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Riassunto dettagliato del libro 'Quarto Potere. Giornalismo egiornalisti nell'Italia Contemporanea' di Pierluigi Allotti
Storia del giornalismo (Sapienza - Università di Roma)
Riassunto dettagliato del libro 'Quarto Potere. Giornalismo egiornalisti nell'Italia Contemporanea' di Pierluigi Allotti
Storia del giornalismo (Sapienza - Università di Roma)
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Quarto Potere
IntroduzioneI compiti del giornalismo in democrazia sono quelli di selezionare e ricostruire i fatti correnti di
pubblico interesse, fare luce sugli affari pubblici con informazioni esatte e complete, orientare i
cittadini nelle loro scelte quotidiane e esercitare un controllo su governo e istituzioni. Per
quest’ultimo motivo lo storico britannico Thomas Babington Macaulay lo ha definito nel 1828 il
‘quarto potere’ dello stato. Il giornalista e storico Jean Lacouture identifica il giornalista come un
‘cacciatore di teste, che le riduce anche’ in quanto suo compito è quello di selezionare gli eventi
che ritiene possano interessare il pubblico e ricostruirli in articoli più o meno aderenti alla realtà;
ma anche come ‘fratello minore dello storico’ perché con esso condivide le operazioni di raccolta
delle informazioni, di messa in prospettiva di esse e della ricerca dei significati, sebbene al suo
contrario non conosca la fine della storia, e lavori su una quantità limitata di documenti. Paul Nizan
lo definisce nel ’39 come uno ‘storico dell’immediato.’
Il giornalista può anche essere attore della storia, influendo con i suoi articoli sugli eventi in corso e
può anche essere studiato dagli storici, divenendo oggetto, per il suo ruolo di testimone pubblico
del suo tempo.
Le prime storie del giornalismo vengono scritte in UK, dove nel 1702 era sorto il primo quotidiano
europeo, ‘The Daily Courant’, e nel corso del XIX secolo vengono pubblicate anche in Francia e
negli Stati Uniti, da giornalisti come Eugène Hatin e Frederic Hudson. Nel primo novecento anche
gli scienziati sociali come Weber iniziano ad interessarsi al giornalismo come fenomeno di
modernità.
In Italia gli studi storici nascono nei primi del Novecento grazie a Luigi Piccioni, professore di
letteratura dell’università di Torino che nell’anno accademico 1912-1913 istituisce il primo corso di
storia del giornalismo. La prima cattedra viene istituita nel 1927 presso la Regia facoltà di Scienze
Politiche dell’università di Perugia, dove si forma la futura classe dirigente fascista, e viene
assegnata a Paolo Orano, giornalista e deputato interessato al fenomeno dell’opinione pubblica
come manifestazione psicologica e politica. Altra figura di spicco è Francesco Fattorello, docente
all’università di Trieste e poi alla Sapienza di Roma presso Scienze Politiche, dove inaugura
l’insegnamento di storia del giornalismo nel 1935-1936. Riconoscente a Mussolini per aver istituito
l’insegnamento, convinto dell’individualità della storia del giornalismo nel campo delle scienze
storiografiche e direttore della ‘Rivista Letteraria’, svolge un importante lavoro di ricerca: i suoi
studi mirano a tracciare un quadro completo della storia giornalistica e sostiene che bisogni
spostarsi dalla storia alla scienza per studiare il fenomeno giornalistico sotto più aspetti. Nel ’39
fonda ‘Il Giornalismo’, un periodico specializzato che però chiude i battenti già nel ’42 a causa dello
scoppio della guerra. A guerra finita si concentra sullo studio sociologico del fenomeno e fonda
l’Istituto italiano di pubblicistica, presso la facoltà di scienze statistiche della Sapienza, che dirige
fino al 1975.
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In Francia Renouvin ne ‘L’histoire générale de la presse francaise’ sottolinea l’importanza di questi
studi per la conoscenza della vita sociale e politica e dei cambiamenti di mentalità, ma soprattutto
per lo studio dell’espressione pubblica delle opinioni (rapporto informazione-opinione).
Negli USA dopo il successo della pubblicazione dei ‘Pentagon Papers’ e del ‘Watergate’, Carey,
docente alla University of Illinois, pubblica ‘Journalism History’ in cui propone di adottare un
approccio culturale alla storia del giornalismo, indagando su ciò che le persone pensavano degli
eventi storici a cui assistevano (storia della coscienza).
Negli anni ’60 si riscoprono temi e problemi legati alla stampa e alle comunicazioni di massa e
vengono pubblicati i volumi di Giorgio Lazzaro ‘La libertà di stampa in Italia’ e di Valerio
Castronovo ‘La stampa italiana dall’unità al fascismo’. Dopo di loro negli anni ’70, molte ricerche
danno luogo a pubblicazioni come ‘La stampa quotidiana in Italia’ di Capecchi e Livolsi, ‘La stampa
italiana del dopoguerra’ di Murialdi e ‘La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media’
dell’americano Cannistraro ritenuto di fondamentale importanza per studi futuri sul fascismo e i
problemi culturali in genere. Murialdi fonda una rivista specialistica; Licata pubblica ‘la storia del
Corriere della Sera’ a cui faranno seguito studi di altri autori su ‘La stampa’, ‘Resto del carlino’,
‘Messaggero’, ‘Mattino’ e ‘Secolo’; Tranfaglia e Castronovo pubblicano il primo dei volumi sulla
storia della stampa italiana della prima età moderna.
Negli anni ’80 Carcano pubblica una ricerca sulla battaglia per la libertà di stampa condotta dalla
Federazione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI) dopo l’ascesa di Mussolini, e Murialdi il
volume ‘Storia del Giornalismo Italiano’ che diventa il testo più diffuso nei corsi universitari.
Negli anni ’90 si apre la stagione degli studi sugli altri media e la storiografia sul giornalismo
subisce una battuta di arresto, ma con gli anni 2000 l’interesse per la materia si rinnova e appaiono
biografie di protagonisti del giornalismo italiano come Montanelli, Pannunzio, Borsa, Longanesi e
De Bendet, ricerche sul regime fascista, storia del sindacato FNSI, studi su singole testate e sul
giornalismo a Torino negli anni preunitari.
Il modello del giornalismo italiano è contrassegnato sin dagli inizi da una forte vocazione politica,
che inciderà anche sulla natura della nostra democrazia, e dal grande giornale d’informazione in
forma ibrida, rivolto sia alle masse che all’élite.
Il quarto potere nell’Italia giolittianaIL GIORNALISMO ITALIANO DOPO IL 1848: nel 1848 il Regno Sabaudo introduce la libertà di stampa
con la Costituzione concessa dal re Carlo Alberto e lo riporta anche un articolo del ‘New York
Times’. Nel biennio rivoluzionario anche altri stati avevano concesso la libertà di stampa ma i
Savoia erano stati gli unici a mantenerla, perché la classe dirigente dava molta importanza al
giornalismo, che in poco tempo farà nascere localmente un’opinione pubblica informata di eventi e
cambiamenti politici. Nel 1850-60 ci sono 13 periodici diversi e un’agenzia di stampa, la Stefani. Nel
1861 con l’Unità d’Italia, lo statuto albertino e l’editto sulla stampa vengono estesi a tutto il
territorio e Milano diventa il centro della stampa italiana. Nel 1866 nasce ‘Il Secolo’ di Edoardo
Sonzogno, diretto dall’ex garibaldino Teodoro Moneta e di orientamento democratico; nel marzo
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1876 nasce il ‘Corriere della Sera’ di Eugenio Torelli Vollier, un foglio moderato che non si fa
scrupolo ad esprimere la propria opinione e che, secondo il volere del suo direttore deve rimanere
indipendente e al solo servizio dei lettori; Milano diventa capitale morale d’Italia. A Roma, nel 1878
si costituisce la prima associazione di giornalisti presieduta da Francesco De Sanctis; nel 1881
Cesana fonda ‘Il Messaggero’; Trieste ‘Il Piccolo’; Torino ‘La Tribuna’; ‘Resto del Carlino’ a Bologna;
‘Secolo XIX’ a Genova; ‘Il Gazzettino’ a Venezia; ‘Il Mattino’ a Napoli; la ‘Gazzetta Piemontese’
diventa ‘La Stampa’ nel 1895 e nel 1896 nasce ‘Avanti!’ organo del partito socialista.
L’ETA D’ORO DELLA STAMPA: alla fine del XIX secolo la stampa italiana, nonostante i notevoli
progressi, è ancora arretrata rispetto a quella dei paesi occidentali sia a livello tecnico-qualitativo,
sia riguardo alla circolazione e all’autonomia dalla politica. L’età d’oro della stampa va dal 1870 allo
scoppio della 1GM; in UK la stampa è dominata da press barons come Lord Northcliffe e suo
fratello Lord Rothermere, che possiedono imperi editoriali indipendenti dal governo; negli USA
negli anni ’30 dell’ottocento c’era stata una rivoluzione giornalistica con i ‘penny papers’, fogli a
basso costo e tiratura di massa, sostentati dagli introiti pubblicitari, capitanata da magnati come
Pulitzer e Hearst; in Francia dopo l’approvazione di un’estesa libertà ai giornalisti, la stampa era
cresciuta notevolmente.
In Italia, a causa degli alti tassi di analfabetismo, la stampa di fine Ottocento aveva ancora carattere
elitario, i quotidiani erano composti da poche pagine, avevano un aspetto austero ed erano
subalterni al potere. La Destra Storica dal 1862 aveva istituito un sistema per schedare i giornali, e i
vari governi che si sono succeduti fino al 1876, hanno sovvenzionato giornalisti e testate con fondi
segreti; anche la sinistra e Giolitti ne faranno uso (provvedimenti liberticidi di Luigi Pelloux
metteranno a dura prova la libertà di stampa).
IL CORRIERE DELLA SERA DI ALBERTINI: si deve a lui, a Frassati e a Bergamini l’avvento del giornale
d’informazione omnibus, rivolto sia alle masse che alle élite e che prende posizione su questioni
nazionali e internazionali per orientare l’opinione pubblica. Albertini diventa direttore del ‘Corriere’
nel 1900, dopo aver studiato legge all’università di Torino e aver trascorso otto mesi a Londra per
studiare l’organizzazione del ‘Times’, del quale ammira i meccanismi e il funzionamento. Il suo
insegnamento lo deve a Torelli, che gli imprime l’idea di un giornale onesto, autorevole e
indipendente, che si traduce nella creazione di un giornale nazionale, indirizzato prevalentemente
ai ceti medi. Per realizzare questi obiettivi, migliora la veste grafica, aumenta le pagine a 8, lancia
nuovi periodici (Il Corriere dei Piccoli, la Domenica del Corriere, La Lettura), incrementa introiti
pubblicitari, acquista nuove macchine tipografiche; sposta la sede in via Solferino poiché dotata di
tre telefoni; assume nuovi stenografi e rafforza la redazione. Il giornale non si è mai legato a
nessun partito e si è imposto come il mezzo attraverso cui il suo direttore, devoto alla destra
storica, si è opposto ai governi Giolitti, arrivando ad accusarlo di aver imposto una sorta di dittatura
basata su maggioranze parlamentari ottenute con arbitrio e corruzione.
LA STAMPA DI FRASSATI: Frassati ha studiato legge come Albertini, poi ha lavorato in Germania
come corrispondente per la Gazzetta Piemontese in concomitanza con un soggiorno di studio e nel
1894 ne è diventato comproprietario, imponendo il cambio di nome con ‘la stampa’ , privo di
connotazioni territoriali. Già vicedirettore, nel 1900 diventa direttore, e trasforma la testata in un
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grande giornale moderno prendendo ad esempio i quotidiani provinciali tedeschi,
economicamente solidi e molto prestigiosi. Rafforza la redazione, e rinnova i macchinari tipografici
acquistando una macchina in grado di stampare due copie contemporaneamente; nel 1899
introduce le linotype e diventa il giornale più diffuso del Piemonte (tra i primi in Italia). Concepisce
il giornale come uno strumento per intervenire attivamente nella vita politica e orientare l’opinione
pubblica ma, a differenza di Albertini, è un sostenitore di Giolit, con cui stringe un vero e proprio
sodalizio.
IL GIORNALE D’ITALIA DI BERGAMINI: esordisce collaborando con il ‘Resto del Carlino’ e nel 1891
assume la direzione di un giornale di Rovigo che trasforma in un foglio indipendente grazie alle
pubblicità che riesce ad attirare. Nel 1899 viene assunto al ‘Corriere della Sera’ come
corrispondente da Roma, e nel 1901 gli viene offerta la direzione di un nuovo quotidiano romano
ancora da lanciare, su iniziativa del gruppo liberale conservatore guidato da Sonnino, acerrimo
nemico di Giolit. Dopo averci pensato, accetta e decide di lanciarlo in autunno; viene chiamato ‘il
Giornale d’Italia’ ed ha sede nel Palazzo Sciarra. Nonostante gli iniziali problemi finanziari, la
colonna portante è Bergamini che lo rende dinamico e interessante grazie ai resoconti
parlamentari ampi e imparziali, all’uso di interviste anche degli avversari, alla cronaca locale
accompagnata da fotografie e alla terza pagina su temi culturali aperta a scrittori e intellettuali.
