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Giacomo OBERTO RESPONSABILITA’ TRA I PARTNERS E VERSO I TERZI NELLA FAMIGLIA LEGITTIMA E NELLA FAMIGLIA DI FATTO: LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE Incontro di studio sul tema: «Rapporti patrimoniali ed effettività delle tutele nella famiglia legittima e di fatto», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura – Nona Commissione, Tirocinio e Formazione Professionale, Roma 12–14 giugno 2006 AVVERTENZA In considerazione dell’ampiezza del tema, sono state predisposte due distinte relazioni, di cui: (a) la prima ha ad oggetto il concetto di «responsabilità contrattuale» inteso nel senso di dovere giuridico di risarcimento del danno per inadempimento di un’obbligazione inter coniuges o verso la prole; (b) la seconda attiene al fenomeno della «responsabilità» (intesa, questa volta, come titolarità passiva del rapporto obbligatorio) dei coniugi, dei conviventi o dei genitori per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi da uno solo dei coniugi o dei conviventi, ovvero dai figli.

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Giacomo OBERTO

RESPONSABILITA’ TRA I PARTNERS E VERSO I TERZI NELLA FAMIGLIA LEGITTIMA E NELLA FAMIGLIA DI FATTO:

LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE

Incontro di studio sul tema: «Rapporti patrimoniali ed effettività delle tutele nella famiglia legittima e di fatto», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura – Nona Commissione, Tirocinio e Formazione Professionale,

Roma 12–14 giugno 2006

AVVERTENZA In considerazione dell’ampiezza del tema, sono state predisposte due distinte relazioni, di cui:

(a) la prima ha ad oggetto il concetto di «responsabilità contrattuale» inteso nel senso di dovere giuridico di risarcimento del danno per inadempimento di un’obbligazione inter coniuges o verso la prole;

(b) la seconda attiene al fenomeno della «responsabilità» (intesa, questa

volta, come titolarità passiva del rapporto obbligatorio) dei coniugi, dei conviventi o dei genitori per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi da uno solo dei coniugi o dei conviventi, ovvero dai figli.

Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

Giacomo OBERTO

RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE E RAPPORTI FAMILIARI(*)

SOMMARIO: 1. Introduzione. Famiglia e responsabilità contrattuale: l’influsso esercitato sul tema dalla «stagione della negozialità» nei rapporti familiari. – 2. La definizione della responsabilità contrattuale come dovere di risarcire il danno conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio. – 3. Ininfluenza, sulla possibilità di ravvisare ipotesi di responsabilità contrattuale tra coniugi, dell’esistenza di specifiche sanzioni di tipo giusfamiliare. Il ruolo giocato dall’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c. – 4. La responsabilità contrattuale da violazione del dovere di contribuzione tra coniugi. – 5. La responsabilità contrattuale da violazione di accordi sull’indirizzo della vita familiare. – 6. Responsabilità contrattuale e comunione legale tra coniugi. I profili attinenti alla determinazione dell’oggetto. – 7. Responsabilità contrattuale ed amministrazione della comunione legale tra coniugi. Responsabilità ex art. 184 c.c. e per mala gestio della comunione. – 8. Responsabilità contrattuale e scioglimento della comunione legale tra coniugi. Rimborsi e restituzioni ex art. 192 c.c. – 9. Responsabilità contrattuale e regime di separazione dei beni. L’esistenza di un mandato ad amministrare. – 10. Segue. Responsabilità per il compimento di atti di amministrazione nonostante l’opposizione dell’altro coniuge, oppure in assenza sia di mandato che di opposizione (rinvio). – 11. Segue. Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro e la relativa responsabilità. – 12. Segue. L’obbligo di indennizzare il coniuge che abbia apportato miglioramenti o addizioni ai beni dell’altro. – 13. Responsabilità contrattuale e crisi coniugale. 14. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori. – 15. La responsabilità contrattuale nell’ambito della famiglia di fatto. Le obbligazioni tra conviventi. – 16. Segue. La responsabilità contrattuale per violazione di obbligazioni assunte per la prole nell’ambito di un contratto di convivenza.

(*) Testo di una delle due relazioni presentate dall’autore all’incontro di studio sul tema «Rapporti patrimoniali ed effettività delle

tutele nella famiglia legittima e di fatto», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura – Nona Commissione, Tirocinio e Formazione Professionale, svoltosi a Roma dal 12 al 14 giugno 2006.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

1. Introduzione. Famiglia e responsabilità contrattuale: l’influsso esercitato sul tema dalla «stagione della negozialità» nei rapporti familiari.

Gli studi che, nel corso degli ultimi anni, a partire da una celebre monografia di Salvatore

Patti (1), sono andati affastellandosi sul tema dei rapporti tra famiglia e responsabilità civile (2) sembrano prediligere la trattazione dei profili aquiliani, lasciando, per così dire, un po’ in ombra i temi della responsabilità contrattuale. Il che, sia chiaro, appare più che ovvio, attesa la vivacità che caratterizza, da ormai svariati anni a questa parte, il settore dell’illecito extracontrattuale e la velocità con la quale si espandono le sempre più mobili frontiere del danno ingiusto (3), nonché il superamento di atavici pregiudizi sulla condizione femminile, che avevano in buona sostanza determinato l’idea che la famiglia si trovasse, rispetto all’area della responsabilità civile, in una situazione di vera e propria immunità (4). D’altro canto, la maggior lentezza del cammino percorso della responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c. all’interno del territorio familiare si spiega con le peculiarità di un contesto, come quello dei rapporti giuridici endofamiliari, rispetto a cui

(1) PATTI, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984. (2) Cfr. ad esempio P. MOROZZO DELLA ROCCA, Violazione dei doveri coniugali: immunità o responsabilità?, in Riv. crit. dir.

priv., 1998, p. 605 ss.; ALPA, BESSONE e CARBONE, Atipicità dell’illecito, I, Persone e rapporti familiari, Milano, 1993; LENTI, Famiglia e danno esistenziale, in AA. VV., Il danno esistenziale, a cura di Cendon e Ziviz, Milano, 2000, p. 253 ss.; DE MICHEL, Violazione del dovere di fedeltà e separazione personale dei coniugi, nota a Cass., 17 luglio 1999, n. 7566, in Fam. dir., 2000, p. 131 ss.; ZACCARIA, L’infedeltà: quanto può costare? Ovvero è lecito tradire solo per amore, in Studium juris, 2000, p. 524 ss.; BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile, nota a Trib. Milano, 10 febbraio 1999, in Fam. dir., 2001, p. 185 ss.; DE MARZO, Responsabilità civile e rapporti familiari, in Danno e resp., 2001, p. 741 ss.; DOGLIOTTI, La famiglia e l’ “altro” diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale, nota a Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. dir., 2001, p. 159 ss.; CENDON e SEBASTIO, Lei, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, in Resp. civ. prev., 2002, p. 1257 ss.; FRACCON, Relazioni familiari e responsabilità civile, Milano, 2003; AA. VV., Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di Cendon, Padova, 2004; AA. VV., Rapporti familiari e responsabilità civile, a cura di Longo, Torino, 2004; BREDA, Il danno non patrimoniale da violazione dei doveri sponsali, in AA. VV., Il nuovo danno non patrimoniale, a cura di Ponzanelli, Padova, 2004, p. 173 ss.; CENDON, Dov’è che si sta meglio che in famiglia, in AA. VV., Persona e danno, a cura di Cendon, Milano, 2004, III, p. 2720 ss.; PILLA, Gli obblighi coniugali e la responsabilità civile, in AA. VV., Persona e danno, a cura di Cendon, III, cit., p. 2910 ss; FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, 2004; CONTIERO, I doveri coniugali e la loro violazione. L’addebito. Il risarcimento del danno, Milano, 2005, p. 140 ss.; CASSANO, Rapporti familiari, responsabilità civile e danno esistenziale, Padova, 2006.

Per la giurisprudenza sul tema v. Trib. Roma, 17 settembre 1989, in Giur. merito, 2001, p. 754, con nota di LATTANZI; in Nuova giur. civ. comm., 1989, I, p. 559, con nota di PALETTO; in Contratto e impresa, 1990, p. 607, con nota di CENDON; Trib. Monza, 15 marzo 1997, in Fam. dir., 1997, p. 462, con nota di ZACCARIA; Trib. Milano, 10 febbraio 1999, in Fam. dir., 2001, p. 185, con nota di BONA; Trib. Firenze, 13 giugno 2000, in Danno e resp., 2001, p. 741, con nota di DE MARZO; Trib. Milano, 4 giugno 2002, in Giur. it., 2002, p. 2290, con nota di CASTAGNARO; in Vita notar., 2003, p. 720, con nota di MARTINI; in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, p. 278, con nota di FUSARO; Trib. Milano, 24 settembre 2002, in Resp. civ. prev., 2003, p. 486, con nota di FACCI; in Corr. giur., 2003, p. 1205, con nota di DE MARZO; Trib. Savona, 5 dicembre 2002, in Fam. dir., 2003, p. 248, con nota di LONGO.

(3) Come rilevato da FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 4, la recente attenzione rivolta ai rapporti esistenti tra la responsabilità civile e le relazioni tra coniugi non è occasionale; essa deriva, innanzi tutto, dai mutamenti avvenuti, negli ultimi anni, all’interno della responsabilità civile. A tal proposito, si può rilevare come soltanto con la pronuncia delle Sezioni unite, n. 500 del 19991, che riconosce la risarcibilità degli interessi legittimi, viene respinta la tradizionale interpretazione dell’art. 2043, che identificava il «danno, ingiusto», esclusivamente, con la lesione di un diritto soggettivo; con tale pronuncia si sottolinea come l’area della risarcibilità non sia definita da norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell’illecito, in quanto fatto lesivo di situazioni determinate, ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì sia caratterizzata dalla «clausola generale», espressa dalla formula «danno ingiusto». In base a tale clausola generale, pertanto, è risarcibile il danno, che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in mancanza di una causa di giustificazione, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento.

(4) Quando, ormai oltre vent’anni fa, Salvatore Patti inaugurava il tema della responsabilità civile in ambito familiare notava che nel sistemi giuridici di common law l’immunità di cui in passato godeva il marito per gli illeciti recati alla moglie (interspousal immunity) aveva salde radici nella giurisprudenza delle Corti, collegandosi alla dottrina della unity of persons, formulata da Blakstone nella seconda metà del XVIII secolo, per cui «con il matrimonio il marito e la moglie diventano una persona sola e quella persona è il marito», al punto che in Inghilterra si rese necessario l’intervento del legislatore [Law Reform Act (Husband and Wife) Act 1962] per attribuire espressamente a ciascun coniuge il diritto di agire nel confronti dell’altro per il risarcimento dei danni «come se essi non fossero sposati» (cfr. PATTI, Famiglia e responsabilità civile, cit., p. 61 ss.). Da noi, invece, nell’assenza pressoché totale di interventi giudiziali, il principio di immunità si radica non nella giurisprudenza, ma nel costume. Sono le regole del costume, prima ancora di quelle del diritto a rendere operante il principio secondo cui «le questioni economiche tra coniugi uniti non si risolvono davanti al giudice» (PATTI, Famiglia e responsabilità civile, cit., p. 67). E quando si giunge alla separazione è in quella sede che si fanno valere le rispettive pretese (FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, in AA. VV., Rapporti familiari e responsabilità civile, a cura di Longo, cit., p. 47).

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l’accostamento di concetti quali quello di «obbligazione» o di «contratto» poteva sembrare – quanto meno sino a non molto tempo addietro – ardito (5).

Ma il quadro di cui sopra non può non risultare oggi influenzato da quella «stagione della negozialità» che – come ampiamente segnalato dallo scrivente in svariate altre sedi – da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari, fondati o meno sul matrimonio (6). Il passaggio, invero, dalla «concezione istituzionale» (7) alla «concezione costituzionale» della famiglia (8), ha spianato la via ad una nozione di negozio giuridico familiare cui è possibile applicare (in difetto di speciali deroghe normative) la disciplina generale dettata dal codice per il contratto, secondo quell’insegnamento di Francesco Santoro-Passarelli (9) che può ormai dirsi recepito – e da tempo – anche dalla giurisprudenza. Quest’ultima, per esempio, riconosce da svariati anni a questa parte il carattere negoziale dell’accordo di separazione personale, di quello di divorzio su domanda congiunta, nonché di quelle particolari intese di carattere patrimoniale concluse in sede, in occasione, o anche solo in vista della separazione personale, della separazione di fatto, del divorzio o dell’annullamento del matrimonio, qualificate dallo scrivente come «contratti della crisi coniugale» (10).

(5) Su questo accostamento si fa rinvio per tutti a OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 28 ss. ss.; ID.,

Riflessioni sul patto di famiglia, Padova, 2006, in corso di stampa, cap. I, § 2. (6) Sul tema che, per i suoi multiformi profili, non è richiamabile neppure per sommi capi in questa sede, si fa rinvio per tutti a

OBERTO, Contratto e vita familiare, in AA. VV., Trattato del contratto, a cura di Roppo, Milano, 2006 (in corso di stampa). L’argomento è stato sviluppato in particolare dallo scrivente nei seguenti lavori: ID., I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 13 ss.; ID., L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 617 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato da Schlesinger e continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 64 ss. (e ivi per ulteriori rinvii).

(7) Su tale concezione v., anche per gli ulteriori rinvii, SESTA, Il diritto di famiglia tra le due guerre e la dottrina di Antonio Cicu, in CICU, Il diritto di famiglia. Teoria generale, Lettura di Michele Sesta, Momenti del pensiero giuridico moderno. Testi scelti a cura di Pietro Rescigno. Redattore Enrico Marmocchi, Sala Bolognese, 1978, p. 1 ss., p. 47 ss.; cfr. inoltre, per ulteriori rinvii alle opere del Cicu e agli autori intervenuti nel dibattito sulla «concezione istituzionale» della famiglia, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 103 ss.

(8) Sul tema cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 103 ss., 116 ss. cfr. inoltre BOCCHINI, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 446 ss, p. 437 ss.

(9) Si veda in particolare il contributo, pubblicato per la prima volta nel 1945, dal titolo L’autonomia privata nel diritto di famiglia (SANTORO-PASSARELLI, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, p. 381 ss., già in Dir. giur., 1945, p. 3 ss.). Per un’illustrazione del pensiero dell’insigne Autore cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 113 ss.; per una successiva riscoperta dello scritto di Santoro-Passarelli cfr. anche ZOPPINI, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 213 ss. Per un tentativo di sminuire l’importanza e l’innovatività del contributo di Santoro-Passarelli cfr. E. RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Artt. 159-166-bis, in Il codice civile. Commentario fondato da Schlesinger e continuato da Busnelli, Milano, 2004, p. 31 s., secondo il quale la proposta applicazione ai negozi giuridici familiari delle disposizioni codicistiche di cui alla parte generale del contratto non implicherebbe un superamento delle posizioni di Cicu, ma si limiterebbe ad indicare l’ «adozione di una nozione più ampia di negozio giuridico». Peraltro, se è vero che, come già messo in luce dallo scrivente (cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 115), «nella formulazione proposta da Santoro-Passarelli, il negozio giuridico familiare risentiva ancora fortemente degli influssi della dottrina dallo stesso Autore contrastata, al punto che in essa vi si trova ancora il richiamo alla ‘funzione d’interesse superiore che debbono genericamente adempiere i vari negozi del diritto di famiglia’», ciò non deve stupire più di tanto, «se si considera che stiamo qui parlando del medesimo giurista secondo cui ‘la famiglia, come qualunque altro organismo, e più di ogni altro, per la sua particolare struttura, non vive senza un capo’». Sta però di fatto che, «al di là di questo tributo pagato all’autorevolezza della dottrina del Cicu, nella tesi testé esposta sono presenti in nuce tutte le premesse per un pieno sviluppo della autonomia privata anche nel campo familiare». Sarà sufficiente pensare al carattere sicuramente rivoluzionario della (da Santoro-Passarelli) proposta tendenziale applicazione al negozio giuridico familiare della disciplina generale del contratto. E tanto basta per segnare un decisivo «salto di qualità», una netta rottura rispetto al passato, che avrebbe generato negli anni a seguire una sterminata messe di frutti nel campo della negozialità tra coniugi (si vedano, tanto per citare solo alcuni esempi, i riferimenti di cui alla nota seguente).

(10) Cfr., anche per gli ulteriori rinvii dottrinali e giurisprudenziali, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 28 ss.; in particolare, sulla natura contrattuale dell’accordo di separazione consensuale, per ciò che attiene alle intese d’ordine economico, v. ID., La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili, in Fam. dir., 1999, p. 601 ss.; ivi, 2000, p. 86 ss. Così, per esempio, un espresso rimando all’art. 1322 c.c. compare per ben due volte in una nota decisione sulla validità degli accordi preventivi tra coniugi in materia di conseguenze patrimoniali dell’annullamento del matrimonio (Cass., 13 gennaio 1993, n. 348, in Corr. giur., 1993, p. 822 con nota di LOMBARDI; in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1670, con nota di CASOLA; in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 950, con note di CUBEDDU e di RIMINI; in Vita notar., 1994, p. 91, con nota di CURTI; in Contratti, 1993, p. 140, con nota di MORETTI), mentre espliciti o impliciti riferimenti all’autonomia contrattuale punteggiano tutta o quasi la complessa vicenda in tema di trasferimenti immobiliari e mobiliari in sede di separazione personale tra coniugi (sul tema cfr. per tutti OBERTO, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Fam. dir., 1995, p. 155 ss.; ID., I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1211 ss.; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, passim, in partic. p. 69 ss.; v. anche G. CECCHERINI, Separazione consensuale e contratti tra

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Lo stesso vale per gli accordi costituenti il «contenuto eventuale» (11) dell’accordo di separazione consensuale, laddove nemmeno la dottrina sembra ormai più dubitare della natura non solo negoziale, bensì addirittura contrattuale di questi atti, allorquando gli stessi (come per lo più accade) abbiano ad oggetto prestazioni di carattere patrimoniale (12). Anche qui l’art. 1322 c.c. ha ricevuto concreta applicazione in un’innumerevole serie di casi che hanno portato il «diritto vivente» a determinare, in nome del principio dell’autonomia privata (sovente espressamente menzionato nelle motivazioni delle decisioni), una vera e propria dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione, ben al di là di quegli angusti limiti in cui alcuni autori lo avrebbero voluto inquadrare (13): si è così deciso, per esempio, in relazione ad una complessa pattuizione transattiva di tutti i rapporti nati dal vincolo coniugale, che l’accordo dei coniugi sottoposto all’omologazione del tribunale ben può contenere rapporti patrimoniali anche «non immediatamente riferibili, né collegati in relazione causale al regime di separazione o ai diritti ed agli obblighi derivanti dal matrimonio» (14). L’affermazione della negozialità tra coniugi (in crisi e non) è giunta al punto che non destano neppure più stupore, nell’osservatore della giurisprudenza di legittimità, affermazioni del genere di quella secondo cui «i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibili e rientrano nella loro autonomia privata» (15).

In un crescendo che conosce ormai ben poche battute d’arresto (16) si sono così fondati i rapporti personali e contributivi dei coniugi sulla regola dell’accordo (17), si è consolidata la tesi

coniugi, in Giust. civ., 1996, II, p. 378 s.; LONGO, Trasferimenti immobiliari a scopo di mantenimento del figlio nel verbale di separazione: causa, qualificazione, problematiche, nota a App. Genova, 27 maggio 1997, in Dir. fam. pers., 1998, p. 576; per una successiva analisi del tema, cfr. anche T.V. RUSSO, I trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella separazione e nel divorzio, Napoli, 2001; OBERTO, I trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio, in Familia, 2006 (in corso di pubblicazione). Ancora, al concetto di «convenzione di diritto familiare» fa richiamo la Cassazione in una decisione del 1983 per affermare l’applicabilità all’accordo di riconciliazione dei principi generali degli artt. 1326-1328 c.c. in tema di formazione del consenso (Cass., 29 aprile 1983, n. 2948, in Giur. it., 1983, I, 1, c. 1233; in Dir. fam. pers., 1983, p. 910; per una pronuncia più recente che applica l’art. 1371 c.c. ad una «convenzione accessoria alla sentenza di divorzio» v. Cass., 14 luglio 2003, n. 10978; per l’applicazione, poi, delle regole in tema di vizi della volontà all’accordo omologato di separazione consensuale v. Cass., 4 settembre 2004, n. 17902; Cass., 29 marzo 2005, n. 6625). Per non dire poi dell’evoluzione più recente in materia di accordi non omologati successivi alla separazione, ove la Cassazione riconosce effetto, ormai da alcuni anni a questa parte, al pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi, in forza del principio sancito dall’art. 1322 c.c., ritenuto senza riserve applicabile al caso di specie, addirittura anche per quanto concerne le pattuizioni concernenti la prole minorenne; conclusione, quest’ultima, che conferma l’espansione dell’operatività della sfera dell’autonomia privata anche nel settore di quei negozi del diritto di famiglia non caratterizzati dalla patrimonialità (Cfr. per esempio Cass., 24 febbraio 1993, n. 2270, in Corr. giur., 1993, p. 820, con nota di LOMBARDI; in Giust. civ., 1994, I, p. 213, con nota di SALA; in Giust. civ., 1994, I, p. 912; in Dir. fam. pers., 1994, p. 554, con nota di DORIA; Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Dir. fam. pers., 1994, p. 868; in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 710, con nota di FERRARI; in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1476; in Foro it., 1995, I, c. 2984; in Fam. dir., 1994, p. 148, con nota di V. CARBONE; Cass., 11 giugno 1998, n. 5829; Cass., 20 ottobre 2005, n. 20290, in Fam. dir., 2006, p. 147, con nota di OBERTO).

(11) Su questo concetto cfr. per tutti OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 215 ss. (12) In questo senso cfr. BARBIERA, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, in Commentario del codice civile a cura di

Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1971, p. 147 s.; A. FINOCCHIARO, Sulla pretesa inefficacia di accordi non omologati diretti a modificare il regime della separazione consensuale, in Giust. civ., 1985, I, p. 1659 s.; METITIERI, La funzione notarile nei trasferimenti di beni tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, in Riv. notar., 1995, I, p. 1177; G. CECCHERINI, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, in Giust. civ., 1996, II, p. 407; FIGONE, Sull’annullamento del verbale di separazione consensuale per incapacità naturale, nota a App. Milano, 18 febbraio 1997, in Fam. dir., 1997, p. 441.

(13) Cfr., anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 215 ss. (14) V. Cass., 15 marzo 1991, n. 2788, in Foro it., 1991, I, c. 1787; in Corr. giur., 1991, p. 891, con nota di A. CAVALLO; sempre

in materia di transazione cfr. Cass., 12 maggio 1994, n. 4647, in Fam. dir., 1994, p. 660, con nota di CEI; in Vita notar., 1994, p. 1358; in Giust. civ., 1995, I, p. 202; in Dir. fam. pers., 1995, p. 105; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 882, con nota di BUZZELLI; in Riv. notar., 1995, II, p. 953.

(15) Così Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, in Giust. civ., 1988, I, p. 459. (16) Per una vicenda in cui la Corte Suprema, dopo avere ribadito con dovizia di particolari in motivazione la tesi della negozialità

della separazione consensuale, con un finale «a sorpresa» ha negato l’impugnabilità del relativo accordo per simulazione cfr. Cass., 20 novembre 2003, n. 7607, in Corr. giur., 2004, p. 309 ss., con nota di OBERTO. Si vedano peraltro le successive Cass., 4 settembre 2004, n. 17902, cit., e Cass., 29 marzo 2005, n. 6625, cit., che hanno invece ammesso l’impugnabilità delle medesime intese per vizi del consenso.

(17) Cfr., anche per i rinvii, RUSCELLO, I rapporti personali fra coniugi, Milano, 2000, p. 63 ss.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

della natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali (18), si è ammessa una rimarcabile sfera di autonomia con riguardo ai regimi patrimoniali (19), si è concessa la più ampia libertà negoziale nei momenti salienti che caratterizzano il fenomeno della crisi coniugale (20), mentre, sul versante della famiglia di fatto, si è venuta affermando la validità dei contratti di convivenza e, più in generale, di tutte le intese patrimoniali in seno al rapporto more uxorio, purché rispettose dei canoni previsti per il contratto in generale (21). Ciò, del resto, conformemente a un’evoluzione che sta caratterizzando le legislazioni di ogni parte d’Europa, se è vero come è vero che proprio nella direzione della negozialità e non certo in quella dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola sussistenza del ménage de fait, si muovono le soluzioni normative che di recente, in vari paesi del nostro continente, si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi giuridici posti dalle convivenze omo- ed eterosessuali. Questa stessa impostazione sembra ormai destinata a lasciare tracce sempre più profonde anche nella normativa sovranazionale (22).

Volgendo nuovamente lo sguardo alla situazione italiana, possiamo infine aggiungere che, quale coronamento della descritta evoluzione, il legislatore non solo ha espressamente riconosciuto l’esistenza della categoria dei «contratti disciplinati dal diritto di famiglia» (23), ma si è spinto ad introdurre, quale nuovo tipo negoziale, un «patto di famiglia» idoneo a disattivare, in relazione a determinati tipi di intese, la tutela riconosciuta da secoli ai legittimari, così «blindando» alcuni negozi volti alla trasmissione endofamiliare della ricchezza, rendendoli impermeabili alla possibile incidenza delle mutevoli vicende che, nel corso degli anni, possono interessare la compagine familiare (24). Quasi contemporaneamente, altri interventi legislativi sono venuti a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità», ex art. 2645-ter c.c. (25), o, ancora ad aprire ulteriori spazi alla materia degli accordi

(18) Cfr., anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 684 ss.; ID., L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 617 ss.

(19) Cfr., anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 155 ss.; ID, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 636 ss.

(20) Cfr, anche per i rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 28 ss., 179 ss., 321 ss., 634 ss., II, cit., p. 1212 ss., 1413 ss.

(21) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 8 ss., 151 ss. e ora ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 17 ss.

(22) OBERTO, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 27 ss. (23) Cfr. l’art. 11, d. legis. 9 aprile 2003, n. 70 «Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi

della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico», il quale stabilisce l’inapplicabilità della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di famiglia». Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente, deve intendersi effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali (sulla cui natura contrattuale v. per tutti OBERTO, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 617 ss.), quanto ai contratti della crisi coniugale che, come si è dimostrato in altra sede (OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 696 ss.), rinvengono il loro fondamento causale in specifiche disposizioni giusfamiliari.

(24) Sul tema v. per tutti OBERTO, Riflessioni sul patto di famiglia, cit., Cap. II, § 2. (25) In proposito andrà menzionato che l’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30

dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative») ha introdotto l’art. 2645-ter c.c., secondo il quale «Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

Il più grave dei tanti problemi posti da uno degli ultimi «regali» dell’agonizzante XIV legislatura consiste nell’accertare se ci si trovi o meno di fronte ad un nuovo tipo di negozio, qualificabile come «atto di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (riferibili a persone con disabilità)»: con la precisazione che l’eventuale risposta positiva dovrebbe indurre a ritenere che, forse per la prima volta, il legislatore è riuscito ad introdurre un nuovo tipo negoziale operando esclusivamente sulle norme concernenti la pubblicità! Sul punto tre sono le possibili risposte. La prima consiste nel disapplicare puramente e semplicemente l’art. 2645-ter c.c., in quanto diretto all’attribuzione di rilievo sul piano delle sole formalità pubblicitarie ad un fenomeno (atto di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela) che non è regolato dal diritto «sostanziale» (inteso come contrapposto al «diritto pubblicitario»). La seconda via è quella di cercare di individuare quali, tra gli istituti vigenti, sarebbero astrattamente idonei a dar luogo ad atti qualificabili come «di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela», pur non potendo gli stessi concretamente produrre tali effetti, per la presenza di disposizioni in senso contrario. Disposizioni che dovrebbero dunque ritenersi derogate dall’introduzione dell’art. 2645-ter c.c. Ragionando in questi termini si dovrebbe allora

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nell’ambito delle famiglie legittime e di fatto in crisi, pur in un criticabilissimo e dissennato contesto di generalizzazione «forzata» e d’imposizione iussu Principis, contro ogni logica, dell’istituto dell’affidamento congiunto, ribattezzato «condiviso», secondo l’italico costume, che s’illude di risolvere i problemi mutando nome alle cose (26).

In quest’ottica non desta stupore che la giurisprudenza non esiti a riferirsi sempre di più a concetti propri del diritto delle obbligazioni anche con riguardo a tipici doveri di carattere personale inter coniuges: così, con riguardo al tema della fedeltà coniugale, mentre nella giurisprudenza di merito (27) non manca chi richiama per i coniugi il concetto di correttezza reciproca, di matrice «obbligatoria» (cfr. art. 1175 c.c.) e negoziale (28), la Cassazione afferma che il dovere di fedeltà consiste nell’impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca, ossia di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, dedizione che non va quindi intesa soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali (29).

dire che tanto il testamento che il contratto sarebbero istituti potenzialmente idonei a stabilire effetti di vincolo su determinati beni per tutta la vita di un disabile, ma, in concreto, non lo possono fare per via di principi quali il divieto di sostituzione fedecommissaria (al di là degli angusti limiti di cui all’art. 692 ss. c.c.) o il divieto dei patti successori. In quest’ottica si potrebbe, a titolo d’esempio, scorgere nella nuova norma il riconoscimento della validità di disposizioni testamentarie o di patti successori diretti, per l’appunto, a vincolare per il periodo successivo al decesso del disponente e per tutta la durata della vita di un determinato soggetto disabile, uno o più beni. Ne conseguirebbe che gli eredi si vedrebbero costretti a rispettare siffatti vincoli, ancorché eventualmente disposti a suo tempo dal de cuius, magari con manifestazione di volontà inter vivos. Se e come tali norme dovrebbero poi interagire con i diritti attribuiti ai legittimari appare un vero e proprio mistero, per la soluzione del quale si potrebbe forse ricorrere alle disposizioni in tema di cautela sociniana (art. 550 c.c.).

L’ultima soluzione è quella di ipotizzare che il legislatore abbia implicitamente inteso dar vita ad un’autonoma figura negoziale, come appare del resto confermato dal rilievo che la norma in esame contiene anche disposizioni che con il sistema della pubblicità nulla hanno a che vedere (si pensi al principio per cui «per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso»), nonché dall’espresso richiamo al principio di libertà contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. Una figura negoziale che potrebbe dunque costituire il primo esempio di trust «tricolore», in cui la destinazione alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela viene attuata tramite una forma di separazione patrimoniale quanto mai accentuata, estrinsecantesi nel principio per cui «I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». In questo senso sembra deporre anche il fatto che la terminologia pare ispirata ad alcune (peraltro ben più ponderate) proposte di legge della XIV legislatura, che, sotto il titolo, rispettivamente, «Disciplina della destinazione di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap per favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972, presentata alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 2377, presentata alla Camera dei Deputati il 10 maggio 2002), miravano ad introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di dar luogo ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di common law con il trust, ma allo stesso tempo coerente con il nostro sistema civilistico e fiscale e, quindi, di più immediata e agevole fruibilità per i soggetti interessati.

Naturalmente, che la nuova figura negoziale possa contenere, oltre ad un profilo di vincolo, anche un vero e proprio momento dispositivo, come nel caso del trust (sulla cui ammissibilità nel nostro ordinamento e sui cui risvolti giusfamiliari si fa rinvio per tutti a OBERTO, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 183 ss.; ID., Il trust familiare, disponibile al seguente indirizzo web:

http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm), è questione ancora tutta da discutere, posto che il concetto di vincolo non sembra, di per sé, in grado di abbracciare anche il ben diverso fenomeno traslativo del diritto dominicale (sul tema, e per perplessità analoghe a quelle qui espresse, si veda Trib. Trieste, 7 aprile 2006, disponibile al seguente indirizzo web: http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=230; in un’ottica invece molto diversa si colloca LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trusts att. fid., 2006, p. 169 ss.).

(26) Si pensi (ma l’argomento è sviluppato dallo scrivente in altra sede: cfr. OBERTO, Contratto e vita familiare, cit. cap. I, §§ 1, 6) alle disposizioni del nuovo art. 155, cpv. c.c. (estensibile anche alla materia divorzile, nonché a quella dei figli di soggetti non coniugati, come disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli»), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori», o al nuovo quarto comma dell’art. cit., a mente del quale ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti». Va rilevato che quest’ultima disposizione viene addirittura a porsi (per quanto attiene alla derogabilità del criterio di proporzionalità) in evidente contrasto con quanto stabilito dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, sollevando altresì (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost. L’accordo delle parti può pure derogare ai parametri di adeguamento agli indici ISTAT dell’assegno per la prole (cfr. art. 155, quinto comma, c.c.).

(27) Cfr. i richiami in CENDON e SEBASTIO, Lei, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, cit., p. 1290. (28) Tramite il rinvio al concetto di buona fede in senso oggettivo, in cui è ovviamente insita l’idea della correttezza (v. su questo

tema per tutti DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, nel Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 290 ss.): cfr. artt. 1337, 1358, 1366, 1375 c.c.

(29) Cass., 18 settembre 1997, n. 9287, in Giust. civi., 1997, I, p. 2383.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

2. La definizione della responsabilità contrattuale come dovere di risarcire il danno conseguente alla violazione di un rapporto obbligatorio.

Per affrontare il peculiare profilo dei rapporti tra dinamiche familiari e responsabilità

contrattuale, occorre partire dal dato per cui siffatto tipo di responsabilità costituisce l’obbligo di risarcimento del danno conseguente all’inadempimento di un’obbligazione, secondo quanto descritto dall’art. 1218 c.c. (30), che prevede l’ipotesi del «debitore» che non esegue esattamente «la prestazione dovuta». In effetti, nel linguaggio legislativo, il termine «debitore» indica esclusivamente il soggetto passivo dell’obbligazione, e il termine «prestazione» esprime tipicamente l’oggetto del rapporto obbligatorio. Il fatto dell’inadempimento è così letteralmente riferito all’inesecuzione dell’obbligazione, come risulta anche dalla intitolazione del capo in cui è contenuta la norma e dalla sua collocazione nel titolo che disciplina l’obbligazione in generale (31).

Sarà poi il caso di sottolineare come, dal punto di vista terminologico, la denominazione invalsa per descrivere il fenomeno in questione, vale a dire «responsabilità contrattuale», sebbene confortata da un lungo uso, sia imprecisa: il contratto, invero, non è che una delle fonti di obbligazione e pertanto non è corretto assegnare l’attributo contrattuale alla responsabilità che può derivare dall’inadempimento di qualsiasi obbligazione, nascente da contratto o da altra fonte, secondo quanto stabilito dall’art. 1173 c.c. (32).

La questione è dunque quella di vedere se e in che misura possano darsi, nell’ambito dei rapporti familiari o parafamiliari, vere e proprie obbligazioni (33). Il quesito rileva in modo particolare avuto riguardo al necessario requisito della patrimonialità della prestazione, secondo

(30) La letteratura sul tema – nonché sull’irrisolta questione dei rapporti tra gli artt. 1218 e 1176 c.c. – è, ovviamente, immensa. Cfr. ex multis (e per gli ulteriori, necessari, rinvii) BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1948, p. 422 ss., III, Milano, 1948, p. 252 ss.; BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, II, Torino, 1955, p. 49 ss.; COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore. Problemi generali, Milano, 1955, p. 29 ss.; GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1959, p. 183 ss.; BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni. Art. 1218-1229, nel Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1967, p. 1 ss.

(31) Cfr. BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni. Art. 1218-1229, cit., p. 2. (32) Su questo rilievo v. per tutti DE CUPIS, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1946, p. 38 s. (33) Il nostro codice civile, che in generale non sembra mostrarsi poi così restio a fornire definizioni di istituti giuridici (dal

testamento alla proprietà, al contratto, a buona parte dei contratti speciali, all’azienda, ecc.), non presenta la nozione di obbligazione; esso si limita invece, nelle «disposizioni preliminari» (capo I) del titolo del libro quarto, a dettare tre disposizioni (artt. 1173, 1174 e 1175), delle quali una soltanto (il principio della patrimonialità della prestazione) può aiutare l’interprete nella definizione del concetto in esame.

Il progetto ministeriale del codice civile, libro delle obbligazioni, del 1940 definiva l’obbligazione come «un vincolo in virtù del quale il debitore è tenuto verso il creditore ad una prestazione positiva o negativa». Nel secondo progetto ministeriale la definizione sparì e la Relazione al Re (n. 557) chiarì che la soppressione era stata deliberatamente effettuata, dovendo la definizione degli istituti giuridici «essere lasciata alla dottrina».

Ora, la dottrina si è tradizionalmente rifatta alle definizioni romanistiche, contenute in due passi delle fonti. Il primo, tratto dalle istituzioni di Giustiniano (I, 3, 13 pr.), suona nella maniera seguente: «obligatio est iuris vinculum quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei, secundum nostrae civitatis iura». Il secondo è tratto dal digesto (D, 44, 7, 3) ed afferma che «obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum, vel servitutem nostram faciat; sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum». Come si vede, l’art. 1 del citato progetto ministeriale del codice civile manifestava l’evidente influsso dei suddetti passi, nonché del § 241 BGB che, sotto la rubrica «Natura del rapporto obbligatorio», prevede che «Per effetto del rapporto obbligatorio il creditore è autorizzato a pretendere dal debitore una prestazione, che può anche consistere in un comportamento negativo».

In conseguenza di quanto testé illustrato può dunque dirsi che l’obbligazione è un vincolo, cioè un rapporto giuridico (diritto soggettivo patrimoniale e relativo) in virtù del quale un soggetto, il debitore, deve tenere un dato comportamento nell’interesse di un altro soggetto, detto creditore. Il comportamento, detto prestazione, può consistere a sua volta in un dare, in un fare o in un non fare una determinata cosa. Gli elementi costitutivi dell’obbligazione possono essere sinteticamente individuati nei seguenti cinque: (a) i soggetti, più precisamente il soggetto attivo (creditore) e quello passivo (debitore); (b) il contenuto, che nel caso di specie consiste nella prestazione, cioè nel comportamento (dare, fare o non fare) che il debitore deve tenere nell’interesse del creditore; (c) l’oggetto, che è dato dal bene, dall’utilità, o dal vantaggio che il creditore intende ottenere con l’adempimento dell’obbligazione; (d) il vincolo giuridico (che riunisce i precedenti tre elementi), in forza del quale il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione dovuta ed il creditore ha il diritto di pretenderne l’esecuzione; (e) l’interesse del creditore, cui deve corrispondere la prestazione dovuta. Sulla definizione del concetto di obbligazione si potranno vedere – ex multis – BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni, I, cit., p. 9 ss.; CICU, L’obbligazione nel patrimonio del debitore, Milano, 1948, p. 1 ss.; BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, p. 9 ss., 45 ss.; BARBERO, op. cit., p. 1 ss.; DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, cit., p. 1 ss.; BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1990, p. 1 ss.

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quanto disposto dall’art. 1174 c.c. E’ noto che la ratio di tale norma – secondo cui la disciplina dell’obbligazione è applicabile a quelle sole prestazioni-comportamenti che possono essere valutate in termini pecuniari – è quella di raccordare le regole sulle obbligazioni a quella che è la realtà dei rapporti di mercato, nel senso che i valori tutelati sono quelli di scambio: dunque, non quelli che quel bene o utilità ha per se stesso, ma il valore che esso ha in quanto mezzo di scambio (34).

In linea di principio potrebbe apparire dunque problematico reperire obbligazioni «endofamiliari», essendo la famiglia luogo d’elezione per rapporti che, sebbene caratterizzati dalla giuridicità e dalla vincolatività, non sono suscettibili di valutazione economica (35).

Si pensi, ad esempio, all’impegno che due innamorati si prestassero l’un l’altro di rimanere reciprocamente fedeli o ad analogo vincolo che due conviventi more uxorio intendessero assumere nell’ambito di un contratto di convivenza: promesse di tal genere non potrebbero dar luogo ad un’obbligazione, in quanto la fedeltà ad una persona è un bene che non può essere valutabile in denaro, esattamente come l’impegno a convivere o l’obbligo di non mutare le proprie convinzioni politiche o religiose. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, ad esempio, di adottare una certa persona (36); né la soluzione potrebbe essere reperita mediante la pattuizione di una penale, come pure si dirà oltre (37).

E’ vero, peraltro, che non fanno difetto autorevoli opinioni dottrinali che, anche in relazione ai doveri giuridici non caratterizzati dalla patrimonialità ammettono, in difetto di un’apposita disciplina legislativa, la possibilità di un’estensione analogica dei principi in tema d’inadempimento, ciò che dovrebbe dirsi anche con riferimento alla sanzione del risarcimento del danno, la quale prescinde dalla patrimonialità dell’obbligo violato (38).

E questa conclusione potrebbe anche parere confermata dal fatto che non mancano certo norme codicistiche che espressamente prevedono la sanzione del risarcimento del danno per violazioni di obblighi del diritto di famiglia non sempre qualificabili alla stregua di obbligazioni: si pensi al disposto dell’art. 382 c.c. (39), correlato al dovere del tutore (nonché degli altri soggetti indicati dall’art. 424 c.c.) avente ad oggetto quella «cura della persona del minore» (art. 357 c.c.), che non può certo ritenersi limitata ai profili di carattere patrimoniale (40).

