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Responsabile del progettoGiampiero Maracchi

Coordinamento del progettoFrancesca Camilli

Responsabili scientifici Francesca CamilliPierpaolo DuceAntonio RaschiFederica Rossi

Coordinamento del progetto editorialeFrancesca CamilliCarolina Vagnoli

Realizzazione del progetto editorialeMartina BecucciTunia BurgassiCamilla Chieco Tommaso ComunianNicola Di Virgilio Nicoletta Lucia Rita Melis Maria Grazia Nieddu Roberto OrlandiniMarina Reale Maria Teresa SalomoniElisabetta SircaChiara ScretiCarolina Vagnoli

La pubblicazione riporta i contributi dei partecipanti alle tavole rotonde ed al conve-gno svoltisi durante l’anno 2009 nell’ambito dell’attività del primo anno del progetto “Percorsi di Orientamento”.

Supervisione dell’attività editorialeManuela Miggiani

Direzione Generale per le Politiche per l’Orientamento e la Formazione, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

www.percorsidiorientamento.it

©2009 Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali©2009 CNR IBIMET

Un ringraziamento a Antonietta Falchi, Monica Giannini, Elvira Giannozzi, Monica Liburdi, Francesca Martelli ed Angela Zenoni per il costante sostegno nelle pratiche amministrative ed organizzative del progetto.Un ringraziamento particolare anche alla Dott.ssa Marina Capponi, Consigliera di Parità della Regione Toscana, perl’organizzazione della tavola rotondadi Firenze.

ISBN 9788890221002

Finito di stampare nel mese di marzo 2010presso Tipografia Moderna snc - Firenze

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Un anno di progetto: atti delle tavole rotonde e del convegno

Incontri e confronticon i territori

Un anno di progetto:

atti delle tavole rotonde e del convegno

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Un anno di progetto: atti delle tavole rotonde e del convegno

AlessAndrA TomAiMinistero del Lavoro e delle Politiche Sociali

Presentazione

Il progetto “Percorsi di Orientamento” è nato con l’obiettivo di favorire l’occu-pazione femminile nelle aree rurali incentivando sia la nascita di nuove impre-se che la crescita di quelle già esistenti. Uno degli strumenti più importanti per i primi passi del progetto, necessario affinché tutte le successive azioni siano mirate e non semplicemente frutto di idee astratte, è l’incontro sia con le im-prenditrici, o aspiranti tali, che con le autorità e le associazioni che operano nel settore. Le tavole rotonde ed il convegno svoltosi a Roma durante la prima annualità di progetto hanno avuto la funzione di ascoltare la voce di tanti pro-tagonisti delle regioni di studio del progetto e, soprattutto, di farli incontrare. Evidenti sono emersi da tutti gli incontri ed, in particolare, dall’occasione of-ferta dall’evento nazionale, l’interesse e la partecipazione attiva verso i temi affrontati nel progetto, dimostrati con entusiasmo da tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nelle dinamiche dei processi di sviluppo rurale: le istitu-zioni, gli enti, le associazioni culturali e di categoria, il tessuto socio-economi-co in questo caso rappresentato dalle stesse imprenditrici.L’esigenza di una normativa chiara a sostegno della multifunzionalità che, nel-la prospettiva di sviluppo dei territori rurali, tuteli gli agricoltori e gli artigiani, definendone i diversi ruoli, seppur in modo da favorire forme di sinergie tra le due categorie e non di competizione; la realizzazione di “filiere corte” tessili che permettano la creazione e la tracciabilità di un prodotto di qualità italia-no; la necessità di creare un marchio che, identificando inequivocabilmente il prodotto, sia strumento per azione di sensibilizzazione e promozione rivolta ai consumatori : tutti questi punti sono oggetto di ampia discussione e di rifles-sione sulla necessità di sostenere politiche di sviluppo che offrano strumenti di gestione e di scelte opportune a livello nazionale, regionale e locale. Ma, se da una parte si rende necessario il sostegno all’economia, dall’altra è altresì opportuno rilevare l’esigenza di sostenere anche il capitale umano e culturale costituito dalla società e in questo caso dal tessuto imprenditoriale femminile. Un capitale a rischio nel momento in cui non vengono garantite opportunità di formazione e di sviluppo professionale.Sono questi due punti critici per i quali le politiche per l’orientamento possono

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Incontri e confronti con i territori

svolgere un ruolo decisivo.La definizione di strumenti di orientamento adeguati al sostegno di chi fa o intende fare impresa, è un elemento imprescindibile tutte quelle esigenze for-mative alla base della creazione e dello sviluppo di impresa.Questi ultimi, soprattutto nel contesto di territori rurali spesso svantaggiati e isolati, non possono prescindere però dalla necessità di integrasi con la cre-azione di reti territoriali di imprese - spesso viste con sospetto - che operano in uno stesso settore e in settori complementari o affini.Eppure, laddove è stato possibile creare forme di cooperazione tra impren-ditrici, queste hanno dato buoni risultati, come nel caso ad esempio dei due progetti portati avanti dalla Agenzia Regionale Sardegna Ricerche nei settori dell’oreficeria e del tessile o del progetto RENAMUR promosso dalla Regione Toscana. Il convegno finale ha permesso, dunque, il confronto diretto tra varie realtà territoriali, fornendo alle imprenditrici un chiaro quadro su come le autorità si stanno muovendo nel promuovere lo sviluppo rurale e l’imprenditoria femmi-nile, ma soprattutto ha permesso, attraverso alcune testimonianze, di offrire spunti e suggerimenti concreti per portare avanti o iniziare un’impresa.Una prima piccola testimonianza, questo percorso di incontri, di quanto scam-biare esperienze consenta di conoscere gli altri e guardare a se stesse e al proprio sviluppo personale e professionale con occhi diversi.

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Un anno di progetto: atti delle tavole rotonde e del convegno

GiAmpiero mArAcchiUniversità di Firenze

Introduzione

La popolazione mondiale è pressoché raddoppiata negli ultimi quaranta anni e attualmente la disponibilità di terreno agricolo per abitante è dell’ordine di 2500 m2: se combiniamo questo numero con un indice composto che eviden-zia la capacità del pianeta di supportare le attività umane, vediamo che siamo, già a partire dagli anni ‘80, fuori dai valori ritenuti sostenibili.Tale progressivo declino della capacità di produzione alimentare del pianeta è messo in evidenza dalla curva del rapporto produzione di cereali/popolazio-ne. Se infatti la produzione di cereali nel pianeta è stata progressivamente in crescita negli ultimi trenta anni, pure non è riuscita a seguire la crescita della popolazione mondiale con il risultato che il rapporto frumento/popolazione sta declinando.D’altra parte la crisi del modello di produzione e di consumo è messa in evidenza da alcuni indicatori come ad esempio la produzione di rifiuti. La pro-duzione di rifiuti infatti è aumentata esponenzialmente negli ultimi quaranta anni: siamo infatti a 600 Kg a testa all’anno nella U.E. e 800 Kg negli USA.Solo per l’imballaggio ed il confezionamento alimentare nella U.E. siamo a 175 Kg a testa, che,confrontato con il consumo annuo di pane che è dell’ordi-ne di 100 Kg a testa, mette in evidenza come il modello di consumi adottato sia del tutto irrazionale. Consumiamo più imballaggi di quanto mangiamo!!Ma anche la composizione della dieta alimentare ha conseguenze a lungo an-dare sull’ambiente: infatti l’accresciuto uso di carne ha conseguenza nell’uso dell’acqua, dal momento che per produrre 1 kg di frumento sono necessari 1500 litri d’acqua mentre per produrre 1 Kg di carne ne sono necessari 15000, cioè 10 volte di più .Inoltre, tra le risorse che stiamo consumando maggiormente vi sono i com-bustibili fossili che sono i maggiori responsabili dell’impatto sul clima. Attual-mente stiamo consumando pressoché il doppio di quanto consumavamo nel 1998, ma se analizziamo un indicatore economico il GPI - Genuine Progress Index- che molti economisti segnalano negli ultimi anni essere assai più af-fidabile del più noto PIL - ci accorgiamo che mentre il PIL (che dipende so-stanzialmente dal consumo di carburante fossile) continua a crescere, il GPI

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Incontri e confronti con i territori

comincia a declinare a partire dagli anni ‘80: ciò significa che da un ragione-vole benessere il mondo occidentale industrializzato sta passando ad un certo malessere.L’insieme di questi fenomeni ci fa capire che è necessario iniziare una rifles-sione sul modello di produzione e di consumo che abbiamo messo in piedi nell’ultimo secolo, di cui la globalizzazione è una conseguenza estrema. Que-sto ultimo fenomeno ha come conseguenza una sempre più spiccata divisione internazionale fra la produzione, che tende a concentrarsi nei paesi a basso costo della mano d’opera a causa delle condizioni socio-economiche della popolazione, ed il commercio che invece si localizza nei paesi più avanzati. Questo schema ha varie conseguenze particolarmente negative : la prima ri-guarda l’aumento dei trasporti su lunghe distanze che pesano negativamente sul bilancio del carbonio del pianeta a causa delle emissioni dei combustibili fossili; la seconda concerne la struttura produttiva dei paesi industrializzati che tendono ad abbandonare le produzioni di massa con conseguente disoc-cupazione ma soprattutto con la perdita di capacità manifatturiere che sono state alla base dello sviluppo della civiltà contemporanea; la terza è la fragilità politica di questo schema che assegna la produzione a paesi i cui assetti poli-tici sono assai diversi da quelli consolidati dalla tradizione occidentale e di cui non conosciamo a lungo andare i comportamenti. Si ripercorre cioè la stessa strada adottata per il petrolio con i paesi arabi che è stata ed è elemento di instabilità politica internazionale sfociata in guerre nell’area interessata. La risposta a questi problemi che mettono in pericolo la stabilità socio econo-mica e politica dei paesi occidentali, è in una riflessione su una migliore uti-lizzazione delle risorse umane e naturali di questi paesi. Si tratta di capire se accanto ad un modello economico “pesante “, caratterizzato da concentrazio-ne di capitali che si traducono in grandi imprese multinazionali, da una distribu-zione legata ai grandi centri commerciali e da un sistema economico-politico le cui decisioni sono sempre più lontane dai cittadini, è possibile sviluppare un sistema di economia “leggera“ che si basa sulle risorse locali, sviluppa filiere che si articolano sui territori e si rivolge ai consumatori residenti nella stessa area geografica della produzione. Purtroppo una riflessione seria su questi temi sembra ancora assente anche se ormai dagli anni 90 si avvertono i primi segnali di interesse, specialmente in paesi come gli Stati Uniti dove questi problemi sono più evidenti. Teorie come l’“economia a regime stazionario“, l’“economia verde“ che riguarda soprattutto le fonti energetiche rinnovabili ed altri filoni di pensiero anche più radicali come la “decrescita felice“, sono

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Un anno di progetto: atti delle tavole rotonde e del convegno

da tempo elemento di discussione nei circoli accademici anche se, al di là dell’uso strumentale di alcune etichette, non vengono seriamente prese in considerazione dai governi.Il progetto “Percorsi di Orientamento“ sostenuto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e attuato dall’ Istituto di Biometeorologia del CNR in collaborazione con la Fondazione per il Clima e la Sostenibilità e l’Università di Firenze, si inserisce in questo contesto di attenzione ai grandi temi che l’umanità si trova a fronteggiare agli inizi di questo terzo millennio e che è possibile che conducano a modelli economici diversi da quelli che abbiamo conosciuto fino ad oggi. Il progetto si applica al tessile che, come l’agroali-mentare, è un settore specifico dei prodotti di prima necessità e come tale riveste un ruolo strategico. La tesi che si vuole dimostrare è la possibilità di sviluppare a livello locale una filiera che parte dalle materie prime tessili, lana e fibre vegetali e, che attraverso la nascita di piccole aziende artigiane prevalentemente femminili, che seguono tutte le fasi della lavorazione dalla preparazione della fibra, alla filatura, tessitura e finissaggio, giungano fino alla produzione del capo finito. L’analisi della filiera comporta la valutazione di molti aspetti, da quello della produzione della materia prima a quello delle tecniche di lavorazione, che non possono essere evidentemente quelle della tradizione preindustriale ma neanche quelle della industrializzazione del mo-dello fordista. Perché questo sia fattibile è necessario analizzare una serie di aspetti di natura economica che vanno dalla disponibilità di capitali per avvia-re l’attività artigianale a quelli relativi alla penetrazione commerciale di prodotti che in genere, avendo qualità assai maggiore dei prodotti di largo consumo, hanno prezzi relativamente elevati. Il progetto si articola su più aree del nostro paese per tenere conto di realtà diverse.Ci auguriamo con questo lavoro di poter contribuire a dare risposte concrete ad una serie di interrogativi legati alla sostenibilità economica della filiera, alla fattibilità tecnica delle diverse fasi, alla formazione degli operatori ed alla appetibilità economica dei prodotti .Si tratta ovviamente, anche per le risorse disponibili, di un primo approccio a cui dovrà seguire in tempi rapidi un ulteriore approfondimento senza il quale il lavoro svolto sarebbe probabilmente di modesta utilità e per questo confidia-mo che le istituzioni nelle diverse aree dove il progetto si sviluppa, possano accompagnare con attenzione i “Percorsi di Orientamento“.