IL GIORNALISMO MODERNO: ‘Il Messaggero’ riscuote successo a Roma grazie al carattere
popolare, alla schietta indipendenza e alla non appartenenza ad alcun partito. ‘La Tribuna’
rappresenta l’altro giornale del popolo; il ‘Popolo Romano’ è un’autorità in materia finanziaria e
‘L’Osservatore Romano’ è sopraffatto dai liberali. A Napoli il quotidiano principale è ‘Il Mattino’ di
Scarfoglio che, dopo la fusione con il ‘Corriere di Napoli’, subisce un’ampia espansione al punto da
arrivare a competere con i maggiori quotidiani nazionali.
Nonostante lo stretto vincolo con la politica che ancora esisteva, in pochi anni il giornalismo
italiano si era modernizzato: la notizia era l’elemento dominante, e i giornalisti formavano quasi un
partito a sé, che poneva i propri interessi sopra a tutti gli altri, e per entrare nel quale bisognava
avere una forte raccomandazione. Prezzolini denuncia anche l’interesse maggiore per il guadagno
rispetto all’onestà e per la notorietà invece che per l’arte.
IL GIORNALISMO COME MISSIONE: Mussolini incarna il modello di giornalista combattente per una
causa e disinteressato al denaro descritto da Prezzolini. Nel 1912 assume la direzione dell’Avanti! e
si afferma come leader effettivo dei socialisti italiani; per lui il giornalismo è una missione e non un
mestiere e per prima cosa si riduce la paga. Il suo giornalismo è caratterizzato da uno stile
particolare, e conta più la causa rispetto alle notizie; questi due aspetti conferiscono un carattere
rivoluzionario al giornale, e nel 1913, scatena una campagna contro Giolit sfruttando gli eccidi
proletari, che gli costa un processo. Sempre nel 1913, appoggia due scioperi e fa propaganda
durante le elezioni attraverso il giornale. Con lo scoppio della 1GM passa all’interventismo,
rivedendo la sua iniziale posizione di neutralità condivisa con il partito, ma la direzione socialista
respinge questo suo cambio di rotta. Lui allora si dimette e fonda ‘Il Popolo d’Italia’ e questo gli
costa l’espulsione dal partito per tradimento.
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Propagandisti al servizio della patriaLA NOSTRA TERRA PROMESSA: con la Guerra in Libia del 1911-1912, il giornalismo italiano perde
autonomia di giudizio in favore del patriottismo. Come afferma il polacco Kapuscinski, nel
giornalismo di guerra l’obiettività assoluta va esclusa a priori, poiché essendo gli inviati coinvolti nei
conflitti, parteggeranno sempre per una delle parti. Va però evitato l’accecamento e il fanatismo,
cosa che i giornalisti italiani non hanno fatto, intraprendendo una campagna martellante a favore
dell’intervento italiano in Libia, rappresentata come Terra Promessa abitata da popolazioni da
civilizzare. La campagna di propaganda viene avviata da ‘L’Idea Nazionale’, seguito dai giornali filo-
giolittiani ‘La Stampa’ e ‘La Tribuna’, e in un secondo momento dal ‘Corriere della Sera’; contrari
erano solo i socialisti dell’ ‘Avanti!’ e intellettuali come Mosca, Ojet, Einaudi e Salvemini (il quale
fonda un settimanale a Firenze, ‘L’Unità’, per condurre la sua campagna antilibica e condannare il
comportamento degli altri giornali). Il 29 settembre 1911 Giolitti dichiara guerra all’Impero
Ottomano, e i giornalisti si assumono il merito di questa decisione, in realtà dettata da calcoli
diplomatici. Il capo del governo, preoccupato per la diffusione di informazioni tendenziose,
istituisce la censura telegrafica e telefonica, apre a Tripoli un ufficio stampa e censura per impedire
la pubblicazione di notizie militari riservate. I primi giorni i corrispondenti godono di libertà di
movimento e assistono in prima persona ai combattimenti, vengono rilasciati bracciali di
riconoscimento e tessere di libera circolazione; ma a metà ottobre Giolit richiama in vigore l’art.
141 del regolamento di servizio in guerra, che vieta ai giornalisti di seguire le operazioni militari,
costringendoli a scrivere basandosi sulle informazioni dei bollettini dell’Ufficio stampa emessi due
volte al giorno.
IL TRADIMENTO ARABO: il ‘Corriere’ di Albertini, la FNSI, attraverso il presidente Barzilai, e i
corrispondenti a Tripoli protestano contro la censura governativa senza risultati. Malgrado le
restrizioni, gli inviati italiani (tra cui Barzini, Fraccaroli, i fratelli Scarfoglio) partecipano con
entusiasmo all’impresa coloniale, rinunciando alla loro indipendenza e all’onestà verso il pubblico.
Per alcuni come Barzini, inviato del ‘Corriere della Sera’, questa rappresenta una scelta sofferta, tra
il disagio di non poter raccontare ciò che si vede e la paura delle proprie responsabilità. Sebbene
non possa pubblicare tali informazioni negli articoli, egli si sente comunque in pace con la
coscienza, inviando resoconti dettagliati sulla situazione effettiva in privato al suo giornale.
Per Barzini, che era già stato corrispondente per il Corriere della Sera a Londra, in Cina (durante la
repressione della rivolta dei boxer), in Argentina, nei Balcani, in Russia (durante la guerra russo –
giapponese, di cui aveva fornito l’unica corrispondenza pervenuta in Europa), e a Messina (durante
il terremoto, dove aveva seguito la vicenda anche per il ‘Daily Telegraph’); questa è la prima volta
in cui deve seguire un conflitto in cui è coinvolto il suo paese, e già prima della partenza temeva un
deprezzamento professionale se non fosse stato in grado di fare servizi. Appena arrivato, riferisce
la partenza di molti che godevano della cittadinanza italiana e, allo scoppio delle ostilità, dei
bombardamenti e dell’occupazione della città di Tripoli da parte degli italiani. Bevione, della
‘Stampa’, riferisce anche lui della gloriosa conquista italiana e Piazza della ‘Tribuna’ parla di un
diffuso sollievo per l’arrivo degli italiani.
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Ma la popolazione araba locale, in realtà, nutriva tutt’altri sentimenti, come viene dimostrato il 23
ottobre con l’attacco a sorpresa a Sciara Sciat, dove perdono la vita molti uomini italiani. La
reazione italiana non si fa attendere: viene messa a ferro e fuoco la città di Tripoli e più di mille
arabi vengono impiccati. L’Avanti allora si scaglia contro gli inviati, ma essi stessi invece di fare un
mea culpa, accusano i locali di tradimento e parlano di ‘congiura sventata’ dai ‘valorosi italiani’ (De
Frenzi del Giornale e Barzini del Corriere).
GUERRA DI PAROLE: dopo Sciara Sciat, i rapporti tra inviati e autorità militari si inaspriscono: gli
autori di articoli sgraditi vengono espulsi nonostante le proteste, e cresce la tensione tra stampa
italiana e estera, che sfocia in una guerra di parole, culminata con l’attentato all’inviato francese
‘Jean Carrère’ da parte di un sicario turco, perché ritenuto amico dell’Italia. I giornali stranieri
vengono accusati di diffondere notizie false a danno dell’Italia e il 31 ottobre 1911 il governo
italiano interviene per smentire la disfatta italiana. Nasce anche l’opinione che dietro alla
divulgazione di queste notizie ci siano gli speculatori finanziari ebrei-tedeschi (‘La Stampa’, ‘Il
Giornale d’Italia’) e Barzini si scaglia contro l’agenzia britannica Reuter, il cui corrispondente locale
era un suddito ottomano di razza israelitica. Il comportamento di questi ‘giornalisti-soldati’,
apprezzato dai militari, è stato criticato da Prezzolini sul ‘Resto del Carlino’ e da ‘Mussolini’ sulla
‘Folla’ per l’imitazione dello stile energico e immediato di Barzini e per la prosa guerresca che si era
diffusa (barzinismo). Ma la critica più estrema arriva dallo scrittore Renato Serra che esprime
riprovazione per le corrispondenze offerte al pubblico e per Barzini in particolare; la sua totale
sfiducia per i giornalisti, definiti i ‘ballisti’; e la sua idea che nonostante la censura, sia possibile
narrare la realtà effettiva dei campi di battaglia, perché giornalisti e soldati sono due fatti a sé tra
cui non sussiste nessun rapporto di identità.
IL MAGGIO RADIOSO DEI GIORNALISTI: nella primavera del 1915 i sostenitori della guerra libica, si
schierano per la maggior parte a favore dell’intervento italiano nella Grande Guerra, conducendo
una campagna interventista, culminata nelle ‘radiose giornate’ di maggio. Questa volta portavoce
della causa si fanno il ‘Corriere’ di Albertini e il ‘Popolo d’Italia’ di Mussolini, mentre i filo-giolittiani
e l’Avanti! sono per la neutralità. Allo scoppio del conflitto il ‘Corriere’ approva la linea neutrale di
Salandra, ma poi cambia posizione pubblicando un articolo dell’inviato da Roma Andrea Torre nel
quale egli rivendica il dovere della stampa di esporre la realtà e afferma che dalla prolungata
neutralità ne deriverebbe un danno. Salandra giudica inopportuno l’articolo e Albertini spiega la
sua posizione a Salandra, sostenendo che bisogni impedire a tutti i costi la stabilizzazione di
un’egemonia in Oriente e nell’Adriatico. Inizia una campagna di propaganda con corrispondenze
estere, editoriali, commenti politici e articoli di terza pagina. Il ‘Popolo d’Italia’, che aveva riscosso
uno strepitoso successo in breve tempo, conduce una violenta campagna capitanata da Mussolini,
che in un articolo di fondo arriva a chiedere la fucilazione di deputati e la soppressione del
parlamento. I giornalisti, quasi tutti, interventisti organizzano un’adunata a Roma presso la sede
dell’Associazione della stampa in piazza Colonna il 14 maggio 1915 a cui partecipano Albertini,
D’Annunzio, Bergamini, Salvemini, Prezzolini, Ojetti, Davanzati, Oliva e altri.
CENSURA DI GUERRA: in vista di una censura simile a quella della Guerra in Libia, 4 direttori
(Albertini, Bergami, Oliva de ‘L’Idea Nazionale’ e Malagodi della ‘Tribuna’ propongono la
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militarizzazione degli inviati per consentire loro l’accesso alle zone di combattimento, ma non
ottengono nulla. Allo scoppio della guerra tutti i paesi adottano sistemi di censura per controllare
le informazioni: in UK viene creato il Press Bureau per controllare i telegrammi e la Wellington
House, l’ufficio segreto per la propaganda di guerra; in Francia viene istituita la censura preventiva,
e nell’estate del 1914 viene adottata la censura dei dispacci telegrafici, proclamato lo stato
d’assedio (che implica la possibile sospensione delle pubblicazioni da parte dei militari) e istituito
un ufficio stampa presso il ministero della guerra per controllare le notizie militari prima della
pubblicazione; in Germania nasce il Kriegspresseamt, ufficio stampa di guerra sotto gli alti
comandi; in Italia finché il paese era rimasto neutrale era stavo rivolto un invito a non pubblicare
notizie di tipo militare, pena la denuncia all’autorità giudiziaria, nel marzo 1915 con l’approvazione
della legge per la difesa economica e militare dello stato si inasprisce la repressione dello
spionaggio e la pubblicazione di notizie riservate, e il 23 maggio viene introdotta la censura
preventiva con regio decreto (la parola censura non compare mai per non inimicarsi l’opinione
pubblica). I maggiori giornali, primo tra tutti Albertini, protestano per le restrizioni spesso in via
privata per non inasprire i rapporti tra l’opinione pubblica e il governo; Albertini crede infatti che
una censura troppo severa costituisca un impedimento alla propaganda bellica e vorrebbe avere
l’autonomia di decidere cosa pubblicare e cosa no, pur sapendo che non tutte le notizie di guerra
possono essere riportate sui giornali.
LA CAPORETTO DEI GIORNALISTI: le autorità continuano a nutrire una profonda diffidenza nei
confronti dei giornalisti, ma di contraccolpo con l’ingresso in guerra, la richiesta dei giornali è
aumentata (Filippo Sacchi del ‘Corriere’ racconta di come la gente aspetti ogni sera l’arrivo dei
quotidiani per poi rimanere delusa dalle poche notizie, e ritornare il giorno dopo desiderosa di
saperne di più). A tre mesi dall’intervento viene deciso un allentamento delle restrizioni, dato che il
paese non poteva essere ancora tenuto all’oscuro, e il Comando Supremo autorizza in via
sperimentale un gruppo di giornalisti a recarsi al fronte (Bassi per ‘La stampa’, Barzini per il
‘Corriere della Sera’, Vicentini per il ‘Popolo d’Italia’ ecc.) tra cui anche giornalisti del ‘Temps’ del
‘Figaro’, del ‘Times’ e del ‘Daily Telegraph’. Nel 1915 viene istituito a Udine un Ufficio stampa
presso il Comando Supremo, in cui lavora Ojetti, esperto di propaganda e firma del Corriere, e nel
1916 viene autorizzata la permanenza di pochi corrispondenti nella zona delle operazioni. Tuttavia i
giornalisti continuano a fornire una versione ottimistica della guerra, lasciando fuori tutti gli orrori
di essa e, come denuncia Fraccaroli, con il divieto di lasciare Udine i giornalisti possono solo
riportare/inventare articoli sulla traccia di quello che viene riportato dai bollettini. Nell’ottobre ’17,
con l’attacco austriaco a Caporetto, viene imposto ai giornalisti anche il silenzio e solo il 25
novembre riescono a tornare a scrivere, dopo l’avvicendamento di Cadorna con Diaz e le numerose
proteste di Albertini; vengono autorizzati solo articoli di 500 parole e privi di esagerazioni, che
venivano recriminate agli inviati anche da alcuni giornali come il ‘Resto del Carlino’ e ‘Il Secolo’, ma
ciononostante usciranno puliti anche dall’inchiesta su Caporetto dell’anno successivo. Anche
francesi e inglesi partecipano attraverso l’autocensura, alla propaganda per sostenere lo sforzo
bellico.
