Ricerca #1 GIOCHI PERICOLOSI

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1 GIOCHI PERICOLOSI Di Mariateresa Ariniello RICERCA #1 ANNO 2014

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Di Mariateresa Ariniello. Il breve lavoro che segue è incentrato sull’analisi delle criticità che la normativa riguardante il traffico internazionale di rifiuti e l’esperienza hanno posto in evidenza. Questa ricerca fa parte della serie di pubblicazioni LE RICERCHE dell'Osservatorio Ambiente e Legalità.

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GIOCHI PERICOLOSI

Di Mariateresa Ariniello

RICERCA #1

ANNO 2014

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Giochi pericolosi

Di MariaTeresa Ariniello

Ricerca #1

Anno 2014

Serie: Le ricerche dell’Osservatorio Ambiente e Legalità Venezia

Numero 1

A cura di: Osservatorio Ambiente e Legalità Venezia

Mail: [email protected]

Telefono: +39 042527520

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GIOCHI PERICOLOSI

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I RIFIUTI NELL’ERA

DELL’INTERDIPENDENZA DEI MERCATI

Il breve lavoro che segue è incentrato sull’analisi

delle criticità che la normativa riguardante il

traffico internazionale di rifiuti e l’esperienza

hanno posto in evidenza. La ricerca, svolta grazie

alla collaborazione di funzionari delle forze

dell’ordine e dell’Agenzia delle dogane, ha come

obiettivo principale quello di dimostrare come

anche un’azione apparentemente a favore

dell’ambiente, quale appunto il recupero dei rifiuti,

può in realtà ridurre il godimento del diritto allo

sviluppo, alla vita, alla salute, al cibo,

all’informazione, alla sicurezza sul lavoro, ai

benefici derivanti dai progressi scientifici, ad un

equo risarcimento.

I documenti di trasporto, le analisi di laboratorio e

le autorizzazioni sono manipolati da spedizionieri e

trasportatori per sfuggire ai controlli doganali e di

frontiera. Le varie dinamiche dimostrano come,

anche in questo ambito, la criminalità si sia ormai

adattata al mercato, sempre più interdipendente e

globalizzato. Infatti, nei paesi sviluppati, gli elevati

costi di smaltimento legale dei rifiuti spingono

sempre più gli imprenditori ad esportare i rifiuti

nelle aree povere in cambio di ingenti

finanziamenti, seguendo mere politiche

commerciali. Ed è proprio nel commercio

dell’illegalità che il rifiuto sembra svolgere un ruolo

preponderante, tanto da esser paragonato all’oro

per gli ingenti profitti da esso realizzati. E così se, in

passato, questi viaggiavano lungo lo stivale

italiano, attraverso il sistema del giro-bolla, oggi

seguono le medesime rotte internazionali dei

prodotti con la complicità delle disposizioni

commerciali che mirano a configurarli sempre più

come vere e proprie merci.

Alle motivazioni commerciali va poi aggiunto il

minor rischio di natura penale che sottende

all’illecito e che spinge le attività criminali ad

investire nel ciclo dei rifiuti. Legambiente ha

censito 163 nuove inchieste che vedono l’Italia

protagonista per traffici illeciti di rifiuti nel periodo

2011- 2012. Negli ultimi anni si sta cercando di

promuovere un approccio preventivo, le cui azioni

mirino a scoraggiare la commissione di un illecito

piuttosto che intervenire quando l’ambiente è

ormai irrimediabilmente inquinato. In quest’ ottica

è da considerarsi anche la richiesta di inserimento

nel codice penale di nuove figure di reato

riguardanti la tutela dell’ambiente.

I mercati esteri più lucrativi sono presenti in aree

economicamente depresse che quotidianamente

convivono con povertà, disoccupazione,

indebitamento estero: più il paese è indebitato e

maggiormente è vulnerabile, tanto da accettare

una tangente per l’istallazione di imprese di

riciclaggio dei rifiuti, ricevendo in cambio, inoltre, il

trasferimento di tecnologie, soventemente

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obsolete. Rilevante è anche il ruolo svolto dalle

economie emergenti, come Cina, India, Brasile, alla

ricerca affannosa di materie prime, sempre più

spesso generate da rifiuti.

La prima conseguenza tangibile del traffico

internazionale di rifiuti è la ridistribuzione

geografica del danno ambientale derivante

dall’esportazione della medesima fonte

d’inquinamento.

Ma dietro questa politica si cela un pericolo ancora

più imponente per l’intera popolazione globale,

causato dalla forte competizione economica tra

industrie operanti nel settore del recupero: vi è la

tendenza ad esportare i rifiuti che non hanno

seguito nessuna procedura di recupero,

impiegandoli direttamente nella produzione.

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IL RECUPERO DI RIFIUTI:

NORMATIVA ED ESPERIENZA A CONFRONTO

Flaconi contaminati da fitofarmaci,

anticrittogamici, erbicidi, antiparassitari, vernici,

solventi, diluenti, detergenti industriali e

domestici; big bags contenenti quantità rilevanti di

sostanze per uso zootecnico, fertilizzanti; guaine

catramate. Sono solo alcuni dei rifiuti sequestrati

dai Carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di

Venezia presso il porto di Marghera (VE).