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Il territorio che veste

ll territorio che vesteLa microimpresa femminile nelle aree rurali

per la valorizzazione del tessile

Firenze, 16 Febbraio 2009 Sala Gigli - Consiglio Regionale

TAVOLA ROTONDA

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Il territorio che veste

Ambrogio brennAAssessore Attività Produttive Regione Toscana

Le competenze dei territori per la valorizzazione del comparto moda tessile toscano

Durante un dibattito, un po’ prima della crisi dei prodotti finanziari “tossici”, un noto imprenditore editoriale italiano ha detto: ”Soltanto un cretino può pensa-re di investire nel settore manifatturiero in Italia oggi!”, motivando questa sua affermazione con il grado di maturità delle produzioni manifatturiere italiane. Consigliava di abbandonare il settore manifatturiero, non a favore dei paesi in via di sviluppo, ma delle grandi potenze industriali quali la Cina, l’India e il Brasile. Sosteneva, inoltre, che era meglio che ci dedicassimo ai servizi, ai servizi avanzati e alla finanza. Chi può negare che oggi ci sia bisogno di buoni servizi, anche alla luce delle conseguenze che la finanziarizzazione e i prodotti “tossici” hanno generato all’interno del mercato globale?Significativa è l’esperienza francese DATAR (organizzazione di stato francese da cui noi abbiamo mutuato il modello dei distretti tecnologici) che investe a Metz 1 miliardo di euro per lo start-up della produzione di profumi - che è un prodotto che ha 4000 anni - e che, a regime, costerà 8 miliardi di euro. Que-sto per dire che, molto spesso, è l’approccio che si ha nei confronti della pro-duzione che decide della obsolescenza e non tanto il prodotto in quanto tale. Altro esempio significativo sono alcune aziende, vicino a Firenze, che operano nel settore della porcellana. La porcellana, grazie alla nanotecnologia, quando viene esposta ad una radiazione specifica si auto-sterilizza. Questa caratteri-stica fa sì che questo prodotto venga utilizzato per le camere sterili e per le sale operatorie; inoltre, una parte di questi prodotti viene utilizzata per fare lo schermo termico dello Shuttle per proteggerlo quando rientra sulla Terra.La terza considerazione è quella dei prodotti tessili; anch’essi hanno una storia significativa e, come le due produzioni precedenti, sono frutto di esperienza e di saperi che, di volta in volta, vengono affinati e che possono determinare condizioni di adeguatezza ai bisogni del mercato. A Prato, ad esempio, produ-cono tessuti su cui vengono applicate nanotecnologie.Questi esempi sono un segnale del fatto che, molto spesso, c’è un approccio sbagliato nei confronti di quelli che vengono considerati prodotti maturi e che, invece proprio perché maturi, non vanno mai considerati obsoleti, vetusti, da

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Incontri e confronti con i territori

abbandonare. Il valore delle produzioni manifatturiere in Toscana è molto significativo, con-siderato che la Toscana ha esportato nel 2007 26,2 miliardi di euro (di cui il 93% sono prodotti manifatturieri). La meccanica ha esportato prodotti per 10 miliardi di euro, la moda, complessivamente intesa, ha esportato 7,5 miliardi di euro. Quindi, a chi ci dice di abbandonare queste produzioni, noi chiediamo quale sarebbe il settore che potrebbe sostituirle, quali sono le competenze e, soprattutto, le quote finanziare richieste.Le produzioni tessili, queste produzioni vetuste, molto spesso sono a “Km zero” e si trovano in ambiti territoriali ben definiti. Tutti questi sono aspetti sui quali si sta concentrando molta parte delle nostre idee di sviluppo che si basano sul fatto di considerare il territorio come giacimento di saperi e di esperienze. Se poi si tratta di un territorio allargato e dai singoli territori si arriva alla Toscana e ai suoi diversi “genius loci”, è un elemento di valore che non vogliamo trascurare.L’altro giorno, con il Prof. Maracchi facevamo alcune considerazioni riguardo al poter definire, in forma più strutturata, un intervento a favore delle produ-zioni tessili locali e il Professore ricordava che l’uso maggiore della lana per l’abbigliamento potrebbe far ridurre di un grado il riscaldamento negli edifici sia pubblici che privati e che la riduzione di un grado darebbe un contributo pari al 30% del carico di CO2, cosa che permetterebbe di perseguire meglio gli obiettivi del protocollo di Kyoto della Toscana.Quanta modernità c’è nel recupero di produzioni, saperi e abilità che normal-mente vengono svolte in questi territori e sono considerati minori, residuali, un prodotto dell’arcadia? In realtà, la modernità è presente. Il CNR non ha lavorato in solitudine nell’iniziativa “Tessile e sostenibilità”. Questo progetto in Toscana ha avuto qualche sperimentazione e successo significativi. Penso al recupero di produzioni, all’uso della lana, della canapa, all’uso di risorse endogene alla nostra regione e allo sviluppo di tecniche di colorazione che non prevedono l’uso di agenti chimici di sintesi ma il ricorso a prodotti naturali. Penso ad alcune esperienze come il recupero di alcune pian-te. La Regione Toscana ha finanziato un progetto per la produzione del guado che è la pianta dell’indaco di Piero della Francesca. In seguito a quell’espe-rienza c’è stata una sperimentazione sui metodi di applicazione dei coloranti naturali.Questo, come altre iniziative, ha permesso da una parte uno sviluppo di competenze e dall’altra il recupero di prodotti locali, dando un contributo a

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Il territorio che veste

quell’idea di filiera corta che va perfezionata e che può darci la possibilità di recuperare prodotti che non abbiano un impatto negativo sulla salute dei con-sumatori e di chi li realizza.In Italia vi sono 9000 tonnellate di lana di tosa che non vengono utilizzate: o vengono bruciate o interrate; non utilizzate per fini produttivi che sono da se-coli nella storia delle popolazioni e in modo da incontrare il favore di consuma-tori “educati”, ed essere poi proposti al commercio di carattere più generale.Come il Prof. Maracchi ci ha più volte spiegato: perché si usa la lana cotta al freddo e la canapa e il cotone al caldo? Sono questioni che vanno oltre la climatologia e gli aspetti che riguardano la produzione e i mercati.Il ragionamento sul quale vogliamo lavorare è questo: ridare valore a mestieri e saperi tradizionali che possono offrire molte opportunità nel presente e nel futuro. Questo permetterebbe la valorizzazione di quell’idea di sviluppo locale che non è in conflitto con le idee dello sviluppo di qualità e di tradizioni ma che recupera, all’interno dei territori, le abilità e quei sistemi di saperi che danno forza e valore alle persone.Questo non è l’inno al localismo, al frazionamento, ma è l’idea che noi ab-biamo dei vari territori, degli aspetti di sintesi istituzionale più ampi e di non smarrimento dell’identità, che non vuol dire contrapposizione dell’identità dei saperi. Questo, tra l’altro, ci permetterebbe di fare un ragionamento sulla tracciabilità, sulla certificazione. A questo proposito, avendo partecipato a molti dibattiti italiani e europei sull’obbligatorietà del marchio, ho scoperto che il conflitto non è tra noi e la Cina, tra noi e l’India, tra noi e il Brasile e gli Stati Uniti per il cotone; il conflitto è tra chi ha interesse per la produzione e chi ha interesse per la distribuzione. Questo avviene anche tra noi italiani, all’interno del nostro paese, tra quelli che hanno interesse alla produzione e quelli che hanno interesse alla distribuzione, che non sono interessati né all’obbligo di etichettatura né agli aspetti legati alla tracciabilità del prodotto.Noi, con il commissario Mandelson, avevamo proposto l’introduzione dell’eti-chetta e della tracciabilità come elemento di garanzia sia per il consumatore finale, sia per il produttore. L’idea noi l’abbiamo riproposta ad iniziative di carattere regionale che prendono in considerazione la certificazione di re-sponsabilità sociale, in una prospettiva di certificazione globale del prodotto e dell’intero ciclo di produzione. In un ciclo produttivo di questo genere, le condizioni di lavoro in tutte le parti della filiera devono essere di un certo tipo e rispettare alcuni parametri: non si deve fare ricorso a lavoro obbligato, al la-voro dei minori, non si devono fare discriminazioni tra razza, sesso, religione,

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Incontri e confronti con i territori

orientamento sessuale, aspetti che, come ci dicono le indagini, fanno sì che il consumatore “educato” possa capire il perché di un sovraprezzo rispetto a produzioni normalmente distribuite e riconoscere, grazie alla tracciabilità, il carattere etico e qualitativo di un prodotto. Un elemento differenziale e com-petitivo non è dato solo dalla differenza del rapporto qualità-prezzo, ma dalla qualità intrinseca dei processi, degli aspetti sociali e di valorizzazione delle conoscenze che questi prodotti propongono.Spesso, in occasioni nazionali e internazionali, mi è capitato di dire che, quan-do noi offriamo manufatti di altissima qualità, non offriamo soltanto qualità, ma offriamo magie, emozioni, memorie e quindi occorre recuperare questi prodotti non soltanto per l’immaginario, ma anche per la concretezza.Questo aspetto ci ha spinto ad insistere. All’inizio eravamo considerati quelli che volevano guidare la macchina con lo sguardo rivolto all’indietro, guardan-do allo specchietto retrovisore. Per le produzioni tracciate dal punto di vista qualitativo ed etico vale quello che, qualche tempo fa, valeva per i prodotti biologici al supermercato. All’inizio c’era un angolino e poi, mano a mano che il rapporto con il consumatore si è sviluppato, questi prodotti hanno sempre di più incontrato il favore del consumatore. Noi siamo seriamente interessati a dare forza e valore a questi prodotti; noi non li consideriamo né interstiziali, né elementi residuali nelle economie dei territori. Il fatto che larghissima parte di queste produzioni veda la gestione di que-ste imprese da parte di donne non è un elemento trascurabile. Per quanto riguarda l’imprenditoria femminile, poi vi diremo quali sono gli strumenti di cui disponiamo e con cui cerchiamo di sostenerla. L’impresa in rosa: abbiamo il convincimento che, avendo creato questa aspet-tativa, non possa venire disattesa e per questo abbiamo teso ad utilizzare tutte le risorse di cui disponevamo in Regione per integrare le risorse nazionali e dare una risposta che, certamente, è maggiore della media delle risposte che si intravedono nelle altre regioni. E’ ancora non soddisfacente rispetto alla domanda, ma continuiamo ad impegnarci per non deludere la domanda che si è creata attorno alle imprese al femminile. La risposta ci ha stimolato a creare degli strumenti in dettaglio e di carattere generale che adesso riassumerò brevemente.Sia per le imprese artigiane che per le PMI, abbiamo un programma annuale di promozione economica. Abbiamo svolto un’azione congiunta con il Ministero del Commercio Estero. Visto che l’idea è quella di offrire alle produzioni locali sbocchi su scala più ampia, abbiamo sviluppato misure che danno contributi