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La rivoluzione giornalistica del fascismoUN GIORNALISTA ALL’ASSALTO DEL POTERE: dopo la fine della guerra nel novembre 1918, nel 1919
il governo Nitti sopprime la censura. Durante il periodo di guerra i quotidiani si erano consolidati
arrivando a vendere molte copie (mezzo milione per il ‘Corriere della Sera’) e si era verificato
l’ingresso della grande industria nel settore della carta stampata che aveva portato i socialisti nel
’18 a presentare un progetto di legge sulla trasparenza delle fonti di finanziamento, che non
ricevette alcun esito. Il ‘Popolo d’Italia’ invece era stato colpito da una profonda crisi dovuta alla
partenza al fronte di Mussolini come bersagliere nell’agosto del 1915 e alla conseguente direzione
del giornale da parte di redattori per lo più privi di fiuto politico e sensibilità tranne De Falco,
Dinale e Roberto. Nel ’16 erano sopraggiunte anche difficoltà economiche dovute all’aumento dei
costi e alla diminuzione dei finanziamenti a causa del carattere polemico del giornale. Nel giugno
1917 però, torna Mussolini e ne riassume la direzione, abbracciando un nazionalismo
rivoluzionario fondato sulla nuova aristocrazia nata nelle trincee (trincerocrazia) che dovrebbe
secondo lui assumere la guida del paese. Dopo lo spostamento a destra cambia il sottotitolo del
giornale e nel dicembre 1918, chiudendo l’anno, sostiene che il suo obiettivo sia fare un giornale
d’idee e di notizie che si compensino a vicenda. Nel 1919 fonda i fasci italiani di combattimento e
addita il ‘Partito Socialista Ufficiale’ come reazionario e in aprile in un’intervista al Giornale d’Italia
si assume la responsabilità morale degli scontri tra fascisti e socialisti scoppiati a Milano. Sempre
nello stesso mese attacca Frassati tramite il suo giornale e sul finire dell’anno polemizza con il
governo Nitti per aver reintrodotto la censura dopo l’impresa di Fiume di D’Annunzio.
FILOFASCISTI E ANTIFASCISTI: i propositi di Mussolini per il 1920 sono la difesa della vittoria,
l’opposizione al bolscevismo e al governo Nitti, la necessità di un rinnovamento politico e
economico dello stato. Il movimento si sposta a destra e si fa difensore dei reduci, della borghesia
produttiva e dei ceti medi, ma rimane marginale per tutto l’anno. Nel 1921 diventa un movimento
di massa, con le squadre armate che si impongono come strumento della reazione borghese al
partito socialista. La crescita dei fasci viene accolta positivamente dall’opinione pubblica
conservatrice, liberale e cattolica: Albertini, ostile ai socialisti, giustifica lo squadrismo come
risveglio nazionale; Bergamini lo giudica l’ala giovane del liberalismo. Frassati, nominato
ambasciatore a Berlino da Giolitti, aveva lasciato la direzione de ‘La Stampa’ all’antifascista
Salvatorelli contrario a ogni forma di violenza perché antiliberale, che si rende conto per primo
dell’ambizione al potere di Mussolini attraverso la soppressione delle libertà costituzionali
(editoriale luglio 1922). Altri oppositori sono Missiroli, che si scaglia direttamente contro Mussolini;
Gramsci, Gobetti e Amendola. Gramsci si iscrive nel 1913 al partito socialista, scrive per il Grido del
Popolo e per l’Avanti e nel ’19 fonda insieme a Tasca, Terracini e Togliatti ‘L’ordine Nuovo’, organo
del partito comunista d’Italia. Gobetti, liberale di sinistra simpatizzante dei bolscevichi russi e
collaboratore dell’Ordine Nuovo, fonda nel 1922 la rivista ‘La Rivoluzione Liberale’ e conduce una
forte opposizione al fascismo; nel 1923 viene arrestato e denunciato all’autorità giudiziaria per
rapporti con i comunisti sovversivi. Amendola, giornalista liberale, collabora con il ‘Resto del
Carlino’ come corrispondente da Roma e con il ‘Corriere’ di Torre al quale nel 1920 subentrerà.
Viene eletto in parlamento nel ’19, nel ’21 e nel ’24 e nel 1922 fonda il quotidiano ‘Il Mondo’ con
Ciraolo e Torre, con cui accusa il fascismo di essere un istema totalitario.
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L’ARMA DEL SEQUESTRO: dopo la marcia su Roma nel ’22, Mussolini lascia la direzione al fratello
Arnaldo e fino al ’26 si serve del sequestro come arma per mettere i giornali di opposizione in
condizione di inferiorità rispetto a quello filo-governativi. Tra il 29 e il 30 ottobre 1922 i fascisti
avevano impedito l’uscita de l’Avanti, la Giustizia e il Corriere della Sera a Milano, minacciato il
direttore de ‘Il Lavoro’ e sospeso la sua pubblicazione a Genova, occupato e distrutto le sedi del
Paese, l’epoca, il comunista e il monocolo a Roma. Il presidente del FNSI aveva chiesto lo stesso
giorno a Mussolini di preservare la libertà di stampa e lui gli risponde il 1° novembre dicendo che si
tratta di un momento di passaggio ma che la stampa avrebbe dovuto guadagnarsi la sua libertà che
è sia un diritto che un dovere. Salvatorelli si oppone a queste parole su ‘La Stampa’ e come lui
anche il Corriere e il Mondo; tuttavia mussolini precisa che non vuole applicare misure restrittive
alla libertà. Il 12 luglio 1923 viene adottato un primo decreto che prevede che il direttore sia il
gerente responsabile di un giornale e che i prefetti abbiano un potere di diffida nei confronti dello
stesso. Il 14 il ‘mondo’ commenta il provvedimento denunciando l’arbitrio del governo nel bloccare
gli oppositori, e così fanno anche il ‘Corriere della Sera’ che lo giudica più grave di quelli di Pelloux
e ‘La Stampa’ che pone l’accento sul vasto e indeterminato potere del prefetto, definita
inammissibile anche dal FNSI. Mussolini afferma di non volerlo applicare subito.
DECRETO LUGLIO 1924: il 27 ottobre 1923 in un discorso all’Associazione lombarda dei giornalisti,
Mussolini ricorda con nostalgia il passato da giornalista, afferma di esserne un avido lettore e che
essi sono un mezzo importante per lo stato per conoscere i bisogni e le aspirazioni del popolo,
concludendo che vorrebbe una collaborazione tra giornalismo e nazione. In pratica pretende che i
giornalisti divengano suoi sostenitori in nome degli interessi della nazione, che egli identifica con il
fascismo; sicché dopo l’insurrezione della stampa a seguito del delitto Matteotti il 10 luglio 1924,
Mussolini riesuma il decreto del ’23 finora rimasto inapplicato, e lo inasprisce permettendo ai
prefetti di sequestrare i giornali qualora sussistano i presupposti della diffida. Insorgono tutte le
associazioni giornalistiche, compresa la FNSI che invita i giornali a non nominare rappresentanti
nelle commissioni di diffida e a rifiutare la nomina qualora venga assegnata d’ufficio. A Milano si
svolge un’assemblea straordinaria della Lombarda che si conclude con l’approvazione di un ordine
del giorno presentato da Borsa e a Roma si costituisce un comitato per la difesa della libertà di
stampa a cui partecipano il Corriere, la stampa, il mondo, l’avanti e la voce repubblicana. Il 27 luglio
i fascisti organizzano un convegno presso la casa del fascio a Milano su iniziativa di Farinacci e
Giuliani e creano un nuovo sindacato regionale di categoria, approvando un ordine del giorno che
batte sul compito etico e sul dover adeguarsi alle necessità storiche.
LA NUOVA LEGGE SULLA STAMPA: a dicembre 1924 il ministro dell’interno Federzoni e il ministro
della Giustizia Oviglio presentano alla camera un disegno di legge che introduce il reato di
attentato contro il prestigio interno dello stato per responsabilizzare la stampa e creare con essa un
ruolo di amicizia. La FNSI, presieduta da Meoni definisce illiberale e faziosa tale misura e invita a
protestare le associazioni federate. Poco prima dell’instaurazione della dittatura, in dicembre 1925,
Mussolini convoca i giornalisti fascisti a cui comunica il controllo diretto da parte del partito e due
giorni dopo viene deciso l’inasprimento della repressione contro i giornali di opposizione con
perquisizioni e sequestri. Le proteste continuano con la pubblicazione del libro ‘La libertà di
stampa’ di Borsa sulla storia di UK, Francia e USA, una petizione al re contro le violazioni del
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governo firmata da Corriere della sera, la Stampa e Il giornale d’Italia e altri 25 quotidiani e una
nuova riunione dell’FNSI a cui segue un comizio alla Casa del Popolo a Roma, dove Amendola
subisce una bastonatura. Infine il 1° maggio esce il manifesto degli intellettuali antifascisti
promosso da Croce in antitesi a quello di Gentile degli intellettuali fascisti, e pubblicato su ‘Il
Mondo’. Il DDL viene approvato e la nuova legge sulla stampa si compone di 7 articoli di cui i più
importanti vedono l’introduzione del direttore responsabile e iscritto all’albo professionale dei
giornalisti e la creazione di un ordine professionale con cui disciplinare e regolare la stampa.
FASCISTIZZAZIONE DELLA STAMPA: nel 1925 vengono estromessi Albertini e Frassati e rimpiazzati
da Ojetti al Corriere della sera e Torre a ‘La stampa’, nel 1926 viene sciolta la FNSI, e la stampa
antifascista viene bandita dopo il fallimento dell’attentato al duce per mano di Zamboni, la morte
di Gobetti e Amendola in Francia e l’arresto di Gramsci. Nel 1928 si tiene il primo Congresso del
sindacato nazionale fascista dei giornalisti con segretario generale Amicucci; 75 giornalisti possono
lavorare senza ricoprire incarichi di responsabilità perché iscritti all’albo ma esclusi dal sindacato,
non essendo iscritti al PNF. Espressione della stampa fascista sono a Roma ‘L’Impero’ e ‘Il Tevere’ e
in provincia ‘Cremona Nuova’ di Farinacci e ‘Corriere Padano’ di Balbo; per i fascisti Mussolini ha
compiuto una rivoluzione nella stampa da incontrollata a nazionale e Valori dipendente del
‘Corriere della Sera’ spiega in una lettera al direttore come ci sia stata violazione della libertà di
stampa perché sono stati eliminati tutti i giornali di opposizione ma come, tutto sommato, i
giornali fascisti o simpatizzanti abbiano mantenuto uno spazio di manovra indipendente.
Il giornalismo in un regime totalitarioGIORNALISMO FASCISTA: il cardine del sistema è l’Ufficio stampa del capo del governo diretto dal
1928 la Lando Ferretti, giornalista e dirigente sportivo già stato membro del comitato direttivo
della ‘Gazzetta dello Sport’ e presidente del CONI, che è strutturato in due sezioni: una per la
stampa italiana e una per quella estera. Nel 1931 l’incarico passa a Polverelli, già capo della
redazione romana del Popolo d’Italia, che irrigidisce i controlli. Nel 1933, dopo la visita di
Goebbels, Polverelli viene sostituito dal genero di Mussolini, Ciano che allarga le sfere di
competenza e di controllo, crea una sezione per la propaganda, e aumenta la diffusione di ‘veline’,
le istruzioni impartite ai giornali su cosa e come scrivere. Nel 1934 l’Ufficio stampa viene abolito e
viene creato un sottosegretariato per la stampa e la propaganda affidato sempre a Ciano che
estende i controlli anche a radio e cinema e nel 1935 viene innalzato al rango di ministero. Al
termine della guerra d’Etiopia, Ciano diventa Ministro degli Esteri e nel 1936 viene nominato Alfieri
al ministero della stampa e della propaganda (già sottosegretario di Ciano nel 1935); nel 1937 il
ministero assume la denominazione di Ministero della Cultura Popolare MINCULPOP e i dipendenti
diventano 800.
I GIORNALISTI DEL REGIME: negli anni ’30 i giornalisti e i pubblicisti iscritti al SNFG sono più di 4000
e dopo il 1928 vengono ammessi anche giornalisti già antifascisti come Missiroli, Cecchi e Ansaldo.