L’operazione Serenissima, dal nome delle navi

commerciali della Serenissima Repubblica di

Venezia, è partita il 15 dicembre 2005, in seguito

ad un’ispezione di 5 containers diretti ad Hong

Kong contenenti rifiuti provenienti da due dei

quattro stabilimenti della ditta Levio Loris srl,

leader nelle operazioni di stoccaggio e recupero

dei rifiuti non pericolosi in regime semplificato ed

ordinario, operante nel territorio veneto

(Grantorto, Selvezzano Dentro, Badia Polesine,

Vigonza). La Levio Loris srl, regolarmente iscritta

all’albo nazionale dei gestori ambientali (art. 212,

D.Lgs 152/2006) è autorizzata a svolgere solo

azioni di raccolta, selezione dei rifiuti (per

eliminare eventuali frazioni estranee) e

organizzazione di balle per tipologia. Quest’ultime

possono essere destinate a smaltimento presso

altri impianti o al recupero presso ulteriori società

che hanno le tecnologie e le autorizzazioni per

eseguire le fasi successive ed ottenere così le

materie prime secondarie, pronte all’impiego nel

processo produttivo.

Le fasi successive di lavoro prevedono la

triturazione, cioè la frantumazione grossolana del

materiale, il lavaggio del prodotto (per

l’eliminazione quelle parti che potrebbero essere

dannose come terra e residui metallici) ed infine la

macinazione e l’essiccazione del prodotto. I

documenti accompagnanti la spedizione

denunciano la non pericolosità dei rifiuti contenuti

nei containers e, nello specifico, imballaggi in

plastica, rifiuti di plastica e gomma derivanti dal

trattamento di altri rifiuti. In realtà, dalle analisi

effettuate, circa il 70 % del carico era composto da

una miscelazione di rifiuti contenenti sostanze

pericolose per l’ambiente. Rifiuti, questi, classificati

come pericolosi dalla normativa vigente e non

trattabili dalla ditta in questione. Diverse sono le

anomalie riscontrate dai NOE durante la prima

perquisizione:

la causale di messa in riserva1 utilizzata per

motivare l’esportazione era la medesima

utilizzata per lo stoccaggio dei rifiuti nella

ditta in questione. La normativa vigente in

materia ambientale vieta che

l’esportazione transfrontaliera di rifiuti sia

mirata allo svolgimento delle stesse

operazioni che avrebbero dovuto svolgersi

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presso la ditta esportatrice. Inoltre, il

destinatario non era autorizzato al relativo

trattamento;

CER, codici europei di identificazione,

contenuti nel documento di

accompagnamento, previsto dall’art. 18

Reg. 1013/2006, non corrispondevano alla

vera natura del rifiuto trasportato;

la documentazione commerciale doganale

riportante il Paese di destinazione e

l’impianto di recupero finale, è risultata

non correttamente compilata. Essa deve

contenere l’indirizzo corrispondente

dell’impianto che recupererà il rifiuto e

non, come in questo caso, l’indirizzo di un

semplice ufficio della ditta importatrice.

Indagato per danno ambientale, art. 260 del

Codice dell’ambiente, è Levio Loris, proprietario

della società espletante l’attività di recupero, Levio

Loris S.r.l, nonché responsabile della società La

Rosa trasporti S.r.l, addetta all’attività di trasporto

dei rifiuti.

L’attività d’investigazione condotta e sintetizzabile

in ispezioni presso gli impianti e i controlli su

strada dei mezzi utilizzati per il trasporto, ha

smascherato un flusso di rifiuti speciali pericolosi,

spacciati come materiale di recupero, diretti nella

Repubblica Popolare Cinese, per un giro d’affari di

circa 6 milioni di euro che ha coinvolto non solo il

porto di Venezia, ma anche quello di Genova,

Trieste, Ravenna, Livorno e La Spezia.

L’esportazione transfrontaliera di rifiuti è

disciplinata dalla Convenzione di Basilea sul

controllo dei movimenti di rifiuti pericolosi e il loro

smaltimento, adottata a Basilea, Svizzera, il 22

Marzo 1989 ed entrata in vigore il 5 maggio 1992.

Tale documento è stato recepito a livello europeo

attraverso il regolamento 259/1993/CEE, oggi

sostituito dal regolamento 1013/2006/CE che

autorizza tre tipi di spedizioni:

le spedizioni tra stati membri dell’Unione

Europea;

le spedizioni in uscita dall’Unione Europea;

le spedizioni in entrata dall’Unione

Europea.

Le spedizioni italiane verso la Repubblica Popolare

Cinese rientrano nell’ambito delle esportazioni

dall’Unione Europea verso i Paesi non aderenti

all’OCSE e sono consentite solo ai fini di recupero

(Lista verde, allegato III del regolamento) e, di

norma, con la procedura di notifica ed

autorizzazione opportunamente adattata.

La Commissione europea ha invitato gli Stati non

OCSE, in base all’art.37 del regolamento

sopracitato, ad indicare quali procedure di

controllo debbano essere eseguite per autorizzare

l’esportazione dei rifiuti destinati al recupero

contenuti nella lista Verde. La sintesi di queste

richieste è riportata nel regolamento 674/2012

della Commissione europea che ha modificato il

regolamento 1418/2007/Ce. L’obiettivo principale

è quello di prevenire i rischi per la salute umana e

l’ambiente derivanti da tali spedizioni e di non

promuovere ed agevolare gli scambi commerciali.

Ogni azione posta in essere dalle autorità in ambito

ambientale e, nello specifico, in materia di traffico

di rifiuti, ha come assunto la necessità di garantire

un maggiore controllo, la tracciabilità del rifiuto e

soprattutto la corretta gestione del rifiuto stesso.