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Il territorio che veste

del 50% del totale delle spese per iniziative nei paesi extracomunitari, per campagne di promozione, per partecipazione a fiere e mostre, per iniziati-ve collaterali a presenze fieristiche, ad attività di comunicazione, seminari di operatori internazionali nei territori in cui queste produzioni si svolgono. Sosteniamo missioni commerciali con un programma di specifica iniziativa, azioni pubblicitarie e di pubblica relazione intesa a diffondere quel marchio al quale facevo riferimento.Non si tratta dei grandissimi brand. Infatti, abbiamo valutato iniziative che su scene internazionali si presentavano attraverso il “no-logo” perché abbiamo visto che, nella concorrenza, identificare la produzione con un territorio, con una tradizione può fare la differenza.Valore della comunicazione: una mia amica è andata a Parigi e mi ha portato una scatola di paté. Noi cosa avremmo scritto sulla scatola? “Produttori di paté dal 1860”. I francesi scrivono “Createurs dù paté” e la cosa non è di poco conto! E la stessa cosa vale per la qualità: c’è un’idea nella comunica-zione che fa la differenza rispetto al successo non solo commerciale. Come Regione sosteniamo attività di commercializzazione in Toscana, sosteniamo e finanziamo studi e consulenze finalizzate alla messa in rete di aziende, studi di fattibilità per investimenti commerciali in showroom, in franchising e joint-venture, analisi per l’innovazione dei processi produttivi, distributivi e logistici.Tra l’altro, è aperto un bando che si adatta molto bene all’impresa al femmi-nile, alla piccola, piccolissima impresa per la fornitura di servizi qualificati alle imprese; il bando è aperto in continuo, ha una graduatoria trimestrale e permette un contributo fino a 200.000 euro in tre anni per l’analisi del posizio-namento competitivo della microimpresa o della piccola impresa. Serve per fare auditing interno con cui si possono vedere quali sono i punti di debolezza e di forza, il grado di specializzazione, quali sono le competenze necessarie.Si possono acquisire conoscenze sul marchio, sul marketing e quant’altro. Il tutto serve, da un lato, per fare l’analisi dei procedimenti interni all’azienda, dall’altro, per vedere i punti di forza e di debolezza. Un’altra iniziativa che abbiamo varato ed è sempre disponibile - l’acronimo è un po’ complesso - riguarda lo SMOAT che è il Servizio di Microcredito Orientato Assistito della Regione Toscana. Diamo contributi fino ad un massimo di 15.000 euro su un ammontare complessivo di 20.000 euro; non chiediamo garanzie reali, garan-zie ipotecarie e, accanto alla concessione di credito, svolgiamo un servizio di tutoraggio e assistenza perché, molto spesso, viene varato il master-plan che è mirato esclusivamente all’azione e non si considera che ci sono l’affitto, le

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pulizie, ecc. e che, molto spesso, queste spese possono fare la differenza nel successo e nell’insuccesso di un’impresa, in particolare per chi si affaccia sul mercato per la prima volta.In analogia a queste iniziative, poi, ci sono altri bandi per l’internazionaliz-zazione, per le imprese un po’ più strutturate che possono comprendere la costituzione di un’associazione temporanea di impresa. Riguardano più aspet-ti dell’impresa economica al femminile e non soltanto; serve per sostenere azioni che possono riguardare la consulenza per l’elaborazione di piani di implementazione commerciale, il supporto alla promozione, all’esportazione, alla creazione di reti, alla ricerca di partner, alla distribuzione, alle consulenze amministrative. Diamo tutto quello che serve, non un semplice contributo. Riteniamo che sia importante collaborare, assistere alla formazione del piano di impresa. Altrettanto importante è che dopo lo start-up non ci sia l’abbando-no totale, ma vi sia un rapporto che segua lo sviluppo di queste attività e noi abbiamo strumentazioni anche a questo riguardo.Inoltre, il consiglio regionale ha varato, su mia proposta, dopo un iter com-plesso, il Testo Unico per l’artigianato che riordina tutte le materie di sostegno di artigianato, artistico e tradizionale: vi sono imprese artigiane che posso-no raggiungere il limite di 50 dipendenti. In Toscana su 360.000 imprese e 480.000 unità locali produttive, il 97-98% ha meno di 20 dipendenti; le impre-se artigiane sono circa 117.000 con una quota media di 4,3 addetti. La parte significativa del nostro universo è fatta da micro e piccolissime imprese; ci è parso importante un intervento che mirasse ad una parte di rilievo della nostra economia che produce quei dati principali di export che ricordavo prima. Uno degli aspetti significativi – ricordo, per esempio, che per aprire una lavan-deria occorrono 67 autorizzazioni – è l’introduzione del Testo Unico della DIA, Dichiarazione di Inizio Attività, per l’artigianato. Basta un’unica dichiarazione per aprire l’attività che si vuole avviare. Prima, per accedere al microcredito erano richieste procedure complesse; ora basta che l’imprenditrice/imprendi-tore sia iscritto alla camera di commercio e presenti il proprio piano. Prima si finanziavano le attività di garanzia e se eri una donna non erano sufficienti le richieste di patrimonio, ma venivano richieste garanzie personali e del partner.Oggi facciamo credito sia per il microcredito, sia per le attività di artigianato e si valutano le capacità di autoliquidazione. Viene abbassata la soglia per il credito e per questo, oltre alla concessione di credito, c’è assistenza di tuto-raggio che, come dicevo prima, pensiamo sia un elemento necessario.Considerate che, per il periodo 2007-2013, abbiamo a disposizione per i

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fondi strutturali dello sviluppo economico 1 miliardo e 126 milioni di euro che si aggiungono ai circa 850 milioni di euro del FSE, ai circa 750 milioni di euro per il fondo delle aree sottoutilizzate e ad altri 800 milioni per il piano rurale. Abbiamo una massa finanziaria ingentissima di 3 miliardi e 600 milioni di euro per il periodo 2007-2013. Uno degli aspetti su cui siamo intervenuti è quello dell’accesso al credito che riguarda in generale l’impresa economica perché la condizione di crisi che si è generata ha fatto sì che agli imprenditori venga concesso sempre meno credito. Quando viene concesso, il tasso di riferimento, che ufficialmente è l’Euribor più uno spread che va dallo 0,90 all’1,55, in realtà arriva al 10% e, nonostante questo, è difficile ottenere credito. Oltre a ciò, se l’esposizione finanziaria è di un certo livello, con l’introduzione dei parametri Basilea2, ovvero del rapporto mezzi propri/indebitamento, accade che le banche siano più propense a dirti: “Guarda devi rientrare” piuttosto che concedere un nuovo credito. Noi abbiamo varato due fondi: uno da 15 milioni di euro per la trasformazione del debito da breve a medio-lungo termine e un fondo da 33 milioni di euro per la maggior liquidità. Accanto a questi strumenti che sono diventati operativi il 12 febbraio, ho presentato, proprio il 12 febbraio, un pacchetto da 50 milioni di euro che sostengono la ricerca, lo sviluppo e il riposizionamento competiti-vo dell’attività economica della nostra regione. In quest’ambito, possono rientrare le imprese al femminile e tutte le altre imprese. Poi spiegherà meglio Antonella Turci quali sono gli strumenti per l’impresa al femminile.Questo per dire che il ragionamento dal quale il Prof. Maracchi è partito, è un ragionamento che ci porterà nei prossimi giorni e mesi a definire una sorta di protocollo tra la regione Toscana, il CNR-Ibimet, una serie di produttori e chi vuole fare iniziative nel settore tessile-moda e che avrà la possibilità di determinare strumenti di intervento che si svilupperanno oltre il tempo della normale legislatura. Il professore dice che si è creata una felice anomalia, una sorta di allineamen-to astrale che ha fatto sì che ci fossero le condizioni per fare questa cosa. Ciò che mi convince è la voglia di fare azioni che siano stabili e che siano sottratte alla presenza dei singoli. Dopodiché i singoli ci mettono tutto l’impegno e la determinazione per dare operatività, però l’idea su cui abbiamo convenuto è quella di creare un sistema che sia sottratto alla temporaneità dei singoli, e che, una volta determinate quali sono le strategie e le azioni, possa vivere indipendentemente.

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Incontri e confronti con i territori

FrAncescA cAmilliCNR-Ibimet

Presentazione del progetto

Due parole sul progetto “Percorsi di Orientamento” all’interno del quale è stata organizzata questa tavola rotonda.E’ un progetto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha come obiettivo la valorizzazione dell’impresa femminile in aree rurali e che punta alla crescita dell’imprenditoria femminile sia come creazione di impresa che come diversificazione di impresa, cercando di sfruttare quelle che sono le potenzia-lità e le ricchezze dei saperi legati ad attività agricole e artigianali. Tutto ciò nell’intento - che è anche una sfida - di ricreare una filiera “agro-artigianale”.Il progetto si svolge in quattro aree di studio: Toscana, Emilia Romagna, Sar-degna e Campania nelle quali verranno portate avanti, nelle tre annualità di progetto, diverse azioni.Attualmente siamo nella prima annualità di progetto e, proprio in questi mesi, stiamo cercando di fare una fotografia di questi quattro territori, individuando quali sono le opportunità, le potenzialità e le criticità nei settori del comparto agricolo e di quello artigianale legati al tessile. Vedo che sono presenti molte rappresentanti di queste categorie, molte arti-giane che abbiamo intervistato, insieme ad alcune imprenditrici agricole.Altre azioni di questa prima annualità riguardano una serie di attività di ricerca sulle risorse materiali e immateriali di queste quattro regioni, legate ai settori di cui parlavo prima, ed attività di sensibilizzazione delle comunità locali ai temi di interesse.La seconda annualità si concentrerà sull’orientamento a gruppi di donne in aree rurali, sulle opportunità di imprenditoria femminile e sulla comunicazione del progetto. La terza annualità vorremmo focalizzarla su delle iniziative di sperimentazioni concrete.Abbiamo raccolto una serie di dati strutturali nelle quattro regioni, con un mo-dello di ricerca applicato a tutte e quattro le aree di studio. Come attività più importanti abbiamo intervistato imprenditrici agricole e artigiane cercando di rilevare le loro esigenze, le criticità sollevate dal settore e le soddisfazioni che ci hanno raccontato attraverso la loro storia di vita professionale.

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Il territorio che veste

Dalle interviste sono state rilevate queste criticità diventate poi oggetto di altre interviste basate su questionari, rivolte ad attori del territorio. Tutte que-ste informazioni sono state convogliate in una fotografia territoriale per la quale speriamo che anche questa tavola rotonda possa aggiungere ulteriori informazioni.Contemporaneamente stiamo cercando di capire come funziona il comparto lana in Toscana e in Sardegna, quello della canapa in Emilia Romagna o il comparto delle officinali-tintorie (altro settore interessante per lo sviluppo di filiere diverse) e quali possono essere le condizioni per ricreare questa filiera agro-artigianale di cui parlavo all’inizio.Il prossimo passo di questa fase sarà quello di individuare alcune aree pilota nelle regioni di studio nelle quali faremo orientamento nella prossima annua-lità.