Missiroli, direttore del ‘Resto del Carlino’ tra il ’19 e il ’21 e del ‘Secolo’ dal’21 al ’23, nasce come
filo-nottiano favorevole a un’apertura ai socialisti riformisti e nel ’24 diventa capo-redattore della
sede romana della Stampa da cui denuncia pubblicamente Mussolini per il delitto Matteotti. Nel
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1925, in una lettera a Gobetti (Monarchia e fascismo) accetta sostanzialmente il fascismo come
movimento popolare che ha conservato i suoi caratteri. Giovanni Ansaldo, capo-redattore del
quotidiano genovese ‘Il Lavoro’ dal ’21 al ’25, collaboratore de ‘La Rivoluzione Liberale’ di Gobetti e
dichiarato antifascista, viene arrestato nel 1926 mentre tenta di espatriare e condannato al confino
per cinque anni, ma nel 1927 viene messo in libertà provvisoria dopo un ricorso. Torna a ‘La
stampa’ e poi nel ’29 al ‘Lavoro’ ma nel 1936 si converte al fascismo e assume la direzione di un
quotidiano di Livorno dei Ciano, ‘Il Telegrafo’. Molti altri intellettuali del manifesto crociano come
Caprin, Moretti e Tilgher si convertono, mentre Barzini aveva aderito già prima dell’instaurazione
della dittatura e dopo una decina di anni a New York dove aveva fondato il giornale di propaganda
fascista ‘Corriere d’America’, torna in Italia e diventa direttore del ‘Mattino’ di Napoli dal 1932;
viene nominato senatore del regno nel 1934 e collabora con ‘Il Popolo d’Italia’ e altri giornali fino
al 1943. Nel frattempo una nuove generazione di giornalisti si forma in pieno ventennio tra cui
Barzini junior, Montanelli, Lilli, Gorresio, Longanesi, Pannunzio.
LA GENERAZIONE DEI ‘FRATELLI MAGGIORI’: le due generazioni vengono definite da Enzo Forcella i
‘padri’ e i ‘fratelli maggiori’; mentre i primi avevano aderito al fascismo per svariati motivi, i
secondi compiono una scelta consapevole e dal forte significato politico, dato che negli anni ’30
vuol dire mettersi a servizio del regime. Gorresio, iscritto a Giurisprudenza e alla scuola fascista di
giornalismo fondata da Amicucci, viene assunto nel 1936 al ‘Messaggero’ diretto da Francesco
Malgeri, grazie all’interessamento di Missiroli. Barzini junior, formatosi alla Columbia University di
New York, viene assunto come praticante dal ‘Corriere della Sera’ nel 1931 e si afferma in poco
tempo come uno dei giornalisti più brillanti del suo tempo. Lilli viene assunto anch’egli al ‘Corriere
della sera’ nel 1935, dopo la laurea in giurisprudenza, una collaborazione dal 1929 al 1932 per ‘La
Tribuna’ e un lavoro come traduttore di dialoghi nella Metro Goldwyn Mayer, casa di produzione
americana. Montanelli, dopo le lauree in giurisprudenza e scienze politiche, viene assunto dal
‘Universale’, periodico radical-fascista diretto da Ricci, nel 1933, collabora con il ‘Popolo d’Italia’ e
nel 1934 viene assunto a Parigi come caporedattore de ‘La Nuova Italia’ da cui viene licenziato per
aver offeso alcune istituzioni fasciste. Brancati, non viene assunto né al ‘Corriere della Sera’ per
l’eccessivo numero di collaboratori, né a ‘La Stampa’ perché il direttore Signoretti aveva giudicato i
suoi articoli irrilevanti, nonostante l’intercessione di Ciano.
Barzini junior e Lilli si affermano come inviati di punta del Corriere: il primo firma dei servizi
dall’America centrale e dagli USA, segue la guerra d’Etiopia (corrispondenza sulla presa di Azbì e
partecipazione ai combattimenti per liberare una colonna italiana), la guerra cino-giapponese
(bombardamento cannoniera americana Panay dove muore Sandro Sandri della ‘Stampa’). Lilli
invece viene inviato in Etiopia e poi in Spagna dove assiste alla presa di Madrid da parte dei
franchisti. Montanelli partecipa alla campagna d’Etiopia e dal ’36 lavora per il quotidiano ‘La Nuova
Eritrea’ per il quale continua anche tornato in Italia. Nel 1939 si reca in Spagna come inviato del
‘Messaggero’ e, dopo aver deriso le autorità militari, viene mandato per punizione in Estonia a
dirigere l’Istituto Italiano di cultura di Tallinn.
Barzini junior e Gorresio vengono accusati il primo di spionaggio a favore degli inglesi mentre era
corrispondente da Londra per il Corriere della Sera e viene condannato a 5 anni di confino ad
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Amalfi; mentre Gorresio viene richiamato in patria dalla direzione del ‘Messaggero’ perché
sospettato di spionaggio in favore della Francia, ma dopo un’inchiesta viene assolto e subito
assunto dal Popolo di Roma.
LA CAMPAGNA ANTISEMITA: i giornalisti hanno contribuito alla campagna antisemita dal 1937,
appena dopo la nascita dell’asse Roma-Berlino, al 1945, anno della caduta del regime. Lilli riprende
lo stereotipo della ‘piovra ebraica’ raccontando di come nel 1938 gli ebrei (1/10 della popolazione)
possiedano il 60/70% delle attività commerciali, facendo assumere al l’antisemitismo dei romeni
connotazioni paradossalmente irredentiste; il ‘Giornale d’Italia’ pubblica il ‘Manifesto della razza’
preludio alle leggi razziali; Missiroli (scrive sul Messaggero con lo pseudonimo di Spectator) elogia
il libro di Interlandi ‘Contra judaeos’ e anche il ‘Corriere’ ne esalta la semplicità e la persuasività. Il
principale quotidiano fascistizzato è il corriere, con articoli di Barzini jr. Monelli, Aponte, Tomaselli
imperniati di pregiudizi anche durante la 2GM, e Borelli (direttore del Corriere) protesta al
Minculpop perché le altre testate continuano ad acquistare pubblicità da ditte ebraiche.
UNA SPINA NEL FIANCO: i corrispondenti da Roma hanno una loro associazione presieduta da
Hodel, filo-nazista, e chi pubblica articoli sgraditi viene convocato dal Ministero degli Esteri e
redarguito, espulso dal paese (George Seldes del ‘Chicago Tribune’ per aver scritto del delitto
Matteotti), messo al bando (New York Times al bando per due anni su tutto il territorio per aver
detto che gli italiani sono in catene e il regime può crollare). Nel 1935, con lo scoppio della Guerra
d’Etiopia e l’applicazione delle sanzioni della Società delle Nazioni, vengono espulsi 20 membri
dell’associazione stampa estera e Alfieri smette di ricevere la direzione dell’associazione in udienza.
In concomitanza della campagna antiebraica, si acuiscono le tensione con l’Osservatore Romano, il
giornale del Vaticano diretto da Dalla Torre che aveva già assunto un ruolo guida sin dal 1920, con
la firma dei Patti Lateranensi nel 1929 trasferisce redazione e tipografia all’interno del Vaticano e
non deve più sottostare alle leggi italiane, sebbene non fosse mai stato vittima di sequestri o
diffide. Adesso può far sentire liberamente la sua voce e così fa nel 1931 in occasione dello scontro
con il regime sull’azione cattolica e l’educazione dei giovani, e nel 1938 sulla persecuzione degli
ebrei. Tra il 1936 e il 1938 l’Osservatore si fa testimone del discorso del cardinale Pacelli che esorta
a combattere il moderno paganesimo e la ‘statolatria’, della condanna di Papa XI al razzismo nazista
nell’enciclica Mit Brennender Sorge e del discorso del papa al Collegio di Propaganda Fide, in cui
sostiene l’unitarietà della razza umana e si domanda perché l’Italia abbia deciso di seguire la
Germania. Attacca ‘La Difesa della Razza’ di Interlandi e informa l’opinione pubblica delle violenze
contro gli ebrei in Germania culminata con La notte dei Cristalli l’8 novembre 1938. Dichiara
contraria alla religione la legge che vieta i matrimoni con gli ebrei e dà risonanza all’omelia di
Schuster che confuta la dottrina razzista delle regioni nordiche.
L’ARRESTO DI GONELLA: la pubblicazione di autorevoli dichiarazioni di condanna del fascismo sull’
‘Osservatore’ desta preoccupazioni tra le autorità perché si tema possano essere riprese nelle
omelie e indirizzare i fedeli. Alla morte di Pio XI gli succede Pio XII (Cardinale Pacelli) e il quotidiano
sale a 100000 copie perché rivendica una certa libertà di apprezzamento e al suo interno i lettori
riescono a trovare anche notizie provenienti da fonti estere censurate sulla stampa fascista. Sono
particolarmente seguite due rubriche curate da Guido Gonella: Acta Diurna e Problemi del giorno.
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Gonella era entrato nella redazione nel 1933 e si era occupato della crisi e dei conflitti dopo
l’ascesa di Hitler manifestando un certo pessimismo per il destino dell’Europa; i suoi articoli
attingevano sia a informazioni proveniente dalla stampa estera sia a notizie raccolte di prima mano
attraverso i canali diplomatici del Vaticano.
Gonella, studioso di filosofia del diritto e docente universitario, aveva sviluppato una netta
avversione per i totalitarismi e nei suoi scritti aveva rivendicato il valore della persona umana; negli
articoli si scontra soprattutto con l’anti-religiosità del nazismo e con il bolscevismo russo, dal ’36 si
dedica anche al conflitto spagnolo denunciando le violazioni dei diritti umani e incoraggiando
tentativi di mediazione e pacificazione e nel ’37 condanna l’antisemitismo. Nel settembre 1939,
allo scoppio della 2GM, viene arrestato Gonella su ordine espresso di Mussolini per aver offeso con
i suoi articoli Roma e Berlino: viene fermato mentre si trova a Capranica e condotta presso la
questura di Roma e poi a Regina Coeli. Il gesto suscita preoccupazioni in Vaticano, e del caso si
interessa il papa in persona che, attraverso l’ambasciatore italiano in Vaticano Pignatti, chiede il
rinvio alla famiglia di Gonella. Il duce pensando di aver dato un esempio e di aver fatto mutare
tono all’ ‘Osservatore’ lo rilascia il giorno seguente con un ammonimento che si tramuta poi in
diffida, ma al contrario la redazione del giornale vede nella rapida risoluzione del caso un trionfo
della chiesa sul regime.
L’ASSE GIORNALISTICO ROMA-BERLINO: nel maggio 1939, dopo aver siglato il Patto d’Acciaio, si
intensificano i rapporti tra il regime e il Reich riguardo al settore della propaganda. In giugno
Goebbels invita Alfieri al rapporto annuale del suo ministero e a luglio alla mostra d’arte tedesca a
Monaco, occasione in cui firmano alcuni accordi per rafforzare la loro collaborazione culturale,
come dice Goebbels all’inviato Paolo Monelli del ‘Corriere’. Nell’autunno 1940 si riuniscono
nuovamente giornalisti italiani e tedeschi per discutere della costituzione di un ente giornalistico
internazionale ispirato ai principi del nuovo ordine dell’Asse e per l’Italia partecipano il segretario
del SNFG Guglielmotti e il direttore del ‘Giornale d’Italia’ Gayda. L’unione tra le associazioni
nazionali dei giornalisti nasce nel 1941 a Vienna e aderiscono gli otto paesi che finora avevano
aderito al patto tripartito, con lo scopo di riunire i giornalisti delle potenze dell’asse al servizio dello
stato. Il I convegno si tiene a Venezia nell’aprile ’42 e un II si svolge a Vienna nel giugno 1943;
nell’ambito del secondo viene allestita la mostra sulle distruzioni di opere d’arte ed edifici storici
provocate dai bombardamenti alleati e prendono parte alla manifestazione 400 giornalisti
provenienti da 18 nazioni, con la delegazione italiana guidata da Guglielmotti che conta una
cinquantina di esponenti, seconda numericamente solo alla Germania. Guglielmotti che nei giorni
precedenti aveva espresso dubbi e preoccupazioni riguardo l’organizzazione del convegno in piena
guerra, apre il discorso di inizio lavori esaltando questa circostanza.
L’ULTIMA PROVA: il riavvicinamento dell’Italia alla Germania provoca malcontento nell’opinione
pubblica, ma i principali commentatori, seguendo le direttive del minculpop esprimono
entusiasmo. Missiroli all’arrivo del Fuhrer a Roma nel 1938 esalta la Germania e il suo ritorno
all’antica potenza; Valori nel maggio 1939 parla del Patto d’Acciaio come di un documento di
importanza storica che schiude una fase lucente della civiltà europea. Nonostante le
preoccupazioni dell’opinione pubblica, il regime riesce a mantenere il consenso almeno fino
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all’ingresso nella 2GM nel 1940, mentre cede completamente dopo l’estate del ’42 nella
prospettiva di una disfatta totale. I giornalisti inviati su tutti i fronti sono stremati: Montanelli e Lilli
arrivano a chiedere a Borelli (direttore Corriere della Sera) di essere richiamati in patria perché
provati fisicamente e mentalmente. Il primo inizia a distaccarsi dal fascismo e ripiega su articoli che
riguardano il privato, mentre Lilli continua fino all’ultimo a scrivere e fare propaganda. A differenza
della 1GM qui i giornalisti hanno un ruolo fondamentale nel mobilitare e incitare la popolazione
attraverso i loro articoli alla difesa della patria dall’attacco alleato al sud: sul Telegrafo (Ansaldo) e
sul ‘Corriere della sera’ (Buzzati e Negro) viene esaltato l’eroismo delle popolazioni di Napoli e
della Sicilia che resistono ai bombardamenti e specificate le conseguenze tragiche a cui avrebbe
portato una resa; Lilli evoca Dante per definire l’offensiva in Sardegna (matta bestialità) e rispolvera
la legge del taglione. Dopo lo sbarco in Sicilia del 10 luglio 1943 si moltiplicano gli appelli di
resistenza (Borelli, Signoretti (direttore ‘La stampa’), Vergani, Valori) e Ugo d’Andrea (la stampa)
pone l’accento sulle implicazioni a livello europeo e non solo nazionale della battaglia combattuta
in Sicilia.