La Cina ha previsto l’osservanza dei seguenti

obblighi:

la ditta importatrice di rifiuti solidi da

impiegare come materie prime deve

essere in possesso della licenza SEPA

definita dal Ministero per la protezione

ambientale cinese, MEP, e rilasciata

dall’Amministrazione per la protezione

statale dell’ambiente, SEPA;

la ditta esportatrice è obbligata alla

registrazione presso l’amministrazione

generale cinese per la supervisione della

qualità, ispezione e quarantena come

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impresa estera che fornisce rifiuti solidi

importati come materia prima, a cui viene

rilasciata la licenza AQSIQ;

i rifiuti devono essere accompagnati da

una certificazione di ispezione effettuata

prima della spedizione. Tale certificato è

rilasciato da un istituto di ispezione e

controllo autorizzato, la cui competenza

viene definita dall’amministrazione

generale cinese per la supervisione della

qualità, ispezione e quarantena, che

attesta il rispetto degli standard

ambientali cinesi.

Ad oggi, sono cinque gli uffici accreditati

dall’autorità cinese con sede a Rotterdam, Londra,

Bruxelles, Brema e Marsiglia. Ciascun ufficio

espleta le funzioni di controllo in una determinata

area geografica e, per quanto concerne quella

mediterranea, l’organismo competente ha sede a

Marsiglia, in Francia.

La richiesta di ispezione, effettuata da parte

dell’esportatore o dello spedizioniere, deve

pervenire presso l’ufficio nei tempi necessari per

poter effettuare tale controllo. Da quanto emerso, i

vari uffici lavorano con intervalli di tempo

differenti: la richiesta di ispezione, per l’ufficio che

ha sede a Rotterdam, deve pervenire entro cinque

giorni dalla partenza del carico e, nei tre giorni

lavorativi seguenti viene effettuata la successiva

ispezione e concesso il documento definitivo

necessario per la partenza, mentre, per l’ufficio di

Londra, la richiesta deve essere inoltrata tre giorni

lavorativi prima della partenza e non si fa

menzione del tempo utile per l’ emissione del

documento definitivo.

Per quanto concerne la nostra area geografica,

l’incertezza tempistica è maggiore: infatti, la

richiesta di ispezione deve essere inviata dalla ditta

esportatrice o dallo spedizioniere sette giorni

lavorativi precedenti alla partenza e non vi è data

comunicazione alcuna riguardo i tempi necessari

per il rilascio del documento definitivo.

È bene precisare che esistono procedure di

controllo effettuate dall’organo cinese accreditato

che variano a seconda della tipologia di spedizione

dei materiali di riciclo. Quando si tratta di merci alla

rinfusa – rifiuti che viaggiano su una nave senza

esser imballati o sistemati in containers - i

funzionari dell’ufficio si recano in porto per

prelevare un campione del carico; in seguito

all’analisi in laboratorio viene rilasciato in

estemporanea il documento definitivo che attesta

la conformità del carico alla normativa cinese.

Quando, invece, i rifiuti sono compattati in

containers, i funzionari prelevano il campione

presso la ditta esportatrice o spedizioniera e

sigillano il carico, il quale viene depositato in porto,

accompagnato da un documento provvisorio,

nell’attesa della seconda ispezione eseguita prima

di caricare il container stesso.

La sede operante in un altro Paese potrebbe,

verosimilmente, ridurre il numero di controlli fisici

che devono essere realizzati sul carico. Infatti, la

prima ispezione presso la ditta esportatrice è

assolta soventemente attraverso semplici

fotografie scattate dallo spedizioniere dei rifiuti ed

inviate telematicamente all’ente.

In relazione al caso di specie, la ditta Levio Loris srl,

grazie al supporto logistico di una donna cinese, ha

indebitamente utilizzato la licenza d’importazione,

AQSIQ, rilasciata a favore della società di cui la

stessa era amministratrice, all’insaputa del titolare

o con il consenso compiacente di aziende; la

donna, inoltre, si occupava di fornire alla ditta falsi

documenti attestanti l’avvenuta ispezione del

carico ed il suo esito positivo. Infatti, i rifiuti

sequestrati non sono stati sottoposti ad ispezione

preventiva e, di conseguenza, la relativa

documentazione è risultata contraffatta.

Uno dei requisiti che il suddetto documento deve

contenere è il numero di licenza AQSIQ, ripreso poi

in tutti i documenti commerciali. Dalla prassi è

emerso che spesso tale requisito viene aggirato

attraverso l’utilizzo della licenza AQSIQ di altre

aziende, anche non presenti sul territorio italiano,

facilmente reperibile su internet e modificabile

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attraverso programmi di grafica, realizzando così

ingenti esportazioni di rifiuti non conformi alla

legge.

Gli uffici regionali dediti al controllo delle

importazioni ed esportazioni di rifiuti nono sono

competenti a rilasciare autorizzazioni e notifiche

per quanto concerne i rifiuti destinati al recupero.

Di conseguenza, l’ispezione del carico può essere

effettuata solo dalle autorità doganali in porto

prima della partenza. A causa, soprattutto, delle

politiche commerciali, non è possibile sottoporre a

controllo tutte le partite di rifiuti destinati al

recupero. Il primo campanello d’allarme che

sollecita un controllo emerge dall’incrocio dei dati

contenuti nei documenti di accompagnamento,

effettuato dai sistemi informatici dell’agenzia,

operante sulla base di un’analisi dei rischi. Nel caso

emergano anomalie, si procede con il controllo dei

documenti posti a corredo che l’esportatore, o chi

per esso, ha l’obbligo di presentare. Il passaggio

attraverso lo scanner attesterà l’omogeneità della

tipologia di materiale dichiarato. Qualora il sistema

dovesse rilevare delle anomalie, si procede con il

controllo visivo della merce mediante l’apertura

del container e, se è il caso, l’ispezione dell’intero

carico. La procedura completa di controllo,

dunque, non ha durata breve e questo ne

comporta il sequestro in banchina per diversi

giorni, sfavorendo quindi le dinamiche

commerciali che preferirebbero scambi veloci e

continui.