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Incontri e confronti con i territori

TuniA burgAssiCNR-Ibimet

La Toscana e le criticità rilevate

Illustrerò la fotografia del territorio, fotografia che è venuta fuori grazie alle interviste ed alla disponibilità di tutte le imprenditrici intervistate; imprenditrici che fanno parte di diverse fasi della filiera: dalla sartoria, alla tessitura arti-gianale, all’allevamento di capi da fibra, che ci hanno aiutato molto a capire le esigenze reali e quotidiane di questa filiera.Innanzitutto, la cosa che è venuta fuori come punto di forza di questa filiera è la grande determinazione di queste imprenditrici, anche perché spesso agi-scono da sole e, se non fossero determinate, le attività sarebbero già morte in partenza. E invece, nonostante le difficoltà che possono incontrare, sono persone molto appassionate del proprio lavoro, persone che dedicano molto tempo alla ricerca e all’aggiornamento personale ed effettivamente, questo rappresenta un grosso punto di forza da cui partire per sviluppare questa filiera.Inoltre, è stata evidenziata in questo lavoro, una consapevolezza delle radici toscane legate alla moda e al tessile ed una marcata consapevolezza della propria creatività. Alcune intervistate mi hanno detto che gli italiani sono ar-tisti, che Firenze è la capitale della moda, che la Toscana ha delle radici che legano la moda alla tradizione e le imprenditrici sono risultate essere consa-pevoli di questo punto di forza che potrebbe essere sviluppato ulteriormente.Inoltre, come punto di forza della filiera è stata evidenziata la flessibilità del-la lavorazione artigianale. Questa flessibilità permette due cose importanti: rapida velocità di adeguamento alle esigenze di mercato, perché, come giu-stamente qualche imprenditrice ci ha fatto notare, se si vuole mettere in pro-duzione e seguire un certo tipo di mercato, gli artigiani possono farlo, non dico da un giorno all’altro, ma con costi di investimento molto minori di una grande impresa. Questo rappresenta un notevole punto di forza soprattutto per quanto riguarda un mercato dinamico, e non solo per la moda.La lavorazione artigianale, inoltre, permette quella personalizzazione del ser-vizio che spesso il cliente cerca e che, per quanto riguarda le produzioni in serie, non si trova. Si crea dunque questo rapporto tra l’imprenditore-artigiano ed il cliente che fa sì che l’artigiano divenga con la propria competenza e la

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propria creatività, lo “strumento” che realizza i desideri del cliente. Questo è un grandissimo punto di forza su cui tutte le produzioni artigianali dovrebbero puntare perché è questo ciò che distingue la produzione industriale in serie dalle produzioni artigianali e che crea il maggiore valore aggiunto.Va sottolineato che questa personalizzazione del servizio, questo rapporto che si instaura tra l’artigiano e il cliente stesso, lega anche la produzione al territorio. C’è qualcuno che ha fatto un paragone interessante tra la presen-za di un idraulico e la presenza di un artigiano: quando si chiama l’idraulico, l’idraulico deve essere qui, dove serve l’intervento; e così succede per gli artigiani. Questo rapporto personale che si crea tra l’artigiano e il cliente, si crea sul territorio e, di conseguenza, si radica la produzione artigianale sul territorio stesso. Quindi, radicando la produzione sul territorio, si aggiunge va-lore al territorio stesso, si crea indotto, si creano legami, si ravviva il territorio.Inoltre, da molte interviste, è emerso come punto di forza che la Toscana fornisce una notevole ispirazione a livello creativo per le produzioni artigianali. Tutti questi aspetti devono, ovviamente, essere approfonditi. Forse si potreb-be anche pensare alla caratterizzazione del prodotto toscano in sé, proprio come frutto di ispirazione derivante dalla presenza dell’artigiano sul territorio stesso, però questa è una cosa che andrà sviluppata ulteriormente. E’ stato anche evidenziato, sia per quanto riguarda l’aspetto turistico, sia per quanto riguarda gli abitanti stessi del territorio toscano, che in Toscana si ap-prezza molto l’artigianato rispetto ad altre regioni; questo è un punto di forza su cui tutte le produzioni artigiane dovrebbero fare leva.I punti di debolezza sono molti perché questa filiera dal punto di vista orga-nizzativo è in fase embrionale. Anzitutto, per il comparto lana c’è un grosso problema di censimento di capi ovini. Il mio collega Roberto Orlandini sta cercando di ricavare qualche dato certo, sia a livello regionale che naziona-le, ma è veramente molto difficile riuscire a capire la consistenza e quindi il potenziale di materia prima che potrebbe essere disponibile per essere lavo-rato in loco. Ovviamente ci sono realtà che fanno selezione genetica e che sono particolarmente appassionate. Noi stiamo cercando di interfacciarci con queste persone, però a livello di censimento e di anagrafe c’è ancora molta strada da fare.Questa filiera risente di una certa penalizzazione normativa sotto due aspetti: da una parte gli studi di settore, perché le imprese, soprattutto quelle che si trovano in aree rurali, risentono di problemi di visibilità e di reperimento di ma-terie prime in quanto ci sono meno servizi e infrastrutture; l’attuale normativa

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include le imprese fino a 15 dipendenti nello stesso studio di settore, sia che si trovino in aree rurali, sia che si trovino in zone meno svantaggiate. Dall’altra c’è un vuoto normativo che non riesce a classificare le aziende che producono la materia prima: per esempio le aziende che allevano capi da fibra e lavorano la fibra che producono, sono costrette a costituire due tipi di società, una arti-gianale e una agricola. Questo è un grosso vuoto normativo che limita di fatto la messa in atto effettiva di quella multifunzionalità che il Piano di Sviluppo Rurale decanta e promuove, giustamente, anche come funzione di presidio territoriale nelle zone rurali svantaggiate. Questo vuoto normativo crea una notevole penalizzazione per queste aziende.C’è anche un problema che riguaeda la valutazione economica del proprio lavoro: spesso il tempo che si impiega nelle lavorazioni artigianali è diffici-le da valutare perché si esce dagli schemi di mercato attuali che riflettono la produzione industriale. Quindi, sarebbe necessario riuscire ad educare il consumatore o costituire una filiera dove questa valutazione economica non si rifaccia alla valutazione economica di tipo industriale perché altrimenti gli schemi di mercato saltano.E’ stata rilevata una notevole difficoltà di coordinamento tra le fasi perché gran parte della produzione delle materie prime avviene in grandissimi quan-titativi a livello industriale e questo si coordina male con le piccole dimensioni e le esigenze di piccoli quantitativi di materia prima da lavorare nelle singole imprese artigiane.Per quanto riguarda il comparto lana, ci sono delle fasi critiche in tutta la filiera che sono rappresentate dalla tosatura, dalla lavatura della lana e dalla filatura. Ci sono problemi di ordine dimensionale perché alcune fasi, come per esem-pio la lavatura, vengono svolte solo con grandi quantitativi di materia prima e richiedono dei grossissimi investimenti. Ciò non si coordina con le dimensioni produttive del resto della lavorazione della filiera.Inoltre, manca capitale umano: per formare un artigiano ci vuole tempo, bi-sogna che l’artigiano stesso perda (ma sarebbe meglio dire investa) tempo nel formare altre persone; quando questi artigiani sono gli unici titolari della propria impresa, hanno grosse difficoltà a conciliare la produzione effettiva che li fa andare avanti economicamente, con la formazione di possibili leve che possano aiutare nella produzione. Oltre a ciò, manca anche il capitale materiale. Ad esempio, mancano i macchi-nari di dimensioni abbastanza ridotte che permettano una lavorazione di tipo professionale, proprio perché è stata quasi del tutto persa la tradizione della

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lavorazione artigianale in senso stretto.Nonostante tutte queste difficoltà e questi punti di debolezza, le attività ar-tigianali tessili ci sono, vivono, alcune sopravvivono. Questa è una grossa opportunità che dovrebbe essere colta. Servono agevolazioni normative ed altri interventi come il coordinamento tra le fasi. La lavorazione artigianale tessile risulta molto apprezzata da una fascia di mercato molto alta e questa è un’opportunità che va sfruttata. Il turismo offre grandissime possibilità e quindi si dovrebbe creare una sinergia che riesca a collegare il turismo con le lavorazioni artigianali.Tra gli aspetti negativi è stata registrata una scarsa attenzione verso i corsi di aggiornamento: queste aziende fanno molto da sé e forse ciò rischia di far perdere delle opportunità in termini di innovazione anche alle singole im-prenditrici. Inoltre, c’è un alto rischio di perdita di capitale materiale, cioè se lasciamo morire certi tipi di attività con certi tipi di macchinari, poi è molto difficile ripristinare tali macchinari se non con altissimi costi.Col nostro progetto ci dedichiamo ad approfondire certi aspetti. Innanzitutto, è necessario vedere se è possibile ricostruire la “filiera tessile corta” in To-scana e in Italia. Nostro ulteriore obiettivo è riuscire a capire come fare rete sia tra le diverse fasi di una stessa filiera, sia tra operatori all’interno di una stessa fase (perché spesso c’è un grandissimo scoordinamento tra gli stessi operatori) sia anche tra filiere diverse. Per esempio pensiamo se è possibile valorizzare la lana che viene scartata dagli allevamenti da carne.Ci proponiamo di riuscire a capire se è necessario un supporto istituzionale nelle prime fasi della creazione di queste reti e, soprattutto, che tipo di sup-porto. Oltre a ciò, ci proponiamo di riflettere sulla possibilità di creare dei marchi territoriali per il prodotto agro-artigianale toscano o italiano.

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mAriA crisTinA rocchi Responsabile Donna Impresa, Coldiretti Toscana

La filiera corta nel settore no-food

La Toscana è una terra di prodotti eccellenti: i pecorini, i grandi vini, l’olio ex-travergine, i salumi, le carni pregiate e altro. L’agricoltura opera, però, anche nel no-food.Io vengo dalla Valdichiana Senese, zona caratterizzata dalla presenza di gelsi. Ora il paesaggio è molto cambiato, ma prima era tutto pieno di filari perché quella zona era indirizzata all’attività del baco da seta. Già nel 1223 si trovano documenti della coltivazione del gelso nella Lucchesia e la seta di Chiarentana, borgo tra la Val d’Orcia e la Valdichiana. Questa attività è stata molto diffusa fino a circa il 1940. La bachicoltura era un’attività importante per le nostre famiglie di contadini, era un’importante risorsa. A Montepulciano ho trovato un dato interessante: fino ai primi del 1900 c’era uno dei più grossi stabilimenti in Italia ed occupava circa 600 dipendenti; per l’epoca era una cosa notevo-le. La mia stessa azienda ha sede in quella che tanti anni fa era una filanda. Quindi abbiamo delle tradizioni legate storicamente al territorio. Oltre ai bachi da seta c’era la coltivazione di lino e ginestra. L’agricoltura da allora è molto cambiata. Oggi l’agricoltura va verso la multifunzionalità. La Coldiretti si è interessata moltissimo per l’approvazione della legge di orientamento; prima ho sentito dire della mancanza di collegamento tra chi produce materiali per la filatura e chi si occupa di trasformazione.L’agricoltura è molto cambiata perché già l’agriturismo ha introdotto elementi diversi, ha cambiato indirizzo: tanti che facevano attività di produzione hanno iniziato a fare trasformazione di prodotti. Ci sono aziende che puntano all’energia. Non è più una campagna che rimane chiusa dentro se stessa, ma è una campagna che vuole uscire fuori, che vuole comunicare (le fattorie didattiche, gli agri-asilo, le attività sociali).La filiera corta: tutti quanti sentono parlare di filiera corta, di “farmers’ mar-kets”, di “kilometro zero”. Se ne parla moltissimo e una delle criticità era quella di recuperare il valore del prodotto: il mio prodotto mi dà tanto, ma poi la distribuzione lo vende a tanto di più e a me rimane un valore sempre basso. Quindi, la filiera corta nasce per arrivare a recuperare valore, perché per ogni euro speso in alimenti, il 60% va alla distribuzione, 23% all’industria alimentare

