Reti di parole. Lezioni 2010-2011

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RETI DI PAROLE LEZIONI 2010-2011 Giovanni Scarafile

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Anteprima delle dispense delle lezioni del Corso di Etica e deontologia della comunicazione del prof. Giovanni Scarafile dell'Università del Salento

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RETI DI PAROLE

LEZIONI 2010-2011

Giovanni Scarafi le

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© 2011 Lulu Enterprises Inc. Raleigh, NC, USA

ISBN 978-1-4466-2234-6G. Scarafile, Reti di parole. Lezioni 2010-2011, Lulu, Raleigh NC 2011.

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione ed adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi.

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L’insegnante inizia da ciò che è noto, e procede metodicamente verso l’ignoto,

edificando ponti con i materiali a disposizione, costruendo rigorose e

convincenti reti di parole.

Rubem Alves

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Introduzione

Un ricordo della mia via studentesca, le sensazioni provate da matricola il primo giorno di Università, accompagna l’inizio di questo scritto.

Avevo impiegato un po’ di tempo a capire i meccanismi della nuova struttura: prima di tutto, gli studenti non avevano un’aula fissa, come al Liceo, ma dovevano spostarsi di aula in aula per raggiungere i professori; le lezioni erano distribuite nel corso della settimana e dovevi compilarti una specie di cruciverba per capire la compatibilità tra i vari orari: questo sì, posso seguirlo; questo no, mannaggia...Sin da quando mi era sembrato chiaro che mi sarei iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia, avevo sentito crescere da un lato la curiosità, dall’altro un sentimento di preliminare inadeguatezza rispetto a quanto avrei trovato. Con l’approssimarsi della data di inizio dei corsi, curiosità ed inadeguatezza si erano, per così dire, fuse in un amalgama di ansia vigile.

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La scena successiva che mi ricordo è il posto che occupavo nella aula, piccola – non più di una trentina di sedie - dove si teneva la prima lezione. C’erano una quindicina di studenti, soprattutto ragazze e c’era parecchio chiasso quando entrai. Trovai posto alla fine dell’aula, vicino all’uscita. Vedevo perfettamente la cattedra, ma anche la porta dalla quale ero entrato. Giudicai quella posizione ottimale, ma non ne ricordo esattamente il motivo. Forse perché mi consentiva di osservare ciò che avrebbe avuto luogo da lì a poco. Mentre mi facevo mentalmente questi discorsi, mi accorsi che l’orario d’inizio della lezione era passato da almeno dieci minuti. La cosa mi sembrò piuttosto strana e fu l’occasione per chiedere conferma della esattezza di quell’orario ai ragazzi che avevo intorno a me. In effetti, eravamo tutti un po’ stupiti. Cosa poteva essere successo? Perché c’eravamo solo noi?Solo qualche giorno dopo avremmo scoperto che quel ritardo accademico non solo era considerato ‘normale’, ma era segno inequivocabile di autorevolezza del Docente... Con il protrarsi di quello strano differimento, il chiasso nell’aula era andato via via scemando ed aveva preso a serpeggiare il convincimento che forse la lezione sarebbe saltata per qualche meccanismo che, sicuramente a causa della nostra inesperienza di matricole, non avevamo compreso

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bene. Prima ancora che la mia ansia vigile si trasformasse definitivamente in delusione, sentimmo delle voci nel corridoio! Il fatto che le voci divenissero rapidamente più nitide era il segno che un gruppo di persone si stava avvicinando con passi tanto rapidi quanto sicuri all’aula in cui eravamo. Finalmente!Un uomo, elegante, dall’incedere autorevole, varcò la soglia dell’aula. Fiero e con la testa alta, gli occhi semichiusi, come di chi si trovi a vedere la luce dopo essere rimasto per lungo tempo al buio. Non si trattava però di una reazione al nuovo ambiente: gli occhi del Professore erano sempre così, come perennemente ispirati. Con passi felpati, il Professore raggiunse in silenzio la cattedra, sempre guardando fisso di fronte a sé. Assistemmo, rapiti, a quella scena. Ci avevano detto che in Università non devi alzarti quando il Professore entra in aula, ma l’ingresso del Professore aveva comunque avuto un imprevisto effetto scenografico. Per rendere l’idea, ciò che avevamo visto era molto più simile ad una processione religiosa che a ciò che avevo pensato essere un consueto momento di vita universitaria. Nella scia del Professore, infatti, si erano materializzate altre figure (che dall’età intuimmo non essere studenti), che avevano occupato i primi posti, lasciati liberi dalla

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nostra timidezza. Avremmo scoperto in seguito che quella corte al seguito del Professore formava la categoria, fino ad allora a noi sconosciuta, degli “Assistenti”.