Da sempre, infatti, è in corso una diatriba tra coloro

che promuovono il consolidamento di norme

dettagliate per l’esportazione di rifiuti destinati al

recupero e coloro che si fanno portavoce di un

libero commercio e che sempre più spesso

spingono ad uno snellimento delle procedure

previste per ridurre notevolmente i tempi di attesa

nelle aree portuali. Se si considerano, poi, le

esportazioni all’interno di Paesi Ocse, le procedure

non richiedono altro che un documento di

accompagnamento comprovante la quantità e la

tipologia dei rifiuti, facilmente modificabile: una

semplice partita di prodotto italiano che viaggia

all’interno della comunità internazionale,

sottoposto al regime della libera circolazione delle

merci.

Una prima controversia commerciale si evidenzia

nel passaggio tra il certificato di avvenuta

ispezione provvisorio e quello definitivo che

contiene il numero della polizza di carico (bill of

lading), comprovante la presa in carico da parte del

vettore e l’avvenuto imbarco della merce dal porto

di partenza su una nave specificatamente indicata.

In seguito, il vettore trasferirà, mediante girata, il

possesso del carico al destinatario, debitamente

indicato sul documento. Tale documento deve

contenere, tra gli altri elementi, gli estremi della

ditta esportatrice o spedizioniera dei rifiuti, le

indicazioni del destinatario del carico, la data e il

luogo di emissione, la data e il luogo di consegna, il

nome della nave su cui la merce è caricata, la

descrizione della merce (qualità, quantità, numero

di colli, natura), il pagamento, l’indicazione dello

stato apparente della merce e degli imballaggi.

In tutti i porti italiani, tale polizza viene rilasciata

solo dopo aver caricato i containers sulla nave. Ma

allo stesso tempo, la merce non può essere caricata

se non vi è il certificato definitivo, CCIC, che attesta

la corretta corrispondenza tra il campione di rifiuti

esaminato e i rifiuti contenuti nei containers,

garantendo quindi il rispetto della normativa

ambientale cinese. Il problema sembrerebbe

puramente commerciale e viene raggirato

pagando una somma maggiore a determinati

vettori marittimi che caricano la merce sulla nave,

emettendo così la polizza di carico che viene poi

trasmessa all’ufficio cinese competente per

l’ispezione. La nave, però, non è autorizzata a

partire fino a quando non viene consegnato il CCIC

definitivo. Naturalmente questa falla procedurale

incrementa i tempi di sosta del carico nei porti

commerciali e, nello specifico, per il porto di

Venezia, si richiedono circa una decina di giorni per

espletare la completa procedura. Ma tale modo di

operare garantisce il rispetto della normativa

ambientale dello Stato che riceve il carico a

discapito delle politiche commerciali.

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L’operazione Serenissima ha, infatti, evidenziato

come spesso i rifiuti di cui ci si vuole disfare

vengono inviati in Paesi di nuova

industrializzazione attraverso le nebulose

categorie di materia prima secondaria,

sottoprodotto o merce, il cui riutilizzo è spesso

incerto, se non impossibile, a causa delle sostanze

tossiche ancora presenti.

L’operazione Serenissima si è conclusa il 24 giugno

2009 con due decreti di custodia cautelare in

carcere, nove ordinanze di applicazione

dell’obbligo di dimora, il sequestro dei quattro

stabilimenti, il sequestro preventivo dei mezzi di

trasporto facenti capo alla ditta La Rosa trasporti,

autorizzati dalla Procura della Repubblica di

Padova subentrata a quella di Venezia, dichiaratasi

quest’ultima non competente ad emettere i decreti

poiché gli stabilimenti della ditta Levio Loris srl

risiedono nelle province di Padova e di Rovigo. I

maggiori reati contestatati sono di associazione

per delinquere finalizzata all’ingiusto profitto

(art.416 c.p.), violazione degli obblighi di

comunicazione, di tenuta dei registri obbligatori e

dei formulari (art. 258 D. Lgs 152/2006, modificato

dall’art.35 del D. Lgs 205/2010), traffico illecito di

rifiuti e attività organizzate ad esso connesse (artt.

259, 260 D. Lgs 152/2006, modificato dall’art. 36

del D. Lgs 205/2010), dichiarazione di falso in

merito alla natura, alla composizione e alle

caratteristiche chimico-fisiche del rifiuto (art. 483

c.p.), favoreggiamento del personale al fine di

aiutare l’indagato ad eludere le investigazioni (art.

378 c.p.), rivelazione ed utilizzazione dei segreti

d’ufficio per un comandante di una stazione dei

Carabinieri della provincia che avvisava l’indagato

sulle attività di perquisizione ed ispezione (art. 326

c.p.). In merito a quest’ultimo reato riscontrato, al 1

gennaio 2010 al 10 maggio 2013 sono state ben

135 le inchieste relative ad episodi di corruzione

connessi ad attività dal forte impatto ambientale.

In Italia, la corruzione ha radici profonde e difficili

da estirpare in tutti i campi della vita quotidiana.

Lo studio di particolari relazioni

personali/professionali tra funzionari,

amministratori ed imprenditori ha permesso di

ricostruire un giro di tangenti e scambi di favore

necessari per camuffare cicli illegali dei rifiuti,

interventi di ricostruzione, concessioni edilizie,

varianti urbanistiche, autorizzazioni e realizzazioni

di impianti eolici e fotovoltaici.