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e solo il 17% agli agricoltori. Per questo abbiamo puntato alla filiera corta e probabilmente lo faranno anche altri settori, notando che, in media, i prezzi aumentano cinque volte dal campo alla tavola, tantissimo! La filiera corta ha un forte alleato che è il consumatore che ha bisogno della garanzia di qualità. Continuamente sentiamo parlare di scandali alimentari, dalla mucca pazza all’aviaria, fenomeni che ci hanno fatto riflettere e che hanno cambiato i nostri usi, i nostri consumi, il bisogno di sentirci sicuri di quello che mangiamo, ma anche di quello che indossiamo. Recentemente abbiamo sentito parlare di scarpe tinte con sostanze tossiche, di indumenti tossici: di questo i consumatori dovrebbero essere informati.Per fronteggiare la crisi, l’agricoltura ha spinto di più verso la qualità ed il territorio. Se i nostri prodotti puntano alla qualità e al territorio, risultano vin-centi. Lo dovrebbero fare anche i settori industriali. Mentre se puntiamo su produzioni di basso livello non arriviamo da nessuna parte, ci sono altri che riescono a farlo come noi, meglio e a costi più bassi.Le donne sono protagoniste in questa evoluzione del mondo agricolo. Un ter-zo delle imprese agricole italiane è gestito da donne: brave nella conduzione di agriturismi, abili nella trasformazione dei prodotti, molto portate alla vendita diretta ed alla creazione dei “farmers’ markets”.La crisi attuale, questa congiuntura che per noi viene anche da molto più lon-tano, ci ha spinto alla diversificazione. Da anni vendiamo a prezzi mondiali e sosteniamo costi italiani.Soprattutto oggi, entra in discussione il piccolo, mentre prima si diceva che l’impresa piccola artigianale o agricola era perdente perché non aveva i nume-ri giusti per competere su scala mondiale. Oggi, con la situazione economica che si è andata creando, si sono rimessi in discussione questi temi: è sempre vero che il piccolo è sbagliato, che il piccolo è fuori dal settore economico? Oggi il piccolo ha una resistenza maggiore, una flessibilità migliore.Per ciò che riguarda la “filiera corta” nel no-food del tessile credo che sarebbe opportuno stringere una sinergia tra produttrici agricole, produttrici e produt-tori di fibre naturali, trasformatrici e creatrici di prodotti artigianali.Noi abbiamo la potenzialità: c’è tanta lana che spesso i nostri pastori non sanno dove mettere o che viene venduta a pochissimo o che diventa un pro-blema. E’ un peccato perché è una risorsa importante che viene sprecata. Noi non sappiamo bene quanta lana ci sia, di che tipo e quali siano le razze che potrebbero dare prodotti di qualità utilizzabili per prodotti artigianali. Sa-rebbe importante allargare la vendita ai “farmers’ markets”. L’esperienza dei “farmers’ markets” è un’esperienza importante che in molte città dà risultati

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importanti e interessanti. La grande distribuzione, di fronte a questi fenomeni, si sta mettendo in discussione, sta cercando di capire che, forse, ci sono sistemi alternativi di distribuzione e di vendita che si stanno facendo avanti.Quindi, sarebbe importante creare una sinergia di vendita di prodotti alimenta-ri e prodotti dell’artigianato tessile nei canali agrituristici; sarebbe interessan-te poter vendere, accanto ai nostri prodotti, anche i prodotti dell’artigianato del tessile per una valorizzazione del prodotto rurale come cultura, come tradizione. Perché non proporre nell’ambito delle nostre attività qualcuno che venga a parlare della tessitura e della qualità dei filati?Il settore dell’agriturismo in Toscana è importante; ci sono tantissimi stranieri e, per esempio, è importante organizzare dei corsi. La Toscana, nell’imma-ginario, è talmente potente nel mondo che tutto quello che spesso parla di toscanità ha un fascino particolare. Questo andrebbe sfruttato di più. Spesso, invece, la nostra immagine è stata sfruttata da chi veniva a fare pubblicità di pasta, biscotti, prodotti alimentari, quando, in realtà, è il nostro lavoro che ha portato ai bei risultati del paesaggio delle colline della Toscana.Quindi porto delle proposte. Potremmo fare iniziative sulla creatività del terri-torio: “Il bello e il buono della campagna toscana”. Sarebbe importante creare un marchio toscano per i tessuti artigianali di qualità, prodotti realizzati con fibre naturali. Usiamo questa toscanità, andando a produrre prodotti di qualità e puntando alla valorizzazione della lana ovina di cui abbiamo quantità enormi che, spesso, vengono disperse e mai utilizzate.Nel mio agriturismo non mi dispiacerebbe avere coperte, tende e tessuti fatti con fibre naturali toscane: queste cose non andrebbero solo fatte, ma anche comunicate perché la comunicazione è fondamentale. Ma per tutto questo ci vuole uno studio di fattibilità, di sostenibilità economica del progetto perché, se deve esser un’attività “spot”, così lanciata per dire: “Lo facciamo!” e poi, in realtà, è qualcosa che non è sostenibile, allora è meglio lasciar perdere.Sono stati fatti progetti per la canapa, ma se non c’è la convenienza, se i prezzi sono troppo alti, se non c’è organizzazione, allora tutto va a morire; sono risorse sprecate. E’ necessario quindi il supporto alla ricerca per selezionare le razze idonee alla produzione, capire quali sono le razze idonee a produrre la lana e anche le varietà per quanto riguarda le coltivazioni e, naturalmente, ci vuole l’impegno dell’alta professionalità dell’artigianato tessile toscano che sappiamo avere una tradizione enorme.Se ci sono tutti questi elementi, insieme si può costruire qualcosa di interes-sante per la nostra Regione Toscana.

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mAurizio ruiniCoordinatore CNA Federmoda

Artigianato tessile, territorio e comparto della moda

L’artigianato e la moda sono settori molto importanti per il nostro territorio. Questo binomio, aggiunto all’arte, è qualcosa che arriva dal Medioevo, dal Rinascimento, dall’arte della lana, dall’arte della seta, e che sono il punto di partenza da cui è nata la moda. Anche oggi, sul nostro territorio, ci sono aziende importantissime; multinazionali che hanno una tradizione artigianale e sono delle vere e proprie griffe. Che cosa rimane di queste tradizioni, oggi che andiamo verso la globalizzazione? Io credo che se non analizziamo quello che Firenze e la Toscana sono state nel tempo, non siamo in grado di adattar-ci a quello che è la nuova situazione. Dobbiamo riuscire a vedere cosa sappia-mo fare e come sappiamo migliorarci. La globalizzazione deve essere vista come un’opportunità. Le nostre aziende, che hanno fatto del “saper fare” un valore intrinseco del nostro territorio, devono sfruttare questa opportunità per cercare di andare in tutti i mercati. E’ solo in questo modo che il settore della moda toscana può riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel. Noi dobbiamo riuscire a portare avanti questo, attraverso il ricambio generazionale. Inoltre, dobbiamo rivolgerci a mercati di fascia estremamente alta. Dobbiamo riuscire a superare le questioni che riguardano le fasce di prezzo perché se andiamo a cercare una produzione al ribasso, le nostre aziende saranno sempre per-denti. Per fare questo, cioè per vendere prodotti di fascia alta, dobbiamo fare investimenti in ricerca e formazione. Deve essere una ricerca di prodotto e di processo. Bisogna anche fare una cosa che a noi toscani purtroppo non riesce fare: mettersi insieme. L’aggregazione è sempre stato un problema perché la Toscana è sempre stata una regione di localismi. Dobbiamo cercare di metterci insieme per abbattere i costi di produzione e mantenerci sul mer-cato. Solo così, possiamo pensare di andare in tutti i mercati e piazzare i no-stri prodotti di qualità. Qualche aiuto concreto non guasta, però bisogna dire che sotto questo aspetto la Regione Toscana è abbastanza presente perché negli ultimi tempi ha messo a disposizione tutta una serie di bandi che sono stati a vantaggio delle nostre aziende.Cosa dobbiamo fare a livello politico per difendere questo tipo di produzione? Dobbiamo valorizzare il “Made in Italy” e la normativa attuale non è sufficiente.

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La nostra associazione, insieme ad altre associazioni di produttori, ha cercato di far passare una legge che è quella del Full Made in Italy che però va a sbat-tere contro le esigenze della catena della distribuzione. Alla distribuzione non interessa assolutamente dove viene fatto un prodotto, mentre per i produttori è fondamentale. Una legge che tutelasse davvero il Made in Italy aiuterebbe senza dubbio i prodotti fatti sul territorio.Un altro aspetto importante è la tracciabilità che è una cosa abbastanza com-plessa. Dobbiamo dare atto al sistema delle camere di commercio che ha attivato un sistema di tracciabilità volontario. Questo fa capo all’Italian Textile Fashion che è una società che ha sede a Roma e che è stata creata dalla sinergia di tutte le Camere di Commercio Italiane e consente, a chi vuole, di fare la certificazione di un prodotto fatto in una certa maniera, in un certo territorio. In questo modo, si riesce a dire che un certo capo è stato fatto sul territorio toscano. Questa cosa, in un sistema legislativo che non dà grandi garanzie a coloro che producono in una certa maniera, dà un valore aggiunto.Un’altra cosa importantissima, che voi aziende dovete pretendere, è di partire alla pari quando viene fatto un certo tipo di prodotto: noi non possiamo andare a discutere su come vengono fatti certi prodotti all’estero, in India, in Cina, ma qui in Italia dobbiamo pretendere che si parta alla pari, perché non in tutti i casi questo avviene. Intendo dire che, al fine di tutelare quelle aziende che rispettano le regole dal punto di vista dell’ambiente, dei contratti di lavoro – la certificazione SA8000 è già qualcosa, ma non basta – bisogna pretendere che gli organi di vigilanza stiano attenti se una produzione viene fatta al di fuori di queste regole.Altra cosa fondamentale è la cultura del prodotto che dai consumatori non è molto sentita. Un consumatore deve essere messo in condizione di ricono-scere un prodotto fatto in un certo posto, in una certa maniera, ad un certo prezzo, da altri prodotti di qualità inferiore. Una volta che il consumatore è a conoscenza dei metodi di produzione, starà a lui decidere se gli va bene com-prare un prodotto fatto in determinate condizioni e ad un certo prezzo.Io credo che col Full Made in Italy, con la tracciabilità, con una cultura che deve essere trasmessa ai consumatori, le aziende che sono sul territorio saranno sempre più valorizzate e manterranno così proprio sul territorio la loro produzione.

