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1 RIFIUTI SOLIDI URBANI: una risorsa energetica 1. Introduzione Nonostante la complessità delle operazioni di valutazione della qualità e della quantità dei rifiuti solidi urbani (RSU) prodotti nei paesi industrializzati, è evidente che le caratteristiche del rifiuto sono cambiate nel tempo in funzione delle mutate esigenze della società consumistica. Per poter intraprendere efficaci interventi di gestione e per individuare i sistemi di smaltimento più efficaci è necessario definire le caratteristiche merceologiche e chimico-fisiche dei RSU. Questo approccio, sviluppatosi recentemente, viene definito come LCA (Life Cycle Assessment), metodo che comporta la valutazione del ciclo di vita del rifiuto: l'analisi di particolari frazioni consente lo sfruttamento delle specifiche potenzialità al fine di identificare, fra tutte le tecnologie disponibili (incenerimento, smaltimento in discarica, biotrattamenti...) quelle più vantaggiose in termini di costi, consumo di risorse ed impatto ambientale. Classificazione merceologica I RSU possono essere distinti in due tipologie principali, rifiuti domestici ed imballaggi, ognuna delle quali viene a sua volta suddivisa in sette categorie merceologiche: carta e cartoni, tessili e legno, materiali plastici, materiali metallici, materiali inerti, frazione organica e sottovaglio. Il sottovaglio è composto essenzialmente da materiale minuto non combustibile e sostanza organica. Si osserva che negli ultimi anni il rifiuto è diventato più secco: la frazione organica cala in parallelo all'incremento delle componenti combustibili come la plastica e la cellulosa; i materiali metallici ed inerti, invece, sono presenti in quantità più o meno costanti. Per una descrizione più dettagliata delle caratteristiche dei rifiuti è opportuno analizzare la composizione chimica di ogni classe merceologica (vedi tabella seguente). Da quest'ultima si ricava il potere calorifico di ogni frazione, dato necessario per il calcolo del potere calorifico del rifiuto. La ripartizione sopra descritta è rilevante anche ai fini del recupero di materia che si attua mediante la raccolta differenziata di carta, vetro e metalli. Potere Calorifico La possibilità di generare calore ed elettricità dai rifiuti deriva dalla presenza negli stessi di materiale combustibile le cui potenzialità energetiche sono misurate dal potere calorifico. Esso corrisponde all'energia termica liberata da un processo di combustione completa che, ammettendo in ingresso rifiuti ed aria, in qualità di comburente, genera prodotti di combustione. Dal punto di vista energetico sono tre le componenti del rifiuto di cui è opportuno parlare (vedi diagramma di Tanner):

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RIFIUTI SOLIDI URBANI: una risorsa energetica

1. Introduzione

Nonostante la complessità delle operazioni di valutazione della qualità e della quantità dei rifiuti solidi

urbani (RSU) prodotti nei paesi industrializzati, è evidente che le caratteristiche del rifiuto sono cambiate

nel tempo in funzione delle mutate esigenze della società consumistica. Per poter intraprendere efficaci

interventi di gestione e per individuare i sistemi di smaltimento più efficaci è necessario definire le

caratteristiche merceologiche e chimico-fisiche dei RSU. Questo approccio, sviluppatosi recentemente,

viene definito come LCA (Life Cycle Assessment), metodo che comporta la valutazione del ciclo di vita del

rifiuto: l'analisi di particolari frazioni consente lo sfruttamento delle specifiche potenzialità al fine di

identificare, fra tutte le tecnologie disponibili (incenerimento, smaltimento in discarica, biotrattamenti...)

quelle più vantaggiose in termini di costi, consumo di risorse ed impatto ambientale.

Classificazione merceologica

I RSU possono essere distinti in due tipologie principali, rifiuti domestici ed imballaggi, ognuna delle quali

viene a sua volta suddivisa in sette categorie merceologiche: carta e cartoni, tessili e legno, materiali

plastici, materiali metallici, materiali inerti, frazione organica e sottovaglio. Il sottovaglio è composto

essenzialmente da materiale minuto non combustibile e sostanza organica. Si osserva che negli ultimi anni

il rifiuto è diventato più secco: la frazione organica cala in parallelo all'incremento delle componenti

combustibili come la plastica e la cellulosa; i materiali metallici ed inerti, invece, sono presenti in quantità

più o meno costanti. Per una descrizione più dettagliata delle caratteristiche dei rifiuti è opportuno

analizzare la composizione chimica di ogni classe merceologica (vedi tabella seguente).

Da quest'ultima si ricava il potere calorifico di ogni frazione, dato necessario per il calcolo del potere

calorifico del rifiuto. La ripartizione sopra descritta è rilevante anche ai fini del recupero di materia che si

attua mediante la raccolta differenziata di carta, vetro e metalli.

Potere Calorifico

La possibilità di generare calore ed elettricità dai rifiuti deriva dalla presenza negli stessi di materiale

combustibile le cui potenzialità energetiche sono misurate dal potere calorifico. Esso corrisponde

all'energia termica liberata da un processo di combustione completa che, ammettendo in ingresso rifiuti ed

aria, in qualità di comburente, genera prodotti di combustione. Dal punto di vista energetico sono tre le

componenti del rifiuto di cui è opportuno parlare (vedi diagramma di Tanner):

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∙ umidità, ovvero l'acqua liquida intimamente frammista al materiale disomogeneo che costituisce il

rifiuto. Se si considera il potere calorifico inferiore (PCI), la presenza di acqua liquida nel combustibile ne

diminuisce il potere calorifico di una quantità pari al calore latente di evaporazione.