Ad oggi, gli stabilimenti di Badia Polesine,

Selvazzano e Vigonza hanno ripreso ad espletare le

proprie attività sotto la guida di un responsabile

individuato dalla procura, mentre rimane ancora

sottosequestro quello di Grantorto, in cui sono stati

spostati tutti i rifiuti non a norma presenti nelle

altre sedi e non ancora oggetto di un corretto

smaltimento.

Il processo a carico del rappresentante legale Levio

Loris si è concluso con il patteggiamento, mentre

rimane ancora aperto quello relativo alla donna

cinese.

Per quanto concerne i produttori che hanno

conferito a Levio Loris srl i rifiuti per il loro

trattamento, non può delinearsi nessuna

responsabilità poiché inconsapevoli delle attività

illegali compiute durante le operazioni di trasporto

e/o smaltimento, attirati dallo slogan pubblicitario

della ditta, un servizio ecologico per un futuro

pulito. I produttori sono responsabili del traffico

illecito solo quando affidano la gestione dei rifiuti a

ditte riconosciute per un trattamento non

conforme o quando volontariamente modificano i

codici d’identificazione dei prodotti. È bene

precisare, però, che un basso costo promosso per la

gestione dei riiuti è già indicatore di un’attività

illecita ad essa collegata e, se non correttamente

motivata, deve distogliere gli imprenditori dal

promuoverla.

Il regolamento europeo sopra citato ha come unico

scopo quello di limitare la circolazione di rifiuti nel

contesto internazionale al fine di ridurre i rischi per

l’ambiente e la salute umana. Infatti, in esso non vi

è nessuna disposizione riguardante le

caratteristiche che un rifiuto deve avere per poter

circolare nel marcato internazionale. Questa lacuna

è stata colmata dalla direttiva europea 2008/98/CE,

adottata dal Consiglio il 20 ottobre 2008 ed entrata

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in vigore il 12 dicembre 2008. Essa ha cercato di

ovviare alla definizione poco chiara di rifiuto

espressa dalla normativa precedente. Il

fondamento risiede nella necessità di favorire il

riscorso al riciclaggio e al riutilizzo, riducendone gli

oneri economici e le tempistiche burocratiche

necessarie per classificare il rifiuto come prodotto.

L’art. 6 della suddetta direttiva sancisce quattro

requisiti che il rifiuto deve avere per non essere

classificato come tale:

deve essere utilizzato nella produzione o

per scopi specifici ;

trovare collocazione sul mercato ad un

prezzo positivo;

soddisfare i requisiti tecnici per gli scopi

specifici cui è destinato e rispettare la

normativa e gli standard esistenti

applicabili ai prodotti;

non generare danni all’ambiente e alla

salute pubblica attraverso il suo impiego.

Emerge un contrasto tra due corpus normativi, il

primo relativo a disciplinare le esportazioni di

rifiuti e il secondo relativo alla regolamentazione

del commercio. L’Organizzazione mondiale del

commercio, infatti, invita gli Stati ad eliminare le

restrizioni quantitative imposte all’importazione e

all’esportazione di merci nelle relazioni

commerciali con gli altri Stati. A tal proposito, se

uno Stato decide di esportare i suoi rifiuti destinati

al recupero in uno Stato che adotta norme e

politiche adeguate invece di inviarlo in Paesi in cui

gli standard di controllo e le garanzie ambientali e

sanitari sono scarsi, commette una violazione della

disposizione OMC sopracitata?

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DIRTY RECYCLING

E GIOCHI PERICOLOSI

Una gestione non proprio ecologicamente corretta

quella promossa dalla ditta Levio Loris srl, in

violazione del pieno rispetto della protezione della

salute umana e dell’ambiente: presso gli

stabilimenti venivano accantonati rifiuti per

quantità superiori a quelle previste dalla legge,

provenienti da diverse aziende industriali nazionali

e dalla raccolta differenziata di alcuni comuni della

provincia patavina. I rifiuti, non soggetti ad alcuna

operazione di recupero, venivano etichettati con

identificazioni false per smascherare anche la

natura pericolosa e, privi di valide autorizzazioni,

salpavano le coste. Spesso, venivano miscelati

indebitamente in violazione dell’Allegato IIIA del

regolamento comunitario 1013/2006, compattati e

pronti ad essere impiegati in nuove produzioni

all’estero.

Il riciclo è infatti una delle nuove tecniche di

gestione dei rifiuti di scarto industriale, inviati nei

Paesi in via di sviluppo come materie prime

secondarie a prezzi convenienti. Anche l’attività di

riciclaggio, al pari di quella industriale, può essere

pericolosa ed inquinante se i responsabili sono

disposti a dirottare i cascami e gli avanzi industriali

in zone già martoriate dalla povertà e dallo

sfruttamento, attratti da condizioni economiche

più vantaggiose.

La Convenzione di Basilea sancisce una serie di

obblighi per mediare tra le esigenze dei Paesi in via

di sviluppo e quelle dei Paesi sviluppati, cercando

di raggiungere un equilibrio nella realizzazione di

uno sviluppo sostenibile. Molto spesso, infatti, i

Paesi in via di sviluppo reclamano il proprio diritto

allo sviluppo economico, mettendo in secondo

piano la protezione dell’ambiente. Questo

evidenzia come il movimento dei rifiuti non è solo

un problema ambientale, ma anche economico,

tanto da rappresentare un affare di proporzioni

enormi, collegato anche a traffici illeciti.

È un gioco a somma zero, in cui guadagnano tutti i

soggetti coinvolti: l’industria esporta i costi

ambientali che avrebbe dovuto sostenere per lo

smaltimento dei rifiuti nel rispetto della normativa

in vigore e il destinatario ottiene materie prime a

basso costo da impiegare nella produzione.