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AnTonellA TurciDirigente Regione Toscana

L’orientamento all’impresa artigiana nel settore tessile

L’imprenditrice è il punto di riferimento dei nostri interessi. La nostra respon-sabilità parte dalla necessità di attuare una legge nazionale (215/92) che sta attraversando un periodo critico. Questo non ha fatto sì che perdessimo l’inte-resse e il desiderio di portare avanti quello che la Regione Toscana dal ‘97 si era proposta utilizzando al meglio le risorse nazionali, cofinanziando i propri programmi con particolare attenzione verso le donne toscane che volevano fare impresa.La Regione ha indirizzato le risorse non solo specificamente all’imprenditoria, ma ha sempre cercato di allargare il ventaglio e le disponibilità a tutte le impre-se, senza distinzione di genere; ma il fatto che ci fosse una legge dedicata a livello nazionale (le altre nazioni non l’hanno avuta) dava maggiore attenzione ad una disparità di genere che si voleva recuperare. Abbiamo cercato di dare un aiuto non solo per settori produttivi, ma per dare maggior sostegno alle attività a cui la donna voleva accedere per valorizzare la propria presenza, quindi per crescere e dar sfogo alla creatività. L’Italia ha registrato sempre questa disparità in ampi settori.Il valore della tradizione, della capacità di potersi avviare da parte delle donne in settori come il tessile, la moda, l’artigianato, il settore manifatturiero: noi questo l’abbiamo riscoperto nell’attuazione dei progetti europei. Le ricerche che abbiamo avviato hanno messo in luce questa caratteristica specifica, pe-culiare dell’imprenditoria femminile toscana proprio perché c’era questo gros-so valore che partiva dalla tradizione nelle donne toscane.L’imprenditoria femminile corrisponde al 25% delle imprese toscane ed è con-centrata soprattutto nei settori del tessile, del manifatturiero e nei settori complementari come cuoio e pelletteria. Ma anche nell’agroalimentare c’è una grossa presenza femminile e, sommati, costituiscono un terzo delle imprese toscane.La Regione Toscana è molto variegata come territorio e come attività setto-riali. Queste attività, che oggi sono oggetto di questo incontro, evidenziano quanto la tradizione abbia contato e quanto sia necessario tenerla viva. È importante non solo la quantità di risorse che vengono poste nei bilanci regio-

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nali, ma come vengono spese, soprattutto nell’attivare azioni complementari che non sono solo finalizzate a distribuire la risorsa finanziaria. È importante poter mettere insieme attività e iniziative che servono a costruire la capacità manageriale; dar loro quella forza che possa renderle sicure per affrontare mercati internazionali (e non solo) e che inoltre riescano ad avere la sicurezza di rimanere in piedi dopo lo start-up. Questo perché, spesso, con i primi bandi si finanziava la buona idea, l’impresa partiva ma, passati i primi due anni, c’era un’altissima mortalità di imprese femminili e, ancora oggi, abbiamo a che fare con tantissime revoche e con tantissimi problemi per imprese nate, cresciute e morte nel giro di due anni. Queste sono soprattutto imprese femminili che sono molto fragili, sicuramen-te di più rispetto al resto dell’imprenditoria. Inoltre, ci sono maggiori difficoltà per l’accesso al credito: non è solo uno stereotipo. Manca la capacità di stare sul mercato. Va rafforzata la capacità di credere in se stesse e non tanto la disponibilità di risorse. Per questo, nei programmi regionali, complementari ai bandi, puntiamo sui corsi di formazione manageriale, su attività che servono a sostenere e accompagnare l’imprenditrice nel percorso di avvio e manteni-mento dell’attività sul mercato.Possiamo indicare alcuni di questi progetti che hanno contraddistinto l’attivi-tà della Regione. Inizialmente abbiamo posto l’attenzione sull’autovalutazione che serve alla donna per capire se ha le potenzialità per avviare l’attività. Abbiamo attivato per la seconda volta un percorso che si chiama “Bilancio di competenze” che dà la possibilità alle imprenditrici di poter capire attraverso un percorso se sono in grado di poter avviare un’attività che non sia solo un desiderio. Attraverso questo percorso l’imprenditrice capisce qual è la sua attitudine, la capacità di essere autonoma, di creare relazioni, nuove società. Le imprese che si avviano fanno quel passaggio di qualità per cui creano altri tipi di impresa come la cooperativa o un’altra forma societaria. Questa è una delle prime risposte che danno la concretezza ad un percorso di competenza di questo tipo.Altra iniziativa che è già una seconda edizione terminata con successo, è un percorso di mentoring, che abbiamo chiamato “Madre-Figlia”: è un’attività di tutoraggio in cui creiamo delle coppie formate da alcune mentoring, che sono imprenditrici esperte, e da imprenditrici nuove o aspiranti tali. Facciamo questo perché vogliamo che ci sia un passaggio di esperienza tra chi ha già testato quello che vuol dire un’attività manageriale e chi lo vorrebbe fare. Questa è una possibilità che abbiamo dato ad un gruppo di donne che, gra-

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zie a questa attività, hanno creato reti e relazioni. In questo abbiamo trova-to imprenditrici interessate al settore del tessile. Ci sono state congiunzioni particolari in cui non era solo un mettere insieme imprenditrici di uno stesso settore, anzi l’abbinamento riusciva meglio se i settori erano diversi. C’è stato un gruppo che si è creato attraverso un’imprenditrice che lavorava nel settore del tessile, una del settore della comunicazione (strettamente col-legata all’in-coming turistico) e un’altra, la mentoring, che aveva esperienza nel relazionarsi con gli altri. Queste persone insieme hanno creato un legame così forte che è andato ben oltre la loro relazione di tipo economico-produtti-vo, ben oltre il semplice incontrarsi nell’iniziativa progettuale. Questa è stata un esperienza positiva che ha permesso di capire che è proprio dall’incontro diretto tra le persone che si possono fare passi avanti insieme. Lo scambio funziona a qualsiasi livello soprattutto quando si hanno obiettivi comuni.Altro progetto è stata la “Tela di Aracne”, progetto Interreg del programma comunitario, che ci ha visto capofila di 13 partner (6 regioni italiane e alcune regioni di Spagna, Grecia, Tunisia e Algeria). Siamo partiti dall’esperienza del-le imprenditrici femminili nel settore del tessile e abbiamo cercato di capire come, dallo studio della tradizione, si poteva giungere a creare una relazione tra quello che erano le tradizioni - e quindi il passato di ogni singolo territorio che si affacciava sul Mediterraneo - e l’idea di lavorare per un futuro comune, in cui le relazioni e gli scambi potevano essere di aiuto alle imprenditrici che si incontravano, si mettevano in rete e, attraverso uno strumento specifico che avevamo creato, “la vetrina delle imprese”, potevano effettuare degli scambi e questo è stato positivo. Siamo partiti da un connubio tra il museo Atelier e, nel territorio toscano, il Museo del tessuto di Prato; museo ricco di un pa-trimonio che poteva essere utilizzato dalle imprenditrici del tessile per poter recepire input e impulsi creativi. Anche i partner stranieri hanno cercato di fare lo stesso e, attraverso due laboratori, siamo riusciti a far conoscere e a far scambiare tra di loro im-prenditrici di questi diversi territori. Non c’è stato solo uno scambio tra lana e tappeti, ma uno scambio di cultura. È dalle piccole cose che si può creare qualche cosa. Noi come istituzioni pubbliche siamo portati a parlare; poi, quando è il mo-mento di creare qualcosa, le imprenditrici si trovano sole e questo non deve accadere. Forse anche esempi piccoli come questi servono a fare capire qual è l’opportunità da dare ai nostri territori.Bisogna lavorare molto per il futuro tenendo conto, soprattutto, delle esigenze

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del consumatore che tiene il polso del mercato e che vuole saperne sempre di più su come viene fatto il prodotto. Gli incontri come quello di oggi servono per fare chiarezza nei vari operatori, per capire cosa si deve fare per migliora-re tutto il procedimento e le procedure. Noi siamo chiamati in causa, non solo per mettere sul piatto le risorse, ma per attivarci e ottimizzare i procedimenti e l’utilizzo delle risorse, cercando di non distribuirle a pioggia ma mirando a sostenere la qualità dei processi e dei prodotti che verranno realizzati.

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serenA VellAReferente Pari Opportunità Provincia di Pisa

Impresa, microimpresa e organizzazione del lavoro

L’intervento verte su esperienze della Provincia di Pisa che riguardano la valo-rizzazione della partecipazione femminile nel mondo del lavoro.Per quanto riguarda l’artigianato e la perdita delle tradizioni vorrei citare pro-prio la testimonianza di un’artigiana sarda, Chiara Vigo, ultima lavoratrice del bisso, seta naturale marina prodotta da un raro mollusco, la Pinna nobilis. Si tratta di una lavorazione sviluppata nell’area mediterranea. Da questa seta si ottengono tessuti molto pregiati. Chiara Vigo spiega perché ha intrapreso questa tradizione millenaria: “Ho intrapreso questo percorso difficile con la consapevolezza che la perdita del filo del bisso corrisponderebbe alla perdita del senso di preziosità della natura. E’ un percorso difficile perché i tempi sono cambiati e la morfologia dell’ambiente, sia naturale che umano, è irrico-noscibile. La marea consumistica ha piegato le radici degli antichi mestieri, ha slegato le comunità dalla natura dei propri luoghi, ha prodotto l’alterazione totale dei propri bisogni.”La nostra esperienza parte dall’idea che attraverso un’efficace governance cooperativa, attraverso le reti e attraverso l’utilizzo di specifiche misure di sostegno, si può provare a sostenere gli effetti disastrosi di questa crisi che sul nostro territorio si sentono molto forti. Bisogna provare ad adottare una visione positiva partendo da una realtà territoriale che, pur non vantando una tradizione nel settore del tessile, tuttavia vede una crescita del settore legata alla presenza di donne emigrate che portano plusvalore attraverso saperi lontani. Nel territorio della Val d’Era, a Pontedera, sono stati formati consorzi con l’idea di valorizzare il tessile e la moda e ci sono agenzie formative legate alla formazione degli imprenditori.È stato registrato (in zone non rurali) un sommerso di microimprese di donne che chiedono alle politiche del lavoro come fare per avviare attività di impresa. Allora abbiamo cercato di pensare a dei percorsi sperimentali con i centri per l’impiego sui territori, per ricreare un contatto con donne di 30/35 anni iscrit-te al centro per l’impiego, ma lontane dal mondo del lavoro da almeno due anni, per capire i fattori che le avevano tenute lontane dal mondo del lavoro e quali erano i bisogni delle donne imprenditrici in questi settori.

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Sono nati progetti racchiusi in una macroazione chiamata “Movimentazione donne” per ricreare un rapporto di fiducia con l’utenza femminile (70% del-l’utenza dei centri per l’impiego).Abbiamo messo in atto strategie che mettono insieme una pluralità di risorse, abbiamo unito le risorse FSE e risorse dello sviluppo economico per costruire percorsi positivi. Siamo intervenuti su più fronti:

-— sulla formazione, non calata dall’alto ma pensata in base ai riscontri che arrivano dalle imprese, con due strumenti: i voucher formativi e le carte ILA, strumenti che permettono di pensare a percorsi individualizzati e pensati per la persona;

— sulla formazione rivolta agli imprenditori (progetto finanziato dall’iniziativa Equal) rispetto all’acquisizione del saper fare ed all’organizzazione del lavoro (maternità);

— sull’ambito della creazione di impresa, non solo attraverso lo start-up e la consulenza, ma anche seguendo l’imprenditrice nel percorso con il finanziamento di due sportelli: uno presso il centro dell’impiego di Ponte-dera gestito dall’Asefi e uno delle attività produttive presso il centro del-l’impiego di Pisa che dà informazioni su come accedere ai finanziamenti.

Rispetto al settore tessile abbiamo pensato a come fare per ridare entusia-smo a lavori che nessuno vuole più fare, puntando su arti e mestieri, trasmet-tendo l’importanza di ritornare al lavoro manuale, artigianale, al saper fare. Il tessile è stato importante anche per motivare di nuovo donne in condizione di disagio, come per esempio donne carcerate. La conciliazione è la questione più difficile. Abbiamo creato un tavolo di con-ciliazione da cui è emerso che molte donne rifiutano offerte di lavoro perché non sono supportate sufficientemente: allora abbiamo messo in atto uno stru-mento che sono i voucher di conciliazione.Dobbiamo lavorare molto su come la donna vede se stessa. Stare fuori dal mercato del lavoro per tanto tempo confonde le idee, ci dà l’idea di questa mamma perenne di cui non si può fare a meno, quindi abbiamo cercato di lavorare con i nostri progetti anche su un “ripensarsi” donne e sulla voglia e il desiderio di rimettersi in gioco.