∙ ceneri, ovvero materia minerale non combustibile, come pietrisco, frammenti di laterizi..., che durante la

combustione può modificare il proprio stato fisico ma non quello chimico. Il contributo energetico delle

ceneri nel bilancio energetico è nullo: negli impianti di termovalorizzazione esse si ripartiscono fra i residui

solidi che si depositano sul fondo della camera di combustione e le polveri trasportate dai gas di

combustione, poi raccolte nei filtri.

∙ solidi volatili, ovvero quella frazione del rifiuto che la combustione modifica radicalmente nella propria

composizione chimica: si generano prodotti gassosi per lo più ossidati per mezzo di reazioni chimiche

fortemente esotermiche. Questa frazione comprende principalmente atomi di carbonio, idrogeno e

ossigeno e, con contenuti inferiori, azoto, zolfo, cloro... Questi ultimi, poco influenti sul potere calorifico,

sono estremamente importanti dal punto di vista ambientale dato che sono responsabili della formazione

di composti clorurati, ossidi di zolfo e di azoto.

Ciò che maggiormente distingue i RSU attuali da quelli di qualche decennio fa è il PCI oggi notevolmente

superiore, grazie all'aumento delle frazioni energeticamente nobili ed alla diminuzione delle componenti

umide. E' proprio questo il fattore che più ha inciso sulla valorizzazione dei processi di incenerimento al

confronto con lo smaltimento in discarica o mediante compostaggio.

La crescita del PCI determina la riduzione della portata di alimentazione ai vecchi forni, inoltre, garantisce il

raggiungimento di elevate temperature in camera di combustione, condizione necessaria per

l'abbattimento delle sostanze inquinanti. Per vecchio forno si intende una sorta di vano adiabatico; un

forno moderno, invece, è un combustore non adiabatico che permette l'estrazione di calore direttamente

in camera di combustione con generazione di vapore. La rivoluzione progettuale è strettamente vincolata al

fatto di poter disporre di rifiuti con PCI anche superiore a 9200 kJ/kg.

Diagramma di

Tanner

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2. Tecnologie per la termovalorizzazione dei RSU

Introduzione

Fra gli obiettivi primari dell'ormai obsoleta termodistruzione si possono citare

∙ la riduzione dell'ingombro dei rifiuti da smaltire in discarica: le scorie che si raccolgono a valle della

combustione occupano un volume pari circa ad un decimo di quello del rifiuto tal quale;

∙ l'igienizzazione del rifiuto, problema che affliggeva soprattutto i grandi agglomerati urbani di fine '800.

Di certo, nell'elenco non figurava il recupero energetico, anzi, a causa dei modesti poteri calorifici del rifiuto

di quel periodo, era indispensabile sostenere il processo di termodistruzione con combustibile fossile. Oggi,

invece, la produzione di energia utile è un elemento determinante per il bilancio economico ed ambientale

di un impianto di termovalorizzazione.

Le soluzioni impiantistiche disponibili sono numerose; la prima macroclassificazione si basa sulle

caratteristiche del materiale che alimenta il forno: alcuni sono adatti alla combustione del rifiuto tal quale,

altri ne richiedono la conversione in un combustibile intermedio, denominato CDR (combustibile da rifiuti o

RDF cioè refuse-derived fuel). In questa sezione verranno esaminate sia le tecnologie tradizionali, come il

forno a griglia, quello rotante e il combustore a letto fluido, sia quelle innovative come la gassificazione sia

quelle sperimentate in impianti pilota, come la pirolisi.

Forno a griglia

Nella maggioranza dei casi i RSU vengono bruciati in forni a griglia mobile: nella sola Europa ce ne sono più

di 500, con potenzialità comprese fra alcune decine di tonnellate al giorno per linea fino ad un massimo di

800 e più. Le ragioni di una così ampia diffusione risiedono nell'affidabilità e nella continuità delle

prestazioni, che poco dipendono dalla composizione assai variabile del rifiuto. Il caricamento dei rifiuti nel

forno avviene mediante una tramoggia in lamiera, alimentata direttamente dal carroponte della fossa. Essa

comunica con la camera di combustione mediante un canale inclinato che, durante il funzionamento del

forno, è mantenuto costantemente carico di rifiuti in modo da evitare l'ingresso dell'aria.

Successivamente, un pistone spinge i rifiuti nel forno con una frequenza dipendente dal carico di

quest'ultimo. In genere, il letto di combustione raggiunge uno spessore di qualche decina di cm. al fine di

assicurare condizioni di combustione pressoché costanti. La griglia, grazie al movimento dei barrotti, fa

avanzare e rivolta i rifiuti esponendoli all'aria primaria di combustione insufflata da sotto, in quantità circa

stechiometriche; nella prima fase si ha l'essiccamento a cui segue la combustione vera e propria con

formazione di gas. Il completamento del processo impone un tempo di residenza dei rifiuti sulla griglia

compreso fra 30 e 60 minuti.

