della pro­fondità della crisi in cui il paese era stato precipitato e la necessità di prepararsi ad una lunga lotta nella quale tutte le energie dovevano essere gettate senza limite.

La pubblicazione de « Il Caffè » era in gestazione poco prima chel’assassinio di Giacomo Matteotti gettasse il paese in un fermento chepotè sembrare risolutivo. L ’atroce misfatto decise il gruppo promotore, di cui facevo parte con Parri, Arpesani, Mira, Sacchi, Margadonna, Gal­larati Scotti ed altri, ad affrettare l’uscita del quindicinale che in effetti iniziò la sua vita nel luglio 1924. Vita breve intensa e travagliata per­chè nessuno dei numeri, poi settimanali, del giornale si salvò dalle ire della censura. Che infine, nell’aprile 1925, senz’altro lo soppresse.

Nella redazione si determinò, ovviamente, uno sbandamento: vi fu

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chi credette di dover rinunziare ad ogni ulteriore azione critica con mezzi di stampa non ancora sottratti ad opera della censura ad una per altro difficile circolazione, ma già potenzialmente clandestini.

Vi fu invece chi — comprendendo come i tempi si facessero più serrati e l’intransigenza illiberale del regime più feroce — non esitò ad accettare l’impegno della continuazione di un’opera che non poteva evi­dentemente non sfociare nella illegalità, terreno sul quale — data la cre­scente pressione della dittatura — si poteva prevedere di doversi inol­trare lontano.

Fu in quella occasione che mi incontrai anche sul piano dell’azione concreta con Ernesto Rossi e con Carlo Rosselli.

Furono pubblicati gli opuscoli « 1 casi d’Italia » da me redatto con una appendice di Parri, l’« Anticroato » in cui sottolineavo le responsa­bilità del duce nel delitto Matteotti; « La politica estera di Mussolini » dovuto alla penna di Carlo Sforza, ed una serie di altri in cui da Rossi e da me venne presa in esame la politica economica e finanziaria del regime, cui si aggiunsero altri pamphlets destinati ai parroci ed ai mili­tari, richiamandoli al loro dovere di resistere alle prepotenze ed agli inco­stituzionali provvedimenti del fascismo.

Nel 1926, dopo l’attentato Zaniboni. con l’emanazione delle leggi eccezionali cominciarono persecuzioni e violenze inaudite contro giornali e partiti, contro i più esposti leaders dell’antifascismo e intorno a Parri e Rosselli nacque una vera e propria centrale clandestina di aiuto a coloro che fossero costretti ad espatriare.

Con Rosselli organizzammo l’uscita dall'Italia di Claudio Treves, col quale avevo presi minuti accordi per alimentare dall’ interno — dove rite­nevo di dover rimanere a combattere sino al possibile — la stampa ch’egli avrebbe dovuto dirigere a Parigi; con Rosselli fu organizzata la fuga di Filippo Turati dalla sua abitazione.

Turati, convinto di non poter rimanere in Italia senza essere fatto oggetto di un vero ricatto da parte del fascismo, superata la grave crisi fisica in lui suscitata dalla perdita di Anna Kulisciof, consentì a lasciare il paese per continuare all’estero la battaglia politica.

Non presi parte con Carlo alla seconda fase dell'espatrio di Turati perchè nel frattempo, avendo organizzato quello di Carlo Silvestri e di Giovanni Ansaldo, fatti oggetto delle violenze fasciste, fui con questi arrestato, per una serie di circostanze avverse che sarebbe troppo lungo, ed anche sotto certi aspetti persino umoristico, raccontare.

Mi ritrovai in carcere a Como con Carlo Rosselli reduce dall’impresa di Savona e coinvolto nel nostro caso. Ed anche qui ebbi modo di spe­rimentare non solo la saldezza morale e l’acume politico suo, ma la se­rena baldanza, l’esuberanza entusiastica del suo operare, la sua indiffe­renza rispetto al prezzo da pagare per riconquistare la libertà, la chiara consapevolezza della durezza, della lunghezza del cammino che ci aspettava.