Resta però il fatto, incontestabile, che riconoscere e trattare come inadempimento di un’obbligazione qualsiasi violazione di un dovere giuridico inter coniuges, anche se non caratterizzato dalla patrimonialità, farebbe perdere di vista la possibilità stessa di configurare fattispecie di responsabilità aquiliana tra marito e moglie. Infatti, ogni violazione di un diritto soggettivo assoluto compiuta da un coniuge contro l’altro (si pensi all’integrità fisica, all’onore, al patrimonio, ecc.) rappresenta sempre, inevitabilmente, anche la violazione di uno dei doveri scolpiti nell’art. 143 c.c. (41), con conseguente «contrattualizzazione» di tutte queste ipotesi. Appare dunque più corretto ritenere che il fenomeno descritto dall’art. 1218 c.c. trovi applicazione solo con

(34) Così DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, cit., p. 91 ss., 250 ss.; cfr. inoltre sul tema CIAN, Interesse del

creditore e patrimonialità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1968, I, p. 232 ss.; FURGIUELE, Il problema della patrimonialità della prestazione con riferimento all’attività di culto e di assistenza spirituale svolte dal religioso per contratto in casa di cura privata, nota a Cass., 20 ottobre 1984, n. 5324, in Quadrimestre, 1986, p. 176 ss.; BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, cit., p. 77 ss.

(35) GIORGIANNI, L’obbligazione: la parte generale delle obbligazioni, I, cit., p. 23 ss., 68 ss. secondo cui non erano obbligazioni gli obblighi ex artt. 144 e 145 c.c. 1942 (obbligo della moglie di accompagnare il marito ovunque egli credesse opportuno di fissare la sua residenza; obbligo del marito di proteggere la moglie e di mantenerla presso di sé); DI MAJO, Delle obbligazioni in generale. Art. 1173-1176, cit., p. 91 s., che nega la natura di obbligazione, ad esempio, agli obblighi di collaborazione esistenti nell’ambito familiare o a quello di coabitazione, ex art. 143 c.c. Per una disamina dei diritti e doveri che nascono dal matrimonio si rinvia, per tutti, a PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, in Il codice civile. Commentario a cura di Schlesinger, Milano, 1990, p. 32 ss.; RUSCELLO, I rapporti personali fra coniugi, cit., p. 205 ss.

(36) Sull’argomento cfr. Cass., 10 aprile 1964, n. 835, in Giust. civ., 1964, I, p. 1604. (37) Cfr. infra, § 16. (38) BIANCA, Dell’inadempimento delle obbligazioni. Art. 1218-1229, cit., p. 3; nello stesso senso v. anche GIORGIANNI,

L’obbligazione: la parte generale delle obbligazioni, I, Lezioni tenute nell’anno accademico 1944-45, Catania, 1946, p. 29 ss. (39) Per questo richiamo v. anche GIORGIANNI, L’obbligazione: la parte generale delle obbligazioni, I, cit., p. 23 ss. (40) Sul concetto di «cura della persona del minore» v. per tutti JANNUZZI, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990,

p. 134. (41) Sui rapporti tra violazioni dei doveri coniugali (con particolare riguardo al dovere di assistenza) e illecito aquiliano cfr. anche

CENDON e SEBASTIO, Lei, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, cit., p. 1288 ss.

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riguardo a quei doveri giuridici tecnicamente qualificabili come «obbligazioni» e dunque caratterizzati dalla patrimonialità, secondo quanto disposto dall’art. 1174 c.c., laddove le violazioni degli altri doveri lasceranno aperto il campo alla valutazione di ingiustizia del danno per una possibile applicazione dell’art. 2043 c.c.: problema, questo, da risolvere tenuto conto dell’opinione che si intenda seguire sui concetti di «danno ingiusto» e di «meritevolezza di tutela» degli interessi in gioco.

Si vedrà tra breve quali effetti siffatto criterio restrittivo è in grado di produrre concretamente, avuto riguardo alle situazioni e ai rapporti giuridici che possono venirsi a creare nell’ambito delle relazioni tra i componenti il nucleo familiare. Per il momento appare invece opportuno accennare brevemente ad un altro degli ostacoli che vengono usualmente frapposti alla possibilità di ravvisare fattispecie di responsabilità endofamiliari, vale a dire la sussistenza (con particolare riferimento al caso dei coniugi) di specifiche sanzioni per violazioni di doveri familiari previste da apposite norme di legge.

3. Ininfluenza, sulla possibilità di ravvisare ipotesi di responsabilità contrattuale tra coniugi, dell’esistenza di specifiche sanzioni di tipo giusfamiliare. Il ruolo giocato dall’introduzione dell’art. 709-ter c.p.c.

E’ innegabile che molti dei doveri endofamiliari a contenuto sia patrimoniale che non

patrimoniale siano già muniti di una propria «speciale» sanzione, diversa dal risarcimento del danno, ciò che potrebbe indurre ad escludere il rimedio descritto dall’art. 1218 c.c. anche in relazione a doveri qualificabili alla stregua di obbligazioni ex artt. 1173 ss. c.c. Quanto mai significativa è la vicenda della violazione degli obblighi di carattere personale nascenti dall’art. 143 c.c. e, tra questi – tanto per portare un celebre esempio – il dovere di fedeltà tra coniugi (42).

Sul punto vi è infatti da chiedersi se i rimedi e le sanzioni che l’ordinamento appresta con riguardo alle violazioni dei doveri coniugali e, in primo luogo, l’addebito – istituto, questo, peraltro guardato, come noto, da tempo con un certo sfavore – possano inibire il ricorso del danneggiato al rimedio risarcitorio (43).

L’orientamento tradizionale tende ad escludere in tali casi l’azione risarcitoria (44). Anche la Corte di Cassazione si è espressa in senso negativo, affermando che «dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico (a prescindere dai provvedimenti sull’affidamento dei figli e della casa coniugale), solo un diritto ad un assegno di mantenimento dell’uno nei confronti dell’altro, quando ne ricorrono le circostanze specificatamente previste dalla legge. Tale diritto

(42) Come rileva FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 59 ss., in Francia, l’art. 266

del Code civil prevede espressamente che in caso di divorzio il coniuge possa ottenere la condanna dell’altro al risarcimento dei danni per il pregiudizio materiale o morale conseguenti alla dissoluzione del matrimonio. Si tratta di una norma che, nel momento in cui afferma espressamente la responsabilità del coniuge, sembrerebbe coprire un’area di responsabilità altrimenti non riconducibile alla clausola generale di responsabilità civile. In Italia, in assenza di una norma analoga, la dottrina appare divisa tra chi prospetta una sorta di «immunità» della famiglia rispetto alle regole del diritto comune, e chi, invece, ritiene che l’era dell’immunità sia finita e che la responsabilità civile possa essere uno strumento in più offerto ai coniugi a tutela dei propri diritti; questa seconda posizione è ben rappresentata da PATTI, Famiglia e responsabilità civile, cit.; P. MOROZZO DELLA ROCCA, Violazione dei doveri coniugali, immunità o responsabilità?, cit., p. 605 ss.; BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile, cit., p. 189; DOGLIOTTI, La famiglia e l’altro diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale, cit., p. 164; DE MARZO, Responsabilità civile e rapporti familiari, cit., p. 745 ss.; FERRANDO, op. loc. ultt. citt. La prima tesi è sostenuta invece da ZACCARIA, L’infedeltà: quanto può costare? Ovvero, è lecito tradire solo per amore, cit., p. 524; ID., Adulterio e risarcimento dei danni per violazione dell’obbligo di fedeltà, in Fam. dir., 1997, p. 463; LENTI, La famiglia e il danno esistenziale, cit., p. 253; RUSCELLO, I rapporti personali tra i coniugi, cit., p. 335 ss.). Sul tema specifico della violazione del dovere di fedeltà v. per tutti CENDON, Non desiderare la donna d’altri, nota a Trib. Roma, 17 settembre 1988, in Contratto e impresa, 1990, p. 357; cfr. anche Trib. Monza 15 marzo 1997, cit.; FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 23 ss.; CASSANO, op. cit., p. 135 ss.

(43) Sul tema cfr. CENDON e SEBASTIO, Lei, lui e il danno. La responsabilità civile tra coniugi, cit., p. 1257 ss.; v. inoltre FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 50 ss.

(44) Per i rinvii v. FRACCON, La responsabilità civile fra coniugi: questioni generali e singole fattispecie, in AA. VV., Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di Cendon, III, cit., p. 2806 ss.

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esclude la possibilità di richiedere, ancorché la separazione sia addebitabile all’altro, anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa» (45).

Secondo la Corte, ciò dipende non tanto dal fatto che «l’addebito del fallimento del matrimonio ad uno soltanto dei coniugi non possa mai acquistare – neppure in teoria – i caratteri della colpa, quanto perché, costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi – proprio in omaggio al principio secondo cui inclusio unius, exclusio alterius – che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.». Considerazioni, queste, che – ove ritenute accettabili –ben potrebbero estendersi alla responsabilità contrattuale.

In proposito si è però obiettato (46) che una posizione di così netta chiusura non tiene conto delle profonde trasformazioni che hanno investito il diritto di famiglia e la responsabilità civile. Nel passaggio dalla separazione per colpa alla separazione per intollerabilità della convivenza l’istituto ha perso la connotazione «sanzionatoria» che possedeva nel precedente sistema, per acquistare quella di rimedio al fallimento del matrimonio. La pronuncia di addebito ha un carattere meramente eventuale ed intende colpire solo quelle condotte che hanno svolto un ruolo determinante, causale, nel provocare il fallimento dell’unione. D’altro canto, non ogni violazione dei doveri del matrimonio è causa di addebito, ma soltanto quelle che hanno determinato la crisi, dal momento che una violazione anche grave, ma commessa dopo che la vita comune era già irrimediabilmente deteriorata, non costituisce causa di addebito.

Ancora, occorre tenere presente che l’evoluzione giurisprudenziale ha variamente circoscritto e marginalizzato il ruolo dell’addebito, sia dando rilevanza solo a condotte che abbiano questa efficacia causale sul fallimento dell’unione, sia sancendo la fine del «mutamento di titolo» della separazione, sia, da ultimo, decretando l’ammissibilità della sentenza «parziale di separazione», vale a dire l’ammissibilità di una pronuncia di separazione con rinvio a separato giudizio della questione relativa all’addebito (47).

Può dunque dirsi che, per quanto attiene all’obiezione fondata sull’esistenza, per la violazione dei doveri specifici esistenti inter coniuges, di sanzioni speciali, che, come tali, impedirebbero il ricorso a rimedi di carattere generale e, segnatamente, alle fattispecie della responsabilità civile, non pare esservi un ostacolo di principio al concorso tra i diversi tipi di

(45) Cass. 6 aprile 1993, n. 4108; cfr. inoltre Cass., 21 marzo 1993, n. 3367 (che nega la presenza di una situazione qualificabile come di danno ingiusto, «che presuppone una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto»).

(46) FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 51 ss. Anche per FRACCON, La responsabilità civile fra coniugi: questioni generali e singole fattispecie, cit., p. 2807 non vi è alcuna incompatibilità tra rimedi tipici giusfamiliari e tutela risarcitoria, operando essi su piani distinti, «allo stesso modo in cui nessuno si sognerebbe di escludere la tutela penale degli stessi fatti che giustificano l’addebito (o le altre conseguenze tipiche della violazione dei doveri familiari)». In senso critico nei confronti della tesi che nega la possibilità di ravvisare fattispecie di responsabilità civile in relazione a situazioni che si sostanziano nella violazione di doveri coniugali v. anche ALPA, BESSONE e CARBONE, Atipicità dell’illecito, I, Persone e rapporti familiari, Milano, 1993, p. 1 ss.; VILLA, Gli effetti del matrimonio, in AA. VV., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, I, Famiglia e matrimonio, Torino, 1997, p. 319; BONA, Violazione dei doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile, cit., p. 196.

(47) FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 51 ss. L’Autrice rileva ulteriormente a tale riguardo che «che le ragioni dell’abbandono del principio della colpa e del successivo scolorire dell’addebito si riassumono sinteticamente nell’idea per cui il momento della crisi del matrimonio, il giudizio di separazione, non costituisce il luogo più adatto per fare i conti con il passato. L’accentuarsi del conflitto, che inevitabilmente ne consegue, costituisce un danno ulteriore per i coniugi, e soprattutto per i figli, i cui interessi finiscono per essere strumentalizzati. Di qui la prassi invalsa nei tribunali di indirizzare il tentativo di conciliazione non tanto ad un’improbabile riconciliazione dei coniugi ma, più realisticamente, alla trasformazione della separazione giudiziale in consensuale; di qui non solo le ripetute proposte di eliminare del tutto l’addebito, ma anche e soprattutto quelle di incentivare il ricorso a interventi di mediazione familiare intesi a ridurre le punte più alte del conflitto, a valorizzare l’accordo ancora possibile, per trovare una soluzione condivisa ai problemi di gestione delle responsabilità parentali ed, eventualmente, anche a quelli di natura economica. L’addebito, d’altra parte, influisce solo marginalmente sulle conseguenze economiche della separazione in quanto incide esclusivamente sulla posizione del beneficiario, ma non su quella dell’obbligato al pagamento dell’assegno. La perdita dei diritti successori, poi, anticipa solo di alcuni anni quelle sarebbero comunque le conseguenze del divorzio». Nel senso che la negazione della possibilità di azionare la tutela aquiliana significherebbe addossare al coniuge adempiente i pregiudizi ulteriori rispetto a quelli considerati dalla disciplina della separazione e del divorzio e in genere rinvenibili nel deterioramento delle condizioni economiche cfr. DE MARZO, Responsabilità civile e rapporti familiari, cit., p. 746.

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rimedio, come dimostrano, del resto, in ambiti molto diversi tra loro, l’art. 129-bis c.c. e l’art. 6, ult. cpv., 1. div., l’art. 49 cpv., 1. adoz. In particolare, ha sicuramente natura risarcitoria l’ «indennità» che spetta al coniuge in buona fede nel caso in cui l’annullamento del matrimonio sia imputabile all’altro (art. 129-bis c.c.): il che conferma che rimedio giusfamiliare e rimedio risarcitorio non sono, in linea di principio, tra loro incompatibili (48) e analogamente può rilevarsi che pure nell’ambito della promessa di matrimonio l’obbligo risarcitorio previsto dall’art. 81 c.c. – sulla cui natura molto si discute (49) – tranquillamente convive con il rimedio «tipico» della restituzione dei doni, ex art. 80 c.c. (50).

Quanto sopra appare, poi, ulteriormente confermato da altre considerazioni. Non sembra infatti che, anche al di fuori del campo specifico del diritto di famiglia, la presenza di una sanzione specifica per determinate violazioni impedisca i rimedi generali previsti per l’istituto di riferimento. Così è del tutto pacifico che, ad esempio, la presenza del rimedio speciale ex art. 2932 c.c. non impedisce certo al creditore di un’obbligazione avente ad oggetto l’impegno a stipulare un contratto definitivo di astenersi dal domandare la sentenza costitutiva, e di chiedere invece il risarcimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. Non solo: la giurisprudenza ammette, correttamente, il concorso tra rimedio specifico ed azione risarcitoria, riconoscendo che non ogni forma di danno può essere risarcita dall’esecuzione forzata in forma specifica (51).

Ai rilievi sin qui svolti potrà infine aggiungersi il dato fornito dall’introduzione, ad opera dell’art. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso, dell’art. 709-ter c.p.c. In forza di tale disposizione, il «giudice del procedimento in corso» può, «in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento» (oltre che modificare i provvedimenti in vigore, e/o ammonire il genitore inadempiente, e/o condannare tale genitore ad una sanzione amministrativa pecuniaria) «disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore» e/o «disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro».

Ora, a parte le gravissime questioni processuali che la norma in oggetto solleva (52), rimane il fatto che il legislatore ha inteso chiaramente mostrare che l’inadempimento ai doveri relativi alla

(48) FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 57. Per una disamina delle questioni

relative alle fattispecie risarcitorie legate all’invalidità del matrimonio, impossibile in questa sede, si fa rinvio, per tutti, a FERRANDO, Il matrimonio, Milano, 2002, p. 707 ss.

(49) Per tutti cfr. OBERTO, La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p. 201 ss. (50) Per tutti cfr. OBERTO, La promessa di matrimonio tra passato e presente, cit., p. 107 ss. (51) Cfr. Cass., 13 dicembre 1980, n. 6482. (52) Si pensi solo, tra i tanti, ai problemi seguenti. (a) Individuazione del giudice competente in caso di filiazione naturale: qui, atteso che l’art. 38 disp. att. c.c. non ha subito

modifiche, appare logico ritenere che permanga la competenza del tribunale per i minorenni. (b) Individuazione del giudice competente, in relazione ad ogni «tipo» di crisi familiare (separazione, divorzio, nullità del

matrimonio, filiazione naturale), nel caso il «giudice del procedimento in corso» sia la corte d’appello o la Corte Suprema di Cassazione: se la lettera della norma induce a ritenere che anche di fronte a tali uffici si potranno discutere le questioni in oggetto, rimane il fatto che nel primo caso si perdere un grado di giudizio, mentre nel secondo non è addirittura ammessa alcuna impugnazione.

(c) Determinazione dell’organo, in ogni caso, competente per siffatto tipo di provvedimenti: il riferimento al «giudice del procedimento in corso» – contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale di Modena, con suo provvedimento in data 7 aprile 2006 (in D&G, 14 aprile 2006, con commento di BULGARELLI) – non può che far pensare al collegio e non certo all’istruttore.

(d) Accertamento della natura che deve assumere il provvedimento di condanna: contrariamente, anche in questo caso, a quanto ritenuto dalla decisione di merito appena citata, dovrà riconoscersi che l’idoneità della misura ad incidere su diritti soggettivi impone il rispetto della forma non già del decreto o dell’ordinanza, ma della sentenza; nella specie si tratterà di una sentenza parziale emessa «congiuntamente» (come richiesto dall’art. 709-ter cit.) all’eventuale ordinanza di modifica dei provvedimenti in vigore, ma comunque da essa distinta e (sempre come richiesto dall’art. cit.) impugnabile «nei modi ordinari», cioè, appunto, come una sentenza (inutile aggiungere che le medesime conclusioni andrebbero predicate anche se il provvedimento avesse una veste formale diversa, atteso il noto principio, costantemente seguito dalla giurisprudenza di legittimità, della prevalenza della sostanza sulla forma).

(e) Carattere «esclusivo» della procedura delineata (si fa per dire…) dalla norma in oggetto, ovvero sua possibile alternatività rispetto ad un’azione risarcitoria proposta in via autonoma con rito ordinario: la lettera dell’art. 709-ter c.p.c. sembrerebbe (ma il condizionale è d’obbligo) imporre per l’azione risarcitoria il ricorso al procedimento speciale solo allorquando la pretesa sia strettamente legata a (e dipendente da) una «controversia sull’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento», insorta nel corso di una procedura, attualmente ancora pendente, di separazione, divorzio (o di modifica delle relative condizioni), di annullamento del matrimonio, o, ancora, tra genitori naturali ex art. 317-bis c.c. Negli altri casi dovrebbero invece valere le regole di competenza ordinarie.

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potestà genitoriale può essere fonte di danno risarcibile e che siffatto risarcimento ben può accompagnarsi agli usuali rimedi (modifica dei provvedimenti in vigore), così come a quelli novellamente introdotti (ammonimento, sanzione amministrativa pecuniaria).

Concludendo sul punto non sembra possa dirsi che la presenza di sanzioni specifiche di tipo giusfamiliare ostacoli di per sé, e in linea di principio, il riconoscimento di una responsabilità inter coniuges, aquiliana o contrattuale che sia. Semmai, occorrerà insistere sulla necessità di riconoscere, per la responsabilità contrattuale, l’esistenza di un rapporto obbligatorio e dunque di contenuto patrimoniale, laddove i doveri coniugali, eccezion fatta per quello di contribuzione ai bisogni della famiglia, hanno, invece, un contenuto di natura personale, il che spiega perché gli artt. 1218 ss. c.c. non possano, in linea di massima, trovare applicazione in questo campo (53).

Sarà d’uopo intrattenersi dunque brevemente sul dovere di contribuzione, per passare successivamente alla responsabilità contrattuale da violazione delle obbligazioni previste dalle disposizioni in tema di regimi patrimoniali, dalle regole (di fonte legale o convenzionale) relative alla crisi coniugale, o da quelle concernenti i profili patrimoniali del rapporto con la prole, per concludere questo studio con la disamina di possibili ipotesi di responsabilità contrattuale in seno alla famiglia di fatto.

4. La responsabilità contrattuale da violazione del dovere di contribuzione tra coniugi. L’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia, che l’art. 143, terzo comma, c.c. pone a

carico di entrambi i coniugi, si presenta come l’attuazione del principio costituzionale di eguaglianza nei rapporti patrimoniali tra di essi (54). Per quanto attiene alla sua concreta determinazione si discute in dottrina se esso possa essere inteso solo alla stregua di un dovere di mantenimento reciproco non subordinato alla mancanza di mezzi dell’altro coniuge (55), o non piuttosto una forma di specificazione del dovere reciproco di assistenza materiale (56).

I coniugi hanno, come noto, il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia «ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo». Tale dovere, anche se riguarda prestazioni di carattere economico e costituisce, dunque, una vera e propria obbligazione, in stretto collegamento con i doveri di assistenza e di collaborazione nell’interesse della famiglia, rappresentando un completamento di questi ultimi, sia come supporto economico in chiave solidaristica, sia come già ricordata espressione del principio di uguaglianza all’interno della comunità familiare.

Si è rilevato che la violazione del dovere di contribuzione può assumere caratteristiche diverse, come ad esempio, il rifiuto di svolgere un’attività lavorativa confacente, oppure lo sviamento di sostanze proprie o dell’altro coniuge (o dei proventi realizzati attraverso la propria capacità di lavoro o professionale) dal loro naturale impiego, in vista del soddisfacimento delle comuni esigenze familiari, per essere destinate ad attività estranee ai bisogni della famiglia (57). In

(53) Per un’analoga constatazione v. FERRANDO, La crisi coniugale tra rimedi tradizionali e responsabilità civile, cit., p. 58 s., la quale nota che, tuttavia, in termini di «induzione all’inadempimento», per i profili di responsabilità dell’amante della moglie nei confronti del marito (responsabilità però esclusa nel caso di specie), si è espressa Trib. Roma, 17 settembre 1988, in Nuova giur. civ. comm., 1989, p. 559, con nota di PALETTO; sul tema v. inoltre il commento di CENDON, Non desiderare la donna d’altri, cit., p. 357 ss.; cfr. anche Trib. Monza 15 marzo 1997, cit.

(54) Così FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, p. 614 ss.; cfr. inoltre ZATTI, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, III, Torino, 1982, p. 45 ss.; ALAGNA, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1979, p. 318; PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, in Il codice civile, cit., p. 74 ss.; RUSCELLO, Diritti e doveri nascenti dal matrimonio, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, Milano, 2002, p. 773; FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 38.

(55) Questo è l’avviso di SANTORO-PASSARELLI, Note introduttive agli articoli 24-28 Nov., in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 221. Contra, FALZEA, op. loc. ultt. citt.; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, Milano, 1979, p. 25.

(56) Cfr. IRTI, Il governo della famiglia, in AA. VV., Il nuovo diritto di famiglia. Atti del convegno organizzato dal Sindacato Avvocati e Procuratori di Milano e Lombardia, Milano, 1976, p. 42.

(57) FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 38.

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realtà, ciò che rileva ai fini in discorso non sono tanto le manifestazioni di scarso attaccamento al lavoro o di affezione ad uno stile di vita «dissoluto», quanto l’obiettiva mancata corresponsione (in denaro o in natura) della contribuzione. E il rimedio in questo caso non può essere rinvenuto in «un’azione extracontrattuale al fine di riparare i danni cagionati in violazione del dovere di contribuzione» (58), posto che la citata presenza di un’obbligazione ex lege deve invece qui indurre a riconoscere l’esperibilità dell’azione ex art. 1218 c.c.

A determinare il carattere di vera e propria obbligazione del dovere di contribuzione contribuisce l’idea, condivisa quanto meno da una parte della dottrina (59), secondo cui un coniuge può convenire in giudizio l’altro per chiederne la condanna ad adempiere. Né in senso contrario sembra possano valere le obiezioni di chi vorrebbe argomentare il distacco della materia in esame dal diritto comune delle obbligazioni sulla base di considerazioni di tipo puramente terminologico (60). Proprio su questo piano potrà, anzi, notarsi che il termine «obbligazione» compare non solo negli artt. 148 e 186, lett. c), ma anche nell’art. 218 c.c., così rendendosi chiaro che i rapporti tra coniugi, laddove abbiano ad oggetto una prestazione patrimoniale, ben possono ricadere sotto il disposto degli artt. 1173 ss. c.c. Inoltre, non sembra possano dispiegare soverchio rilievo le preoccupazioni mosse in tema di esecuzione coattiva (61), posto che la coercibilità in forma specifica non è certo elemento imprescindibile del rapporto obbligatorio (ché, altrimenti, non potrebbe considerarsi alla stregua di un’obbligazione l’impegno assunto da un celebre pittore di eseguire il mio ritratto) e dunque anche forme di contribuzione «in natura» (si pensi all’attività lavorativa domestica) ben possono essere sostituite da una prestazione pecuniaria, mercé la condanna al risarcimento del danno.

A conforto della soluzione qui proposta circa la natura di vera e propria obbligazione, propria del dovere di contribuzione ex art. 143 c.c., giungono del resto, e da tempo, svariate prese di posizione della giurisprudenza. Così, già nel 1939, una corte di merito ammetteva l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria – vale a dire di un tipico rimedio a tutela del creditore di un rapporto ex artt. 1173 ss. c.c. – da parte della moglie contro atti di disposizione del marito tendenti a diminuire la garanzia patrimoniale del credito dalla donna vantato a titolo di mantenimento ai sensi degli abrogati artt. 132 c.c. 1865 e 145 c.c. 1942 (62). Avviso, questo, successivamente per implicito ribadito dalla Corte di legittimità nel 1971 (63), la quale, in epoca ancora più recente, ha mostrato di dare siffatta soluzione per scontata, stabilendo che «Ai fini dell’azione revocatoria promossa nei confronti di un atto con cui il debitore, a seguito della separazione dal coniuge, abbia trasferito a

(58) Così, invece, FACCI, op. loc. ultt. citt.; cfr. inoltre CASSANO, op. cit., p. 159 ss. (59) Cfr. ad esempio CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 29 ss., cui si fa rinvio anche per un’illustrazione degli

altri rimedi specifici per l’inadempimento del dovere in discorso. (60) «Sicuro è dunque il distacco dal diritto comune delle obbligazioni, e di ciò si rinviene già un riflesso nelle oscillazioni che

caratterizzano la terminologia, che parla ora di doveri (art. 30 Cost.; 143, 315, rubrica, ecc.), ora di obblighi (143, comma 2°, 147 c.c.), ora di obbligazioni (148, 186, lett. c), c.c.), talvolta contraddicendo nel testo la rubrica dell’articolo (ad es., nell’art. 147 c.c.). Si conferma così la loro natura composita e la partecipazione a caratteri che ne impediscono la traduzione in vere e proprie obbligazioni se non nell’ipotesi patologica di inadempimento o con riguardo alle singole prestazioni concrete in cui tale obbligo, di volta in volta, si specifica»: cfr. PARADISO, op. cit., p. 75 s. In una posizione, per così dire, intermedia tra l’opinione qui riferita e quella sostenuta nel testo sembra collocarsi la tesi di FURGIUELE, Libertà e famiglia, Milano, 1979, 170 s., secondo cui «un’impostazione formalmente rigorosa vorrebbe che per le implicazioni di carattere patrimoniale derivanti dall’obbligo di contribuzione si configurasse un terzo ordine di rapporti intermedio tra quelli puramente personali e ciò che costituisce regime patrimoniale in senso stretto. Non può d’altra parte trascurarsi il fatto che l’esistenza in tal caso di un potere in senso tecnico non contraddice al criterio di distribuzione del diritto e dell’obbligo valido in generale nei rapporti personali tra i coniugi, ma ne rappresenta piuttosto l’adattamento in considerazione delle immediate possibilità di tutela, derivanti a favore dei singoli, dal carattere patrimoniale di una prestazione. È quindi per sottolineare un aspetto fondamentale di continuità e valorizzarne il rilievo in ordine all’intendimento di un’ipotesi “eccezionale” che manteniamo la considerazione di quest’ultima nell’àmbito dei rapporti personali».

(61) Così DOGLIOTTI, Doveri familiari e obbligazioni alimentari, Milano, 1994, p. 37 s. cfr. inoltre CONTIERO, op. cit., p. 135 ss. (62) App. Venezia, 10 luglio 1939, in Giur. it., 1940, I, 2, c. 114. (63) Cfr. Cass., 18 marzo 1971, n. 755: «L’obbligazione del marito del mantenimento della moglie, a seguito della decisione della

Corte costituzionale del 24 giugno 1970, n 133, declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art 145 cod. civ., è subordinata alla condizione che ella non abbia mezzi sufficienti per provvedere a se stessa. Non essendo perciò incondizionato e immanente il credito per mantenimento a favore della moglie, costei non è legittimata per la sola sua qualità di coniuge a proporre azione revocatoria nei confronti di atti di disposizione effettuati dal marito». La Cassazione respinse dunque la domanda non già perché la moglie non potesse qualificarsi, in astratto, come «creditrice», ma sol perché tale credito era condizionato alla ricorrenza di determinate circostanze non presenti nel caso di specie.

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quest’ultimo la proprietà di un bene, in adempimento del proprio obbligo di mantenimento nei confronti del coniuge e dei figli, l’attribuzione deve qualificarsi a titolo oneroso, salvo che non sia intervenuta, anteriormente al trasferimento, una riconciliazione tra i coniugi, nel qual caso si è in presenza di un’attribuzione a titolo gratuito» (64).

5. La responsabilità contrattuale da violazione di accordi sull’indirizzo della vita familiare. Rinviando all’analisi svolta in altra sede circa l’ammissibilità e la rilevanza di accordi tra

coniugi sull’indirizzo della vita familiare, conformemente, del resto, a quanto disposto dall’art. 144 c.c., potrà rilevarsi, in linea generale, che dottrina e giurisprudenza si presentano divise sull’attribuzione del carattere negoziale a siffatto accordo (65).

Peraltro, qualunque sia la soluzione che si vuole dare a tale problema, è comunque innegabile che, con la formulazione attuale dell’art. 144 c.c., il legislatore ha aperto alla regola del consenso (66) e dunque alla sfera dell’autodeterminazione dei coniugi, interi «territori dove regnavano il potere autoritario e la sottomissione» (67), fissando una regola fondamentale, al punto che può veramente concordarsi con chi afferma che l’art. 144 c.c. costituisce, in sostanza, la fonte di legittimazione di ogni manifestazione negoziale dei coniugi: l’accordo dei coniugi pone le regole del ménage e, per ciò stesso, determina e concretizza il contenuto degli obblighi inderogabili incidendo, quindi, su di essi (68).

La dottrina che ha inteso approfondire il tema della rilevanza interna ed esterna degli accordi in esame si è posta l’interrogativo, da un lato, sulla vincolatività di queste intese e, dall’altro, sulla legittimazione del coniuge, sia in costanza di matrimonio, che una volta promosso il giudizio di separazione, a promuovere azione per ottenere il risarcimento dei danni per il mancato rispetto dell’accordo rimasto inattuato per fatto o colpa dell’altro coniuge (69).

Sul punto si è correttamente rilevato che i coniugi, una volta operate le scelte di fondo, debbono ritenersi ad esse obbligatoriamente vincolati, pur potendo agire liberamente nell’ambito delle direttive concordate; i medesimi accordi sono peraltro privi di rilevanza esterna (70). La conclusione deve essere senz’altro condivisa, anche se dall’esame dei dati prevalenti si potrebbe trarre l’impressione che la vincolatività e l’insorgere di responsabilità relative al mancato adempimento dell’accordo abbia in sostanza rilevanza solo al momento dello scioglimento del matrimonio. Tuttavia, da tempo, la dottrina si chiede se la responsabilità nei confronti del coniuge non possa essere fatta valere anche in costanza di matrimonio, senza che tale atteggiamento possa determinare la fine del vincolo (71).

Coloro che sostengono la non vincolatività dell’intesa nella fase di normale svolgimento del rapporto matrimoniale escludono la possibilità per il coniuge di avvalersi dell’accordo e ravvisano il contenuto dello stesso in una sorta di facoltà di agire, atta a qualificare come lecita l’attuazione dell’indirizzo concordato: mancherebbe in tal modo il presupposto necessario a legittimare l’azione

(64) Cass., 26 luglio 2005, n. 15603. (65) Cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 133 ss.; sulla rilevanza dell’autonomia privata in questo settore cfr.

anche TOMMASINI, Indirizzo della vita familiare e governo della famiglia, in AA. VV., Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, IV, Il diritto di famiglia, I, Torino, 1999, p. 132 s.

(66) Di «regime consensuale permanente» parla significativamente FALZEA, op. cit., p. 614. (67) Così RESCIGNO, Appunti sull’autonomia negoziale, in Giur. it., 1978, IV, c. 117. (68) Cfr. DORIA, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione

personale e del divorzio, Milano, 1996 p. 76 ss. (69) TOMMASINI, op. cit., p. 142 ss. (70) TOMMASINI, op. cit., p. 142. Sul tema della rilevanza esterna delle intese sull’indirizzo della vita familiare, con particolare

riguardo al tema della sorte delle obbligazioni contratte da un solo coniuge (o convivente) nei confronti di terzi cfr. per tutti OBERTO, la responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi, in Familia, 2006 (in corso di pubblicazione).

(71) Tra gli altri cfr. PARADISO, op. cit., p. 201 con ampia nota bibliografica di richiamo; PANUCCIO DATTOLA, L’indirizzo della vita familiare: rilevanza dell’inattuazione, Padova, 1986, p. 206.

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di risarcimento danni (72). Altri studiosi, avendo soprattutto in mente l’ipotesi degli accordi non patrimonialmente rilevanti – si pensi, ancora una volta, al tema della fedeltà – hanno posto l’accento sull’incoercibilità della pretesa, concludendo nel senso che tale situazione non implica ancora la necessaria irrilevanza dell’intesa ma, con ogni probabilità, la diversa operatività della sua vincolatività (73).

Gli Autori che sostengono invece la vincolatività dell’accordo da far valere in costanza di matrimonio, e dunque la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni, in caso di inadempimento o mancato rispetto dello stesso, fondano la loro teoria sul principio che l’atto illecito, rilevante nell’ambito del diritto di famiglia come sintomo dell’intollerabilità della convivenza, può essere posto a fondamento di un’azione tendente ad ottenere il risarcimento del danno (74).

In ogni caso a chi scrive sembra che la vincolatività dell’intesa sia insita nel concetto stesso di accordo normativamente previsto, con inevitabile riferimento al canone scolpito nell’art. 1372 c.c. Parafrasando un celebre rilievo di Jemolo, con riguardo alle intese di separazione consensuale, l’accordo non vincolante finirebbe con il diventare una «figura metagiuridica, una inutilità per il diritto, se ad un certo momento le parti non restassero vincolate, in quello che sarà l’apprezzamento dei propri interessi convergenti» (75). Da tale vincolatività discenderanno dunque effetti che, se patrimonialmente apprezzabili (si pensi all’impegno a contribuire alle necessità materiali della famiglia mediante messa a disposizione di determinati beni o versamento di determinate somme) non potranno considerarsi se non alla stregua di obbligazioni, con la conseguenza che il coniuge interessato sarà legittimato a richiederne coattivamente l’adempimento e, in caso di violazione dell’impegno, a domandare il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.

6. Responsabilità contrattuale e comunione legale tra coniugi. I profili attinenti alla determinazione dell’oggetto.

Anche le norme in tema di comunione legale tra coniugi contengono svariate disposizioni

che possono prestarsi a individuare l’esistenza di vere e proprie obbligazioni, di fonte legale, la cui violazione può dar luogo a responsabilità contrattuale. Tali obbligazioni possono situarsi sia nel contesto delle norme attinenti all’individuazione dell’oggetto dell’istituto ex artt. 177 ss. c.c., che (in particolare) in quello delle disposizioni sull’amministrazione del patrimonio comune, che, ancora, nella fase dello scioglimento.

Per quanto attiene al primo momento ci si deve chiedere, innanzi tutto, se determinati comportamenti tenuti dai coniugi all’atto della stipula di negozi che portino alla determinazione quantitativa della massa in comunione legale rispetto a ciascuna delle altre due masse qui rilevanti, vale a dire i beni personali e quelli in comunione de residuo, possano ritenersi in violazione di doveri di fonte legale o convenzionale qualificabili come obbligazioni e, come tali, generatori di responsabilità ex art. 1218 c.c.

In linea generale potrà dirsi che la legge provvede ad individuare in maniera obiettiva le situazioni che determinano la ricaduta o meno in comunione legale, a prescindere da comportamenti cui i coniugi possano reputarsi in qualche modo astretti.

Nella giurisprudenza di merito si è però posto il problema circa l’esistenza di un obbligo di prestare il proprio assenso all’acquisto che l’altro intenda effettuare ex art. 179, lett. f) e cpv., c.c.,

(72) Cfr. DE CUPIS, Efficacia dell’accordo coniugale circa l’indirizzo della vita familiare, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 364. (73) Cfr. RUSCELLO, Diritti e doveri nascenti dal matrimonio, cit., p. 785 s. L’Autore si chiede «che senso avrebbe (…) vincolare i

coniugi al principio dell’accordo, alla ricerca comunque di un accordo sull’indirizzo della vita familiare se, poi, si desse la possibilità di violare l’accordo stesso senza incorrere in qualche conseguenza sanzionata dall’ordinamento?».

(74) Cfr. PATTI, Famiglia e responsabilità civile, cit., p. 32 ss., il quale rileva (p. 33) che «proprio il carattere patrimoniale del conflitto (…) rende (…) istituzionalmente idoneo ed adeguato l’intervento del giudice, e ciò non soltanto nelle ipotesi in cui la famiglia si avvia verso la dissoluzione e lo scioglimento (…). L’interesse individuale dei membri della famiglia esiste e deve essere tutelato in ogni momento della vita del gruppo»; nello stesso senso v. anche TOMMASINI, op. cit., p. 143.

(75) Cfr. JEMOLO, Il matrimonio, Torino, 1950, p. 376 s.; condivide espressamente tale conclusione ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, p. 340; sul tema cfr. inoltre OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 204 ss.

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qualora di tale fattispecie ricorrano, obiettivamente, gli estremi. Nella specie, dopo il provvedimento del presidente del tribunale, urgente e provvisorio, che autorizzava i coniugi (in regime di comunione legale) a vivere separati, il coniuge non assegnatario dell’abitazione familiare intendeva acquistarne un’altra con fondi di sua esclusiva titolarità. Si rendeva, tuttavia, necessaria la partecipazione all’atto di acquisto dell’altro coniuge, ai sensi delle disposizioni citate, al fine di qualificare come personale il bene; in caso contrario, il bene sarebbe entrato in comunione, non essendo ancora intervenuta una sentenza definitiva di separazione, ma soltanto l’ordinanza interinale di cui all’art. 708 c.p.c. Orbene, l’ingiustificato rifiuto, da parte del coniuge assegnatario della casa coniugale, di partecipare all’atto di acquisto (rifiuto che ha, poi, determinato la rinuncia al bene), è stato ritenuto contrario a buona fede e come tale fonte di responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c. Al riguardo, è stato accordato il risarcimento per le spese sostenute per la trattativa (danno emergente), mentre, a causa della mancanza di prova, è stato negato il risarcimento del lucro cessante (76).

Ad avviso dello scrivente, la soluzione del problema, anziché in un generico richiamo al concetto di buona fede, va piuttosto trovata nell’accertamento dell’esistenza o meno di un preciso dovere per il coniuge non acquirente di partecipare all’atto (77). Inutile dire che, se la risposta al quesito dovesse essere positiva, tale (supposto) dovere giuridico specifico, di contenuto patrimoniale, andrebbe considerato alla stregua di un’obbligazione ex lege e pertanto la relativa violazione darebbe luogo a responsabilità non già aquiliana (come ritenuto dal giudice di merito nel caso testé mentovato), ma contrattuale. Peraltro si può convenire con chi conclude nel senso che tale dovere non è previsto da alcuna delle disposizioni in tema di comunione legale (78) e, d’altra parte, chi scrive ha cercato in altra sede di dimostrare che – contrariamente a quella che è ormai l’opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza – la partecipazione del coniuge non acquirente non è in alcun modo necessaria per l’acquisto personale ai sensi dell’art. 179 cpv. c.c. (79).

Un’ipotesi di responsabilità contrattuale potrebbe invece darsi nel caso in cui i coniugi, in regime di separazione, mediante apposito accordo si fossero impegnati a non compiere acquisti di un certo tipo prima della stipula di una convenzione di comunione convenzionale. Il compimento dell’acquisto in violazione del patto impedirebbe la caduta del bene in comunione (a meno che, ovviamente, i coniugi non si accordassero per la stipula di una convenzione comprendente anche tale bene), con conseguente danno per violazione di un’obbligazione ex contractu, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c.