La griglia può avere due configurazioni, a gradini o a rulli. I rulli sono disposti in cascata trasversalmente

rispetto alla direzione di avanzamento del materiale. Ciascun rullo ruota con velocità variabile attorno al

proprio asse esponendo ciclicamente solo il 50% della propria superficie alle elevate temperature del forno;

la restante parte viene raffreddata dall'aria insufflata sotto la griglia.

Esiste pure la versione raffreddata ad acqua: i barrotti, percorsi al loro interno da acqua che asporta circa

1%-2% del calore di combustione (corrispondente a 20-40 kW per m²), si mantengono ad una temperatura

compresa fra 250 e 300°C.

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La zona di combustione posta sopra la griglia deve garantire, per quanto possibile, un'ossidazione completa

del materiale che si libera dal letto (prodotti volatili di gassificazione, idrocarburi leggeri...): adeguati sistemi

di immissione di aria secondaria a velocità di 50-80 (m/s) sono adibiti al mantenimento, in tutta la regione

interessata, di buone condizioni di turbolenza unite alla disponibilità di ossigeno (eccesso d’aria >70%).

Tutto ciò che giunge alla fine della griglia senza essere bruciato viene raccolto in una vasca ed inviato ad

opportuni trattamenti mentre le scorie più fini che cadono negli interstizi dei barrotti vanno a riempire

apposite tramogge collocate sotto la griglia.

Forno rotante

Il forno rotante è il più utilizzato nelle piattaforme di smaltimento dei rifiuti industriali perché capace di

trattare rifiuti di varia natura, inclusi quelli liquidi, i fanghi, ed i rifiuti ospedalieri. La struttura si compone di

un tamburo rotante dotato di opportuna inclinazione, per favorire il movimento del materiale che viene

caricato per mezzo di sezioni poste in corrispondenza di un'estremità del forno. Sono necessari elevati

eccessi d'aria che compensino il cattivo miscelamento dell'aria comburente con il rifiuto, che lo lambisce

anziché attraversarlo come avviene nei forni a griglia. Ne deriva che la temperatura nel forno scende,

aumenta la quantità di fumi prodotta e, nel caso i cui il potere calorifico del materiale in ingresso non sia

sufficientemente alto, bisogna supportare la combustione con combustibile ausiliario. Se a ciò si

aggiungono le rilevanti dispersioni termiche dovute alle elevate temperature raggiunte dalla superficie

esterna del cilindro, si conclude che il suo utilizzo dovrebbe essere limitato al caso di rifiuti non smaltibili in

combustori più efficienti.

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Forno a letto fluido

Il forno a letto fluido è ampiamente utilizzato

la torba e la lignite. E' costituito da un cilindro verticale in cui il materiale in ingresso viene tenuto in

sospensione da una corrente d'aria, inviata attraverso una griglia post

Solitamente un inerte si mescola al materiale da termodistruggere pe

sufficiente inerzia termica al sistema e regolarizzare il processo.

aggiunto lo smaltimento dei rifiuti e specificatamente di

funzionamento, confrontate con quelle dei forni a griglia,

ambito sono:

∙ la possibilità di operare con bassi eccessi d'aria: ciò comporta un minore sviluppo di fumi di combustione

con conseguente aumento del rendimento del generatore di vapore e riduzione dei costi e dell'ingombro

dell'impianto di depurazione fumi;

∙ un miglior controllo degli inquinanti: si possono introdurre additivi per neutralizzare SO

di combustione, ad esempio, utilizzando calcare in polvere come costituente del letto;

∙ una elevata efficienza di combustione dovuta alla migliore miscelazione dell'aria comburente con il

materiale combustibile ed agli elevati tempi di residenza pari a 5

∙ una minor produzione di ossidi di azoto grazie alla temperatura di esercizio più bassa (850

minor eccesso d'aria;

∙ la notevole inerzia termica del letto: questa conferisce al sistema una buona capacità di assorbire le

variazioni del potere calorifico del materiale in ingresso;

∙ la possibilità di operare in modo discontinuo grazie ai minori tempi di accensione e di spegnimento;

∙ il ridotto numero di parti meccaniche in movimento;

∙ un minor tenore di incombusti nelle ceneri, inferiore al

Il forno a letto fluido è ampiamente utilizzato per la combustione di carbone e di combustibili p

costituito da un cilindro verticale in cui il materiale in ingresso viene tenuto in

sospensione da una corrente d'aria, inviata attraverso una griglia posta alla base del cilindro stesso.

Solitamente un inerte si mescola al materiale da termodistruggere per favorire lo scambio termico, fornire

sufficiente inerzia termica al sistema e regolarizzare il processo. Negli ultimi anni, alle tante applicazioni si è

aggiunto lo smaltimento dei rifiuti e specificatamente di CDR, ossia rifiuto pretrattato. Le caratter

con quelle dei forni a griglia, che ne rendono interessante l'impiego in questo

la possibilità di operare con bassi eccessi d'aria: ciò comporta un minore sviluppo di fumi di combustione

te aumento del rendimento del generatore di vapore e riduzione dei costi e dell'ingombro

un miglior controllo degli inquinanti: si possono introdurre additivi per neutralizzare SO

esempio, utilizzando calcare in polvere come costituente del letto;

una elevata efficienza di combustione dovuta alla migliore miscelazione dell'aria comburente con il

materiale combustibile ed agli elevati tempi di residenza pari a 5-6 s;

nor produzione di ossidi di azoto grazie alla temperatura di esercizio più bassa (850

la notevole inerzia termica del letto: questa conferisce al sistema una buona capacità di assorbire le

fico del materiale in ingresso;

la possibilità di operare in modo discontinuo grazie ai minori tempi di accensione e di spegnimento;

il ridotto numero di parti meccaniche in movimento;

un minor tenore di incombusti nelle ceneri, inferiore allo 0,5% contro l'1% dei forni a griglia;

