Ricordo di un paese che non c'è più - Filomeno Moscati · testimonianza che, attraverso il...

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Ricordo

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Filomeno Moscati

Ricordo Di un paese che non c’è più

( costumi, riti, usanze e giochi

di un paese che non c’è più )

Foto disegni e grafica

di Giulio Renzulli

Edizione fuori commercio

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Filomeno Moscati

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Ricordo

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Introduzione

Il libro è intitolato Ricordo, perché basato esclusivamente

sui ricordi d‟infanzia dell‟autore, e tratta degli usi e dei

costumi degli abitanti di San Michele di Serino nell‟epoca

anteriore al terremoto del 23 novembre 1980.

Quell‟evento catastrofico ha infatti segnato, con la

ricostruzione di un paese completamente distrutto, non solo il

cambiamento fisico, strutturale e visivo del paese, ma anche

il completo mutamento della vita materiale e

dell‟atteggiamento mentale di coloro che lo abitano. Ciò si è

tradotto in un cambiamento di costumi e nell‟abbandono, o

nella progressiva trasformazione, di usanze spesso secolari col

pericolo di far dimenticare, a noi come a quelli che verranno

dopo di noi, le nostre radici e la nostra antica civiltà.

Lo scopo del libro, perciò, non è soltanto quello di ricordare

nostalgicamente costumi e usanze del passato, ma anche di

spiegarne, per quanto possibile, origini e significato. Esso,

basandosi su ricordi in gran parte personali, ha poche citazioni,

e, proprio perché basato su ricordi esclusivamente personali,

non è esaustivo , pur contribuendo, io spero, a conservare,

nella generazione presente come in quelle future, memoria e

rispetto per la vita e le usanze di quelle passate.

Il libro è stato curato nella grafica da Giulio Renzulli, che lo ha

arricchito anche di schizzi e di fotografie che rendono assai

più comprensibili antichi giochi e usanze ormai tramontate.

San Michele di Serino, 02-05-2009.

Filomeno Moscati

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Ricordo

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Presentazione

Ìl Petrocchi definisce la tradizione come “ memoria di fatti

venuta a noi oralmente, trasmessa di generazione in

generazione”1 e il Mestica, a sua volta, dopo avere chiarito che

il termine deriva dal verbo latino tradere, (tramandare,

trasmettere) la definisce “memoria di fatti e di usanze antiche

tramandata oralmente di generazione in generazione”.2e, dello

stesso tenore, sono le definizioni del termine contenute in tutti

gli altri vocabolari della lingua italiana.

La tradizione, perciò, è memoria; memoria non solo di fatti,

ma, anche e soprattutto , di usanze, riti, costumi e credenze

antichi e, spesso, non più esistenti. L‟importanza di queste

memorie è data dal fatto che esse costituiscono la testimonianza

del passato di una nazione, o di un popolo, o di una gente, una

testimonianza che, attraverso il ricordo di usanze, credenze, feste

civili e riti religiosi, permette ai posteri la conoscenza di antiche

culture e di antiche civiltà.

La trasmissione di queste conoscenze costituisce un fatto di

rilevante importanza perché la cultura stessa è importante, sia dal

punto di vista individuale che collettivo, per ogni popolo e per

ogni stirpe. Nel caso delle tradizioni intendiamo parlare non della

cultura aulica e curiale, quella, per intenderci, che si apprende

sui libri e nei banchi di scuola (una volta patrimonio soltanto

delle classi dominanti ed egemoni) e che potremmo, senza tema

di sbagliarci, definire come erudizione, bensì di una cultura

popolare, ma non per questo meno nobile, che si apprende non

sui libri, fra i banchi di scuola, ma con l‟esistenza stessa

nell‟ambito della società in cui si nasce e si vive, a cominciare

dalla famiglia. Questo tipo di cultura, a differenza di quella

individuale, umanistica ed erudita, non è patrimonio di una sola

persona, ma, poiché si apprende con la vita stessa, di tutti gli

1 Petrocchi Policarpo, Piccolo Dizionario Della LinguaItaliana, Antonio

Vallardi Editore, Milano 1968, p. 881; 2 Mestica, Dizionario della Lingua italiana, p. 1934;

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individui che fanno parte della stirpe e della comunità in cui si

vive. Essa costituisce, perciò, un patrimonio comune a tutte le

persone che vivono in quella società, e, per questa ragione, può

essere definita popolare.

La cultura popolare, a differenza di quella erudita, derivando

dalla vita stessa, non può essere limitata a un solo aspetto della

conoscenza o del sapere, ma deve, obbligatoriamente, abbracciare

tutti gli aspetti della vita stessa, sia spirituali che materiali, e i

suoi libri sono costituiti dagli edifici, dagli attrezzi di lavoro, dai

manufatti e perfino dall‟alimentazione esistenti in una

determinata epoca ( cultura materiale);

dai riti religiosi e civili, dalle usanze, dalla lingua, dai proverbi e

anche dai valori morali che regolano la vita e la morte di una

stirpe o di una comunità in un‟epoca determinata (cultura

spirituale).

Il libro, che presentiamo all‟attenzione dei lettori, tratta

proprio di queste manifestazioni della cultura popolare di San

Michele di Serino (il paese che non c‟è più) nell‟epoca anteriore

al terribile sisma del 23 novembre 1980, e, poiché la cultura,

anche quella popolare, non è statica e si evolve e muta seguendo i

mutamenti e l‟evoluzione materiale e ideale di una comunità,

esso, oltre a illustrare origine e significato di antiche usanze, ne

evidenzia anche la scomparsa, o le variazioni, che testimoniano

il passaggio da una civiltà ad un‟altra , di cui la cultura popolare

costituisce il segno tangibile e più appariscente.

Le sagre, così diffuse nell‟epoca nostra, sono l‟espressione

di una cultura popolare che tenta di far rivivere, attraverso

riti e sapori antichi, civiltà e culture estinte o in via di

estinzione.

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Ricordo

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I

Ricordo

Ricordo il mio paese com‟era.

Ricordo le strade affollate

di giovani ridenti e spensierati

nelle dolci sere d‟estate,

e i vicoli ombrosi e solitari

nei meriggi afosi.

Ricordo!

Ricordo le notti settembrine

con l‟aria profumata

ed il canto lontano dei contadini

che spannocchiavano sull‟aia,

e rivedo dalla mia finestra,

alta sui tetti circostanti,

l‟immensa mole azzurrina

del “Montagnone”, stagliantesi

nella pallida luminosità

lunare.

Ricordo i giorni felici

della festa del Santo Patrono,

con la banda, le luminarie

e la gioventù vigorosa,

che si cimentava nell‟antico

gioco del “pizzicantò”.

Ricordo

quant‟era dolce il Natale,

il gran fuoco sul sagrato

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nella notte gelida e stellata,

la stella cometa

tirata con la fune,

lo scampanìo festoso

della mezzanotte santa,

il vocio gioioso degli auguri

scambiati con la voce

e con il cuore.

.......…..........

Io ti ricordo,

e ti rivedo qual eri

o mio paese,

ma, quando passo

sulla tua nullità,

un‟immensa malinconia

m‟invade e un grido

mi sale dall‟anima:

Paese mio, paese mio

dove sei ! ?3

Questo breve ricordo, comparso sul numero 12 del

giornale Anno Zero nel Novembre 1981, a un anno dal

terremoto che aveva completamente distrutto San

Michele, l‟antico casale di Serino, rende visibile, oltre lo

stato d‟animo della popolazione, la vita e la struttura

urbanistica del casale prima del sisma.

La struttura urbanistica era quella determinata da un

altro terremoto, che, nel 1732, aveva distrutto il paese

causando lo stesso numero di morti. Era la struttura

tipica di un casale a vocazione prevalentemente

3 Filomeno Moscati, Ricordo, Anno Zero n° 12 del 22

Novembre 1981, p.2.

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agricola, che, ricostruito per economia sui resti delle case

dirute, ne aveva conservato l‟impianto seicentesco di

vicoli stretti e poco soleggiati, larghi quel tanto che

bastava per il passaggio degli asini con i loro basti fatti di

tralci di vite intrecciati, detti comunemente “store”, e

delle “trainelle” per il trasporto di derrate e di letame.

Già, perché il letame si produceva in paese, nelle stalle

situate al piano terra delle abitazioni, a fianco

dell‟ingresso da cui partiva la scala che conduceva al

primo ed unico piano destinato a dormitorio. Dall‟altro

lato dell‟ingresso c‟era la cucina, luogo del soggiorno

diurno di tutta la famiglia.

A queste case si accedeva o dai vicoli o dalle

“Curtine”, corti comuni a più abitazioni, spesso abitate

da membri di un medesimo ceppo familiare. Erano gli

ingressi a queste corti, appartenenti alle famiglie più

ricche, o più numerose, a conferire ai vicoli e al paese

un certo pregio architettonico, perché quasi sempre

dotati di grandi portali settecenteschi, di pregevole

fattura artigianale, che portavano incisi sulla pietra

centrale della volta la data della costruzione e le iniziali

di chi li aveva fatti edificare. Erano tutti identificati col

nome di “portone” seguito dal nome della famiglia che

vi abitava.

I più famosi erano il “portone dei Vitagliano” all‟inizio

di Vicolo del Sole, il “portone dei Perrottelli” e quello

dei Romei in Via Cruci, (oggi Piazza Medaglia d‟oro

Raffaele Perrottelli), il “portone dei De Mattia” in

Vicolo Mezzogiorno, il “portone di Pichione” ( Camillo

Covelluzzi ) e quello di “Siloviestro” (Silvestro Renzulli

) in Via Palazzo, il “portone dei Renzulli” in Via del

campanaro, il “portone dei Cotone” e quello

“Mariconda” in Via Roma, quest‟ultimo facente parte di

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una struttura palaziale che assume un‟importanza

particolare e per l‟architettura e per la storia del paese.

Dal punto di vista architettonico questo palazzo

attirava immediatamente lo sguardo stupefatto di chiunque

entrasse in paese, tanta era la differenza di mole, di altezza

e di struttura che lo distingueva da tutte le altre costruzioni

del paese, con un “portone” immenso, altissime finestre

ad arco, un balcone enorme e caratteristico sotto il quale

volava, ad ali spiegate, una altrettanto enorme aquila reale,

fra pinnacoli, volute, putti e grifoni. Una struttura

palaziale in perfetto stile barocco coloniale ispano-

americano del XVIII-XIX secolo, in cui la struttura del

palazzo costituiva soltanto il supporto, l‟impalcatura

scenica su cui applicare una congerie di figure rampanti,

vasi, angioletti, colonne tortili, foglie e corone, in modo

tale che il tutto conferisse l‟impressione della ricchezza.

Una costruzione in stridente contrasto con la modestia

e, spesso, con la povertà delle altre costruzioni del casale,

quasi tutte strutturate sullo schema della tipica abitazione

contadina delle nostre contrade, costituita da due locali al

piano terra e due al primo piano, con al centro ingresso e

scala. Malgrado lo stridente contrasto questo palazzo,

anche con quel poco che ne resta dopo il terremoto del

1980, assume per San Michele di Serino una rilevanza

enorme perché costituisce la memoria visiva di un

periodo importante della sua storia, quello della prima

emigrazione, che, nella seconda metà del XIX e nel primo

ventennio del XX secolo, contrassegnò la diaspora di tanti

suoi figli verso le lontane Americhe.

Esso fu infatti costruito da Domenicantonio Mariconda,

emigrato in un paese dell‟America del Sud, ove l‟aveva

acquistato, o ereditato, da un ricco signore che aveva

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amorosamente assistito fino alla sua morte. Divenuto

ricco egli ritornò in Italia, e, a dimostrazione del suo

successo, volendo ricostruire nel proprio paese il suo

palazzo americano,

lo fece demolire e, dopo averlo fatto catalogare pezzo per

pezzo perché risultasse perfettamente identico a quello

originario, lo fece trasportare e riedificare nel suo paese,

come mi riferì uno dei suoi eredi e mio carissimo amico,

Francesco Mariconda, amichevolmente identificato con

l‟affettuoso diminutivo di Cecchillo. Nella struttura di

questo antico casale due punti, menzionati nel breve

Ricordo comparso su Anno Zero, rivestivano grande

importanza dal punto di vista civile e sociale, il sagrato

dell‟antica chiesa di S. Michele Arcangelo e l‟aia.

Il sagrato assumeva un‟importanza fondamentale sia dal

punto di vista religioso che civile. In questa piazza, infatti,

si riuniva il popolo per solennizzare le feste religiose come

il Natale, col grande fuoco nella notte gelida e stellata; il

Capo d‟Anno, con la veglia in attesa dell‟anno nuovo e

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degli auguri di”bona fine e buon principio. Semp‟a

meglio!” Era questo l‟augurio portato a tutte le famiglie dal

banditore del paese, che riceveva in cambio un dono in

denaro o in derrate alimentari, e da un codazzo di bambini,

che, dopo il grido di “ „e cicci „e creature”, ricevevano in

dono i chicchi bolliti di grano e di granone (cosiddetti

“cicci”), che, conditi con sugo di pomodoro, o

semplicemente con olio, costituivano un piatto presente su

ogni tavola come augurio di abbondanza e prosperità per

l‟anno che iniziava. Questa tradizione è oggi del tutto

scomparsa con la morte della Signora Emma Gerardo,

avvenuta il 16-04-2004, che, credo, sia stata l‟ultima

persona a praticarla offrendo in dono i”cicci” per augurare

un anno felice, e soprattutto prospero, a quelli che, come

me, erano onorati di essere considerati suoi amici.

Sul sagrato iniziava anche la Pasqua con la tradizionale

cerimonia dello “scandone”, una grossa asta di pino,

adorna di arance e limoni, portata al Santo patrono, quale

simbolo di tutto il casale, e appesa sotto la statua di S.

Michele campeggiante sul grande portale dell‟antica chiesa,

oggi non più esistente, fra canti di devozione che iniziavano

con la strofa:

„Oi S. Michele „a primo,

„oi S. Michele „a primo,

simo venuti

re bona matina

pe te purtà

la rosa marina.”

Il rito si concludeva con il consueto commiato di:

“‟oi S. Michele caro,

„oi S. Michele caro,

ti lasso „a bona Pasqua

e me ne vavo,”

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un commiato augurale rivolto al Santo, ma che coinvolgeva

l‟intero paese.

Alla “posa” dello “scandone” seguiva l‟augurio di

primavera, che, portato a tutte le famiglie nella giornata del

sabato santo e nella mattinata di Pasqua, iniziava con il

motivo antico di:

“bona Pasqua e bona matina.

t‟aggio portato la rosamarina”,

un rito, un dono e una formula atavici con cui , mediante le

foglie acuminate dell‟arbusto fiorito del rosmarino, si

volevano esorcizzare malanni e malocchio, in assenza dei

quali si acquisiva la certezza di una vita lunga e felice.

L‟augurio di benessere e felicità era indirizzato a tutti i

membri della famiglia, individuati per nome a cominciare

dal suo capo, con un motivo antico che racchiudeva in sé

amore, affetto e sacralità, e, appunto per questo, assumeva

il colore e il ritmo di una vera e propria mattinata.4

Sul sagrato, durante la festività del Santo Patrono, prima

che il simulacro del Santo uscisse dalla chiesa per la

processione solenne, si svolgeva anche l‟antico gioco del

pizzicantò,5 un gioco antico con cui i giovani scapoli del

4 N.d.A. “Mattinata” veniva detto, anticamente, il cantare e

suonare che gli amanti facevano, al mattino, sotto la

finestra della donna amata, per augurarle la buona giornata.

“Cantare, o dir mattutino” venivano denominate le laudi

mattutine al Signore, cantate nelle chiese e nei conventi. In

questo senso la intende Dante quando dice:

“ne l‟ora che la sposa di Dio surge

a mattinar lo sposo perché l‟ami,”

Dante, Paradiso, X, v. 140,141. 5 Aldo Renzulli, VAGGIACUNTàNUFATTO, Edizione fuori

commercio 28- 12-2008, p.3.

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paese mettevano in mostra, davanti alle fidanzate, o alle

ragazze da essi corteggiate, le loro doti di forza e di abilità,

montando l‟uno sull‟altro a formare una piramide, che,

quando si spezzava terminava col grido da cui aveva

derivato il nome “‟e „Ntò „e „Ntò „e „Ntò, quant‟è bello lu

pizzicantò”.

La sera dei festeggiamenti in onore del Santo patrono sul

lastrico del portone dei Vitagliano, che confinava con la

piazza ed era liscio e coperto dalle abitazioni che

insistevano sulla sua volta, si svolgeva anche, negli

intervalli in cui la banda non suonava, il ballo della

tarantella. L‟ultima persona a praticarlo, segnando il ritmo

con le nacchere al suono dell‟organetto e dei tamburelli, fu,

negli anni trenta del XX secolo, Caterina „a sciurella

(Renzulli Caterina).

Dal punto di vista civile era in questa piazza che, dal tempo

di Federico II e fino alla costruzione del Municipio

nell‟ultimo decennio del XIX secolo,6 si riuniva il popolo

per deliberare sulle questioni importanti per la vita del

paese, giacchè, come dice il Colletta, “il Parlamento si

riuniva in certo giorno d‟estate nella piazza e si facevano le

scelte per grida” 7. Era forse proprio per questo che

l‟architettura della piazza, antistante la chiesa, le conferiva

l‟aspetto di un grande sala per riunioni, rettangolare e tutta

circondata dalle case, con al centro un tiglio secolare che

l‟ombreggiava d‟estate, tiglio che, fino a quando la piazza

lastricata con rotondi ciottoli di fiume non venne asfaltata

6 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg,

Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 381 e seg. 7 Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Libreria

Scientifica Editrice, Napoli 1951, Vol. I, p. 91.

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nel decennio 1950-1960, era circondato da un muretto su

cui la gente si sedeva a discutere e a parlare.

L‟altro punto di aggregazione era l‟aia, lo spazio in

calcestruzzo davanti alle abitazioni coloniche e periferiche.

L‟aia era ordinariamente adibita all‟essiccazione dei

raccolti, mediante l‟esposizione al sole, alla trebbiatura del

grano, con l‟ancestrale tecnica della battitura col “villo”, e

alla sua liberazione dalla pula lanciando in alto i chicchi, al

vento, con la pala di legno.

L‟aia, usata a turno da diverse famiglie, diveniva luogo

delle loro riunioni durante il periodo settembrino della

spannocchiatura del granturco, operazione importante che

consentiva di rinnovare ogni anno, con nuove “sberze”,8 gli

umili ma confortevoli materassi, detti comunemente

8 N. d. A. Sberze, nel nostro dialetto, vengono ancora oggi

denominate le foglie che ricoprono la pannocchia del granturco.

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“sacconi”, che, situati sulle tavole di legno che costituivano

il piano dei letti di ferro, consentivano un piacevole sonno

ai dormienti perché li tenevano freschi d‟estate e caldi

d‟inverno. La spannocchiatura si eseguiva sempre

sull‟aia, insieme e di sera, al chiaro di luna, e su di essa,

fra cori e stornelli, fiorivano gli amori e si combinavano i

matrimoni.