Per quanto attiene alla comunione de residuo non vi sono certamente doveri ex lege di conservazione dei beni nel patrimonio di ognuno dei coniugi sino al momento dello scioglimento (80), ma potrebbero esservene ex contractu. In tal caso, però, le parti dovrebbero prevederli con il rispetto dei requisiti formali ex art. 162 c.c., venendosi così ad alterare una delle caratteristiche

(76) Trib. Terni, 3 febbraio 1993, in Rass. giur. umbra, 1993, p. 369, con nota di PALMA; sul tema v. anche FACCI, I nuovi danni

nella famiglia che cambia, cit., p. 47 ss. (77) Per quest’impostazione v. anche FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 47 s. (78) Cfr. FACCI, op. loc. ultt. citt. (79) Cfr. OBERTO, sub art. 179 c.c., §§ 15 ss., in AA. VV., Codice della famiglia, a cura di Sesta, Milano, 2006 (in corso di

stampa), in cui si cerca di legare l’acquisto personale del bene all’obiettiva sussistenza dei presupposti di legge di cui alle lettere c), d) ed f) dell’art. 179 c.c., a prescindere dalla partecipazione all’atto del coniuge non acquirente. Si tenga, in ogni caso, in considerazione che, anche se la dottrina (tra gli altri, SCHLESINGER, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, II, Padova, 1992, p. 158; GABRIELLI e CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 89) è orientata, prevalentemente, a ritenere che la partecipazione del coniuge sia necessaria, secondo altri (cfr. ad esempio GABRIELLI, Acquisto in proprietà esclusiva di immobili e mobili registrati da parte di persona coniugata, in Vita notar., 1984, p. 664) l’intervento in questione non sarebbe essenziale, con la conseguenza che, anche in caso di acquisto senza la partecipazione dell’altro coniuge, il bene rimarrebbe personale, ma spetterebbe all’acquirente l’onere di provarlo. La Cassazione, peraltro, dopo alcune oscillazioni, è approdata alla tesi della necessaria partecipazione dell’altro coniuge, così concedendo a quest’ultimo un vero e proprio (potenzialmente anche capriccioso) diritto di veto: cfr. Cass. 24 settembre 2004, n. 19250, in Fam. dir., 2005, p. 12, con nota di BOLONDI.

(80) Il tema è stato approfondito in dettaglio in altra sede: cfr. OBERTO, Comunione de residuo e tutela della parte debole: la Cassazione abbandona la teoria del «coniuge virtuoso», nota a Cass., 7 febbraio 2006, n. 2597, in Corr. giur., 2006, in corso di stampa; sull’argomento v. inoltre FACCI, op. cit., p. 60 ss.; CAVALLARO, La c.d. comunione de residuo fra garanzia dell’autonomia individuale e «vanificazione» dei fini della comunione, in Familia, 2005, p. 109 ss.

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proprie dell’istituto in esame, data dalla libera disponibilità dei beni sino al momento dello scioglimento del regime. In tal caso l’alienazione dei beni medesimi, ancorché non sanzionabile ex art. 184 c.c., esporrebbe il coniuge agente a responsabilità contrattuale verso l’altro.

7. Responsabilità contrattuale ed amministrazione della comunione legale tra coniugi. Responsabilità ex art. 184 c.c. e per mala gestio della comunione.

Venendo al profilo dell’amministrazione dei beni in comunione legale, va osservato come

un’ipotesi specifica di responsabilità sia rinvenibile nella fattispecie disciplinata dall’art. 184 c.c., che riguarda gli atti compiuti senza il consenso dell’altro coniuge relativamente a beni immobili o mobili registrati. La norma prevede che il coniuge non consenziente possa agire nei confronti del terzo per l’annullabilità dell’atto, così ripristinando la precedente situazione patrimoniale. Tuttavia, se l’atto riguarda un bene mobile non registrato, e quindi l’azione di annullamento non è esperibile, il coniuge che lo ha compiuto è obbligato, ad istanza dell’altro coniuge, a ricostituire la comunione nello stato precedente all’atto non consentito, e, se ciò non è possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti.

La disposizione si pone quale sanzione per il mancato rispetto di quanto stabilito dall’art. 180 c.c., che prevede il consenso di entrambi i coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (81).

Come rimarcato in dottrina (82), la norma si occupa, curiosamente, dei soli profili «esterni», per quanto attiene agli atti concernenti i beni immobili o mobili registrati (cfr. i commi primo e secondo), e dei soli rapporti «interni» per quanto riguarda gli altri beni (cfr. il terzo comma). Con particolare riguardo a questi ultimi è previsto un particolare obbligo risarcitorio «in forma specifica» descritto, per l’appunto come segue: «Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione».

L’art. cit. prevede dunque un vero e proprio risarcimento in forma specifica e, subordinatamente all’impossibilità di questo, un ristoro patrimoniale consistente, per l’appunto, nel «pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione». Nulla è detto, invece, relativamente al risarcimento dell’eventuale danno ulteriore. Sul punto si ritiene da parte di taluno che l’obbligo di recuperare alla comunione il bene alienato senza il consenso dell’altro coniuge – quando questo era necessario – od il suo corrispondente valore economico, esaurisce, se adempiuto, ogni ulteriore conseguenza a carico del coniuge autore dell’atto illegittimamente dispositivo. Ad analoga conclusione perviene parte della dottrina anche nell’ipotesi che il bene non sia più recuperabile e sia corrisposto il pagamento dell’equivalente (83). Si deve, tuttavia, dare atto della contraria opinione fondata sulla considerazione che il compimento di un atto di disposizione compiuto da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro,

(81) Sulla distinzione tra atti di straordinaria e di ordinaria amministrazione, tra gli altri, DETTI, Oggetto, natura, amministrazione della comunione legale dei coniugi, in Riv. notar., 1976, I, p. 1218; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 123; SCHLESINGER, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 167; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, p. 228; GRASSELLI e DALLA SERRA, L’amministrazione dei beni della comunione legale - Parità di quote parità dei diritti, in AA. VV., La famiglia, a cura di Cendon, Padova, 2000, p. 185; ANELLI, L’amministrazione della comunione legale, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 235 ss.

(82) Cfr. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 141 ss. (83) E’ stato infatti osservato che «per quanto, riguarda il coniuge che ha compiuto l’atto, l’art. 184 comma 3°, detta una norma

che disciplina interamente la materia degli obblighi del coniuge che abbia agito senza il necessario consenso: esso non configura una responsabilità né contrattuale, né extracontrattuale, ma ha un significato meramente recuperatorio, per cui il coniuge pretermesso non può pretendere il risarcimento di un danno ulteriore» (cfr. MASTROPAOLO e PITTER, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, II, cit., p. 224; nello stesso senso cfr. A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 1090).

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perpetrando la violazione di un preciso obbligo legale ed arrecando una lesione al diritto di comproprietà dell’altro coniuge sul bene alienato, costituirebbe un atto illecito da cui conseguirebbe un obbligo di risarcire il danno (84).

Questo secondo indirizzo risulta sicuramente preferibile: e ciò non tanto perché l’eventuale appropriazione di un bene mobile non registrato da parte di un coniuge aprirebbe la via alla rivendica da parte dell’altro ex art. 948 c.c., con conseguente applicazione dell’azione risarcitoria ai sensi della disposizione testé citata (85), posto che l’alienazione del bene stesso è, per dottrina e giurisprudenza prevalenti, perfettamente valida ed efficace anche senza la traditio al terzo (86). D’altro canto non può neppure dirsi che tale responsabilità vada affermata perché il regime di comunione sarebbe espressione di un accordo, seppur implicito, tra i coniugi (87): un accordo che, a ben vedere, potrebbe ritenersi esistente solo ricorrendo ad una vera e propria finzione.

La natura contrattuale della responsabilità in esame va invece, e con forza, ribadita, per effetto della constatazione secondo cui il coniuge che ha disposto di un bene comune, anche senza appropriarsene materialmente (88), viola per ciò solo il disposto dell’art. 180 c.c. e dunque un dovere giuridico specifico (ex lege), avente sicuro contenuto patrimoniale e che, come tale, appare definibile alla stregua di una vera e propria obbligazione, con conseguente applicazione dell’art. 1218 c.c. (89).

Si noti che la stessa regola dovrebbe valere non solo per gli atti dispositivi di beni mobili non registrati, ma anche per quelli su beni immobili o mobili registrati, in quanto il coniuge pretermesso non sia riuscito – per una ragione qualsiasi (intervenuto decorso del breve periodo prescrizionale previsto dall’art. 184 cpv. c.c., distruzione del bene stesso, successiva rivendita ad un terzo cui la domanda d’annullamento non sia opponibile) – a recuperare il bene stesso o semplicemente non voglia esperire l’azione d’annullamento. In tal caso si porrebbe peraltro il problema d’un eventuale concorso di colpa, ex art. 1227 c.c., per non avere il coniuge legittimato proposto azione d’annullamento (90).

Per quanto attiene al danno concretamente risarcibile in questa particolare fattispecie si è affermato (91) che qui si potrebbe ipotizzare anche il risarcimento del danno esistenziale per il disagio e lo stress provocato dal comportamento del coniuge che ha effettuato l’atto di disposizione

(84) Cfr. SEGNI, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge sui beni immobili della comunione, in Riv. dir. civ.,

1980, I, p. 598; nello stesso senso v. anche FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 40. (85) Come suggerito da GRASSELLI, Rapporti economici tra coniugi e risarcimento del danno, in AA. VV., Trattato della

responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di Cendon, III, cit., p. 2867. (86) Per i richiami v. ANELLI, op. cit., p. 275 s. Cass., 19 marzo 2003, n. 4033, in Foro it., 2003, I, c. 2745, con nota di DE MARZO,

la quale ha stabilito che, per gli atti di disposizione su beni mobili, «l’art. 184, terzo comma, cod. civ. non prevede detto consenso, limitandosi a porre a carico del coniuge che ha effettuato l’atto in questione l’obbligo di ricostituire, ad istanza dell’altro, la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, di pagare l’equivalente del bene secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione, senza stabilire alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia per l’atto compiuto in assenza del consenso del coniuge, atto che resta, pertanto, pienamente valido ed efficace». E’ noto che per una parte della dottrina l’atto dispositivo in oggetto sarebbe valido solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 1153 c.c. (o di alcuni di essi: cfr. per tutti ANELLI, op. loc. ultt. citt.).

(87) Così invece DOGLIOTTI, I rapporti familiari, in AA. VV., La responsabilità civile, a cura di Cendon, VIII, Torino, 1998, p. 69. (88) E si noti che, come appena ricordato nel testo, l’alienazione del bene stesso è, per dottrina e giurisprudenza prevalenti,

perfettamente valida ed efficace anche senza la traditio. (89) In questo senso cfr. già OBERTO, Acquisti a titolo originario e comunione legale, in Fam. dir., 1994, Allegato, p. 30 s.

Aderisce a tale impostazione anche FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 41 s., secondo cui la soluzione può giustificarsi alla luce anche dell’orientamento che tende sempre più ad ampliare l’ambito di operatività della responsabilità contrattuale sul presupposto che la stessa tuteli in modo più adeguato il danneggiato. Contra, per la tesi della natura aquiliana della responsabilità in discorso, BIANCA, Gli atti di straordinaria amministrazione, in AA. VV., La comunione legale, a cura di Bianca, I, Padova, 1989, p. 620 s.

(90) Cfr. Cass., 26 novembre 1994, n. 10072, in Dir. lav., 1995, II, p. 14, con nota di FACCHINI, secondo cui «In tema di risarcimento del danno nei rapporti obbligatori, nella nozione di ordinaria diligenza del creditore di cui all’art. 1227, secondo comma, cod. civ., rientra anche il tempestivo esercizio del proprio diritto, ossia l’esercizio non differito fino al limite del termine di prescrizione, qualora il trascorrere del tempo possa determinare un incremento del danno».

(91) FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 40 s.

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di un bene di valore affettivo: ma la soluzione appare difficilmente conciliabile con il disposto dell’art. 2059 c.c. (92).

In conseguenza dell’affermata natura contrattuale del danno in oggetto, l’azione risarcitoria sarà sottoposta al termine prescrizionale generale ex art. 2946 c.c., nonché alla sospensione ex art. 2941, n. 1, c.c., non valendo nella specie il rationale di una decisione di legittimità, risalente al 1987, che ha stabilito l’inapplicabilità di tale disposizione all’azione di annullamento, proposta ai sensi dei primi due commi dell’art. 184 c.c., relativamente a beni immobili o mobili registrati (93)

Sempre rimanendo in tema di responsabilità contrattuale collegata ai profili di amministrazione della comunione legale, va detto che un obbligo risarcitorio può sorgere anche a prescindere dalla violazione del dovere giuridico specifico di ottenere il consenso dell’altro coniuge per l’alienazione dei beni della comunione (così come dell’obbligo di contribuzione), qualora un coniuge abbia male amministrato i beni della comunione. Al riguardo, l’art. 193 c.c. prevede che la separazione giudiziale dei beni possa essere pronunciata anche nel caso di cattiva amministrazione della comunione (primo comma); inoltre, lo stesso articolo dispone che la separazione dei beni possa essere pronunziata quando «il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta nell’amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell’altro o della comunione o della famiglia oppure quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni di questa in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro» (cfr. art. 193 cpv. c.c.) (94).

Appare evidente che, nel caso in cui la cattiva amministrazione, da parte di un coniuge, abbia cagionato un pregiudizio all’altro, quest’ultimo avrà azione per il risarcimento del danno, a prescindere dalla proposizione della domanda di cui all’art. 193 c.c. Tale azione può essere proposta anche quando, a causa della cattiva amministrazione, i creditori, ai sensi dell’art. 190 c.c., agiscono sui beni personali di ciascun coniuge, allorché i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti gravanti su di essa (95).

(92) E’ particolarmente dibattuto se il disagio e lo stress, derivanti da lesioni di interessi non direttamente riconducibili a valori

costituzionali, siano risarcibili, alla luce del nuovo assetto del danno non patrimoniale, delineato dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 233 del 2003 (Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233, in Giur. it., 2004, p. 1129, con nota di BONA), attraverso il richiamo al diritto vivente (cfr. Cass., 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass., 31 maggio 2003, n. 8828). Al riguardo, si è osservato (cfr. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 41 nota 147) come in Cass. n. 8827/2003 ed in Cass. 8828/2003, la lesione di un interesse costituzionale sarebbe di tutta evidenza: nella prima la lesione dell’interesse costituzionale deriverebbe dallo sconvolgimento delle abitudini di vita e dall’esigenza di provvedere perennemente ai bisogni di un figlio ridotto ad uno stato pressoché vegetativo; nella seconda dall’uccisione di un congiunto. Si deve, tuttavia, considerare come né la Corte costituzionale, né le pronunce dalla stessa richiamate facciano alcun riferimento ad un criterio, come ad esempio la «gravità dell’offesa», per selezionare gli interessi di rango costituzionale, meritevoli di tutela risarcitoria (sul criterio della «gravità dell’offesa», al fine di selezionare gli interessi non patrimoniali meritevoli di tutela risarcitoria, si veda NAVARRETTA, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino, 1996, p. 350; PONZANELLI, L’art. 2059 c.c. tra esame di costituzionalità e valutazione di opportunità, in Danno e resp., 2002, p. 878; BARGELLI, Danno non patrimoniale ed interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059, in Resp. civ. prev., 2003, p. 702; in giurisprudenza v. Trib. Bergamo, 26 febbraio 2003, in Resp. civ. prev., 2003, p. 179, con nota di NAVARRETTA; in Danno e resp., 2003, p. 547, con nota di PONZANELLI). Secondo FACCI, op. loc. ultt. citt., sarebbe, tuttavia, deprecabile, se, stante l’indeterminatezza del riferimento agli interessi di rango costituzionale inerenti alla persona, si provvedesse all’invenzione di nuovi interessi di rango costituzionale, al fine di permettere il risarcimento anche dello stress e del disagio esistenziale. L’Autore rileva che tale modo di procedere è già stato respinto dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 500 del 1999, la quale ha censurato il precedente orientamento che, per risarcire danni altrimenti considerati irrisarcibili, inventava nuovi diritti soggettivi. La chiave di lettura dovrebbe, invece, essere spostata sull’ingiustizia del danno, al fine di valutare se lo stress ed il disagio procurato debbano rimanere a carico della vittima oppure debbano essere trasferiti sull’autore del fatto. Rimane però la constatazione, ad avviso dello scrivente, che la chiara scelta di politica legislativa di limitare il risarcimento del danno non patrimoniale al pregiudizio causato da un comportamento che costituisce reato (ovvero nelle altre ipotesi tassativamente prescritte dalla legge) non può essere superata dall’interprete attraverso un’interpretazione, sostanzialmente, abrogatrice dell’art. 2059 c.c.

(93) Cfr. Cass., 22 luglio 1987, n. 6369, in Dir. fam. pers., 1988, I, p. 786; in Giust. civ., 1988, I, p. 135, con nota di M. FINOCCHIARO: «Con riguardo all’azione di annullamento proposta da un coniuge contro l’atto con cui l’altro coniuge abbia disposto di un bene immobile, oggetto di comunione legale, senza il necessario consenso di esso istante, il termine di un anno, fissato dall’art. 184 secondo comma cod. civ. con decorso dalla data della conoscenza dell’atto stesso, ed in ogni caso dalla data della sua trascrizione non è soggetto alla sospensione nel rapporto fra coniugi contemplata dall’art. 2941 cod. civ. per la prescrizione in considerazione del carattere speciale della prima delle citate norme, e manifestamente non si pone in contrasto con l’art. 24 della costituzione, tenuto conto che il termine medesimo, nonostante la sua brevità, giustificata dal contemperamento delle esigenze del coniuge leso con quelle del terzo, ha consistenza e decorrenza idonee ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa».

(94) FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 39. (95) In questo senso cfr. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 40; v. inoltre FRACCON, Relazioni familiari e

responsabilità civile, cit., p. 209, la quale sottolinea come nel caso in cui la cattiva amministrazione di uno dei coniugi abbia

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

Anche la responsabilità in discorso può dirsi di natura contrattuale, derivando dalla violazione del dovere giuridico specifico, esistente ex lege tra coniugi in comunione legale (e desumibile dal citato art. 193 c.c.), di gestire in maniera «non disordinata» la comunione legale.

8. Responsabilità contrattuale e scioglimento della comunione legale tra coniugi. Rimborsi e restituzioni ex art. 192 c.c.

Precisi rapporti obbligatori aventi contenuto patrimoniale sono poi riscontrabili tra i coniugi

nella fase dello scioglimento del regime. In particolare, l’art. 192 c.c. dispone che «ciascuno dei coniugi è tenuto a rimborsare alla

comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 186». Ai sensi del secondo comma, ognuno dei coniugi «E’ tenuto altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’articolo 189, a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l’atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia». Il terzo comma della disposizione citata prevede poi che «ciascuno dei coniugi può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune». Ai sensi del quarto comma, «I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente». Infine, l’ultimo capoverso prevede che «Il coniuge che risulta creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio credito, in caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili».

Rinviando alle trattazioni monografiche sul tema per i necessari approfondimenti (96), si dovrà precisare che, mentre con il termine «rimborsi» si indicano quelle obbligazioni aventi ad oggetto somme che il singolo coniuge deve rifondere «alla comunione», cioè a dire, in buona sostanza, per metà all’altro coniuge, con l’espressione «restituzioni» vengono designate quelle obbligazioni che vedono il singolo coniuge creditore «nei confronti della comunione» (e dunque, per metà dell’altro coniuge) della rifusione di spese dallo stesso effettuate a vantaggio della massa (già) sottoposta al regime legale.

Ora, il principale problema ermeneutico posto dalla materia dei rimborsi contemplati dai primi due commi dell’art. 192 c.c. concerne i suoi rapporti con l’azione risarcitoria ai sensi dell’ult. cpv. dell’art. 184 c.c.: trattasi di figure i cui reciproci contorni non sembrano poi così nitidi, se è vero che esse vengono da molti presentate come tra di loro fungibili (97). Ora, se nessun dubbio può sollevarsi sul fatto che l’operatività dell’art. 192, primo comma, c.c. è circoscritta alle somme di denaro, è altrettanto indubbio che tra gli atti per i quali è necessario il consenso di entrambi i coniugi rientrano pure quelli di disposizione del (bene mobile costituito dal) denaro comune: ne deriva dunque una possibilità di sovrapposizione tra le due fattispecie in relazione a tutte le ipotesi in cui un coniuge si sia appropriato di denaro comune.

Due strade appaiono astrattamente percorribili. La prima postula l’esistenza di un rapporto di specialità della disposizione dettata in tema di scioglimento (rispetto a quella in materia di amministrazione), in quanto avente ad oggetto un particolare tipo di bene mobile. Ma le

pregiudicato le ragioni dell’altro sulla comunione, l’eventuale risarcimento dovrà provenire dai beni personali dell’agente; ma qualora essi non bastino, il danneggiato potrà soddisfarsi sui beni della comunione fino al valore corrispondente alla quota dell’obbligato, in concorso con gli altri creditori particolari dello stesso soggetto, ma dopo i creditori della comunione, a norma dell’art. 189 c.c.

(96) Cfr. per tutti CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 191 ss.; GENNARI, Lo scioglimento della comunione, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 408 ss.

(97) Cfr. TONDO, Sugli acquisti originari nel regime di comunione coniugale, in Foro it., 1981, V, c. 166; DIES, Non cade in comunione l'edificio costruito su suolo personale di un coniuge in regime di comunione legale, in Resp. civ. prev., 1992, p. 591.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

conseguenze sarebbero sconcertanti: il prelievo unilaterale di denaro comune dovrebbe ritenersi sempre consentito, salvo un obbligo di rimborso, che maturerebbe (di regola) solo al momento dello scioglimento della comunione (cfr. art. 192, quarto comma, c.c.) (98).

L’altra soluzione, che appare preferibile, assegna invece alle norme due diversi campi d’azione anche in relazione agli atti dispositivi di somme di denaro: l’elemento differenziatore è qui dato dal fatto che l’art. 184, ult. cpv., c.c. prende pur sempre le mosse dal presupposto che il coniuge agente abbia posto in essere un atto senza l’accordo richiesto dall’art. 180 c.c. Ne consegue che la sfera d’azione dell’art. 192, primo comma, c.c. si riduce ai prelievi consentiti dall’altro coniuge (99).

Sarà appena il caso di rilevare come, da un punto di vista più generale, la delimitazione delle sfere di operatività delle due discipline appaia indispensabile anche in relazione ad una cospicua serie di conseguenze pratiche: si pensi, tanto per fare due esempi, all’individuazione del momento in cui i rispettivi diritti possono essere esercitati (immediatamente quello ex art. 184 c.c., di regola solo al momento dello scioglimento quello nascente dall’art. 192 c.c.), o al termine di prescrizione, se si dovesse seguire la tesi prospettata da una parte della dottrina – ma rigettata dallo scrivente – circa la natura aquiliana dell’illecito di cui all’art. 184 c.c. (100).

Fatte queste precisazioni potrà concludersi sul punto rilevando che, in caso di atto dispositivo di denaro comune compiuto da un solo coniuge senza il consenso dell’altro, a quest’ultimo sarà consentito agire ex art. 184, ult. cpv., c.c. per la sola quota di sua spettanza (101), dimostrando (e il relativo onere graverà su di lui) il carattere comune del denaro prelevato (102). Il credito in questione è senz’altro di valore (103). Il coniuge «consenziente» non potrà invece agire se non una volta sciolta la comunione (104), salvo che il giudice autorizzi il rimborso (art. 192, quarto comma, c.c.) «in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente» (105).

(98) La tesi, prospettata in astratto da SCHLESINGER, Della comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 444 s., viene dallo stesso Autore ritenuta impraticabile.

(99) In questo senso v. SCHLESINGER, Della comunione legale, cit., p. 445; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 192 s.; CARPINO, Rimborsi e restituzioni (art. 192 c.c.), in Rass. dir. civ., 1988, p. 38. Nel senso invece che l’obbligo di rimborso sorgerebbe solo nel caso il prelievo integri gli estremi di un mutuo concesso dai due coniugi ad uno di essi, oppure quando un coniuge abbia vietato all’altro di impiegare per fini personali degli utili o dei frutti del patrimonio comune v. A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., p. 1157.

(100) Cfr. supra, § 7. (101) Secondo PARENTE, Acquisti in regime di comunione legale e principio dell'accessione, in Giur. it., 1981, IV, c. c. 31 s.,

invece, il coniuge potrebbe agire per l’intero. La conclusione appare inaccettabile: invero (a parte il problema della sua compatibilità con l’art. 81 c.p.c.), essa postulerebbe necessariamente il riconoscimento alla comunione della natura di persona giuridica, ciò che si tende, invece, a negare.

(102) Dubbi potrebbero invece sussistere in relazione al carattere costitutivo o impeditivo, rispettivamente, dell’assenza o della presenza del necessario consenso del coniuge pretermesso. La costruzione della fattispecie alla stregua di un illecito (contrattuale) per violazione di un’obbligazione ex lege sembrerebbe rendere più plausibile la seconda ipotesi. Per un’applicazione del principio al caso dell’edificazione su terreno di proprietà di uno solo dei coniugi v. OBERTO, Acquisti a titolo originario e comunione legale, cit., p. 28 ss.

(103) Arg. ex art. 184, ult. cpv., c.c.: «...secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione» (cfr. anche PARENTE, op. cit., c. 32).

(104) E dunque la relativa domanda non potrà essere proposta in sede di giudizio di separazione personale, secondo il noto principio (su cui v., ex multis, Cass., 11 luglio 1992, n. 8463, in Dir. fam., 1993, p. 83, nonché, da ultimo, Cass., 6 ottobre 2005, n. 19447) per cui né la proposizione del ricorso, né il provvedimento presidenziale ex art. 708 c.p.c. appaiono idonei a produrre lo scioglimento del regime legale. In questo senso v. Cass., 15 settembre 2004, n. 18564, in Giust. civ., 2005, I, p. 70: «In tema di comunione legale fra coniugi, i rimborsi e le restituzioni delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni, nei limiti delle somme prelevate da ciascuno dei coniugi dal patrimonio comune per fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni cui sono destinati per legge i beni in regime di comunione legale, si effettuano solo al momento della divisione dei beni comuni che, in caso di separazione tra i coniugi, coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia. Sino a tale momento il coniuge amministratore dei beni comuni amministra i beni destinati al mantenimento della famiglia, la quale permane come vincolo anche tra i coniugi separati, senza che alcuno di questi possa rivendicare la disponibilità personale delle loro rendite, nei limiti della propria quota di comproprietà, prima del definitivo scioglimento del rapporto di convivenza. Ciò che trova conferma nell’art. 192, comma quarto, cod. civ., il quale prevede che i rimborsi e le restituzioni, possano avvenire, dietro autorizzazione del giudice, anche in un momento anteriore a quello suindicato, ma solo a favore della comunione e, quindi, con il vincolo di destinazione delle somme relative al mantenimento della famiglia e all’istruzione e all’educazione dei figli (in applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la decisione di merito che aveva condannato uno dei coniugi al pagamento, in favore dell’altro, della metà del valore locativo di un immobile, da lui abitato)».

(105) Sulla diatriba circa il carattere contenzioso o volontario di tale giudizio v., rispettivamente, CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 194, nota 91; MASTROPAOLO e PITTER, op. cit., p. 357.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

Ciò detto potrà concludersi sul tema rilevandosi come i rimborsi e le restituzioni ex art. 192 c.c. formino comunque oggetto di una vera e propria obbligazione ex lege da atto (questa volta, e a differenza di quanto stabilito dall’art. 184 c.c.) lecito, con applicabilità, per l’ipotesi di mancata loro effettuazione (e, questa volta, conformemente al caso descritto dall’art. 184 c.c., secondo l’interpretazione proposta dallo scrivente), della disciplina ex art. 1218 c.c., nonché della prescrizione ordinaria ex art. 2946 c.c.

Si noti che un’altra obbligazione restitutoria, rispetto a quelle descritte dall’art. 192 c.c., può nascere a carico del singolo coniuge al momento della divisione del patrimonio già in comunione legale, a seguito dell’intervenuto scioglimento ex art. 191 c.c., relativamente al corrispettivo pro quota del godimento che un coniuge abbia in via esclusiva avutodi beni fruttiferi comuni. In proposito, infatti, la Cassazione ha stabilito che «All’esito dello scioglimento della comunione legale ciascun coniuge può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti agli artt. 192 e 194 c.c., e il coniuge rimasto nel possesso esclusivo dei beni fruttiferi (nel caso, bene immobile) già appartenenti alla comunione legale è tenuto, in base ai principi generali (art. 820, terzo comma, c.c.), al pagamento, in favore dell’altro coniuge, del corrispettivo pro quota di tale godimento, quali frutti spettanti ex lege, a prescindere da comportamenti leciti o illeciti altrui. Tali frutti civili si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto (art. 821, terzo comma, c.c.), a far data dalla domanda di divisione, quale momento d’insorgenza del debito di restituzione (pro quota) del bene medesimo (art. 1148 c.c.). (La S.C., dando atto che la corte di merito, facendo esercizio dei poteri ad essa spettanti, aveva nell’impugnata sentenza correttamente interpretato la domanda, dall’appellante incidentale erroneamente qualificata come di risarcimento danni, ha enunciato il principio di cui in massima)» (106).

E’ evidente, dunque, che pure la mancata restituzione dei frutti per il periodo indicato esporrà il coniuge percettore dei medesimi a responsabilità contrattuale per inadempimento di un’obbligazione di fonte legale.

Lo stesso è a dirsi per quanto attiene al già ricordato credito alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune: credito spettante al coniuge ai sensi dell’art. 192, terzo comma, c.c. all’esito dello scioglimento della comunione legale. In relazione a questa ipotesi la medesima sentenza testé citata ha stabilito che tale rapporto è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.), essendo determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., e diventando da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, il credito in questione produce interessi ex art. 1282 c.c., salvo il diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore di quello dai medesimi interessi coperto (art. 1224 c.c.) (107).

9. Responsabilità contrattuale e regime di separazione dei beni. L’esistenza di un mandato ad amministrare.

Azioni per il risarcimento del danno inter coniuges sulla base di ipotesi di responsabilità

contrattuale possono derivare anche in regime di separazione dei beni (art. 217 c.c.), oppure in regime di comunione, ma con riguardo all’amministrazione, da parte di un coniuge, dei beni personali dell’altro (art. 185 c.c., che richiama l’art. 217 c.c.). Si tratta di ipotesi destinate ad

(106) Cass., 24 maggio 2005, n. 10896, in Vita notar., 2005, I, p. 1524. Con la medesima decisione la Corte ha inoltre stabilito che «In tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell’art. 192, terzo comma, cod. civ. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (ad es., quelle impiegate per la ristrutturazione di bene immobile appartenente alla comunione), e non già alla ripetizione – totale o parziale – del denaro personale e dei proventi dell’attività separata (che cadono nella comunione de residuo solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l’acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, primo comma lett. a), cod. civ., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall’art. 194, primo comma, cod. civ., secondo cui, in sede di divisione, l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l’acquisto dei beni caduti in comunione».

(107) Cfr. Cass., 24 maggio 2005, n. 10896, cit.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

assumere un peso statistico sempre più rilevante, a fronte della vera e propria «fuga» delle nuove coppie italiane dal regime di comunione dei beni, dallo scrivente segnalata in altre sedi (108).

Al riguardo stabilisce l’art. 217 cpv. c.c. che «Se ad uno dei coniugi è stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli è tenuto verso l’altro coniuge secondo le regole del mandato». Ai sensi del terzo comma, «Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell’altro con procura senza l’obbligo di rendere conto dei frutti, egli ed i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati».

Il capoverso dell’art. 217 c.c. prende dunque in esame il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata conferita la procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei frutti, mentre nel successivo terzo comma viene contemplata l’ipotesi in cui uno dei coniugi abbia amministrato i beni dell’altro con procura, ma senza l’obbligo di rendere conto dei frutti.

Le questioni ermeneutiche poste dalle disposizioni in esame sono state approfondite in altra sede (109). Qui sarà d’uopo soffermarsi brevemente su taluni dei dubbi principali, tra i quali spicca la riferibilità dell’art. 217 cpv. c.c. non solo al caso del mandato con rappresentanza, ma, come appare preferibile, anche a quello del mandato senza rappresentanza, come d’altronde induce a ritenere il richiamo all’obbligo a rendere conto di frutti (1713 c.c.) (110). Per quanto concerne invece la forma dell’eventuale procura, dovrà farsi richiamo alla regola generale di cui all’art. 1392 c.c. (111).

In base all’art. 217, secondo comma, c.c., se è stato convenuto l’obbligo di rendiconto, il coniuge amministratore sarà tenuto verso l’altro secondo le regole del mandato. Troverà quindi applicazione in primo luogo l’art. 1710, primo comma, c.c., in base al quale il mandatario deve eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia (112): da quanto detto si arriva dunque alla conclusione che il coniuge sarà responsabile qualora ometta colposamente di percepire i frutti dei beni affidatigli, oppure ne cagioni il perimento o il deterioramento (113). Il coniuge sarà anche tenuto a corrispondere gli interessi legali sulle somme riscosse (art. 1714 c.c.) e a provvedere alla custodia dei beni (art. 1718 c.c.) (114).

Ai sensi dell’art. 217, terzo comma, c.c., qualora non sia stato convenuto l’obbligo di rendere conto dei frutti, il coniuge amministratore e i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o al momento del scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, saranno tenuti a consegnare unicamente i frutti esistenti e non risponderanno invece per quelli che siano già stati consumati (115).

(108) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 6 ss. (109) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 129 ss. (110) SESTA e VALIGNANI, Il regime di separazione dei beni, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III,

Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 518; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2002, p. 633.

(111) GALLETTA, Il regime di separazione dei beni, in AA. VV., Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, II, Torino, 2000, p. 451; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 516; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 633.

(112) SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, Torino, 1995, p. 290; AULETTA, Il diritto di famiglia, Torino, 2000, p. 111.

(113) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 436; CAVALLARO, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, Milano, 1997, p. 165.

(114) DE PAOLA e MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, p. 274; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, Milano, 1996, p. 14; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 519.

(115) Il coniuge gestore, anche se esonerato dal rendiconto, risponderà comunque per dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 1713, cpv., c.c. (GIUSTI, voce Separazione dei beni tra coniugi, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, p. 1449; ZACCARIA, La separazione dei beni, in AA. VV., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 327; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 520; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 634; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, in Commentario del codice civile diretto da Scialoja e Branca, I, Bologna-Roma, 2003, p. 611). Che il mandatario, anche se coniuge, debba sempre rispondere per dolo o colpa grave, è, secondo alcuni, necessaria conseguenza dell’esistenza di un vincolo obbligatorio tra le parti, la cui stessa esistenza sarebbe contraddetta da un esonero totale della responsabilità (GABRIELLI e CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 310). Questa conclusione non è condivisa da chi osserva che la legge impone unicamente l’obbligo di consegnare i frutti esistenti al momento della richiesta o dello scioglimento del matrimonio, esonerando quindi il coniuge gestore dalla responsabilità per frutti consumati, con conseguente implicito esonero di responsabilità per dolo o colpa grave (V. per tutti PINO, Diritto di famiglia, Padova, 1998, p. 134).

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

Venendo ai caratteri che il mandato ad amministrare conferito da un coniuge all’altro deve avere affinché possano trovare applicazione le norme di cui all’art. 217, cpv. e terzo comma, c.c., e rinviando anche qui alla apposita trattazione (116), potrà riassuntivamente dirsi che la tesi preferibile appare quella che riferisce la disposizione predetta tanto al mandato generale che a quello speciale eventualmente conferito da un coniuge all’altro, purché si tratti di mandato sempre revocabile (117). E’ poi senz’altro compatibile con l’attuale disciplina del diritto di famiglia l’eventuale conferimento del potere di destinare beni e frutti al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, assolvendo in tale modo al proprio dovere di contribuzione (118), sempre a condizione che di tale sistema di adempimento dei doveri ex artt. 143 e 147 c.c. sia garantita la revocabilità (119).

In base alla norma generale di cui all’art. 1709 c.c. il mandato si presume oneroso: si tratta quindi di stabilire se detto principio possa essere applicato anche relativamente ai casi previsti dall’art. 217, secondo e terzo comma, c.c. Parte della dottrina opta per la soluzione affermativa, dedotta dalla citata regola generale, sostenendo che il coniuge amministratore avrà diritto ad un compenso (120). In senso contrario si è osservato che la presunzione di onerosità può in via generale essere vinta sia offrendo la prova di un patto contrario, sia nei casi in cui il carattere gratuito possa desumersi dalle circostanze e dal comportamento delle parti (121). Visto che normalmente si accetta di amministrare i beni del proprio coniuge per spirito di solidarietà, in adempimento del dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia, sembra preferibile presumere che il mandato conferito da un coniuge all’altro sia gratuito (122), tanto più che la presunzione di onerosità fissata dall’art. 1709 c.c. non ha certo carattere assoluto (123), cosicché la responsabilità per colpa andrà valutata con minor rigore ai sensi dell’art. 1710, primo comma, c.c. (124).

10. Segue. Responsabilità per il compimento di atti di amministrazione nonostante l’opposizione dell’altro coniuge, oppure in assenza sia di mandato che di opposizione (rinvio).

L’art. 217, quarto comma, c.c., prende in considerazione l’ipotesi in cui uno dei coniugi,

nonostante l’opposizione dell’altro, amministri i beni di questo o comunque compia atti relativi a tali beni, stabilendo che egli risponde dei danni cagionati e della mancata percezione dei frutti (125). Trattasi, come rilevato in dottrina, di previsione superflua, perché pone a carico del coniuge in questione l’obbligo di risarcimento del danno, conformemente ai principi generali in materia di fatto illecito (126).

(116) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 139 ss. (117) Dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, secondo la dottrina dominante, un mandato irrevocabile inter coniuges deve

invece considerarsi sempre inammissibile, perché risulterebbe in contrasto con il principio di uguaglianza, andando a configurare una situazione analoga ad una costituzione di dote, ora vietata ai sensi dell’art. 166-bis c.c. (per i richiami cfr. OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 141 s.).

(118) TATARANO e CAPOBIANCO, Il regime della separazione dei beni tra coniugi, in Rass. dir. civ., 1996, p. 530; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 522.

(119) CAVALLARO, op. cit., p. 142 s.; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 523. (120) SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario del codice civile,

redatto a cura di magistrati e docenti, I, 2, Torino, 1983, p. 351; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, Le convenzioni matrimoniali. Famiglia e impresa, Milano, 1984, p. 71.

(121) Cass., 27 maggio 1982, n. 3233, in Rep. Foro it., 1982, voce Mandato, n. 4. (122) SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 290; GIUSTI, op. cit., p. 1450;

TATARANO e CAPOBIANCO, op. cit., p. 554; ZACCARIA, La separazione dei beni, cit., p. 327; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 523; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637.

(123) GIUSTI, op. cit., p. 1450; ZACCARIA, La separazione dei beni, cit., p. 327. (124) CAVALLARO, op. cit., p. 144; BRUSCUGLIA e GORGONI, La separazione dei beni, in AA. VV., Il diritto di famiglia, II, in

Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, IV, Torino, 1999, p. 551, nota 332; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 523; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637.

(125) CAVALLARO, op. cit., p. 170, ritiene applicabile in relazione a quest’ultima disposizione l’art. 1148 c.c., riconoscendo al coniuge proprietario il potere di chiedere all’altro la restituzione dei frutti percepiti fin dal momento dell’abusiva occupazione del bene.

(126) GABRIELLI e CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 311 s. La permanenza di questa disposizione si spiega solo storicamente: sul punto v. OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 146 ss.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

La disposizione fa riferimento ad una condotta illecita del coniuge, che può consistere in uno o più atti di amministrazione, di godimento, di disposizione (ad esempio di alienazione di beni mobili, che possono essere efficaci in base all’art. 1153 c.c.), oppure nell’inosservanza della diligenza richiesta per assicurare la custodia o la manutenzione o l’efficienza produttiva dei beni, o ancora nella consumazione o nella mancata percezione dei frutti (127). Trattasi peraltro di ipotesi di responsabilità aquiliana, per violazione del diritto soggettivo all’integrità del patrimonio, anche se l’esistenza di un rapporto di coniugio inter partes viene sicuramente ad agevolare, di fatto, il verificarsi di siffatte situazioni. Ne consegue che all’obbligo di risarcire i danni si applicheranno le usuali regole relative all’illecito extracontrattuale (128). Gli altri danni, diversi dalla mancata percezione dei frutti, cui fa riferimento l’art. 217, quarto comma, c.c., saranno gli eventuali danni materiali che i beni abbiano subito (129).

Analogamente alla fattispecie testé descritta, appartengono alla categoria dell’illecito aquiliano le ipotesi di compimento di atti di amministrazione, da parte di un coniuge in regime di separazione dei beni, in assenza sia di mandato che di opposizione da parte dell’altro, in relazione al quale chi scrive ha ritenuto di dover concludere che – ad esclusione dei casi di mandato tacito – l’ignoranza, da parte di un coniuge, dell’effettuazione di atti di amministrazione da parte dell’altro non potrà dar luogo all’applicazione dell’art. 217, terzo comma, c.c., ma aprirà la via, a seconda dei casi, ai rimedi ordinari in tema di gestione di affari altrui, ovvero di responsabilità aquiliana, ovvero ancora di arricchimento ingiustificato (130).

11. Segue. Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro e la relativa responsabilità.

L’art. 218 c.c. si occupa, sempre in relazione ai coniugi in regime di separazione,

dell’ipotesi in cui uno goda dei beni dell’altro, stabilendo a carico del primo l’applicabilità delle obbligazioni che la legge pone a carico dell’usufruttuario. Ne consegue che tale coniuge risponderà, in caso di mancato adempimento ad uno o più di tali obblighi, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c. La dottrina rileva in proposito che la prescrizione in commento costituisce il naturale completamento dell’art. 217 c.c.: come, invero, l’art. 217 c.c. attiene al compimento di atti giuridici coinvolgenti il patrimonio dell’altro coniuge, così l’art. 218 c.c. investe il profilo del godimento materiale (131).

Non vi è poi dubbio sul fatto che i coniugi, nell’esercizio dell’autonomia che viene riconosciuta loro dall’ordinamento, possano anche concedersi il diritto d’usufrutto (o di abitazione) su uno o più beni (132): in tal caso si dovrà riconoscere la diretta applicabilità della relativa normativa.