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Tutto ciò condito di sano ottimismo circa la capacità storica dell’I­talia di superare la triste prova che stava subendo. Ottimismo che si espri­meva in certe allegre sarabande diurne e notturne nella cella che ci ospi­tava, tollerate dal personale di custodia che forse non si rendeva conto del perchè certe teste matte potessero stare in prigione con tanta allegra spensieratezza.

Poi Carlo Rosselli si avviò alla condanna di Savona, io al confino di Ustica avendo il giudice istruttore, che ci aveva dato ripetute prove di solidarietà nel corso delle indagini sul nostro caso, concluso che la Pub­blica Sicurezza stupidamente ci aveva fermati lontano dalla linea di con­fine, per cui mancavano concrete prove del tentativo di espatrio, mentre altre che imprudentemente Silvestri e Ansaldo avevano portato con sè, erano fortunatamente finite nel lago da una opportuna finestra, quando ad Argegno, nella caserma dei carabinieri, il commissario che ci aveva arrestati e le aveva raccolte e accuratamente ordinate in attesa di verba­lizzarle, commise l’imprudenza di lasciarci soli per un istante e dovette impallidire allorché, rientrando nella camera, vide il tavolo vuoto d’ogni cosa e solo potè fulminarmi con una occhiata, che sopportai con la più tosta delle facce toste, per non rischiare la camera che certo sperava acce­lerata dalla brillante azione condotta a termine.

Finii così ad Ustica, ma dopo circa un anno potei ottenere il tra­sferimento a Lipari dove era stato inviato nel frattempo Carlo Rosselli reduce dal carcere di Savona, e potemmo così avviare le prime intese per la sua fuga da Lipari, dato che Rosselli non aveva intenzione alcuna di marcire in un’isola pazientemente aspettando che il fascismo tramontasse.

Potei così nuovamente rilevare la sua formidabile tempra e la sua formidabile energia che gli consentiva di affiancare allo studio (poiché mai tralasciava di porsi i problemi più brucianti della realtà politica di cui eravamo attori) una intensa e si sarebbe detto lieta esistenza fami­liare, che, in realtà, era volta a mascherare le sue intenzioni di evasione.

In quel periodo nacquero nel suo spirito i lineamenti che poi dove­vano concretarsi nei suoi scritti più maturi e nella costituzione del movi­mento di Giustizia e Libertà.

Nel precedente mio soggiorno ad Ustica avevo per altro avuto modo di conoscere Nello Rosselli, inviato al confino di riflesso all’arresto di Carlo, e di stringere con lui una calda amicizia.

Ho potuto allora conoscere a fondo il suo pensiero ed è questa co­noscenza appunto che mi consentì di vedere quanto si identificasse nei due fratelli il finalismo dell’impegno cui ciascuno si sentiva legato di fronte al fascismo e come ciascuno intendesse generosamente servirlo. Solo che in Nello Rosselli condizione prima della redenzione politica era l’in­serimento di essa nel quadro di un processo storico che doveva essere reso chiaro nella coscienza di tutti, che doveva essere reso evidente fino a farsi imperativo.

Nello Rosselli aveva ben chiari i limiti della preparazione politica delle masse italiane e ciò spiega anche l’atteggiamento di tolleranza ch’egli

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assunse nei riguardi di quanti alla prepotenza fascista dovettero piegare il capo, vittime, come egli li definì, della violenza, vittime di circostanze storiche soverch-ianti. Dalla oppressione delle quali saremmo usciti traverso un durissimo travaglio cui doveva seguire un’altrettanto travagliata rico­struzione che doveva essere preparata negli spiriti mediante un’azione cri­tica di valore educativo. Ricostruzione non diversa da quella alla quale Carlo Rosselli pensava non tanto in termini storici e morali quanto in termini rigorosamente politici, mentre si apprestava all’azione.