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di combustibili poveri come

costituito da un cilindro verticale in cui il materiale in ingresso viene tenuto in

a alla base del cilindro stesso.

r favorire lo scambio termico, fornire

Negli ultimi anni, alle tante applicazioni si è

e caratteristiche di

che ne rendono interessante l'impiego in questo

la possibilità di operare con bassi eccessi d'aria: ciò comporta un minore sviluppo di fumi di combustione

te aumento del rendimento del generatore di vapore e riduzione dei costi e dell'ingombro

un miglior controllo degli inquinanti: si possono introdurre additivi per neutralizzare SO₂ e HCl in camera

una elevata efficienza di combustione dovuta alla migliore miscelazione dell'aria comburente con il

nor produzione di ossidi di azoto grazie alla temperatura di esercizio più bassa (850-900°C) e al

la notevole inerzia termica del letto: questa conferisce al sistema una buona capacità di assorbire le

la possibilità di operare in modo discontinuo grazie ai minori tempi di accensione e di spegnimento;

lo 0,5% contro l'1% dei forni a griglia;

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Questo lungo elenco non deve far credere che il funzionamento di un forno a letto fluido sia esente da

problemi, anzi, sono proprio le modalità di conduzione del processo ad influenzarne pesantemente le

prestazioni. Innanzitutto, è necessario che i rifiuti che alimentano questo tipo di combustore siano

sottoposti a pretrattameno, in modo da garantire la massima omogeneità possibile ed un potere calorifico

almeno pari a 3000-3500 Kcal/Kg. Occorre poi evitare la defluidificazione del letto ossia la formazione di

agglomerati di ceneri basso fondenti. Per questo è indispensabile conoscere le caratteristiche del rifiuto in

ingresso per valutare il punto di rammollimento delle suddette ceneri. Critica è pure l'omogeneità di

mescolamento in senso trasversale che migliora incrementando i punti di iniezione del combustibile ed

aumentando la velocità di fluidificazione. I forni a letto fluido possono operare sia a pressione atmosferica

che in pressione: i primi sono senza dubbio i più diffusi nel campo dello smaltimento dei RSU.

Un'ulteriore, ben più importante classificazione si basa sulla velocità di fluidificazione. Nei combustori a

letto fluido bollente la velocità del gas è compresa fra 1 e 3 m/s ed è tale da mantenere in sospensione il

materiale solido, che appare come un liquido in ebollizione, in una zona ben definita della camera di

combustione. Nei combustori a letto fluido circolante, invece, il gas a velocità più elevata, compresa fra 4 e

10 m/s, trascina la sospensione fino ad un ciclone dove il materiale solido di pezzatura più grossa viene

trattenuto e ricircolato in camera di combustione, ad una temperatura di circa 900°C. Adottando questa

soluzione impiantistica si ottengono turbolenze notevoli nelle sospensioni che riducono le disomogeneità

trasversali. Pare, tuttavia, che sia il forno a letto fluido bollente quello più adatto alla termodistruzione dei

rifiuti: le motivazioni addotte dai costruttori chiamano in causa la pezzatura del materiale in ingresso,

troppo grezza ed irregolare per poter garantire l'idonea ricircolazione del letto.

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3. Recupero di energia

Generatore di vapore

Il recupero di energia dalla combustione del rifiuto tal quale impone l'implementazione di un ciclo

termodinamico che utilizzi il vapore come fluido di lavoro. Il generatore di vapore deve essere realizzato

tenendo conto dell'elevato contenuto di ceneri trascinate dai gas di combustione e dell'aggressività degli

acidi in essi contenuti. Le ceneri esposte a temperature superiori a 600°C generano incrostazioni sulle

superfici di scambio termico. Gli acidi, invece, quando la temperatura del metallo a contatto con i gas di

combustione supera i 350°C sono responsabili di fenomeni corrosivi. Alla luce di quanto sopra, il progetto

del generatore di vapore è assoggettato ai seguenti vincoli operativi:

∙ la temperatura del vapore surriscaldato non deve superare i 450°C a meno di non realizzare il

surriscaldatore in costose leghe di nichel;

∙ quest'ultimo è collocato a valle della sezione di evaporazione, evitando così i problemi di corrosione

causati dall'acido cloridrico contenuto nei fumi;

∙ la pressione di evaporazione è contenuta entro 55-65 bar al fine di limitare la frazione di liquido all'uscita

della turbina;

∙ le superfici di scambio nella sezione di evaporazione sono realizzate con canali verticali costituiti da tubi

vaporizzatori, per evitare il rischio di incrostazioni;

∙ la temperatura dell'acqua entrante nell'economizzatore deve essere sufficientemente elevata (entro 110

e 140°C) in modo da evitare condense acide.