Il ritorno alla libertàDOPO IL 25 LUGLIO 1943: il crollo del regime produce effetti immediati con la soppressione del
‘Popolo d’Italia’ e del ‘Regime Fascista’, la rinascita del FNSI e l’insediamento di nuovi direttori:
Ettore Janni (poi sostituito da Amicucci) al ‘Corriere della sera’, Filippo Burzio alla ‘Stampa’, Tullio
Giordana alla ‘Gazzetta del Popolo’, Bergamini al ‘Giornale d’Italia’, Smith al ‘Messaggero’, Alvaro al
‘Popolo di Roma’ e Scarfoglio al ‘Mattino; tutti provenienti dla mondo giornalistico prefascista.
Mentre per quanto riguarda i redattori, a parte quelli giudicati troppo compromessi come Lilli,
Monelli, Vergani e Guerriero, vengono mantenuti; e anche il controllo rimane molto stretto dato
che Badoglio continua la guerra. Dopo l’armistizio quasi nessun giornalista aderisce alla Repubblica
Sociale Italiana; Lilli assume una posizione attendista ma viene comunque arrestato e rinchiuso per
due settimane; Missiroli rimane a Roma per aiutare i colleghi arrestati dai tedeschi; Chilanti tornato
in libertà aderisce al movimento comunista d’Italia; Longanesi si rifugia a Napoli per evitare
possibili ritorsioni dato che aveva ripudiato il fascismo più per la sconfitta a cui aveva portato che
per altro. I giornalisti rei di non aver aderito alla RSI vengono stilati in una lista diffusa dal ‘Corriere’
nel 1943 che include 33 ‘canguri giganti’ da arrestare tra cui Chilanti Monicelli e a Roma oltre a Lilli,
vengono arrestati anche Patti, Bergamini, Pannunzio e Zingarelli. Montanelli viene arrestato a
Milano per aver scritto articoli filo-partigiani; Ansaldo, partito nel ’43 come volontario per la
Dalmazia, viene catturato e deportato dai nazisti; Lamberti Sorrentino viene arrestato dalle SS a
Budapest dopo l’armistizio e deportato nel ’44 nel lager di Mauthausen.
LA RESTAURAZIONE DELLA LIBERTA DI STAMPA: il 14 novembre 1943 esce un articolo intitolato
‘Freedom of the press seen as a peace factor’ sul ‘New York Times’ che dà la notizia di una
conferenza tra gli alleati svoltasi a Mosca in cui si era indicata la restaurazione della libertà di
stampa in Italia come prioritaria. Su volontà di Cordell Hull, segretario di stato americano, la libertà
di stampa verrà reintrodotta in tutti gli stati liberati (inclusa la Germania), e così già con la
liberazione delle città meridionali riappaiono i primi quotidiani liberi, sebbene sotto il controllo
dello Psychological Warfare Branch, organo delle autorità militari alleate. Con la liberazione di
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Roma il 4 giugno 1944 riemergono i giornali dei partiti antifascisti e nasce ‘Il Tempo’ di Angiolillo e
Repaci, mentre vengono sospesi ‘Il giornale d’Italia’, ‘Il Messaggero’ e il ‘Popolo di Roma’ per aver
appoggiato la RSI durante l’occupazione tedesca. Intellettuali e giornalisti cominciano a discutere
sulla libertà di stampa e Mario Borsa rimette mano al suo volume pubblicato per denunciare le
violazioni dei diritti di libertà del fascismo, al fine di rispiegare con chiarezza e trasparenza cosa
essa voglia significare, cioè indipendenza dal governo e senso di responsabilità. Anche Adolfo
Omodeo, storico liberale, sostiene che la liberazione della stampa, e il ridimensionamento degli
uomini di finanze in particolare, siano di primaria urgenza e Baldacci chiede che tutti i giornali
vengano posti sotto il controllo dei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale CLN. Mario
Vinciguerra, antifascista e fondatore del Partito d’Azione sottolinea che la stampa può essere
insidiata sia dallo stato che dalla plutocrazia e che a tal fine bisogna conservare due disposizioni
della tremenda legge fascista: quella sull’iscrizione agli albi professionali (ovviamente organizzati
secondo altro criterio e volti solo a eliminare gli avventurieri dalla stampa) e quella sulla
responsabilità civile dei proprietari. Inoltre propone l’introduzione del divieto di costituire aziende
giornalistiche mediante società per azioni .
DAL FASCISMO AL POSTFASCISMO: Vinciguerra, caporedattore de ‘La nuova Europa’ (settimanale
diretto da Salvatorelli), viene nominato presidente della commissione per la revisione dell’albo dei
giornalisti di Roma, l’unica che svolge un buon lavoro di epurazione (al contrario di Palermo, Napoli
e Bari). Vengono cancellati dall’albo Federzoni, Bottai, Vittorio Mussolini, Interlandi, Spampanato,
D’Andrea e altri, e nel 1945 il consiglio dei ministri approva un decreto proposto da Togliatti
(Ministro della giustizia) su pressioni del FNSI, che prevede reclusione o multa per gli editori che
assumono giornalisti cancellati o sospesi dall’albo e sospensione e cancellazione per i direttori che
se ne avvalgono. Nel marzo ’46 però, viene decisa la sospensione delle epurazioni in vista delle
elezioni del 2 giugno e l’amnistia Togliatti, concessa il 22 giugno dopo la vittoria della Repubblica,
permette a giornalisti compromessi con il fascismo di tornare in auge. Missiroli assume la direzione
del ‘Messaggero’ e diventa un sostenitore di De Gasperi e della DC; il ‘Corriere della sera’ passa da
Borsa a Guglielmo Emanuel, un conservatore; Ansaldo diventa direttore del ‘Mattino’ nel 1950,
quotidiano filodemocristiano; Valori va al ‘Messaggero’; Monelli alla ‘Stampa’; Zingarelli al ‘Tempo’
che aveva già aperto le porte agli ex fascisti. Dei ‘fratelli maggiori’, Gorresio alla ‘Stampa’; Lilli al
‘Tempo’; Barzini jr. fonda ‘Il Globo’ giornale economico; Piovene, divenuto simpatizzante
comunista si spinge addirittura in Bulgaria per un reportage e lavora per il ‘Corriere della sera’;
Montanelli, sempre al ‘Corriere’, diffonde un’immagine indulgente del fascismo e diventa un
conservatore anticomunista.
NUOVE BARRIERE NEL MONDO DELLA GUERRA FREDDA: con la guerra fredda si assiste a nuovi
sistemi di censura instaurati nella Cina dilaniata dalla guerra civile e nell’Unione Sovietica di Stalin,
il quale giustifica le restrizioni dicendo che gran parte dei giornalisti stranieri sia ostile all’URSS. I
comunisti italiani sono convinti che i giornali comunisti siano quelli veramente liberi mentre quelli
che si professano indipendenti siano l’espressione degli interessi dei capitalisti; infatti l’Unità,
organo del PCI fondato da Gramsci nel 1924 viene ritenuto da Togliatti superiore a tutti gli altri. I
comunisti e i socialisti si battono contro i giornali indipendenti anche nell’Assemblea Costituente,
cercando di imporre l’obbligo di trasparenza sulle fonti di finanziamento, cosa che non si realizza a
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causa dell’opposizione della DC che li considera assurdi. Dopo la vittoria della DC alle prime
elezioni politiche del 1948, i comunisti accusano la DC e De Gasperi di voler instaurare un controllo
totalitario sugli organi di informazione e Togliatti sostiene direttori come Missiroli e Santi Savarino
(Messaggero e Giornale d’Italia) continuino a esercitare per la DC le stesse funzioni che avevano
sotto il fascismo.
LA LIBERTA DI STAMPA NELL’ITALIA DEL DOPOGUERRA: durante la guerra fredda la stampa è divisa
ma i giornalisti come categoria restano uniti nel sindacato FNSI, il cui II congresso, tenutosi a San
Remo nel 1948, si conclude con la riaffermazione di tale unità e ribadendo l’inevitabile espressione
delle idee dei giornalisti in quanto coinvolti nella vita politica e più sensibili ad essa. Ciò viene
sottolineato anche dal consigliere delegato del CNSI (comitato nazionale della stampa italiana)
Azzarita durante un incontro con Pella (presidente del consiglio) nel 1953, e prova di tale unità
viene data nel 1954 quando la federazione difende i giornali comunisti, dopo che gli era stato
vietato l’ingresso ai ministeri.
La libertà di stampa, nonostante il riconoscimento in costituzione e la nuova legge sulla stampa, è
ancora insidiata da norme risalenti al fascismo: nel 1950 il direttore, due giornalisti e un fotografo
di ‘Oggi’ vengono rinviati a processo con le accuse di apologia di reato e violazione dell’art. 15 della
legge sulla stampa, per aver pubblicato un servizio su un bandito (assolti) l’avvocato Selvaggi fa
presente che da un’interpretazione estensiva di tale articolo potrebbe derivare l’ingerenza
dell’esecutivo nella stampa. A maggio sempre dello stesso anno 7 direttori (Missiroli-Messaggero,
Ingrao-Unità, Archidiacono-Tempo, Coen-Paese sera, Franzetti-Momento sera, D’Errico-Crimen,
Simoni-Cronaca nera) vengono rinviati a processo per aver pubblicato la foto di un uomo autore di
un omicidio-suicidio; sempre difesi da Selvaggi, vengono assolti perché non sussiste reato, e due
mesi dopo Missiroli, Franzetti e Vigorelli vengono condannati a pagare un’ammenda per aver
pubblicato foto di imputati, e tale accusa desta preoccupazioni sia tra i giornalisti (Corriere della
sera) sia nel FNSI per la persistenza di orientamenti giurisprudenziali che turbano l’esercizio della
libertà di stampa. Per Emanuelli gli scandali di cronaca nera hanno effetto morale sulla società e la
spronano a migliorarsi.
L’ETA VISIVA: nel 1954 nasce la televisione e molti sono preoccupati dalla perdita di influenza del
‘Quarto potere’. Nel settembre 1955 a Roma nasce il settimanale ‘L’Espresso’ diretto da Arrigo
Benedetti, formatosi all’Omnibus di Longanesi e già direttore dell’ ‘Europeo’ dal ’45 al ’54. Vuole
fare un giornale anticonformista dallo stile oggettivo e ricco di rimandi morali che tratti soprattutto
di politica, economia e problemi sociali; i suoi redattori sono Scalfari, Gambino, Gregoretti, Dentice,
Pernici, Lefèbvre, Rossetti, Saviane, Serini. Nel 1956 invece nasce a Milano il quotidiano ‘Il Giorno’,
tipico esempio di editoria impura dato che il suo fondatore è Enrico Mattei, il presidente dell’ENI;
diretto da Baldacci che promette informazioni e obiettività, segna una rivoluzione nei contenuti,
nel linguaggio, nella veste grafica e nell’originalità nel proporre le notizie (colonnina intitolata
situazione, abolita la terza pagina e articoli di intrattenimento in un inserto). Nel 1957 inoltre viene
elaborato un codice etico del giornalismo, stilato da delegati del FNSI e della Federazione degli
Editori (FIEG) riuniti in una commissione presieduta da Gonella il cui scopo primario era quello di
ribadire la necessità dei giornalisti di essere fedeli alla verità.
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STAMPA IN ALLARME: nel 1953 Astarico (Cinema nuovo) e Renzo Renzi vengono arrestati e
condannati per vilipendio delle forze armate; nel maggio 1954 finisce in galera Guareschi per
diffamazione nei confronti di De Gasperi attraverso la pubblicazione di due lettere in cui egli
chiederebbe agli alleati di bombardare Roma; nel 1955 Cancogni e Benedetti vengono querelati
dalla società generale immobiliare per averli diffamati in un’inchiesta sulla speculazione edilizia a
Roma pubblicata sull’Espresso. Vengono prima assolti e poi condannati in appello; contro tale
sentenza si scaglia ‘Il Mondo’ di Pannunzio, che esercita una notevole influenza sugli intellettuali
nonostante la poca diffusione, che oltre a difenderli pubblicamente lancia un appello per la libertà
di stampa firmato da molti, e nel ’58 organizza il convegno sulla ‘stampa in allarme’ a cui
partecipano Ruiz, Carandini, De Feo, Jemolo, Lombardi, Messineo ecc. con relatori Salvatorelli
(stampa e democrazia), Libonati (leggi sulla stampa), Battaglia (stampa e giustizia), Rossi
(presupposti economici di una stampa libera).
La svolta dopo la strage di Piazza FontanaLA CRISI DELLA STAMPA NEGLI ANNI SESSANTA: alla fine degli anni ’50 il giornalismo italiano soffre
di due mali: il conformismo verso il potere dovuto al fatto che ai vertici dei grandi organi
d’informazione sono collocati giornalisti provenienti dal fascismo, abituati a obbedire talvolta
anche con troppo zelo; e l’autoreferenzialità, conseguente al primo, che consiste nel fatto che
anche i giornali più popolari si rivolgono solo all’élite dei potenti (Enzo Forcella nel 1959) e il
sistema è imperniato sul rapporto tra il giornalista politico e questi lettori privilegiati (ministri,
parlamentari, dirigenti di partito, alti prelati, sindacalisti). Questi problemi sono alla base della crisi
della stampa degli anni ’60 e colpiscono anche altri paesi occidentali, tanto che gli esperti di mass
communications predicono il tramonto della stampa.