Come molte indagini giudiziarie hanno attestato, il

riciclo è solo una giustificazione per esportare i

rifiuti, spesso pericolosi, in Cina, India, Bangladesh,

Costa d’Avorio e superare le restrizioni europee in

materia di esportazioni di rifiuti. Una volta ricevuti,

questi vengono semplicemente depositati in

discariche a cielo aperto (sham recycling) o

utilizzati, senza esser sottoposti ad alcuna

“bonifica”, per la produzione di casalinghi e

giocattoli (dirty recycling), mettendo a rischio

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l’ambiente e la salute delle persone che le lavorano

o che godono del prodotto finito.

Il Veneto è la seconda regione italiana per impianti

di smaltimento e recupero e, di conseguenza, il

porto di Venezia è tra i maggiori porti italiani

utilizzati per l’esportazione di carta da macero e

plastica, interessato da ben 12 inchieste tra il 2011

e il 2012 relative a traffici illeciti di rifiuti e merce

contraffatta in uscita (Mercati illegali. Traffici

illeciti, merci contraffatte, prodotti agroalimentari

e specie protette: numeri, storie e scenari della

globalizzazione in nero, Legambiente e Polieco,

febbraio 2013). Uno dei maggiori partner

commerciali dell’economia nera è la Cina,

soprattutto per quanto concerne l’importazione di

carta da macero e rifiuti plastici a base di

polietilene, destinati alle molteplici aziende da cui

verranno recuperati ed impiegati nella produzione.

Si incrementano anche le rotte verso il porto del

Pireo in Grecia, il cui molo II è stato recentemente

acquistato dai cinesi: tale strategia senz’altro

genererà un cambiamento delle rotte utilizzate nel

commercio tra oriente ed occidente.

Secondo l’Agenzia delle dogane, circa il 55,53%

delle esportazioni effettuate dal porto di Venezia

sono dirette ad Hong Kong per poi raggiungere la

Cina via terra. Nel 2012 sono stati sequestrati in

Italia una gran quantità di rifiuti spacciati come

materie prime secondarie, in realtà inutilizzabili

perché contenenti ancora sostanze tossiche, ma la

smania dei paesi asiatici non risparmia nulla i cui

imprenditori con pochi scrupoli sono disposti ad

impiegare qualsiasi materiale pur di guadagnare.

Una vera e propria movimentazione del pericolo,

un cerchio che si chiude nello stesso Paese in cui i

rifiuti vengono prodotti. Come dimostrano le

indagini susseguitesi nel corso del tempo sul

territorio italiano, le rotte lungo le quali si

muovono i rifiuti sono le medesime impiegate per

il trasporto delle merci contraffate e spesso

interessano anche gli stessi partner commerciali.

Secondo il dossier di Legambiente-Polieco, infatti,

le navi che viaggiano cariche di rifiuti diretti verso

la Cina solitamente ritornano nel paese di

destinazione cariche di merce contraffatta. Ma cosa

nasconde un prezzo di recupero notevolmente

basso rispetto alla media? In quali produzioni

vengono impiegate le materie prime in tal modo

ricavate?

Di seguito delle fotografie raffiguranti una ditta

asiatica che impiega carta ottenuta da attività di

recupero per la produzione di carta igienica.

Si noti la sede legale dell’ufficio dal quale si può

desumere che la produzione avvenga in aree non

adeguatamente attrezzate e in strutture fatiscenti.

La selezione e l’eliminazione di materiali non

idonei è eseguita a mano, senza nessuna

precauzione e su montagne accatastate di rifiuti,

depositati all’interno di capannoni privi di qualsiasi

sistema di areazione.

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I macchinari utilizzati per la preparazione della

pasta di carta, la realizzazione di fogli e il taglio

sono ormai obsoleti e privi di qualsivoglia

protezione d’igiene e di sicurezza. Inoltre, il

prodotto finito viene impacchettato in condizioni

non adeguatamente igieniche.

In ultimo, i residui industriali vengono

abbandonati nei corsi d’acqua o in aree a cielo

aperto, senza nessuna attenzione alle

problematiche ambientali. Mancano, infatti, le

infrastrutture per rispondere in modo tempestivo

alle emergenze, strade e servizi per garantire la

sicurezza dei trasporti, condizioni di lavoro

dignitose, strutture mediche per assicurare e

proteggere la salute dell’intera comunità.

Se un paese ricco, industrializzato, che ha le

strutture e le risorse necessarie non riesce a ridurre

l’inquinamento generato dai rifiuti, come può

giustificare l’esportazione della fonte stessa di

inquinamento nei paesi in via di sviluppo, in cui le

probabilità di mitigare gli impatti sull’ambiente e

sull’uomo sono minori? I roghi a cielo aperto

liberano nell’aria quantità elevate di piombo,

cadmio, antimonio, diossine, cloro e bromo,

utilizzati per ammorbidire la plastica in PVC,

riducendo notevolmente la qualità dell’aria che la

popolazione respira.

Verosimilmente è ipotizzabile, secondo anche

quanto denunciato dalle immagini sopra mostrate,

che le materie prime così ricavate siano poi

impiegate nella produzione di beni generalmente

usati nella quotidianità. Cresce, infatti, il numero

dei sequestri dei prodotti di origine cinese non

conformi alle direttive europee perché contenenti

sostanze altamente tossiche per la salute umana,

non utilizzate nei processi di produzione e

lavorazione delle materie prime. Tra queste,

l’operazione True Toys, condotta dalla Guardia di

Finanza, sezione tributaria di Padova che ha

portato, il 25 gennaio 2012, al sequestro

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amministrativo di circa 3 milioni di giocattoli in

seguito ad una ispezione delle Autorità presso lo

stabile H. X. , sito in Corso Stati Uniti, 1, di Padova.