Mantenere i surriscaldatori nella posizione convenzionale, in zona radiante, obbliga da un lato all'utilizzo di

pregiati materiali anti-corrosione, quali sono le leghe di nichel tipo Inconel 625 o Sanicro28, dall'altro

garantisce una maggiore resa energetica.

Elettricità e calore

Secondo la configurazione impiantistica di base il vapore prodotto nella caldaia a recupero espande in

turbina per la produzione di energia elettrica. I rendimenti associati a tale processo sono assai modesti a

causa della elevata temperatura cui si è costretti a scaricare i fumi (220-240°C), per evitare problemi di

corrosione e dei sopra citati vincoli operativi che limitano la temperatura e la pressione di immissione in

turbina. Ulteriore fattore penalizzante è la piccola taglia dell'impianto: le prestazioni di turbina ed ausiliari,

infatti, favoriscono nettamente gli impianti di grandi dimensioni. L'insieme di circostanze che ne deriva fa sì

che il rendimento del ciclo a vapore superi raramente il 25-27%. Se, invece, l'impianto è destinato alla

produzione di solo calore, il principale parametro di merito è il rendimento termico, definito come il

rapporto fra il calore recuperabile dai fumi e il potere calorifico dei rifiuti. Negli impianti di

teleriscaldamento alimentati da RSU il rendimento termico netto è pari al 65-70%. Esiste poi, anche nel

caso della termovalorizzazione dei RSU, la soluzione cogenerativa, in cui si producono simultaneamente

calore ed elettricità. Le configurazioni impiantistiche che realizzano la cogenerazione possono prevedere un

ciclo a contropressione oppure un ciclo a condensazione e spillamento.

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4. Tecnologie impiantistiche per il controllo delle emissioni atmosferiche

Introduzione

I fumi di combustione, dopo aver ceduto parte del loro calore per la generazione di vapore, devono essere

scaricati in ambiente: sono proprio le emissioni atmosferiche ed i residui solidi generati dall'attività di

termodistruzione a rappresentare l'elemento di maggior impatto ambientale dell'intero processo. Le

strategie di controllo adottabili fanno ricorso sia a misure di carattere preventivo, orientate alla

minimizzazione della formazione dei componenti indesiderati già in fase di combustione e di

raffreddamento dei fumi, sia alla rimozione degli inquinanti a valle, prima dello scarico in atmosfera.

Questa sezione è dedicata alla descrizione delle principali tecnologie che consentono di perseguire

entrambi gli obiettivi, con particolare attenzione ai sistemi più avanzati, capaci di garantire il rispetto dei

limiti fissati dalla normativa di recente introduzione.

Le emissioni atmosferiche da attività di termodistruzione possono essere classificate in due categorie:

∙ i macroinquinanti, presenti in concentrazioni rilevanti (g/m³);

∙ i microinquinanti che, nonostante siano presenti in concentrazioni assai più ridotte (μg/m³), costituiscono

un pericolo per la loro tossicità e persistenza.

Al primo gruppo appartengono gli inquinanti che si generano a causa dell'ossidazione incompleta del

carbonio o di reazioni secondarie indesiderate, come le ceneri, mentre a far parte del secondo gruppo sono

essenzialmente i metalli pesanti, il mercurio, gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) ed i composti

organoclorurati. I metalli pesanti, presenti in quantità maggiore, vaporizzano nella zona di combustione e,

successivamente, condensano sul particolato presente per poi essere immessi in atmosfera attraverso le

ceneri volanti. Il mercurio invece, in virtù dell'elevata volatilità, dopo la vaporizzazione in camera di

combustione, non condensa ma viene emesso sotto forma di mercurio elementare o di cloruro di mercurio

HgCl₂.

La qualità e la quantità delle emissioni sono fortemente legate a fattori quali la composizione del rifiuto, il

tipo di forno utilizzato e le modalità operative con le quali si conduce la combustione. A titolo indicativo, si

riportano nella tabella gli intervalli di concentrazione dei principali inquinanti derivanti da attività di

termodistruzione, a monte dei sistemi di depurazione (la concentrazione, espressa in mg/m³, è riferita a

gas secco, 11%O₂; il limite di emissione indica medie giornaliere espresse in mg/m³, riferite a gas secco,

11%O₂).

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La normativa nazionale in materia di emissioni da inceneritore prevede che vengano monitorate in

continuo le concentrazioni nei fumi di polveri, acido cloridrico, monossido di carbonio, anidride solforosa,

ossidi di azoto, carbonio organico totale ed ossigeno. Per i microinquinanti, lo stato attuale delle tecnologie

disponibili non consente il monitoraggio in continuo per cui si effettua un controllo mediante tecniche

manuali più o meno sofisticate.