Le obbligazioni a carico del coniuge che gode dei beni dell’altro sono, secondo l’opinione prevalente, quelle di cui agli artt. 981, 1001, 1002, 1004, 1005, terzo comma, 1008, 1009, 1012 e 1013 c.c. (133). Il riferimento limitato alle sole obbligazioni – e non anche ai diritti – nascenti dall’usufrutto esclude la possibilità di assimilare la posizione del coniuge a quella di un vero e

(127) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 438; BRUSCUGLIA e GORGONI, op. cit., p. 551; SESTA e

VALIGNANI, op. cit., p. 524; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637. (128) DE PAOLA e MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 275; CATTANEO, Del regime di separazione dei

beni, 1992, cit., p. 438; ZACCARIA, La separazione dei beni, cit., p. 329; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 524; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 637.

(129) SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 524; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 638; cfr. inoltre CAVALLARO, op. cit., p. 172, la quale fa riferimento anche ai cosiddetti «danni da usura».

(130) Cfr. OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 232 ss. (131) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; GABRIELLI e CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei

coniugi, cit., p. 308; BRUSCUGLIA e GORGONI, op. cit., p. 543; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 526; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 641.

(132) Cfr. GALASSO, op. cit., p. 613. (133) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1977, cit., p. 481; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p.

72; ZACCARIA, La separazione dei beni, cit., p. 330 s.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

proprio usufruttuario (134). D’altro canto, in dottrina si afferma che anche le norme dettate in materia di obbligazioni nascenti dall’usufrutto sono applicabili solo in quanto compatibili con la peculiarità della situazione (135). In particolare si ritiene unanimemente applicabile l’art. 1001 c.c., che impone l’obbligo di usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento del bene (136). Alcuni Autori, invece, ritengono non applicabile l’art. 1002 c.c. sull’obbligo di redigere l’inventario e di prestare idonea garanzia, in considerazione del tipo di rapporto intercorrente fra le parti e della naturale spontaneità che caratterizza tale situazione (137). Altri pervengono ad analoghe conclusioni sulla base del rilievo per cui l’obbligo di redigere l’inventario e quello di prestare garanzia trovano la loro ragione d’essere nella compressione che la posizione giuridica del nudo proprietario viene a subire, laddove la posizione giuridica del coniuge proprietario, al contrario, non subirebbe qui alcuna compressione, poiché la sua situazione sarebbe svantaggiosa solo di fatto e comunque tale situazione di svantaggio potrebbe essere da lui fatta cessare in qualsiasi momento (138).

Più convincente appare peraltro il parere della dottrina maggioritaria, favorevole all’estensione al coniuge degli obblighi di redigere l’inventario e di prestare idonea garanzia (139), di fronte alla evidente assenza sul punto di dati testuali che consentano di pervenire all’opposta soluzione. Né d’altro canto appare possibile escludere l’applicabilità della norma in oggetto sulla base del rilievo per cui la già avvenuta ingerenza del coniuge sui beni dell’altro non lascerebbe spazio né per l’inventario né per la garanzia (140). Il godimento potrebbe, invero, protrarsi anche per un lungo periodo e che il coniuge proprietario potrebbe avere interesse, magari in una situazione in cui i reciproci diritti non appaiono ancora accertati con sufficiente certezza, a premunirsi in tal modo (cioè, appunto, mediante la predisposizione dell’inventario e la concessione di idonea garanzia) contro possibili abusi.

La dottrina reputa altresì applicabili, come si diceva, gli artt. 1004 e 1005, terzo comma, c.c., relativi alle spese (141), gli artt. 1008 (142) e 1009 c.c., in tema di imposte e pesi (143), l’art. 1013 c.c., in tema di concorrenza nelle spese delle liti (144). A parere di chi scrive, neppure la considerazione del particolare rapporto di coniugio esistente tra le parti, con il conseguente

(134) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; MAIORCA, voce Separazione dei beni tra coniugi, in

Noviss. dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 102; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 527.

(135) CAVALLARO, op. cit., p. 160; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 527; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.

(136) DE PAOLA e MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 69; GIUSTI, op. cit., p. 1451; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, op. cit., p. 16; TATARANO e CAPOBIANCO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; CAVALLARO, op. cit., p. 163; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 527; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.

(137) CAVALLARO, op. cit., p. 164; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 528; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.; cfr. inoltre SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, cit., p. 296, per il quale la già avvenuta ingerenza del coniuge non lascia spazio né per l’inventario, né per la garanzia.

(138) Cfr. GABRIELLI e CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 314; ZACCARIA, La separazione dei beni, cit., p. 330. (139) DE PAOLA e MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia,

II, cit., p. 72; CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; TATARANO e CAPOBIANCO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559.

(140) Così GIUSTI, op. cit., p. 1451. (141) SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; CATTANEO, Del regime di

separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; TATARANO e CAPOBIANCO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 528; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 642 s.

(142) In senso contrario CAVALLARO, op. cit., p. 160, la quale esclude più in generale, la possibilità di applicare quelle disposizioni che «si giustificano solo alla luce della titolarità di un diritto reale o comunque di un diritto alla percezione dei frutti».

(143) DE PAOLA e MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, cit., p. 16; TATARANO e CAPOBIANCO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559.

(144) DE PAOLA e MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 276; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, cit., p. 16; TATARANO e CAPOBIANCO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; ZACCARIA, La separazione dei beni, cit., p. 331; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 528; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 643.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

inderogabile dovere di contribuire ai bisogni della famiglia e la relativa regola dell’accordo, consente di escludere l’applicabilità delle disposizioni da ultimo citate (145), specie di fronte al carattere assolutamente generale del rinvio operato dall’art. 218 c.c. alle disposizioni (tutte, senza eccezione alcuna) in tema di obblighi dell’usufruttuario. Senza dubbio, poi, sarà applicabile l’art. 1012 c.c., in materia di denuncia delle altrui usurpazioni (146). La dottrina pressoché uniforme afferma poi la necessità che venga osservato il disposto dell’art. 981, primo comma, c.c., che impone all’usufruttuario di non alterare la destinazione economica del bene (147).

12. Segue. L’obbligo di indennizzare il coniuge che abbia apportato miglioramenti o addizioni ai beni dell’altro.

Un’ulteriore forma di responsabilità contrattuale per i coniugi in regime di separazione dei

beni può darsi nel caso di inadempimento all’obbligazione ex lege che può gravare su di un coniuge, avente ad oggetto l’indennizzo, in favore dell’altro per i miglioramenti e le addizioni da quest’ultimo apportati a beni del primo. L’art. 218 c.c. non prende in considerazione l’eventualità che un coniuge, godendo dei beni dell’altro, o comunque per effetto di intromissione nella sfera patrimoniale di quest’ultimo, abbia apportato miglioramenti o addizioni. Si pone qui il problema di sapere se per tali miglioramenti o addizioni sia dovuta una qualche forma di indennizzo.

In primo luogo andrà ricordato che tra coniugi esiste un preciso dovere di contribuzione «ai bisogni della famiglia» che l’art. 143, terzo comma, c.c. parametra «alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo». Si pone dunque il problema se, nell’ipotesi in cui il coniuge sostenga di tasca propria le spese per effettuare migliorie o addizioni sui beni dell’altro, in adempimento del proprio obbligo di contribuzione, sulla base di un accordo precedente circa le modalità di ripartizione fra entrambi dell’onere contributivo stesso (si pensi ad esempio al caso in cui i coniugi abbiano concordato di dividersi le spese per la ristrutturazione della casa coniugale appartenente al solo marito), l’indennizzo debba ritenersi escluso (148).

Applicando questo principio, una decisione di merito ha respinto la richiesta di pagamento per le prestazioni professionali rese, avanzata dal marito architetto il quale si era dato carico di svolgere tutte le attività occorrenti per la ristrutturazione della casa coniugale, appartenente alla sola moglie. Considerando l’attività svolta come prestazione non contrattuale posta in essere nell’interesse della famiglia da ricondursi all’adempimento dell’obbligo di contribuzione, il giudice ne ha così affermato la totale gratuità (149). In precedenza la Corte Suprema aveva invece riconosciuto la possibilità di ottenere un’indennità ex art. 1150 c.c. per il contributo in denaro fornito dalla moglie al marito per il restauro della casa di quest’ultimo adibita a residenza familiare, pur avendo affermato che tale contributo era stato prestato in adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. (150).

Rinviando anche in questo caso alla trattazione approfondita della questione svolta in altra sede (151), potrà conclusivamente dirsi che la soluzione del problema dovrà trovarsi, in linea di massima, nelle norme in tema di gestione d’affari altrui, salvi i casi in cui nel comportamento tollerante sia eventualmente possibile ravvisare gli estremi di un mandato tacito (nel qual caso

(145) Come invece sostenuto da SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 528; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione

dei beni, cit., p. 643. (146) SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 358; CORSI, Il regime

patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 71; TATARANO e CAPOBIANCO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 559; ZACCARIA, La separazione dei beni, op. cit., p. 331; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 528.

(147) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 439; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 72; SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 529; VALIGNANI, L’amministrazione nel regime di separazione dei beni, cit., p. 643 s.

(148) SESTA e VALIGNANI, op. cit., p. 535. (149) Cfr. Trib. Napoli, 4 luglio 2001, in Fam. dir., 2002. (150) Cass., 26 maggio 1995, n. 5866, in Dir. fam. pers., 1997, p. 87, con nota di MONTECCHIARI; in Giur. it., 1997, I, p. 843, con

nota di AMATO. (151) OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 232 ss.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

dovrebbe essere applicato l’art. 1720, primo comma, c.c.). La norma di riferimento dovrebbe dunque essere costituita, in linea generale, dall’art. 2031, primo comma, c.c., che impone all’interessato, qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, di rimborsare al gestore tutte le spese necessarie o utili (152), con gli interessi dal giorno in cui le spese sono state fatte (153). Queste conclusioni paiono ricevere conforto da quella giurisprudenza che riconduce proprio al paradigma della gestione d’affari altrui le spese affrontate da un coniuge che abbia integralmente adempiuto all’obbligo di mantenimento dei figli pure per la quota facente capo all’altro (154).

Sempre secondo la predetta impostazione, se il coniuge abbia agito senza procura o con l’opposizione dell’altro, in virtù dell’art. 2031, secondo comma, c.c. – che esclude che si possa procedere al rimborso integrale con gli interessi qualora gli atti di gestione siano stati eseguiti contro il divieto dell’interessato – non potrà, invece, farsi riferimento alla normativa in materia di gestione d’affari.

E’ dunque chiaro che, ogni qualvolta si dovrà ravvisare nella fattispecie gli estremi di un’obbligazione da gestione d’affari altrui, la relativa violazione seguirà le regole dell’illecito contrattuale, ex artt. 1218 ss. c.c. (Ancora diversa è la questione se tra coniugi, così come tra conviventi more uxorio, possano darsi ipotesi di arricchimento ingiustificato (155). E’ ovvio che, nei casi e per le fattispecie in cui dovessero ritenersi configurabili obbligazioni ex art. 2041 c.c., le relative inadempienze darebbero luogo a responsabilità contrattuale.

13. Responsabilità contrattuale e crisi coniugale. Svariate sono le fattispecie in cui si può ipotizzare la presenza di una responsabilità

contrattuale inter coniuges per violazione di obbligazioni nascenti dalla situazione di crisi coniugale. La mente corre qui, in primo luogo, al contributo per il mantenimento del coniuge separato ex art. 156 c.c., o all’assegno di divorzio ai sensi dell’art. 5 l.div., o, ancora, alle prestazioni patrimoniali dovute ai sensi degli artt. 129 e 129-bis c.c. per il caso di invalidità del vincolo.

Naturalmente non è possibile trattare qui, neppure per sommi capi, delle questioni che attengono a ciascuna delle prestazioni in discorso, sviluppate in altra sede (156). Ciò che preme invece sottolineare è che la natura contrattuale della responsabilità per inadempimento di una qualsiasi di siffatte prestazioni si giustifica non solo nel caso in cui queste siano determinate da un contratto della crisi coniugale, ma anche nell’ipotesi in cui esse siano previste da una statuizione giudiziale, definitiva o provvisoria che sia. Anche qui, invero, si può parlare di obbligazione nel senso proprio del termine, come dimostrato dal fatto che la giurisprudenza non esita a fare applicazione, a tutela della posizione del coniuge titolare del credito a titolo di mantenimento o di assegno divorzile, del più classico degli strumenti a protezione del creditore (di un’obbligazione) nei confronti degli atti fraudolenti posti in essere dal debitore: vale a dire l’azione revocatoria (157).

(152) Sono utili le spese volte a migliorare la cosa o ad accrescerne il reddito; sono invece voluttuarie, e quindi non rimborsabili, le spese che la abbelliscono e ne rendono più piacevole il godimento al proprietario, senza però aumentarne il valore di scambio: cfr. DE SEMO, voce Gestione di affari altrui (diritto vigente), in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, p. 828; in senso analogo CASELLA, voce Gestione di affari I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, 1995, p. 7; FERRARI, voce Gestione di affari altrui (dir. priv.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, p. 706.

(153) BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 1989, p. 143, ritiene invece applicabili in via analogica gli artt. 985 e 986 c.c. relativi alle addizioni e alle migliorie effettuate dall’usufruttuario.

(154) Cfr., ex multis, Cass., 11 novembre 1978, n. 5169; Cass., 25 maggio 1981, n. 3416; Cass., 1 giugno 1982, n. 3344; Cass., 8 marzo 1983, n. 1687; Cass., 19 marzo 1984, n. 1862; Cass., 21 giugno 1984, n. 3660; Cass., 16 marzo 1990, n. 2199; Cass., 11 luglio 1990, n. 7211; Cass., 12 marzo 1992, n. 3019; Cass., 5 dicembre 1996, n. 10849; Cass., 4 settembre 1999, n. 9386.

(155) Il tema è stato sviluppato in OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 120 ss.; ID., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 49 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 232 ss.

(156) Cfr., anche per i necessari rinvii, OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 733 ss. (157) Cfr. Trib. Milano, 22 luglio 1993, in Gius, 1994, p. 98: «È ammissibile l’azione revocatoria proposta dalla moglie, anche per

conto del figlio minore, nei confronti del marito il quale abbia venduto la casa coniugale ad un terzo recando pregiudizio sia al diritto al mantenimento nascente del matrimonio sia al diritto di credito da determinare in sede di separazione. (Nella specie è stato ritenuto

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

D’altro canto, la stessa giurisprudenza non ha difficoltà ad ammettere la risarcibilità del danno conseguente all’inadempimento di siffatto tipo di obbligazioni (158).

Naturalmente, quanto sopra vale pure con riguardo al caso in cui le parti abbiano eventualmente stabilito che la corresponsione dei contributi in oggetto sia compiuta in una delle svariate modalità «non tradizionali», altrove in dettaglio illustrate (159): dalla fissazione del quantum in misura «fluttuante», legata al reddito dell’obbligato, alla determinazione in termini non monetari, all’attribuzione diretta di redditi o proventi dell’obbligato, all’effettuazione di rimborsi di spese, alla diretta somministrazione dei mezzi di sussistenza, al pagamento diretto del canone di locazione e delle spese accessorie, alla corresponsione di beni in natura.

Con particolare riguardo a quest’ultima ipotesi potrà ricordarsi che il trasferimento di diritti su beni, mobili o immobili, in sede di contratto della crisi coniugale – ormai pacificamente ammesso – ove non attuato con effetto reale, può compiersi per il tramite di un impegno assunto in sede di accordo di separazione o divorzio e successivamente adempiuto con distinto e separato negozio attuativo (160). Anche l’eventuale inadempimento di tale obbligazione può dar luogo a responsabilità contrattuale, salvo il rimedio specifico contemplato nell’art. 2932 c.c. (161). Conformemente a quanto sopra illustrato, deve però ritenersi che la parte in favore della quale l’impegno traslativo era stato assunto, possa optare per il risarcimento del danno (contrattuale) nelle forme ordinarie, rinunziando al rimedio specifico, oppure agire ex artt. 1218 ss. c.c., in concorso con l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c., quando il danno di cui si intenda chiedere il risarcimento sia, ad esempio, quello da ritardo, per la mancata disponibilità del bene per un determinato periodo.

A prescindere dai rimedi risarcitori ex artt. 1218 ss. c.c., le obbligazioni qui in discorso sono rafforzate da una serie di garanzie speciali a tutela dell’adempimento degli obblighi di carattere pecuniario derivanti dalla separazione e dal divorzio: obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale, iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’ articolo 2818 c.c., sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato, ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di che al momento della vendita sussistessero da parte del debitore e del terzo sia il consilium fraudis, relativo all’attuale diritto al mantenimento, che la dolosa preordinazione, relativa al futuro diritto di credito nascente dalla separazione, posto che per quanto riguarda il debitore la vendita risultava di quattro giorni successiva all’allontanamento della moglie dalla casa coniugale a seguito di pesanti contrasti familiari, e di un solo giorno antecedente la data apposta in calce al ricorso per separazione personale proposto dal marito e per quanto riguarda il terzo acquirente questi era risultato essere la moglie dell’avvocato che assisteva il coniuge cedente nel giudizio di separazione)».

(158) Cfr. App. Perugia, 8 marzo 1986, in Dir. fam. pers., 1989, I, p. 102: «L’inadempimento dell’obbligazione alimentare, tra coniugi separati, è soggetto alla medesima disciplina che regola l’inadempimento delle obbligazioni in genere. Nel caso in cui detta obbligazione sia consacrata in un titolo esecutivo, quale il provvedimento emesso dal presidente del tribunale nella fase preliminare del giudizio di separazione personale, il coniuge creditore può pertanto, a sua scelta, agire esecutivamente per conseguire l’esatta prestazione di quanto a lui dovuto, oppure agire per il risarcimento del danno, al fine di ottenere una prestazione in denaro equivalente a quella dovuta, qualora la prestazione abbia per oggetto una somministrazione imprecisata e non agevolmente determinabile, al coniuge creditore non rimane che avvalersi dell’azione risarcitoria».

Sul tema v. anche Cass., 19 agosto 2005, n. 17009, secondo cui «Qualora il coniuge assegnatario in sede di separazione della casa familiare abbia proposto azione revocatoria diretta alla declaratoria di inefficacia della vendita dell’immobile oggetto dell’assegnazione da parte del marito, non ricorre il rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica richiesto dall’art. 295 c.p.c. per la sospensione necessaria del processo, tra la predetta causa e il giudizio proposto dal compratore per ottenere la condanna del venditore al rilascio del medesimo bene; infatti, nessuna influenza sull’esito di quest’ultimo procedimento potrà avere il vittorioso esperimento dell’azione pauliana che, non assicurando il rientro del bene nel patrimonio del debitore alienante, produce la declaratoria di inefficacia relativa nei confronti dell’attore-creditore degli atti di disposizione compiuti dal debitore in pregiudizio del credito di cui sia titolare (nella specie, il diritto del coniuge separato all’assegno di mantenimento o al diritto personale di godimento della casa familiare), consentendogli di promuovere l’azione esecutiva e conservativa sul bene distratto; d’altra parte, l’acquirente rimane, a tutti gli effetti, proprietario del bene erga omnes, e, quindi, anche nei confronti del creditore, potendolo alienare a terzi – senza pregiudizio per i diritti da costoro acquistati in buona fede, salvo gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione – o ancora conseguire il rilascio per ottenerne il godimento; d’altra parte, il conflitto fra il diritto del terzo acquirente del bene e il diritto del coniuge di avere la disponibilità del bene in forza del diritto personale di godimento derivante dal provvedimento di assegnazione, va risolto in base all’anteriorità – rispetto all’atto di alienazione – della data o della trascrizione di tale provvedimento rispettivamente a seconda della durata, entro od oltre il novennio, del diritto personale di godimento medesimo».

(159) OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 775 ss. (160) OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1201 ss.; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in

occasione di separazione e divorzio, cit., passim; ID., I trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio, cit. (161) Per le peculiarità di tale rimedio in relazione alla specifica fattispecie in oggetto, v. OBERTO, Prestazioni «una tantum» e

trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 277 ss.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto, ex artt. 156, quarto, quinto e sesto comma, c.c., 8, primo, secondo e settimo comma, l.div., distrazione dei redditi ed azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto comma, l.div.

Secondo quanto illustrato in altra sede dovrà poi ammettersi che i coniugi, nell’ambito di un contratto della crisi coniugale, aggiungano alle garanzie predisposte dal legislatore ulteriori mezzi di tutela preventiva e coazione all’adempimento non previsti dalle speciali norme dettate per la separazione o il divorzio. Nulla esclude invero (ed anzi l’esperienza delle controversie in materia di crisi coniugale sembra caldamente suggerirlo) che i coniugi prevedano la dazione di una caparra confirmatoria, ovvero il pagamento di una penale, magari nella forma di penalità di mora determinate sulla base dei giorni di ritardo, in relazione all’adempimento dell’assegno di separazione o di divorzio, ovvero di altre prestazioni di tipo patrimoniale (162).

14. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori. Come nei rapporti tra coniugi ex art. 143 c.c., anche nelle relazioni tra genitori e figli i

primari doveri che vengono in considerazione in forza degli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. presentano eminenti profili di non patrimonialità. Di conseguenza si dovrà fare rinvio a quanto già illustrato circa la non ravvisabilità di una responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c per il caso di eventuale violazione di siffatti doveri (163).

Sarà però necessario rilevare in questa sede come la violazione del dovere di mantenimento della prole, in quanto relativa ad un obbligo eminentemente patrimoniale, ancorché di fonte legale, non possa sottrarsi alla categoria dell’illecito contrattuale, sebbene un precedente di legittimità risalente al 2000 abbia affermato la responsabilità aquiliana del padre naturale che, successivamente alla dichiarazione giudiziale, per anni aveva ostinatamente rifiutato di corrispondere al figlio i mezzi di sussistenza; al riguardo la Corte ha riconosciuto la «lesione in sé» di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di minore, affermando che l’art. 2043 c.c., correlato agli articoli 2 ss. Cost., va necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, con la conseguenza che la lesione di diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione (danno evento), indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza) (164).

La lettura della motivazione della pronunzia consente peraltro di accertare che il genitore aveva in effetti corrisposto tutto quanto da lui dovuto a titolo di mantenimento, seppure in ritardo. La lesione lamentata non riguardava il profilo patrimoniale consistente nel danno da mancata o ritardata corresponsione dei mezzi di sussistenza, quanto il diritto fondamentale del figlio, come persona umana, ad essere, si potrebbe dire, «trattato come tale» (165).

Naturalmente, vere e proprie obbligazioni concernenti la prole minorenne (o maggiorenne, ma non autosufficiente) possono scorgersi anche nella fase patologica del rapporto coniugale, laddove le determinazioni giudiziali o, in alternativa, la volontà delle parti, prevedano la corresponsione di assegni per il contributo al mantenimento dei figli. Il tema è stato approfondito in altre sedi, cui si fa rinvio (166). Basti ricordare qui l’enfasi posta dalla legge sul rilievo, anche in subiecta materia, degli accordi tra i coniugi (o ex tali), al punto che l’obbligo – oggi sussistente a

(162) OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1132 ss., 1178 ss. (163) Per una panoramica di tali doveri e delle conseguenze della relativa violazione, nonché per i necessari rinvii, v. FACCI, I

nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 71 ss. (164) Cfr. Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Fam. dir., 2001, p. 159, con nota di DOGLIOTTI; in Corr. giur. 2000, p. 873, con nota

di DE MARZO; in Danno e resp. 2000, p. 835, con note di MONATERI e di PONZANELLI; in Resp. civ. prev., con nota di ZIVIZ. (165) Sul tema v. inoltre le argomentazioni di FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 77 ss., nonché Trib. Venezia,

30 giugno 2004, ivi, p. 395. (166) OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1079 ss; ID., Contratto e vita familiare, cit., Cap. V, §§ 4 ss.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

seguito della riforma dell’art. 155 c.c. per effetto della legge sull’affidamento condiviso – per il giudice di «prendere atto», ancor di più di quello, precedente, di «tener conto», sembra tradursi prevalentemente in un dovere di motivazione delle ragioni per le quali l’intesa viene eventualmente disattesa (167), motivazioni che non potranno trovare altro punto di riferimento se non quello dell’eventuale violazione dei canoni fondamentali espressi dagli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. (168), o della regola dell’ «interesse del minore».

Si noti peraltro che il nuovo art. 155, quarto comma, nel prevedere che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti», sembra voler addirittura smentire il criterio di necessaria proporzionalità scolpito nell’art. 148, norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, venendo altresì a porre (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità all’art. 30 Cost.

Venendo alle determinazioni specifiche concernenti i profili patrimoniali, è pacifico che gli accordi tra i coniugi potranno concernere la determinazione dell’assegno (169) e delle relative scadenze di corresponsione, mentre non sembra possibile escludere ogni forma di adeguamento automatico (170). Un’altra previsione ritenuta dai giudici inammissibile è quella concernente una rivalutazione dell’assegno in misura inferiore rispetto a quella assicurata dall’ «aggancio» agli indici ISTAT (171), anche se sul punto il nuovo tenore letterale dell’art. 155, quinto comma, c.c. («L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice») sembrerebbe indurre a conclusioni differenti (172).

Il riconoscimento della natura di negozio familiare all’accordo relativo ai figli, in tutti gli aspetti in cui il medesimo può manifestarsi, consente anche di estendere ad esso la disciplina in materia contrattuale. Di grande utilità in proposito, di fronte alla comprovata maggior sensibilità di tanti genitori (e dei rispettivi legali) ai profili pecuniari rispetto a quelli affettivi, potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a garanzia dell’adempimento non solo di doveri di carattere patrimoniale, ma anche di quelli connessi ai profili personali della potestà. Al riguardo, come già suggerito in altra sede, potrebbero ipotizzarsi vere e proprie penalità di mora per ogni giorno di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per usare i brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Non vengono in questo caso in considerazione preoccupazioni

(167) Conforme sul punto, in relazione alla normativa previgente, A. CECCHERINI, I rapporti patrimoniali nella crisi della famiglia

e nel fallimento, Milano, 1996, p. 492. (168) Su cui v., per i richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei

rapporti familiari, Padova, 1997, p. 98 ss. (169) In relazione al quale va affermata – a differenza che nei rapporti tra coniugi – la nullità di ogni rinunzia, atteso che ogni

forma di rinunzia pare per definizione contraria all’interesse del minore. Ed è proprio questa la considerazione che impone per la rinunzia un trattamento differenziato rispetto a quello dei normali atti di carattere dispositivo, primo tra i quali quello avente ad oggetto la determinazione del quantum della prestazione dovuta. Mentre in quest’ultima fattispecie, invero, la violazione del criterio dell’interesse del minore è puramente eventuale (e comunque va vagliata caso per caso), nell’ipotesi di rinunzia tout court la violazione dell’interesse del minore è certa, ad eccezione della situazione, peraltro assolutamente straordinaria, in cui l’obbligato si trovi veramente nell’impossibilità di contribuire in alcun modo al mantenimento, all’istruzione ed all’educazione della prole (per ulteriori approfondimenti sul tema cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., 1117 ss.).

(170) Il principio di cui un tempo all’art. 6, undicesimo comma, l.div. e ora all’art. 155, quinto comma, c.c. (estensibile al divorzio ex art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54) pareva invero non solo analogicamente applicabile alla materia della separazione (ma la questione è stata risolta dalle norme testé citate), bensì anche munito del carattere dell’inderogabilità, posto che pure in questo caso un’esclusione a priori della possibilità di adeguare l’assegno al reale valore della somma inizialmente pattuita appare in contrasto con l’interesse del minore a vedersi mantenuto quanto meno costante, in termini reali, il contributo del genitore non affidatario. Anche la giurisprudenza sembrava orientata in questo senso, negando – in caso di soluzione contenziosa della crisi coniugale, ma con argomentazioni che paiono estensibili pure alla definizione consensuale – la possibilità di escludere la rivalutabilità dell’assegno per la prole, pure in caso di palese iniquità, a differenza di quanto stabilito invece con riferimento all’assegno di divorzio in favore di uno degli ex coniugi dall’art. 5, ottavo comma, l.div. (cfr. A. Brescia 20 gennaio 1990, in Giust. civ., 1990, I, p. 824; in dottrina v. DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, p. 333).

(171) Cfr. Cass., 3 novembre 1994, n. 9047, in Giust. civ., 1995, I, p. 743; in Dir. fam. pers., 1995, p. 135. (172) Anche la materia della decorrenza dell’assegno per la prole sembra, ancor più di quella concernente la determinazione delle

scadenze e dell’adeguamento automatico, sottratta ad ogni forma di autonomia dei privati. Proprio in considerazione del principio secondo cui l’obbligo di mantenimento è direttamente connesso al rapporto di filiazione e non a quello matrimoniale, non vi è dubbio che esso vada soddisfatto dal momento della nascita a quello del raggiungimento dell’indipendenza economica (sul tema si rinvia a OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., 1143 ss.).

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attinenti alla necessità di garantire il rispetto di diritti inderogabili della persona, quale quello della libertà in merito a decisioni di carattere strettamente personale, facendo, anzi, «premio» su ogni altra considerazione la necessità di salvaguardare in primo luogo l’interesse della prole (173).

Un peculiare obbligo di contenuto patrimoniale, gravante sui genitori, è rappresentato dal dovere di amministrare correttamente il patrimonio dei figli minorenni. Nel caso in cui il patrimonio del minore sia male amministrato, l’autorità giudiziaria può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione o può rimuovere entrambi o uno solo di essi dall’amministrazione stessa e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale (art. 334, primo comma, c.c.). Nel caso in cui sia disposta la rimozione di entrambi i genitori, l’amministrazione è affidata ad un curatore (art. 334, secondo comma, c.c.). Si rileva al riguardo che i fatti che possono giustificare l’intervento del giudice non sono sostanzialmente diversi da quelli che legittimano la pronuncia di decadenza dalla potestà; sono soltanto meno gravi, secondo la valutazione discrezionale compiuta dal giudice (174). La diversa gravità dei fatti, inoltre, costituisce il parametro non solo per scegliere tra la pronunzia di decadenza e l’applicabilità dei provvedimenti di cui all’art. 334 c.c., ma anche, nell’ambito di quest’ultima norma, per graduare le misure da adottare. Il giudice, infatti, quando le irregolarità non sono gravi ed appaiono correggibili, può limitarsi a stabilire le condizioni cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione, sotto la vigilanza del giudice tutelare; può, altresì, privare entrambi i genitori o solo uno di essi dell’amministrazione dei beni del minore, lasciandoli nell’esercizio della potestà, quando entrambi o uno solo di essi risultino inidonei al compito che la legge loro affida. La rimozione dall’amministrazione può a discrezione del tribunale, accompagnarsi alla privazione totale o parziale dell’usufrutto legale (175).

(173) Nulla sembra dunque ostare ad un’applicazione delle disposizioni in tema di clausola penale contenute nella disciplina del

contratto in generale (artt. 1382 ss.). Sia quindi consentito rinnovare in questa sede l’invito ai pratici a provare ad inserire siffatto genere di clausole negli accordi diretti a disciplinare le conseguenze della crisi coniugale con riguardo alla prole minorenne. L’operazione potrebbe, quanto meno, assumere il valore d’un ballon d’essai per saggiare le reazioni al riguardo della giurisprudenza, mentre è sicuro che le statistiche registrerebbero un assai più diffuso rispetto delle intese raggiunte e, forse, anche una diminuzione dei procedimenti esecutivi in un campo così delicato.

Il suggerimento in esame, già presentato dall’autore di questo studio (cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1112), è stato criticato da chi (AMADIO, Letture sull’autonomia privata, Padova, 2005, p. 178 s.) ha rimproverato allo scrivente di voler «eludere l’ostacolo» della vincolatività delle intese non patrimoniali inter coniuges, cercando invece di «liquidare il problema degli effetti dell’accordo a contenuto non patrimoniale (e della sua violazione), ricollegandovi sanzioni di natura economica». L’equivoco di una siffatta analisi consiste nel focalizzarsi esclusivamente su di una parte del tutto circoscritta di un’opera ben più complessa, per poterne poi predicare l’insufficienza. Ora, non risponde in alcun modo a verità che chi scrive abbia mai inteso far derivare la vincolatività dell’impegno dei coniugi su profili non patrimoniali dall’introduzione di clausole penali. Come evidenziato dall’analisi – significativamente omessa dal citato Autore – del profilo causale delle pattuizioni qui in discorso (cfr. per tutti OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 625 ss., 709 ss.; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 91 ss.), la vincolatività delle intese non patrimoniali in oggetto (non qualificabili alla stregua di contratti, alla luce del disposto dell’art. 1321 c.c.) deriva dal semplice fatto che è il legislatore, con l’espressa ed inequivocabile attribuzione di rilevanza alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, sedicesimo comma, l.div.), a fornire carattere vincolante ai comportamenti cui le parti intendono astringersi, a prescindere, dunque, dalla patrimonialità o non patrimonialità degli stessi (l’argomento è ampiamente sviluppato, nel caso il citato Autore volesse completare la propria indagine, oltre che nelle pagine appena citate, in OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1165 ss.; ID., Del «Galateo postmatrimoniale»: ovvero gli accordi sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati, in Riv. notar., 1999, p. 337). Il richiamo, dunque, alla clausola penale – contrariamente a quanto ritenuto dalla surriferita opinione – lungi dall’essere compiuto nel tentativo (superfluo) di dotare di giuridica vincolatività intese che tale carattere vincolante già di per se stesse posseggono per effetto delle citate norme (non prese in considerazione dall’Autore dello scritto cui qui si replica), deriva dalla semplice applicazione di principi da tempo enunciati in dottrina e giurisprudenza (per i rinvii all’una e all’altra si rimanda il paziente lettore ai citati passi dello scrivente: si pensi, tanto per citare qualche esempio, alle opinioni, ivi riferite, di Santoro-Passarelli, Gangi e Bianca, oppure alla decisione di legittimità che nel 1983 ritenne applicabili ad un negozio eminentemente personale, quale l’accordo di riconciliazione tra coniugi separati, i principi in tema di formazione del consenso contenuti agli artt. 1326-1328 c.c.: cfr. Cass., 29 aprile 1983, n. 2948, in Dir. fam. pers., 1983, p. 910; in Giur. it., 1983, I, 1, c. 1233). Ci si intende, cioè, riferire alla regola secondo cui le norme in tema di parte generale del contratto, proprio perché costituenti l’«ossatura» del negozio giuridico in generale nel nostro sistema, sono applicabili anche ai negozi giuridici familiari (ivi compresi quelli a contenuto non patrimoniale), ove non esistano (come nel caso in esame) principi speciali in deroga. Ma ciò, evidentemente (e nonostante gli indiscutibili risvolti pratici), non aggiunge di per sé sul piano giuridico una sola oncia di vincolatività al rapporto in discussione e con il tema della vincolatività de iure ha assai poco a che vedere. Et de hoc satis.

(174) Cfr. A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 2197; FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 87. (175) Su tali aspetti cfr. FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 87 s.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

Nel caso il patrimonio del minore abbia subito un pregiudizio a causa di atti di cattiva amministrazione compiuti dai genitori, questi ultimi potranno essere chiamati a rispondere dei danni cagionati, non già ex art. 2043 c.c. (176), bensì in forza dei principi in tema di responsabilità contrattuale: i genitori sono invero soggetti passivi di un rapporto obbligatorio ex lege di carattere patrimoniale che li lega ai figli minorenni, quale uno dei profili componenti la potestà genitoriale: un rapporto avente ad oggetto la rappresentanza dei figli stessi e l’amministrazione dei relativi patrimoni (cfr. art. 320, primo comma, c.c.). Ora, questa amministrazione non può svolgersi se non nel rispetto del canone della diligenza (e il richiamo al concetto del «buon padre di famiglia» assume qui un significato quanto mai pregnante!) ex art. 1176 c.c. (177).

Per concludere sul punto dovrà ricordarsi che, in caso di crisi coniugale, la questione dell’eventuale violazione dei doveri genitoriali, ed in particolare dei provvedimenti dettati dal giudice relativamente alla prole, così come degli accordi eventualmente raggiunti inter partes, andrà affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio di separazione, di divorzio, di modifica delle relative condizioni, ovvero ancora di annullamento del matrimonio – con ricorso al già citato procedimento ex art. 709-ter c.p.c. (178).

15. La responsabilità contrattuale nell’ambito della famiglia di fatto. Le obbligazioni tra conviventi.

Nell’attuale sistema normativo italiano, attesa l’inesistenza di un dovere giuridico azionabile

di contribuzione tra conviventi more uxorio (179) e la presenza, invece, di una semplice obbligazione naturale (180), sembra impossibile trasfondere in questa materia le conclusioni sopra esposte in tema di dovere di contribuzione tra coniugi. Un’obbligazione ex lege giuridicamente azionabile esiste, per il vero, nell’ipotesi descritta dall’art. 342-ter cpv. c.c., introdotto dall’art. 2, l. 5 aprile 2001, n. 154 («Misure contro la violenza nelle relazioni familiari»), ai sensi del quale, nel caso di emanazione di ordine ai sensi del primo comma del medesimo articolo (ordine di allontanamento dalla casa familiare), il giudice può disporre «il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante».

Trattasi di disposizione su cui grava il pesante sospetto di contrarietà al canone d’uguaglianza ex art. 3 Cost., atteso che la medesima concede (per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano) un assegno all’ex convivente more uxorio dalla funzione prettamente assistenziale – si noti l’inciso «persone conviventi che (…) rimangono prive di mezzi adeguati – peraltro nel solo caso di cessazione «violenta» del rapporto, nulla prevedendo, invece, nell’ipotesi in cui la relazione venga a terminare in maniera «civile», con un’evidente discriminazione a seconda di come il legame venga a sciogliersi e senza tenere conto del fatto che la mancanza di mezzi adeguati ben può darsi anche quando il convivente «debole» non subisca violenza alcuna. Ma, a parte questi rilievi (che s’accompagnano all’augurio che il legislatore o la Consulta

(176) Come ritenuto, invece, da FACCI, I nuovi danni nella famiglia che cambia, cit., p. 88. (177) Si tenga, inoltre, in considerazione che l’art. 570, secondo comma, n. 1, c.p., prevede e punisce la condotta del genitore che

«malversa o dilapida i beni del figlio minore», con la conseguenza che, nel caso in cui ricorrano gli estremi di tale reato, vi potrà essere anche la condanna al risarcimento del danno morale.

(178) Cfr. supra, § 3. (179) Sul tema cfr., anche per i necessari rinvii, OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 47 ss.; per la

giurisprudenza più recente, contraria all’esistenza di un dovere giuridico di contribuzione tra conviventi, cfr. Pret. Milano, 8 febbraio 1990, in Foro it., 1991, I, c. 329; Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. dir., 2000, p. 501, con nota di MORELLO DI GIOVANNI. Da segnalare, nel senso dell’applicabilità dell’art. 143 c.c. ai conviventi, Trib. Savona, 29 giugno 2002 in Fam. dir., 2003, p. 596, con nota di FERRANDO (e, per le relative osservazioni critiche, v. anche OBERTO, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 50 s. e nota 88).

(180) Su cui v. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 87 ss.

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

provvedano quanto prima a colmare la lacuna), non vi è dubbio che la prestazione in oggetto costituisce l’oggetto di un ben preciso rapporto obbligatorio costituito jussu judicis sulla base della norma citata, la cui violazione espone il debitore a responsabilità contrattuale.

Altrettanto è a dirsi in relazione al caso in cui un obbligo di contribuzione o di mantenimento siano stati previsti in base ad un contratto di convivenza: l’ammissibilità di una siffatta pattuizione sembra, invero, oggi fuori discussione – come si è cercato di dimostrare in svariate altre sedi (181) – ed anzi la validità di un contratto di convivenza avente tale oggetto induce anche ad affermare la possibilità che le parti stabiliscano l’impegno reciproco di contribuire alle necessità del ménage mediante la corresponsione (periodicamente, o una tantum) di somme di denaro, ovvero tramite la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa, eventualmente anche soltanto domestica (182).

La validità di tale impegno, che dovrebbe fissare altresì misura e modalità della contribuzione di ciascuno, non sembra possa contestarsi (183), così come quella di una promessa avente a oggetto la reciproca assistenza materiale per il caso di necessità (184). Al riguardo potrebbe rivelarsi di una certa utilità la previsione di eventuali situazioni alla stregua di «cause di giustificazione» per il mancato adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio nel caso in cui una delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa nell’impossibilità di ricevere reddito (si pensi alla disoccupazione involontaria).

La dottrina italiana pare orientata a individuare quale contenuto dei contratti di convivenza l’obbligo di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner più abbiente in favore di quello più bisognoso (185). Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare per forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento vitalizio (186). Si tratta della convenzione con la quale una parte attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural durante, di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale (187). Più precisamente, l’obbligo del vitaliziante consiste non già nel versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e assistenza medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio (188).

(181) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e

modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 17 ss. (182) Sul punto, per i necessari approfondimenti, cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; per la

dottrina successiva cfr. FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 752 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 982 ss.; OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 114 ss.

(183) Sul punto v. VERHEYDEN-JEANMART, Le developpement de la famille de fait - Aspectes socio-juridiques - La situation en droit belge, in AA. VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988, p. 65, secondo cui ben può formare oggetto dei contratti in esame l’«obligation de secours et de contribution aux charges du ménage de fait pendant l’union et après sa rupture». Cfr. inoltre il cosiddetto «modello di Leida», redatto sotto la direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città (in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988 p. 520 ss.), che all’art. 3, c. 1, prevede una contribuzione dei conviventi in parti uguali o in misura proporzionale ai rispettivi redditi, con specificazione, al secondo comma, di quelle spese cui entrambi sono tenuti a contribuire come effettuate nel cadre du ménage commun, quali l’acquisto di generi alimentari, vestiti, elettrodomestici, mobilio, telefono, ecc. Si veda infine anche la formula elaborata dalla Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des notaires du Québec, in AA. VV., Couple et modernité, cit., p. 514 ss., che prevede la fissazione delle modalità della contribution aux charges du ménage, in proporzione alle proprie rispettive facoltà, ovvero con specificazione delle rispettive misure.