Questo paese antico ormai non c‟è più, travolto dal tempo

e dalle calamità esso vive solo nel Ricordo di qualche

vecchio in fregola di poesia e in una sua riproduzione

accurata e minuziosa fatta da due terremotati, Sarno Aldo e

Spagnuolo Carmine, che, con questo loro lavoro ne hanno

tramandato ai posteri l‟immagine visiva.9 Al suo posto è

sorto un paese moderno progettato e ideato da un urbanista

di valore, l‟ingegnere Marcello Vittorini, professore di

Urbanistica nell‟Università di Roma.10

Le linee guida della ricostruzione del paese furono

generate da due circostanze di fatto, la completa distruzione

del centro storico ad opera del sisma del 23-11-1980 e

l‟impossibilità di poter salvare, o restaurare, il vecchio

paese. Partendo da questa realtà, dopo innumerevoli

incontri, e scontri, intercorsi fra amministrazioni, forze

politiche, tecnici di varia provenienza e popolo, fu infine

deciso di costruire, sullo stesso posto dell‟antico, un paese

nuovo, che, nel rispetto delle norme antisismiche, fosse

moderno e al passo con i tempi. La struttura urbanistica

della Nuova San Michele prevedeva la conservazione del

tracciato viario preesistente, ma con strade larghe che

permettessero il transito con automezzi, e, visto che asini e

9 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg,

Penta di Fisciano (SA) 2005, p.490. 10 Filomeno Moscati, idem, p.479 e seg.

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stalle erano totalmente scomparsi dal centro urbano, la

presenza di marciapiedi in ogni strada e autorimesse sotto

ogni comparto abitativo; parcheggi nei pressi della Chiesa

parrocchiale, del Municipio, del Campo sportivo e delle

scuole; piazze più ampie per feste, manifestazioni, mercato

settimanale, e, infine, spazi attrezzati per le attività sportive

giovanili, dislocati in modo da favorire l‟afflusso di popolo

in ogni rione cosicché nessuno di essi rimanesse isolato e

fosse considerato un ghetto.

Venne pure regolamentata la struttura architettonica dei

comparti e delle singole abitazioni da ricostruire, stabilendo

un limite d‟altezza degli edifici e, nel Piano Regolatore

Generale, vennero previste e definite le linee d‟espansione

futura del paese con l‟ampliamento e la valorizzazione delle

strade di campagna e di quelle in collina della riva sinistra

del Torrente Barra, e, cosa importantissima, l‟area da

destinare al Piano degli Insediamenti Produttivi,

comunemente detta Zona Industriale. Dalla ricostruzione,

portata avanti seguendo queste linee di. sviluppo, è emerso

un paese nuovo, moderno , al passo con i tempi e proiettato

verso il futuro, un paese in cui gli immigrati superano gli

emigranti e in cui, a ricordare l‟antico casale e la civiltà

contadina, ch‟era stata per secoli il suo orgoglio e la sua

bandiera, sono rimasti soltanto il piano terra con la

balconata e l‟aquila reale del Palazzo Mariconda, il

monumento a S. Michele Arcangelo, proprio per questo

costruito sull‟area dell‟antica chiesa andata distrutta, il

plastico, situato sotto la ricostruita chiesa di S. Michele

Arcangelo, e alcune tradizioni che annualmente vengono

fatte rivivere, con lodevole solerzia, dalla “Pro Loco” e

dall‟Amministrazione.

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Antico paese – Centro Monumento all‟Arcangelo – anno 2002

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II

I giochi di strada

dell’infanzia

L‟infanzia, nel tempo in cui la tecnologia era poco avanzata

e l‟informatica addirittura inesistente, come nella prima

metà del secolo XX, costituiva l‟epoca più felice della vita,

proprio allo stesso modo di adesso. In quell‟epoca i giochi

dei bambini, oggi tutti legati all‟uso di moderne

apparecchiature come i telefonini, la televisione, le

automobiline semoventi, i videogiochi e un‟infinità di altre

diavolerie altamente tecnologiche, erano assai più semplici,

meno individualistici e, proprio per questo, assai più

partecipativi e, oso dire, assai più divertenti per chi vi

prendeva parte attiva.

Il gioco più in auge, fra i bambini del paese che non c‟è

più, era quello del”circhio”, un gioco antichissimo perché

già praticato dai figli degli antichi romani.

Consisteva nel portare in giro di corsa, per le vie del paese,

il cerchio di ferro di una botticella, o di un barile,

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spingendolo con un piccolo uncino di ferro legato a una

mazza di legno. Il gioco raggiungeva il suo acme quando si

tramutava in una gara di corsa, in cui i candidati alla vittoria

erano pochissimi privilegiati, non più di due o tre,

possessori di un “circhio „e lusso”, cioè del cerchione della

ruota di una bicicletta, che veniva spinto e guidato con una

semplice mazza inserita nella sua incavatura.

Molto diffuso era anche il gioco del rimpiattino (o

nasconderello), denominato “viello velluto” dai bambini

che lo praticavano, perché iniziava con una filastrocca che

veniva recitata, con i bambini disposti in cerchio, per

individuare a chi di essi spettasse il compito di fare la

sentinella, cioè di avvistare e indicare per nome gli altri, che

si erano nascosti mentre egli contava fino a trenta con la

fronte sull‟avambraccio e la faccia rivolta al muro e che,

una volta identificati, sostituivano la sentinella che li aveva

avvistati. Questo gioco veniva , perciò, denominato anche

“‟a sentinella”.

La filastrocca iniziale diceva all‟incirca così :

“viello velluto

cavallo pezzuto,

chi fila e chi tesse

cavallo se n‟esce

e se n‟esce co‟ tric

trac, una, doie,

tre e quatto,

e quatto e quattuscelle

sotto „o ponte e zi Sabella

„nci sta „na palummella.

Iesce palomma

e cecala tu.

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Ricordo

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Un gioco molto diffuso fra i fanciulli e gli adolescenti era

quello dello “strummolo”, una trottola di legno con una

punta di ferro, che i ragazzi facevano girare, sfilando

rapidamente uno spago che le era stato avvolto attorno.

Questo gioco, che a prima vista sembra individuale, era in

realtà un gioco collettivo, perché vi partecipavano quasi

tutti i possessori di strummoli.

Esso era, inoltre, ricco di tensione emotiva, perché l‟essenza

del gioco consisteva nel cercare di colpire, con la punta

acuminata del proprio strummolo, il corpo dello strummolo

degli avversari con un colpo così violento da spaccarlo in

due ( iuoco a spacca strummolo ).

Assai diffuso fra gli adolescenti era anche il gioco

denominato “mazza co‟ pieuzo” o “mazza co‟ tammaro”,

una gara di forza e di abilità vagamente rassomigliante al

baseball americano, perché praticato con una mazza e con

un “pieuzo”, un pezzo di legno cilindrico e con le estremità

appuntite. Vinceva chi, dopo aver fatto sollevare per aria il

“pieuzo”, battendo con la mazza su una delle estremità

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Filomeno Moscati

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appuntite, riusciva, poi, a colpirlo a volo lanciandolo più

lontano di tutti gli altri partecipanti al gioco.

Diffusissimi erano anche i giochi della “Cavallina” e

della “Scaricavallina”.

La “scaricavallina”, era un gioco di forza , resistenza e

abilità, che si praticava fra due squadre contrapposte,

costituite ognuna da cinque giocatori. Iniziava

individuando, a sorte, la squadra che doveva andare sotto.

La squadra individuata disponeva il proprio capofila con il

corpo curvo e con la testa, protetta dall‟ avambraccio,

contro un muro. Gli altri quattro componenti della squadra

si disponevano, uno dietro l‟altro, curvi allo stesso modo e

con l‟avambraccio poggiato sui lombi di chi lo precedeva,

come a formare una fila di cavalli. Una volta formata la fila

dei cavalli, i componenti la squadra di sopra, ossia i

cavalieri, saltavano sul dorso dei cavalli e cercavano di

restarvi il più a lungo possibile, resistendo ai tentativi che i

membri della prima squadra facevano per cercare di farne

cadere almeno uno. Le funzioni delle squadre rimanevano

invariate se i cavalieri resistevano fino a che almeno uno dei

cavalli si accasciava sotto il peso (sconocchiava), si

invertivano quando almeno un cavaliere cadeva dal cavallo.

La “cavallina” derivava il suo nome, molto

probabilmente, dal gesto ginnico - atletico del salto del

cavallo, un attrezzo assai diffuso nelle palestre di

ginnastica. In questo gioco i partecipanti si disponevano in

una lunga fila, a distanza di tre o quattro metri l‟uno

dall‟altro, di traverso, con il corpo curvo, le mani sulle

ginocchia e la testa fra le braccia. Formata la fila il primo di

essa incominciava a correre e a superare gli ostacoli, in

successione, con un salto che si eseguiva poggiando le

mani sui corpi curvi e divaricando le gambe, proprio come

nel salto dell‟attrezzo ginnico. Il saltatore, una volta giunto

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Ricordo

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al termine della fila, si disponeva a sua volta nella

posizione di ostacolo, facendo sì che questa si andasse

sempre riformando. Il gioco terminava per l‟esaurimento

delle forze, causato dalla corsa e dai salti eseguiti senza

alcuna interruzione.

Il “gioco delle stacce” era un succedaneo del gioco delle

bocce e si giocava, fra due o più bambini, con i resti dei

mattoni (detti comunemente “mautuni”) usati per la

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pavimentazione delle

abitazioni. Questi resti,

opportunamente arrotondati

con pietre aguzze dagli stessi

bambini, fino a formare un

disco, costituivano le

“stacce”. Conquistava punti

il bambino, o la squadra, che

riusciva a lanciare vicino a un

disco più piccolo, detto

“pallino”, un numero di

“stacce” maggiore di quello

della squadra avversaria.

Vinceva la partita chi, per

primo, arrivava a conquistare 12 o 16 punti, a seconda dei patti

stabiliti.

Il gioco più diffuso fra le bambine era quello denominato “la

settimana”.

Questo gioco per poter essere praticato aveva bisogno di un

disegno, che le bambine facevano sul piano stradale con

rimasugli di gesso portati via dalla scuola. Il disegno

rappresentava i giorni della settimana con diversi quadrati

numerati dall‟uno al

sette, separati fra loro

da altri quadrati non

numerati.

Il gioco consisteva

nel saltare,

reggendosi su di una

sola gamba, da un

quadrato numerato

all‟altro, seguendo

l‟ordine numerico e

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Ricordo

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superando nel salto, senza cadere, i quadrati privi di

numero. Questo gioco veniva, a volte, reso più difficile

costringendo le partecipanti a saltare portando, sul dorso del

piede non d‟appoggio, una “rasta”, un piccolo pezzo di

piatto o di vaso, rimasuglio di una ceramica rotta, senza

farlo cadere. Vinceva chi riusciva a compiere, senza errori,

l‟intero percorso.

Assai diffuso, fra le bambine, era il “girotondo”, gioco

antichissimo, che veniva praticato da più bambine disposte

in tondo dandosi la mano, in modo da formare un cerchio

continuo.

Le bambine, una volta formato il cerchio, cominciavano a

girare con andatura sempre più veloce, fino a far sì che il

cerchio si rompesse. Caratteristica del “girotondo” era la

cantilena, cantata dalle bambine durante il loro moto

rotatorio, cantilena che diceva all‟incirca così:

Giro, giro tondo,

quant‟è bello

il mondo.

Gira il mondo,

gira la terra

e Maria (o altro nome)

va per terra.

Molto diffuso. fra le bambine, era anche il gioco della

“mosca cieca”, in dialetto denominato “‟a iatta cecata” ( la

gatta cieca ). Iniziava con l‟individuazione della “iatta

cecata” con i soliti sistemi del tocco o di una filastrocca,

come ad es.

“Ietti a cappotti

e accattai buttuni,

n‟accattai trentarui,

trentarui e „na petacca

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sabeto abbotta

e dumeneca scatta.

Individuata la “iatta”, questa veniva “cecata” mediante un

fazzoletto legato sugli occhi e, così “cecata”, doveva

individuare, citandola per nome, la ragazza che le capitava fra

le mani e che, una volta individuata correttamente, diveniva, a

sua volta, “iatta cecata”.

Erano, come si è visto, giochi molto coinvolgenti e partecipativi

e, proprio per questo, molto divertenti, ma poveri. Questi giochi

sono oggi, nell‟epoca dell‟opulenza e della tecnologia digitalica,

oltre che disusati anche dimenticati. Li abbiamo inclusi in

questo ricordo perché essi costituiscono una testimonianza viva

e vera di un‟epoca tramontata, uno spaccato della vita che

conducevano i fanciulli del paese che non c‟è più nella prima

metà del secolo XX.

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Ricordo

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III Tradizioni scomparse

o in via di estinzione

Il rispetto delle tradizioni nella prima metà del secolo XX,

all‟epoca del paese che non c‟è più, assumeva un carattere

quasi sacrale.

La sacralità derivava dal fatto che le tradizioni , intese

come memoria di fatti e di usanze antiche tramandate

oralmente di generazione in generazione , davano un

significato e un senso di continuità alla vita dei singoli e

dell‟intero paese. Esse,infatti, riallacciandosi alle usanze

della vita quotidiana di genitori ed avi, spesso risalenti ad

epoche lontanissime, facevano sì che ognuno acquistasse

cognizione delle proprie origini, e, comprendendone il

significato sia palese che recondito, o anche

semplicemente intuendolo, si sentisse, con orgoglio,

parte della comunità in cui egli viveva e in cui i suoi padri

avevano vissuto.

Queste tradizioni, essendo accettate e praticate da tutti i

membri della comunità, diventavano una parte essenziale

della loro vita, scandendone i tempi dalla nascita alla

morte e dando, ad ogni atto della loro esistenza, senso e

valore.

La forza della tradizione si manifestava, con evidenza,

ancora prima della nascita di un suo nuovo membro, con la

scelta o, meglio, con l‟imposizione del nome ai nascituri

primogeniti, sia maschi che femmine, cui si dava il nome

del nonno paterno, se maschi, e della nonna paterna se

femmine, un‟usanza antica e radicatissima, dal popolo

indicata col termine dialettale di “asseppontare” , inteso

nel senso di mettere un supporto, una zeppa (sepponta o

zepponta) a qualcosa che stava per crollare.

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E‟ proprio questo termine dialettale a svelare il

significato dell‟usanza, che è quello di rendere noto a tutti

che la stirpe dei nascituri, evidenziata con nomi e cognomi

spesso antichissimi, non si era estinta. L‟usanza aveva, ed

ha, oltre che un significato sociale anche un significato

affettivo e familiare, così radicato e fortemente sentito

ancora tuttora da tantissimi giovani, che essi, con orgoglio,

impongono ai loro figli il nome dei propri genitori, e specie

quello del padre, a significare non solo l‟affetto, ma la stima

e il rispetto che nutrono per essi, e, quando ciò non si

verifica, è, per i nonni del neonato, causa di grande dolore,

anche se non apertamente manifestato. Questa tradizione è,

inoltre, testimonianza di un‟antica civiltà oltre che segno

della sua grandezza. La consuetudine può, infatti, essere

fatta risalire addirittura al tempo dei Romani, come si può

facilmente dedurre dalle tantissime epigrafi di epoca latina a

noi pervenute, riportanti i nomi di personaggi famosi

appartenenti alla stessa famiglia. Per nostra consolazione

questa tradizione non si è ancora spenta.

Spenta del tutto è, invece, l‟usanza, molto diffusa nelle

famiglie contadine, di piantare uno o più alberi di noci alla

nascita di ogni figlia femmina. Quest‟usanza era stata

generata da una causa esclusivamente economica, derivante

dai patti maritali nei quali si includeva, fra gli obblighi

dotali della sposa, quello di portare con sé un mobilio, che

comprendesse almeno un letto matrimoniale, un armadio,

una cassapanca e una tavola per il pranzo, mobili che

venivano fatti costruire, prima delle nozze, dal falegname

del paese con il legno ricavato dal taglio dei noci.

Disusato è anche l‟obbligo, che entrambe le famiglie

assumevano al momento della conclusione dei patti, di

dotare gli sposi l‟uno di una vacca , l‟altro di un maiale,

animali ritenuti indispensabili per poter fornire, alla nuova

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famiglia, una vita confortevole. Quest‟usanza era applicata

in modo così rigido, che, secondo quanto mi è stato riferito

da persona che ne aveva fatto personale esperienza, in

alcune famiglie si pretendeva che in casa dovesse entrare

prima la vacca e poi la sposa che la portava in dote.

La forza della tradizione si faceva sentire perfino in

occasione dei matrimoni. La sua manifestazione più

eclatante era costituita dal corteo nuziale, al quale

partecipavano tutti i parenti degli sposi. Esso partiva dalla

casa della sposa e attraversava, percorrendole a piedi, le vie

principali del paese per giungere , infine, all‟antica chiesa

di S. Michele Arcangelo, ove veniva celebrato il rito sacro

del matrimonio.

La principale caratteristica del corteo era la rigida

disposizione che in esso assumevano i partecipanti, una

disposizione vistosamente diversa fra l‟andata in chiesa e il

ritorno da essa a celebrazione avvenuta.

All‟andata il corteo era guidato dal padre della sposa, con

al braccio la sposa stessa, seguiva lo sposo con al braccio la

madre della sposa, venivano poi tutti i parenti della sposa a

cominciare dai fratelli, cui seguivano i cugini e gli altri

parenti , disposti in successione secondo il grado di

parentela. Ai parenti della sposa seguivano, senza soluzione

di continuità, i parenti dello sposo, guidati dai suoi genitori

e disposti anch‟essi, in rigida successione, secondo il grado

della parentela.

All‟ uscita dalla chiesa, dopo la celebrazione, il corteo era

guidato dagli sposi, cui seguivano i genitori dello sposo e,

con la stessa rigida successione di grado di parentela, tutti i

parenti dello sposo. Terminati questi venivano i parenti

della sposa, ma con disposizione rigidamente invertita

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rispetto all‟andata, di modo che gli ultimi all‟andata

diventavano i primi al ritorno, e, in questo corteo, i

genitori della sposa occupavano l‟ultima posizione.

La tradizione anche in questo caso aveva un significato

chiaro, che era quello di annunciare a tutta la comunità

paesana, in un‟epoca in cui non si era ancora diffusa la

moda delle partecipazioni matrimoniali inviate per posta,

l‟avvenuto matrimonio e la nascita di una nuova famiglia.

Il significato recondito stava nella diversa disposizione dei

partecipanti al corteo di ritorno, con i genitori della sposa in

ultima posizione, come mi fu spiegato da un vecchio

contadino mio amico, cui avevo chiesto lumi in merito. Ciò

stava a significare che la novella sposa era entrata a far

parte a pieno titolo di una nuova famiglia, diversa da quella

originaria, di cui assumeva il cognome secondo l‟usanza di

quell‟epoca. I genitori della sposa, inoltre, assumendo

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l‟ultima posizione annunciavano a tutti di aver rinunziato

alla patria potestà fino a quel momento esercitata sulla

sposa.