Quando la lezione finì, non ebbi la forza di alzarmi subito. Sentivo una strana pesantezza nelle gambe. Era lì che le mie preoccupazioni si erano localizzate. La mia prima lezione universitaria di filosofia era finita ed io, che pure avevo preso molti appunti, non avevo capito niente!“Non ho capito niente” è una espressione che noi utilizziamo spesso. Può essere sinonimo di inadeguatezza o sintomo di disagio rispetto ad un evento. Nel caso dei miei ricordi, essa va invece intesa alla lettera. Il Professore aveva parlato ininterrottamente, per quasi due ore, della dialettica trascendentale di Kant, uno dei più grandi filosofi della storia della filosofia, ma a me era sfuggito del tutto che cosa avesse voluto dirci.

Mi sentii in colpa. Certo, al liceo non eravamo andati oltre Kant, che inutile negarlo non godeva di troppa simpatia da parte nostra. Fu così che quello stesso pomeriggio andai a comprare una copia della Critica della ragion pura. Ero sicuro che, con quel libro in mano, avrei avuto accesso al significato nascosto nelle parole del Professore.

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Il giorno dopo tornai in Università, per la seconda lezione del corso di filosofia. Il professore arrivò, ispirato come al solito, con i suoi quindici minuti di ritardo autorevole, gli assistenti lo seguirono a ruota sedendosi nelle sedie a loro riservate e per altri centoventi minuti lo sentii parlare di temi filosofici. Incomprensibili, però. Tra un appunto e l’altro, ogni tanto aprivo il libro nella speranza di trovare un orientamento, un aiuto, il famoso bandolo della matassa. Niente. Continuavo a non trovare e, peggio, a non capire niente.

Andò avanti così, per quasi un mese.Avevo riempito un quaderno di appunti e, nel frattempo, ero passato da una convinzione ad un’altra. Beh, se continuavo a non capire, non poteva che essere colpa mia, di questo non avevo dubbi. Ma che colpa avevo io se continuavo a non capire? Mi sentivo come una persona che stesse annegando. Più mi dimenavo, più cercavo di resistere a galla, più mi sentivo andare giù, a fondo, inesorabilmente. La lettura delle parti della Critica della ragion pura di cui il Professore parlava a lezione non mi aiutava granché; il manuale di filosofia del liceo ormai lo conoscevo a memoria, ma non c’era alcuna connessione tra il Kant del manuale e le cose che il Professore ci diceva. Avevo chiesto anche ai compagni di corso. Mi era sembrato che nessuno di loro avesse voluto

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ammettere l’esistenza di qualsivoglia problema. Questo aspetto, il non mostrare le proprie debolezze, è una delle cose che ho incontrato più spesso anche negli anni seguenti e mi convinco sempre più che si tratti di una incomprensibile sciocchezza.Quasi un mese dopo l’inizio dei corsi, ero stremato ed indispettito. Le cose si erano assestate e tutto procedeva, in modo pressoché identico, come il primo giorno di lezione. Ormai, quando il Professore parlava, la mia mente si assentava e faceva lunghe pause. La voce del Professore, che imperturbabile procedeva per la sua strada, era diventata un sottofondo per i miei pensieri. Sul quaderno d’appunti scrivevo le mie impressioni. Mi ero accorto, per esempio, che nessuno ci aveva mai detto “Buongiorno”. Né il Professore, né gli Assistenti. Mai.

Era come se non ci fossimo. Il Professore iniziava a parlare in un modo che a me era sembrato ispirato, ma a pensarci bene era come se non ci vedesse, come se noi non fossimo lì. Era questo, il punto: il Professore non si era accorto di noi. Che noi fossimo effettivamente lì, che noi potessimo avere dei dubbi, che stessimo inseguendo i nostri pensieri piuttosto che i concetti di cui parlava: tutto questo sembrava non importargli.