(184) Cfr. STEINERT, Vermögensrechtliche Fragen während des Zusammenlebens und nach Trennung Nichtverheirateter, in NJW, 1986, p. 685.

(185) Cfr. MAZZOCCA, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 92; cfr. inoltre GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 165.

(186) E’ il suggerimento di CALO’, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, nota a Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1171.

(187) V. per tutti CALO’, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, cit., p. 1165; ANDREOLI, La rendita vitalizia, Torino, 1958, p. 47 ss. Per un caso di contratto di mantenimento tra conviventi in Germania v. BGH, 29 giugno 1973, in NJW, 1973, p. 1645, che ha affermato la validità di un accordo con cui un uomo aveva trasferito alla propria convivente la proprietà di un immobile, riservandosi il diritto vitalizio d’abitazione sullo stesso, in cambio dell’impegno della convivente di assisterlo e curarlo per il resto dei suoi giorni (nella specie la Sittenwidrigkeit è stata esclusa perché il negozio non appariva direttamente rivolto a remunerare le prestazioni sessuali della convivente, tenuto conto, da un lato, della durata del rapporto e, dall’altro, che l’onere della prova dell’immoralità gravava sull’attore).

(188) Tali prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (v. per esempio il caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1163, con nota di CALÒ; in Riv. notar., 1989, II, p. 647, in cui il vitaliziante si era impegnato verso il

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al novero di quelle di fare, anziché di dare, ha da sempre indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in esame rispetto alla rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote anche il consenso della Suprema Corte, e che pare senz’altro preferibile, anche in considerazione del cospicuo numero di altri elementi differenziatori nei riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss. (189). Nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo definitivamente dalla rendita vitalizia. Nello schema negoziale potrebbe infatti mancare la cessione della proprietà di determinati beni dal vitaliziato al vitaliziante, (specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari per un’operazione del genere). In tal caso la controprestazione, a fronte dell’impegno del vitaliziante, potrebbe essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza materiale, oppure potrebbe mancare del tutto. Ma a questo punto occorre ammettere che il primo caso non sembra differire di molto dal contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare in precedenza, mentre nel secondo appare inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza alcuna controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c. (190).

Non va trascurato poi che un accordo del genere potrebbe dar luogo a sospetti di contrarietà al buon costume, inducendo a ritenere che la controprestazione per l’impegno a mantenere sia in realtà costituita dal consenso alle relazioni sessuali; appare quindi consigliabile che nel contratto di convivenza l’eventuale obbligo di mantenimento assunto da uno dei contraenti a vantaggio dell’altro venga posto in corrispondenza biunivoca con un reciproco dovere di contribuzione, ovvero con un’altra prestazione a carico del beneficiario, che potrà essere costituita dalla cessione di un capitale, ovvero dalla prestazione di lavoro domestico, o ancora dalla messa a disposizione di certi beni (191), usando peraltro l’accortezza, qualora vi sia sproporzione tra le prestazioni, di osservare la forma solenne prevista per la donazione.

Un problema legato a siffatto tipo di negozi riguarda la possibilità della previsione di eventuali limiti d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione così fissato (192). Assai più delicato appare invece l’aspetto della possibilità di pattuire una durata minima del periodo di corresponsione della contribuzione (consistente eventualmente anche nella prestazione lavorativa, specie se domestica) o del mantenimento, indipendentemente dalla durata del ménage. Una simile clausola – una delle poche in grado di costituire una vera garanzia per il convivente «debole» – potrebbe infatti venirsi a scontrare con quel principio generale d’ordine pubblico che fa divieto ai soggetti di assumere vincoli giuridici di durata eccessiva. L’ammissibilità di un impegno del genere vitaliziato ad effettuarne «il trasporto in macchina in città italiane, della Francia o della Svizzera» e a «ospitare parenti ed amici del vitaliziato in caso di malattia»), ma anche non patrimoniale (si pensi all’impegno di prestare assistenza morale, o compagnia ovvero, ancora, di convivere con il vitaliziato), sulle quali ultime si addensano però dubbi di validità, tanto con riferimento alla possibilità per tali prestazioni di formare oggetto di rapporto obbligatorio e di contratto, ex artt. 1174 e 1321 c.c., quanto, soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine pubblico per l’eventuale lesione della libertà personale del vitaliziante.

(189) Per i richiami cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 242 ss. (190) Si tratterebbe in particolare di donazione di prestazioni periodiche, ai sensi dell’art. 772 c.c. Nel senso che tra le prestazioni

di cui alla norma citata possono rientrare «quelle che hanno funzione alimentare, di beneficenza o di soccorso» v. CARNEVALI, Gli atti di liberalità e la donazione contrattuale, cit., p. 468. Nel senso che «è nulla, per difetto di forma, la donazione contenuta in una scrittura privata, denominata “transazione”, con cui la parte si obbliga a versare al beneficiario una determinata somma mensile per tutta la durata della vita di quest’ultimo» cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Riv. notar., 1987, II, p. 837; in Foro it., 1987, I, c. 805.

(191) Si pensi alla casa d’abitazione e al relativo arredo, all’automobile, ecc. In relazione alla casa di abitazione è stato proposto di prevedere, nell’ipotesi l’immobile sia di proprietà di uno solo, l’obbligo per l’altro di corrispondere una somma per l’uso del bene (v. il «modello di Leida», cit., art. 4, c. 1). L’operazione finirebbe però con l’assoggettare il rapporto alla disciplina della locazione, a nulla potendo giovare l’esplicita esclusione di tale effetto (pure suggerita dal «modello» cit.: v. art. 4, c. 3).

(192) In proposito, si può innanzitutto ritenere valida anche un’espressa subordinazione degli effetti del vincolo obbligatorio alla durata del rapporto di fatto, in quanto una clausola del genere verrebbe a concretare una condizione risolutiva ordinariamente (e non meramente) potestativa. Inutile dire che una siffatta cautela appare consigliabile per il partner che figuri quale unico (o prevalente) obbligato e voglia porsi al riparo dal rischio di dover continuare ad adempiere anche dopo la rottura del legame. Come si è invero dimostrato in altra sede, la presupposizione non sembra poter giocare alcun ruolo nel contesto dei rapporti tra conviventi (cfr. OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 83 ss.).

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

apparirebbe dunque a prima vista collegata al rispetto di convenienti limiti di tempo, la cui concreta estensione dovrebbe essere di volta in volta accertata, tenute in considerazione le particolarità del caso concreto. Peraltro, proprio l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere efficacemente assunta anche per un numero considerevole di anni, ovvero per tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà dunque costituito dalla durata della vita del creditore della prestazione.

Come già suggerito per i rapporti inter coniuges (193), anche in relazione a siffatti contratti sarà opportuno prevedere la stipula di apposite clausole penali, che forniranno al convivente creditore delle prestazioni così garantite un maggior livello di sicurezza sul relativo adempimento.

16. Segue. La responsabilità contrattuale per violazione di obbligazioni assunte per la prole nell’ambito di un contratto di convivenza.

Il tema delle penali con cui si è chiuso il § precedente induce ad accennare all’argomento

piuttosto delicato dei rapporti con i profili strettamente personali, quale quello della procreazione, o dei rapporti con la prole. Per quanto attiene al primo aspetto dovrà senz’altro ribadirsi la nullità di ogni impegno che preveda l’esecuzione di prestazioni di carattere sessuale – in relazione al quale emergerebbe anche il profilo della contrarietà al buon costume (194) – o, ancora, l’assunzione di un determinato cognome (195), la procreazione (eventualmente mediante il ricorso a metodi di fecondazione artificiale), o la non procreazione, per mezzo dell’imposizione dell’obbligo di far uso di sistemi contraccettivi (196).

Ed è inutile dire che, con riguardo a siffatte fattispecie, neppure la previsione di una penale varrebbe a salvare il rapporto dalla nullità per violazione del principio della libertà personale (197).

(193) Cfr. supra, §§ 13 s. (194) Nello stesso senso v. KUNIGK, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem

Zusammenleben, Stuttgart, 1978, p. 119 s. (195) Si immagini l’impegno di uno o di entrambi i conviventi a esperire il ricorso al Ministero dell’interno per ottenere il

cambiamento o la modifica del cognome ex artt. 84 ss. d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), al fine assumere un cognome identico. Contraria alla validità di un impegno del genere è anche la dottrina tedesca (v. STRÄTZ, Rechtsfragen des Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 306).

(196) V. BGH, 17 aprile 1986, in FamRZ, 1986, p. 773. I conviventi avevano di comune accordo deciso di non avere figli e all’uopo la donna si era impegnata a fare uso della «pillola»; l’accordo non era però stato da quest’ultima rispettato, tanto che dalla relazione era nato un figlio, al mantenimento del quale il convivente, quale padre naturale, era stato condannato con sentenza passata in giudicato. L’uomo convenne quindi in giudizio la donna chiedendole il risarcimento danni per la violazione dell’accordo sull’uso dei mezzi contraccettivi. La Corte Suprema Federale respinse la domanda affermando la nullità di tale contratto per Sittenwidrigkeit, in quanto «lesivo della più intima sfera di libertà personale». Potrà essere interessante aggiungere che, svariati anni dopo, il Tribunale di Milano (cfr. Trib. Milano, 19 novembre 2001, in Nuovo dir., 2002, II, p. 621) ha affermato lo stesso principio, in un caso esattamente identico, che si differenzia dal primo solo per la maggiore fantasia dell’avvocato italiano, che non solo aveva proposto l’azione di responsabilità ex contractu, ma aveva anche, in subordine, presentato una domanda di responsabilità aquiliana per violazione del principio del neminem laedere, sotto il profilo del (preteso) diritto soggettivo assoluto ad avere rapporti sessuali con una donna senza quelle… fastidiose conseguenze rappresentate dalla nascita di figli non desiderati.

(197) La conclusione riceve indiretta conferma dall’art. 79 c.c., che dichiara nulla qualsiasi penale posta a garanzia di una promessa di matrimonio, nonché dal fatto che uguale sorte si ritiene comunemente ricollegata a un’analoga clausola che i coniugi dovessero prevedere a suggello di uno o più dei doveri ex art. 143 c.c. Sul tema cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 193 ss.; in senso conforme v. anche FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 747.

Significativo è il caso risolto da OLG Hamm, 24 marzo 1987, in FamRZ, 1988, p. 618. Herr K. e Frau R., conviventi more uxorio, concludono una Vereinbarung diretta a regolare la propria vita in comune, nonchè le conseguenze di un’eventuale rottura del ménage. Una delle clausole di tale accordo, redatto per iscritto, prevede testualmente che «per il caso di scioglimento del rapporto more uxorio per iniziativa di K. quest’ultimo si impegna a corrispondere a R., a titolo di indennizzo, la somma di DM 40.000. Nel caso la convivenza di protragga per dieci anni la somma verrà aumentata a DM 80.000. R. e K. concordano nel ritenere esclusa l’operatività del predetto diritto di indennizzo nel caso gli stessi contraggano matrimonio oppure se sarà R. a decidere di sciogliere il legame». La Corte afferma la nullità di tale clausola per due distinti motivi. In primo luogo, perché il contratto è stato concluso quando Herr K. era ancora sposato: la previsione di una penale per lo scioglimento della relazione extramatrimoniale va ritenuta come sittenwidrig ai sensi del § 138 BGB, in quanto diretta a scoraggiare la riconciliazione con la moglie favorendo invece la violazione del dovere di fedeltà coniugale. La seconda ragione (di carattere assorbente, tanto da far ritenere irrilevante la circostanza del successivo divorzio di K.) è che una clausola del genere, anche in considerazione dell’entità della somma, tende allo scopo di «rendere più difficoltoso, se non addirittura impossibile, per il convenuto (K.) lo scioglimento del rapporto di fatto». Secondo i

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

Nella monografia sui regimi patrimoniali della famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso l’opinione secondo cui sarebbe stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma anche gli aspetti involgenti i rapporti di filiazione e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano già disciplinati da norme di carattere imperativo (198). La conclusione va sicuramente ribadita per tutto quanto attiene al momento costitutivo del rapporto di filiazione (o comunque di un rapporto para-familiare). Pertanto, oltre alla già illustrata nullità di ogni promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla procreazione, va affermata l’invalidità dell’obbligo che i conviventi eventualmente assumessero di manifestare la propria disponibilità all’affidamento familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti in cui, ovviamente, essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, da parte di uno o di entrambi, a effettuare, o ad astenersi dall’effettuare, il riconoscimento della prole generata dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due riconoscimenti all’altro, strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni, beninteso, fissate dall’art. 262) a conseguire lo scopo di far assumere ai figli il cognome di uno piuttosto che dell’altro dei genitori.

Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che attiene agli aspetti attinenti all’esercizio della potestà sui figli comuni. Invero, come dimostrato in dottrina (199), dall’art. 317-bis sembra potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte del legislatore della validità di intese dirette a regolare tale aspetto, sia in relazione alla coppia in situazione «fisiologica» (mercé il rinvio all’art. 316), sia a quella in situazione «patologica» (in cui l’intervento del giudice è previsto in funzione meramente suppletiva). La giurisprudenza sembra del resto secondare questa interpretazione, ammettendo la validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale (200). Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in cui ciascuno dei conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche non minorenni), nonché sul carattere di vera e propria obbligazione di siffatto tipo di impegno.

Questi risultati ricevono conferma dalle disposizioni della normativa in tema di affidamento condiviso, estensibili anche alla famiglia di fatto, per effetto del citato art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54. In forza di queste norme, invero, il giudice è obbligato a «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, c. 2). D’altro canto, i conviventi possono liberamente sottoscrivere accordi in merito al mantenimento dei figli (come stabilito dall’art. 155, c. 4), eventualmente anche in deroga al criterio di proporzionalità scolpito nell’art. 148 (e sempre che, come si è visto trattando della materia con riguardo alla crisi coniugale, tale facoltà di deroga non venga un giorno colpita da declaratoria di incostituzionalità, nel caso si dovesse ritenere il citato criterio munito di garanzia costituzionale, ex art. 30 Cost.).

Il vero problema è, semmai, quello di trovare un sistema che possa «inchiodare» le parti alle loro responsabilità, ed ottenere uno strumento che garantisca contro il rischio che una di esse cambi successivamente idea. Sul punto varrà la pena riportare in nota gli argomenti in favore della ammissibilità di una vera e propria procedura di omologazione delle intese di «separazione giudici, la conseguente limitazione della libertà di autodeterminazione dell’obbligato nella sfera dei suoi diritti personalissimi deve dunque essere considerata intollerabile, oltre che in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento (al punto che, secondo la Corte, le conclusioni non potrebbero essere diverse neppure in relazione a una coppia coniugata).

(198) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 205 ss.; in senso conforme cfr. ora anche DE SCRILLI, I patti di convivenza. Considerazioni generali, in AA. VV., Convivenza e situazioni di fatto, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, cit., p. 860.

(199) Cfr. GIGLIOTTI, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento del figlio naturale: rilevanza dell’accordo parentale sulle condizioni della «separazione», Nota a Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, in Dir. fam. pers., 1995, I, p. 613 ss., 630; PALADINI, La filiazione nella famiglia di fatto, in Familia, 2002, p. 611 s. Sul tema v. ora anche OBERTO, Contratti di convivenza e diritti del minore, in Dir. fam. pers., 2006, p. 240 ss.

(200) Cfr. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Foro pad., 1991, c. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio). Un accenno in proposito sembra essere contenuto anche nella motivazione di una pronunzia di legittimità, secondo cui «l’art. 317-bis pone alcuni criteri attributivi dell’esercizio della potestà e prevede come meramente eventuale e successivo l’intervento del giudice, costruendolo come preordinato a correggere il cattivo funzionamento dei criteri predetti ed eventualmente a stabilire regole alternative, secondo un ampio spettro di ipotesi che arriva fino alla possibilità di escludere entrambi i genitori dall’esercizio della potestà» (cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 1993, n. 5847).

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Giacomo OBERTO – Responsabilità contrattuale e rapporti familiari

consensuale» della coppia di fatto concernenti la prole, ammissibilità che sembra in qualche modo confermata dalle norme in tema di affidamento condiviso (201).

In ogni caso – e concludendo – è chiaro che, anche a prescindere dalla assoggettabilità ad omologazione delle intese tra conviventi, gli accordi attinenti a profili di carattere patrimoniale (ed in primo luogo la previsione del versamento di contribuzioni periodiche o anche solo una tantum) costituiranno vere e proprie obbligazioni, con conseguente applicabilità degli artt. 1218 ss. c.c. in ipotesi di mancato o inesatto adempimento. E’ da notare che, nella crisi del rapporto di fatto, la questione dell’eventuale violazione dei doveri genitoriali ed in particolare dei provvedimenti dettati dal giudice relativamente alla prole, così come degli accordi eventualmente raggiunti inter partes, andrà affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio ex art. 317-bis c.c. – con ricorso al già citato procedimento ex art. 709-ter c.p.c. (202).

(201) Cfr. OBERTO, Contratti di convivenza e diritti del minore, cit., p. 247 ss.; ID., Contratto e vita familiare, cit., cap. VI, § 5,

ove si rileva che la mancanza di un siffatto meccanismo procedurale rende evidente la disparità di trattamento rispetto alla situazione della rottura della coppia coniugata: in quest’ultimo caso, infatti, si arriva a un atto (il verbale di separazione consensuale) munito di forza esecutiva; nel caso invece della famiglia di fatto l’intesa, sottoscritta dalle parti, è racchiusa in un documento che – ancorché vincolante per le parti – non può essere posto alla base di un’azione esecutiva. Ciò, ovviamente, a meno che il tribunale non intenda in qualche modo recepire l’accordo in un suo provvedimento o emanare una decisione che assuma i caratteri di una sorta di decreto di omologa analogo a quelli che il tribunale ordinario emana ai sensi dell’art. 158 c.c.

La questione pone un problema di legittimità costituzionale. La Consulta, a dire il vero, si è già occupata della materia, respingendo le questioni che le erano state proposte. Peraltro, come risulta evidente dalla lettura delle sentenze emesse al riguardo nel 1996 e nel 1997 (cfr. Corte cost., 5 febbraio 1996, n. 23, in Giust. civ., 1996, I, p. 917; in Foro it., 1997, I, c. 61, con nota di CIPRIANI; in Dir. fam. pers., 1996, I, p. 1327, con nota di BORDONARO; Corte cost., 30 dicembre 1997, n. 451, in Giust. civ., 1997, I, p. 913; in Dir. fam., 1998, I, p. 484, con nota di MORANI; in Foro it., 1998, I, c. 1377, con nota di COSENTINO), la questione non era stata presentata sotto questo angolo visuale. Ciò che si era chiesto alla Corte costituzionale era di decidere se rispondesse a criteri di razionalità il fatto che i figli legittimi sono, per così dire, «gestiti» dal tribunale ordinario, mentre quelli naturali lo sono (ma solo limitatamente ai profili personali) dal tribunale per i minorenni. E qui la Consulta ebbe buon gioco a dire che si tratta di un problema di discrezionalità del legislatore, il quale può sbizzarrirsi ad individuare varie forme di competenza, attribuendole ora ad un giudice piuttosto che ad un altro. A ciò s’aggiunga che, nel caso dell’assegno per il minore naturale e dei relativi rapporti patrimoniali, l’azione è vista come azione tra genitori e non involge direttamente la posizione, come soggetto processuale, del minore: non deve dunque destare «scandalo» il fatto che ad occuparsene sia il tribunale ordinario, mentre per i profili personali è competente il tribunale per i minorenni.

A ben vedere, la questione potrebbe invece essere (ri)proposta sotto questo altro angolo visuale: un medesimo tipo di accordo, caratterizzato dalla vincolatività scaturente dall’art. 1372 (e poco importa se la norma sia espressamente dettata solo per i rapporti patrimoniali, atteso che, come si è visto, il principio è sicuramente estensibile anche ai negozi familiari non patrimoniali), può essere garantito dalla presenza di un titolo esecutivo (il verbale ex art. 158), se concerne la prole legittima, laddove ciò non accade se quello stesso tipo d’intesa riguarda invece la prole naturale. Naturalmente si potrà obiettare che esistono dei rimedi, miranti a determinare la creazione di un titolo esecutivo: l’accordo sulla prole naturale può (almeno per ciò che concerne i profili patrimoniali) essere fatto valere in sede di procedimento contenzioso ordinario, ovvero essere posto alla base di una richiesta per decreto ingiuntivo. L’intesa potrebbe poi anche essere recepita da un atto notarile (o, secondo quanto disposto dalla l. 80/2005, essere racchiusa in una scrittura privata autenticata), così acquistando efficacia di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., per le obbligazioni aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro. Peraltro, tutti quelli appena indicati sono strumenti costosi, che presuppongono una parte ben assistita ed avvisata, e che comunque marcano una ingiustificata disparità di trattamento, fondata sul solo fatto di appartenere alla categoria dei figli legittimi, piuttosto che a quella dei figli naturali.

La soluzione pratica potrebbe essere reperita sfruttando addirittura alcune indicazioni date dalla stessa Corte costituzionale che, per almeno due volte, ha respinto domande dirette ad ottenere l’estensione – per via di pronunzie di accoglimento – ai figli naturali di rimedi concessi a tutela di quelli legittimi, affermando poi, in buona sostanza (cioè per via di decisioni interpretative di rigetto), l’applicabilità ai primi di norme dettate per i secondi (cfr. Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Guida dir., 1998, n. 21, p. 40, con nota di A. FINOCCHIARO; in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 678, con nota di FERRANDO; in Rass. dir. civ., 1998, p. 880, con nota di VELLUZZI, sull’attribuzione della casa familiare in sede di separazione giudiziale e Corte cost., 18 aprile 1997, n. 99, in Guida dir., 1997, n. 16, p. 24, con nota di M. FINOCCHIARO; in Dir. fam., 1997, I, p. 837; in Giust. civ., 1997, I, p. 2072, in materia di sequestro ex art. 156 c.c.). Una volta tracciata la via dell’«interpretazione adeguatrice» degli artt. 155 (ora art. 155-quater, direttamente applicabile, tra l’altro, alla famiglia di fatto ex art. 4, c. 2, l. 8 febbraio 2006, n. 54), relativamente al diritto di abitazione nella casa familiare, e 156, sullo strumento del sequestro, non si vede perché non si potrebbe ipotizzare una ripetizione del medesimo ragionamento anche per la procedura di cui all’art. 158, riconoscendone la riferibilità anche alla «separazione» della famiglia di fatto ed in tal modo avallando una prassi che nei tribunali ha già preso piede.

A tutto ciò s’aggiunga, infine, che il già mentovato dovere del giudice (anche nel caso di procedure relative alla famiglia di fatto) di «prendere(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, c. 2) viene a munire di ulteriore, difficilmente discutibile, fondamento una siffatta operazione ermeneutica.

(202) Cfr. supra, § 3.

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Giacomo OBERTO

LA RESPONSABILITA’ DEI CONIUGI E DEI CONVIVENTI

PER LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE NEI CONFRONTI DI TERZI (*)

SOMMARIO: 1. Breve premessa terminologica e metodologica. – 2. La responsabilità per le obbligazioni

contratte da uno solo dei coniugi nell’interesse della famiglia. Le opinioni dottrinali anteriori alla riforma del 1975. La tesi della rappresentanza ex lege. – 3. Segue. Le teorie del mandato tacito e del mandato presunto. Negotiorum gestio e surrogazione. – 4. La giurisprudenza anteriore al 1975. Le discussioni in sede di lavori preparatori della riforma del diritto di famiglia. – 5. Il dibattito attuale in dottrina. L’orientamento che afferma la solidarietà in considerazione del «principio solidaristico». Le relative critiche. – 6. Segue. L’orientamento che basa l’esistenza di una responsabilità solidale sul potere di attuare l’indirizzo concordato della vita familiare. Le relative critiche. – 7. Segue. La dottrina contraria alla tesi della responsabilità solidale per le obbligazioni singolarmente contratte nell’interesse della famiglia. – 8. La giurisprudenza favorevole alla responsabilità solidale. – 9. La giurisprudenza contraria alla responsabilità solidale. Conclusioni. – 10. La responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte nell’interesse del ménage di fatto. – 11. Segue. Accordi programmatici tra conviventi e attività negoziale con i terzi. Cenni alla rilevanza esterna degli accordi dei conviventi relativi alla prole. – 12. La responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.

(*) Testo di una delle due relazioni presentate dall’autore all’incontro di studio sul tema «Rapporti patrimoniali ed effettività delle

tutele nella famiglia legittima e di fatto», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura – Nona Commissione, Tirocinio e Formazione Professionale, svoltosi a Roma dal 12 al 14 giugno 2006.

Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

1. Breve premessa terminologica e metodologica. Lo scopo del presente scritto è quello di individuare le fattispecie nelle quali uno dei membri

della famiglia, vuoi legittima, vuoi di fatto, debba ritenersi parte di un rapporto obbligatorio ex contractu, pur non avendo partecipato all’accordo che a tale vincolo ha dato origine. Sul piano meramente terminologico sarà opportuno chiarire che l’espressione «responsabilità», usualmente impiegata per descrivere questo fenomeno (si pensi, per l’appunto, al caso della «responsabilità solidale dei coniugi per le obbligazioni contratte da uno solo di essi nell’interesse della famiglia») viene qui assunta in un’accezione completamente diversa da quella di cui all’art. 1218 c.c., ove essa sta invece ad indicare il dovere del debitore inadempiente di risarcire il danno conseguente all’inadempimento di un’obbligazione e non già il fatto di trovarsi ad essere soggetto passivo di un rapporto obbligatorio in base ad una manifestazione di volontà espressa da un diverso soggetto.

La nozione in discorso differisce poi ancora da quella «responsabilità» descritta dagli articoli da 186 a 190 del codice civile, ove l’espressione «i beni della comunione rispondono (o non rispondono)» si richiama al diverso fenomeno della responsabilità patrimoniale (cfr. art. 2740 c.c.) ed alla sottoposizione dei beni della comunione all’azione esecutiva dei creditori, vuoi comuni, vuoi personali.

Nel presente lavoro – volto, come si è appena precisato, all’accertamento delle fattispecie nelle quali uno dei membri della famiglia, vuoi legittima, vuoi di fatto, deve ritenersi parte di un rapporto obbligatorio ex contractu, per effetto di una manifestazione di volontà espressa da un altro familiare verso un terzo – si prenderanno dunque in considerazione le seguenti tre fattispecie: (a) l’eventuale esistenza di una responsabilità solidale dei coniugi per le obbligazioni contratte da uno solo di essi nell’interesse della famiglia; (b) l’eventuale esistenza di una responsabilità solidale dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte da uno solo di essi nell’interesse del ménage di fatto; (c) l’eventuale responsabilità dei genitori (siano essi coniugati o meno, conviventi more uxorio o meno) per le obbligazioni contratte dai figli, legittimi o naturali che siano, verso terzi (siano state queste obbligazioni stipulate nell’interesse – o meno, come anzi normalmente accade! – della famiglia).

Al tema sub (a) saranno dedicati i §§ da 2 a 9; a quello sub (b) i §§ 10 e 11; a quello sub (c) il § 12.

2. La responsabilità per le obbligazioni contratte da uno solo dei coniugi nell’interesse della famiglia. Le opinioni dottrinali anteriori alla riforma del 1975. La tesi della rappresentanza ex lege.

E’ noto che dal combinato disposto degli artt. 143, 147 e 148 c.c. la dottrina ha in passato

desunto l’esistenza di un regime patrimoniale «imperativo» della famiglia o regime patrimoniale primario (203), cioè non suscettibile di modificazioni da parte dei coniugi, consistente essenzialmente nel generale obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia e di istruire ed educare i figli. Tra questi obblighi ed i regimi patrimoniali tra coniugi è stato individuato un rapporto di complementarietà, nel senso che accanto ai primi, inderogabili ed insensibili alle scelte proprie della

(203) Sul punto cfr. per tutti CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, Milano, 1979, p. 40 ss.; v. inoltre SCHLESINGER, Il regime patrimoniale della famiglia, in Il nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, p. 735 ss.; DI MAJO, Doveri di contribuzione e regime dei beni nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, p. 371 ss.; JANNARELLI, Il regime patrimoniale primario della famiglia, Napoli 1985, p. 83 ss. ; CARAVAGLIOS, Rapporti patrimoniali tra coniugi e presunzione muciana, Napoli, 1991, p. 143 ss.; PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, Artt. 143-148, in Il codice civile. Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1990, p. 73 ss.; SCANNICCHIO, Beni, soggetti e famiglia nel regime patrimoniale e primario. Un’analisi comparata, Bari, 1992, p. 276 ss.; RUSCELLO, I rapporti personali fra coniugi, Milano, 2000, p. 305 ss.; ID., I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, I, Milano, 2002, p. 772 ss.

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coppia (204), si affiancherebbero i secondi, suscettibili di essere «personalizzati» in funzione delle esigenze dei coniugi ed afferenti alle diverse modalità di distribuzione della ricchezza familiare (205).

Assodato che il regime patrimoniale primario svolge senz’altro la sua funzione essenziale nei rapporti interni al nucleo familiare, si pone l’interrogativo relativo alla sua eventuale rilevanza esterna nei confronti di soggetti terzi. In altre parole ci si chiede se l’assolvimento di tale obbligo interno possa dispiegare effetti nei rapporti fra il creditore di un coniuge ed il coniuge stesso, nel senso, cioè, di legittimare il creditore a richiedere il pagamento della prestazione anche al coniuge non contraente. Sarà peraltro opportuno, fin d’ora, tentare di inquadrare la questione nei suoi termini reali, senza cedere alla facile tentazione di considerare l’estensione di responsabilità al coniuge non stipulante come un intervento a tutela della famiglia e del coniuge più debole: chi si giova di tale soluzione interpretativa – in fin dei conti – è invero sempre e soltanto il creditore (206): il che dovrebbe indurre a riflettere sul legame che da molte parti si è voluto porre in evidenza tra i concetti di «solidarietà» ex artt. 1292 ss. c.c. e la «solidarietà coniugale», come dovere ex art. 143 c.c. (207).

Il problema di cui si discute già era stato sollevato prima dell’intervento della riforma del 1975, quando però il contesto normativo in cui si inseriva il dibattito risultava profondamente differente rispetto a quello attuale, dando luogo, così, a soluzioni interpretative che oggi non possono più essere ritenute valide (208). Ma prima di illustrare le teorie della dottrina antecedente alla riforma del diritto di famiglia, pare opportuno rammentare brevemente alcune disposizioni codicistiche afferenti al tema in oggetto.

Ai sensi dell’abrogato art. 144 c.c., «il marito [era] il capo della famiglia e la moglie segu[iva] la condizione civile di lui, ne assume[va] il cognome ed [era] obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede[sse] opportuno di fissare la sua residenza». In altri termini, per richiamare le parole del giudice delle leggi, in una ormai remota pronunzia, il marito costituiva «il punto di convergenza della unità familiare e della posizione della famiglia nella vita sociale» (209): su di lui, di conseguenza, ricadeva la responsabilità patrimoniale della famiglia (210). Ci si chiedeva allora – alla luce di questo quadro normativo – se la moglie potesse contrarre debiti per i bisogni della famiglia obbligando in solido anche il marito.

(204) Come peraltro risulta in modo evidente dalla rubrica del Capo IV: «Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio». (205) Così SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell’altro, Nota a Cass., 7 luglio 1995, n. 7501, in Fam. dir.,

1996, p. 142. (206) Tale constatazione sembra essere condivisa anche da molti dei sostenitori del principio della solidarietà tra coniugi per le

obbligazioni contratte da uno solo di essi nell’interesse della famiglia: v., fra gli altri, RANDEGGER, La responsabilità del marito per i debiti della moglie, in Giur. compl. Cass. civ. 1953, I, p. 224, secondo cui è «costante preoccupazione delle Corti di assicurare adeguata tutela ai terzi, che in buona fede abbiano contrattato con la moglie; ciò appare manifesto ove si consideri particolarmente che (…) il limite alla responsabilità del marito è stato posto non già nella sua concreta ed effettiva capacità economica, ma bensì nell’ostensibile, apparente tenore di vita, abitualmente tenuto dalla famiglia»; nello stesso senso v. anche BARCHIESI, Sull’obbligazione nell’interesse della famiglia, in Riv. dir. comm., 1994, p. 225. Di diverso avviso è invece PERCHINUNNO, Le obbligazioni nell’«interesse familiare», Napoli, 1982, p. 165. Per la giurisprudenza – e salvo quanto verrà illustrato infra, §§ 8 s. – v. Cass., 18 giugno 1990, n. 6118, in Foro it., 1991, I, c. 832, con nota di SCANNICCHIO; in Giur. it., 1991, I, c. 1052, con nota di MARTUCCI; in Giust. civ., 1990, I, p. 2891, con nota di COSTANZA; in Corr. giur., 1990, p. 1125, con nota di V. CARBONE; cfr. anche il commento di VECCHI, Obbligazioni nell’interesse della famiglia e responsabilità solidale dei coniugi, in Riv. dir. civ. 1991, II, p. 631. La Corte, nella citata sentenza, nell’escludere l’operatività del «principio solidaristico», afferma che «per attribuire al creditore di una persona sposata un tal privilegio (avere un condebitore solidale diverso dallo stipulante) occorre una norma ben precisa; tale attribuzione non si può far discendere da principi che regolano diritti e doveri all’interno della coppia coniugale».

(207) Sull’anfibologia del termine «solidarietà» e sugli equivoci da questo generati v. anche infra, § 9. (208) Così anche SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell’altro, cit., p. 142. La medesima considerazione è anche

stata svolta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha escluso la possibilità di «giovarsi degli orientamenti prevalenti prima della riforma del diritto di famiglia relativi al problema della responsabilità del marito, quale capo della famiglia, per le obbligazioni assunte dalla moglie per provvedere alle esigenze familiari: responsabilità che si deduceva dalla esistenza di un mandato tacito conferito dal marito, appunto quale capo, all’altro membro, subordinato, della famiglia» (Cass. 18 giugno 1990, n. 6118, cit.).

(209) Corte cost., 19 dicembre 1968, n. 126, in Foro it., 1969, I, c. 4. Pur dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 559, comma 1 e 2, c.p., nella parte in cui incriminava l’adulterio della moglie, la Consulta puntualizzò come – anche alla luce del dettato della Costituzione – la posizione del marito restasse in ogni caso differente da quella della moglie nell’ambito del nucleo familiare.

(210) PICCALUGA, Sulle obbligazioni assunte individualmente dai coniugi per i bisogni della famiglia: è solidarietà?, in Dir. fam. pers., 2003, p. 723.

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La dottrina maggioritaria, così come anche la giurisprudenza, pur con diverse sfumature, rispondevano affermativamente al quesito, riconoscendo alla moglie la facoltà di assumere obbligazioni per le necessità domestiche anche in assenza di specifica approvazione del marito, a condizione che tali spese non eccedessero i limiti della normalità con riguardo all’ordinario tenore di vita della famiglia (211).

Al riguardo, alcuni Autori enunciarono dapprima la c.d. teoria della «rappresentanza legale» (212), secondo cui il potere della moglie di contrarre obbligazioni per conto della famiglia derivava direttamente da una rappresentanza conferita ex lege, desumibile dall’abrogato art. 143 c.c., il quale, tra l’altro, introduceva a carico dei coniugi l’obbligo di assistenza reciproca («Il matrimonio impone ai coniugi l’obbligo reciproco della coabitazione, della fedeltà e dell’assistenza»), così come dall’abrogato art. 145 c.c., che poneva a carico del marito l’onere del mantenimento della moglie (213). Alla luce di siffatta premessa, la dottrina proponeva il seguente assunto: se sulla moglie grava l’obbligo di assistenza nei confronti del marito, a lei deve essere conseguentemente riconosciuto il potere di governare la casa e quindi di svolgere gli affari domestici (214).

Il potere di rappresentanza che, secondo la tesi in discorso, sarebbe stato attribuito ex lege alla moglie, incontrava tuttavia due diversi limiti. Il primo era di natura qualitativa, cioè afferente ai beni ed ai servizi che gli acquisti della moglie procuravano alla famiglia, e variava in funzione della presenza del marito nel nucleo familiare: nel caso di normale convivenza, per esempio, il potere di rappresentanza della moglie si limitava alle forniture alimentari, al vestiario ed alle spese mediche, mentre qualora il marito si fosse trovato per lungo tempo lontano dalla famiglia, tale potere si sarebbe esteso anche al compimento di atti come la conclusione di un contratto di locazione di un appartamento. Il secondo limite caratterizzante il potere di rappresentanza della moglie era invece di tipo quantitativo: esso consisteva, cioè, nella proporzione degli acquisti al tenore di vita condotto dal ménage (215).

La possibilità di configurare tale rappresentanza legale, prescindendo da qualsivoglia volontà del rappresentato, non mancò di suscitare tra gli studiosi numerose critiche. Così si osservò che la rappresentanza ex lege è un istituto posto a tutela degli incapaci e non di chi non provvede ai propri affari per mera impossibilità temporanea o per abitudine (216), giacché, per quanto potesse considerarsi ordinaria, sotto l’abrogata disciplina (e dunque in un contesto sociale differente da quello attuale) la situazione in cui era la moglie ad occuparsi degli affari domestici, essa derivava comunque da una scelta consapevole e volontaria del marito, e non certo da un’imposizione della legge. D’altro canto si rilevò, correttamente, che siffatta rappresentanza non sarebbe potuta discendere dall’abrogato art. 145 c.c., che prevedeva l’onere di mantenimento della moglie a carico

(211) PICCALUGA, op. cit., p. 723. (212) Per una completa esposizione della c.d. teoria della «rappresentanza legale» si rimanda a MOSCO, La rappresentanza

volontaria in diritto privato, Napoli, 1961, p. 230 ss., che attribuiva alla moglie la veste di rappresentante legale del nucleo familiare. V. anche SANTORO-PASSARELLI, Poteri patrimoniali dei coniugi e ripartizione degli oneri matrimoniali, in Riv. dir. priv., 1935, I, p. 57 ss.: «La famiglia non può non essere un organismo anche economico il quale, come ha bisogni propri, così deve avere i mezzi per provvedere ai medesimi. Il diritto non può prescindere dall’essenziale organizzazione economica del coniugio, come prima forma e base della famiglia»; LOJACONO, La potestà del marito nei rapporti personali tra coniugi, Milano, 1963, p. 225 ss.

(213) Va ricordato, tuttavia, che tale obbligo di mantenimento venne notevolmente limitato a seguito dell’intervento della Corte costituzionale del 1970, con cui il giudice delle leggi valutò non conforme ai canoni della Costituzione l’abrogato art. 145, comma primo, c.c., nella parte in cui non subordinava l’onere di mantenimento a carico del marito in favore della moglie alla condizione che quest’ultima non disponesse di mezzi sufficienti (v. Corte cost., 13 luglio 1970, n. 133, in Giur. cost., 1970, p. 1605).

(214) La considerazione è stata ritenuta in qualche modo valida anche dopo l’introduzione del principio di uguaglianza tra coniugi per effetto del disposto dell’art. 29 Cost.: cfr. ad es. quanto rilevato da MOSCO, La rappresentanza volontaria in diritto privato, cit., p. 230, secondo cui in caso di disconoscimento della responsabilità solidale del marito, la posizione familiare della moglie sarebbe risultata menomata e si sarebbe posta in contrasto con il principio di uguaglianza ex art. 29 Cost. Sul tema – per la situazione anteriore all’introduzione del principio predetto – v. anche SANTORO-PASSARELLI, Poteri patrimoniali dei coniugi e ripartizione degli oneri matrimoniali, cit., p. 57 ss.

(215) Per alcune considerazioni sull’argomento si rimanda, fra gli altri, a MOSCO, La rappresentanza volontaria in diritto privato, cit., p. 234 ss.

(216) Così MIELE, Responsabilità del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie, in Giur. it., 1954, I, c. 379.

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del marito, poiché queste disposizioni attenevano unicamente alla disciplina dei rapporti interni fra i coniugi, senza interessare in alcun modo i terzi creditori (217).

3. Segue. Le teorie del mandato tacito e del mandato presunto. Negotiorum gestio e surrogazione.

Un’altra importante teoria utilizzata in passato a giustificazione dell’obbligo solidale del

marito al soddisfacimento dei debiti assunti dalla moglie per le esigenze familiari era quella del mandato tacito (218). Secondo tale opinione la moglie deteneva il potere di provvedere alle spese domestiche in virtù di un mandato tacitamente conferitole dal marito, il quale – in qualità di mandante – doveva di conseguenza assolvere alle obbligazioni dalla prima contratte per l’esecuzione del mandato stesso. Ciò perché – si osservava – la gestione della casa e di tutti gli affari ad essa connessi era pacificamente affidata alla moglie, non tanto per una espressa manifestazione di volontà del marito, quanto piuttosto per la tradizionale prassi secondo cui era la donna l’amministratrice della casa, in quanto detentrice del «potere delle chiavi» (la famosa Schlüsselgewalt del diritto germanico (219)) e, come tale, era, per così dire, abilitata allo svolgimento degli affari finalizzati a soddisfare i bisogni domestici (220), sempre che essi non eccedessero il limite della normalità rispetto alla posizione sociale della famiglia (221).

(217) In tal senso GANGI, Il matrimonio, Milano, 1969, p. 265 s.; cfr. inoltre RANDEGGER, op. cit., p. 227, il quale, escludendo la configurabilità di una rappresentanza legale attribuita alla moglie, argomentava a fortiori osservando che neppure negli ordinamenti stranieri in cui la legge prevedeva esplicitamente che la moglie potesse curare gli affari del marito (in particolare quello tedesco e quello svizzero) era possibile discutere di rappresentanza ex lege, poiché tale rappresentanza non poteva prescindere da una volontà, ancorché presunta, del marito stesso, il quale, peraltro, avrebbe potuto in ogni momento revocare o limitare tale potere conferito alla moglie.