Nel solco della tradizione si effettuavano anche i

festeggiamenti agli sposi novelli, che cominciavano con

l‟annuncio (partecipazione) delle nozze, abitualmente a

voce, a parenti e amici. Una volta dato l‟annuncio gli sposi

si preparavano a ricevere i regali di nozze nelle proprie

abitazioni ordinando al pasticciere del paese, il bravissimo

Raffaele Sarno, un congruo numero di biscottini e dessert,

comunemente denominati “paste secche”, e, per

risparmiare, a volte fornendogli anche la materia prima e

pagandolo alla giornata. Confetti, comperati presso il

negozio Limongelli di Atripalda, biscottini e paste secche

venivano gelosamente custoditi in una cassa e offerti, ai

portatori di regali di nozze, assieme a bicchierini di liquore

di vario colore, il cosiddetto “rosolio”, che veniva quasi

sempre fatto in casa con alcool, aromi e coloranti vari.

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Al momento del commiato ai portatori di regali veniva

consegnato un pacchetto di varie dimensioni, il cosiddetto

“cartoccio”, contenente confetti, biscottini e paste secche,

perché tutti i membri della loro famiglia potessero gustarli. I

festeggiamenti si concludevano, nella tradizione contadina,

con un pranzo in cui erano d‟obbligo „e maccaruni „e zita, i

maccheroni della sposa, oppure, in caso di persone

abbienti, con un ricevimento in casa, con gli invitati

seduti su sedie disposte in doppia fila lungo le pareti delle

stanze, ricevimento in cui si distribuiva ai partecipanti, oltre

ai rosoli e agli stessi dolci del cartoccio, una pasta con la

crema.

Questi festeggiamenti, tutti straordinariamente economici

se visti con gli occhi abituati all‟opulenza dei giorni nostri,

potevano risultare, nella prima metà del secolo XX, molto

costosi e tali da non poter essere affrontati da molte

famiglie di modesta condizione economica. In tali casi

l‟ostacolo veniva superato dai promessi sposi con una fuga,

che, assai spesso, era frutto di un segreto accordo fra le

famiglie e veniva annunciata con la frase: “se n‟enno

fuiute” .

Nell‟ambito della tradizione si collocava financo il rito

funebre, che si svolgeva, immutabile, ogni qualvolta moriva

un membro della comunità. Esso iniziava col suono delle

campane, annuncianti, coi loro rintocchi lenti e pieni di

mestizia (“campane a morto”), la dipartita di un suo

membro. Seguiva la visita, cosiddetta “di condoglianza”,

alla casa del defunto, eseguita da ogni capofamiglia o,

nell‟impossibilità, da un suo membro autorevole , col

duplice scopo di esternare al morto affetto, rispetto e stima,

e, ai suoi familiari, la compartecipazione al loro dolore. Il

rito proseguiva con il corteo funebre, cui partecipava tutta la

comunità. Il corteo iniziava partendo dalla casa del morto,

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con in testa la confraternita seguita dai portatori delle

“ghirlande” di fiori, e, dietro di essi la banda musicale,

il parroco, che precedeva il feretro trasportato a spalla da

parenti o amici, e, dietro il feretro, i parenti seguiti da tutto

il popolo dei partecipanti al funerale. Nello stesso ordine,

percorrendo a piedi tutta Via Roma e tutta Via Viaticale, si

accompagnava il feretro all‟ultima dimora, dove, nella

cappella del cimitero, il rito si concludeva con la stretta di

mano ai familiari del morto.

Questo rito, che dal 1875 in poi si concludeva nel neo-costruito

cimitero di Via Viaticale,11

doveva essere molto più antico, e, in

11 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni,

Penta di Fisciano (SA) 2005, pp.341-347.

Filomeno Moscati, San Michele di Serino e la chiesa di S.

Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, Edizione a cura

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epoca anteriore al 1875, quando era in auge la sepoltura dei

morti nelle chiese, si concludeva nell‟ antica chiesa di S.

Michele Arcangelo. Oggi la seconda parte del rito, che con

la partecipazione di tutta la comunità al corteo funebre

testimoniava la grandezza e la nobiltà della civiltà contadina del

nostro paese, non viene più attuata; infatti, a causa delle

disposizioni impartite dalle autorità civili e religiose, che vietano

i cortei per evitare intralci al traffico automobilistico e pericoli

ai pedoni, il corteo non si forma più e il rituale si svolge tutto in

chiesa, ove i partecipanti attendono la salma, e in essa si

conclude con la stretta di mano, esattamente come duecento anni

fa.

del Comune di San Michele di Serino, LUBIGRAF Montoro

Inferiore 2007, pp. 183-192.

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Ricordo

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IV

Tradizioni e usanze

legate alle feste religiose

Tradizioni e usanze accompagnavano, nella prima metà del

secolo XX, anche le feste religiose, a cominciare dal Natale.

La giornata antecedente il Natale, essendo vigilia, avrebbe

dovuto essere caratterizzata dal digiuno. Nella realtà il

digiuno era stato attenuato nella prescrizione di “non

camerare”, espressione popolare comunemente adoperata

per indicare il divieto di mangiar carne in quel giorno.

L‟attenuazione del divieto aveva dato origine ad

un‟alimentazione particolare, che, col passar del tempo, si era

trasformata in una vera e propria consuetudine , la quale, a

sua volta, aveva dato luogo alla tradizione dei pasti tipici

della vigilia di Natale.

Il pranzo della vigilia, rispettando il divieto

dell‟alimentazione carnea, era costituito da un piatto di

cavoli (cosiddetti cavolabruoccoli o pizzulama) oppure, a

seconda delle usanze familiari, da un piatto di sedani con le

noci (cosiddetti accci c„a noce) seguiti da una pietanza di

baccalà condito con aglio ed olio.

Il cenone della vigilia comprendeva un piatto di spaghetti

con le sarde ( o con le alici per i palati più raffinati) seguito

da una pietanza di anguille ( i famosi capitoni di

Comacchio), comprate quand‟erano ancora vive e cucinate in

vari modi, a seconda dei gusti e delle preferenze familiari, e

da una frittura di baccalà . Al piatto forte, costituito dai

capitoni, seguivano zerpole col miele, fichi secchi, noci,

nocelle e castagne infornate.

Erano pasti modesti e poco costosi, come si può facilmente

dedurre dalle pietanze ammannite, preparate con verdure

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raccolte nell‟ orto di casa e in cui di veramente costoso non

c‟era che il capitone, ritenuto una vera prelibatezza.

Il cenone della vigilia di Natale assumeva, dal punto di vista

delle tradizioni familiari, una valenza del tutto particolare,

perché, nel corso di un intero anno, era quello il momento in

cui attorno al desco del capofamiglia si riunivano, sempre e

comunque, tutti i suoi membri, nessuno escluso. Il cenone si

concludeva, in genere, con la cerimonia dello “nferto”, un

modesto regalo in denaro che il capofamiglia, quasi a

contrassegnare la sua figura di patriarca e capo carismatico,

faceva a tutti i partecipanti al momento dello scambio degli

auguri.

La presenza di ogni componente, in un‟epoca in cui la

famiglia era ancora intesa come struttura patriarcale, e la

cerimonia dello “‟nferto” a ogni suo membro, dal più

vecchio al neonato, conferivano al cenone della vigilia il

valore di un rito sacro, che, rinsaldando i vincoli

dell‟appartenenza al proprio ceppo, dava alla cerimonia il

significato, intimamente avvertito da tutti i partecipanti, di

una vera e propria festa della famiglia.

Dopo il cenone adulti e ragazzi raggiungevano il sagrato ,

dove, accanto al “focone” acceso sul suo selciato, si

attendeva l‟inizio della “Messa di Mezzanotte” fra spari di

“tric trac, truoni, sischi, botte a muro e carrubine”, carabine

formate da una chiave femmina sospesa ad uno spago i cui

capi venivano legati alle sue due estremità. Una volta

costruita la carrubina nel suo buco veniva introdotta una

piccolissima quantità di polvere pirica, e, poi, un grosso

chiodo con la testa in avanti, che , spingendo col movimento

del pendolo la bocca della chiave contro un muro, la faceva

esplodere.

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Ricordo

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L‟usanza dell‟attesa attorno al “focalorio” era immortalata

in due brevi filastrocche, molto in auge nella

prima metà del secolo XX.

La prima diceva:

E‟ benuto Natale

e spareno „e botte,

mi metto „o cappotto

e vav‟ a berè.

La seconda filastrocca descriveva invece, con molto

realismo, la sorte di coloro che, a corto di moneta,

preferivano non vedere lo “sparo delle botte”. Essa diceva:

E‟ benuto Natale

e spareno „e botte,

ma nun tengo renari,

mi fumo „na pippa

e mi vav‟ a curcà.

La Messa di mezzanotte terminava con la processione del

Bambino attorno all‟unica navata dell‟antica, e ora non più

esistente, chiesa di S. Michele Arcangelo; una processione

spettacolare perché guidata, passo per passo, da una stella

cometa di legno appesa ad un filo di ferro disteso fra

l‟organo, situato sopra la porta d‟ingresso della chiesa, e

l‟altare maggiore. La cometa, come io la ricordo, era tirata da

una fune, sia all‟andata che al ritorno, ed era illuminata da

lampadine elettriche, ma, in epoca anteriore all‟anno 1923,

anno in cui a San Michele di Serino fu impiantata la luce

elettrica, 12

la stella doveva essere illuminata o con candele

o con fiammelle a gas.

12 Moscati Filomeno, Storia di Serino. Gutenberg Edizioni, Penta

di Fisciano 2005. p. 390 e seg.

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Nella tradizione rientrava anche il pranzo di Natale,

costituito, in tutte le famiglie, dai caratteristici tagliolini

all‟uovo, fatti in casa e cotti nel saporitissimo brodo di

cappone ripieno ( capone „mbuttuniato) o, in alternativa, dai

maccheroni fatti con la “maccaronara” e conditi col sugo di

pomodoro in cui era stato cotto il cappone. Il ripieno era

realizzato con uovo battuto, pinoli, animelle e frattaglie del

cappone stesso, che veniva servito come secondo e presentato

trionfalmente in tavola, circondato da insalate di verdura e

variopinti sottaceti di esclusiva produzione familiare. Un

pranzo gustosissimo, ma anch‟esso poco costoso, perché

ammannito con ingredienti di produzione domestica e, perciò,

perfettamente consono alla civiltà contadina di cui era

espressione.

Il pranzo, nei suoi componenti fondamentali, era

anch‟esso immortalato in una filastrocca, che lo rendeva

grandioso e sufficiente per nobilitare il Natale anche del

contadino più indigente. La filastrocca diceva:

Mo vene Natale

e nun tengo renari,

„o meglio pizzo

è „o fucularo

„na veppeta „e vino

e „nu capunciello

e gloria e gloria

a „o Bambiniello

Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S.

Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri, Edizione a

cura del Comune di San Michele di Serino, LUBIGRAF

Montoro Inferiore 2007, p. 201.

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Oggi , nell‟epoca dell‟opulenza, questo pranzo una volta

comunissimo credo non faccia più parte delle tradizioni

familiari, sia per la scomparsa dei capponi e dei tagliolini fatti

in casa, sostituiti da tanti prodotti assai meno impegnativi

presenti nei supermercati, sia per l‟allentarsi dei vincoli

familiari, che costituivano i pilastri su cui si reggeva la

famiglia patriarcale, espressione concreta dell‟antica civiltà

contadina del nostro paese.

Della tradizione faceva parte pure la cena dell‟ultimo

dell‟anno, comunemente denominata “ cenone di S.

Silvestro”, un cenone che si differenziava da quello della

vigilia di Natale soltanto per la presenza in tavola del

cotechino circondato dai “cicci” del buon augurio, oggi

sostituito dal piatto d‟importazione costituito dallo zampone

con le lenticchie.

Al Natale era legata anche la costruzione del presepe in ogni

famiglia, una tradizione iniziata da S. Francesco nella chiesa

di Greccio nel 1223,13

due anni prima della sua morte.

13 Moscati Filomeno, Presepe e pastori. I pastori di Luigi

Tarantino, Edizione a cura del Comune di San Michele di

Serino e altri, Poligrafico Ruggiero S. r. l., Avellino 2007,

p.13.

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Essa fortunatamente ancora si attua, anche se affiancata, e

in tante famiglie addirittura sostituita, dalla costruzione

dell‟albero di Natale, un albero rutilante di luci e di palline

colorate, di grande effetto visivo, ma, per noi, di nessun

valore simbolico e di nessuna relazione con il passato,

perché legato esclusivamente all‟usanza nordica di

festeggiamenti per il ritorno della luce in paesi in cui la

notte è lunghissima e il buio è presente per gran parte

dell‟anno

. Sorte simile a quella del

presepe sta subendo la

tradizione della calza, che,

nella prima metà del secolo

XX i bambini appendevano

alla spalliera del letto, nella

notte dell‟Epifania, perché nel

buio la vecchia Befana,

scendendo attraverso il

camino, potesse riempirla,

non vista, di molto carbone,

per punizione, o di piccoli

doni, quali fichi secchi, mandarini, come premio, e, in fondo

alla calza, le caramelle, all‟epoca tanto desiderate dai

bambini.

Nell‟era dell‟abbondanza questa consuetudine, che era

testimonianza di tempi grami, è stata sostituita dall‟usanza,

anch‟essa nordica, del Babbo Natale recante regali costosi,

oltre che vistosi e tecnologicamente avanzati, che si

depositano sotto l‟albero.

Legate alla tradizione erano anche molte usanze popolari

connesse alla liturgia della Pasqua. La prima, e io ritengo la

più importante di queste usanze, per il suo fortissimo

simbolismo religioso, era la costruzione del sepolcro del

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Ricordo

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Cristo morto. Questo sepolcro veniva costruito con teneri

germogli di grano, pallidi perché fatti germogliare all‟oscuro

e in piccoli vasi (cosiddette “teste”) presso un considerevole

numero di famiglie, vasi che venivano portati in chiesa dopo

la messa in cena domini del giovedì santo. E‟ evidente, per

chi crede, la connessione di questo sepolcro alla parabola del

seminatore14

e al chicco di grano, che, caduto nel terreno

fertile, deve morire per germogliare e dare frutto,15

e, inoltre,

alla promessa dell‟immortalità futura, enunciata da Cristo

con le parole : “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede

in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non

morrà in eterno.” 16

A dimostrazione di ciò, nel giorno della

Pasqua di resurrezione, ogni fedele raccoglieva uno o più di

quei germogli per portarli nella propria abitazione e sulla

tomba dei propri cari come segno visibile e tangibile della

promessa del Signore. La scomparsa di quei germogli, nella

Pasqua del 2009, e la loro sostituzione con fiori di sicuro

effetto estetico, ma di nessun significato simbolico, è stata

per molti causa di grande dolore.

Strettamente legata alla liturgia (cosiddette funzioni) del

venerdì santo era un‟altra usanza da decenni ormai

scomparsa. La liturgia di questo giorno prevedeva la lettura

evangelica della passione e morte di Gesù, e, durante la

lettura, lo spegnimento, una alla volta, di alcune candele

situate su un triangolo di legno, fino all‟oscuramento

completo della chiesa per alcuni secondi, al momento della

morte di Cristo.

14 Matteo,13, 3-9, 18-23; Marco,4, 3-9, 13-20; Luca,8, 5-8,

11-15. 15 Giovanni, 12, 24. 16 Giovanni, 11, 25-26.

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Filomeno Moscati

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Nello stesso istante iniziava un rumore assordante, prodotto

soprattutto da giovani adolescenti con raganelle e martelli di

legno appositamente costruiti dai falegnami, mazze, pietre e

materiali di tutti i generi. In questo caso l‟usanza più che al

simbolismo era legata alla riproduzione reale del terremoto

descritto nei passi evangelici, che, a sottolineare l‟effetto che

la morte di Cristo provocò sulla natura, oltre che sugli

uomini, letteralmente dicono: “Venuto mezzogiorno si fece

buio su tutta la terra”17

“Ed ecco il velo del tempio si

squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce

si spezzarono, i sepolcri si aprirono”18

Alla festa della Pasqua era legata anche la tradizione della

rosamarina, un rito antichissimo risalente, più che

verisimilmente, all‟epoca pagana e al culto della dea Cibele,

personificazione della Terra Madre, la cui festa si celebrava

durante l‟equinozio di primavera, fra canti di coribanti e il

suono di cembali,19

per celebrare il suo mito di dea della

morte e della rinascita della vegetazione.20

Non sono note le leggende che la riguardavano salvo una,

quella che si riferisce ai suoi amori con Attis, in cui sono

stati trasferiti i misteri orgiastici ed orfici della resurrezione,21

che, all‟avvento del Cristianesimo, divennero una forma di

17 Marco, 15,33; Luca, 23,44. 18 Matteo, 27, 51-52. 19

Mestica, Dizionario della Lingua italiana, p. 294. Cembalo =

tamburello, strumento formato da un cerchio di legno intorniato di

sonagli e col fondo di cartapecora ben tesa, su cui si battono le dita

a cadenza, tenendolo con una mano e agitandolo. 20

Cinti Decio, Dizionario Mitologico, Sonzogno Editore, Milano

1998, p. 72. 21

Schimdt Joel, Dizionario della mitologia greca e romana,

Cremese Editore, Roma 1994, p.55.

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Ricordo

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partecipazione laica alle celebrazioni religiose per la morte e

la resurrezione di Cristo Salvatore. La leggenda della morte e

della resurrezione di Attis, trasformato in pino, è stata

immortalata da Ovidio nel libro X delle sue Metamorfosi,

che tratta del mito di Orfeo ed Euridice, là dove dice:

Anche voi, tortuose edere veniste, e, insieme a voi,

Le viti ricche di pampini e gli olmi maritati alle viti,

E gli orni e le piante picee, e, carichi di pomi rosseggianti,

I corbezzoli, e , premio del vincitore, le flessibili palme

E il pino dall‟alta chioma rotonda e dall‟irsuto vertice,

Caro alla madre degli dei; tanto che Attis, amato da Cibele,

Svesti le sembianze umane e s‟indurì in quel tronco22

(Traduzione di Filomeno Moscati)

In questa tradizione antichissima risulta evidente il

collegamento anche con il culto latino dei numina, una

categoria di divinità minori personificanti la forza divina e

misteriosa della natura, che guida ogni atto dell‟uomo

dandogli forza ed efficacia. Questa forza divina della natura

è presente in ogni cosa, in ogni animale come in ogni

vegetale, nei quali infonde un soffio di vita e di volontà,

ragion per cui il loro appoggio veniva molto ricercato.23

A questa religione di tipo feticista si ricollega il dono del

ramo di pino e dell‟arbusto del rosmarino, ricchi di foglie

22

Ovidio, Le metamorfosi, X, 99-105:

Vos quoque, flexipedes hederae, venistis et una

Pampinee vites et amictae vitibus ulmi

Ornique et piceae pomoque onerata rubenti

Arbutus et lentae, victoris praemia, palmae

Et succincta comas hirsutaque vertice pinus,

Grata deum matri, siquidem cybeleus Attis

Exuit hac hominem truncoque induruit illo. 23

Schimdt Joel, idem, p. 152.

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aguzze e puntute, che vengono offerti ad ogni famiglia col

valore di un amuleto, che, con la sua intrinseca forza naturale

e con le sue foglie acuminate, è capace di allontanare da

quella famiglia ogni malanno e ogni influsso naturale avverso

(cosiddetto malocchio).