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nellA oggiAno ARSIA

L’impresa multifunzionale: esigenze di diversificazione e compatibilità normativa

Per quanto riguarda lo sviluppo rurale, negli ultimi anni, le donne sono state protagoniste, sia in progetti europei che a livello locale, come dimostra in Toscana la collaborazione tra Zeri e San Giovanni d’Asso a Siena per la produ-zione della mezzalana.E’ anche vero che, negli ultimi anni, il significato di sviluppo rurale è cambiato molto perché è passato da un concetto di difficoltà a quello di valorizzazione. Anche il Piano di Sviluppo Rurale, PSR, afferma che non si deve più parlare di sviluppo agricolo, ma di ruralità che deve essere vista come strumento di crescita. La Toscana è indicativa di questo percorso in quanto la ruralità è con-nessa alla storia del territorio, alla tradizione. Questa evoluzione del concetto di ruralità come ricchezza di valori da recuperare e valorizzare, combinata alla formazione di una coscienza, ha spinto verso un’agricoltura di qualità, sia in termini di prodotto che di processo. La qualità per lo sviluppo agricolo è fon-damentale. Da qui sono derivati dei processi di ristrutturazione e innovazione. Si è sviluppata l’attenzione per l’ambiente e le produzioni biologiche. Sono nati agriturismi in cui anche le attività di didattica sono diventate importanti. Si sono recuperati antichi mestieri che hanno prodotto nuove opportunità oc-cupazionali. Le donne sono protagoniste di tutto questo, soprattutto in zone rurali che vedono progetti pieni di significato non solo in termini produttivi, ma anche economico-sociali e demografico-ambientali. Tutto questo costituisce la mul-tifunzionalità, cioè tutto quello che fa parte del mondo agricolo e del mondo rurale e che non è strettamente legato alla produzione. E, per quanto riguarda la multifunzionalità, le donne sono protagoniste.Una caratteristica molto importante che è stata rilevata nel progetto del CNR è che le donne sono consapevoli dell’importanza del recupero e della valoriz-zazione della cultura locale: per questo sono diventate protagoniste. Inoltre, caratteristiche tipiche delle esperienze femminili sono la capacità di innova-zione, la creatività e la fantasia; e questo perché le donne, come i giovani, hanno più curiosità, hanno più capacità di mettersi in gioco rispetto all’uomo

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che segue in genere dei percorsi già definiti e sicuri.Adesso vi parlerò di un nostro progetto del 2001 che ha avuto aspetti positivi, ma anche negativi. Il progetto si chiamava Ruralia e si rivolgeva alle giovani donne in zone rurali. E’ nato in seguito ad alcuni incontri in cui era stata eviden-ziata dai partecipanti l’esigenza di un collegamento tra le realtà imprenditoriali che portasse a uno scambio di idee e di esperienze che facessero crescere e sviluppare la ruralità. L’obiettivo principale era quello di creare una rete per-manente autogestita. Ruralia è stato sponsorizzato dall’Arsia, sia da un punto di vista finanziario, sia da quello dell’animazione: ha permesso la nascita di un sito internet ed ha promosso incontri sul territorio.Ruralia ha riguardato l’intero territorio toscano. Le imprese che vi hanno ade-rito sono cresciute di numero nel tempo. Anche il sito internet ha avuto suc-cesso: per esempio, nel 2002 ha avuto oltre 300.000 contatti. Il sito dava informazioni su formazione, bandi, eventi a livello locale, progetti europei, ecc. Nel 2005 il progetto è finito. Tuttavia da Ruralia è nata Ruralità che è l’associazione dei partecipanti a Ruralia. Purtroppo, da quel momento è nata la crisi. Infatti, fino a quando Ruralia è stata supportata dall’ARSIA, non solo finanziariamente ma anche dal punto di vista dell’animazione, ha funziona-to molto bene. Evidentemente c’era la necessità di un progetto del genere. Quando tutto questo è finito, è finita anche Ruralia. I motivi per cui questo progetto non si è sviluppato sono difficili da compren-dere. In parte, secondo me, le cause sono legate alla mentalità dell’ambiente agricolo. Oltre a ciò, il territorio toscano è vasto e quindi muoversi per incon-trarsi è faticoso: ci vogliono forti motivazioni.Gli obiettivi dell’associazione Ruralità erano quelli di creare servizi alle aziende agricole, una facilitazione nel marketing, nella produzione e vendita di prodotti biologici. Questo aspetto è stato gestito da un gruppo di quattro donne che purtroppo si è rotto e questo perché, oltre alle questioni personali, ognuna di loro aveva un altro lavoro. Ma la cosa determinante è stato l’aspetto economi-co: con questa attività non riuscivano a viverci. Nonostante ciò, riteniamo che la metodologia adottata, cioè quella della crea-zione di una rete, sia la più adatta. Infatti viene ancora usata nei progetti ARSIA, sia nell’agricoltura sociale, sia per la filiera corta e anche per il pro-gramma Leader. Quindi non è il metodo che è sbagliato.L’ARSIA, in quanto ente pubblico, insieme alle amministrazioni provinciali, nell’applicazione del PSR, ha un ruolo molto importante soprattutto nell’ani-

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mazione, divulgazione e formazione. Anche per questo aspetto bisognerebbe avere dei contatti per capire quali sono le esigenze formative per il settore tessile e quindi realizzare dei percorsi formativi per cercare di promuovere la circolazione delle informazioni e la diffusione delle buone prassi.Per quanto riguarda il PSR ci sono diverse opportunità per le imprese agrico-le. Nell’Asse 3 esiste la Misura 3.1.1 che è quella sulle diversificazioni, sia per l’agriturismo che diversificazione in generale. Nella Misura 3.1.2 ci sono aiuti alla microimpresa sia per quanto riguarda l’attività artigianale, sia per quella commerciale. Questa misura viene però messa in atto con il programma Lea-der e quindi i singoli GAL delle varie zone faranno dei bandi in questo senso.

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Interventi programmati

eVA bAsilePresidente Coordinamento Tessitori

Ringrazio l’organizzazione per averci invitati e anche per aver mandato Tunia Burgassi a intervistarmi in modo che si potessero definire quelli che sono i nostri suggerimenti. Mi chiamo Eva Basile e dal 2001 ho dato vita ad un’as-sociazione culturale che nasce da attività informali che si erano andate orga-nizzando a partire dagli anni ’80, intorno a degli incontri che si verificavano durante la Fierucola del Pane, era uno dei primi ‘Farmer markets’ di persone che facevano delle piccole autoproduzioni. Naturalmente, tra le persone che in ambito rurale facevano piccole produzioni c’erano anche alcune tessitrici. Queste persone avevano delle piccole attività e avevano anche piacere di scambiarsi delle informazioni. La tessitura è un ambito di saperi molto stra-tificato e molto complesso. Arrivare a costruirsi una professionalità non era facile, soprattutto se si aveva anche un’attività agricola o un allevamento. Per questo nacque l’esigenza di mettersi in contatto: si è preferito comunicare e fare una micro-formazione piuttosto che diramare dispacci o far sapere, per esempio, che in una certa regione succedeva qualcosa.Questi gruppi informali, inizialmente, si trovavano in Toscana e in Veneto. Dal momento che questa attività, a livello informale, esisteva già da diverso tem-po, nel 2001 si è stabilito che era arrivato il momento di rendere il tutto ufficia-le, organizzando un’associazione culturale il cui scopo più evidente è quello di informare. Per questo, abbiamo un piccolo bollettino di 16 pagine che ogni 3 mesi pubblichiamo e diffondiamo tra tutti i nostri soci. Al momento, abbiamo circa 600 soci, di cui 300 sono soci attivi.La nostra principale attività è la promozione della tessitura a mano. Però, dal momento che fin da subito ci sono state persone che si sono avvicinate alla nostra organizzazione perché erano interessate a tutta la filiera tessile, abbia-mo accolto senza nessuna preclusione persone che ricamavano o facevano merletti o che filavano a mano. Col tempo, le attività che riguardano la lana hanno avuto anche un’applicazione pratica con questa arte artigianale che è abbastanza nuova e che è quella di fare feltro. Per questo tipo di artigianalità,

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si è organizzato un avvenimento che è un incontro annuale, che permette di scambiarsi delle informazioni. Un’associazione culturale che vuole promuove-re delle attività artigianali lo può fare per via cartacea, ma non ha un’azione particolarmente incisiva; lo può fare promuovendo degli incontri, promuoven-do delle occasioni anche di confronto, promuovendo mostre ed eventi. Da qualche anno, organizziamo questo evento durante il quale ci mettiamo insie-me e lavoriamo manualmente. Lo facciamo con l’arte del feltro perché è molto più facile da organizzare. Sfortunatamente, tessere assieme comporterebbe spostare telai che sono macchinari complessi, pesanti e ingombranti: però non ci poniamo limiti. Pensiamo che lavorare insieme sia un momento di gran-de confronto e di grande crescita.Per quel che riguarda le criticità, noi siamo un piccolo osservatorio perché ai nostri soci chiediamo di compilare una scheda di quello che fanno e chiediamo anche un contatto diretto. Le persone che lavorano con le mani nell’ambito tessile, molto spesso, non hanno la forza di fare microimpresa; sono persone che lavorano ai margini della nostra economia. E’ un’ottima valvola di sfogo che permette l’uscita da “casa”. Questo è ciò che fa il mercatino artigianale. Però si vede che queste persone hanno grandissime difficoltà anche sempli-cemente nel trovare le motivazioni per andare avanti e avere una collocazione ufficiale anche dal punto di vista fiscale. All’interno dell’associazione noi vediamo che si creano frizioni che non dovreb-bero esserci, fra persone che hanno la loro attività regolata dall’appartenenza ad una associazione di categoria e da una partita IVA. Oltre a queste, ci sono persone che non avendo né la forza economica, né gli strumenti culturali per andare ad affrontare tutto questo, preferiscono rimanere nascoste. La nostra piccola azione è quella di far sapere che esiste la partita IVA e che si può “accogliere” anche una mole di lavoro microscopica e farla emergere dal sommerso; e poi, dare un’azione di sostegno, di conoscenza e di scambio alle attività che vengono via via svolte. Questo è quello che per ora con la pic-cola forza che abbiamo, dato che viviamo sul lavoro volontario di pochissime persone, riusciamo a fare, ma abbiamo come obiettivo di fare sempre di più.

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crisTinA Pugi PIN Scrl, società consortile, Servizi didattici e scientificiper l’Università di Firenze - Polo di Prato

Vorrei ringraziare il CNR che ci ha coinvolto attraverso una prima intervista sui punti di forza e di debolezza incontrati in progetti rivolti all’imprenditoria e, in particolare, all’imprenditoria femminile. I temi che volevo trattare sono emersi anche in altri interventi di stamani, quindi sarò molto breve. Noi abbiamo rea-lizzato un progetto finanziato dalla Provincia di Prato, un POR, che si chiamava “Donne tessitrici d’impresa”. Il progetto coordinato dal PIN ha visto coinvolti IRIPA, Sofia, Cedit e, come soci sostenitori, le associazioni del territorio degli artigiani (CNA e Confartigianato) e Coldiretti. Abbiamo lavorato sull’orientamento, sull’accompagnamento e sul consolidamento e mi preme sottolineare l’importanza di quest’ultima attività visto che spesso questo aspetto è il più trascurato. Per quanto riguarda la formazione, abbiamo attivato coaching formativo e esperienziale per favorire il rapporto di collaborazione fra imprenditrici, fra donne più esperte e quelle più nuove rispetto a questa attività lavorativa. Di questo progetto, più che raccontarvi gli aspetti che hanno avuto successo, vorrei parlarvi degli aspetti sui quali forse dovremmo continuare a lavorare; tra questi c’è la conciliazione. La conciliazione dei tempi di vita e di lavoro da noi prevista è stata affrontata con l’utilizzo di voucher appositi per le imprese che, però, non sono stati uti-lizzati. Questa è una lezione che emerge anche dall’altro progetto che citava prima Marina Capponi e sempre realizzato a cura del PIN, “Prato: il laboratorio del tempo”. La conciliazione deve essere un tema di valenza pubblica e non privata. Inve-ce le imprenditrici da noi contattate e da noi coinvolte nel progetto avevano risolto il problema della conciliazione in maniera autonoma. Qualcuno potrà dire: “Che cosa ve ne importa se loro hanno già risolto il problema?”. Il fatto è che, quando diventa una cosa privata, nel momento in cui ci sono ragazzi di 16-18 anni “da nutrire” o c’è la mamma o la suocera che sta male, la donna dell’impresa lascia perché è un suo problema, non è un problema di tutti. Come buona pratica di conciliazione in questa ottica ‘pubblica’, vorrei citare un intervento a livello territoriale effettuato nel Macrolotto 1 di Prato dove, gra-zie a due progetti Equal, sono stati realizzati servizi di conciliazione innovativi e di area per gli imprenditori e i lavoratori (asilo nido, car pooling, servizi di

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lavanderia e posta centralizzati).E’ facile progettare servizi di conciliazione quando c’è una grossa impresa, ma quando ci sono microimprese, occorre operare in rete. La rete deve essere uno degli argomenti principali sui quali concentrarsi: la rete nella formazione, nella condivisione delle conoscenze, dei saperi, laddove, come nella microim-presa toscana, è difficilissimo investire sull’innovazione. Non è un discorso facile e noi l’abbiamo visto nel nostro progetto. Chi sa fare una cosa ha paura dei concorrenti. Però questa persona non deve più vedere gli imprenditori del suo territorio come dei concorrenti pericolosi. La concorrenza non la fa l’arti-giano che lavora nella tua zona, ma la fa quello che lavora da un’altra parte.Quindi le parole chiave che nascono da questa esperienza sono “lavorare sulla conciliazione”: sostenere queste microimprese in tutti i percorsi, anche quello della creazione della rete, del lavorare insieme per il marchio e per tutte quelle buone cose che come cittadina e consumatrice vorrei trovare sul mercato, come i tessuti di cui avete parlato stamani.