In linea generale, si sono riscontrate le seguenti

anomalie:

le indicazioni relative alle caratteristiche

dei giocattoli non risultavano stampate

sull’imballaggio, ma successivamente

incollate e uguali per tutti i giocattoli,

seppur con caratteristiche fisiche e

meccaniche differenti;

la normativa europea prevede che il

giocattolo sia accompagnato da istruzioni

ed informazioni sulla sicurezza e sulla

produzione fornite almeno in lingua

italiana. L’italiano, grammaticalmente e

sintatticamente non corretto, come in

questo caso, ha rappresentato un

campanello d’allarme;

il simbolo CE non risultava conforme; si

potrebbe ipotizzare, quindi, che i giocattoli

non siano stati sottoposti alla procedura di

controllo prevista dalla normativa

europea.

Una parte dei giocattoli sono stati sottoposti ad

analisi chimiche-fisiche presso l’Istituto per la

sicurezza dei giocattoli, IISG Srl, ente accreditato

dalle Autorità di controllo, i cui costi sono sostenuti

da un partenariato con la Confcommercio.

La direttiva europea 2009/48/CE sulla sicurezza dei

giocattoli ha l’obiettivo di ridurre gli ostacoli e le

difficoltà riguardanti la libera circolazione di beni

all’interno dell’Unione europea, ponendo

particolar attenzione sulla valutazione della

sicurezza presa in carico dai fabbricanti. Ciascun

attore economico che partecipa al processo

produttivo e alla vendita del bene ha degli

obblighi, ma spetta al fabbricante la redazione dei

documenti tecnici in quanto conosce il progetto, il

processo di produzione, i materiali e le sostanze

chimiche impiegate. Ad egli spetta anche il dovere

di eseguire la procedura di conformità CE. Gli altri

operatori dovranno solo rendere disponibili la

documentazione relativa, la quale deve essere

conservata per 10 anni dal momento in cui il

giocattolo è stato immesso sul mercato.

Questo assunto di fondo però non solleva gli

importatori dalle responsabilità in quanto essi

devono assicurarsi che il produttore abbia eseguito

l’appropriata procedura di valutazione della

conformità e preparato la documentazione tecnica

che deve accompagnare il giocattolo. Se egli ha

motivo di credere che un giocattolo non sia

conforme ai requisiti richiesti, non deve immetterlo

sul mercato fino a quando non sono stati svolti

successivi accertamenti. Ove lo ritengano

opportuno, gli importatori possono eseguire anche

delle prove a campione sui giocattoli al fine di

garantire la sicurezza e la salute dei consumatori.

Nel caso di specie, dall’etichetta è stato possibile

risalire all’importatore, la ditta Centro Giochi srl di

Calenzano, Firenze, il cui responsabile legale è un

cinese, Cheng Zhou Hua. Dall’analisi della

documentazione si è riscontrata la mancanza di

certificazioni di conformità valide per tutti i

giocattoli, oltre poi una gestione amministrativa e

contabile scarsa e la presenza di documenti falsi

relativi alla validità del marchio CE.

Nella fattispecie, i reati contestati sono puniti con

arresto fino ad un anno e con ammenda da 10.000

a 50.000 €. Nella maggior parte dei casi, secondo

quanto afferma la Guardia di Finanza, i

commercianti cinesi indagati patteggiano la pena

e pagano la sanzione, ma questo non basta per

cercare di sradicare le attività illegali. Auspicarsi un

aumento delle pene non sarebbe certo la migliore

soluzione per indebolire le cattive condotte: infatti,

la protezione normativa è una condizione da sola

non sufficiente per garantire la tutela ambientale.

È, invece, necessario promuovere una maggiore

sensibilizzazione dei consumatori, educarli al

commercio e renderli sempre più coscienti e

partecipi delle scelte.

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La cultura alla legalità è un’arma indispensabile per

cercare di rompere il sistema dell’illegale che oggi

acquista sempre più terreno in molti campi.

Educare significa far conoscere e apprendere,

condividere e promuovere nuovi stili di vita

rispettosi dei diritti umani e dell’ambiente. Educare

significa maturare una cultura incentrata sulla

responsabilità ambientale, adoperarsi per un

dibattito maturo basato sul recepimento dei valori

etici e morali perché la tutela dell’ambiente può

svilupparsi soltanto in seno ai cittadini. L’Italia è un

Paese destabilizzato dalla corruzione perché il suo

popolo tollera un inaccettabile livello di illegalità

diffusa e non pone i valori ambientali quali punti

cardini delle scelte da attuare.

Il cittadino educato alla legalità è colui che pone

attenzione alle attività che si svolgono all’interno

degli stabili dati in locazione; è colui che ricopre un

ruolo attivo nel contesto locale, sempre informato

e partecipativo; è colui che fa acquisti in modo

responsabile, evitando sprechi e promuovendo il

recupero, acquistando solo prodotti il cui marchio

Ce sia conforme; è colui che, da imprenditore,

decide di non incrementare i suoi profitti a

discapito del godimento dei diritti umani: la

realizzazione di un giocattolo cinese venduto a soli

pochi euro è sinonimo di materie prime di bassa

qualità, mancanza di garanzie sociali e

previdenziali per i lavoratori. Il guadagno facile

deve scoraggiare qualsiasi imprenditore perché

dietro un costo relativamente basso di un rifiuto

ceduto per lo smaltimento o il deposito si

nasconde una gestione non ecologicamente

corretta.