Al dono dell‟amuleto, diffuso in tutta l‟Irpinia, si aggiunge il

canto augurale, fatto di strofe che variano di poco da un

Comune all‟altro, a seconda dell‟estro e delle capacità

poetiche estemporanee dei cantori, i quali danno loro

contenuti e significati vari, che vanno, a seconda del luogo e

delle circostanze, dalle velate espressioni d‟amore a quelle

più esplicite e addirittura salaci.

Molto comune e variato è il soggetto della bella mugliera,

che inizia con un tema sempre uguale che dice:

Megli‟è a spusà una bella e senza niente,

ca una brutta e cu‟ denari „nante

cui vengono aggiunte variazioni infinite, fra cui :

1) Ca li renari so‟ com‟a lu viento

nu bello iuorno ti rimane „nante;

2 ) Chi tene li renari sempe conta

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Ricordo

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chi la bella mugliera sempe canta;

3 ) La bella face onore a li pariente

la brutta face schifo a tutte quante.

Il momento cruciale del rito era, ed è, in realtà, quello

degli auguri, con la chiamata rivolta ad ogni membro della

famiglia, a cominciare dal suo capo , al quale si rivolge, se

avanzato negli anni, questo augurio di immortalità:

„ Oi(nome del chiamato) caro, „oi ..... caro

puozzi campà gagliardo e forte

pe‟ quanto durano Terminio

e Monteforte.

La chiamata coinvolge tutti i membri della famiglia, che

vengono individuati per nome, e l‟ometterne qualcuno viene

considerata una grave offesa. Questo momento del rito è

così vivo e partecipato che alcune famiglie chiedono ai

cantori di chiamare perfino qualche persona morta. 24

La tradizione ancora si attua , nel nostro paese ,

perché tenuta pervicacemente in piedi dalla Pro Loco.

Come per la rosamarina all‟influsso degli spiriti

(numina) presenti in alcuni esseri viventi è possibile far

risalire anche la macabra usanza, ancora presente nel nostro

paese e in tutta l‟Irpinia nella prima metà del secolo XX, di

inchiodare alla porta di casa una civetta perché ritenuta

uccello di malaugurio, e, viceversa, di affiggere al di sopra

dell‟entrata la parte anteriore del teschio di un bue perché

ritenuto capace d‟impedire, con la punta delle corna,

l‟ingresso a qualunque maleficio.

24 Capriglione F., De Feo G., Farese N., Feola A., Iallonardo

G., „A rosamarina, Edito dal Centro “Tre Tigli” di S. Stefano

del Sole (AV) 2008, p.33.

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In proposito non bisogna dimenticare che, nelle popolazioni

primitive, la religione e le pratiche religiose sconfinavano

spesso nella magia e che il Sannio antico, patria anche

della tribù degli Hirpini che abitavano le nostre contrade,

era il paese delle streghe, esseri dotati di poteri magici che

le rendevano capaci di influire negativamente sulla vita

altrui attraverso fatture e malocchio. La parola strega deriva

proprio dal termine latino strix, vocabolo con cui si

indicavano animali notturni come il barbagianni e la civetta,

che erano ritenuti, allora come oggi, uccelli di cattivo

augurio. L‟accostamento scaturisce dal fatto che, presso i

popoli primitivi, era credenza comune che la magia del

male, di cui si riteneva fossero protagoniste le streghe,

venisse compiuta da queste agendo prevalentemente di

notte e assumendo l‟aspetto di animali notturni, quali sono

le civette e molti altri esseri viventi.

La magia del male poteva essere contrastata e vinta solo

attraverso la magia del bene, attuata da altrettanti esseri

viventi, appartenenti al regno animale e vegetale, dotati di

intrinseche forze naturali e magiche capaci di impedire e

annullare l‟influsso malefico causato da fatture e malocchio.

La magia del bene si attuava, perciò, allora come oggi,

attraverso uno specifico armamentario profilattico costituito

da amuleti e talismani.

Amuleto, infatti, è parola che deriva dal verbo latino

amoliri ( amolior, ammoliris, amolitus sum , amoliri ) che

significa rimuovere, allontanare. Esso è, in massima parte,

costituito da cose naturali, e, perciò, la categoria degli

amuleti è molto vasta e in essa sono compresi oggetti

diversi e spesso senza alcuna somiglianza o connessione fra

loro. Ciò che li unisce, e nello stesso tempo li distingue, è lo

spirito naturale, la forza immanente della natura, che da

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Ricordo

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taluni viene ritenuta presente in essi e che, per la sua

essenza benefica e di opposizione alla magia del male,

viene definita magia del bene.

L‟azione benefica e di contrasto ai malefìci, esercitata

dagli amuleti, si esplica attraverso diverse forme di magia

del bene fra cui, importantissime, vanno annoverate:

La magia delle punte, esercitata da tutti gli oggetti, animati

o inanimati , forniti di una punta, come chiodi, forbici,

spilli, corni appositamente costruiti, corna di animali, mani

con le dita disposte in modo da formare l‟immagine delle

corna, parti di vegetali e di piante con foglie appuntite ,

come i rami delle conifere;25

La magia della conta basata sulla credenza, assai diffusa

presso i popoli primitivi, che le streghe potessero utilizzare

i loro poteri malefici soprattutto di notte, entro un tempo

limitato che andava dalle ore 23 alle ore 3 , e che esse non

potessero oltrepassare oggetti formati da una quantità di

cose identiche se non le avessero prima contate. La

categoria degli amuleti basati sulla magia della conta era

costituita da oggetti che si riteneva fossero capaci di far

perdere tempo alle streghe, come i rami del rosmarino e

delle conifere, muniti di ammassi di foglie aghiformi

difficili da contare. Una sottospecie di questa categoria di

amuleti era costituita dalla scopa di saggina, che si esponeva

davanti alla porta delle case, e forse ancora oggi si espone

da alcune massaie, con i rami di saggina rivolti in alto, per

impedire l‟ingresso ai

25 Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina

popolare, Recordati, Istituto Italiano d‟Arti Grafiche di Bergamo

1940, p.78

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poteri occulti. Questo effetto viene definito magia della

scopa;26

La magia degli organi animali basata sul principio

fondamentale della medicina omeopatica, secondo il quale

similia similibus curantur, che è l‟esatto contrario del

principio ippocratico contraria contrarriis curantur, su cui

si basa la medicina curativa (non preventiva o vaccinale)

moderna. Il malocchio veniva, perciò, combattuto con la

riproduzione pittorica dell‟occhio, o degli occhi umani,

sulle pareti esterne delle abitazioni, sulla porta delle case,

sulla prora delle navi, sul fondo di oggetti di uso domestico

e quotidiano, quali tazze e vasi, in modo che costituisse

quasi un invito a berne il contenuto, fino all‟ultima goccia,

per poter usufruire dell‟azione benefica dell‟amuleto dipinto

sul fondo.

Grande valore magico assumevano, e nel solco della

tradizione assumono ancora oggi, alcuni monili da

indossare, i quali riproducono in oro, (minerale ritenuto

anch‟esso dotato di poteri magici) organi umani, quale il

cuore, o animali, quale il corno, che ha costituito per

millenni l‟amuleto principe contro il malocchio.27

Nel solco di questa tradizione una valenza del tutto

particolare assumeva la riproduzione degli organi genitali, e

in modo preminente di quelli maschili, fatti oggetto di un

vero e proprio culto, propiziatorio di fecondità e

abbondanza. Questa tradizione tuttora sussiste, oltre che nel

cornetto (cosiddetto curniciello) ritenuto una riproduzione

simbolica del membro genitale maschile, in alcuni gesti

della vita quotidiana, quali il toccarsi o grattarsi i genitali, o

26 Pazzini Adalberto, idem, p. 80. 27 Pazzini Adalberto, idem, p. 83.

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nel formare le cosiddette fiche introducendo il pollice fra

indice e medio piegati, figura che costituisce la riproduzione

simbolica della copula. Questo gesto antichissimo, usato

ancora oggi col valore di amuleto contro il malocchio,

veniva adoperato anche per esprimere disprezzo e spregio

verso gli altri o verso Dio. In questo senso lo intese Dante,

nel XXV canto dell‟Inferno, quando rappresentò Vanni

Fucci bestia,28

che

“le mani alzò con amendue le fiche,

gridando: <<Togli, Dio, che a te le squadro! >>29

La magia della parola è una delle più antiche forme di

magia che sia stata documentata e può essere considerata

come una fra le più antiche forme di medicina mai praticate.

Essa risale infatti all‟epoca in cui la malattia stessa era

considerata effetto di magia, e, come tale, poteva essere

vinta solo per mezzo di pratiche magiche. Una di queste

pratiche era costituita dalle formule magiche, come traspare

dall‟introduzione del papiro di Ebers che dice. “Il Signore

del tutto mi ha dato le parole per cacciare le malattie di

tutti gli dei e le malattie dei mortali di ogni genere”30

In

questa forma di medicina apotropaica aveva grande

importanza il suono, poiché era convinzione diffusa nel

popolo che alcune frasi, alcune parole , anche se spesso

incomprensibili, avessero una speciale virtù antimalefica al

cui suono si disfaceva ogni fattura. Il significato delle parole

non aveva , perciò, grande importanza, mentre ne aveva

28 Alighieri Dante, Inferno, XXIV , vv. 125, 126 29 Alighieri Dante, Inferno, XXV, vv. 2, 3. 30 Pazzini Adalberto, Storia della medicina, Società Editrice

Libraria, Milano 1947, Vol. I, p.22.

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moltissima il suono e la personalità di chi pronunciava le

formule magiche.31

Tutte le forme di magia benefica sopra esposte sono

presenti nel rito della rosamarina;

la magia delle punte e della conta nelle foglie del

rosmarino e dei rami di conifere;

la magia degli organi sessuali maschili nelle due arance

con un limone al centro, che costituiscono la

rappresentazione simbolica dell‟organo sessuale e

riproduttivo maschile;

la magia della parola nella chiamata, che ha la sua base

nella ripetizione di formule ataviche bene-auguranti,

enunciate, con melodie tramandatesi immutate attraverso i

secoli, al ritmo scandito dal suono dei cembali, ciò che

conferma l‟ ancestralità del rito.

Alla festività della Pasqua sono legate molte tradizioni

culinarie, che in parte ancora si perpetuano, come la pizza

con le erbe ( pizza cu l‟erve e pampine „e „ieta) , la pizza

piena ( pizza chiena), i taralli tipici di Pasqua e il tortano

con sopra le uova, protette da due strisce di pasta disposte in

croce, in numero corrispondente a quello dei componenti la

famiglia.

Tutte queste specialità culinarie, legate all‟abbondanza

primaverile di erbe novelle e di uova, venivano preparate,

nella prima metà del secolo XX, esclusivamente in famiglia

e venivano poi cotte presso il forno pubblico , dove

venivano trasportate su apposite tavole di legno fornite dal

gestore del forno.

31 Pazzini Adalberto, Storia tradizioni e leggende nella medicina

popolare, Recordati, Istituto d‟arti grafiche di Bergamo 1940, p.

115.

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Ricordo

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Caratteristico della settimana santa era, perciò, il grande via

vai delle donne che all‟andata al forno trasportavano sulla

testa, protetta da uno straccio attorcigliato (coruoglio), le

tavole sorreggenti le specialità culinarie pronte per la cottura

e, al ritorno, grandi sporte ripiene di esse, calde ed emananti

una fragranza capace di fare resuscitare i morti. Una

tradizione, questa del forno pubblico, che era retaggio del

periodo feudale, periodo nel quale i conti e i baroni

riservavano a sé il diritto di costruire mulini, forni e

vinacciai , proibendolo ai propri sudditi (cosiddetti diritti

proibitivi) e obbligandoli, nel contempo, a servirsi

esclusivamente di quel mulino, di quel forno e di quel

vinacciaio (cosiddetti diritti di privativa).32

33

32 Moscati Filomeno, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni, Penta

di Fisciano (SA) 2005, pp. 226, 227;

Moscati Filomeno, San Michele di Serino e la chiesa di S.

Michele Arcangelo dalle origini ai giorni nostri , Edizione a

cura del Comune di San Michele di Serino, LUBIGRAF,

Montoro Inferiore 2007, pp.24, 182. 33 N. d. A. , Dopo l‟abolizione della feudalità mulino , forno

e vinacciaio furono comperati il 31 agosto 1847, col

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Il forno, situato in Via Cruci („ncoppa „e Cruci) e il mulino,

situato in via Augello, ormai non esistono più e con il mulino

ad acqua di Via Augello è scomparsa anche l‟usanza di

avvisare i clienti, col suono cupo e potente di un corno

formato da una grossa conchiglia marina, che il mulino era

libero e la torre di carico ricolma d‟acqua.

Contemporaneamente alla scomparsa dei mulini ad acqua e

dei forni pubblici scompare l‟usanza del pane di mais, „o

pane „e rarignino, costituto da grandi pezzi di pane di mais,

cotti nel forno a legna, con sotto una foglia di verza, oppure,

a seconda del luogo in cui si viveva, molte foglie di castagno.

Con il pane di mais è scomparsa anche la pizza al chinco, una

saporita focaccia di farina di granone, cotta sul focolare in un

apposito tegame di creta, detto chinco.

Lo scagnuozzo, una grossa fetta di pane di mais che i

contadini per sfamarsi portavano con sé sul campo da

coltivare, e la pizza al chinco hanno permesso la

sopravvivenza dei lavoratori dei campi, nelle nostre contrade,

per almeno due secoli.

Scomparsa del tutto è anche la tradizione delle rogazioni,

antica almeno quanto quella della rosamarina.

Erano processioni, per impetrare da Dio un buon raccolto,

che si effettuavano per le vie di campagna, tra i campi

seminati e in fiore, nei tre giorni precedenti l‟Ascensione.

Una pratica religiosa cristiana, radicata soprattutto nei paesi

pagamento di un censo (enfiteusi) di 234 ducati annui, dal

mio bisnonno Francesco Moscati fu Vincenzo, e i suoi beni

passarono nel 1877, per successione ereditaria, ai suoi figli

Lorenzo, Vincenzo e Filomeno, mio nonno, cui toccarono

mulino, forno e vinacciaio, e da lui a mio padre Vincenzo

Moscati.

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Ricordo

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cattolici, che aveva soppiantato l‟antico rito pagano della

lustratio finium , la purificazione dei confini dei campi per

liberarli e proteggerli da ogni influsso malefico capace di

compromettere il raccolto.

La cessazione di queste processioni di primavera, una volta

tenute in grande considerazione, è il segno chiaro che l‟antica

e nobilissima civiltà contadina, ricchezza e vanto di San

Michele di Serino, esiste ormai come realtà puramente

marginale, soppiantata, com‟è, dalla moderna civiltà

industriale e consumistica.

Pure tramontata, almeno nella forma antica, è l‟usanza del

pellegrinaggio, nel mese di settembre, al santuario della

Madonna di Montevergine sul Monte Partenio, un‟usanza

antichissima subentrata ai pellegrinaggi pagani al tempio di

Cibele, che la tradizione vuole fosse anticamente esistente sul

monte Partenio34

in epoca anteriore all‟avvento del

Cristianesimo, a testimonianza e conferma, assieme al rituale

della rosamarina, della devozione alla Terra Madre diffusa

in tutta l‟Irpinia fin dall‟epoca dei Sanniti.

I pellegrinaggi alla Madonna di Montevergine,

comunemente denominati „a iuta a Muntuvergine, venivano

compiuti in comitiva. I pellegrini partivano in piena notte e,

portando con sé le vettovaglie, percorrevano a piedi tutta la

strada fino al santuario, fra canti inneggianti alla Madonna

bruna o impetranti grazie da Mamma Schiavona . Fra le

regole non scritte della iuta, ma osservate da tutti i

partecipanti con assoluto rigore, c‟era quella del digiuno nel

tratto da Mercogliano al santuario sia all‟andata che al

ritorno, che veniva compiuto anch‟esso a piedi. La

34 Capriglione F., De Feo G., Farese N., Feola A., Iallonardo

G., „A rosamarina, Edito dal Centro Tre Tigli di S. Stefano del

Sole, Stampa Editoriale s.r.l., Avellino 2008, p. 10.

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caratteristica dell‟ ingresso dei pellegrini in paese, al loro

ritorno, era il canto col quale essi ringraziavano la Madonna

per il pellegrinaggio felicemente compiuto e promettevano di

rifarlo nell‟anno successivo, un canto, intonato a piena voce

per farsi sentire da tutti, che si chiudeva sempre con la stessa

strofa:

Simo iute

e simo venuti

e quanta razie

avimo avute.

Oggi il santuario viene raggiunto con l‟automobile, o con la

funicolare, in forma individuale o familiare, oppure in

autobus con un pellegrinaggio in comitiva organizzato dalla

parrocchia, ma, dei canti che risuonavano nelle dolci notti

settembrine, è rimasto nell‟animo soltanto l‟amaro ricordo.

Un‟ usanza del tutto particolare, legata al culto dei morti e

oggi del tutto scomparsa a causa del sopravvenuto

predominio dell‟illuminazione elettrica, era quella praticata

dai bambini nella sera del 2 di novembre.

Essi attendevano che gli adulti abbandonassero il cimitero

per sottrarre qualche cero dalle tombe e porlo, acceso, in

grosse zucche vuotate in precedenza del loro contenuto e su

cui erano stati incisi gli occhi e la bocca, in modo da farle

sembrare dei teschi. Le zucche (cocozze) venivano poi

appese a una pertica e portate in giro, nell‟oscurità, per tutte

le vie del paese. Una processione che aveva una vaga

rassomiglianza con la festa di allowin praticata negli U.S.A.

Alla festa del Santo patrono era invece legata la recita, sul

sagrato, di un dramma sacro denominato “O ritto „e S.

Michele”, la cui rappresentazione avveniva soltanto

periodicamente. Anche l‟usanza di questa sacra

rappresentazione può ritenersi ormai scomparsa perché il suo

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canovaccio è andato perduto durante il terremoto del 23

novembre 1980.

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Ricordo

57

V

‘O Ritto ‘e S. Michele

Il dramma sacro cristiano, o sacra rappresentazione, è antico

quanto la chiesa stessa e si può ritenere istituito dallo stesso

Cristo nell‟ultima cena, quando, spezzando il pane disse: hoc

facite in meam commemorationem ( fate questo in memoria

di me)35

. Questa frase di Cristo Salvatore è letteralmente

ripetuta nella Messa, la quale non è altro che la

rappresentazione quotidiana del mistero dell‟incarnazione e

passione di Cristo, ma non è la sola. Nella messa, infatti, vi è

un susseguirsi di dialoghi, un avvicendarsi di movimenti

simbolici e una coralità ottenuta con la partecipazione dei

fedeli, che, non fungendo da sfondo inerte, diventano parte

attiva del rito sacro.36

La Messa nei primi secoli del cristianesimo costituiva la

parte fondamentale della liturgia , ma la liturgia era rigida e

intoccabile e, pur avendo forme e spunti drammatici in alcune

sue espressioni, come i Libri antiresponsales e gli

Antiphonaria, non era dramma. Incominciò a diventarlo

soltanto nel secolo XII, quando, con il passaggio dal latino

alla lingua volgare si affermarono le laudi, che avevano la

struttura di dialoghi cantati in forma drammatica da apposite

confraternite.37

La più famosa di queste laudi è Il pianto della

Madonna di Iacopone da Todi, in cui protagonisti del

35 Luca, 22,19. 36 Ghilardi Fernando, Storia del Teatro , casa Editrice F.

Vallardi, Appiano Gentile (CO) 1961, p. 112. 37 Ferroni Giulio, Storia della Letteratura Italiana, Einaudi

Scuola, Milano 1991, p .125.