(218) MIELE, Responsabilità del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie, cit., p. 379; RANDEGGER, op. cit., p. 227 ss.; cfr. inoltre TEDESCHI, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1950, p. 455 ss. La teoria era stata elaborata a cavallo tra i secoli XIX e XX in Francia, sotto il nome di mandat domestique, dapprima applicata nei contratti conclusi dalla moglie nell’interesse della famiglia, successivamente estesa alla convivenza more uxorio, per poi essere abbandonata con l’abrogazione della autorisation maritale. Sull’argomento, e per riferimenti di dottrina e giurisprudenza, v. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 272 ss. Sul mandato tacito nel diritto francese v. per tutti BAUDRY-LACANTINERIE, Dei contratti aleatori, del mandato, della fideiussione e della transazione, in AA. VV., Trattato teorico-pratico di diritto civile, Milano, s.d., ma 1911, p. 262 ss., con ampie citazioni di giurisprudenza.

(219) Su cui cfr. per tutti DÖLLE, Familienrecht, I, Karlsruhe, 1964, p. 694 ss.; SCHWAB, Familienrecht, München, 1991, p. 72 ss. (220) Per la giurisprudenza si rimanda a Cass., 18 febbraio 1938, n. 554, in Rep. Foro it., 1938, voce Matrimonio, n. 78, 79; Cass.,

18 maggio 1953, n. 1047, in Giur. compl. Cass. civ., 1953, I, p. 221, con nota di RANDEGGER; in Giur. it., 1954, I, c. 380, con nota di MIELE, in cui si distingue fra profilo obiettivo e subiettivo, concernenti rispettivamente il dovere attribuito al marito per la sua posizione di capo della famiglia e la tacita procura rilasciata da quest’ultimo alla moglie per il buon andamento della società familiare; Cass., 6 maggio 1957, n. 1529, in Giust. civ., 1957, I, p. 1724 («Qualora la moglie, per provvedere alle esigenze della famiglia, assuma obbligazioni a contenuto pecuniario, per il loro adempimento resta impegnato anche il patrimonio del marito – sia sotto il profilo subiettivo per il potere che, in tale campo deve riconoscersi alla moglie, di rappresentare il marito in virtù della tacita procura, sia sotto il profilo obiettivo per il dovere spettante al marito, quale capo della famiglia, di provvedere al soddisfacimento delle esigenze di quest’ultima – con l’unico limite che l’impegno assunto dalla moglie non deve eccedere il livello economico determinato dal tenore di vita familiare»). In precedenza Cass. Roma, 20 dicembre 1898, in Foro it., 1899, I, c. 201, aveva escluso l’obbligo del marito di rispondere dei debiti contratti dalla moglie, «quando egli abbia già provveduto a tali bisogni nei limiti della sua condizione economica», richiamando in motivazione sia il mandato tacito sia – nello stesso tempo – la «gestione di negozio», come pure Trib. Napoli, 11 marzo 1931, in Rep. Foro it., 1931, voce Matrimonio, n. 94, 95 (secondo cui «il marito deve pagare al terzo ciò che questi ha somministrato alla moglie per l’esistenza di un mandato tacito di cui la moglie è stata investita, perché si tratta di una gestione di negozio compiuta dalla moglie in luogo e per conto del marito per provvedere ai bisogni domestici»); allo stesso modo pare oscillare tra la teoria del mandato tacito e quella della rappresentanza ex lege App. Napoli, 13 maggio 1914, in Rep. Foro it., 1914, voce Matrimonio, n. 31. Sulla tesi del mandato tacito v. poi anche App. Bologna, 10 luglio 1933, in Foro it., Rep., 1934, voce Matrimonio, n. 103; App. Milano, 8 marzo 1932, in Monit. trib., 1932, p. 578.

L’esistenza di un mandato tacito veniva supposta anche per affermare una responsabilità solidale dei coniugi in relazione alle obbligazioni assunte dal marito nell’amministrazione dei beni parafernali della moglie: cfr. BIANCHI, Del contratto di matrimonio, Napoli, 1907, p. 662 ss. In giurisprudenza v. Cass., 23 giugno 1972, n. 2098, in Rep. Foro it., 1972, voce Coniugi (rapporti patrimoniali tra), n. 2; Cass., 29 novembre 1973, n. 3293, in Giur. it., 1974, I, 1, c. 1495; Cass., 6 novembre 1982, n. 5822, in Rep. Foro it., 1982, voce Famiglia (regime patrimoniale della), n. 28.

(221) Cfr. Cass., 27 luglio 1935, in Foro it., 1935, I, c. 1660, secondo cui l’obbligo del marito doveva intendersi esteso anche agli acquisti compiuti dalla moglie per il vestiario a lei occorrente, a prescindere sia dalla condizione economica della donna, sia dal criterio del bisogno; per un caso in cui la giurisprudenza valutò eccedente l’acquisto compiuto dalla moglie rispetto ai limiti di normalità v. App. Napoli, 13 maggio 1914, cit.

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La teoria ora esposta, prevalente nel vigore dell’abrogata disciplina, incontrò già allora alcuni autorevoli oppositori, i quali osservarono che essa si basava essenzialmente su una finzione (222). E’ infatti opportuno ricordare che qualsiasi mandato, pur essendo tacito, deve in ogni caso essere volontario: per tali ragioni, quindi, è sempre necessaria una manifestazione di volontà del mandante, ancorché riducibile ad un comportamento concludente (223), mentre non pare sufficiente richiamare la consuetudine (per lo meno, quella vigente all’epoca) per cui è (era) la moglie ad occuparsi abitualmente degli affari della casa (224).

Si prospettò allora la tesi del «mandato presunto» o della «procura presunta», secondo cui il potere della moglie di assumere obbligazioni vincolanti per il marito deriverebbe unicamente dall’esistenza di un valido matrimonio, il quale determinerebbe l’insorgere in capo all’uomo dell’obbligo di somministrare alla donna tutto ciò che le risulta necessario in relazione alle sue sostanze (225). In tal modo si sarebbe potuto superare l’ostacolo che invece incontrava la teoria del «mandato tacito», cioè l’impossibilità di giustificare l’applicazione dello schema negoziale in discorso anche nel caso in cui la moglie si trovava abbandonata o separata di fatto dal marito (226).

I sostenitori della teoria del «mandato presunto» consideravano anche la possibilità che il marito limitasse od escludesse il potere della moglie (227), o perché notoriamente dirigeva personalmente l’economia familiare, o perché vi era una dichiarazione in tal senso portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei (228). La presunzione, inoltre, sarebbe stata limitata esclusivamente a quegli atti che – in conformità con la condizione sociale ed economica della famiglia – normalmente il marito avrebbe potuto compiere (229). Trattandosi, evidentemente, di una variante o, meglio, di una semplificazione della teoria del mandato tacito, possono valere le stesse argomentazioni critiche sopra proposte.

Si è poi avanzata, in dottrina, un’ulteriore teoria che inquadrava il negoziare della moglie negli schemi dell’istituto della gestione di affari. Si affermava che, poiché il marito era tenuto a fornire determinati beni alla moglie in quanto onera matrimonii su di lui incombenti (230), nel momento in cui la moglie contrattava con i terzi, essa compiva atti nell’interesse del marito, e pertanto il terzo creditore avrebbe potuto agire direttamente con l’actio negotiorum gestorum contro il pater familias (231). Di contro, però, militava la considerazione che l’obbligo di mantenimento ex art. 145 c.c., vecchio testo, era assolutamente personale e dunque intrasmissibile; pertanto – si osservava (232) – esso non poteva divenire oggetto di gestione.

(222) TEDESCHI, op. cit., p. 447; cfr. inoltre le argomentazioni addotte da SANTORO-PASSARELLI, Poteri patrimoniali dei coniugi e

ripartizione degli oneri matrimoniali, cit., p. 50. In senso critico v. anche BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Milano, 1950, p. 146.

(223) STELLA RICHTER, Debiti contratti dalla moglie nell’interesse della famiglia e responsabilità del marito, in Giust. civ. 1958, p. 331; PICCALUGA, op. cit., p. 725.

(224) Non sembra condivisibile, pertanto, l’opinione di RANDEGGER, op. cit., p. 227 ss., secondo cui da tale prassi sarebbe stata desumibile l’esistenza di un mandato tacito conferito dal marito alla moglie per il compimento dei negozi afferenti alle necessità del focolare. Del resto, poteva sembrare già all’epoca alquanto irreale, oltre che giuridicamente insostenibile, che il marito, per limitare od escludere questo potere conferito alla moglie, dovesse provvedere mediante «avvisi ai terzi o diffide inserite nei giornali».

(225) La tesi era sostenuta da GANGI, op. cit., p. 263 s., il quale affermava che «dal fatto stesso che normalmente, col consenso del marito, la moglie ha la direzione dell’azienda domestica, si può anche fondatamente presumere che essa abbia ricevuto dal marito, a cui incombe l’obbligo del mantenimento della moglie e di contribuire al mantenimento dei figli, il potere di compiere negozi giuridici e contrarre obbligazioni in nome di lui». Nello stesso senso cfr. anche TARTUFARI, Della rappresentanza nella conclusione dei contratti, Bologna, 1892, p. 185; F. FERRARA Sen., Diritto delle persone e di famiglia, Napoli, 1941, p. 267; sul medesimo tema e nello stesso senso v., più di recente, BARCHIESI, Sull’obbligazione nell’interesse della famiglia, in Riv. dir. comm., 1994, p. 210, nota 8; PICCALUGA, op. cit., p. 725. Contra SANTORO-PASSARELLI, Poteri patrimoniali dei coniugi e ripartizione degli oneri matrimoniali, cit., p. 52.

(226) GANGI, op. cit., p. 263 s. (227) BARCHIESI, Sull’obbligazione nell’interesse della famiglia, cit., p. 210, nota 8. (228) Per la cessazione del potere della moglie di compiere acquisti obbligando il marito con riguardo alla teoria della

«rappresentanza legale» cfr. MOSCO, La rappresentanza volontaria in diritto privato, cit., p. 236. (229) GANGI, op. cit., p. 263 s. (230) Cfr. l’abrogato art. 145 c.c. (231) TEDESCHI, op. cit., p. 456; MIELE, Responsabilità del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie, cit., p. 383, il quale

precisa peraltro che non vi sono motivi per escludere l’applicazione dei principi della negotiorum gestio. (232) SANTORO-PASSARELLI, Poteri patrimoniali dei coniugi e ripartizione degli oneri matrimoniali, cit., p. 51.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

Si era poi precisato che l’applicabilità della disciplina della negotiorum gestio non può prescindere dalla sussistenza dei requisiti previsti in linea generale. Tra questi in primo luogo va ricordata l’absentia domini, ovverosia l’impossibilità del dominus di provvedere al compimento dell’affare (233). Ne conseguiva che solo nell’ipotesi in cui i coniugi avessero mantenuto residenze separate o si fossero comunque trovati lontani l’uno dall’altro sarebbe stato possibile applicare l’istituto della gestione d’affari (234) e non anche nelle fattispecie di ordinaria convivenza, pur anche contraddistinta da una normale suddivisione di compiti e di attività fra coniugi.

Una voce minoritaria, per quanto autorevole (235), chiamava poi in causa il concetto di surrogazione, configurando, cioè, una sorta di diritto di agire contro il marito in surrogazione della moglie (236). La tesi venne però da più parti respinta (237), sulla base del rilievo preliminare secondo cui la teoria in discorso presupporrebbe che la moglie contragga i debiti personalmente e non agendo nel nome del marito, mentre, secondo l’orientamento unanime della dottrina anteriore alla riforma del diritto di famiglia, era sempre il pater familias – in quanto capo del nucleo familiare (238) – ad assumere le obbligazioni nell’interesse del ménage (239).

4. La giurisprudenza anteriore al 1975. Le discussioni in sede di lavori preparatori della riforma del diritto di famiglia.

Nel vigore della vecchia disciplina la giurisprudenza – schierandosi sulle stesse posizioni

della dottrina – aveva ritenuto pacificamente valido il principio per cui il marito era tenuto al soddisfacimento dei debiti assunti dalla consorte per le necessità della famiglia, richiamando prevalentemente la tesi del mandato tacito, ma talvolta anche quella della rappresentanza legale (240).

Il marito era stato così considerato responsabile non soltanto per quelle spese attinenti ai bisogni primari della vita, quali ad esempio i trattamenti medici (241), ma anche per gli acquisti relativi a tutte le normali esigenze domestiche (242). Riguardo al vestiario, ad esempio, la giurisprudenza di merito – ma la regola era accolta anche nella giurisprudenza di legittimità (243) – ammetteva pacificamente che tale principio valesse anche in relazione ad acquisti di abiti di lusso (244), qualora ciò fosse proporzionato al tenore di vita normalmente condotto dalla famiglia, poiché

( ) TEDESCHI, op. cit., p. 447; contra SANTORO-PASSARELLI, Poteri patrimoniali dei coniugi e ripartizione degli oneri matrimoniali, cit., p. 51 s.

(233) MIELE, Responsabilità del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie, cit., p. 383. (234) RANDEGGER, op. cit., p. 225; in giurisprudenza v. Trib. Napoli, 1 giugno 1900, in Rep. Foro it., 1900, voce Matrimonio, n.

40. 235

(236) In giurisprudenza v. Cass. Napoli, 7 aprile 1899, in Foro it., 1899, I, c. 960; Trib. Napoli, 1 giugno 1900, cit.; Trib. Firenze 10 dicembre 1902, in Rep. Foro it., 1903, voce Matrimonio, n. 37.

(237) V., ex multis, RANDEGGER, op. cit., p. 225, MIELE, Responsabilità del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie, cit., p. 384.

(238) V. l’abrogato art. 144 c.c. (239) L’abrogato art. 145 c.c. attribuiva al marito un generale dovere di «proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e

somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze», mentre era onere della moglie la contribuzione a mantenere il marito, peraltro solo qualora questi non avesse mezzi sufficienti. Da tale disposizione la dottrina ricavava il principio per cui il soddisfacimento di tutti gli oneri matrimoniali, ad eccezione di quelli attinenti all’educazione dei figli, spettasse al marito (sul punto v. RANDEGGER, op. cit., p. 226).

(240) Cfr. ad esempio App. Bologna, 10 luglio 1933, in Temi emil., 1933, p. 317 e App. Bologna, 25 luglio 1938, in Temi emil. 1938, p. 224, secondo cui «l’obbligazione alimentare del marito verso la moglie ai sensi dell’art. 132 c.c., non è limitata ad assicurare a costei lo stretto necessario per i bisogni più urgenti della vita, ma si estende a tutto ciò che, a seconda della entità delle sostanze del marito, valga ad assicurare alla moglie quel tenore di vita che sia conforme alla posizione sociale dei coniugi».

(241) App. Genova, 18 gennaio 1891, in Rep. Foro it., 1891, voce Matrimonio, n. 20; App. Genova, 23 febbraio 1894, in Mon. trib., 1894, p. 535; Cass. Torino, 22 settembre 1897, in Mon. trib., 1897, p. 921; App. Trani, 23 maggio 1913, in Mon. trib., 1913, p. 971, citate da RANDEGGER, op. cit., p. 23.

(242) Cfr. App. Bologna, 10 luglio 1933, cit., secondo cui «il marito risponde personalmente dei debiti contratti dalla moglie per provvedere a ciò che è necessario ai bisogni della vita domestica; tali bisogni però vanno determinati in ragione delle sostanze di lui e del tenore di vita da lui abitualmente tenuto»; cfr. inoltre App. Bologna, 25 luglio 1938, cit.

(243) Cass., 27 luglio 1935, in Foro it., 1935, I, c. 1660. (244) Cfr. ad esempio App. Milano, 8 marzo 1932, in Rep. Foro it., 1932, voce Matrimonio, n. 80.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

«il concetto del bisogno deve andar man mano estendendosi con l’aumentare dell’agiatezza della famiglia», potendo così finire per ricomprendere anche una certa tipologia di spesa normalmente ritenuta voluttuaria (245). L’assenza di limiti precisi all’operatività del principio in esame, salvo, come si è detto, la proporzione con la condizione sociale della famiglia, consentiva poi di riconoscere la responsabilità del marito per obbligazioni contratte dalla moglie anche in fattispecie del tutto peculiari, come ad esempio quella in cui il debito assunto dalla donna concernesse le spese mediche relative ad una sua gravidanza adulterina (246).

In sede di riforma del diritto di famiglia i redattori della novella codicistica non omisero di considerare la questione in oggetto. In alcuni dei progetti di legge presentati alle Camere vennero, invero, presentate norme ad hoc (247). Una prima soluzione era quella adottata nel progetto Iotti, che differenziava la disciplina a seconda del regime patrimoniale scelto dalla coppia: nel regime di separazione ciascun coniuge sarebbe stato solidalmente responsabile dei debiti assunti anche da uno solo di loro nell’interesse della famiglia (art. 60); nel caso opposto di regime di comunione i beni comuni avrebbero risposto «delle spese di mantenimento della famiglia e per l’educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell’interesse della famiglia» (art. 47), con previsione di una responsabilità sussidiaria dei beni personali, nella misura della metà del credito, in caso di incapienza del patrimonio comune (art. 50).

Il progetto Falcucci introduceva invece una responsabilità sussidiaria del coniuge non stipulante per le obbligazioni contratte dall’altro coniuge nell’interesse della famiglia (art. 46).

Profondamente diversa, ed innovativa, era invece la soluzione adottata nel progetto unificato (art. 26, progetto unificato proposto dal Comitato ristretto alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati, recante la data del 30 aprile 1971). Secondo tale proposta, ciascun coniuge avrebbe invero potuto «contrarre obbligazioni nell’interesse della famiglia», sempre che il giudice, per gravi motivi, non lo avesse privato, su richiesta dell’altro coniuge, del «potere di contrarre in nome e per conto della famiglia» medesima. La suddetta formulazione avrebbe così consentito – in via di interpretazione sistematica – di configurare in capo alla famiglia gli estremi di un vero e proprio distinto soggetto giuridico, agente per il tramite di organi dotati di potere rappresentativo. Le conseguenze che l’introduzione di una simile disposizione avrebbero potuto determinare hanno indotto la dottrina a considerare opportuna la sua eliminazione dalla legge di riforma (248).

5. Il dibattito attuale in dottrina. L’orientamento che afferma la solidarietà in considerazione del «principio solidaristico». Le relative critiche.

Successivamente alla riforma del diritto di famiglia la dottrina si è a lungo interrogata sulla

possibilità, per un coniuge, di assumere obbligazioni nell’interesse della famiglia di cui possa essere chiamato a rispondere anche l’altro. Ancora oggi, peraltro, la questione resta aperta e le notevoli divergenze riscontrabili fra gli studiosi si riflettono chiaramente nella giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, che – come si vedrà – si è dimostrata altalenante anche nelle sue più recenti decisioni.

Nei primi anni di vigenza della novella del 1975 autorevole dottrina aveva sostenuto che non si sarebbe potuto neppure dubitare della validità del c.d. «principio solidaristico»: in caso contrario,

(245) App. Milano, 10 marzo 1923, in Foro it., 1924, I, c. 632. (246) App. Genova, 18 gennaio 1891, cit. (247) Sull’argomento v. anche STAGLIANÒ, In materia di obbligazioni contratte individualmente per i bisogni della famiglia: è già

solidarietà?, in Dir. fam. pers., 1994, p. 85 s. (248) Cfr. SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell’altro, cit., p. 143, che ha ravvisato nell’art. 146 del progetto

unificato cit. il riconoscimento di una sorta di «rappresentanza organica»; ciò che avrebbe potuto comportare anche dubbie implicazioni teoriche e sistematiche. Non è errato affermare, infatti, che «l’individuazione di una categoria di obbligazioni ‘familiari’ ha trovato più spesso fondamento in ragioni ‘canonizzate’ da norme sociali prima ancora che giuridiche» (così BARCHIESI, Sull’obbligazione nell’interesse della famiglia, cit., p. 209).

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

si è detto, il governo della famiglia non sarebbe stato assicurato (249): «proprio perché i bisogni della famiglia siano adeguatamente soddisfatti, e potrebbero non esserlo se ciascuno dei coniugi fosse abilitato ad obbligarsi verso i terzi soltanto coi suoi beni, è necessario ammettere anche un potere dell’uno e dell’altro coniuge di fronte ai terzi di compiere gli atti occorrenti e assumere le correlative obbligazioni per soddisfare i bisogni della famiglia con effetto per entrambi» (250).

Fra i diversi argomenti utilizzati a sostegno della tesi in parola va ricordata poi la considerazione secondo cui il ruolo professionale tipicamente assunto dal marito nella famiglia produce inevitabilmente una sproporzione della disponibilità dei mezzi economici, determinando così la dipendenza della moglie dall’uomo, sia per i suoi diretti bisogni di rilevanza familiare, sia per tutte le necessità che riguardano la famiglia nel suo insieme. A questa situazione, senz’altro in contrasto con lo spirito della riforma codicistica, porrebbe rimedio, per l’appunto, il citato «principio solidaristico», la cui applicazione consente alla moglie di contrarre obbligazioni nell’interesse della famiglia e la pone al sicuro da quella situazione di sostanziale dipendenza in cui altrimenti si troverebbe (251). Merita ribadire, tuttavia, che l’osservazione, oltre a non rispondere più all’attuale realtà sociale, non tiene conto del fatto che, per quanto il principio della solidarietà possa apparire vantaggioso per la donna, esso non fa che avvantaggiare, in realtà, i soli creditori (252).

Come già avveniva nel vigore dell’abrogata disciplina, anche successivamente alla riforma la teoria del c.d. «principio solidaristico» viene dai suoi fautori circoscritta ai debiti rientranti nella normale condizione sociale della coppia. Si è affermato, infatti, che con il potere, riconosciuto a ciascun coniuge, di impegnare anche l’altro membro della coppia per le obbligazioni relative all’interesse della famiglia, si attua – nei rapporti con i terzi – l’indirizzo concordato della vita familiare e pertanto esso va necessariamente commisurato al tenore di vita o alla posizione sociale della famiglia. Dunque, il coniuge estraneo risponderà delle obbligazioni contratte dall’altro coniuge solo in quanto esse siano ragionevolmente proporzionate alla normale condizione economico-sociale del ménage (253). Il coniuge, pertanto, non sarà responsabile per quelle obbligazioni che appaiono chiaramente sproporzionate rispetto alla condizione sociale della famiglia e pertanto non giustificate (254).

Osservano inoltre i sostenitori della tesi in discorso che neppure l’assenza di una disposizione ad hoc osterebbe al riconoscimento della validità del c.d. «principio solidaristico»: esso – si sostiene – già operava prima della novella codicistica ed anche oggi dovrebbe essere ritenuto valido (255).

(249) SANTORO-PASSARELLI, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 5; allo stesso modo anche FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 623, ritiene che «la portata innovatrice [del regime della contribuzione] accuserebbe un respiro troppo corto e la sua pretesa di criterio generale di regolamento nel campo dei rapporti patrimoniali risulterebbe esagerata se non fosse arricchito di poteri di iniziativa che mettano in grado ciascuno dei coniugi di provvedere con efficacia e prontezza al soddisfacimento dei bisogni della famiglia». Confermano la validità del c.d. principio solidaristico anche RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, in RUSSO, Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, p. 249 ss.; FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 623 ss.; PERCHINUNNO, op. cit., p. 165 ss.; PICCALUGA, op. cit., p. 735; PANUCCIO, In tema di responsabilità dei coniugi per le obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia, in Giust. civ., 1980, p. 2822.

(250) SANTORO-PASSARELLI, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia, cit., p. 6 s. Anche secondo RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, cit., p. 249, il potere di attuazione dell’indirizzo concordato non potrebbe assumere alcun significato se non nel senso di accogliere la possibilità di impegnare anche l’altro coniuge per le obbligazioni familiari. L’osservazione non pare convincente. Più persuasiva appare invero la tesi di chi rileva (cfr. VECCHI, op. cit., p. 656) che non è sufficiente sostenere la necessità di un certo principio per dichiararne la sua validità: «affermare pertanto la necessità di un’esplicazione anche esterna di questo regime perché la logica posta alla sua base possa essere effettivamente realizzata appare essere soprattutto una considerazione di politica legislativa, la quale non può essere immediatamente tradotta in regola normativa, a meno di non voler sovrapporre le scelte dell’interprete a quelle del legislatore». Analogamente afferma che il soddisfacimento del dovere di collaborazione e l’obbligazione contributiva non presuppongono una solidarietà debitoria BARCHIESI, Sull’obbligazione nell’interesse della famiglia, cit., p. 224.

(251) FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 623 s. (252) Sul punto v. anche supra, § 2. (253) SANTORO-PASSARELLI, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia, cit., p. 14. (254) PATTI, Diritto al mantenimento e prestazione di lavoro nella riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1977, p. 1370. (255) Cfr. FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 625: «Si tratta del necessario

aggiustamento e del logico sviluppo della facoltà, riconosciuta prima della riforma alla moglie, con molte limitazioni e a prezzo di

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

Sulla natura di tale potere sono state avanzate in dottrina diverse interpretazioni. Per alcuni (256) non si tratterebbe di vera e propria rappresentanza in senso tecnico, poiché il coniuge non agisce in nome dell’altro, ma in nome proprio. Sarebbe dunque la legge ad attribuire a ciascun coniuge il potere di assumere obbligazioni che impegnano entrambi i membri della coppia, senza la necessità che esso sia esercitato esplicitando al terzo contraente né lo scopo del negozio (il soddisfacimento di un bisogno della famiglia), né la possibilità, per il creditore, di pretendere il pagamento del debito anche dall’altro coniuge. Pertanto tale potere, tecnicamente riconducibile alla categoria delle potestà, sarebbe non di rappresentanza ma di sostituzione (257) e contemplerebbe la possibilità per un coniuge di invadere la sfera giuridica dell’altro membro della coppia, possibilità giustificata dall’interesse superiore e costituzionalmente protetto della tutela della famiglia (258).

Venendo alle considerazioni critiche, andrà detto che appare difficile individuare un valido appiglio positivo alla regola che vede nel c.d. «principio solidaristico» il fondamento del principio della responsabilità di entrambi i coniugi per le obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia da uno solo di essi, tanto più che il silenzio del legislatore appare, come si è visto, preceduto da una chiara scelta negativa dei riformatori del 1975. 6. Segue. L’orientamento che basa l’esistenza di una responsabilità solidale sul potere di attuare l’indirizzo concordato della vita familiare. Le relative critiche.

Una parte, seppur minoritaria, della dottrina ha ritenuto di poter superare l’ostacolo

costituito dall’assenza di una specifica disposizione che preveda la responsabilità del coniuge non agente per le obbligazioni contratte dall’altro nell’interesse della famiglia ricollegando l’art. 186, lettera c), c.c. (259) agli artt. 144, 190 e 193, comma secondo, c.c. (260); ma l’impostazione non pare convincente, poiché utilizza, per configurare regole di portata generale, afferenti al regime primario, delle disposizioni dettate specificamente per la comunione dei beni, dunque facenti parte di un insieme di norme la cui applicazione è rimessa alla scelta della coppia. Secondo un’altra interpretazione, invece, la reale portata normativa dell’art. 144, comma primo, c.c., sarebbe quella di aver attribuito rilevanza esplicita proprio ai comportamenti esterni dei coniugi, con conseguente creazione di una situazione di apparenza delle manifestazioni di vita della famiglia e dunque, di conseguenza, di affidamento dei terzi (261).

Coloro che riallacciano più strettamente il «principio solidaristico» al potere, spettante ad ognuno dei coniugi, di attuare l’indirizzo concordato (262), richiamano invece direttamente l’art. 144, comma secondo, c.c., che legittimerebbe la possibilità, per ciascun membro della coppia, di adottare provvedimenti nell’interesse della famiglia, senza che vi sia la necessità di un accordo fra i

artifici giuridici per preservare la figura del capo di famiglia, di impegnare matrimonialmente il marito nell’esercizio dell’attività domestica». V. anche RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, cit., p. 249.

(256) SANTORO-PASSARELLI, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia, cit., p. 8. (257) Così SANTORO-PASSARELLI, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia, cit., p. 8, peraltro

modificando una sua precedente opinione in cui il medesimo insigne Autore discuteva in linea generale di un «potere di sostituzione rappresentativa» (cfr. sul punto CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 430, nota 3). In senso contrario alla tesi esposta nel testo cfr. le osservazioni di BARCHIESI, Sull’obbligazione nell’interesse della famiglia, cit., p. 226 ss.

(258) SANTORO-PASSARELLI, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia, cit., p. 8. (259) Secondo FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 625, è a questa disposizione che

dovrebbe attribuirsi l’introduzione della nuova categoria di «obbligazione contratta nell’interesse della famiglia». Sul punto v. altresì PERCHINUNNO, op. cit., p. 1 ss.

(260) Cfr. FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 625 s. (261) La tesi, che non ha avuto seguito in dottrina, è stata sostenuta da RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il

problema delle obbligazioni familiari, cit., p. 248. L’Autore ha sostenuto, tra l’altro, che tale legittima situazione di apparenza della vita familiare sarebbe desumibile anche dall’art. 170 c.c., in materia di esecuzione sui beni e sui frutti del fondo patrimoniale.

(262) Sul punto cfr. CORSI, op. cit., p. 40 ss.; v. inoltre VECCHI, op. cit., p. 665 SS.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

due (263). Ragionando a contrario, si è osservato che, se tale ultima disposizione citata non riconoscesse anche l’efficacia nei confronti dei terzi del potere di attuazione attribuito a ciascun coniuge, essa nulla aggiungerebbe all’art. 143 c.c. (264), e pertanto non si potrebbe dare una lettura dell’art. 144, comma secondo, c.c., se non nel senso di ammettere anche la sua rilevanza esterna, già soltanto per evitare un’interpretazione sostanzialmente abrogativa di tale disposizione.

Questa impostazione è stata però respinta in modo convincente, sulla base della considerazione secondo cui non è necessario accogliere il «principio solidaristico» per distinguere in qualche modo gli artt. 143 e 144 c.c. Mentre dal primo – si è osservato – è possibile desumere una serie di doveri reciproci ed inderogabili, espressione dei principi costituzionalmente affermati dell’eguaglianza e della solidarietà (artt. 29 e 2, Cost.), il secondo «introduce un criterio idoneo a garantire, nell’ambito disegnato dalla predetta disposizione, una parità coniugale effettiva anche nel momento in cui i singoli interessi risultino attuati attraverso l’iniziativa del singolo coniuge» (265).

Del tutto isolata, ma pur meritevole di menzione, è poi la tesi secondo cui occorre distinguere tra debiti assunti nell’interesse della famiglia e debiti relativi ai bisogni della famiglia: i primi concernerebbero esclusivamente il regime di comunione dei beni e sarebbero costituiti da quelle obbligazioni per cui l’art. 190 c.c. pone la limitazione di responsabilità nella misura di metà del credito dei beni personali di ciascun coniuge. I secondi, invece, riguardanti il mantenimento e la soddisfazione dei bisogni primari della famiglia, sarebbero quelli per cui vi è responsabilità totale del coniuge, a prescindere dal regime patrimoniale prescelto dalla coppia e deriverebbero direttamente dall’art. 144 c.c., che attribuisce a ciascun coniuge il potere di attuare l’indirizzo concordato (266). Vi sarebbe, in altre parole, un insieme di debiti contratti nell’interesse della famiglia e rilevante solo in regime di comunione dei beni, contenente un sottoinsieme di debiti assunti per i bisogni della famiglia, concernente il regime patrimoniale primario, che quindi prescinde dal regime patrimoniale preferito dai coniugi. Tale distinzione sarebbe poi confermata dall’art. 186, lett. c), c.c., il quale – stando alla tesi in analisi – contrappone le spese per il mantenimento della famiglia alle obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia (267); ma il fatto che proprio l’art. 186 c.c. non introduca alcuna distinzione di regime tra obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia ed obbligazioni contratte dai coniugi congiuntamente, anche non nell’interesse della famiglia (o, addirittura, contro di esso) sembra voler smentire siffatto tentativo ermeneutico.

Per quanto possa avere il merito di separare chiaramente l’ambito del regime patrimoniale primario ed inderogabile rispetto a ciò che invece attiene ai regimi patrimoniali la cui scelta è rimessa ai coniugi (268), l’interpretazione ora esposta non ha avuto seguito in dottrina, considerata la sua macchinosità, nonché l’impossibilità di ritrovare una qualche conferma a siffatta impostazione teorica nella lettera, così come nello spirito della riforma del 1975. 7. Segue. La dottrina contraria alla tesi della responsabilità solidale per le obbligazioni singolarmente contratte nell’interesse della famiglia.

(263) Cfr. SANTORO-PASSARELLI, Poteri e responsabilità patrimoniali dei coniugi per i bisogni della famiglia, cit., p. 13 ss.; PATTI, Diritto al mantenimento e prestazione di lavoro nella riforma del diritto di famiglia, cit., p. 1369; RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, cit., p. 249.

(264) FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 623; VECCHI, op. cit., p. 660 s. (265) BARCHIESI, Sull’obbligazione nell’interesse della famiglia, cit., p. 222 s. (266) RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, cit., p. 251 ss. Alla categoria dei

bisogni della famiglia appartengono, secondo l’Autore, il mantenimento della famiglia, l’educazione e l’istruzione dei figli ed in generale quelle spese che riguardano il soddisfacimento dei bisogni primari dei membri della comunità familiare.

(267) RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, cit., p. 252, secondo cui un’ulteriore conferma circa la validità di siffatta distinzione sarebbe ravvisabile nello stesso art. 143 c.c., il quale menziona l’ «interesse» della famiglia al comma secondo, a proposito del dovere di collaborazione, e successivamente i «bisogni» della famiglia, al comma terzo, con riguardo al dovere di contribuzione.

(268) V., inoltre, in relazione all’interpretazione dell’art. 190 c.c., RUSSO, «Bisogni» ed «interesse» della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, cit., p. 254.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

Alla citata dottrina, favorevole alla possibilità di ravvisare una situazione di solidarietà inter coniuges per le obbligazioni contratte da uno solo di essi nell’interesse della famiglia, si contrappone un altrettanto considerevole orientamento dottrinale che si esprime in senso diametralmente opposto.

Una prima osservazione, tanto ovvia e prevedibile quanto decisiva ai fini del discorso, è che dal silenzio del legislatore e dalla ben nota decisione del riformatore di non introdurre una disciplina ad hoc non può desumersi una così importante eccezione ai principi generali in materia di obbligazioni (269). Come è noto, infatti, l’art. 1372, comma secondo, c.c., sancisce chiaramente che «il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti della legge» (270): l’impossibilità di derogare al principio della relatività del contratto se non con una specifica disposizione normativa pare considerazione sufficiente per definire azzardato il tentativo di configurare siffatta eccezione ricorrendo a procedimenti di interpretazione sistematica e teleologica delle norme introdotte con la riforma del diritto di famiglia (271). Anzi, corrette osservazioni in chiave di interpretazione sistematica evidenziano che il legislatore del 1975 ha preferito seguire una strada apertamente individualista (272) rispetto agli altri orientamenti europei (273), contemplando un lungo elenco di beni personali e non introducendo la comunione degli utili e degli acquisti, bensì solo quella degli acquisti, dal momento che i redditi personali di ciascun coniuge come i frutti dei beni personali divengono comuni solo se non consumati allo scioglimento della comunione (274).

Chi, poi, tenta di ravvisare il fondamento normativo del «principio solidaristico» mediante il coordinamento dell’art. 144 c.c., con gli artt. 186, lett. c), e 190 c.c., sembra trascurare che le ultime tre disposizioni ora citate concernono esclusivamente il regime patrimoniale della comunione e non riguardano in alcun modo il regime patrimoniale primario. Come ha correttamente ricordato la dottrina, infatti, tali norme si ricollegano unicamente alla comunione dei beni non solo per considerazioni di carattere «topografico» (entrambe si trovano nella Sezione III, riservata alla comunione legale), ma anche per la ratio su cui esse poggiano: con riferimento all’art. 190 c.c., si è evidenziato, ad esempio, che il principio per cui solo la metà del debito contratto da un coniuge grava sui beni personali dell’altro risponde necessariamente ai criteri propri della comunione e non può in alcun modo adeguarsi – anche con un’opera di interpretazione sistematica – al regime patrimoniale primario, per il quale vige invece la regola per cui ciascun coniuge contribuisce «in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro» (art. 143, comma terzo, c.c.) (275). A ciò s’aggiunga ancora che le citate norme in tema di regime comunitario attengono non già al problema del carattere solidale o parziario delle obbligazioni assunte, bensì al ben diverso profilo della regolamentazione dell’azione esecutiva.

La dottrina ha poi anche evidenziato che, paradossalmente, l’adesione al c.d. «principio solidaristico» finirebbe per rendere più gravosa la situazione dei coniugi in separazione dei beni rispetto a quella dei coniugi che hanno preferito il regime comunitario, i quali potranno invece invocare, ex art. 190 c.c., il beneficium excussionis, così rispondendo con i beni personali solo per metà del credito (276).

(269) SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell’altro, cit., p. 142; v. inoltre CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, cit., p. 431; BARALE, Responsabilità dei coniugi per le obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia, Nota a Cass., 6 ottobre 2004, n. 19947, in Fam. dir., 2005, p. 155 ss.

(270) Cfr. inoltre l’art. 2740 c.c., il quale sancisce al capoverso che «le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge».

(271) Così BARALE, op. loc. ultt. citt. (272) L’osservazione è di V. CARBONE, Ha rilevanza esterna l’obbligo di contribuire al soddisfacimento dei bisogni della

famiglia?, in Corr. giur. 1990, p. 1130. (273) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 434, nota 9, osserva che il silenzio del nostro legislatore

«appare ancora più significativo se lo si pone a confronto con quanto dispone il codice civile francese: ‘Chacun des époux a pouvoir pour passer seul les contrats qui ont pour object l’entretien du ménage ou l’éducation des enfants : toute dette ainsi contractée par l’un oblige l’autre solidairement’ (art. 220, comma 1, così sostituito dalla l. n. 65-570 del 13 luglio 1965)’».

(274) Cfr. al riguardo gli artt. 179 e 177, lettere b) e c), c.c., rispettivamente per i beni personali e per i redditi personali ed i frutti dei beni personali. Pare allora corretto affermare (CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, 1992, cit., p. 430) che «anche i debiti, come i beni, rimangono separati».

(275) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, cit., p. 434. (276) CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, cit., p. 432.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

Si è anche esclusa la possibilità di fondare la responsabilità solidale dei coniugi su una presunta rilevanza anche esterna della norma relativa all’indirizzo concordato della vita familiare (art. 144, comma primo, c.c.), sulla base della considerazione per cui se già l’accordo sull’indirizzo di vita familiare, nelle fasi ordinarie di svolgimento del rapporto matrimoniale, non può vincolare giuridicamente un coniuge verso l’altro alla sua osservanza – non esistendo la possibilità di dar vita ad un’azione giudiziaria promuovibile contro l’altro membro della coppia – a maggior ragione non potrà configurarsi un’efficacia anche esterna dell’accordo medesimo (277).

Non condivisibili appaiono, poi, quelle giustificazioni, talvolta ancora richiamate dalla giurisprudenza recente, utilizzate dai sostenitori del «principio solidaristico» nel vigore dell’abrogata disciplina, come il ricorso ad una sorta di mandato tacito o presunto. Più esattamente, dovrà concludersi che il ricorso a tali istituti sarà ipotizzabile non già quale rimedio «assoluto» e generale, ma solo laddove, a seguito di un accertamento di fatto, da compiersi caso per caso, sia positivamente accertata non solo la presenza di una tacita volontà di conferire la procura all’altro coniuge (278), bensì anche la contemplatio domini, vale a dire quel «riconoscibile riferimento alla sfera patrimoniale altrui» (279) che, se non richiede necessariamente la menzione espressa del nome del dominus, presuppone però comunque la manifestazione dell’intento del dichiarante di concludere il negozio non (solo) per sé, ma (anche) in nome e per conto di un altro soggetto (280).

8. La giurisprudenza favorevole alla responsabilità solidale. Le profonde divisioni della dottrina si riflettono quasi specularmente nella giurisprudenza

degli ultimi decenni: i reiterati revirements della S.C. e la conseguente indecisione delle corti di merito non permettono all’interprete di individuare un orientamento maggioritario. Sarà allora opportuno presentare le due opinioni contrapposte, evidenziando le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza per avvalorare l’adesione all’una piuttosto che all’altra soluzione, spesso riconducendosi alle medesime osservazioni già proposte dalla dottrina.

Nel 1985, per la prima volta dopo la riforma del diritto di famiglia (281), la Corte di Cassazione prende in considerazione il problema, ritenendo senz’altro valido ed operante il «principio solidaristico» (282) sulla base della considerazione che «per il soddisfacimento di obbligazioni a contenuto pecuniario, assunte dalla moglie per provvedere ad esigenze della famiglia, resta sempre impegnato anche il patrimonio del marito, sia sotto il profilo subbiettivo (per

(277) Così DE CUPIS, Indirizzo della vita familiare e responsabilità patrimoniale, in Riv. dir. civ. 1985, II, p. 2. (278) DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, Milano, 1996, p. 10. (279) Cfr. BETTI, op. cit., p. 574. (280) Come per esempio nel caso in cui vengano regolati rapporti giuridici che si riconoscano pacificamente pertinenti a persona

diversa dalle parti del negozio: v. BETTI, op. loc. ultt. citt., secondo cui «si può ritenere che chi dice: ‘Ti vendo la casa di X’ non abbia bisogno di precisare: ‘Ti vendo, a nome di X, la casa di lui’». Anche la giurisprudenza è del parere che «mentre nel codice abrogato si poteva avere una contemplatio domini tacita, cioè desumibile da circostanze di fatto e da elementi presuntivi, per il nuovo codice la contemplatio domini deve essere espressa, risultare cioè in termini espressi dall’atto stipulato dal mandatario, non equivalendo ad implicita spendita del nome del mandante neanche la conoscenza da parte del terzo della qualità del mandatario»: v. Cass., 21 maggio 1949, n. 1292, in Foro it., Mass. 1949, c. 266; Trib. Perugia, 24 novembre 1977, in C.E.D. - Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd 860537. Per un riferimento a tali questioni con riguardo ai rapporti patrimoniali nell’ambito della famiglia di fatto cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 272 ss.