Angelo Del Boca, giornalista della ‘Gazzetta del Popolo’ di Torino fino al 1967, conduce un’indagine
sulla crisi del giornalismo a Parigi, Zurigo, Amburgo, New York, Tokyo, Washington. Visita gli
stabilimenti tipografici e discute i problemi maggiori con tecnici e giornalisti, incontra personalità di
spicco della stampa internazionale e anche il direttore generale dell’UNESCO Maheu. Dalla sua
inchiesta emerge la particolare gravità del caso italiano, in cui dal ’46 al ’67 il numero di testate
sono passate da 137 a 79, ma i giornali morti in realtà sono più di 150, che sebbene non tutti
autorevoli, avevano contribuito in passato ad animare il concerto democratico delle voci e
provocato talvolta una sana concorrenza in alcune città. Del Boca individua le cause della crisi nel
mancato rinnovamento dei quotidiani dovuto alla carenza di editori puri, nel sottosviluppo
culturale e socioeconomico della popolazione italiana, nell’aumento dei costi di produzione e nella
concorrenza di tv e rotocalchi.
Giulio De Benedetti, direttore de ‘La Stampa’ dal ’48 al ’68, in un’intervista al ‘L’espresso’ individua
la causa della crisi nel disavanzo cronico dei giornali e nell’indifferenza con cui gli editori accettano
di ripianarli. Da un confronto con la Svizzera (128 testate per 5 milioni di abitanti contro i 79
quotidiani italiani per 53 milioni di abitanti, di cui oltre la metà in passivo) si evince che il vero
problema nasce dal fatto che gli italiani non considerano il giornale un’impresa come un’altra e che
come tale deve rispondere ad alcune leggi economiche e che, in nome di un servizio pubblico,
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primo dovere di un giornale è fornire notizie esatte, a prescindere da chi si offende. Per risolvere
tale problema, suggerisce l’adozione di una legge che obblighi tutti i giornali a presentare i propri
bilanci e a farli quadrare solo con incassi di vendite e pubblicità, vietando qualsiasi altra entrata,
per eliminare definitivamente chi non è in grado di fornire un buon servizio pubblico.
L’ATTENTATO DI PIAZZA FONTANA: il 1968 aveva già visto forti tensioni sociali (contestazioni
giovanili) e episodi di violenza. L’autunno caldo del 1969 è segnato da scioperi e manifestazioni,
talvolta sfociati in violenti scontri, che a detta del prefetto di Milano Libero Mazza, compromettono
gravemente l’ordine pubblico. L’apice di queste tensioni si raggiunge il 12 dicembre 1969 con la
strage di piazza Fontana, quando un ordigno esplode nella sede della Banca Nazionale
dell’agricoltura nel centro di Milano, causando 17 morti e 88 feriti (altre due bombe esplodono
contemporaneamente a Roma provocando diversi feriti). La strage in augura il periodo della
strategia della tensione, che sarà caratterizzato da una serie di stragi ad opera di gruppi neofascisti,
coperti dai servizi segreti, al fine di destabilizzare il paese e creare un clima propizio a un eventuale
golpe. Anche i giornalisti cambiano atteggiamento, e iniziano a mettere in dubbio le notizie diffuse
dalle autorità, praticando un agguerrito giornalismo d’inchiesta.
IL RITUALE DELLA CONFERENZA STAMPA: il questore di Milano Marcello Guida, già direttore del
carcere di Ventotene durante il ventennio fascista, coordina le prime indagini sulla strage di Piazza
Fontana e diventa la fonte ufficiale di informazioni per i giornalisti grazie a delle conferenze stampa
quotidiane. La sera dell’attentato riporta che nessuno può essere escluso a priori dalla lista dei
sospettati e che ci sarebbe un collegamento tra la strage e un attentato avvenuto nell’aprile
precedente alla Fiera di Milano, attribuito a militanti anarchici; ritiene inoltre che l’attentato sia
stato organizzato da più persone ma eseguito da una sola. La stessa sera Luigi Calabresi,
funzionario dell’Ufficio politico della questura, riferisce alla ‘Stampa’ che bisogna puntare
all’estremismo di sinistra; e la sera del 13 Guida, assistito in conferenza stampa da Gustavo
Palumbo (capo gabinetto) e Antonino Allegra (capo ufficio politico), respinge le affermazioni di
Calabresi e ribadisce che tutte le ipotesi sono aperte e che si stanno interrogando 150 persone
fermate la notte prima appartenenti a organizzazioni politiche estremiste. Nella conferenza del 14
dicembre il questore annuncia un passo avanti nelle indagini e che si attende un risultato concreto,
che arriva la mattina del 15 con il fermo di Pietro Valpreda, ex ballerino anarchico 37enne, proprio
mentre si stanno celebrando i funerali delle vittime in piazza Duomo.
L’ARRESTO DI VALPREDA: la soffiata su Valpreda era arrivata da Mario Merlino, ex militante di
estrema destra convertitosi in anarchico, che era stato fermato a Roma dopo la strage; anche il
ministro dell’Interno Franco Restivo, propendeva per la pista anarchica, mentre il capo della polizia
Angelo Vicari, avrebbe voluto indagare a destra; ma mass media, servizi segreti e magistratura
romana preferiscono avvalorare la pista Valpreda (Franzinelli). Il 15 dicembre Guida decide di non
tenere l’usuale conferenza scatenando una serie di commenti contrapposti registrati sul ‘Corriere
della Sera’ da Arnaldo Giuliani.
La notizia del fermo di Valpreda viene data dal ‘Corriere dell’Informazione’ (edizione pomeridiana
del ‘corriere’) nel primo pomeriggio del 16 grazie a uno scoop di Zicari, cronista romano; giungono
smentite dalle questure di Milano e Roma, dall’ANSA e dal Ministero dell’Interno, ma alle 8 di sera
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Bonaventura Provenza, capo della squadra politica di Roma, conferma tutto in conferenza stampa e
anche Guida in conferenza informa che Valpreda era stato accusato nel pomeriggio di essere
l’attentatore dal tassista Cornelio Rolandi, che lo aveva riconosciuto come un passeggero sospetto
salito sia all’andata che al ritorno sul suo taxi, prima con una valigetta di pelle e poi senza. Il giorno
dopo la notizia del suo arresto e della messa sotto inchiesta di altri 8 anarchici viene riportata con
clamore dai fogli moderati che, attenendosi alle fonti ufficiale, danno il caso per risolto; mentre
altri si mostrano più prudenti. ‘L’Unità’ si concentra sull’arresto di Valpreda in base alla sola
testimonianza di Rolandi, senza che la polizia avesse fornito ancora nessuna prova che sciogliesse
gli interrogativi ancora aperti; ‘Il Giorno’ diretto da Italo Pietra pubblica un ritratto di Valpreda
firmato da Mascardi, in cui il presunto attentatore viene descritto come un uomo sfortunato e non
violento e mostruoso come avevano fatto altri; ‘La Stampa’ invita a non precipitare sentenze e
condanne e a valutare cautamente tracce e coincidenze (Carlo Casalegno).
LA MORTE DI PINELLI: nella tarda sera del 15, negli uffici della sezione politica della questura di
Milano, Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico fermato dalla polizia il giorno stesso della strage, si
butta dal quarto piano durante un interrogatorio e poche ore dopo l’arrivo in ospedale, muore.
Poco dopo Guida si presenta ai giornalisti per rilasciare una dichiarazione in cui spiega che
l’interrogato, messo alle strette, si era gettato dalla finestra socchiusa, senza che i tre sottoufficiali
della polizia e l’ufficiale dei carabinieri riuscissero a fermarlo, e poco dopo rilascia una seconda
dichiarazione per chiarire che l’alibi fornito da Pinelli non era stato confermato dal barista e che al
momento del suicidio si trovasse in una grave fase della contestazione degli indizi.
Nei termini in cui viene presentata la vicenda dal questore, il suicidio di Pinelli appare come una
chiara ammissione di colpa, ma non convince tutti e il giovane redattore della ‘Stampa’ Carlo
Rossella si reca dalla moglie del Pinelli, ancora ignara di tutto che gli riferisce che il mattino del 13
Pinelli era stato fermato in casa, da tre agenti della politica e ce lo aveva rivisto il 15 per un breve
colloquio oltre ad aver ricevuto varie telefonate in cui il marito la tranquillizzava. Ma poco dopo la
Rognoni cambia versione quando viene intervistata da altri giornalisti: a Pansa della ‘Stampa’
riferisce che il marito era stato fermato nelle ore successive all’attentato da Calabresi, che lo aveva
portato in questura e che a mezzanotte l’aveva chiamata per calmarla; che non era mai stato
fermato prima e che nella tarda sera del 15 alcuni agenti erano passati a prendere il suo libretto
ferroviario ma era stata informata della disgrazia solo da Rossella.
IL PISTAROLO: Giorgio Bocca, firma del ‘Giorno’ negli anni ’60, afferma che con la strage di Piazza
Fontana si è spezzato quel rapporto tra giornalismo e potere durato per tutta la guerra fredda;
Corrado Stajano ha raccontato di come quell’episodio ha significato il rifiuto di ciò che viene dato
per scontato e il dovere di mettere in discussione le verità propinate dal potere politico e
istituzionale; Marco Sassano, giovane inviato dell’ ‘Avanti’ come da ciò nacque un nuovo modo di
fare giornalismo scavando nei fatti oltre le risposte di veline e conferenze stampa. Questo
giornalismo d’inchiesta è stato svolto da un gruppo di cronisti appartenenti a diverse testate,
soprannominati i pistaroli per la tenacia con cui hanno preso in esame tutte l piste, sia rosse che
nere. Ne facevano parte Sassano, Flamini, Obici, Marchesini, Nozzoli, ma il pistarolo principi è stato
Marco Nozza.
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Aveva cominciato all’ ‘Eco di Bergamo’, poi era passato all’ ‘Europeo’ e dal 1966 ha lavorato al
‘Giorno’; dopo la strage lui e altri hanno preso le difese di Valpreda e Pinelli come cronisti,
compiendo le relative indagini. Per prima cosa, dopo la morte di Pinelli va a verificare il suo alibi al
Caffè Fabiani dalle parti di San Siro; scopre che lì era un habitué e, nonostante non riesca a
incontrare il barista, trova sei persone, di cui due poliziotti (uno in pensione), che confermano il
suo alibi. Il poliziotto Mario Stracchi conferma che quel pomeriggio era a giocare a carte al bar e il
commerciante Luigi Palombino che si scontravano mentre giocavano a carte a causa delle sedie
troppo vicine; Mario Magni invece, l’uomo con cui Pinelli anche a detta degli altri aveva trascorso il
pomeriggio, racconta di non aver mai saputo delle idee anarchiche del Pinelli e che aveva già
riferito alle autorità che quel pomeriggio si trovavano insieme quando era stato fermato, per poi
recarsi nuovamente in questura il 14 sera per riconoscere e confermare l’alibi di Pinelli. Si interessa
poi del caso Valpreda, il quale aveva sostenuto che quando era scoppiata la bomba era a casa della
zia, malato; egli aveva raccontato di essere venuto a Milano perché era stato convocato dalla
magistratura per essere interrogato sugli attentati del 25 aprile e che il 12 dicembre appena
arrivato da Roma, si era recato dal suo avvocato e alle 13:30 si era messo a letto con la febbre. Ma
il suo alibi era fragile trattandosi della zia e comunque Nozza non riuscì a ottenere informazioni né
dalla zia né dai genitori dell’uomo, né tantomeno dai vicini.
IL MOVIMENTO DEI GIORNALISTI DEMOCRATICI: il 23 dicembre 1969 nasce a Milano presso il Club
Turati, un comitato per la libertà di stampa e la lotta contro la repressione a cui aderiscono
centinaia di giornalisti e intellettuali tra cui Bocca, Scalfari, Bobbio, Curzi, Gambino, Castellani,
Stajano, Saviane, Ripa di Meana. Il documento costitutivo li definisce giornalisti sinceramente
democratici al servizio di un’informazione non mistificata, che rifiutano le versioni ufficiali
scarsamente veridiche. Secondo Bocca, la nascita del comitato determina una scissione tra chi
vuole continuare il rapporto tradizionale con l’autorità e chi lo vuole cambiare. Il 25 gennaio 1970
nasce a Roma il movimento dei giornalisti democratici per la libertà di stampa (leader Enzo
Forcella) a cui aderiscono oltre 400 giornalisti di vari orientamenti, per chiedere le immediate
dimissione dei presidenti dell’Ordine dei giornalisti e della FNSI Gonella e Missiroli, e la
convocazione di un’assemblea nazionale con i colleghi del Comitato di Milano. I due movimenti si
riuniscono al Club Turati nel marzo 1970 e sebbene non riescano a fonderli, elaborano una
piattaforma comune per condurre insieme le battaglie importanti incentrate su tre obiettivi
fondamentali: la salvaguardia della libertà di stampa, la difesa dei singoli giornalisti da forme di
intimidazione e il ricambio dei vertici degli organismi sindacali.
Missiroli è considerato un uomo cinico che concepisce il giornalismo come servizio politico per il
potente di turno e sostiene l’ammissibilità del ripianamento dei disavanzi da parte di finanziatori
esterni; Gonella è invece accusato di concepire il giornalismo come strumento per veicolare le idee
religiose e del suo partito (DC).