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Filomeno Moscati

58

dialogo sono Maria, Cristo, Giovanni evangelista e il

popolo.38

La lauda, componimento dialogato ma privo di

scenografia, venne soppiantata, nel corso del XIII e XIV

secolo, dalle sacre rappresentazioni, in cui l‟aspetto

spettacolare prese il sopravvento sul fervore religioso. Una

sacra rappresentazione abruzzese di quell‟epoca, il Dicto

dello Nferno39

ha, almeno nel titolo, una forte assonanza con

il Ritto „e S. Michele, che si rappresentava in San Michele di

Serino ancora nella prima metà del secolo XX. Entrambe le

rappresentazioni hanno, nel titolo, l‟equivalente dialettale

della parola Detto, intesa come cosa vera tramandata da altri.

Io non credo che il canovaccio del “Ritto” fosse antico

quanto quello dell‟ omonimo abruzzese, ma certamente

doveva essere anteriore alla seconda metà del secolo XIX,

epoca in cui subì qualche modifica, o ammodernamento, da

parte del canonico Romei, come sostengono i suoi parenti, o

di monsignor Giuseppe De Mattia. Quello che è certo è il

fatto che il canovaccio di questa sacra rappresentazione è

sempre stato in possesso del maestro Giuseppe Forcellati,

nipote di monsignor De Mattia, cosa che fa propendere per la

seconda ipotesi.

Il canovaccio del Ritto „e S. Michele altro non era che la

trasposizione drammatica del passo dell‟Apocalisse che dice:

Allora avvenne una guerra nel cielo. Michele e i suoi Angeli

combattevano contro il dragone. Il dragone e i suoi angeli

ingaggiarono battaglia, ma non poterono prevalere e nel

cielo non vi fu più posto per loro.

38 Petrocchi G., Iacomuzzi F., Reggio G., Il libro della

letteratura italiana, Le Monnier, Firenze 1972, p. 110. 39 Ghilardi Fernando, Storia del Teatro, Casa Editrice F.

Vallardi, Appiano Gentile (CO) 1961, p. 132.

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Ricordo

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E il gran dragone fu precipitato, l‟antico serpente, che si

chiamava diavolo e Satana, il seduttore del mondo intero; fu

precipitato sulla terra, e i suoi angeli furono precipitati con

lui40

L‟antico canovaccio, in tre atti, deve ritenersi posteriore al

XVI secolo perché la scena fondamentale del primo atto, il

concilio dei demoni, era chiaramente ispirata al concilio

infernale descritto dal Tasso nel quarto canto della sua

Gerusalemme Liberata, e, in particolare, alla terza strofa che

così ne descrive l‟inizio, del tutto simile a quello del “Ritto”:

Chiama gli abitator de l‟ombre eterne

Il rauco suon della tartarea tromba.

Treman le spaziose alte caverne,

e l‟aer cieco a quel romor rimbomba;

né sì stridendo mai da le superne

region del cielo il folgor piomba,

nè sì scossa mai trema la terra

quando i vapori in sen gravida serra.41

Anche i personaggi infernali sono quelli descritti dal Tasso

nella quinta strofa del canto quarto della Gerusalemme

Liberata, che associa ai demoni personaggi mitologici quali

Arpie, Centauri, Sfingi, Gorgone, Scille, Idre, Pitoni,

Chimere, Polifemi e Gerioni42

oltre Aletto e Astagor, citati in

altra parte del poema.

Il testo del Ritto, gelosamente custodito dal maestro

Giuseppe Forcellati, è, purtroppo, andato distrutto, assieme

alla sua casa, nel terremoto del 23 novembre 1980 , e la

stessa sorte hanno subito le singole parti di esso, che gli attori

40 Apocalisse, 12,, 7,8,9. 41 Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, IV,3. 42 Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, IV, 5.

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Filomeno Moscati

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conservavano con grande cura presso le proprie abitazioni, a

quanto mi è stato riferito da alcuni di essi da me a suo tempo

interpellati. Il mio augurio e la mia speranza , avendo io

interpretato per due volte la parte di S. Michele, è che questo

antico canovaccio possa venir ritrovato e sottratto all‟oblio.

Difficilissimo sarebbe, comunque, trovare oggi degli attori

capaci d‟interpretare delle parti come quella di Giovanni

Iasimone, che dava vita a un personaggio infernale che si

presentava sul palco con decine di serpi vive legate alla

cintura, e con altre legate a una corda che di tanto in tanto

lanciava verso il pubblico assiepato sotto il palco,

provocando panico, fughe, urla e schiamazzi.

Dopo il terremoto, richiesto da più parti di riscrivere il

Ritto, l‟ho fatto, e, pur essendo stato esso in parte

rappresentato, per opera di Salvatore Aufiero, nella chiesa di

S. Michele Arcangelo, non avevo nessuna intenzione di

pubblicarlo non ritenendolo degno di tanto. Il testo da me

scritto è, comunque, cosa ben diversa da quello antico,

poiché nel primo atto mette in risalto le origini longobarde di

S. Michele di Serino e i suoi personaggi portano tutti nomi

longobardi. Il secondo atto, che descrive il concilio infernale,

è ispirato all‟Inferno di Dante e i suoi personaggi portano il

nome e sono modellati sui demoni presenti nell‟Inferno

dantesco. Il terzo atto è ispirato all‟Apocalisse e ai vangeli

sinottici, di cui, soprattutto nelle parole dell‟Angelo, riporta i

passi più significativi.

Una seconda ragione, di carattere letterario e teatrale,

alimentava la mia ritrosia alla pubblicazione di questo testo.

Ritengo, infatti, che sia difficilissimo dar vita teatrale al

dramma sacro, che non si basa su passioni e sentimenti

umani, e pressoché impossibile quando l‟essenza del dramma

è costituita da uno scontro tra due principi, quello del bene e

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Ricordo

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quello del male, principi astratti da rendere concreti e visibili

a tutti personificandoli nelle due schiere degli angeli fedeli e

degli angeli ribelli.

Il testo da me scritto ha, nonostante ciò, avuto l‟onore della

pubblicazione perché Aldo Renzulli, avendolo visto

abbandonato su di un tavolo, durante una sua visita

amichevole a casa mia, me lo chiese e lo ha ritenuto degno di

essere pubblicato in un suo pregevole lavoro,43

togliendomi

così dall‟imbarazzo. Qui lo ripropongo con qualche lieve

modifica.

Costume di San Michele indossato da Giosino e Ugo Fiorillo

43 Renzulli Aldo, VAGGIACUNTàNUFATTO, pp. 13-22.

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Filomeno Moscati

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‘O RITTO E S. MICHELE

NELLA RIELABORAZIONE

DI

FILOMENO MOSCATI

PROLOGO

PROLOGO : Non si sa da quando, ma certamente da tempi

antichi, in questo paese si usava allestire, in concomitanza con la

festa di S. Michele, una sacra rappresentazione in onore del

patrono da cui ha preso il nome. Il canovaccio di questo

primitivo e popolare dramma sacro, reso più accettabile ai tempi

moderni, sia dal punto di vista letterario che drammatico da

monsignor Giuseppe De Mattia, nella seconda metà

dell‟Ottocento, veniva recitato sul sagrato, ove negli antichi

tempi si tenevano queste rappresentazioni, e cioè nella piazza

principale del paese (Piazza Umberto I) antistante la chiesa.

Attori della rappresentazione erano gli stessi abitanti del casale.

L‟ultima recita risale agli anni immediatamente successivi alla

fine della Seconda Guerra Mondiale, 1946-1947, durante la festa

in onore del Santo patrono, una grande festa di ringraziamento

voluta e organizzata dai reduci scampati al conflitto. Il testo del

dramma, amorosamente custodito dal “maestro” (insegnante)

Giuseppe Forcellati, è andato purtroppo perduto, assieme alla

sua casa, durante il terremoto del 23 Novembre 1980, né è stato

più possibile recuperarlo o ricostruirlo. Il testo attuale, quello

che oggi si rappresenta, è un libero rifacimento in cui

sopravvivono soltanto un paio di frasi dell‟antica

rappresentazione, frasi riguardanti il concilio dei démoni ( Ancor

potente è Lete; Io sono il vessillo di guerra e qui lo pianto), frasi

rimaste impresse nella memoria malgrado i tanti anni trascorsi.

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Ricordo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

S. Angelo ad peregrinos

( La scena ha sul fondo un grande pannello con, sulla destra,

l‟immagine del monte Terminio, al centro una tettoia di

paglia su travi di legno e, sul fondale, si vede la Mezza Costa

con l‟antica via Sabe Maioris e, sulla sinistra, un tratturo che

porta ad un ponte, costituito da due travi di legno coperte da

spesse tavole. Da questo ponte il tratturo prosegue

congiungendosi con la via Sabe Maioris. Davanti alla tettoia

di paglia si erge una croce di legno, che ha per base un

muretto di pietre su cui potersi sedere. È l‟ora del tramonto.

La scena è vuota. Si ode, in lontananza, un canto che dice:

O San Michele Arcangelo

Sei capitano del cielo,

Sei nostro protettore,

donaci grazia e favore

a cui un altro risponde con la strofa:

S. Michele Arcangelo

Tu sia lodato sempre

Sei nostro protettore

Donaci grazia e favore,44

44 N. d. A. Le due strofe erano cantate, sotto forma di laude

alternata, dalle donne che seguivano il simulacro di S.

Michele durante la processione nella festività del Santo

Patrono, almeno fino al terremoto del 1980-

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Filomeno Moscati

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Con questo canto entrano in scena tre pellegrini, vestiti del

saio dei romei, appoggiandosi ad un vincastro e con un

sacco, a mo‟ di zaino, sulle spalle. Giunti davanti alla croce

si segnano, recitano una breve preghiera, (l‟Ave Maria in

latino) e si siedono sul muretto che forma la base della

croce.)

ROMUALDO : Ringraziamo il Signore Nostro Gesù Cristo,

perché il primo giorno del nostro pellegrinaggio è andato

bene. Speriamo che continui così per tutto il percorso.

RODOALDO : Sia ringraziato il Signore anche per questa

tettoia sotto la quale potremo riposare questa notte. Qui ci

troviamo in mezzo ai fiumi, le notti sono umide e il freddo

penetra nelle ossa.

GARIBALDO : Hai ragione, ma prima di stenderci sul

giaciglio di paglia per riposare, apriamo i sacchi e

rifocilliamo i nostri corpi per riprendere le forze. Un lungo

cammino e ancora molte tappe ci attendono prima di

arrivare alla grotta dell‟Angelo del Gargano. (I pellegrini

aprono i sacchi e ne estraggono cibi semplici che si

conservano a lungo, la focaccia di farro, pane biscottato,

formaggio secco e salami e si apprestano a mangiare)

RODOALDO : Meno male che possiamo dissetarci, perché

qui l‟acqua non manca ed è limpida e fresca.

ROMOALDO : Domani ci attende un lungo e faticoso

cammino. Dovremo fare, in salita, tutta la via della Mezza

Costa e, dopo aver superato la Piana del Dragone, scendere al

fiume Calore fino al Ponte del Romito.

GARIBALDO : Il Signore ci assista, e ci aiuti l‟Angelo

Michele, perché il cammino è lungo e difficile.

ROMOALDO : Sono tutte montagne e il cammino non è

facile.

RODOALDO : Il cammino fra i monti è difficile e

pericoloso anche perché siamo in pochi e i boschi sono pieni

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Ricordo

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di briganti che assaltano noi, poveri pellegrini, per sottrarci

anche quel poco che abbiamo.

ROMOALDO : E‟ vero, ma l‟Arcangelo Michele, che ha

sconfitto i diavoli, ci aiuterà.

(Si ode di nuovo il canto e una comitiva di dieci uomini e

cinque donne, anch‟essi vestiti del saio dei pellegrini, giunge

davanti alla croce e si segna.)

ROMOALDO: Da dove venite, cari fratelli, e dove siete

diretti?

ROSMUNDA: Veniamo da Nuceria e andiamo alla grotta

del Gargano per pregare all‟altare dell‟ Angelo Michele.

Abbiamo saputo che in quest‟ anno del Signore 663, l‟otto di

Maggio, l‟Arcangelo Michele è apparso al Duca di

Benevento, Grimoaldo, che lo invocava. Con il suo aiuto egli

ha sconfitto i greci che volevano saccheggiare il santuario del

Gargano.

RADELGISIO: Molti di noi si sono fatti pellegrini per

implorare qualche grazia dall‟Angelo miracoloso. Egli

stesso lo promise quando, più di duecento anni fa, apparve al

vescovo di Siponto dicendogli: “ Io sono l‟Arcangelo

Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna sul

monte Gargano è a me sacra e io stesso ne sono il vigile

custode.”

SCAUNIPERGA: Egli ordinò al vescovo di recarsi sulla

montagna e di dedicare la grotta al culto cristiano, perché “là

dove si spalanca la roccia possono essere perdonati i peccati

degli uomini e tutto quello che lì sarà chiesto nella preghiera

sarà esaudito.”

AIONE: Molti altri fedeli partiranno da Salerno e Nocera

per rendere omaggio all‟Angelo del Gargano e pregare

davanti al suo altare, per ringraziarlo o per implorare il suo

aiuto, e si fermeranno in questo luogo dopo il primo giorno di

cammino.

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Filomeno Moscati

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RODOALDO: Anche il nostro incontro in questo pio luogo

è un miracolo dell‟Arcangelo Michele. Egli ci ha fatto

incontrare qui per farci proseguire insieme il viaggio

formando un gruppo numeroso, che può facilmente difendersi

dalle violenze dei ladri.

ROSMUNDA : Hai visto giusto. Questo è un vero miracolo.

E‟ opera dell‟Angelo che vuole rendere sicuro il nostro

cammino.

AIONE: L‟Angelo è veramente miracoloso. Anche il nostro

re Cuniperto lo venera e, fiducioso nei suoi poteri miracolosi

e nella sua predilezione e protezione per il nostro popolo

guerriero, ne ha fatto imprimere l‟immagine su questa

moneta, come voi potete vedere. ( Estrae dalla tasca una

moneta e la mostra agli altri.)

SICONE : Per questo il Papa lo ha eletto protettore del

popolo longobardo. Anch‟io credo che sia un angelo

miracoloso e che sempre più numerosi saranno i pellegrini

che, da Salerno e Nocera, si recheranno alla grotta del monte

Gargano per pregare e implorare dall‟ Angelo protezione e

aiuto.

ROSMUNDA : Io sono certa che, negli anni futuri, i

pellegrini troveranno in questo luogo una cappella in cui

potranno fermarsi, per pregare e riposare al coperto, dopo il

primo faticoso giorno di cammino.

SICONE : Questo sarà un altro miracolo dell‟Arcangelo,

vincitore del diavolo e dei suoi seguaci. Mi è stato riferito che

l‟Angelo è apparso anche da queste parti in una grotta sul

Monte Terminio, che gli abitanti di queste contrade chiamano

il Montagnone .

Il diavolo vi si era rifugiato ma l‟Angelo, dopo averlo

colpito con la sua spada, lo ha fatto precipitare in un burrone

e la montagna è rimasta macchiata del suo sangue.

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Ricordo

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ROSMUNDA : E‟ vero l‟ho udito anch‟io, ma mi è stato

riferito che in quella grotta è apparso anche Gesù Cristo, il

figlio di Dio e nostro salvatore. Il diavolo voleva insidiarlo,

ma l‟Angelo non lo permise e lo precipitò dalla rupe. Ecco

perché gli abitanti di questi luoghi chiamano questa caverna

la grotta del Salvatore e hanno situato in essa i simulacri di

Cristo Salvatore e dell‟Arcangelo Michele.

GRIMOALDO : Cristo è apparso anche in un‟altra grotta, a

Gauro. Egli è veramente il figlio di Dio venuto a salvarci dal

demonio e dal peccato . Per questo il re dei longobardi

Ariperto fece costruire una chiesa a Cristo Salvatore subito

fuori le mura di Pavia, la nostra capitale..

TEODOLINDA : Ringraziamo Dio e l‟Angelo Michele per

averci protetto nel primo giorno di cammino e andiamo a

riposare.

( I pellegrini si recano sotto la tettoia e si stendono sulla

paglia.)

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Filomeno Moscati

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SCENA SECONDA

( E‟ l‟alba. La scena s‟illumina lentamente per il sorgere

del sole. I pellegrini abbandonano i loro giacigli e si

riuniscono davanti alla croce).

GRIMOALDO : Il fiume è poco lontano. Lì, prima di

attraversare il ponte, ci laveremo , ma prima di riprendere il

nostro cammino invochiamo la protezione di Dio.

( I pellegrini fanno il segno della croce e recitano il Pater

Noster. Quasi alla fine della recita entra una piccola

processione guidata da un prete. Quattro uomini portano la

statua dell‟Angelo Michele e, dietro la statua, segue una

piccola processione di uomini e donne.)

PRETE: In questo luogo si fermano ogni giorno i pellegrini

che si recano alla grotta dell‟Angelo del Gargano per

implorare qualche grazia o per adempiere un voto. Non è

cristiano lasciare questi poveri pellegrini all‟adiaccio nelle

notti umide e fredde di questi luoghi. L‟Angelo mi è apparso

in sogno e ha ordinato che proprio qui si costruisca una

cappella intitolata a lui. I pellegrini, che vengono da Salerno

e Nuceria percorrendo la grande via antica, sono costretti a

fermarsi qui, dopo una giornata di cammino, per poter

prendere, il giorno dopo, la via della Mezza Costa che porta

alla Piana del Dragone. Essi sono obbligati a fermarsi qui

perché in questo punto il fiume è più stretto e c‟è, alle

Corticelle, un ponte di legno che permette di attraversarlo

senza pericolo. In questo punto, per conforto e rifugio dei

pellegrini del Gargano, costruiremo la chiesa e la

chiameremo “S. Angelo ad peregrinos”e, ogni cinque anni, vi

faremo rappresentare la vittoria dell‟Arcangelo contro gli

angeli ribelli, come la Bibbia ci ha tramandato.

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Ricordo

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TUTTI: Con l‟aiuto di Cristo Salvatore e dell‟Angelo

Michele lo faremo.

GRIMOALDO: I nostri voti sono stati esauditi.

Ringraziamo Dio e l‟Angelo Michele e promettiamo di venire

di nuovo in questo luogo per assistere alla prima

rappresentazione della vittoria dell‟Angelo sul diavolo.

(Pellegrini e paesani lasciano lentamente la scena cantando

l‟inno a S .Michele)

Fine del primo atto

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Il concilio dei demoni

( La scena è quella dell‟ atto primo ma, al centro di essa, al

posto della tettoia di paglia v‟è una cappella con la facciata

identica a quella della chiesa di S. Michele Arcangelo

crollata nel terremoto del 1980. Sotto la statua di S. Michele,

sita sopra il portale, c‟è la scritta : S. ANGELO AD

PEREGRINOS. Davanti ad essa si svolge la sacra

rappresentazione. Ai lati della chiesa vi sono delle case e,

davanti ad esse, delle panche su cui sono seduti alcuni

spettatori e alcuni pellegrini del primo atto.