Rientrato a Milano nel 1928 e deciso a rimanere in Italia ove potessi appena muovermi per riprendere attivamente la lotta all’interno, ripresi contatti con Ernesto Rossi definito « un pazzo » da troppi tiepidi amici perchè continuava a muoversi da solo per una drastica protesta antifa­scista; e fui da quella pazzia messo da molti cautamente in guardia. Rossi, dicevano, in fondo è l’unico che si agiti; tutti ormai aspettano tempi mi­gliori. Ed era vero, purtroppo, poiché dopo il 3 gennaio 1925 persino le fila dei mugugnanti erano andate progressivamente assottigliandosi sin quasi a scomparire. Pensai che l’esigua legione manicomiale con la mia adesione potesse ricevere un cospicuo apporto percentuale e dopo la fuga di Carlo Rosselli da Lipari ebbe avvio la costituzione in Italia del movi­mento di « Giustizia e Libertà » che doveva profondamente dare im­pronta singolarissima alla storia dell’antifascismo sfociata poi nella Resi­stenza nonostante gli infortuni che ci tolsero dalla circolazione sino alla crisi del 1943. In quella Resistenza di cui l’olocausto di Carlo e Nello Rosselli doveva essere — come lo fu quello dei numerosi caduti in difesa della repubblica spagnola — il primo saliente episodio. Episodio così ge­neroso e denso di significato che non poteva, come non può, non assur­gere a valore di simbolo del sacrificio per la libertà. Perchè era la con­clusione di un coerente agire; da un lato delle forze negatrici di ogni libertà necessariamente degradantisi nel fango dell’assassinio vile contro ogni luce di sincero idealismo; dall'altro di un coerente operare sorretto da una altissima consapevolezza della dignità dell’uomo, della sua libertà, patrimonio da difendere a qualunque prezzo. Da una parte la necessaria fatale conclusione della violenza e della dittatura, dall’altra la testimo­nianza luminosa dei più alti valori costruttivi di umanità e di civiltà.

Il ricordo congiunto di Carlo e Nello Rosselli in questi nostri tempi in cui l’idea di libertà ancora sembra dover subire i più atroci insulti e le più pericolose eclissi, ci conforta a pensare che però non è impossibile la sua difesa purché vi sia chi ad essa tutto sappia sacrificare come i due indimenticabili amici.

Non è compito mio — nè sarebbe possibile in questa sede comme­morativa — analizzare le differenze teoriche del pensiero di Carlo e di Nello Rosselli. V i ha già accennato da par suo Aldo Garosci. Io ho sem­plicemente sottolineato la sostanziale unità di essi nel culto della libertà non come astratto ideale tendere alla perfezione del vivere sociale ma come contributo al concreto costruire una condizione umana di più alta dignità. E poiché questa giusta commemorazione è stata voluta per dare ai più giovani una consapevolezza più profonda dei valori di libertà e

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di come essi si affermino con lento operare e non senza sacrificio ma sicuramente, mi sono limitato a delineare la personalità di Carlo e Nello Rosselli quasi a sollecitare intorno al patrimonio di pensiero che ci hanno lasciato un più approfondito studio. Giustamente Garosci ha dimostrato come quel patrimonio sia un fermento valido più che mai oggi, quando non più si deve pensare a conquistare o riconquistare liberi istituti, ma a dare ai liberi istituti, che dal sangue dei fratelli Rosselli come di tanti altri generosi martiri nostri sono germogliati, un contenuto, un nerbo, una sostanza pienamente rispondenti all’ideale di socialità che ha imposto il loro sacrificio.

Vorrei che questo breve ricordo riuscisse sollecitatore nei nostri gio- vani direi quasi di una curiosità nuova; che la commossa commemora­zione e la simpatia verso le due nobili figure rievocate si traducesse in un prepotente bisogno di studio e di meditazione.

Riccardo Bauer.