4.1 Interventi di carattere preventivo...

- per limitare i processi di formazione primaria degli inquinanti

L'obiettivo di ridurre al minimo le emissioni a partire dalla fase dell'incenerimento, si traduce nell'esigenza

di ottenere una combustione il più possibile completa, condizione che può concretizzarsi garantendo

temperature elevate, accompagnate da adeguati tempi di residenza ed opportuni tenori di ossigeno

- per limitare i processi secondari di formazione e riformazione degli inquinanti

La riduzione dei processi di formazione secondaria comporta una serie di accorgimenti che si rivelano

essere particolarmente efficaci nel caso di diossine e furani, inquinanti organoclorurati, estremamente

stabili e persistenti. Questi ultimi si sviluppano sia da precursori chimicamente correlati, come clorofenoli e

clorobenzeni, sia da specie chimiche non correlate, come gli idrocarburi alifatici, mediante complesse

reazioni bifasiche gas/solido che avvengono sulla superficie delle ceneri volanti, in presenza di ossigeno,

vapor d'acqua, cloro ed alcuni metalli che catalizzano il processo. Fra le possibili fonti di cloro vi sono, oltre

all'HCl che dà cloro gassoso, i sali inorganici, come il cloruro di sodio, di potassio, di rame e di ferro. Un

ruolo fondamentale nell'attivazione delle reazioni di formazione secondaria è svolto dal carbonio

incombusto presente nelle ceneri, che favorisce l'adsorbimento, sulla propria superficie solida, dei

precursori. Il processo descritto è favorito da valori di temperatura compresi fra 250 e 400 °C. Ne deriva che

i punti più critici della linea fumi sono le sezioni più fredde della caldaia a recupero e l'eventuale sistema di

depolverazione a secco dei fumi, soprattutto nella zona in cui si deposita il particolato trasportato dalla

corrente gassosa.

Gli interventi adottabili al fine di limitare la formazione di diossine e furani sono:

∙ un'adeguata pulizia della caldaia per ridurre la formazione di depositi di ceneri volanti;

∙ la depolverazione e il trattamento a secco dei gas, ad una temperatura inferiore ai 200°C;

∙ la rimozione di HCl e Cl₂ per mezzo sorbenti solidi a base di calce;

4.2 Soluzioni impiantistiche atte alla depurazione fumi

La depurazione dei fumi da termodistruzione comprende non soltanto la rimozione di particolato e gas

acidi ma anche rigidi controlli sulle concentrazioni di microinquinanti e ossidi di zolfo e di azoto, ritenuti,

fino a poco tempo fa, di scarsa importanza. Le possibili soluzioni impiantistiche, che si differenziano per

complessità e dimensioni, sono classificabili in sistemi a secco, ad umido o ibridi.

Sistemi per la rimozione dei gas acidi

I sistemi di rimozione a secco consentono il contatto fra fumi e reattivi solidi, in genere calce o bicarbonato

di sodio, per favorire l'assorbimento dei gas acidi; i prodotti delle reazioni di neutralizzazione vengono

separati, allo stato secco, nel depolveratore finale.

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Il reagente tradizionalmente impiegato era la calce, che opera secondo le seguenti reazioni principali:

Ca(OH)₂+2HCl → CaCl₂+2H₂O

Ca(OH)₂+2HF → CaF₂+2H₂O

Ca(OH)₂+SO₂ → CaSO₃+H₂O

L'efficienza della rimozione dei gas acidi è fortemente influenzata dalla temperatura alla quale avviene il

processo: l'intervallo ottimale di funzionamento si colloca fra 130 e 150°C, compatibilmente con le

caratteristiche di funzionalità del filtro. Gli elettrofiltri, adottati in passato, sono stati sostituiti dai filtri a

tessuto che garantiscono una migliore captazione del particolato più fine ed un maggiore tempo di contatto

fra gas e reagente, grazie all'ampia superficie delle maniche.

E' inoltre prevista la possibilità di additivare la calce con opportuni adsorbenti per la rimozione di diossine e

furani: a tal scopo, il carbone attivo rappresenta la soluzione più diffusa. Per sostanze particolari come il

mercurio, per il quale la captazione è ancora più difficoltosa, si adottano carboni attivi trattati con cloro e

con zolfo. Per non abbattere le capacità assorbenti degli additivi, crescenti al diminuire della temperatura, è

ragionevole non superare i 200°C.

In alternativa alla calce, è stato recentemente proposto l'utilizzo del bicarbonato di sodio, in virtù

dell'elevata superficie specifica del carbonato di sodio, derivante dal precedente per decomposizione

termica, secondo la reazione

2NaHCO₃ → Na₂CO₃+CO₂+H₂O

Lo schema sintetico del processo di neutralizzazione è il seguente:

Na₂CO₃+2HCl → 2NaCl+CO₂+H₂O

Na₂CO₃+2HF → 2NaF+CO₂+H₂O

Na₂CO₃+SO₂+(1/2)O₂ → Na₂SO₄+CO₂

Il carbonato di sodio presenta una maggiore affinità con i gas acidi rispetto alla calce, per cui è possibile

operare con eccessi di reagente più contenuti, ottenendo pure concentrazioni residue inferiori. Ne

consegue una minore produzione di residui solidi da inviare allo smaltimento che compensa così il costo

maggiore del reagente. La convenienza ad utilizzare bicarbonato, tuttavia, decresce con la diminuzione

della temperatura, infatti, fra 130 e 150°C, le prestazioni delle due sostanze alcaline si equivalgono sia per

la progressiva riduzione dell'eccesso di calce richiesto sia per la minor efficacia del bicarbonato. Per

quest'ultimo, infatti la temperatura ottimale di impiego varia fra 170 e 180°C.