(281) Meritevole di menzione – pur se non direttamente relativa alla questione in oggetto – è anche Cass., 20 settembre 1979, n. 4832, secondo cui «Per gli atti compiuti nella casa dell’interessato il terzo, che entra in contatto con le persone che vi sono addette, può fondatamente ritenere che essi agiscano per incarico del titolare, e fare affidamento su un rapporto di preposizione o di mandato; specialmente se chi agisce è la moglie, portatrice di interessi coincidenti con quelli del marito. (Nella specie, la suprema corte nell’enunciare l’esposto principio ha ritenuto non censurabile la decisione di merito che ha ritenuto riferibile al committente, per effetto di un mandato tacito, la accettazione delle cose trasportate operata dalla moglie del committente medesimo)».

(282) Cass., 23 settembre 1986, n. 5709, in Dir. fam. pers., 1987, p. 95. Si noti che il caso di specie avrebbe potuto essere deciso già soltanto richiamando il principio dell’apparenza, poiché, alla luce delle circostanze di fatto accertate nel corso del giudizio, il terzo poteva ragionevolmente considerare che l’obbligazione fosse stata contratta dalla moglie per conto del coniuge e anche a nome di questi. Venne infatti accertato, oltre alla palese destinazione familiare delle merci acquistate (ovverosia alimentari, detersivi, biancheria), che gli acquisti erano compiuti periodicamente e che «i conti venivano saldati mensilmente e v’era la prova (per risultanza d’interrogatorio) che il marito aveva sempre saldato i conti relativi ai mesi precedenti».

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il potere che in tale campo deve riconoscersi alla moglie di rappresentare il marito in virtù di una tacita procura per quanto attiene al buon andamento della società famigliare), sia sotto il profilo obiettivo (per il dovere spettante al marito per la sua qualità di capo del nucleo famigliare di provvedere al soddisfacimento delle esigenze di quest’ultimo)» (283). Tale sorprendente affermazione – che induce a ridimensionare il peso di siffatto precedente giurisprudenziale (284) – non tiene conto in alcun modo delle innovazioni apportate al diritto di famiglia dalla novella intervenuta nel decennio precedente, non considerando che il ricorso alla procura tacita, così come a tutti altri artifici interpretativi utilizzati nel vigore dell’abrogata disciplina, non possono più essere utilizzati (per lo meno nei termini in cui lo erano prima del 1975) alla luce del nuovo quadro normativo (285).

In una successiva decisione, tuttavia, la S.C. sostiene nuovamente la validità del «principio solidaristico» nell’ordinamento vigente, senza trascurare le innovazioni apportate con la l. 151/1975 ed anzi ritrovando proprio in esse il fondamento normativo di siffatta regola. Secondo tale orientamento, il dovere dettato dall’art. 147 c.c., secondo cui «il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole» non avrebbe soltanto rilevanza interna, ma si estrinsecherebbe anche nei rapporti esterni, e dunque nei confronti dei terzi: per tale ragione le obbligazioni relative alle esigenze primarie della famiglia, contratte anche da uno solo dei coniugi, hanno effetti vincolanti per entrambi (286).

Ancora successivamente è possibile rinvenire un’ulteriore fattispecie in cui la Corte di Cassazione ha ritenuto obbligato anche il marito, seppure l’obbligazione fosse stata contratta individualmente dalla moglie (287). Tra le argomentazioni con cui il Collegio supporta la sua decisione, tuttavia, ve n’è una, ad avviso di chi scrive, più persuasiva di quelle precedentemente utilizzate dalla giurisprudenza di legittimità: si afferma, infatti, che la responsabilità del coniuge estraneo al negozio si fonda sul fatto che il comportamento di quest’ultimo ha ingenerato nel terzo il ragionevole convincimento che l’obbligazione fosse stata contratta in suo nome. L’affermazione pare convincente, sempre che essa sia interpretata nel senso di escludere senza riserve la configurabilità di una deroga alla regola della relatività del contratto. Infatti, respinte siffatte teorie, nulla vieta all’interprete di analizzare la fattispecie concreta e, se possibile, rinvenirvi quei presupposti che, alla stregua dei principi generali, consentono di configurare una situazione di apparenza giuridica, con tutte le conseguenze che essa comporta (288).

Sebbene la decisione si fondi sull’esposto principio, in motivazione si sfiora anche la possibilità che la responsabilità del coniuge estraneo al compimento dell’obbligazione derivi da una

(283) Le parole sono riprese, letteralmente, da Cass., 18 maggio 1953, n. 1047, cit., la quale sostanzialmente aderiva alla teoria –

già sostenuta in dottrina da SANTORO-PASSARELLI, Poteri patrimoniali dei coniugi e ripartizione degli oneri matrimoniali, cit., p. 57 ss. – della rappresentanza ex lege (su cui v. supra, § 2).

(284) Cfr. sul punto PICCALUGA, op. cit., p. 733. (285) V. per tutti SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell’altro, cit., p. 142. Dello stesso avviso è anche la

giurisprudenza: cfr. Cass., 18 giugno 1990, n. 6118, cit. (286) Cass., 25 luglio 1992, n. 8995, in Dir. fam. pers., 1994, p. 79, con nota di STAGLIANÒ. Secondo la S.C., «Pur dovendosi

riconoscere, in linea generale, che solo il coniuge che abbia personalmente stipulato l’obbligazione per contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia risponde del debito contratto, non si può non fare deroga a tale principio, allorché l’obbligazione riguardi un bisogno primario della famiglia quale quello della salute, dei suoi componenti, ed allorché a ciò si aggiunga il profilo dell’affidamento, ingenerato dagli stessi coniugi col loro comportamento, che l’obbligazione sia stata contratta anche per conto del coniuge stipulante. Tale deroga fa leva proprio sull’obbligo di ciascuno dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia e sull’interesse superiore della stessa come società naturale e fondamentale del vivere civile, per giustificare la compressione del principio dell’autonomia dei privati, o più specificamente, del principio dell’autonomia contrattuale, sancito edittalmente dall’art. 1322 c.c., e confermato dal secondo comma dell’art. 1372 c.c. e, sotto la specie della responsabilità, dall’art. 2740 c.c.». Sul punto cfr. anche MUSY, Il coniuge massaio va dal dentista, in Giur. it., 1993, p. 1511.

(287) Cass., 7 luglio 1995, n. 7501, in Dir. fam. pers., 1996, p. 95; in Fam. dir. 1996, p. 140, con nota adesiva di SESTA, cit.; contra PERRELLA, Effetti dell’acquisto da parte di un coniuge e responsabilità personale di chi lo compie. L’apparenza inganna, in Giust. civ., 1996, p. 2371.

(288) Nello stesso senso v. Cass., 6 ottobre 2004, n. 19947, in Fam. dir., 2005, p. 150, con nota di BARALE; in Foro it., 2005, I, c. 392; in Vita notar., 2005, I, p. 272. Contra PERRELLA, op. cit., p. 273 s. In materia di affidamento e apparenza cfr. altresì le osservazioni di V. CARBONE, Il comportamento tra le parti tra apparenza e affidamento, in Giur. it., 1993, p. 1043 ss.

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procura espressa o tacita (289) e ciò pare ammissibile a condizione che il coniuge mandatario abbia speso il nome dell’altro coniuge nel compimento del negozio (290), pur senza impiegare particolari formule sacramentali per la contemplatio domini (291).

9. La giurisprudenza contraria alla responsabilità solidale. Conclusioni. Parallelamente all’orientamento sopra illustrato, che, peraltro, ha trovato conferma anche fra

i giudici di merito (292), si è sviluppata un’opposta opinione nella giurisprudenza di legittimità, che – ben consapevole delle innovazioni apportate con la riforma del diritto di famiglia – esclude che il coniuge non contraente sia responsabile dei debiti assunti individualmente dall’altro, quand’anche essi siano finalizzati al soddisfacimento di bisogni familiari, poiché manca un’esplicita deroga «così vistosa» (293) al generale principio di relatività dei contratti ex art. 1372 c.c.

In tale diversa prospettiva, già anticipata all’indomani della riforma da alcune decisioni di merito (294), va radicalmente esclusa l’esistenza, nella l. 151/1975 di un riferimento normativo che consenta di disciplinare l’ipotesi in parola (295) ed analogamente deve respingersi il ricorso a quegli espedienti interpretativi approntati dalla dottrina nel vigore dell’abrogata normativa (296).

La pretesa indispensabilità di una rilevanza esterna dell’obbligo di contribuzione ex art. 143, comma terzo, c.c., infatti, non regge, come peraltro argomenta in modo convincente la stessa S.C.: «è pure certo che tra i coniugi, nell’interno della coppia, ci si possa accordare nel senso che, nei

(289) Precisa il S.C. che «benché la moglie, di regola, sia responsabile in proprio senza impegnare in alcun modo il marito per le

obbligazioni da lei contratte, pur se riconducibili all’interesse della famiglia, tuttavia è da ritenere che il marito sia responsabile contratte in suo nome dalla moglie, oltre che nei casi in cui egli le abbia conferito, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo, tutte le volte in cui sia stata posta in essere un situazione tale da far ritenere, alla stregua del principio dell’apparenza giuridica, che la moglie abbia contratto una determinata obbligazione non già in proprio, ma in nome del marito» (cfr. Cass., 7 luglio 1995, n. 7501, cit.). Nello stesso senso v. anche Cass. 6 ottobre 2004, n. 19947, cit.

(290) Così SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell’altro, cit., p. 146. (291) Cfr. supra, § 7. La non necessità del ricorso a formule sacramentali è affermata anche da Cass., 30 luglio 2004, n. 14626:

«Non è censurabile l’esegesi della clausola contrattuale, dal cui riesame (non consentito in sede di legittimità) i ricorrenti vorrebbero far discendere la conclusione che lo stipulante aveva agito in nome e per conto dei ricorrenti principali, poiché, in proposito, la motivazione del giudice d’appello è logica e coerente, avendo la Corte territoriale escluso ogni potere di rappresentanza dello stipulante, privo della relativa procura proveniente dai ricorrenti. Del resto, seppure è indubitabile che nel contratto che ha per oggetto il trasferimento di beni immobili stipulato dal rappresentante nel nome e per conto del rappresentato, la contemplatio domini non richiede l’uso di formule sacramentali e deve risultare, ad substantiam dallo stesso documento, occorre considerare che costituisce affermazione altrettanto pacifica (Cass., n. 15691/2003; Cass., n. 15235/2001; Cass., n. 1980/96) che l’accertamento sulla sussistenza della spendita del nome del rappresentato è indagine devoluta al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e da errori di diritto».

(292) App. Perugia, 3 aprile 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 662, che si richiama direttamente agli artt. 143, comma terzo, 168, ultimo comma, 170, 179, 186, lett. c), e 215 c.c.; Pret. Brunico, 28 ottobre 1988, in Rep. Foro it., 1988, voce Famiglia, n. 62, in cui il giudice ha ritenuto sussistente la legittimazione passiva in giudizio del coniuge estraneo all’acquisto di mobili della casa qualora sia evidente la destinazione familiare dell’acquisto, in contrasto con il principio ex artt. 1372 e 2740 c.c., anche se tale limitazione pare essere subordinata dalla decisione all’esistenza di un regime di comunione dei beni.

(293) Cass., 18 giugno 1990, n. 6118, cit. Contra COSTANZA, Separazione dei beni e solidarietà debitoria, in Giust. civ., 1990, I, p. 2892; cfr. anche le considerazioni critiche contenute nel commento alla medesima decisione di SCANNICCHIO, in Foro it. 1991, I, c. 832.

(294) Cfr. Pret. Ceglie Messapico, 15 novembre 1977, in Giur. it. 1979, I, 2, c. 34, che esclude la possibilità di rinvenire i fondamenti del «principio solidaristico» nella l. 151/1975 (in particolare negli artt. 143, 147, 148 e 190 c.c., così come innovati dalla citata novella); Trib. Reggio Calabria, 27 gennaio 1979, in Giust. civ. 1980, I, p. 2821, con nota di PANUCCIO; Pret. L’Aquila, 3 aprile 1985, in Giust. civ. 1986, I, p. 2036, con nota critica di BARTOLOMUCCI; Pret. Verona, 31 ottobre 1987, in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, p. 417, con nota di SELVAGGI.

(295) Così Cass., 18 giugno 1990, n. 6118, cit., in cui, correttamente, si osserva che «già questo silenzio del legislatore induce a ritenere che tale pretesa solidarietà non sussiste, in quanto la questione era nota e dibattuta negli anni che accompagnarono l’elaborazione della riforma»; analoga considerazione si rinviene poi anche in Cass., 29 aprile 1992, n. 5063, in Giur. it., 1993, c. 1036, con note di V. CARBONE e CIMEI; Cass., 4 agosto 1998, n. 7640, in Giust. civ., 1999, c. 791; v. inoltre Cass., 4 giugno 1999, n. 5487, in Fam. dir., 1999, p. 496. Dello stesso avviso, in dottrina, V. CARBONE, Ha rilevanza esterna l’obbligo di contribuire al soddisfacimento dei bisogni della famiglia?, cit., p. 1130, il quale tuttavia non condivide l’affermazione del S.C. secondo cui non assume rilevanza, ai fini della determinazione della responsabilità del coniuge non contraente, il regime patrimoniale vigente al momento del contratto, affermazione peraltro confermata anche dalla giurisprudenza successiva (cfr. Cass., 4 agosto 1998, n. 7640, cit.).

(296) Cfr. supra, §§ 2 ss.

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limiti di una razionale, consensuale, divisione dei compiti e degli oneri ex art. 144 c.c., ciascuno dei coniugi si impegni ad intervenire con proprio denaro quando l’altro ha assunto una obbligazione nell’interesse della famiglia: o dando denaro proprio all’altro coniuge perché questo adempia alla obbligazione assunta verso il terzo o adempiendo direttamente, in parte o per il tutto, appunto secondo gli accordi, nei confronti del terzo» (297). Essendo dunque i coniugi a stabilire la natura e la misura dei contributi a carico di ciascuno di essi (v. artt. 143 e 144 c.c.), non si vede perché consentire al terzo di intervenire in tale equilibrio, decidendo di agire per l’intero contro uno dei due coniugi. E neppure può farsi ricorso alle norme in materia di comunione, poiché la ratio su cui esse poggiano non permette una loro applicazione analogica con riguardo al regime patrimoniale primario della famiglia (298).

Ciò non esclude, in tali fattispecie, la possibile operatività del principio dell’apparenza giuridica – come peraltro si è messo in evidenza in precedenza – ma soltanto in quanto il ricorso a tale costruzione giuridica sia adeguatamente giustificato dalla sussistenza dei presupposti richiesti, non essendo sufficienti a tal fine la conoscenza, da parte del terzo, dello stato di coniugato del contraente e la particolare natura e destinazione familiare dei beni compravenduti o comunque oggetto del negozio (299). E dunque appare corretto il principio – ribadito più di recente dalla S.C. – per cui soltanto l’esistenza di univoche indicazioni idonee ad ingenerare nel terzo un ragionevole affidamento sull’esistenza di un mandato può dar luogo a tale situazione di apparenza, non potendo essa venir configurata, ad esempio, nel caso di un trasloco le cui operazioni si siano svolte in completa assenza del preteso «mandante apparente» e sulla base dell’unica considerazione secondo cui sul campanello della casa in cui sono stati trasportati i mobili apparisse il cognome di tale soggetto (300).

Concludendo sul tema, non sembra possa consentirsi con chi ritiene «strano che una esigenza così largamente avvertita non abbia ancora indotto il legislatore a formulare norme regolatrici della materia con l’ausilio della notevole elaborazione dottrinale e giurisprudenziale» (301). Deve, anzi, porsi legittimamente in dubbio che possa ritenersi auspicabile un intervento legislativo nella direzione di una trasposizione nel nostro ordinamento dei principi della solidarité ménagère o della Schlüsselgewalt, così come previste da svariati ordinamenti stranieri (302) e

(297) Cass., 18 giugno 1990, n. 6118, cit. (298) E’ sempre Cass., 18 giugno 1990, n. 6118, cit., ad offrire una convincente spiegazione dell’impossibilità di siffatta

interpretazione analogica. (299) Cass., 29 aprile 1992, n. 5063, cit. (300) Cass., 6 ottobre 2004, n. 19947, cit. (301) MIELE, Responsabilità del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie, cit., p. 379; cfr. inoltre GALLETTA, Il regime di

separazione dei beni, , in AA. VV., Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, II, Torino, 2000, p. 459, la quale ritiene «auspicabile una svolta vera, almeno a livello giurisprudenziale, la quale, sulla scorta di una valorizzazione e di una precisazione del concetto di necessità primarie della famiglia, dichiari l’esistenza di un potere del coniuge di impegnare solidalmente l’altro».

(302) Cfr. l’art. 220 del Code civil francese, in tema di solidarité ménagère, che nella sua versione attuale prevede quanto segue: «Art. 220. 1. Chacun des époux a pouvoir pour passer seul les contrats qui ont pour objet l’entretien du ménage ou l’éducation des enfants :

toute dette ainsi contractée par l’un oblige l’autre solidairement. 2. La solidarité n’a pas lieu, néanmoins, pour des dépenses manifestement excessives, eu égard au train de vie du ménage, à

l’utilité ou à l’inutilité de l’opération, à la bonne ou mauvaise foi du tiers contractant. 3. Elle n’a pas lieu non plus, s’ils n’ont été conclus du consentement des deux époux, pour les achats à tempérament ni pour les

emprunts à moins que ces derniers ne portent sur des sommes modestes nécessaires aux besoins de la vie courante». Cfr. inoltre il § 1357 BGB, sulla già citata Schlüsselgewalt, che nella sua versione attuale stabilisce quanto segue: «§ 1357 (Geschäfte zur Deckung des Lebensbedarfs). (1) Jeder Ehegatte ist berechtigt, Geschäfte zur angemessenen Deckung des Lebensbedarfs der Familie mit Wirkung auch für

den anderen Ehegatten zu besorgen. Durch solche Geschäfte werden beide Ehegatten berechtigt und verpflichtet, es sei denn, dass sich aus den Umständen etwas anderes ergibt.

(2) Ein Ehegatte kann die Berechtigung des anderen Ehegatten, Geschäfte mit Wirkung für ihn zu besorgen, beschränken oder ausschließen; besteht für die Beschränkung oder Ausschließung kein ausreichender Grund, so hat das Vormundschaftsgericht sie auf Antrag aufzuheben. Dritten gegenüber wirkt die Beschränkung oder Ausschließung nur nach Maßgabe des § 1412.

(3) Absatz 1 gilt nicht, wenn die Ehegatten getrennt leben». Analoghe norme vigono, ad esempio, in Svizzera (cfr. art. 166, terzo comma, del codice civile, secondo cui «Con i propri atti,

ciascun coniuge obbliga se stesso e, in quanto non ecceda il potere di rappresentanza in modo riconoscibile dai terzi, solidalmente anche l’altro») e nei Paesi Bassi (cfr. l’art. 85 cpv. del Burgerlijk Wetboek, secondo cui: «De ene echtgenoot is verplicht aan de andere die met hem samenwoont, ten behoeve van de gewone gang van de huishouding voldoende gelden ter beschikking te stellen;

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

addirittura sovente estese alle coppie di fatto, purché legate da apposito patto (303). Ciò risulta tanto più vero se si pone mente al fatto che in quegli stessi sistemi che da tempo conoscono la responsabilità solidale per i debiti contratti nell’interesse della famiglia, si comincia seriamente a dubitare che siffatta regola serva veramente a realizzare in concreto la ratio che da più parti era stata addotta per giustificarla: vale a dire che la solidarité ménagère servirebbe a «assurer le crédit du ménage» (304). L’analisi della giurisprudenza più recente d’oltralpe mostra infatti che l’art. 220 del Code è vieppiù invocato in materia di responsabilità extracontrattuale, mentre i moderni mezzi di pagamento (si pensi, in particolare, alle forme di acquisto a credito e all’utilizzo delle carte di credito) fanno sì che «la protection du tiers ne nécessite pas l’existence d’une solidarité légale». La responsabilità solidale non ha più la funzione «d’ouvrir un crédit au ménage»: la sua esistenza «ne semble donc plus pertinente» (305).

D’altro canto – e per tornare alla giurisprudenza e alla dottrina di casa nostra – di fronte alla sempre più accentuata indipendenza economica e giuridica dei coniugi, resa, oltre tutto, evidente dalla in altra sede illustrata opzione «in massa» delle nuove coppie per il regime di separazione dei beni (306), v’è da chiedersi se abbia senso continuare a «giocare sull’equivoco» ingenerato dall’anfibologia, già segnalata (307), del termine «solidarietà».

Se, invero, appare indiscutibile che tale principio, inteso come regola morale «solidaristica», deve indubbiamente ispirare i rapporti tra i coniugi, secondo quanto del resto desumibile dall’art. 143 c.c., è altrettanto indubbio che non per questo debba intendersi come necessariamente «solidale» (ai sensi e per gli effetti degli artt. 1292 ss. c.c.) ogni obbligazione contratta da un coniuge nell’interesse della famiglia, posto che, come già ribadito in precedenza, siffatta regola altro non fa che avvantaggiare il terzo creditore (308), consentendogli di soddisfare la sua pretesa anche, e per l’intero, sul coniuge estraneo al negozio. E sostenere che il siffatto principio sia posto a tutela del coniuge debole è, almeno in linea teorica, asserto tutto da dimostrare: il sorgere di una responsabilità solidale e non sussidiaria – come invece è, ad esempio, quella di cui all’art. 190 c.c. – consente al terzo creditore di agire direttamente e per l’intero credito anche sul coniuge estraneo all’obbligazione, di fatto raddoppiando le possibilità di vedere soddisfatte le sue pretese, senza che da ciò derivi la necessità di rivolgersi preventivamente all’effettivo contraente, a prescindere dalle sue maggiori o minori disponibilità economiche (309).

Ferma restando, dunque, la regola di cui all’art. 1372 c.c., potrà riconoscersi una responsabilità solidale del coniuge non agente solo allorquando, sulla base di un’analisi da svolgersi caso per caso, possa desumersi dalle circostanze e dal comportamento delle parti il tacito conferimento di una procura da un coniuge all’altro e l’esplicita o implicita spendita del nome del primo da parte del secondo (310). 10. La responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte nell’interesse del ménage di fatto. wonen echtgenoten in onderling overleg niet samen, dan is de ene echtgenoot verplicht aan de andere voldoende gelden ter beschikking te stellen ten behoeve van de gewone gang van diens huishouding»). Per un’analisi comparativa sui sistemi francese, svizzero e olandese di solidarité ménagère cfr. BRAAT, Indépendance et interdépendance patrimoniales des époux dans le régime matrimonial légal des droits français, néerlandais et suisse, Berne, 2004, p. 47 ss.

(303) Cfr. infra, § 10. (304) Cfr. DEKEUWER-DEFOSSEZ, Séparation des époux et solidarité ménagère, in Droit et patrimoine, Décembre 1995, p. 49 ss. (305) Sul punto v. ampiamente BRAAT, op. cit., p. 52 ss. (306) Cfr., anche per gli ulteriori rinvii, OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile.

Commentario fondato da Schlesinger e continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 6 ss. (307) Cfr. supra, § 2. (308) Sul punto v. BARALE, op. loc. ultt. citt. In senso contrario cfr. tuttavia PERCHINUNNO, op. cit., p. 165, secondo cui

«l’attribuzione di un beneficio al creditore funziona solo da strumento di pressione per raggiungere quella tutela». (309) Cfr. BARALE, op. loc. ultt. citt. (310) Sul tema v. OBERTO, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 153 ss., 173 ss.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

Giunti a questo punto, vi è da chiedersi quale sia la posizione dei conviventi more uxorio rispetto alle questioni sopra esaminate. Come si è già avuto modo di accennare (311), non mancano ordinamenti stranieri che, sul solco della radicata esperienza della solidarité ménagère tra coniugi, hanno ritenuto di poter estendere la soluzione prevista in quella sede anche al caso dei conviventi: quanto meno di quelli che abbiano inteso «solennizzare» il loro rapporto tramite la stipula di un apposito patto o contratto.

E’ il caso, ad esempio dell’art. 515-4 cpv. del Code civil francese, introdotto dalla legge sui PACS (art. 1, legge nº 99-944 del 15 novembre 1999), secondo il quale «Les partenaires sont tenus solidairement à l’égard des tiers des dettes contractées par l’un d’eux pour les besoins de la vie courante et pour les dépenses relatives au logement commun». Similmente, il § 8 cpv. del Gesetz zur Beendigung der Diskriminierung gleichgeschlechtlicher Gemeinschaften: Lebenspartnerschaften stabilisce che, per le coppie omosessuali che abbiano stipulato una eingetragene Lebenspartnerschaft, «§ 1357 [cioè la norma che, come si è visto, introduce per i coniugi la regola della Schlüsselgewalt] und die §§ 1365 bis 1370 des Bürgerlichen Gesetzbuchs gelten entsprechend». Sotto il profilo della tecnica legislativa potrà notarsi che, mentre l’opzione francese consiste nella nuova formulazione di una regola ricalcata su quella concernente la solidarité ménagère coniugale, ma con essa non esattamente coincidente (difetta infatti per i concubins « pacsés » ogni richiamo ai limiti di cui all’art. 220, secondo e terzo comma, Code civil) (312), la soluzione germanica consiste in un rinvio puro e semplice al paragrafo del BGB che disciplina l’istituto relativamente ai coniugi (313).

Anche in Italia chi scrive ha legato la soluzione del problema in esame alla stipula di un contratto di convivenza (314), ben potendosi ipotizzare che nel patto i conviventi inseriscano clausole volte a disciplinare l’attività negoziale che ciascuno di essi, al fine di soddisfare le esigenze del ménage, può svolgere contraendo con terzi. In particolare, cogliendo un suggerimento della dottrina straniera, si potrebbe pensare a un esplicito reciproco conferimento di procura (revocabile)

(311) Cfr. supra, § 9. (312) Osservano al riguardo MÉCARY e LEROY-FORGEOT, Le PACS, Paris, 2000, p. 71 s. che, dal momento che i partners non

beneficiano del limite alla responsabilità solidale fissato dagli artt. 220, cpv. e terzo comma, cit., essi si trovano ad avere «un engagement à l’égard des tiers plus important que celui des époux, dont on ne comprend pas la justification». La dottrina d’Oltralpe sembra comunque intenzionata a non estendere ai concubins pacsés la limitazione in oggetto, prevista dall’art. 220 cit. per i coniugi: cfr. per esempio COURBE, Droit de la famille, Paris, 2003, p. 233 s. Si noti poi che la legge francese prevede ancora che la solidarietà valga «pour les dépenses relatives au logement commun», ciò che è stato interpretato come comprensivo non solo dei canoni di locazione e delle spese accessorie, bensì anche delle mensilità di un mutuo immobiliare che sia stato contratto da un partner per finanziare l’acquisto della casa familiare (cfr. ALLEAUME, Solidarité contre solidarité. Etudes comparatives des avantages respectifs du mariage et du PACS au regard du droit du crédit, in D. 2000, chron. 450). Sul PACS e per ulteriori richiami cfr. inoltre RIVA, Il PACS o la convivenza registrata in Francia, in Contratto e impresa/Europa, 2005, p. 742 ss.; BONINI BARALDI, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, Milano, 2005, p. 86 ss.

(313) Pure in Spagna il legislatore è invervenuto sul tema. Così la legge catalana 10/1998, de 15 de julio, de uniones estables de pareja stabilisce agli artt. 4 e 5 quanto segue:

«Artículo 4. Gastos comunes de la pareja. 1. Tienen la consideración de gastos comunes de la pareja los necesarios para su mantenimiento y el de los hijos y las hijas

comunes o no que convivan con ellos, de acuerdo con sus usos y su nivel de vida, y especialmente: a. Los originados en concepto de alimentos, en el sentido más amplio. b. Los de conservación o mejora de las viviendas u otros bienes de uso de la pareja. c. Los originados por las atenciones de previsión, médicas y sanitarias. 2. No tienen la consideración de gastos comunes los derivados de la gestión y la defensa de los bienes propios de cada miembro,

ni, en general, las que respondan al interés exclusivo de uno de los miembros de la pareja. Artículo 5. Responsabilidad. Ante terceras personas, ambos miembros de la pareja responden solidariamente de las obligaciones contraídas por razón de los

gastos comunes que establece el artículo 4, si se trata de gastos adecuados a los usos y al nivel de vida de la pareja; en cualquier otro caso responde quien haya contraído la obligación».

Per le altre disposizioni che contengono principi analoghi cfr., per l’Aragona, la legge 6/1999, del 25 marzo 1999 (relativa a parejas estables no casadas); per la Navarra cfr. la Ley Foral 6/2000 del 3 luglio 2000 (para la igualdad jurídica de las parejs estables); per le Isole Baleari cfr. la legge 18/2001 del 19 dicembre 2001 (de Pareja Estables); per la Comunidad Autónoma di Valencia cfr. la legge 1/2001 del 6 aprile 2001 (por la que se regulan las uniones de hecho); per la Comunidad Autónoma di Madrid cfr. la legge 11/2001 del 19 dicembre 2001 (de Uniones de Hecho de la Comunidad de Madrid); per le Asturie cfr. la legge 4/2002 del 23 maggio 2002 (de Parejas Estables).

(314) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., 1991, p. 272 ss. Per la dottrina tedesca v. GRZIWOTZ, Partnerschaftsvertrag für die nichteheliche Lebensgemeinschaft, München, 1998, p. 21 s.

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in relazione ai negozi necessari a soddisfare le quotidiane esigenze della vita in comune (315). L’espediente potrebbe servire a tutelare non solo i creditori (per lo meno in tutti i casi in cui il patrimonio del convivente non agente offrisse maggiori garanzie), bensì anche il partner che materialmente si occupa del disbrigo delle faccende domestiche e dei figli, cui sarebbe consentito sottrarsi alle pretese di coloro che hanno fornito beni o servizi ordinati a nome del rappresentato.

Si eviterebbe in tal modo la necessità di ricorrere a quegli espedienti enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, soprattutto all’estero, per affermare una responsabilità anche in capo al convivente rimasto estraneo al negozio, e che, a giudizio di chi scrive, sono tutti inevitabilmente destinati ad abortire. Si pensi, innanzitutto, alla già ricordata teoria del mandat domestique che, elaborata in Francia tra Otto e Novecento in relazione alle obbligazioni contratte dalla moglie presso terzi nell’interesse della famiglia (purché nei limiti di un normale ménage familiare), allorquando era ancora richiesta l’autorizzazione maritale agli acquisti (316), venne estesa, per una supposta identità di ratio, alle obbligazioni contratte dalla convivente (317), salvo essere poi abbandonata, dopo che l’abrogazione dell’autorisation maritale (318) comportò la sparizione dell’istituto in relazione alla famiglia legittima (319).

Nemmeno appaiono invocabili, se non in casi del tutto marginali, teorie come quelle dell’apparenza, o della tutela dell’affidamento, che pure hanno riscosso un gran successo all’estero nella materia in discorso (320) e la cui applicazione è stata proposta anche in Italia (321). Invero,

(315) Cfr. KUNIGK, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, Stuttgart,

1978, pp, p. 125 s.; cfr. inoltre il «modello di Leida», redatto ormai circa vent’anni or sono sotto la direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città, in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988, art. 3, comma terzo («les deux parties sont les mandataires de l’autre partie pour faire des actes juridiques au nom des deux parties. Chacune des parties est obligée d’agir aussi au nom de l’autre partie»). Contra LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, in Münchener Vertragshandbuch, 4, Bürgerliches Recht, München, 1986, p. 928, secondo il quale sarebbe opportuno escludere esplicitamente ogni possibilità di agire per ciascuno dei partners a nome e per conto dell’altro «ohne besondere Vollmacht».

(316) Sul tema v. supra, § 3. (317) Cfr. BAUDRY-LANCATINERIE, op. loc. citt., (secondo cui la ratio del mandato domestico andava ricercata nel fatto che «la

vita in comune fa supporre, in ciascuno dei due coniugi, l’intenzione di partecipare alle spese della famiglia»); BATAILLE, Le mandat domestique hors mariage, Caen, 1923, p. 77; JOSSERAND, Cours de droit civil positif français, Paris, 1932, I, p. 615; ESMEIN, Le problème de l’union libre, in Rev. trim. dr. civ., 1935, p. 756 ss., p. 784; CHARLIER, Le mandat de la concubine pour les achats du ménage, in Hommage à Léon Graulich, Liège, 1957, p. 606; JEANMART, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage, Bruxelles, 1975, p. 248 ss.; LABROUSSE-RIOU, Droit de la famille, 1. Les personnes, Paris, New York, Barcelone, 1984, p. 243. Per la giurisprudenza v. Cass. Civ., 29 aprile 1969, in J.C.P., 1969, II, 15972; App. Paris, 21 novembre 1923, in Gaz. Pal., 1924, 1, p. 187; App. Paris, 23 luglio 1932, ivi, 1932, 2, p. 423; App. Rouen, 30 ottobre 1973, in D., 1974, Som., p. 19; Trib. Nice, 27 ottobre 1909, in D., 1912, 2, p. 216; Trib. Nogent-sur-Marne, 28 gennaio 1910, in Gaz. Pal., 1910, I, p. 397; Trib. Paris, 14 novembre 1912, in Rev. trim. dr. civ., 1913, p. 800; Trib. Paris, 21 novembre 1923, ivi, 1924, p. 350; Trib. Lagny, 4 giugno 1954, in J.C.P., 1955, p. 2395. Contra, nel senso che la finzione del mandat domestique avrebbe comunque presupposto l’esistenza di una famiglia legittima v. BAUDRY-LACANTINERIE, op. loc. citt.; TARANTO, voce Concubinato (diritto civile), in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, 1055.

(318) Disposta con legge 17 luglio 1919, n. 1176. Un ulteriore motivo di abbandono della teoria del mandato domestico in relazione alla famiglia legittima è collegato alla legge 13 luglio 1965, n. 570, che modificò il testo dell’art. 220 del Code, ai sensi del quale venne (come si è già detto nel testo) da allora attribuito a ciascuno dei coniugi disgiuntamente il potere di concludere i contratti «qui ont pour objet l’entretien du ménage ou l’éducation des enfants», per i cui debiti è stabilita la responsabilità solidale. La giurisprudenza, prima dell’introduzione del PACS, o comunque in relazione a fattispecie anteriori, ebbe a negare l’estensibilità in via analogica di tale norma ai conviventi (v. Cass. Civ., 11 gennaio 1984, in D., 1984, I.R., p. 275; Cass. Civ., 2 maggio 2001, in Bull. Civ., 2001, n. 111, p. 53; cfr. inoltre App. Bordeaux, 15 marzo 1983, riportata da RUBELLIN-DEVICHI, La condition juridique de la famille de fait en France, loc. cit., n° 7).

(319) Per un’applicazione al campo dei rapporti tra coniugi della teoria del mandato tacito v. Cass., 23 settembre 1986, n. 5709, cit. (sul tema cfr. inoltre supra, § 3). Si noti che un analogo istituto è conosciuto anche dai sistemi di common law, tanto in relazione alla famiglia legittima che a quella di fatto (v. P. GALLO, L’arricchimento senza causa, Padova, 1990, p. 527 ss.). E’ evidente che la costruzione in esame può comunque trovare applicazione soltanto in relazione agli affari relativi all’ordinario svolgimento del ménage familiare: così essa non potrebbe certo essere invocata nell’ipotesi di alienazione immobiliare effettuata a nome del partner ma in difetto di procura (per un caso del genere cfr. App. Versailles, 29 settembre 1989, in D., 1989, I.R., p. 297).

(320) L’applicazione al caso di specie della teoria dell’apparence trompeuse è stata proposta in Francia quale surrogato di quella del mandato domestico: v. JEANMART, op. cit., p. 250 ss. con ampi richiami alla giurisprudenza; RODIERE, Le ménage de fait devant la loi française, in AA. VV., Les situations de fait, Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, p. 65; MALAURIE e AYNES, Cours de droit civil, La famille, Paris, 1987, p. 133; PROTHAÏS, Dettes ménagères des concubins: solidaires, in solidum, indivisibles ou conjointes ? (après l’arrêt Civ. 1re, 11 janv. 1984), in D., 1987, Chr. XLII, p. 237 ss.; Cass. Civ., 29 aprile 1979, in J.C.P., II, 15.972; App. Rouen, 30 ottobre 1973, in D., 1974, Som., p. 19. Prima di divenire inutile, quanto meno per i concubins pacsés, essa è stata esportata con notevole successo in numerosi altri paesi europei. Per il Belgio v. PIRET, Le ménage de fait en droit civil belge, in AA. VV., Les situations de fait, Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique

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come si è avuto modo di vedere per ciò che attiene ai rapporti tra i coniugi, il ricorso all’apparence trompeuse non risulta praticabile se non nel caso in cui il convivente agente abbia dichiarato o comunque reso evidente di contrarre anche in nome dell’altro. E’ noto infatti che tale istituto postula un negozio posto in essere da un falsus procurator (322), il quale abbia agito ponendo in essere quella contemplatio domini, che, come si è già detto (323), costituisce quel riconoscibile riferimento alla sfera patrimoniale altrui che, se non richiede necessariamente la menzione espressa del nome del dominus, presuppone però comunque la manifestazione dell’intento del dichiarante di concludere il negozio non per sé, ma in nome e per conto di un altro soggetto.

Trattasi dunque di situazione assai raramente riscontrabile nelle fattispecie in esame, che vedono di solito uno dei conviventi agire esclusivamente in nome proprio, anche se obiettivamente nell’interesse del ménage. Non va poi trascurato il fatto che la teoria dell’apparenza viene invocata per porre rimedio a una situazione in cui il contratto, in quanto concluso (a nome altrui) dal falso rappresentante, non potrebbe produrre effetto né verso di questi, né verso il rappresentato. Nel caso di cui si discute, invece, difetta la spendita del nome altrui, e pertanto il negozio produce senz’altro effetto nei confronti del convivente che lo ha stipulato, facendo comunque acquistare al terzo un debitore (324). française, cit., p. 78 s. (secondo cui, pur non potendosi estendere ai conviventi la teoria del mandato domestico tra coniugi, tuttavia, entrambi possono essere chiamati a rispondere solidalmente in quanto «vivant comme s’ils étaient mari et femme, créent une apparence trompeuse, de laquelle les tiers ont pu déduire l’existence du mandat domestique. Ces tiers ont cru ainsi avoir le faux mari pour débiteur»); per la Svizzera v. NOIR - MASNATA, Les effets patrimoniaux du concubinage et leur influence sur le devoir d’entretien entre époux séparés, Genève, 1982, p. 30, nota 94; per la Spagna (per il periodo anteriore all’entrata in vigore delle legislazioni delle comunità autonome che, come si è appena visto, sono venute ad introdurre ipotesi di responsabilità solidale per le obbligazioni contratte nell’interesse della pareja de hecho) v. ESTRADA ALONSO, Las uniones extramatrimoniales en el derecho civil español, Madrid, 1986, p. 312 ss.; GARCIA CANTERO, El concubinato en el Derecho Civil Frances, Cuadernos del Instituto juridico Español, Madrid, 1956, p. 182. Anche in Germania, ove pure – prima dell’entrata in vigore della citata riforma che ha introdotto la eingetragene Lebenspartnerschaft – veniva comunemente negata l’applicabilità ai conviventi della regola di cui al § 1357 BGB (Schlüsselgewalt), in base a cui ciascuno dei coniugi può disgiuntamente compiere tutti i negozi «zu angemessen Deckung des Lebensbedarfs der Familie mit Wirkung auch für den anderen Ehegatten», si ammetteva che lo stesso risultato potesse essere raggiunto «nach den Grundsätzen über die Duldungs- oder Anscheinsvollmacht»: v. REBMANN e SÄCKER, Münchener Kommentar zum BGB, 5, München, 1978, p. 136; SCHLÜTER, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, Berlin - New York, 1981, p. 23 s.; KUNIGK, op. cit., p. 100; STRÄTZ, Rechtsfragen des Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 307; ROTH-STIELOW, Rechtsfragen des ehelosen Zusammenlebens von Mann und Frau, in Juristische Rundschau, 1978, p. 234; sull’argomento cfr. anche KÄPPLER, Familiäre Bedarfsdeckung im Spannungsfeld von Schlüsselgewalt und Güterstand, in Archiv für die civilistische Praxis, 179, 1979, p. 285 ss. La teoria dell’apparenza viene invocata infine anche in Brasile: v. RIZZARDO, Casamento e concubinato. Efeitos patrimoniais, Rio de Janeiro, 1985, p. 212 ss.; DE MOURA BITTENCOURT, O concubinato no direito, Rio de Janeiro, 1969, p. 82 s.

(321) Cfr. D’ANGELI, La famiglia di fatto, Milano, 1989, p. 414 s. In generale sulle teorie dell’apparenza e della tutela dell’affidamento v. D’AMELIO, voce Apparenza del diritto, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1957, p. 714 ss.; FALZEA, voce Apparenza, in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 682 ss.; MOSCHELLA, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, Milano, 1973, passim e p. 61 ss.; SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, p. 102.