La scena della rappresentazione è costituita da una grande

caverna con fiamme che si intravedono da tutti i lati. Sul

fondo della caverna è situato un trono. La scena è vuota.

Entra Lucifero seguito da un diavolo, Farfarello, e si va a

sedere sul trono.)

LUCIFERO: Grande è la mia pena e insopportabile il

dolore. Un‟altra chiesa è stata costruita e dedicata al nostro

grande nemico, Michele. Non gli basta, per tenere fede al suo

Dio, averci cacciato dal Paradiso e averci confinato in questo

antro infernale. Non molto tempo è passato da quando,

avendomi cacciato anche dalla grotta del Salvatore, sul monte

Terminio, mi precipitò giù dalla rupe con tanta violenza che

la montagna è ancora rossa del mio sangue.

Questa chiesa accresce il mio rancore e fomenta la mia ira,

perché rende più facile e sicuro il cammino dei pellegrini che

si recano al suo santuario del Gargano e li sottrae al mio

potere. Essi ritornano alle loro case rafforzati nella fede e

nell‟amore di Dio, che, cingendoli come impenetrabili

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Ricordo

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corazze, li sottraggono al mio influsso rendendo vana ogni

mia opera.

Le forze infernali non possono accettare supinamente un

sopruso che rende vana ogni nostra fatica. Bisogna opporsi in

tutti i modi, lottando contro Dio, contro Michele suo capitano

e contro gli uomini, mettendo in atto ogni violenza, ogni

inganno, ogni astuzia capace di sottrarre le anime al loro

destino celeste facendole precipitare negli abissi infernali,

fra lacrime e stridor di denti. Per essere pronti a questa lotta

decisiva, e per studiare tutti i mezzi atti ad opporci al nostro

odiato nemico, io voglio radunare attorno a me tutti i miei

fidi. Perciò, mio fedele Farfarello, fa risuonare attraverso gli

antri d‟Averno l‟eco della tartarea tromba, perché risvegli nei

cuori dei miei seguaci l‟odio assopito e raduni attorno a me la

schiera dei miei valorosi capitani e io possa, da essi, attingere

aiuto e consiglio.

FARFARELLO: Eseguo il tuo ordine all‟istante.

(Soffia più volte in una conchiglia –o altro strumento idoneo-

da cui scaturisce un suono lungo e cupo. Dopo pochi istanti

cominciano ad arrivare, uno ad uno, i diavoli, che si pongono

accanto al trono così da formare come un semicerchio. Per

primo entra Belfagor, impugnando un nero vessillo

triangolare su cui è raffigurato un teschio.)

BELFAGOR: Eccomi, pronto ad eseguire i tuoi ordini, o

signore delle tenebre. Io impugno il vessillo di guerra e qui lo

pianto. (si pone al fianco di Lucifero e infigge nel suolo

l‟asta del vessillo.)

( Entra in scena Malacoda)

MALACODA : Sono accorso al tuo richiamo, o signore degli

abissi. Sotto il tuo comando ancor potente è Lete!

( Entra in scena Libicocco )

LIBICOCCO: Il suono del corno mi ha riempito di gioia.

Comandami, signore, e ti ubbidirò.

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( Entra in scena Graffiacane. )

GRAFFIACANE: Sono pronto ai tuoi comandi, signore

dell‟Averno. Al tuo ordine morderò, come un cane

arrabbiato, il mondo intero.

( Entra in scena Ciriatto. )

CIRIATTO: Il richiamo della tromba infernale mi ha

riempito di gioia. Eccomi, o mio signore, per combattere,

sotto il tuo comando, contro il cielo e la terra.

( Entra in scena Calcabrina. )

CALCABRINA: A te vengo, signore possente, al richiamo

del corno infernale, per combattere al tuo fianco.

( Entra in scena Rubicante.)

RUBICANTE: Sono pronto ai tuoi comandi, o signore degli

spiriti infernali.

( Entra in scena Aletto. )

ALETTO: Rapido come la folgore a te volai, o mio

padrone, al rauco suono della infernal diana. Comanda e ti

ubbidirò.

( Entrano in scena Cagnazzo e Cerbero. )

CAGNAZZO: Al tuo richiamo accorsi, o imperatore degli

eterni abissi, per cancellare, combattendo al tuo fianco,

l‟onta delle passate sconfitte.

CERBERO: Custode fedele delle porte infernali io fui, sono

e sarò. Ai miei latrati trema l‟inferno tutto e, con me

custode, sicuro è il tuo regno e nessuno potrà sottrarsi ad

esso, o mio signore. Di questo sii certo!

LUCIFERO: Vi ringrazio, miei fedeli condottieri, per

essere accorsi con tanta premura al mio richiamo. E‟ ormai

tempo che raduniate le vostre schiere per guidarle , al mio

segnale, contro il signore del cielo e sconfiggerlo,

finalmente, assieme al suo odiato capitano, Michele.

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Ricordo

73

Voi, numi delle tenebre, siete assai più degni di risiedere al

di sopra del sole, negli eterei cieli in cui fu posta l‟origine

vostra e da cui cacciati foste per un orribil caso.

Grande fu l‟impresa che allora intraprendemmo e superbo il

tentativo. Per questo colui che regge a suo voler le stelle ci

giudicò anime ribelli e ci precipitò in questo fetido e

orribile luogo e, invece di contemplare i cieli sereni e puri,

l‟aureo caldo sole e l‟etere limpido e stellato, siamo qui

rinchiusi nell‟abisso oscuro. Ma, ciò che più mi ferisce e mi

addolora, è che Egli ci ha privato di quell‟onore di cui

godemmo un dì e ha chiamato ad occupare i nostri seggi,

nell‟alto dei cieli, gli uomini, i discendenti di un essere nato

dal fango, la più umile e vile di tutte le materie.

TUTTI I DIAVOLI: ( urlano, si agitano e mostrano la loro

rabbia alzando i pugni contro il cielo. ) Non siamo ancora

vinti, o re degli abissi e delle tenebre. Non ancora piegato è

il nostro orgoglio, né placati l‟odio e la rabbia. Guerra

invochiamo contro i nemici celesti e rovina per Michele,

capitano del cielo, e per i suoi seguaci.

LUCIFERO: Sono lieto di vedervi pronti alla guerra e alla

vittoria. Ma, per far sì che ancor più grande sia l‟odio, più

deciso il volere, più forte e violenta l‟azione, non voglio a

voi ricordare le sconfitte subite. Richiamerò, invece, alle

vostre menti che il Signore del Cielo, per arrecarci più

danno e maggiormente accrescere le nostre pene, diede in

preda alla morte suo figlio per la salvezza degli uomini e

Cristo Salvatore discese all‟inferno, ne ruppe le porte, per

portarne via con sé le anime che erano state a noi donate in

sorte, schernendo le insegne dell‟inferno vinto. Egli ora

progetta di trarre al suo culto tutte le umane genti. Dunque

d‟uopo è combattere con tutte le nostre forze e mettere in

opera tutte le astuzie per sconfiggere il Re dei cieli e

l‟esercito degli

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Filomeno Moscati

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angeli fedeli, guidati dall‟esecrato loro capitano, l‟invitto

Michele.

Ma per rendere più efficace la nostra lotta, più dannosi i suoi

effetti, più deleteri e nocivi per gli uomini i suoi risultati, e più

certa e sicura la vittoria, è necessario unire le nostre forze per

dirigerle verso quest‟unico scopo, sconfiggere Dio e

assoggettare gli uomini. Vi ho perciò riuniti intorno a me

perché, conoscendo i vostri intenti, io possa meglio guidarvi

concordando l‟azione. Parlate dunque e svelate a me, vostro

signore e duce, quello che intendete fare.

MALACODA: Con le mie schiere invaderò la terra,

seminando la menzogna, propagando la calunnia,

rafforzandola e ingigantendola fino a provocare la discordia e

la guerra fra gli uomini.

CAGNAZZO e GRAFFIACANE: Le schiere da noi guidate

riempiranno i cuori degli uomini di tanta furia e di tanto furore

che essi saranno costretti ad azzannarsi fra loro come lupi.

CIRIATTO: Noi aizzeremo i piaceri della carne e, con la

lussuria, indurremo gli uomini a vivere come porci e a

rinunciare alla gioia del cielo in cambio dei piaceri della terra.

LIBICOCCO E CALCABRINA: Noi, come il vento,

percorreremo la terra suscitandovi tempeste che arrecheranno

agli uomini morte e sventura, così che essi siano costretti a

maledire il cielo e il Dio che li ha creati.

DRAGHIGNAZZO: Io, con le mie schiere, farò tremare la

terra, che, come la bocca di un drago, vomiterà fuoco da ogni

parte e, recando dappertutto morte e terrore, farò sì che gli

uomini temano l‟inferno e maledicano il cielo.

ALETTO: Mio signore, volerò per il mondo, assai più

veloce della luce, trasmettendo i tuoi ordini alle schiere

infernali

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Ricordo

75

e diffonderò per il mondo le notizie più false, le nuove più

mendaci, così che gli uomini, aizzati dall‟odio da esse

causato, da nostri nemici si trasformino in nostri alleati.

BELFAGOR: Io, che sono l‟arcidiavolo, sotto il tuo alto

comando guiderò le tue schiere perché diffondano nel

mondo ogni sorta di peccato, che è per gli uomini causa di

distruzione del corpo e di morte dell‟anima.

LUCIFERO: Andiamo, dunque, miei prodi! Combattiamo

con coraggio e la vittoria sarà nostra. Incominceremo la

nostra battaglia partendo dalla località detta “Ad

Peregrinos” inducendo al peccato i suoi abitanti e arrecando

loro la morte e la distruzione dell‟anima e del corpo.( I

diavoli, dopo aver salutato il loro capo, si allontanano fra

invettive e minacce )

Fine del secondo atto

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Filomeno Moscati

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

La vittoria di Michele

La scena è la piazza della località “Ad Peregrinos “ con la

chiesa di “S. Angelo ad peregrinos” fiancheggiata dalle case.

In questa piazza si radunano, alla spicciolata i diavoli. Ultimo

giunge Lucifero.

LUCIFERO: Esultate miei valorosi capitani e intrepidi

soldati. E‟ giunto il momento tanto agognato! Da questo luogo,

dedicato all‟odiato nostro nemico Michele, stiamo per muovere

alla conquista del mondo intero e, dopo averne assoggettato gli

abitanti con il peccato, iniziare la scalata verso il cielo per

riconquistare quel posto che ci compete, in virtù della nostra

angelica natura, e per cacciarne quel dio che ordinò al suo

capitano, Michele, e alle schiere degli angeli da lui guidate, di

confinarci nelle eterne tenebre degli abissi infernali fra pene e

dolori infiniti. Da questo luogo, asilo di pellegrini, parte la

nostra rivincita su Dio e sugli uomini, suoi prediletti. Uno solo

è il nostro scopo, cacciarli dal paradiso, unico il fine,

conquistare la terra e divenire padroni del cielo dove, da voi

circondato, io mi assiderò su quel trono che a me, ed a me solo

spetta, e voi su quei seggi che vi furono assegnati fin

dall‟inizio dei tempi. Di là domineremo il mondo, regolando il

moto degli astri, il percorso e il calore del sole, il corso e lo

splendore della luna, e, divenuti signori dell‟universo,

comanderemo su tutte le cose che lo compongono, animate e

inanimate. Orsù dunque miei prodi, sicuri della vittoria

partiamo alla conquista del cielo.

TUTTI I DIAVOLI : (si agitano disordinatamente, saltando,

lanciando invettive contro Dio e contro il cielo e gridando)

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Ricordo

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A noi spetta la gloria del cielo! Ai seguaci di Lucifero il

dominio del mondo! Viva Satana, re dell‟universo! Evviva

Satana, ribellione, forza vindice della ragione!

( A questo punto un raggio di luce illumina la statua di S.

Michele, sul portale della chiesa, che lentamente si sposta fino

a scomparire e, al suo posto, compare l‟immagine vivente

dell‟arcangelo, che, con voce tonante, apostrofa gli angeli

ribelli.)

ARCANGELO MICHELE : Alto là, Satana, voi dèmoni a Dio

ribelli e voi uomini seguaci del male, che, superbi per essere

stati creati ad immagine e somiglianza di Dio, credete di poter

spiegare e dominare l‟universo con la sola forza di quella

ragione che vi contraddistingue, ma che è vostra sol perché vi

fu donata da Dio.

Tu, Lucifero, serpente maledetto, che fingi di aver dimenticato il

motto impresso sul mio scudo, ”Quis ut Deus”, Chi come Dio,

subirai, proprio per volontà di colui che ci ha creato, gli effetti

della mia ira e i colpi della mia spada. Essa, resa forte ed

invincibile dal nostro comune Signore, si abbatterà come

folgore sul capo tuo e su quello dei tuoi seguaci per ricacciarvi

nelle tenebre donde fuggiste. E‟ infatti scritto nel santo libro

che le forze del male non vinceranno su quelle del bene, “et

porta inferi non prevalebunt”, e le forze dell‟inferno non

prevarranno!

Nel tuo smisurato orgoglio, nella tua sconfinata superbia, hai

dimenticato che Egli ha stabilito che “Quando il Figlio

dell‟uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si

siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a

Lui tutte le genti Egli separerà gli uni dagli altri, come il

pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua

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Filomeno Moscati

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destra e i capri alla sua sinistra.”45

E a quelli posti alla sua

sinistra dirà: “Via lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno,

preparato per il diavolo e per i suoi seguaci….”46

“perché

non comprendete il mio linguaggio e non potete dare ascolto

alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo,e volete

compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin

da principio e non vi è verità in lui, perché è menzognero e

padre della menzogna”.”47

Tu hai indotto gli uomini a distorcere la propria natura,

rendendoli maestri di ogni iniquità, perversione, cupidigia e

malizia. Tu li hai resi invidiosi, omicidi, fomentatori di

discordia, esperti in ogni frode e malignità. Per opera tua essi

sono diventati calunniatori, maldicenti, arroganti, altezzosi,

millantatori, inventori di male, ribelli ai loro genitori, privi di

senno, di affetto, di lealtà, di misericordia, e odiatori di Dio,

così che, pur conoscendo il giudizio di Dio, che condanna alla

morte eterna chi commette tali cose, essi non solo le fanno ma

approvano persino chi le fa, come se fossero privi di quella

ragione di cui Dio li ha fatti partecipi e che li rende tanto simili

e vicini a lui. Per queste orrende cose tu sei stato giudicato, e i

tuoi seguaci con te, e sarai confinato per l‟eternità, tra lacrime

e dolori, nelle più oscure latèbre dei profondi abissi, ove altro

non c‟è che pianto e dolore

L‟onnipotente Iddio ha stabilito che ognuno sia giudicato

secondo le sue opere e tu, o Satana, serpente maledetto, pensi

forse di sfuggire al giudizio di Dio?

Tu sei stato giudicato per le tue azioni perverse, per la tua

ribellione a Dio e alla verità, per la tua ostinatezza nel

45 Matteo, 25, 31-34. 46 Matteo, 25, 41; 47 Giovanni, 8, 44

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Ricordo

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praticare il male, per la tua fede nell‟iniquità, sei stato posto

alla sinistra di Dio e condannato alla dannazione eterna.

Per questo, mandato da Dio, io sono venuto, con la miriade

degli angeli fedeli, perché sia compiuta la punizione stabilita.

Ritorna dunque nella tua tana, dragone fetido e immondo.

Ritorna negli abissi profondi dell‟Averno, da cui fuggisti e

dove sei stato condannato a rimanere per sempre!

(L‟arcangelo colpisce Lucifero con la sua spada e il diavolo

scompare, con i suoi seguaci, tra fumi e vapori. Poi, rivolto a

tutti, l‟angelo prosegue dicendo:)

Sul mio scudo è scritto un motto: Quis ut Deus, Chi come

Dio.

Lucifero, che aveva osato porsi alla pari e anzi al di sopra di

Dio, è stato punito per la sua superbia! Guai a coloro che,

spinti da un orgoglio smisurato, commetteranno lo stesso

peccato, perché ad essi è riservata la stessa punizione e

saranno precipitati nella Geenna eterna dove ci sono solo

lacrime e stridor di denti

FINE

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Chiesa di San Michele Arcangelo distrutta dal sisma del 23

novembre 1980

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Ricordo

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VI

Il tramonto della civiltà contadina

Il trentennio che va dal 1950 al 1980 fu per San Michele di

Serino un trentennio di grandi e nello stesso tempo vistose

trasformazioni, che mutarono la vita e l‟aspetto del paese,

legato, nella prima metà del secolo XX, ad un‟economia

prevalentemente agricola, una vita e un aspetto che spesso mi

ritornano alla mente.

Ricordo, nelle giornate soleggiate antecedenti il Natale, la

potatura delle viti con i contadini sui loro treppiedi di legno

(tribbiti), un‟epoca e un‟opera immortalate in un proverbio

contadino che così le descrive : “Viata chella puta ca pe‟ Natale

si trova fernuta”;

e , nei mesi invernali, i compratori di broccoli fermi ai bordi

delle strade di campagna, con le loro carrette e i loro “traìni”,

in attesa che le contadine chine sulle zolle li raccogliessero con

movimenti rapidi ed esperti, legandoli con flessibili salici in

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mazzi, che, potendo essere contenuti nel palmo d una mano,

erano designati come “‟na mano „e ruoccoli”.Ricordo, a

primavera, il periodo della semina delle patate, con le donne

intente a spaccare, con mano sapiente, le patate appositamente

scelte a questo scopo e gli uomini, che, con la zappa dalla lama

lucente, tracciavano solchi diritti e profondi;

e, d‟estate, la raccolta delle ciliege, con scale lunghe e strette,

e il loro commercio che animava la vita di questo paese,

facendolo, dalla fine di maggio alla fine di luglio, pullulare di

autocarri e traini venuti a farne incetta;

e, a giugno, la mietitura del grano con la falce e il trasporto

dei covoni sulle aie, a formarvi biche (casazze) da sorvegliare

di notte, con il fucile accanto, al solo sospetto che qualcuno

potesse rubare quel bene prezioso

per la sopravvivenza della famiglia, come mi ha spesso

ricordato Alessandro Potenza (Sandrino), fratello del mio

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Ricordo

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fraterno amico d‟infanzia Antonio, detto tizzone per il suo

colorito scuro, col quale scambiavo perfino i vestiti;

e, a settembre, la raccolta delle patate scavate con la zappa, e,

sul calar del sole, il canto sottovoce dei “campaciani” che

diceva:

E‟ fatto notte e lu padrone abbotta,

rice ch‟è stata corta la iurnata;

a S. Martino la vendemmia e la pigiatura delle uve , a piedi

nudi, e l‟odore acre dei mosti che fermentavano nei tini, un

odore immortalato in un proverbio che dice:

A San Martino ogni musto addiventa vino;

e, nei mesi di gran freddo, la sagra dei maiali, immolati al

benessere familiare sul fondo di un gran secchio di legno. Un

rito, quest‟ultimo, cui erano chiamati a partecipare anche i

bambini , deputati a mantenere la coda dell‟animale.. Questo

rito si concludeva con l‟offerta altrettanto rituale, ad amici e

parenti, di un piatto ricco di carni suine, detto comunemente „o

rato, un piatto di ritorno che

assicurava, alle famiglie che lo

ricevevano e lo restituivano,

carne suina fresca per tutto

l‟inverno. Anche questo rito

era immortalato in un

proverbio che dice: Crisci

puorci ca ti ungi „o musso.