Nella loro configurazione di base i sistemi ad umido comprendono invece un depolveratore ed un

dispositivo per il lavaggio dei gas che, nelle soluzioni più recenti è suddiviso in due stadi in serie, dediti alla

rimozione degli acidi alogenidrici (HCl, HF...) e dell'anidride solforosa, rispettivamente con acqua e soluzioni

alcaline (soda,calce). La fase di lavaggio dei fumi avviene solitamente in torri a spruzzo o colonne a piatti.

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Sistemi per la rimozione degli ossidi di azoto

La concentrazione di ossidi di azoto nei fumi è una variabile che dipende dalla composizione del

combustibile ma soprattutto dalle condizioni di combustione. Gli interventi preventivi che possono limitare

i processi di formazione primaria degli NOx mirano alla riduzione

∙ delle temperature massime di combustione,

∙ dei tempi di residenza del combustibile nelle zone più calde,

∙ del tenore di ossigeno nelle zone di combustione,

Per ciò che concerne i sistemi di depurazione, le tecnologie più diffuse per la rimozione degli NOx fanno

riferimento ai processi SNCR e SCR.

Il processo denominato SNCR, selective non catalytic reduction, si basa sulla conversione degli NOx in

azoto molecolare, grazie all'azione di ammoniaca, urea o altri composti ammidici, introdotti direttamente in

camera di combustione ad alte temperature. Il meccanismo della reazione di degradazione è molto

complesso; nonostante sia coinvolto un numero elevato di stadi intermedi, è possibile schematizzare la

trasformazione complessiva nel seguente modo:

ammoniaca 2NH₃+2NO+(1/2)O₂ → 2N₂+3H₂O

urea CON₂H₄+2NO+(1/2)O₂ → CO₂+2N₂+2H₂O

Rispetto all'ammoniaca, l'urea offre vantaggi in termini di facilità di trasporto, manipolazione e stoccaggio,

poichè non tossica. Per massimizzare l'efficienza del processo di rimozione occorre operare a temperature

comprese fra 900 e 1100°C. Il processo non catalitico richiede configurazioni di impianto meno complesse

rispetto al processo catalitico, a fronte di prestazioni inferiori (la depurazione può raggiungere efficienze

dell'ordine del 70%), che dipendono fortemente dal dosaggio del reagente e dalla sua miscelazione con i

fumi. La presenza di NH₃ influisce positivamente anche sulla formazione delle diossine, limitandone la

produzione in percentuali consistenti.

Nel processo denominato SCR, selective catalytic reduction, la conversione degli NOx avviene a

temperature nettamente inferiori, comprese fra 250 e 350°C, mediante l'azione di opportuni substrati

catalitici a base di ossidi di vanadio, tungsteno e/o platino, supportati da titanio. Lo schema di reazione è il

seguente:

4NH₃+4NO+O₂ → 4N₂+6H₂O

4NH₃+2NO₂+O₂ → 3N₂+6H₂O

La presenza del catalizzatore consente di raggiungere efficienze di rimozione superiori al 90%, valori non

ottenibili con il metodo SNCR. Le ottime prestazioni fanno della denitrificazione catalitica una tecnologia

applicata su larga scala in campo mondiale.

Sistemi per la depolverazione

Si parla di depolverazione quando una corrente gassosa che trasporta particelle solide viene convogliata in

un sistema che separa la fase solida da quella gassosa. I principali sistemi dedicati all'abbattimento delle

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polveri, nel caso in cui si adotti una linea di depurazione a secco, sono i cicloni, gli elettrofiltri, altrimenti

detti precipitatori elettrostatici ed i filtri a manica.

Cicloni

Questo tipo di depolveratore prende il nome dal movimento rotatorio cui è sottoposto il gas da depurare:

per effetto della rotazione, le particelle solide si dirigono verso le pareti e, raggruppandosi, cadono nella

tramoggia posta alla base del ciclone. Poichè la velocità radiale di sedimentazione è inversamente

proporzionale al raggio, si realizzano gruppi di cicloni piccoli (il diametro è dell'ordine di alcune decine di

cm) disposti in serie o in parallelo. Nonostante siano affidabili e strutturalmente semplici, i cicloni sono per

lo più utilizzati in fase di pre-depolverazione, data la limitata capacità di captazione: catturando solamente

particelle aventi diametro superiore a 5-10 μ, non filtrano la maggior parte dei metalli pesanti.

Elettrofiltri

Si basano sul fenomeno fisico della precipitazione elettrostatica che si ottiene facendo passare i fumi fra

due elettrodi, uno emissivo, di carica negativa, e l'altro ricettivo, di carica positiva. Il primo è filiforme, il

secondo, invece, è costituito da una superficie di ricezione più ampia. Le particelle di polvere vengono

caricate dall'elettrodo emittente che si trova ad una tensione di circa 50 kV ed attirate verso l'elettrodo

ricettore; tramite scuotimento ricadono poi nella tramoggia sottostante.

Filtri a manica

Sono costituiti da un tessuto tubolare sostenuto per mezzo di un cestello portante interno, solitamente in

acciaio. Il rendimento del processo di filtrazione, che in modo molto semplificato è definibile come una

setacciatura della polvere contenuta nel fluido gassoso, dipende

∙ dalla dimensione del particolato,

∙ dalla velocità di filtrazione (all'aumentare della velocità del gas crescono le dimensioni delle particelle

che sfuggono al filtro),

∙ dalle caratteristiche del mezzo filtrante.