Anche in periodi di crisi come quello che stiamo

vivendo è importante porre attenzione alle

etichette e al prezzo di un oggetto, campanello

d’allarme della sua qualità. Acquistare giocattoli

contraffatti non solo mina l’industria italiana, ma

aumenta il rischio di contrarre malattie ed allergie

varie. Le sostanze tossiche contenute nei giocattoli

incidono sul processo di crescita dei bambini.

Solo per fare qualche esempio, il piombo agisce sul

sistema nervoso, genera emicranie, affaticamento,

perdite di peso, insonnia, dolori addominali e in

casi estremi anche schizofrenie e pazzia.

Un’elevata quantità di ftalati, un liquido incolore

impiegato per rendere la gomma più morbida e

flessibile, può causare malformazioni nella crescita

dei bambini, soprattutto agli apparati urogenitali.

Entrano in gioco diversi aspetti legati alla tutela

dell’ambiente, alla lotta alla criminalità, alla sfera

economica, alla salute dei consumatori e dei

lavoratori che ogni giorno entrano in contatto

diretto con le sostanze. La maggior parte dei danni

ambientali ha ripercussioni dirette in termini di

malattie tumorali e/o avvelenamenti di vario

genere, di concorrenza sleale tra aziende e

violazioni fiscali.

Come per gli altri fenomeni criminali, il numero dei

reati accertati dipende dalla frequenza e dalla

qualità dei controlli. A tal fine, è necessaria una

visione strategica e più ampia da parte di chi opera

per la cessazione di illeciti. Una maggiore presa di

coscienza sul circolo vizioso che si genera e

sull’interdipendenza dei reati (che possono essere

considerati sia presupposto che conseguenza),

favorisce una risposta più decisa, mirata a

scoraggiare le cattive condotte nella gestione

ambientale e permette di creare profili di rischio

maggiormente attendibili, necessari per l’attività di

monitoraggio svolta dai carabinieri del NOE e dalla

Guardia di Finanza. I documenti necessari

all’esportazione devono consentire ai soggetti

preposti al controllo e alla verifica di comprendere

se l’impianto di destinazione in questione sia

effettivamente in grado di svolgere operazioni

ecologicamente corrette.

La Cina, dotandosi di un sistema normativo

stringente come sopra evidenziato, ha ormai

intrapreso una vera battaglia per contrastare ogni

attività, lecita o illecita, che provochi un impatto

sull’ambiente e mini la salubrità dello stesso. Ma è

necessario promuovere maggiore trasparenza e

controllo affinché le attività di monitoraggio

svolgano il ruolo di vere e proprie sentinelle contro

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qualsiasi attività criminale, il cui obiettivo

principale è la realizzazione di ingenti profitti. La

condizione economica, sociale non deve essere

causa di ingiustizia ambientale e su nessun essere

umano deve gravare in modo sproporzionato un

danno ambientale. L’operazione Serenissima

rappresenta una anomalia rispetto alla maggior

parte dei movimenti

illeciti internazionali di rifiuti ricostruiti dalle

autorità di controllo. Di solito, i trafficanti

professionisti cercano di far perdere le tracce del

proprio carico costituendo vere e proprie

triangolazioni. I containers passano di porto in

porto, da un intermediario ad un altro, da un paese

ad un altro: partono dai siti italiani per raggiungere

la Germania da dove poi ripartono con nuovi

documenti diretti verso la Cina, con soste lungo il

percorso in Olanda e Hong Kong. Secondo la

Commissione europea, circa l’81% dei traffici

mondiali di rifiuti utilizza vettori marittimi e, per il

periodo 2011-2012, ben 122 inchieste su 163

hanno interessato i porti italiani.

Nel caso di specie, invece, il carico era diretto ad

Hong Kong, senza nessuna tappa europea, per poi

raggiungere via terra la Cina. Tale anomalia

potrebbe avere una duplice accezione, in quanto

potrebbe sottolineare la mancata esperienza nel

campo dell’economia nera della ditta Levio Loris srl

o, al contrario, la completa fiducia nel losco lavoro

svolto per la produzione dei documenti falsi o,

ancora, nel supporto del comandante dei

carabinieri che ha più volte avvertito il

rappresentante legale della ditta riguardo ad

ispezioni e controlli delle forze dell’ordine.

Purtroppo si tratta, come più volte sottolineato, di

mere dinamiche commerciali contraffatte che

sfuggono, seppur sempre più di rado, ai controlli.

Emerge quindi la necessità di creare dei sistemi

sempre più cooperanti tra di loro al fine di ridurre i

margini d’azione delle organizzazioni criminali

anche a costo di rallentare i traffici commerciali.

Non si può accettare l’idea di fornire, in linea

generale, materie prime secondarie, come carta da

macero o plastica, ad aziende che non adottano i

minimi standard di garanzie ambientali e di tutela

dei diritti umani. Gli impianti devono godere dei

medesimi requisiti richiesti alle ditte italiane in

modo da evitare il riciclaggio sporco, dirty

dumping, e, inoltre, favorire una corretta

competizione tra le aziende nell’era della

globalizzazione. Il rifiuto non è sinonimo di

benessere poiché la sua lavorazione non garantisce

un miglioramento delle condizioni di vita della

popolazione asiatica, ma solo un aumento dei costi

sanitari e di ripristino ambientale.

Nel corso del 2012 si è registrato un decremento

dell’esportazione di materie plastiche che può

verosimilmente essere correlato ad un incremento

delle azioni di monitoraggio e delle procedure di

certificazione sempre più stringenti.

1La messa in riserva è una tipologia di stoccaggio di rifiuti espressamente finalizzata al recupero degli stessi. La definizione dettagliata è contenuta nel Testo Unico

Ambiente all’ art. 183.

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