Erano queste le opere e i

giorni che, come ai tempi di

Esiodo,48

scandivano la vita

degli abitanti di San Michele

di Serino all‟epoca della

48

Esiodo (VIII sec. a. C.) , Le opere e i giorni (‟έργα καί ήμέρα )

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civiltà contadina. Di questa civiltà erano parte viva, come si è

visto, anche i proverbi, che, con sentenze lapidarie, ne

sottolineavano gli usi e i costumi, proverbi che scaturivano

spontanei dalla mente acuta del contadino, il quale, proprio

per questa sua dote, viene immortalato in un proverbio che lo

definisce: “contadino, scarpa tronce (grossa) e cerviello fino”.

La prova della formazione estemporanea dei proverbi l‟ebbi

da un mio vicino di casa e carissimo amico, Domenico

Covelluzzi, quando, all‟epoca dell‟introduzione dell‟ora legale,

rispondendo a una mia domanda in merito, disse che per lui

nulla sarebbe cambiato perché “si „o rilorgio esce paccio, „o

sole nun si „mbriaca”, a significare che la sua giornata e il

suo lavoro erano regolati esclusivamente sul corso del sole,

proprio come al tempo di Esiodo. Mi sembra perciò opportuno

riportare almeno alcuni dei mille proverbi che

accompagnavano la vita quotidiana e il lavoro dei contadini di

questo paese perché, essendo racchiusi in essi insieme alla

saggezza il senso e il valore della loro antica civiltà, possano

averne cognizione anche le generazioni future:

Quanno scura a Solofrana fuitenne che panni mano !

(Quando il cielo di Solofra si oscura scappa svestito perché la

pioggia è vicina);

Frevaro, freve la terra ( Febbraio, ferve la terra) ;

Frevaro, curtu e amaro;

Frevaro, curto e male cavato ( Febbraio, corto e malandrino);

Si marzo „ngrogna ti fa carè l‟ogna ( se marzo s‟ingrugna ti fa

cadere le unghie):

Si marzo „o vo fa „a vecchia fa scapillà (scompiglia i capelli).

Aprile, ogni goccia nu varrile ( aprile ogni goccia un barile);

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Leune p‟aprile e pane pe‟ maggio (legna per aprile e pane per

maggio);:

Aprile non ti scoprire, a maggio vai adagio;

San Vicienzo, gran freddura, san Lorenzo gran calura, l‟una e

l‟auto pocu dura;

Austo, spenna e arruste;

A‟ prim‟acqua r‟austo vierno a‟ l‟uscio;

„E muorte, „a neve pe‟ l‟uorte;

A santa Luciella o acqua o nevicella;

Natale co‟ sole e Pasqua co‟ cippone;

„E fatica se n‟edda fa pocu, e chello pocu s‟edda fa fa a l‟ati (

di fatica se ne deve fare poca, e quel poco si deve farlo fare

agli altri );

„A carne fa „a carne, „o vino fa „o sangu e „a fatica fa ghiettà

„o sangu;

Menesta,‟o cuorpo fa festa ma sempe riuno resta;

„A cucozza comm‟a fai fai sempe cucozza è;

Cappoccia e carne‟e (di) vaccina svergognano chi „e cucina;

Noce,nociva, e „a nucella pur‟ella;

„Nu maccarone vale ciento vermicielli;

„A sarvia sarva;

„A ruta ogni male stuta;

„Nu milo „o iurno leva „o mierico ra tuorno;

Catarro, vino co‟ carro;

Chi mangia scarole mai more;

„A meglio mericina, vino „e (di) campagna e purpette „e (di)

cucina;

„O ghianco (bianco) e „o russo traseno (entrano ) p‟o musso;

Si vuò murì mangete l‟aglio e vattenne a durmì;

Chi fila si veve l‟acqua e chi zappa si veve‟o vino;

Fa chiù miracule o vino ca nu‟ pure (neppure) sant‟Antunino;

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Prune, ogni tanto una;

Vino e maccaruni songo „a cura re‟ purmuni;

Cu „e ficu l‟acqua e cu „e percoca „o vino;

Pane cu l‟uocchie e casu (cacio) senz‟uochhie;

Si vuò campà cient‟anni, broro „e (di) vacca, vino senz‟acqua e

„na bella purchiacca49

(donna);

Chi „mpasta assaie fa‟o pane buono;

L‟uosso conza (condisce)„a menesta;

„A „nzalata bona cunzata (condita), cu‟assai acito e poco

oliata;

Iallina vecchia fa buono broro;

Pe‟ n‟ acino „e sale si perd‟ a menesta;

Pesce „e n‟ora, pane „e nu iurno, vinu „e n‟anno e femmena „e

vint‟anni;

Acqua a‟ la fraveca (malta) e vino a‟ e fravecaturi (muratori);

„A miricina ( medicina) t‟arruvina e „o vino ti fa cantà;

Quanno „a vocca so pigglia (mangia) e „o culo „o renne

(scorreggia) futtetenne (fregatene) ro mierico, re mericine e di

chi „e venne;

Quanno „o culo spiritea (scorreggia) „o mierico crepa;

L‟acqua fa „nfracetà e bastimienti a mare;

Pane fino a c‟abbasta, vino c‟a misura;

49 N. d. A. E‟ vocabolo complesso, perché formato da due

voci dell‟antica lingua greca, e significa buco di fuoco

(πσρ,ος = fuoco, γύης οσ=cavità ) oppure derivante da

πσρκαϊά = luogo dove si accende il fuoco. Il vocabolo,

inventato da qualche persona dotta, è formato da due

figure retoriche, la sineddoche, che indica una parte per il

tutto, e la metafora che indica una cosa per significarne

un‟altra con cui è in relazione, qui usate per individuare

la donna attraverso il suo organo genitale.

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„O vino è „o latte re viecchie;

Na tavula senza vinu è comm‟a „na iurnata „e vierno

senz „o sole;

Uommine „e vino dieci „a carrino;

„ O vino è comm‟e vasi (baci), nu bicchiere sulo nun

leva „a sete;

Ogni carne mangia, ogni fungo fuggi;

„A pulenta t‟abbotta e t‟allenta;

Mangia soreve (sorbe) e nun farrai rumore;

„A panza è comm‟a „na pellecchia chiù a igni e chiù si

stennecchia;

Saccu abbacante nun reie all‟erta;

Chi „a fatica nu‟ l‟allenta ( lo stanca)„a fame nunn‟a

sente;

Com‟è „o mangià accussì è „o faticà;

Si vuò sparagnà (risparmiare) ,leuna (legna)virdi e pane

peruto (ammuffito),

Nu furno „e pane male cuotto e „na votte „e vinu r‟acito

nun finiscino mai;

„O sazio nun crere a „o riuno;

Chi a tiermpo si provere (rifornisce) a ora mangia;

Oggi dell‟antica saggezza e delle antiche colture è rimasto ben

poco. Scomparse, o ridotte al lumicino, sono le colture del

ciliegio e della patata, una volta animatrici del commercio di

questo paese e fonti di ricchezza per padroni, contadini,

mediatori, insaccatori e portatori a spalla di sacchi di canapa

ripieni di patate, mestieri oggi desueti. Scomparso è pure lo

strano mestiere del cacciatore di talpe ( trappini ) che lasciava

in giro, nei campi, la prova del suo lavoro appendendo le sue

prede ai rami degli alberi, né è più possibile vedere il cacciatore,

che, con la carcassa di un lupo o di una volpe messa di traverso

sul dorso di un asino, percorreva le vie del paese per ricevere,

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dai contadini, un‟offerta in natura per aver salvato le loro pecore

o i loro polli.

Nella mia memoria l‟ultimo a farlo è stato mastro Ernesto

Rodia, ottimo fabbro, celebre cacciatore, prim‟ommo e capofila

del ballo della mascherata di Carnevale.

Spariti del tutto sono anche gli asini, una volta preziosi

e

amati compagni della fatica del contadino, e, con loro, sono

scomparsi i traìni, le trainelle e le stalle al centro del paese,

soppiantati da automobili e autorimesse. Assieme agli asini

sono scomparse anche le cavie, comunemente denominate

suricirignoli, una specie di grosso roditore domestico dalla

pelliccia bianca o pezzata, allevato nelle stalle assieme alle

mucche, ai polli e agli altri animali domestici; e i fabbricanti

di store, i comodissimi e capacissimi basti fatti coi tralci delle

viti, che si rinnovavano ogni anno dopo la potatura; e,

congiuntamente ai costruttori di store,

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sono spariti anche i secchiari, fabbricanti di secchi e bigonce di

legno; i cestellari, fabbricanti di cesti, panieri e sporte, arnesi

che sono stati sostituiti da recipienti di plastica molto meno

costosi e assai più maneggevoli.

Fra i mestieri scomparsi c‟e anche quello dei castratori di polli

e di suini, comunemente appellati rastapurcelle.

Unitamente a questi mestieri, legati direttamente alla

presenza di un‟agricoltura florida, sono scomparse anche alcune

botteghe artigiane, una volta sempre aperte perché fiorenti di

vita e di lavoro, com‟erano quelle del sarto e del calzolaio, meta

assidua di clienti e di bighelloni in cerca di novità e di

pettegolezzi paesani.

Al loro posto sono sortì negozi per la vendita di abiti e scarpe

preconfezionati, le officine meccaniche, i laboratori per la

riparazione di radio, televisioni e computer, e, in sostituzione

delle piccole botteghe di alimentari, i supermercati.

Il terremoto del 23 novembre 1980, quasi a contrassegnare il

passaggio dall‟atavica e millenaria civiltà contadina alla

moderna civiltà industrializzata, ha fatto sparire il vecchio

casale per far sorgere, sulle sue rovine, un paese nuovo e

diverso, e, da allora, come a segnalare il mutamento con cui la

stessa natura accompagna la fine di un‟era millenaria, perfino le

rondini, che una volta riempivano di voli i cieli del nostro

paese e di nidi le ali dell‟aquila reale di palazzo Mariconda,

sono sparite, e, con loro, è sparita l‟isola felice dell‟antico paese

cantato da Mario Giliberti, che, per ricordarlo all‟uomo nuovo

nato da quel passaggio epocale, lo descrisse come un piccolo:

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Mondo racchiuso da una siepe

Col suo pezzo di cielo

e una stella che vigila di notte.

Uomo nuovo

come ignori l‟isola felice.50

50 Filomeno Moscati, Mario Giliberti, poeta della natura, Ed.

Comune di San Michele di Serino, novembre 2004, p.11.

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Ricordo

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VII

Il fiume Sabato

L’ agonia di un fiume ricco di storia e di leggenda

Il Salmon, uno dei massimi e fra i più attendibili studiosi della

civiltà dei Sanniti, dopo aver constatato che il <<nome Sabato

non appare nella letteratura antica >> prosegue affermando

che <<tuttavia il popolo che abitava nella sua valle era

chiamato dei Sabatini ed il nome moderno Sabato si è

tramandato attraverso il Medioevo. Non c‟è quindi dubbio su

quale dovesse essere l‟antico nome del fiume.>>51

Il nome Sabato ha come sillaba iniziale la radice indo-europea

sabh. presente anche nel nome del dio Sabus di cui i Sanniti

erano devoti e da cui sia essi che il fiume presero nome.52

Non è

inutile perciò rilevare che Sabo era un antico Dio, venerato dai

Sabini come progenitore della loro razza, e che esso ha la stessa

radice di Sabazio, uno dei tanti soprannomi di Dioniso ( Bacco )

col quale, in origine, era venerato fra i monti della Tracia. << In

quel paese ricco di folti boschi e di vallate profonde,>> scrive il

Turchi, <<Sabatio era per eccellenza il dio della vegetazione

selvaggia, che si compiaceva di attraversare in corsa sfrenata,

tra l‟urlìo del vento, le secolari foreste.>>53

Ciò, al di là delle

evidenti somiglianze ambientali, conferma l‟ipotesi che i

Sabelli, progenitori dei Sanniti, sarebbero discendenti di un

popolo di provenienza orientale, un popolo

51 E. T. Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Giulio Einaudi

Editore, Torino 1993, p. 45 e nota 47 a p. 31. 52 E, T. Salmon, idem, p. 156. 53 Decio Cinti, Dizionario mitologico, Editore Sonzogno,

Milano 1998, p. 263.

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di guerrieri venuto d‟ oltremare, dall‟area egea, all‟epoca delle

migrazioni dei popoli del mare54

che approdarono in Apulia, o

sulle coste occidentali dell‟Italia, e parlavano una lingua indo-

europea, che diede poi luogo ai dialetti osco-sabellici parlati dai

Sanniti55

e dalla tribù degli Hirpini, che, col nome di Sabatini,

abitavano le due sponde del fiume Sabato.56

Il nome del fiume Sabato, secondo Francesco Scandone, non

deriverebbe da quello di un dio, ma dalla stessa <<corrente del

fiume, che per la sua natura torrentizia, fu detto Sabato, dalla

radice “saba” – arena, limo.57

Entrambe le ipotesi possono essere ritenute valide, perché in

entrambe c‟è un fondo di verità, ma, quale che sia questa verità,

esse comprovano l‟antichità del nome del fiume, un nome

antichissimo, risalente all‟epoca in cui le sue sponde erano

abitate da una delle quattro tribù che componevano il popolo

sannita, la tribù degli Irpini.

L‟importanza di questo fiume per la vita e per la storia delle

popolazioni che abitarono sulle sue sponde, e in particolare per

gli abitanti dell‟Alta Valle del Sabato, è stata enorme fin

dall‟antichità, com‟è dimostrato dal fatto che le sue sorgenti, per

la purezza e l‟abbondanza delle sue acque, fin dall‟epoca

romana furono oggetto di captazione

54 M. Cary, H. H. Scullard, Storia di Roma, Editrice Il

Mulino, Bologna 1996, p. 28. 55 M. Cary, H. H. Scullard, idem, p. 28. 56 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg,

Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 23. 57 Francesco Scandone, Documenti per la storia dei

Comuni dell‟Irpinia, Amministrazione provinciale di

Avellino MCMLVI, Vol. I p. 2.

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Ricordo

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per l‟alimentazione di acquedotti rimasti famosi nella storia,

come l‟Acquedotto sannitico, di epoca repubblicana, e come

quello di epoca imperiale fatto costruire da Augusto58

per

rifornire d‟acqua la flotta che aveva il suo porto a Capo Miseno.

L‟evento è provato dal ritrovamento di un‟epigrafe lapidea

proprio presso le sorgenti Acquara, nel 1938, durante i lavori di

captazione di queste sorgenti per l‟alimentazione di un altro

importantissimo acquedotto, il moderno acquedotto di Napoli

detto impropriamente Acquedotto del Serino.59

L‟esistenza di

questi antichi acquedotti è concretamente comprovata da reperti

archeologici, costituiti da antiche arcate e gallerie che

contrassegnano tutto il loro percorso dalle sorgenti fino a

Benevento , per quello sannitico, e fino a Miseno per quello

augusteo.

A questo fiume, e soprattutto al suo nome, sono legati episodi

e vicende che più che il sapore della storia hanno quello della

leggenda, come quello relativo all‟esistenza di una mitica città,

Sabazia, da cui avrebbero preso origine non solo i diversi casali

di Serino ma la stessa Avellino. Il primo a parlare di questa

città, di cui non vi è traccia in nessuno degli autori antichi, fu,

nel secolo XVII, il Cluverio con queste parole: << Dei fiumi

che partendo dal territorio degli Irpini si riversano nel Volturno

il primo è il fiume Sabatus, ora volgarmente detto Sabato.

Questo fiume aveva questo nome da tempi così antichi che da

esso ha preso nome la popolazione detta dei Sabatini.....

58 Italo Sgobbo, L‟acquedotto romano della Campania,

Fontis Augustei Aquaeductus, in Notizie degli scavi, 16 (

1938), p.75 e seg.. 59 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Edizioni Gutenberg,

Penta di Fisciano (SA) 2005, pp. 362 e seg..

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Filomeno Moscati

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Sembra poi che ci fosse un luogo fortificato presso il fiume, di

nome Sabazia, da cui i suoi abitanti hanno preso il nome di

Sabatini. In quali luoghi essi stessero è cosa incerta. Si crede

tuttavia che questo luogo si trovasse fra due località fortificate

che volgarmente vengono chiamate Terranova e Prata.>>60

Sulle sue orme si pose il Bella Bona, che, come il Cluverio,

ritiene che “Sabatia” sia stata fondata da un mitico progenitore

di nome Sabatio, un pronipote di Noé sopravvissuto al diluvio

universale, il quale, giunto in Italia a seguito di una migrazione,

<< dando inizio all‟edifici nelli Irpini, impose il suo nome alla

città>> e << chiamolla Sabatia.....al fiume similmente che

nasce da quella città impose il suo nome chiamandolo Sabato e

fin‟ora lo ritiene. Si riconosce al presente non solo il fiume col

nome Sabato e tale si nomina, ma ancora la città Sabatia nelle

sue ruine, sita appunto nella valle fra i monti di Serino nel

luogo detto Ogliara, parte dei suoi vestigi fin hora appare,

volgarmente ne vengono chiamati Civita; li suoi cittadini

Sabatini.>>61

Il Pionati attribuisce invece la fondazione della mitica città ai

Troiani, che giunsero in Italia in compagnia di Enea dopo la

caduta di Troia.62

60 Philip Cluveri, Italia Antiqua, IV, p. 1205, <<Fluviorum qui

ex Hirpinis in Volturnum deflunt, primus est Sabatus amnis,

vulgo nunc Sabato dictus. Hunc iam ab antiquis temporibus id

habuisse nomen, quod populos ab eo nominat Sabatinos....

Videtur igitur oppidum fuisse apud fluvium, nomen Sabatium,

unde oppidanos nominant sabatinos. 61 Scipione Bella Bona, Ragguagli della città di Avellino, per

Lorenzo Valeri, Trani 1656, pp.6, 5. 62 Serafino Pionati, Storia di Avellino, Avellino 1829.

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I dubbi sull‟esistenza di questa città, scaturenti dall‟assenza di

qualsiasi riferimento ad essa negli autori antichi, vengono

rafforzati ancora di più dalla descrizione della sua distruzione

fatta da diversi autori, tutti in contrasto fra loro, giacché alcuni

la vogliono distrutta da Annibale e altri al contrario dai Romani,

al tempo della seconda guerra punica (218-202 a. C.). Altri

ancora la vogliono distrutta da Silla al tempo della guerra

sociale ( 89 a, C.) ma è assai strano che, ancora una volta,

nessun riferimento sia stato fatto, ad un avvenimento di tale

importanza, dagli autori delle antiche storie, fra cui Tito Livio e,

soprattutto, da Appiano, che ci ha tramandato le vicende di quel

periodo, compresa la distruzione di Eclano, l‟odierna Mirabella,

avvenuta per opera di Silla.63

Interessante risulta la descrizione della distruzione di Sabazia,

fatta senza nessun riscontro certo da Scipione Bella Bona nel

secolo XVII, perché da essa hanno preso origine le leggende e

le poesie, fiorite nei secoli successivi, sulla mitica città. Il Bella

Bona ammette infatti che << da chi ella fosse stata distrutta, ed

in che tempo, non è pervenuta ancora notizia, >> ma, dopo

questa grave ammissione che inficia ogni racconto successivo,

egli prosegue affermando con certezza che << fu la sua

destruzione prima del tempo di salute,>> cioè prima della

nascita di Cristo, <<essendone dalle sue genti edificato

Serino, >> che <<fu ed è disposto in diverse contrade non si

sa se per pena imposta dalli distruttori di non poter fare

l‟habitatori unito corpo di popoli, o pure, perché così lor

piacque, per aver maggiore occasione di fuga in tempo

d‟assalti, e l‟assalitori

63 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni,

Penta di Fisciano (SA) 2005, p.117.