A metà maggio ottengono un primo successo alle elezioni per il rinnovo degli organismi dirigenti
dell’Associazione stampa romana e poi un secondo successo arriva in occasione delle elezioni per
rinnovo del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e del consiglio interregionale, dove i
candidati del movimento riescono a conquistare il 36% dei voti. Infine nell’ottobre 1970 al
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congresso della FNSI di Salerno, sebbene i missiroliani riescono a ottenere la presidenza per il loro
candidato Adriano Falvo, i giornalisti democratici riescono ad aggregare una maggioranza tale da
conquistare il potere della federazione (affermazione del giornalismo come servizio pubblico).
LA CAMPAGNA CONTRO IL COMMISSARIO CALABRESI: l’attentato di Piazza Fontana aveva scosso
l’opinione pubblica che, assieme a svariate testate, chiedeva che fosse fatta piena luce sul caso.
Soprattutto ‘Il Giorno’ di Pietra e ‘La Stampa’ di Alberto Ronchey (subentrato nel ’68 a De
Benedetti) svolgono attività di controinformazione attraverso le inchieste di Nozza e Pansa. I fogli
comunisti e socialisti avviano invece una campagna contro Calabresi descrivendolo come un
torturatore addestrati dalla CIA negli USA (L’Unità e L’avanti! mentre Camilla Cederna sull’Espresso
lo descrive come contraddittorio e interessante). All’inizio dell’aprile 1970 il giornale del PSI
ipotizza per primo che Pinelli sia stato ucciso con un colpo di karate alla nuca e gettato dalla
finestra e la campagna assume toni virulenti con articoli e vignette pubblicati sul quindicinale ‘Lotta
continua’. Calabresi querela ‘Lotta continua’ per diffamazione e nell’ottobre 1970 si tiene il
processo che vede imputato il direttore Pio Baldelli; Lotta Continua allora riprende la violenta
campagna contro il commissario e nel giugno ’71 viene accolta la richiesta di ricusazione del
presidente del tribunale Carlo Biotti, presentata dall’avvocato di Calabresi, Michele Lener. La
richiesta era stata fatta perché il giudice aveva confessato a Lener che il processo era condizionato
da motivi personali legati all’avanzamento in carriera di Biotti , il quale aveva ricevuto pressioni per
pronunciarsi a favore di Baldelli, e con l’accoglimento insorge nuovamente la stampa di sinistra.
Secondo l’unità la ricusazione era stata richiesta per evitare una perizia sul corpo di Pinelli; ‘Lotta
Continua’ avvalora questa tesi e aggiunge che la perizia sarebbe stata la prova definitiva della
colpevolezza del commissario e molti intellettuali sottoscrivono una lettera aperta pubblicata dalla
Cederna sull’Espresso (Colpi di scena e colpi di karate, gli ultimi incredibili sviluppi del Caso Pinelli)
in cui si sostiene la colpevolezza di Calabresi e si richiede l’allontanamento di quanti abbiano
ostacolato la giustizia tra commissari, magistrati e giudici.
GIORNALISTI ITALIANI ALLA RIBALTA INTERNAZIONALE: Oriana Fallaci nata a Firenze nel 1929,
esordisce come cronista del ‘Mattino dell’Italia Centrale’ e nei primi anni ’50 inizia la
collaborazione con ‘L’europeo’ per poi essere assunta nel ’55 e restarci fino al ’77. Inizialmente si
occupa di temi femminili e matura uno stile aggressivo grazie ai soggiorni negli USA. Pubblica
alcune raccolte di articoli intorno a uno stesso tema come ‘I sette peccati di Hollywood’ sul cinema
americano, ‘Il sesso inutile’ sulla condizione della donna nel mondo, e ‘Gli antipatici’ ritratti di
personalità di spicco del mondo cinematografico e culturale. Diventa famosa per le sue
corrispondenze dal Vietnam e per le sue interviste ai potenti della terra (il conflitto in Vietnam
aveva attirato molti giornalisti tra cui Egisto Corradi del ‘Corriere’ e Goffredo Parise per un
reportage a cura de ‘L’Espresso’ di Scalfari), da cui trae alcuni spunti per il suo romanzo ‘Penelope
alla Guerra’. Nel ’67 dopo essersi trasferita a New York, parte per il Vietnam insieme al fotografo
Gianfranco Moroldo e racconta con toni critici l’intervento americano e le violenze dei vietcong;
nel ’68 rimane ferita a Città del Messico durante la repressione governativa di una manifestazione
popolare e studentesca e dal ’70 avvia incalzanti interviste ai leader politici dell’epoca.
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Tiziano Terzani, nato a Firenze nel 1938, si afferma seguendo i conflitti nel sud est asiatico per ‘Der
Spiegel’, ‘Il Giorno’ e ‘l’Espresso’. Esponente del movimento dei giornalisti democratici e firmatario
del manifesto contro Calabresi, Terzani è testimone della vittoria dei guerriglieri comunisti in
Vietnam e in Cambogia e a caldo pubblica il libro GIAI PHONG! LA LIBERAZIONE DI SAIGON di cui
più avanti si pentirà perché frutto dell’antiamericanismo preconcetto, e propagatore di un falso
mito che alimenta speranze rivelatesi illusioni.
Giornalisti sotto attaccoGIORNALISMO IN SUBBUGLIO: nel quinquennio 1970-1975 si registra un escalation di violenze da
parte di gruppi eversivi di destra e di sinistra: nel 1970 a Milano i primi attentati delle BR; il 15
marzo 1972 Giangiacomo Feltrinelli (fondatore dei Gruppi d’azione partigiana’ viene dilaniato da
un’esplosione mentre sta preparando un attentato; nel maggio 1972 il commissario Calabresi (che
nel ’75 risulterà innocente) viene assassinato da un commando di Lotta Continua; il 28 maggio
1974 strage in piazza Loggia a Brescia ad opera di un gruppo neofascista che causa 8 morti e 100
feriti; agosto 1974 strage dell’Italicus, ordigno sul tremo Roma-Brennero esplode uccidendo 12
persone.
Nel mondo del giornalismo, dopo la fine del movimento dei giornalisti democratici, nel marzo 1972
viene fatto un colpo di mano alla direzione del Corriere della Sera a pochi mesi dalle elezioni
politiche sostituendo Spadolini con Ottone, ma a detta di Indro Montanelli, firma dell’Espresso non
ci sarebbero dovuti essere grossi cambiamenti. Invece Ottone (Gazzetta del Popolo agli esordi, tra il
’53 e il ’53 corriere dell’Informazione e Corriere della Sera, dal ’68 al ’72 direttore del Secolo XIX di
Genova e dal ’72 in poi del Corriere della Sera), preoccupato dalla tradizione giornalistica italiana
troppo politicizzata e preoccupata di opporsi al comunismo (unica eccezione ‘La Stampa’ di Giulio
De Benedetti) decide di fare un giornale credibile anche agli occhi degli avversari politici, non
legato a schieramenti politici e che possa accogliere istanze di diversi settori. Il suo obiettivo
principale è quello di fornire una buona informazione e limitarsi a riportare i fatti agli spettatori, e
questo implica la fine degli ostracismi verso il PCI e una nuova libertà di giudizio verso la DC;
decisione che a molti redattori non piacerà, primo fra tutti a Montanelli che fonderà ‘Il Giornale’
foglio moderato finanziato da Montedison dove accoglierà gran parte di essi (25 giugno 1974). Il
Corriere nel frattempo passa sotto la proprietà di Rizzoli e il 14 gennaio 1976 nasce un nuovo
quotidiano ‘La Repubblica’, fondato da Eugenio Scalfari e rivolto a un pubblico giovane e di sinistra.
Scalfari aveva iniziato scrivendo per il foglio economico ‘Roma Fascista’, ma i suoi veri maestri sono
stati Pannunzio e Benedetti nel dopoguerra. Negli anni ’50 ha collaborato con ‘Il Mondo’ e
‘L’Europeo’ e nel 1955 fonda insieme a Giulio De Benedetti (suocero), l’Espresso di cui è stato
direttore responsabile dal ’63 al ’68. Nel 1968 viene eletto deputato del PSI e nel ’72 torna
all’Espresso come amministratore delegato per poi iniziare a lavorare nel ’75 con Carlo Caracciolo
al progetto di Repubblica.
GIORNALISTI NEL MIRINO: nell’aprile ’74 le BR sequestrano il magistrato Mario Sossi, nel giugno
’74 vengono uccisi Giralucci e Mazzola; nel maggio ’75, dopo l’arresto dei fondatori
dell’organizzazione Curcio e Franceschini, gambizzano l’esponente democristiano Massimo De
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Carolis. Nel giugno ’76 uccidono il magistrato Francesco Coco e due uomini della sua scorta,
nell’aprile ’77 l’avvocato Fulvio Croce, e a metà anno iniziano a puntare ai giornalisti ‘al servizio del
sistema’. Molti giornalisti come anche l’autorevole Giorgio Bocca del ‘Giorno’ avevano
sottovalutato il fenomeno BR credendo non si trattasse veramente di terrorismo rosso (l’Unità) e
che fosse una favola inventata dai piani alti (Bocca); mentre altri ‘La Stampa’ di Arrigo Levi, li
contrastavano duramente. Nel giugno ’77 i brigatisti lasciano la ‘campagna contro la stampa di
regime’: vengono gambizzati il vicedirettore del Secolo XIX Valerio Bruno, Montanelli e il direttore
del tg1 Emilio Rossi; in Toscana vengono bruciate le auto di tre cronisti della ‘Nazione’ e di un
cronista del ‘Telegrafo’. Molti si sorprendono di questa nuova evoluzione, mentre Mario Scialoja,
firma dell’Espresso, essa era stata già prevista tempo prima dalle BR.
L’ATTENTATO A CASALEGNO: nell’estate del ’77 la sede della ‘Stampa’ viene colpita dal gruppo
estremista ‘Azione Rivoluzionaria’ che provoca danni alle rotative e ferisce 8 operai. Nell’autunno le
BR tornano all’attacco e dopo aver seguito i movimenti di Casalegno (vicedirettore) e Levi,
decidono di colpire il primo. L’azione, prevista per ottobre, viene rinviata perché non trovano
l’obiettivo e in quei mesi Casalegno pubblica un fondo in cui sostiene la tesi del suicidio collettivo di
tre terroristi tedeschi in un carcere di Stoccarda e un articolo in cui esorta le autorità a chiudere i
covi dei gruppi estremisti rossi e neri; questi due articoli faranno cambiare idea alle BR che
decideranno per l’assassinio. Casalegno sarà il primo a pagare per le proprie opinioni con la vita
nell’Italia repubblicana. Così, il 16 novembre 1977 Casalegno, che da qualche tempo andava al
lavoro scortato come Levi, si reca al giornale con la sua auto dopo una visita, torna a casa dopo
pranzo e nell’androne viene avvicinato dal brigatista Raffaele Fiore che gli spara quattro colpi alla
testa; morirà 13 giorni dopo in ospedale.
Inizia al giornale ‘GL’ diretto da Franco Venturi e nel ’47 entra alla ‘Stampa’ occupandosi di politica
estera per poi essere nominato vicedirettore da Ronchey nel 1968. I principi ispiratori del suo
impegno giornalistico, come li descrive lui stesso in un articolo per ‘Panorama’ sono la salvaguardia
dello stato democratico dalle minacce dei gruppi di pressione e degli estremisti di ogni
orientamento.
OSCURARE I TERRORISTI: con il sequestro Moro e la strage in via Fani (morti 5 agenti della sua
scorta) del 16 marzo 1978, si apre il dibattito sull’opportunità o meno di pubblicare i comunicati
delle BR. L’Unità (solo foto e stralcio comunicato) si scaglia contro le testate che hanno pubblicato
la foto di Moro e il comunicato in cui si annunciava il suo processo senza marcare un distacco e una
condanna; il Corriere della Sera che dopo molti dubbi li aveva pubblicati interpella Montale,
premio Nobel e senatore a vita oltre che redattore del quotidiano, che spiega che forse sarebbe
meglio non pubblicarli perché per il modo in cui sono scritti potrebbero trovare ammiratori specie
tra i giovani, e McLuhan massimo esperto mondiale di mass media, che definisce quella tra i media
e le BR una guerra di nervi in cui tutti e due vogliono manipolare l’altro. Anche Giovanni
Giovannini, presidente della FIEG si dichiara a favore del silenzio, ma Paolo Murialdi, presidente
della FNSI, sempre attraverso il Corriere esprime l’orientamento prevalente della categoria,
contrario a ogni forma di blackout e convinta che essi vadano pubblicati integralmente,
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commentati e smontati, perché sarebbe ingiusto portare queste informazioni a conoscenza solo di
una parte dei cittadini (i giornalisti).
L’UCCISIONE DI WALTER TOBAGI: secondo Murialdi il problema sta nel modo della stampa di
trattare il terrorismo delle Brigate Rosse; nei giorni di sequestro prima dell’assassinio di Moro non
si verificano più episodi di oscuramento ma l’epilogo è percepito dagli italiani come una sconfitta
delle autorità militari e viene intensificata la lotta alle BR, che continueranno a provocare morti
fino al 1988.
Walter Tobagi, nato a Spoleto nel ’47 e trasferitosi a Milano negli anni Cinquanta, inizia a scrivere
per ‘La Zanzara’ giornale del Liceo Parini, e dopo il liceo viene assunto all’ ‘Avanti!’.