Si impiegano sia tessuti che feltri: i primi agiscono come un supporto sul quale la polvere, depositandosi,

forma uno strato microporoso capace di intrappolare le particelle più fini; i secondi, invece, sono costituiti

da uno strato di fibre che, intrecciandosi, formano dei micropori.

Occorre sottolineare che la temperatura di esercizio di un filtro a manica deve sempre essere superiore alla

temperatura di rugiada dei gas da depolverare; in caso contrario, il vapor d'acqua contenuto nei fumi

condensa e le gocce di acqua liquida, oltre ad inumidire lo strato di polvere depositato sulle maniche,

disciolgono eventuali composti acidi, generando fenomeni corrosivi sulle pareti del filtro.

In passato, i limiti di emissione meno restrittivi rendevano gli elettrofiltri competitivi al confronto con i filtri

a manica, oggi, invece, le nuove norme ne scoraggiano l'utilizzo. Attualmente, gli elettrofiltri trovano

impiego, insieme ai filtri a manica, nei sistemi a secco a base di bicarbonato di sodio.

L'elevata efficienza di rimozione raggiunta dai filtri a manica in fibra sintetica (polipropilene, teflon) è

ulteriormente incrementabile mediante l'utilizzo di materiali a base di fibre microporose (Goretex®).

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Sistemi per la rimozione di diossine e furani

Le policlorodibenzodiossine (PCDD) ed i policlorodibenzofurani (PCDF) sono composti aromatici, clorurati,

costituiti da due anelli benzenici. Questi ultimi sono legati, nel primo caso, per mezzo di due atomi di

ossigeno mentre, nel secondo caso, mediante un atomo di ossigeno ed un legame diretto, carbonio-

carbonio. Ci sono 75 differenti tipi di diossine e 135 tipi di furani che si distinguono a seconda della

posizione e del numero degli atomi di cloro che si uniscono agli anelli benzenici.

L'incenerimento dei rifiuti urbani è la principale fonte di diossine e furani. Entrambi si formano a partire da

"ingredienti" di base che comprendono un materiale organico di partenza, una fonte di cloro (da cloruro di

sodio) e, in caso di basse temperature, un catalizzatore metallico, secondo un processo favorito da

∙ eccesso di ossigeno,

∙ basse temperature di combustione,

∙ lunghi tempi di residenza a temperature intorno ai 340°C,

∙ presenza di rame, sodio, potassio nelle ceneri volanti.

Come già accennato le ipotesi circa il meccanismo di formazione di questi composti sono numerose e, dagli

studi più recenti, pare che le più accreditate prevedano una serie di reazioni, in fase eterogenea (gas-

solido), che avvengono sulla superficie delle ceneri volanti, in presenza di catalizzatori.

Proprio sfruttando le basse temperature (240℃ ÷350℃ ), con l'intervento di catalizzatori a base di TiO₂ e di

V₂O₅, è possibile indurre la decomposizione di diossine e furani in acqua, cloro ed anidride carbonica.

Questo processo raggiunge elevate efficienze di abbattimento, fino al 99%, ed è compatibile con gli altri

sistemi di purificazione come la tecnica SCR.

Tecnologie per il trattamento dei residui

I moderni impianti di termodistruzione dei rifiuti producono tre distinti tipi di residui:

∙ le scorie che si raccolgono sul fondo della camera di combustione,

Ciclone Filtro a maniche

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∙ le ceneri volanti trattenute dai sistemi di depolverazione,

∙ i sottoprodotti derivanti dal trattamento dei gas acidi.

La quantità totale di residui prodotti si attesta mediamente intorno al 30-35% in peso del totale dei rifiuti

che alimentano il forno.

Le scorie, che risultano la frazione più rilevante (25-30% in peso), sono costituite principalmente da inerti e

residui metallici e, in minima parte, da organici incombusti; le ceneri (3-5% in peso), al contrario, sono

composte prevalentemente da questi ultimi e sono caratterizzate da granulometrie notevolmente più

ridotte ed uniformi. I residui derivanti dal trattamento dei gas acidi dipendono dalla configurazione

impiantistica adottata: a valle dei sistemi a secco si raccolgono i sali prodotti dalle reazioni di

neutralizzazione ed il reagente in eccesso. Dal punto di vista della composizione, sono le ceneri volanti ed i

residui dell'assorbimento a presentare i livelli di tossicità più alti a causa della concentrazione di alcuni

metalli volatili come cadmio, piombo e mercurio nelle frazioni più fini del particolato prodotto,

caratterizzate da rapporti superficie/volume assai favorevoli per la condensazione. Il fenomeno è legato ai

processi di volatilizzazione che si verificano durante la combustione, cui segue la ricondensazione lungo la

linea fumi, accompagnata dalla progressiva riduzione della temperatura.

E' dunque indispensabile sottoporre i residui della depurazione fumi a trattamenti che ne riducano la

nocività, secondo due tipi di intervento:

∙ l'inertizzazione, ossia la riduzione della mobilità degli elementi tossici tramite incapsulamento in una

matrice solida stabile;

∙ la detossificazione, ossia l'estrazione totale o parziale degli elementi tossici dal residuo, con successivo

recupero della frazione inerte.