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non vedendoli fra mura ristretti, liberi gli lasciassero>> e,

infine, proprio per l‟assoluta mancanza di notizie sulla sua

distruzione, conclude asserendo che << molte di dette contrade

hanno gli lor principi doppo il tempo di salute.>>64

Una

descrizione fantasiosa che contraddice la storia, che, basandosi

sulle notizie circa l‟abitazione vicatim tipica dei Sanniti, fornite

da Tito Livio , Strabone e Festo, 65

e su reperti archeologici di

tombe sannitiche rinvenute su entrambe le sponde del fiume

Sabato66

nelle vicinanze di casali tuttora esistenti, vuole invece

che la maggior parte dei villaggi che compongono l‟attuale

Serino sia di origine sannitica, come sostiene anche Filippo

Masucci. 67

La fantasiosa narrazione del Bella Bona, oltre a dare lo spunto

alle numerose e antistoriche narrazioni successive, ha stimolato

anche l‟estro dei poeti, che, ispirandosi a una delle diverse

ipotesi avanzate sulla mitica città, sono anch‟essi in contrasto

fra loro, come Nicola Amenta, che, dopo aver fatto una

descrizione quasi perfetta della cinta muraria del castro di Civita

Ogliara, la vuole distrutta dai Cartaginesi, giacché così la

rievoca nei suoi versi:

64 Scipione Bella Bona, Ragguagli della città di Avellino,

per Lorenzo Valeri, Trani 1656, pp. 6, 5 65 Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 17, 2; IX, 13, 7; IX, 14;

Strabone, Geografia, V, 4, 12; Festo, 1, 502, 508; 66 Giampiero Galasso, L‟Irpinia nell‟antichità e nel Medioevo,

in Irpinia, rivista culturale, Antonio Schiavo Editore, Ariano

Irpino, n° 1, Gennaio-Marzo 1986. 67 Filippo Masucci, Serino nell‟Età antica, Tipografia Pergola

Editrice, Avellino1959

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Ricordo

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<< E tornando dove io feci dimora

V‟è Sabatia città dal fiume detta

Ch‟anco distrutta il bel paese onora

Fu di rotondità quasi perfetta

Come mostrano le forti antiche mura

Rovinate dal tempo e da vendetta

........................................................

E quanti d‟Annibale fur sotto i segni

Strusser Sabatia ai nostri o per flagello

O per ragion pessima di Stato.

....di Serino per questo oggi lo Stato

sta disunito in ventidue casali

che si veggon per lungo spazio e lato.68

Una descrizione diversa e contrastante ne fa invece il poeta

Domenico Giella, che, dopo aver cantato le sue origini

ancestrali e preistoriche, la vuole invece distrutta dai Romani,

come si evince dai versi seguenti:

<<Là dove fischia la procella e stride

il vento, e si riversa ampia la piova,

Surse Sabazia un di, Sabazia antica,

prima città della Iapigia gente,

e primo ceppo oriental di nostra

inclita schiatta.............................

Il superbo Roman.......................

Rase le mura e le reliquie estreme

Fur divise per paghi e per casali.69

68 Filippo Masucci, Serino nell‟Età antica, Tipografia Pergola,

Avellino 1959, pp. 80,81 69 Filippo Masucci, idem, pp. 81,82.

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Malgrado le leggende e le poesie, fiorite dopo la fantasiosa

narrazione del Bella Bona, l‟assenza assoluta di notizie

credibili sull‟origine della città, le divergenze sul luogo del suo

insediamento, sul tempo e sul modo della sua distruzione, la

mancanza di reperti archeologici attendibili, ha ingenerato in

alcuni studiosi un dubbio così forte da indurli a negare

decisamente l‟esistenza stessa della mitica città. E‟ questo il

caso di Francesco Scandone, che nega l‟esistenza in Civita

Ogliara non solo di una città di epoca antichissima e di nome

Sabatia , ma anche quella di una città di epoca romana, Lo

Scandone ritiene infatti che <<gli eruditi dopo la congettura

del Cluverio la chiamarono Civita e la battezzarono col

pomposo nome, che non poté esistere, di Sabatia. Dagli eruditi

questa falsa credenza è ora discesa nel popolo- >>70

Scandone va anzi oltre, per spiegarci come, quando e perché

siano sorte le mura e le torri che ancora oggi si vedono in

Civita Ogliara. Egli afferma infatti che << nell‟839, scoppiata

la guerra civile nel principato di Benevento fra i due principi

Siconolfo e Radelchi, vi fu un bisogno da una parte e dall‟altra

di rafforzarsi per l‟offesa e la difesa......per impedire

l‟avanzarsi di un esercito nemico che da Salerno, per la valle

del Picentino, avrebbe potuto invadere quella del Sabato, fu

costruito in quel luogo un forte di sbarramento che chiudeva il

punto più angusto di quella valle..... Come fortezza di confine

quel recinto poteva avere un valore, >> ma, << dopo che con

la conquista normanna caddero le barriere....... quella fortezza

non desiderata né abitata da alcun feudatario, mancandovi più

che in altre le comodità di abitazione, >>71

fu abbandonata.

70 Francesco Scandone, Alto Calore, Vol. I, p.138. 71 Francesco Scandone, idem, p. 28 e seg.

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L‟ipotesi dello Scandone è stata confermata da vari archeologi

e studiosi che si sono interessati delle mura e delle torri di

Civita Ogliara, come Woolley, Schmiedt, Johannowski,

Tabaczinska, Huguette Taviani Carozzi e Pasquale Natella, i

quali tutti hanno affermato che le mura e le torri di Civita

Ogliara appartengono all‟epoca medievale e al periodo

longobardo, con l‟esclusione del solo Woolley, che le

attribuisce all‟inizio del Medioevo e al tempo di Alarico ( 410

d. C. ).

Particolarmente pregnante in proposito è quanto scrive

Pasquale Natella, il quale, parlando di castelli e di antichi

luoghi fortificati così si esprime circa la cinta muraria di

Civita Ogliara, dal popolo comunemente indicata come Mura

della Civita o Sabazia. Egli dice: << Del tardo antico e

dell‟alto Medioevo rimangono pochissime vestigia, anche se

spesso negli studi continuano qua e là false attribuzioni ad età

romana di cinte murarie. E‟ il caso, in Serino, su di un pianoro

verso il Terminio, della Civita Ogliara, che dalla fine

dell‟Ottocento fin quasi ai giorni nostri si credeva fosse opera

di legioni romane o di popolazioni locali di periodo

protobizantino od ostrogoto.

Impostato su di un precedente insediamento protostorico il

recinto è, al contrario, collegato alla presenza longobarda e

per il suo andamento planimetrico strutturale – cortine

innalzate con ciottoli di fiume, torri quadrate del tipo delle

beneventane e del castello di Salerno, vale a dire con

materiale di spoglio – fu da me avvicinato al castrum

longobardo di Castelseprio in Lombardia.>>72

72 Pasquale Natella, I Castelli, in Storia Illustrata di Avellino e

dell‟Irpinia, Vol. III, L‟età Moderna, Sellino e Barra Editori,

Pratola Serra (AV) 1996, p.33.

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Le mura della Civita non erano, perciò, le mura di una città

mitica, ma quelle di un castrum o castello, costruito con

materiali trovati sul posto, così come afferma Pasquale Natella,

e messo a guardia della strada che dalla piana di Battipaglia

conduceva alla piana di Serino, al tempo della guerra tra

Radelchi e Siconolfo durata ben dieci anni (838-848).73

L‟importanza del fiume per l‟economia e per la storia dell‟Alta

Valle del Sabato si conferma anche nel tardo Medioevo,

quando, col progressivo affermarsi della tecnologia , sorsero

sulle sue sponde i primi opifici industriali, ferriere per la

lavorazione del ferro e ramiere per

73 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni,

Penta di Ftsciano (SA) 2005, p. 123.

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quella del rame, e, contemporaneamente al sorgere di questi

opifici, fiorì l‟artigianato del ferro con la fabbricazione di

chiodi particolarmente rinomati, richiesti ed esportati anche

fuori della Campania.

La caratteristica più importante di questo periodo è, però, il

sorgere, lungo le sponde del fiume, di mulini che sfruttavano

l‟energia delle sue acque per far girare le mole, mulini che

divennero la tappa obbligata dei trasportatori di grano

provenienti dalle Puglie, che vi si fermavano per trasformarlo

in farina da portare a Napoli. Uno dei più famosi di questi

mulini posizionati lungo le sponde del fiume Sabato era quello

delle monache, feudatarie di San Michele di Serino, prima

situato in Via Corticelle74

e alimentato con acque deviate dal

fiume mediante una palafitta comunemente denominata palata

„e coppa, palafitta di sopra, perché costruita al di sopra del

casale, mulino che nella prima metà del secolo XVI, per

divergenze col feudatario di Serino che lo aveva privato delle

sue acque, 75

fu poi trasferito in Via Zappelle, sulle sponde del

torrente Barra affluente del fiume Sabato.

L‟importanza di questo fiume, per l‟economia delle

popolazioni rivierasche, si accrebbe ancora di più a partire dal

secolo XVIII, quando, per le accresciute conoscenze sulle

patate e sul mais, importati dalle Americhe dopo la scoperta di

Cristoforo Colombo, la loro coltivazione si diffuse nell‟alta

valle del Sabato favorita proprio dalle acque del fiume, che

permettevano irrigazioni abbondanti dei campi coltivati a mais

e a patate, campi che, oltre ad essere fonte di ricchezza,

costituivano uno spettacolo per la vista

74Filomeno Moscati, idem, p. 197 . 75 Filomeno Moscati, idem, p. 240.

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con i loro solchi dritti e lussureggianti di verde, per gli alti steli

del granturco, e di bianco al tempo della fioritura delle patate.

L‟epoca d‟oro di queste coltivazioni è ormai

tramontata per cause diverse, ma soprattutto per la captazione

delle sorgenti Acquara e Pelosi negli anni trenta del secolo

XX, che ha fortemente depauperato il fiume delle sue acque, la

cui abbondanza vive solo nel ricordo rappresentato dalle

fontanine a getto continuo, che fanno bella mostra di sé

nell‟abitato di San Michele di Serino per concessione

dell‟Acquedotto di Napoli, concessione intervenuta dopo una

protesta insurrezionale organizzata e guidata da un prete del

casale.76

Dal momento di quella captazione è cominciata l‟agonia del

fiume, oggi ridotto a un modesto ruscello a causa di ulteriori

prelievi delle sue acque a mezzo di pozzi artesiani, che,

succhiando dalle viscere della terra la sua linfa più profonda e

nascosta, hanno reso pressoché impossibili le antiche colture

su vasta scala di ortaggi, pregiati e rinomati fin dall‟epoca dei

sanniti, come ci tramanda Plinio,77

oltre che delle patate, del

granturco e di tutte le altre colture che, con la loro abbondanza,

contribuivano ad evidenziare l‟età dell‟oro di quella civiltà

contadina, che, per secoli, ha costituito l‟onore e il vanto del

nostro paese e in cui l‟uomo e la natura, vivendo in armonia e

non in contrasto, si fondevano tra loro, come chiaramente si

avverte nella poesia di un poeta sammichelese, il

“Sanmichelese” Mario Giliberti, che così descrive

quest‟armonia:

76 Filomeno Moscati, Storia di Serino, Gutenberg Edizioni,

Penta di Fisciano (SA) 2005, p. 375 e seg.. 77 Plinio, Naturalis Historia, XIX,141.

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Osserverò l‟ondeggiare

del grano - nella piana

tessuta di vento –

al canto delle cicale,

in un velato amplesso.

Sentirò il granturco

frusciare, con gli steli

diritti e allineati

come plotoni di soldati

pronti per la sfilata.

E conterò i peschi lividi,

carichi di frutti carnosi,

e i peri alti, dal fusto

massiccio e scabro,

e i fichi dalle foglie

alte e grasse.

Curerò la rete telegrafica

delle viti,

strette da vincoli tenaci.

Poi – al ritmo sonnolento

d‟ una cantilena-

passerò in rassegna

l‟armata spettacolare

che domina la campagna78

L‟ età dell‟oro della civiltà contadina si rifletteva nel fiume che

la generava.

78 Mario Giliberti, Non fuggirò la vanga, in Il Sentiero della

speranza, Edizione del Giano, Roma 1994, p. 106

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Ricordo, al tempo dell‟infanzia felice, il fiume ancora ricco

d‟acque limpide e freschissime, sulle cui sponde si radunavano

le donne per lavare la biancheria e i panni di tutta la famiglia,

immergendoli nelle fluenti e limpide acque, sbattendoli poi con

forza su grosse pietre piatte e levigate e, infine, strizzandoli

per farli meglio e più presto asciugare. Erano le stesse donne

che raccoglievano e conservavano con cura la cenere dei

focolari, per rendere più candidi e bianchi quei panni con

l‟ancestrale metodo della “colata”, che sfruttava il potere

candeggiante del potassio contenuto nelle ceneri, che venivano

versate, a strati, sulla biancheria depositata in un apposito

secchio di legno;

Ricordo, in autunno, le piene torbide e limacciose, con l‟acqua

del fiume che superava gli argini per allagare i campi che si

stendevano fra il torrente Ciciurchia e il ponte

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della Starza, depositandovi quel limo che li rendeva fertilissimi;

e, in estate, nei caldi pomeriggi di agosto, i bagni di

ragazzi e adolescenti nelle placide acque della palata „e sotta,

situata poco al di sotto dello stesso ponte; e i bambini, che,

lungo le sponde davano la caccia a lamprede, ranocchi e girini.

Ricordo Domenico Giliberti, il pescatore, che, immerso fino

all‟addome nelle morte gore del fiume, o nel canale di carico

dell‟ex mulino di via Zappelle, detto comunemente „o curso „e

l‟acqua, impugnando, con la sinistra, il ramo ricurvo di salice

che teneva spalancata la bocca della sua rete e, con la destra,

la lunga pertica con cui esplorava le

sponde, catturava secchi di iridee trote e di guizzanti anguille;

e la pesca notturna con cui, muniti di un lume a gas, di un amo

dal triplice uncino e di un ombrello aperto in cui raccogliere le

prede, io, Lorenzo Mastroberardino e il caro amico Costantino

Romano, oggi defunto, catturavamo , in breve tempo, chili di

pallidi gamberi con cui imbastire, la sera successiva, splendide e

succulente cene;

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e, nei periodi di magra, la pulitura della torre di carico del

mulino di Via Augello, con decine di trote e di anguille

guizzanti fuori dal limo, uno spettacolo che, fatte le debite

proporzioni, rassomigliava alla cattura dei tonni nelle tonnare.

La pescosità di questo fiume era tale che, a comprova, si

ricordava un episodio che, anche per il suo duplice significato,

assumeva il valore di un aneddoto.

Si raccontava, infatti, che Vincenzo Cacchio, parsonale

(colono) della famiglia Cotone, mentre, nella settimana che

precede il Natale, era intento ai lavori di travaso del vino nella

cantina del palazzo dei Cotone, alla padrona, che gli chiedeva

se avesse provveduto a comprare il capitone per il Natale,

rispondesse “ no signò, nui n‟arrangiamo co‟ nuosto, a

significare che il piatto forte del cenone della vigilia sarebbe

stato preparato con i capitoni pescati direttamente dal fiume. Le

acque del fiume erano infatti così limpide e pure che in esse

venivano a riprodursi, partendo dal mare dei Sargassi, le

anguille che vi erano nate.

Dopo la seconda guerra mondiale, con l‟affermarsi della

civiltà industriale e consumistica la vita è divenuta così

difficile, per non dire impossibile, nell‟antico fiume, che

perfino nel neo-costruito laghetto artificiale di Via Augello,

inizialmente destinato alla pesca sportiva, questo sport è

diventato impraticabile a causa della moria autunnale delle trote,

che in esso venivano versate, per il ripopolamento, nei mesi

primaverili. La colpa di questa moria, attribuita al fondo

bitumato del laghetto, va, molto più probabilmente, imputata ai

tannini, che, dopo la raccolta e la cura delle castagne nei mesi

autunnali, vengono riversati nel lume del torrente Barra che lo

alimenta.

La stessa sorte di questo suo affluente di sinistra ha subito il

fiume Sabato, che, ridotto oggi alle dimensioni e alla

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portata di un modesto ruscello e sacrificato, per di più, alle

esigenze della civiltà industriale, rivive soltanto nella memoria

senza valore di qualche vecchio stanco, nostalgico di tempi

passati che mai più ritorneranno, e di Mario Giliberti,

un”Sanmichelese” poeta,79

che così rivide, in una visione

quasi di sogno, l‟antico fiume e il suo vecchio paese:

Un panorama di tetti

digradanti a valle.

Lo sguardo lontano

a seguire il corso

monotono del fiume.

Sale un odore acre

di fieno verde,

di fiori umidi.

Mi vapora davanti

il vecchio paese,

quello vero

dell‟infanzia felice.

E sfila il flashback

della mia vita.

Rivedo la chiesa

e il campanile alto

col grato risveglio

delle campane.

L‟orologio a rintocchi.

Gli antichi antri

79 Filomeno Moscati, Mario Giliberti, poeta della natura,

Edizione a cura del Comune di San Michele di Serino, 2004-

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solitari e bui.

Il selciato consunto,

secolare: sede eletta

di giochi infantili.

E il giardino

( ahi il mio giardino! )

fiorito a primavera

con sogni e voli,

solchi e aiuole,

luci e colori,

prati e cielo..

Il sisma ha raso

al suolo, spietato,

le case secolari,

ma il ricordo

vive nel cuore.80

80 Mario Giliberti, Dalle colline, in Il sentiero della

speranza, Edizione del Giano, Roma 1994, p. 31

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Bibliografia

Bella Bona Scipione, Ragguagli della città di Avellino, per

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Ricordo

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Indice

Introduzione………………………………………….p. 3

Presntazione………………………………………….p. 5

I - Ricordo .................................................................p. 7

II -I giochi di strada dell‟infanzia......................................p.19

III - Tradizioni scomparse o in via di estinzione...............p.27

IV - Tradizioni legate alle festività religiose..................p.35

V - „O ritto „e S. Michele...........................................p.57

VI - Il tramonto della civiltà contadina ............................p.81

VII – Il fiume Sabato, L‟agonia di un fiume storico......p. 91

Bibliografia...-......................................................p.109

Indice…………………………………………..p. 111

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