(322) In questo senso v., tra le tante, Cass., 15 ottobre 1966, n. 2472, in Foro pad., 1968, I, 778; Cass., 27 ottobre 1966, n. 2666, in Rep. Foro it., 1966, voce Obbligazioni e contratti, n. 440; Cass., 24 novembre 1981, n. 6244, in Rep. Foro it., 1981, voce Contratto in genere, n. 59; Cass., 7 aprile 1979, n. 2006, in Rep. Foro it., 1979, voce Rappresentanza nei contratti, n. 13; Cass., 7 gennaio 1981, n. 102, ivi, 1981, voce cit., n. 7; Cass., 27 giugno 1983, n. 4406. Cfr. però anche le osservazioni critiche di MESSINEO, La sorte del contratto stipulato dal rappresentante apparente («falsus procurator»), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, p. 394 ss., e di TORRENTE, nota a Cass., 14 dicembre 1957, n. 4703, in Foro it., 1958, I, c. 391.

(323) Cfr. supra, § 7. (324) A ciò si aggiunga ancora che in molti dei casi in oggetto il problema della tutela dell’affidamento sarebbe in pratica

superato, in presenza della contemplatio domini, dalla ratifica tacita da parte dell’altro convivente (per esempio, mediante utilizzazione della cosa acquistata dal partner). Le considerazioni di cui al testo non mutano nemmeno inquadrando la fattispecie nell’ambito della procura tacita (e quindi non meramente apparente), supponendo cioè che il convivente che non ha agito abbia veramente, anche se in maniera implicita, conferito il potere rappresentativo al partner che ha stipulato con il terzo. Anche in questo caso, infatti, la riconduzione degli effetti del negozio al primo presuppone pur sempre la spendita del suo nome da parte di chi ha stipulato (v. MOSCHELLA, op. cit., p. 185 ss.).

E’ da segnalare, ancora, la posizione di ALAGNA, La famiglia di fatto al bivio: rilevanza di singole fattispecie o riconoscimento generalizzato del fenomeno?, in Giust. civ., 1982, II, p. 39 s., secondo cui la responsabilità (solidale) del convivente non agente in ordine alle obbligazioni contratte dall’altro e attinenti al ménage familiare sarebbe ricavabile in considerazione del fatto che «lo strumento della solidarietà è previsto dalla legge (1298 c.c. arg. a contr.) in tutti i casi in cui un’obbligazione venga assunta nell’interesse comune e manchi un precetto normativo inteso ad escludere la natura solidale dell’obbligo (art. 1294 c.c.)»; l’istituto della solidarietà assumerebbe quindi «carattere di regola generale applicabile a tutte le ipotesi riconducibili allo schema legislativamente fissato. E come vi rientrano le obbligazioni assunte dai coniugi, vi rientrano anche quelle assunte dai conviventi». La conclusione sembra però trascurare il fatto che il disposto dell’art. 1298 c.c. presuppone pur sempre un’obbligazione contratta da

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Per tutti i motivi testé illustrati, dunque, appare chiaro che l’espediente del reciproco conferimento di una procura, in tanto consente di risolvere il problema, in quanto il partner agente usi l’accortezza di esprimere ogni volta quella contemplatio domini che costituisce condizione imprescindibile per l’operatività delle norme in tema di rappresentanza, ciò che, per le ragioni già espresse, appare assai difficilmente immaginabile nei negozi di cui si discute (325).

Di maggior utilità potrebbe rivelarsi semmai un patto tra conviventi circa la ripartizione interna delle obbligazioni (ordinarie e straordinarie) del ménage, con eventuale specificazione delle singole spese alle quali entrambi i contraenti sono tenuti a concorrere, nonché delle rispettive percentuali (326). E’ evidente che un accordo del genere potrebbe essere assunto in seno a un programma più generale, nel quale si potrebbero prevedere anche impegni circa la ripartizione dei rispettivi compiti analogamente a quanto avviene per quell’accordo che tra i coniugi va sotto il nome di «indirizzo concordato» (cfr. art. 144 c.c.) (327). Anche in quest’ambito occorrerà però prestare attenzione a non inserire clausole contrastanti con l’ordine pubblico in quanto eccessivamente restrittive della libertà d’azione (per esempio: mi impegno a non lavorare fuori casa, obbligandomi invece a esplicare la mia attività nell’ambito del solo lavoro domestico, ecc.).

Proprio su questo tema sarà interessante vedere come i conviventi possano assumere convenzionalmente un obbligo di contribuzione senza rispettare il criterio della proporzionalità «in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo» scolpito per i coniugi dall’art. 143 c.c., norma sicuramente non estensibile in via analogica ai conviventi more uxorio, attesa l’irriferibilità alla famiglia di fatto del disposto dell’art. 160 c.c. Appare quindi senz’altro ammissibile una pattuizione con la quale le parti si impegnino a contribuire in misura paritaria al ménage, pur in presenza di una situazione di squilibrio patrimoniale e reddituale delle medesime (328), nonostante che una decisione di merito abbia ritenuto di dover risolvere proprio questo specifico problema in senso contrario (329).

una pluralità di soggetti, ciò che nel caso preso in esame non avviene. Del tutto fuori luogo appare, infine, il richiamo all’art. 186 c.c., posto che tale norma non prevede una responsabilità solidale dei coniugi in ordine alle obbligazioni contratte da uno solo di essi nell’interesse della famiglia (in questo senso v. invece D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 415), ma si limita ad individuare quei creditori la cui azione esecutiva è disciplinata dall’art. 190 c.c. Il problema della configurabilità di una Sclüsselgewalt in Italia dovrebbe, semmai, essere affrontato con riguardo all’art. 144, secondo comma, c.c. (in questo senso v. per tutti CORSI, op. cit., p. 40 ss., nonché i richiami effettuati supra, § 6), norma che è però certamente inestensibile alla famiglia di fatto.

(325) Nel caso poi si tratti di prestazioni di valore considerevole sembra difficile immaginare che il terzo non pretenda comunque un’assunzione di debito a nome proprio anche da parte del convivente agente in nome e per conto dell’altro.

(326) Cfr. WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage: Tradition and Change, in California Law Review, 62 (1974), p. 1250, il quale suggerisce, in alternativa, due sistemi, di cui il primo consiste nell’individuare quali saranno le singole spese che dovranno essere sopportate singolarmente da ciascuno dei partners, mentre l’altro prevede invece la specificazione nel contratto che, in relazione ad una serie di spese, entrambi i conviventi saranno tenuti a contribuire, ciascuno in una certa proporzione. Per analoghi suggerimenti v. anche il «modello di Leida», art. 3, comma primo (in AA. VV., Couple et modernité, cit., p. 521). Sul contratto di contribuzione v. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 s.; ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 49 ss.

(327) Per l’opportunità di un’espressa Aufgabenanteilung si pronunzia KUNIGK, op. cit., p. 124 s. Analoghe considerazioni in WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1251; FLEISCHMANN, Marriage by Contract: Defining the Terms of the Relationship, in Family Law Quarterly, 8, 1974, p. 27 ss.

(328) Sul tema cfr., anche per i necessari rinvii, OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 49 ss.; sulla non estensibilità alla famiglia di fatto dell’art. 143 c.c. cfr. Pret. Milano, 8 febbraio 1990, in Foro it., 1991, I, c. 329; Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. dir., 2000, p. 501, con nota di MORELLO DI GIOVANNI.

(329) Trib. Savona, 29 giugno 2002 in Fam. dir., 2003, p. 596, con nota di FERRANDO. Nella specie, una donna aveva convenuto in giudizio il suo ex compagno, chiedendone la condanna al pagamento della somma di € 5.164,57 (10.000.000 di lire) sulla base di una causa petendi ricostruita nei termini seguenti dal giudicante: «poiché, contrariamente agli impegni e alle obbligazioni assunte in sede di stipula del contratto di convivenza more uxorio, il convenuto, al contrario dell’attrice, non avrebbe partecipato al soddisfacimento delle esigenze della famiglia di fatto in misura eguale e paritaria». Esperita istruttoria orale (è da supporsi, in forza del disposto del capoverso dell’art. 2721 c.c.), il tribunale dà atto in sentenza che, secondo quanto dichiarato da un teste, le parti «in presenza dello stesso teste, avevano verbalmente e concordemente stabilito che avrebbero partecipato in misura eguale alle spese inerenti la famiglia di fatto». Posto, dunque, di fronte ad un’azione di adempimento di un contratto di contribuzione tra conviventi more uxorio, il tribunale applica analogicamente l’art. 143 c.c. per «correggere» il contenuto del contratto che, anche alla luce del criterio ex art. 1366 c.c., viene dal giudicante «inteso in modo generico e di massima», facendo «salve le differenti possibilità economiche e lavorative dei componenti in un dato momento». Di conseguenza – accertato in fatto lo squilibrio reddituale e

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11. Segue. Accordi programmatici tra conviventi e attività negoziale con i terzi. Cenni alla rilevanza esterna degli accordi dei conviventi relativi alla prole.

Di particolare interesse – in considerazione della loro funzione preventiva rispetto a possibili

controversie al momento dello scioglimento – paiono poi tutte quelle clausole, contenute in alcuni modelli stranieri di contratti di convivenza, intese ad attribuire (o a negare) un determinato significato negoziale ai comportamenti che i conviventi terranno in futuro, durante il ménage, sia nei reciproci rapporti, che con riguardo all’attività negoziale verso terzi.

Così, a seconda dei casi e delle intenzioni dei partners, è opportuno chiarire preventivamente la sorte delle attribuzioni patrimoniali che le parti dovessero eventualmente effettuarsi «a senso unico» (senza specificarne la natura), magari nell’ambito di un negozio stipulato con un terzo. Si pensi al caso «classico» dell’acquisto di un bene, magari di rilevante entità, presso un terzo, con pagamento del prezzo in tutto o in parte a carico di un convivente e «intestazione» del medesimo a nome dell’altro. Al riguardo il contratto di convivenza potrebbe previamente stabilire, per atti del genere, vuoi una presunzione di mutuo (330), vuoi una presunzione di liberalità dell’atto, fatto salvo il caso di un’espressa, eventuale, pattuizione di una restitutio (331). Allo stesso modo è consigliabile disciplinare l’eventuale rimborso per l’utilizzazione di beni del compagno (332), nonché l’onerosità o meno dei servizi prestati da ciascuno nelle faccende domestiche, oppure a sostegno dell’attività dell’altro, prevedendo in anticipo che, pur non stabilendosi reciproci (o unilaterali) obblighi in tal senso, siffatte prestazioni lavorative, eventualmente di fatto eseguite nel corso della durata del ménage, vadano o meno retribuite, presumendosi le stesse eseguite nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato oneroso o, per converso, di una prestazione resa affectionis vel benevolentiae causa (333).

L’opinione di cui sopra, già espressa dallo scrivente (334), è stata criticata da chi (335), con particolare riguardo agli accordi diretti a chiarire preventivamente la sorte delle attribuzioni patrimoniale in favore della parte attrice e, in particolare la circostanza che l’uomo «non sembra (…) disponesse di redditi particolari», mentre la donna «aveva un reddito costante e sicuro» – il giudice respinge la domanda.

La motivazione viene così a trovarsi «in bilico» tra due rationes decidendi inconciliabili: la prima, che fa leva sull’inderogabilità del canone espresso dall’art. 143 c.c., ciò che dovrebbe comportare il riconoscimento (quanto meno in via incidentale) della nullità dell’intesa, ex art. 1418 c.c.; la seconda, che si basa sull’interpretazione secondo buona fede di un negozio che, per poter essere interpretato, dovrebbe essere ritenuto valido… Peraltro nessuna delle due strade appare percorribile: non la prima, perché – come si è detto – l’art. 143 c.c. (la cui inderogabilità è sancita, tra l’altro, per i soli coniugi, dall’art. 160 c.c.) non appare in alcun modo riferibile (sub specie obligationis civilis) alla famiglia di fatto (in senso critico, sul punto, rispetto alla decisione, cfr. anche la nota di commento di FERRANDO, Le contribuzioni tra conviventi fra obbligazione naturale e contratto, cit., p. 600); non la seconda, perché in claris non fit interpretatio, né si comprende per qual motivo (non giustificato da emergenze processuali, quanto meno citate in sentenza) sarebbe stato presente, al momento della conclusione del contratto, un «ragionevole affidamento» sul fatto che l’impegno avrebbe dovuto essere riferito alle «differenti possibilità economiche e lavorative dei componenti in un dato momento», anziché ai verba chiaramente usati dalle parti e che ben avrebbero, tra l’altro, potuto ingenerare un altrettanto ragionevole affidamento in capo alla donna, circa la futura divisione a metà di tutte le spese afferenti al ménage.

(330) Magari limitata alle spese di carattere straordinario (mantenimento agli studi, acquisto di un veicolo, di un computer...) o comunque a quelle di una determinata entità (usando, per esempio, come parametro, lo stipendio del disponente). Sull’argomento cfr. anche LANGENFELD, op. cit., p. 927, 929, nonché il Modello svizzero redatto dall’Association des Centres Sociaux Protestants e allegato a UNION INTERNATIONALE DU NOTARIAT LATIN, Problèmes juridiques du couple non marié, Amsterdam, 1987, p. 22 (art. 4.3).

(331) LANGENFELD, op. cit., p. 936 (il quale riporta l’esempio di una segretaria che mantenga agli studi il convivente). E’ evidente però che un accordo del genere non varrebbe ad esonerare le parti dal rispetto, per ogni singola attribuzione, della forma solenne, in tutti i casi in cui la stessa è richiesta dalla normativa in tema di donazione.

(332) LANGENFELD, op. cit., p. 927 (che suggerisce di escludere ogni forma di Nutzungsentschädigung per i beni apportati in godimento).

(333) Cfr. LANGENFELD, op. cit., p. 936, il quale consiglia di escludere espressamente ogni compenso per tali prestazioni, salva la stipula di apposito contratto di lavoro. Del tutto inutile appare invece l’assunzione dell’impegno di non concludere determinati tipi di negozi, quali l’acquisto in comune di beni, ovvero l’effettuazione di donazioni tra gli stessi conviventi (come pure consigliato da una parte della dottrina tedesca: v. LANGENFELD, op. cit., p. 927), posto che la successiva stipulazione di uno dei contratti «vietati» manifesterebbe nella maniera più evidente l’intento delle parti di derogare all’obbligo preventivamente assunto.

(334) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 280 s.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

patrimoniali appena definite «a senso unico», nonché l’onerosità o meno dei servizi prestati, ha rilevato che tali patti «sono diretti a stabilire preventivamente la causa dei vari negozi che in futuro stipuleranno i conviventi nello svolgimento della loro convivenza senza espressamente indicarne la causa». Sulla base di tale premessa se ne è concluso che le clausole qui consigliate contrasterebbero con la regola secondo cui «tutti i negozi, dato il principio della causalità delle attribuzioni patrimoniali accolto dal nostro ordinamento, devono indicare, a pena di nullità, la loro causa», che non potrebbe «essere semplicemente determinabile mediante la relatio ad un precedente negozio normativo». Sul punto sarà sufficiente ricordare, tanto per portare un paio di esempi, come la nostra più autorevole dottrina ammetta – e da tempo – la piena validità di negozi traslativi a causa esterna (336), ipotesi alla quale può poi essere affiancata anche quella del contratto normativo o programmatico, specie tenuto conto dell’incontestabile dato normativo scolpito nell’art. 1321 c.c., da cui emerge che, mercé lo strumento contrattuale, le parti possono non solo costituire od estinguere, bensì anche «regolare» rapporti giuridici, senza che la disposizione distingua a seconda che tali rapporti giuridici siano già in essere o meno inter partes. Del resto, una volta ammessa la validità del negozio d’accertamento nel nostro ordinamento, non si riuscirebbe a comprendere per quale ragione tale istituto non dovrebbe avere cittadinanza nel sistema vigente sol perché concluso in via preventiva rispetto ai negozi che si pongono quali possibili fonti, a loro volta, di situazioni di incertezza.

Infine, un ulteriore aspetto di un simile accordo programmatico può essere dato dalla fissazione della misura e delle modalità del rispettivo contributo al mantenimento, all’istruzione e all’educazione della prole comune, sia durante il rapporto, che dopo la rottura del medesimo (337). In quest’ultimo caso, ferma restando la già (in altra sede) illustrata possibilità di intervenire pattiziamente sul tema dell’affidamento, dei diritti di visita e di tutti i profili attinenti alla potestà sul

(335) ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 537 s. (336) Cfr. GIORGIANNI, voce Causa, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 564 ss.; NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio.

Appunti dalle lezioni, II, Milano, 1967, p. 42 ss.; MENGONI, Gli acquisti a non domino, Milano, 1975, p. 200 ss.; per ulteriori richiami cfr. CAMARDI, Principio consensualistico, produzione e differimento dell’effetto reale, in Contratto e impresa, 1998, p. 572 ss., 590 ss. L’ammissibilità di tale negozio trova, come noto, il suo punto d’appoggio principale nella constatazione per cui nel nostro ordinamento positivo non fanno certo difetto bene individuate ipotesi di atti del genere di quelli testé descritti: si pensi, ad esempio, alle fattispecie disciplinate dagli artt. 651, 1197 cpv., 1706 cpv. c.c. Neanche il fatto che il nostro sistema abbia accolto il principio consensualistico può rappresentare un ostacolo al riguardo, posto che qui il trasferimento non è qualificabile come astratto, ma è pur sempre operato in virtù del consenso, appoggiato ad una valida causa ed espresso nel negozio obbligatorio: come si è esattamente rilevato, l’art. 1376 c.c. agevola le parti, ma non può vincolarle contro la loro stessa volontà: così CHIANALE, Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi causa, in Riv. dir. civ., II, 1989, p. 246 ss.; CHIANALE, Obbligazioni di dare e trasferimento della proprietà, Milano, 1990, p. 48 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori richiami dottrinali; analoghe considerazioni anche in SACCO e DE NOVA, Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, II, Torino, 1993, p. 56; DI MAJO, Causa e imputazione negli atti solutori, in Riv. dir. civ., I, 1994, p. 782, il quale rileva che la causa solvendi non intende porsi in concorrenza con la «regola consensualistica», che trova il suo baricentro nell’art. 1376 c.c., ma, anzi, per così dire, affiancarla su terreni sui quali quella regola non è destinata a trovare applicazione; cfr. inoltre SCALISI, Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 52 ss.; SCIARRONE ALIBRANDI, Pagamento traslativo e art. 1333 c.c., in Riv. dir. civ., II, 1989, p. 525 ss.; CAMARDI, op. cit., p. 572 ss., 599 ss.; MACCARONE, Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, in Contratto e impresa, 1998, p. 626 ss., 679 ss.; sulla distinzione storica tra titulus e modus adquirendi v. CHIANALE, Obbligazioni di dare e trasferimento della proprietà, cit., p. 103 ss.; sull’applicazione specifica del tema della causa praeterita al caso in esame cfr. anche DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1995, p. 238, nota 242; MACCARONE, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, in Riv. notar., 1994, I, p. 1330 ss.; OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1353 ss.; ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2001, p. 265 s. Del resto, che il principio consensualistico possa essere derogato si desume anche dal secondo comma dell’art. 1465 c.c. (in materia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione), che consente che l’effetto traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine, nonché dalla ammissibilità nel nostro ordinamento, della clausola che eleva il pagamento del prezzo a condizione sospensiva di efficacia del contratto (Così MACCARONE, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, cit., p. 1334; ID., Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, cit., p. 679).

(337) Cfr. WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1251. Si noti che sul punto esiste un precedente in Germania, ove già oltre vent’anni fa il BGH ha avuto modo di affermare non solo la validità di un patto con il quale due conviventi more uxorio avevano previsto l’obbligo in capo ad uno di essi di corrispondere all’altro un assegno mensile per il mantenimento dei figli, bensì anche l’estensione del medesimo anche una volta venuto meno il legame (cfr. BGH, 16 settembre 1985, in NJW, 1986, p. 374).

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minore, figlio della coppia di fatto (338), non sussistono motivi per negare la validità di una pattuizione diretta alla ripartizione delle spese connesse all’esercizio del diritto-dovere di cui sopra. Come si è già detto relativamente ai rapporti «interni» tra i conviventi, anche in questo caso si potrebbe ipotizzare il conferimento di un mandato con procura da un convivente all’altro per la stipula dei contratti attinenti all’interesse del minore (dalla iscrizione alla scuola privata, all’iscrizione al corso di musica o di danza o alla palestra, al contratto con il dentista, etc.), con conseguente rilievo «esterno» dell’accordo, peraltro a condizione che sia, di volta in volta, riscontrabile la presenza di una (anche non formale, come si è visto) contemplatio domini.

Le conclusioni di cui sopra, già argomentabili sulla base del disposto dell’art. 317-bis c.c., ricevono ulteriore conferma dalle disposizioni della l. 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso dei figli, nelle coppie tanto legittime che di fatto. Basti pensare (339) al nuovo art. 155, cpv. c.c. (340), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori». Disposizione, questa, che, oltre a riconoscere a pieno titolo la validità di accordi tra conviventi sulla gestione della crisi del rapporto, anche relativamente al delicato aspetto delle relazioni con la prole, sembra addirittura far presagire l’ammissibilità di una vera e propria procedura d’omologazione degli accordi di separazione consensuale tra conviventi, ad instar di quanto stabilito dall’art. 158 c.c. per i coniugi e secondo quanto proposto dallo scrivente già sotto il vigore della previgente normativa (341).

Ancora, il nuovo quarto comma dell’art. 155 stabilisce che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti». Principio, questo, che sembra volersi addirittura porre (per quanto attiene alla derogabilità del criterio di proporzionalità) in evidente contrasto con quanto

(338) Sul tema v. OBERTO, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 47 s.; ID., Contratti di

convivenza e diritti del minore, in Dir. fam. pers., 2006, p. 240 ss. Nella monografia sui regimi patrimoniali della famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso l’opinione secondo cui sarebbe stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma gli aspetti involgenti i rapporti di filiazione e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano già disciplinati da norme di carattere imperativo (cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 205 ss.; in senso conforme cfr. ora anche DE SCRILLI, I patti di convivenza. Considerazioni generali, in AA. VV., Convivenza e situazioni di fatto, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, I, p. 860).

La conclusione va sicuramente ribadita per tutto quanto attiene al momento costitutivo del rapporto di filiazione (o comunque di un rapporto para-familiare). Pertanto, oltre alla nullità di ogni promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla procreazione, va affermata l’invalidità dell’obbligo che i conviventi eventualmente assumessero di manifestare la propria disponibilità all’affidamento familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti in cui, ovviamente, essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, da parte di uno o di entrambi, a effettuare, o ad astenersi dall’effettuare, il riconoscimento della prole generata dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due riconoscimenti all’altro, strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni, beninteso, fissate dall’art. 262 c.c.) a conseguire lo scopo di far assumere ai figli il cognome di uno piuttosto che dell’altro dei genitori.

Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che attiene agli aspetti attinenti all’esercizio della potestà sui figli comuni. Invero, come dimostrato in dottrina (sul punto si fa rinvio per tutti a OBERTO, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 205 ss.), dall’art. 317-bis c.c. sembra potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte del legislatore della validità di intese dirette a regolare tale aspetto, sia in relazione alla coppia in situazione «fisiologica» (mercé il rinvio all’art. 316 c.c.), sia a quella in situazione «patologica» (in cui l’intervento del giudice è previsto in funzione meramente suppletiva). La giurisprudenza sembra del resto secondare questa interpretazione, ammettendo la validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale (Cfr. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Foro pad., 1991, c. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio); Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, cit.; App. Milano, 4 dicembre 1995, cit. Un accenno in proposito sembra essere contenuto anche nella motivazione di una pronunzia di legittimità, secondo cui «l’art. 317-bis pone alcuni criteri attributivi dell’esercizio della potestà e prevede come meramente eventuale e successivo l’intervento del giudice, costruendolo come preordinato a correggere il cattivo funzionamento dei criteri predetti ed eventualmente a stabilire regole alternative, secondo un ampio spettro di ipotesi che arriva fino alla possibilità di escludere entrambi i genitori dall’esercizio della potestà» (cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 1993, n. 5847). Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in cui ciascuno dei conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche non minorenni). Un’ulteriore conferma è infine data dalla legge sull’affidamento condiviso, su cui v. infra, in questo stesso §.

(339) L’argomento è sviluppato dallo scrivente in altra sede: cfr. OBERTO, Contratto e vita familiare, in AA. VV., Trattato del contratto, a cura di Roppo, Milano, 2006 (in corso di stampa), cap. I, §§ 1, 6.

(340) Estensibile anche alla materia divorzile, nonché a quella dei figli di soggetti non coniugati, come disposto dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli»

(341) Cfr. OBERTO, Contratti di convivenza e diritti del minore, cit., p. 247 ss.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

stabilito dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, sollevando altresì (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità rispetto all’art. 30 Cost. (342). 12. La responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.

Ci chiediamo ora se e come i genitori – siano essi, ovviamente, coniugi, conviventi o anche

solo genitori naturali non conviventi more uxorio – possano eventualmente rispondere delle obbligazioni contratte verso terzi dai figli minorenni o da quelli maggiorenni con essi ancora conviventi e non autosufficienti. In proposito potrà notarsi, innanzi tutto, che il fenomeno della conclusione di contratti da parte di minori è sicuramente in aumento, in considerazione, da un lato, del numero ben più elevato, rispetto al passato, di giovani in grado di accedere al «mercato del consumo» (si pensi, tanto per citare un esempio, alle possibilità di concludere contratti offerte dagli strumenti elettronici e telematici) e, dall’altro, dal sensibile allungamento temporale del periodo di convivenza dei figli, ben oltre il raggiungimento della maggiore età, con i propri genitori (c.d. «famiglia lunga»).

Iniziando dal caso dei minorenni va notata l’assenza di qualsiasi disposizione che espressamente renda i genitori parte del rapporto obbligatorio contratto dal proprio rampollo. D’altro canto, è noto che l’ordinamento non considera validi i contratti stipulati dai minorenni, ma richiede che gli stessi siano conclusi dai genitori esercenti la potestà o dal tutore, previa autorizzazione giudiziale. Va però tenuto presente che il sistema descritto dagli artt. 320 ss. e 343 ss. c.c. per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e dall’art. 1425 c.c. per i contratti commina non già la nullità per i negozi stipulati in deroga alle prescritte disposizioni, ma l’annullamento degli stessi (343).

La conseguenza di tale scelta di politica legislativa è che i contratti conclusi dai minori senza la rappresentanza dei genitori o del tutore e le prescritte autorizzazioni producono effetti giuridici fino a quanto non siano annullati (art. 1425 c.c.) su istanza degli stessi incapaci o di coloro che per essi sono legittimati all’azione di annullamento. Né, a tal fine, è necessaria la convalida del contratto, che serve soltanto ad assicurare la definitiva efficacia del negozio, paralizzando l’azione di annullamento eventualmente esercitata prima che si compia il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 1442 c.c. (344).

Quanto sopra comporta dunque che il contratto non impugnato dal minore può rimanere inadempiuto da parte di costui. Trattandosi, peraltro, di un debitore inadempiente minore d’età e, quindi, normalmente privo di un patrimonio e di redditi propri sui quali far valere le pretese risarcitorie, il terzo creditore potrebbe restare insoddisfatto.

È legittimo, pertanto, chiedersi, se il terzo possa agire giudizialmente anche nei confronti dei genitori del minore, nell’ipotesi di inadempimento di quest’ultimo ed incapienza del suo patrimonio personale (si pensi, a titolo di esempio, al ragazzo di 15 o 16 anni che acquisti un motorino, magari usato, un capo di vestiario, un cellulare o un personal computer, magari versando un acconto, e non sia poi in grado di pagare il residuo prezzo) (345).

Si è osservato al riguardo che nel nostro ordinamento non vi è una norma che consenta di addossare automaticamente al genitore l’obbligo di adempiere questo tipo di obbligazioni. Peraltro, sulla base di alcuni dati normativi potrebbe forse essere ricostruita una tale forma di responsabilità

(342) Si noti infine che, ai sensi dell’art. 155, comma quinto, c.c., l’accordo delle parti può pure derogare ai parametri di adeguamento agli indici ISTAT dell’assegno per la prole.

(343) Sul tema v. per tutti VACCA, in AA. VV., Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, II, Padova, 2004, p. 1366 ss. In giurisprudenza v. Cass., 12 agosto 1996, n. 7495, secondo cui «La mancanza di autorizzazione per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione riguardanti i minori di età non dà luogo ad inesistenza o a nullità degli atti stessi, bensì alla loro annullabilità, la quale può essere fatta valere soltanto dal genitore che abbia agito in rappresentanza del figlio o dal figlio medesimo. Pertanto, l’annullabilità, per mancanza dell’autorizzazione del giudice tutelare, dell’accettazione dell’eredità devoluta a minori di età non può essere fatta valere dai coeredi allo scopo di accrescere la loro quota dell’asse ereditario».

(344) Cfr. Cass., 22 dicembre 1984, n. 6666. (345) Cfr. VACCA, op. cit., p. 1367.

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

contrattuale dei genitori del minore inadempiente. In particolare, il fondamento di questa responsabilità potrebbe essere ravvisato nel disposto dell’art. 322 c.c. Da tale articolo – che prevede la legittimazione anche dei genitori ad esercitare l’azione di annullamento del contratto posto in essere dal figlio minore – potrebbe inferirsi che per i genitori che non esercitino la detta azione né oppongano al terzo creditore l’eccezione di annullabilità, un’acquiescenza a tale rapporto obbligatorio e una conseguente loro corresponsabilità per l’inesatta esecuzione dello stesso. A fronte di un inadempimento del figlio minore e del mancato esercizio dell’azione di annullamento il creditore potrebbe allora far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni, oltre che direttamente nei confronti del minore inadempiente, anche nei confronti dei genitori, che finirebbero così per rispondere per un fatto proprio e non altrui (346).

Tuttavia, si è obiettato che configurare una tale responsabilità dei genitori, pur tutelando e favorendo i rapporti commerciali e la posizione del terzo creditore, sembra porsi in contrasto con il fondamentale principio di salvaguardia degli interessi dei minori a cui è informato l’intero nostro ordinamento. Si è rilevato infatti in proposito che la conclusione favorevole alla responsabilità solidale del genitore trascurerebbe di tenere conto del principio desumibile dal secondo comma dell’art. 1426 c.c., secondo il quale chi contrae con un soggetto senza accertarsi della sua età, e dunque della sua capacità di agire – non essendo sufficiente la semplice dichiarazione di essere maggiorenne per esonerare il terzo dall’onere di verificare la reale età dell’altro contraente – e della conseguente esistenza di una sufficiente garanzia patrimoniale, si assume il rischio del cattivo esito della contrattazione (347).

Ma a tali considerazioni si potrebbe però ulteriormente ribattere, rilevando che il comportamento del terzo, che ha contratto con il minore, è già adeguatamente sanzionato dalla presenza di un’invalidità di protezione, che può essere fatta valere, come tale, dal solo soggetto nell’interesse del quale il rimedio è stato previsto. Non sembra corretto, pertanto, sanzionare ulteriormente il terzo, addossandogli anche il rischio dell’inadempimento di un rapporto obbligatorio che il minore ed i suoi legali rappresentanti hanno deciso di consolidare, astenendosi dal proporre l’azione di annullamento, perché evidentemente, tale rapporto hanno ritenuto conveniente, peraltro arrogandosi il diritto di non adempierlo.

In altri termini, se non vi è dubbio che al minore e ai suoi legali rappresentanti competa il diritto di far venire meno il vinculum iuris, ciò non significa certo che essi siano esonerati dal rispettarlo, una volta che abbiano scelto la via di mantenerlo in vita, tanto più che l’eccezione di annullamento ben potrebbe essere sollevata anche oltre il quinquennio, nel caso venissero citati per l’adempimento (cfr. art. 1442, ult. cpv., c.c.): il mancato esperimento dell’azione o la mancata proposizione dell’eccezione confermano dunque che l’affare è ritenuto conveniente per il minore e pertanto non si vede per quali ragioni dovrebbe derogarsi al fondamentale principio per cui pacta sunt servanda.

In questo contesto varrebbe la pena chiedersi se, ferma restando la personale responsabilità del minore per il contratto dallo stesso stipulato e non impugnato, non possa trovare applicazione il principio espresso dagli artt. 2047 e 2048 c.c., intendendo i concetti di «danno» e di «illecito» contenuti nelle norme citate come riferiti non solo all’illecito aquiliano, ma anche a quello costituito dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio (348).

(346) Così VACCA, op. cit., p. 1367. (347) Cfr. VACCA, op. cit., p. 1367 s. (348) Un’apertura verso un’interpretazione dell’art. 2048 c.c. che ritenga questa norma estensibile all’ipotesi del danno da illecito

contrattuale compiuto dal minore potrebbe cogliersi in quella giurisprudenza che di tale articolo ha fatto uso per affermare la responsabilità del genitore del minorenne che aveva danneggiato un’autovettura presa a noleggio dal minore stesso: cfr. Cass., 3 luglio 1968, n. 2240, secondo cui «Colui che ha dato in locazione un’autovettura ad un minore, munito di patente, conoscendo la sua minore età, può agire a’ termini dell’art. 2048 c.c. nei confronti del di lui genitore, che non abbia prestato il proprio consenso al contratto, qualora l’autovettura sia rimasta danneggiata nell’uso fattone dal minore. Infatti non può ritenersi esente dalla responsabilità, prevista dall’art. 2048 cod. civ., il genitore per il solo fatto che il danno sia stato cagionato a seguito della volontaria consegna dell’autovettura, fatta dal danneggiato al minore in attuazione del contratto di locazione, giacché l’attività del minore, consistente nell’uso dell’altrui autoveicolo, rientra nella sfera del dovere di sorveglianza del genitore» (cfr. inoltre, nello stesso senso, Cass., 27 maggio 1975, n. 2139). E’ evidente che la regola in oggetto, dettata dalla Corte Suprema per l’inadempimento costituito

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

Conseguenza di tale premessa non sarebbe tanto l’estensione del rapporto obbligatorio sul lato passivo e in via solidale anche ai genitori, ma il riconoscimento dell’esistenza di una situazione di responsabilità per fatto altrui, che troverebbe il suo fondamento nelle norme citate e nell’inadempimento del minore. Ciò significa, in pratica, che il terzo non potrebbe convenire in giudizio, oltre al minore, anche i genitori, se non allegando l’inadempimento del figlio.

Non diversa da quella sin qui illustrata, nelle sue conseguenze rispetto ai genitori, è l’ipotesi in cui il minore abbia «con raggiri occultato la sua età», secondo quanto previsto dall’art. 1426 c.c. Qui, invero, il contratto non è annullabile ed al riguardo si è osservato (349) che la condizione di buona fede del terzo contraente renderebbe legittima la sua richiesta di tutela. La conclusione, peraltro, non sembra desumibile tanto dall’applicazione delle regole in tema di responsabilità precontrattuale, posto che in tale caso, non essendo il contratto annullabile, non sarebbe neppure ipotizzabile un danno legato ad una culpa in contrahendo per invalidità del negozio (350). Ancora una volta, invece, appare opportuno riferirsi ai principi ex artt. 2047 e 2048 c.c., da ritenersi, per le ragioni sopra illustrate, estensibili al danno da responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni (in questo caso, validamente) contratte dal minore.

Passando ora all’esame del problema di una ipotetica responsabilità dei genitori per le obbligazioni assunte in proprio dai figli maggiorenni, ma non autosufficienti, vi è da dire che, in tali fattispecie, il contratto concluso è perfettamente valido e vincolante per i figli medesimi, ed estendere ai genitori questo tipo di obbligazioni appare, de iure condito, impossibile.

Come si è rilevato in dottrina, il principio di un’ipotetica responsabilità solidale (non prevista, come noto, da alcuna specifica disposizione) non può essere fatto discendere dall’obbligo di mantenimento imposto ai genitori, anche nei confronti dei figli già maggiorenni ma non ancora in grado di provvedere alle proprie esigenze, in quanto tale obbligo riguarda solo il dovere, da parte dei genitori, di fornire l’assistenza materiale necessaria per le normali esigenza di vita del figlio. Il contenuto di tale obbligo non può, dunque, essere dilatato fino al punto di comprendere anche eventuali inadempimenti contrattuali dei figli (351).

D’altro canto è più che chiaro che i principi sopra invocati, espressi dagli artt. 2047 e 2048 c.c., non possono in alcun modo venire qui in considerazione, avendo gli stessi tratto a persone incapaci e come tali essendo inestensibili ai maggiorenni capaci di intendere e di volere, avuto riguardo alla tassatività delle ipotesi di responsabilità per fatto altrui (352).

Per concludere si potrà poi ricordare che a ben diverse conclusioni potrà pervenirsi nel caso in cui dovesse accertarsi che il figlio ha agito quale rappresentante (se maggiorenne) o nuncius (se minorenne) (353) dei genitori o di uno di essi. In tal caso, infatti, è evidente che i genitori si dalla mancata riconsegna della cosa locata nello stato in cui si trovava all’inizio del rapporto, ben potrebbe valere per quell’altra forma di inadempimento rappresentata dal mancato pagamento del prezzo pattuito per un acquisto operato dal minore.

(349) Cfr. VACCA, op. cit., p. 1368 s. (350) Sul tema cfr. anche BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 1987, p. 181, che, ponendosi il problema di una

responsabilità precontrattuale dell’incapace, rileva che tale questione potrebbe porsi «quando si è al di fuori dell’ipotesi di annullamento del contratto per incapacità. In tal caso non vi è una lesione (invalidità del contratto) che consegue alla tutela dell’incapace. La lesione alla libertà negoziale che il contraente subisce ad opera dell’incapace non è allora diversa dalla lesione che può essere arrecata da un qualsiasi soggetto. In applicazione della regola sull’illecito extracontrattuale la responsabilità dell’incapace legale può per altro ammettersi solo in quanto risulti concretamente accertata la sua capacità di intendere e volere. Accanto alla posizione dell’incapace può poi rilevare la responsabilità dei genitori e di altri soggetti tenuti alla sua vigilanza».

(351) VACCA, op. cit., p. 1370 s. L’Autrice nota in proposito che il terzo contraente non può inoltre, invocare la responsabilità dei genitori dell’altro contraente e fare affidamento sulla loro solvibilità, ove la loro presenza e adesione, seppur tacita, al contratto non sia stata mai neppure ipotizzata. Peraltro, una «obbligazione» dei genitori potrebbe essere ravvisata sul piano morale, sociale o degli affetti, atteso che il legame di parentela e affettivo potrebbe spingere il genitore, pur in assenza di un preciso obbligo giuridico in tal senso, ad assumersi la responsabilità, sotto il profilo risarcitorio, per gli inadempimenti dei propri figli. Conseguentemente, nel caso i genitori spontaneamente provvedessero ad assumersi l’obbligazione di adempiere all’obbligazione del figlio, ci si troverebbe di fronte ad un’obbligazione naturale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2034 c.c.

(352) Sulla tassatività delle ipotesi di responsabilità civile per fatto altrui v. Cass., 9 dicembre 1992, n. 13015, in Giust. civ., 1993, I, p. 932; in Foro it., 1994, I, c. 556, con nota di DE MARZO.

(353) Sul tema della capacità del nuncius v. per tutti BETTI, op. cit., p. 129 ss. Cfr. inoltre BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, I, Torino, 1955, p. 363, secondo cui, se è vero che il nuncius non emette una dichiarazione propria, la riesprime con propria autonomia e perciò, se certamente non occorre nel messo la capacità di agire in ordine al contenuto della

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Giacomo OBERTO – La responsabilità dei coniugi e dei conviventi per le obbligazioni contratte nei confronti di terzi

troverebbero ad esser obbligati non già in via solidale con il figlio, ma quali esclusivi soggetti passivi del rapporto obbligatorio.

Legato a questo tema è poi quello dell’assenza o dell’eccesso di potere rappresentativo in capo al figlio agente.

In tal ultimo caso, il terzo creditore potrà avvalersi, ricorrendone tutti i presupposti (apparente esistenza di un potere di rappresentanza, comportamento colposo dell’apparente rappresentato nel determinare l’insorgere dell’apparenza, assenza di colpa del terzo nell’apprezzare il comportamento colposo dell’apparente rappresentato), del principio di tutela della apparenza di diritto ed agire, per ottenere il rispetto delle pattuizioni contrattuali, facendo valere, dunque, la responsabilità contrattuale dei genitori, ma non in quanto tali, bensì come soggetti «rappresentati» dall’agire del figlio, e quindi in forza delle disposizioni dettate in tema di rappresentanza (art. 1387-1399 c.c.) (354).

dichiarazione, occorre almeno, affinché la comunicazione sia valida, la capacità di comunicare, che si concreta nella capacità di intendere il contenuto espressogli e di riesprimerlo. Pertanto una comunicazione fatta per mezzo d’un messo privo di tale capacità (un bambino senza l’uso della ragione o un mentecatto) deve ritenersi come non fatta, se l’incapacità è apparente, di guisa che il destinatario non possa invocare la buona fede del suo affidamento e addossare al mittente la responsabilità della scelta del messo inidoneo; ma se il messo è capace, le eventuali divergenze fra la dichiarazione affidatagli e la riespressione da lui fattane vanno imputate al dichiarante, che ha scelto quel mezzo (art. 1433 c.c.).

(354) VACCA, op. cit., p. 1371. In giurisprudenza v. Cass., 29 aprile 1999, n. 4299, in Corr. giur., 1999, p 1501: «Il principio dell’apparenza del diritto, riconducibile a quello più generale della tutela dell’affidamento incolpevole, può essere invocato mi tema di rappresentanza, nei confronti dell’apparente rappresentato, dal terzo che abbia in buona fede contratte, con persona sfornita di procura, allorché l’apparente rappresentato abbia tenuto un comportamento, colposo, tale da giustificare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito, al rappresentante apparente».

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