Successivamente lavora per Avvenire e il corriere dell’informazione e dal 1976 al corriere della
sera, coniugando l’attività giornalistica e l’impegno storiografico; dal 1968 è anche presidente
dell’Associazione lombarda dei giornalisti. Negli anni ’70 si inizia a occupare di terrorismo e
violenza politica: nel ’72 dopo l’omicidio di Calabresi spiega come le BR non sia una banda di
fascisti e che il terrorismo non ha colore sull’Avvenire; dopo l’attentato di Casalegno va a parlare
con i militanti di Lotta Continua (a cui aderiva il figlio di Casalegno) che approvano l’uso della
violenza come strumento politico ma criticano le BR per l’utilizzo di metodi di lotta terroristici che
espropriano le masse; nel ’78 scrive su Potere Operaio e nel ’79 condanna le violenze e le
intimidazioni di sei ragazzi di ultrasinistra ai danni di un ragazzo di 16 anni iscritto al Fronte della
Gioventù (Organizzazione MSI), avvenute nel suo Liceo Parini; nel 1980 racconta con piacevole
sorpresa di studenti ai funerali di tre agenti di polizia uccisi dalle BR a Milano e del ripiego lento e
inesorabile delle BR che paradossalmente per far sapere di essere ancora vive, uccidono tre
poliziotti a Genova, l’indomani di un corteo contro il terrorismo.
Il quarto potere tra Prima e Seconda RepubblicaLA SVOLTA DEL 1981: alla fine del 1980 si riavvia il dibattito su terrorismo e informazione dopo che
l’espresso aveva annunciato tramite le agenzie di stampa che nel prossimo numero avrebbe
pubblicato uno scoop sul caso Giovanni d’Urso (magistrato sequestrato dalle BR), cioè il testo
dell’interrogatorio dell’ostaggio e un’intervista ai sequestratori, firmati da Scialoja. Ma il giorno
dopo Scialoja viene arrestato con l’accusa di favoreggiamento e testimonianza reticente e anche
Giampiero Bultrini viene accusato di favoreggiamento e incarcerato perché le BR si erano rivolte a
lui inizialmente. Murialdi si trova costretto a constatare che la linea ‘notizie sì, propaganda no’ non
era stata assimilata e si dichiara dispiaciuto che a commettere tale errore sia stato un buon
giornalista come Scialoja. Contrariamente al 1978 con il sequestro Moro, nel sequestro D’Urso i
maggiori quotidiani optano per il silenzio stampa tanto che i brigatisti minacciano di uccidere il
magistrato qualora non pubblichino un comunicato. Non sottostanno al ricatto ma viene
pubblicato da testate minori e dalla tv pubblica e quindi D’Urso viene rilasciato lo stesso.
Negli anni ’70-’80 viene infranto il monopolio pubblico della radiotelevisione, comportando la
proliferazione di emittenti private locali tra cui spicca Telemilano di Berlusconi che si trasformerà in
Canale 5 nel 1980 diretta da Mike Bongiorno, e nel febbraio ’77 iniziano le trasmissioni a colori
sulla TV pubblica e nasce il terzo canale RAI. Nell’estate 1981 c’è una svolta nella stampa, con
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l’adozione di una legge di riforma dell’editoria che fissa per la prima volta limiti antitrust e la
regolarizzazione die contributi pubblici.
I quotidiani sono ancora in crisi a causa della scarsa diffusione, della concorrenza della RAI e delle
radio e tv private che attirato più inserzionisti e problemi tecnici legati alle imprese giornalistiche.
Quindi occorre aiutare i giornali a superare le condizioni sfavorevoli esterne e a riorganizzarsi in
maniera più razionale.
IL FENOMENO ‘LA REPUBBLICA’: la riforma dell’editoria dell’agosto ’81 si pone 4 obiettivi:
consentire una più ampia e libera informazione e promuovere una più larga diffusione dei giornali;
attuare l’art. 21 costituzione per assicurare la trasparenza delle proprietà e delle fonti di
finanziamento; intervenire nei limiti del possibile e garantire completezza e imparzialità
dell’informazione; evitare le concentrazioni e facilitare il risanamento economico delle imprese.
Nonostante alcuni compromessi necessari, questa legge ha una forte carica innovativa come nota
lo stesso Murialdi, ed è giunta successivamente a un accordo extracontrattuale firmato a maggio
dalla FNSI con gli editori che fissava le condizioni per introdurre le nuove tecnologie elettroniche in
redazione. Gli anni ’80 vedono un forte sviluppo della stampa, sebbene le redazioni si dimostrino
restie alle nuove tecnologie: i giornalisti diventano più di 10000, le copie salgono a una tiratura
anche di 7 milioni di copie giornaliere e ‘Repubblica’ riesce a sorpassare sorprendentemente prima
la Stampa e poi il Corriere della Sera arrivando a quasi un milione di copie giornaliere.
Repubblica è un giornale diverso dagli altri: si dichiara indipendente ma non neutrale; sceglie il
formato ridotto del tabloid; abolisce la tradizionale terza pagina raccogliendo gli argomenti
culturali nelle pagine centrali in modo da dividere in due il giornale tra attualità politica e cronaca e
cultura, sport e economia; riporta quotidianamente solo poche notizie essenziali che vengono
trattate a fondo. Il giornale ottiene un successo simile anche grazie allo sfondamento a sinistra
successivo al 1978; infatti, mentre prima aveva stentato e Mondadori aveva anche pensato di
sganciarsi dalla proprietà (50%), con il sequestro Moro il paese si spacca in due tra il partito della
fermezza nei confronti delle BR (PCI e sinistra) e il partito della trattativa disposto a compromessi
pur di salvare il deputato democristiano (PSI di Craxi). La repubblica si schiera con il primo e ciò gli
consente l’ingresso nell’area della stampa comunista. Comincia così la sua ascesa, e mano a mano
toglie lettori al ‘Corriere della Sera’, a ‘Paese Sera’ e a ‘l’Unità’; i comunisti trovano un giornale
senza pregiudizi nei loro confronti e nuovi lettori vengono conquistati anche tra i democristiani, i
manager e i liberi professionisti. Da qui la necessità di lavorare su più fronti ma calibrare linguaggio
e tesi del giornale su una dominante che tenga unite le voci del pubblico, che si può riassumere
nella ricerca della moralità e dell’efficienza degli apparati pubblici.
INFORMAZIONE E PUBBLICITA: negli anni ’80 esplode il mercato pubblicitario a favore di tutti i
media ma secondo Giorgio Bocca, la sua proliferazione indiscriminata rischia di pregiudicare
l’informazione, come sostiene nelle sue rubriche e ne ‘la Repubblica’. Sempre nella sua rubrica
Dialoghi sull’informazione afferma che in Italia non esiste il quarto potere, ma una condizione di
appartenenza e di servilismo nei confronti di partiti e industria, da cui nascono episodi di
corruzione. Ciò anche perché la maggior parte delle testate italiane ha sempre avuto editori impuri
alle spalle, fatto al quale si aggiunge anche l’ingresso della pubblicità nell’editoria accettata con
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ingordigia sia da editori puri che impuri. Nel 1985 sostiene che sia in atto una trasformazione
epocale di cui nessuno si rende conto: infatti fino agli anni ’60 il potere condizionante della
pubblicità era riservato ai pochi colossi industriali come ENI e FIAT, mentre adesso pubblicità e
sponsorizzazioni invadono i giornali, provocando anche un cambiamento nei clienti di riferimento
dei giornali che non sono più i lettori ma gli inserzionisti. Bocca viene accusato per le sue idee di
catastrofismo, conservatorismo e negazione degli effetti positivi dell’evoluzione del sistema
informativo.
L’ASCESA DEI QUARANTENNI: la ‘stagione del sogno’, dove il sogno è quello del giornale dei
giornalisti con i proprietari in redazione che non si comportano come padroni, si chiude nel 1989
con la vendita delle quote di Scalfari e Caracciolo dell’Espresso e della Repubblica a Carlo De
Bendetti, proprietario della Mondadori. Alla fine dell’anno scoppia la ‘Guerra di Segrate’ tra
Berlusconi e De Benedetti per il controllo della Mondadori e gli anni ’90 si aprono con l’ascesa di
una nuova leva di direttori quarantenni, tra cui Paolo Mieli.
Paolo Mieli, figlio di Renato ex direttore de ‘l’Unità’ e dirigente del PCI, esordisce a ‘l’Espresso’,
milita in Potere Operaio e si laurea in Storia contemporanea sotto la guida di Renzo De Felice, che
diventa una figura fondamentale per la sua formazione politico-culturale che lo porta a stemperare
il suo estremismo e ad applicare il metodo storiografico al giornalismo. Dopo 18 anni a ‘l’Espresso’
passa a ‘la Repubblica’ e nel 1986 alla ‘Stampa’ come editorialista di politica per poi diventarne il
direttore nel 1990 su volontà del presidente FIAT Giovanni Agnelli; viene affiancato dal condirettore
Ezio Mauro e rivendica la diversità del quotidiano nel rifiuto di enfasi e gerarchie, nello sforzo a non
avere pregiudizi e preconcetti e nella difesa della libertà.
Nel 1992 viene chiamato da Agnelli a dirigere il ‘Corriere della Sera’ e Mauro diventa direttore della
‘Stampa’; qui inaugura una stagione di successi per il ‘Corriere della Sera’ tanto da riuscire a
raggiungere e sorpassare la ‘Repubblica’ riconquistando il primato nazionale. Introduce un nuovo
stile vivace e frizzante che svecchia il giornale caratterizzato da suggestioni antiretoriche,
disponibilità al gossip, visione conflittuale della realtà e culto del dettaglio (mielismo).
Suo critico è Paolo Bocca, inizialmente dimostratosi contento della scelta di un liberal-democratico
come lui alla direzione del ‘Corriere’, che gli rimprovera di essere sconcertante e di pubblicare
opinioni discordanti che rendono il giornale frammentario. Mieli ribatte che il suo principio
ispiratore per il giornale è la cultura di tolleranza che reputa indispensabile in una società civile e
politica come quella italiana e che l’eclettismo da lui sottolineato in realtà non c’è.
LA DEGENERAZIONE DEL GIORNALISMO: come affermano Eco (nel suo ultimo romanzo Numero
zero in cui immagina una redazione messa in piedi nel 1992 per costruire dossier, ricattare e
diffamare gli avversari) e Mieli in quegli anni sono venuti al pettine i limiti del giornalismo e è
iniziata una degenerazione. Prima i giornalisti conducevano inchieste parallele a quelle dei
magistrati (Camilla Cederna e Gianluigi Melega che con i loro articoli hanno portato alle dimissione
del presidente Giovanni Leone nel 1978) e quelli meno dotati si appoggiavano alle inchieste
giudiziarie; dal 1992 il modello degli ultimi diventa quello universale. Questa l’opinione espressa da
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Mieli nel 2015, sebbene ai tempi di Tangentopoli avesse affermato il contrario difendendo i
giornalisti da chi diceva che si accodavano semplicemente ai magistrati di Mani Pulite.
LA FINE DI UN’EPOCA: nel 1992 come afferma Mieli, pesa molto di più la magistratura rispetto agli
interessi del proprio editore per decidere se pubblicare o meno una certa notizia anche se il
direttore del ‘Corriere della Sera’ si dichiara a favore di una pubblicazione delle notizie senza
autocensura, pur sentendo la responsabilità della decisione. La rivoluzione giudiziaria del 1992
spazza via l’assetto politico sorto dopo il fascismo e segna il passaggio dalla Prima alla Seconda
Repubblica, sebbene senza alcun cambiamento di tipo istituzionale. La nuova stagione politica si
inaugura con la vittoria di una coalizione del centrodestra ‘Il Polo’ alle elezioni politiche del 1994,
guidata da Silvio Berlusconi che aveva fondato da pochi mesi il suo partito ‘Forza Italia’ per
contrastare il Partito Democratico di Sinistra PDS. La sua ascesa al potere è un’anomalia in quanto
proprietario di un impero mediatico, e i rapporti con la stampa e la televisione si fanno tesi da
subito, specie dopo l’attacco alla RAI, nel quale sostiene che la TV pubblica ha una linea editoriale
complessiva ostile al suo esecutivo, e la smentita dopo che i giornali lo hanno riportato,
accusandoli di aver falsato le sue parole.
Il 22 novembre 1994 il ‘Corriere della sera’ pubblica uno scoop che vede Berlusconi indagato dalla
Procura di Milano per presunte tangenti pagate dal suo gruppo alla Guardia di Finanza; alla notizia
Berlusconi dice di non aver mai corrotto nessuno e che non si sarebbe dimesso ma sebbene, venga
assolto dalla Cassazione nel processo seguito all’inchiesta, il 22 dicembre viene costretto a
dimettersi dopo lo sfaldamento della sua maggioranza con l’uscita dalla coalizione di ‘Lega Nord’.
L’avvento e la diffusione di Internet, rete di comunicazione derivata dal progetto americano
Arpanet degli anni ’60 segnano una trasformazione inarrestabile die confini del pianeta
permettendo di entrare in contatto con milioni di persone da ogni paese in una sorta di ‘nazione
invisibile’ come è stata definita dalla ‘Stampa’ nel 1994. L’anno della svolta dell’informazione online
in Italia è il 1995 con l’approdo di ‘Unione Sarda’ e ‘l’Unità’; i fautori del multimediale prevedono il
declino della carta stampata mentre gli operatori del settore sono convinti che la stampa
continuerà ad avere un ruolo dominante. Indro Montanelli nel 1997, dopo aver vissuto quasi un
secolo, confessa di non aver capito cosa sia un giornale online ma di pensare che per il giornalismo
come lo hanno conosciuto e amato quelli della sua generazione non ci sarà più spazio.
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