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AngelA corsAniSarta professionale, abiti su misura

Io faccio la sarta per signora in provincia. Vivo a Empoli e perciò mi sento la rappresentante ideale del territorio che veste. E’ infatti nel mio territorio che si è sviluppato l’intero sistema moda per come noi lo conosciamo. Tutti i più grandi stilisti hanno fatto cucire i loro capi nelle nostre aziende piccole, grandi e nei nostri micro-laboratori, senza contare le piccole catene di donne che lavoravano autonomamente sempre per queste grosse collezioni: Armani, Versace, ecc. Tutti quanti, per oltre 50 anni, hanno lavorato nell’Empoli-Val d’Elsa. Adesso tutto questo è finito. Io parlo al passato perché rimangono solo pochissime realtà che ancora oggi lavorano. Con la chiusura delle aziende e la migrazione del lavoro verso l’estero, sono rimaste a casa tutte le donne brave che sapevano e sanno ancora oggi fare il proprio lavoro. Alle microim-prenditrici che avevano, comunque, organizzato sul territorio lavori collaterali a queste confezioni non è andata meglio perché anch’esse hanno dovuto chiu-dere. Nei tempi di crisi alla donna viene sempre chiesto di tornare a casa. Si parla di tante donne: donne che facevano gli spallini, gli adesivi, gli occhielli e tutto ciò che faceva da contorno alla confezione stessa. Nell’Empoli-Val d’Elsa si sentiva cucire a macchina come a Prato si sentivano andare i telai. Tutto questo adesso non c’è più. Io credo che adesso, se si chiedesse di cucire un impermeabile ad Empoli che era leader in queste produzioni, sarebbe difficile vederlo cucito per mano italiana. Si è perso un grosso “saper fare”, il saper cucire alla maniera italiana che era tipico del nostro territorio. E’ un saper fare che non si riesce a tramandare nelle scuole; è un saper fare che ci è arrivato da generazioni e generazioni di gesti, di modi, di ritualità e che è molto difficile tramandare in modo accade-mico. Col finire del flusso del lavoro, secondo me, può finire questo saper fare e sarà difficile recuperarlo. Per restare vivo, il saper fare alla maniera italiana deve lavorare ogni giorno e si deve mischiare con la realtà e la creatività per-ché queste sono in continuo divenire.Cosa fare per salvare il salvabile? Molte cose sono già state dette. Una cosa importante è il coordinamento. Tutte le cose che ho sentito qui, tutti i progetti, tutte le iniziative, tutti i bandi sono difficilmente acquisibili dalla microimpren-ditrice. Occorrerebbe essere una sorta di tuttologo per sapere tutte queste cose molto interessanti che sono state elencate. Secondo me manca un co-

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ordinamento: uno strumento di facile consultazione che coordini tutte le ini-ziative della Regione e di altri che ruotano intorno al settore della moda e del tessile-abbigliamento. E’ difficile informare l’imprenditrice: non sa quando ci sono le fiere, le mostre, non sa come e a chi rivolgersi per il credito agevolato che è molto importante; non sa chi fa promozione, chi fa bandi e iniziative. Questo crea un grosso problema e anche una dispersione delle risorse che ci sono ma che, se la persona non le viene a conoscere, sono inutili.Una microimprenditrice è una persona sola che lavora e deve gestire la fami-glia e poi deve saper usare tutti questi nuovi metodi. Se mi si chiede se so usare internet, io rispondo. “Ci provo…ma se faccio la sarta, per me internet è difficile”.Poi manca la promozione, intesa come un’azione mirata a trovare consuma-tori. Se io faccio la sciarpa fatta a mano con la lana di pecora toscana, oc-corre che il consumatore lo sappia, altrimenti non la compra. Per promozione intendo stampa, tv, pubblicità; se non hai questo, non esisti. E poi bisogna rieducare il consumatore a consumare meglio. Consumare meno, ma meglio. Questo si ottiene informandolo su cos’è la qualità, cos’è la seta, cos’è la lana; toccando un tessuto, tanti non distinguono più la lana dalla seta. Poi bisogna informare sull’eccellenza delle lavorazioni, promuovendo certi tipi di articoli.Vorrei parlare della formazione che è molto importante. Si potrebbe fare for-mazione nei laboratori, retribuendo le microimprenditrici. Lo so che formare qualcuno in laboratorio è difficile. Io ho cinque obiettivi:

1. fare formazione per tramandare le competenze e favorire il ricambio generazionale;

2. far rimanere aperto il laboratorio, lavorando e accogliendo potenziali clienti; questo avviene se si fa formazione nei laboratori, retribuendo le imprenditrici;

3. con il compenso ricavato alleviare le spese di gestione che spesso sono tante;

4. far acquisire allo studente un saper fare di prima mano del quale molto spesso c’è carenza, anche in scuole eccellenti o presso corsi di laurea breve del sistema moda. Io stessa adesso ho una ragazza di una famosa scuola che mi chiede di fare delle ripetizioni per arrivare alla fine con dei capi finiti che lei non sapeva come si facevano. Questa ragazza è bravis-sima, ma le mancano gli strumenti pratici;

5. risparmiare tempo e denaro per allestire scuole ed aule con materiali e

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mezzi specializzati per insegnare mestieri spesso difficili da riprodurre in aule, perché io a uno studente non gli posso insegnare come misurare la cliente che mi cambia continuamente; glielo posso far vedere se viene in laboratorio.

Per quanto riguarda l’innovazione, si potrebbe lavorare a progetti finalizzati alla produzione di prodotti la cui filiera produttiva non possa essere eseguita all’estero. Ad esempio, nel campo dell’abbigliamento, potrebbe essere ideato un prodotto su misura, un capo prodotto con speciali modifiche sulla cliente. Questo capo per esigenze di consegne e di tempistica non può essere fatto all’estero, perché se una cliente mi chiede in un negozio un capo modificato in esclusiva per se stessa, io, azienda produttrice, dovrò avere un laboratorio in grado di modificare il vestito vicino al negozio di vendita e quindi usare persone del territorio; è una sarta in modo più allargato. D’altra parte, il siste-ma moda è nato dalle sarte. Adesso si potrebbe mescolare nuovamente la confezione con la sartoria.E poi la sollecitudine, perché tutte queste azioni, o qualsiasi altra azione si vo-glia intraprendere, sono urgenti. Altrimenti si rischia di arrivare tardi, altrimenti tanti saperi, molto importanti, di cui tanto si parla, si estingueranno.

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Il territorio che veste

lAurA De cesAre Tessitrice professionale e docente, Pisa

Sono Laura De Cesare. Da tre anni sono titolare di un laboratorio di tessitura a mano e progettazione tessile a Pisa. E’ da più di venti anni che mi occupo di tessuti e di studio degli intrecci. Eva Basile e Angela Corsani praticamente hanno detto quello che volevo dire io. Si è parlato di qualità, di tracciabilità del prodotto tessile.Mi riallaccio a quello che ha detto Serena a proposito dell’incontro con gli studenti delle scuole superiori che ho avuto durante il Salone dell’Orienta-mento al Lavoro che si è svolto a Pisa la settimana scorsa. La domanda che mi hanno fatto tutti è stata: “Tu come hai fatto?”. La mia risposta, anche alla luce dell’esperienza di insegnamento degli ultimi anni, è che ce l’ho fatta, innanzitutto, perché avevo ben chiaro quello che volevo fare e poi perché io ho studiato. Quello che vi consiglio di fare è puntare sulla qualità del vostro lavoro. Dietro al lavoro di un tessitore, di un sarto, di una ricamatrice che ha un suo pubblico, in generale, c’è la cultura, lo studio, l’esperienza del maestro d’arte o dell’artigiano. Questo è il valore di cui si parlava prima, però quello che bisognerebbe promuovere è la formazione, lo studio, l’innovazione, la ricerca in ogni parte della filiera. Sappiamo da dove viene la lana, sappiamo che è stata lavorata secondo certi criteri, sappiamo che è stata tinta secon-do certi criteri, sappiamo che è stata filata secondo certi criteri, però poi c’è anche l’aspetto della lavorazione nel senso dell’intreccio, dello studio del disegno, dello studio del taglio, dello studio del colore dal punto di vista este-tico che è quello che ha lanciato la moda italiana. La moda italiana ha attinto dall’esperienza degli artigiani e dei maestri d’arte, ma bisogna promuoverla, promuovere la formazione, bisogna promuovere lo studio di queste cose. Io parlo come una persona che studia e insegna progettazione tessile che è la disciplina che insegna come si intrecciano i fili per eseguire un tessuto. Quello che fa la differenza è la qualità dell’intreccio e del lavoro. Così si fa stra-da o si può provare a far strada, perché altrimenti, ci si imbatte in una forte concorrenza. Per esempio, un problema che ho a Pisa è che non c’è nessuno che fa il mio lavoro. Allora ho attinto alle risorse della Provincia: una signora che ho conosciuto tramite un corso di tessitura che ho fatto alla Coop a Pisa, si è appassionata alla tessitura, è venuta da me a fare il tirocinio e mi ha aiu-tato molto. E’ bravissima, ma una volta fatti i sei mesi, se n’è andata. Verrà

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Incontri e confronti con i territori

ad aiutarmi ma…Oltretutto io non so neanche dove andare. Se avessi altre due persone ad aiutarmi…io avrei lavoro per altre due persone. Però lavoro di notte, perché ovviamente faccio la manager, accudisco i figli, ho un padre a carico e quindi lavoro di notte, perché voglio portare avanti il mio progetto. Quello che mi piacerebbe, però, è che nella promozione e nella pubblicità del-la filiera fosse dato spazio alla qualità del lavoro di ogni singola persona che comprende la qualità dell’idea, del progetto e dell’innovazione.

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Il territorio che veste

Intervento conclusivo

giAmPiero mArAcchi Direttore CNR-Ibimet

Prima di tutto vorrei fare un ringraziamento a tutti i relatori e a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di ascoltare. La conclusione è breve. Io vorrei riallacciarmi a quello che è stato detto all’inizio. Pensando a quelli che sono i problemi legati alle criticità che sono state identificate da Tunia Burgassi e anche alle opportunità, credo che un problema centrale sia quello di giunge-re alla sostenibilità economica di queste attività. Questo mi sembra emerga anche dagli ultimi interventi. E’ chiaro che siamo in un mercato di nicchia, in una attività di nicchia, ma certamente chi lo fa deve anche sopravvivere e possibilmente deve vivere. Nessuno pensa di diventare milionario con questo tipo di attività, ma certamente io credo che si debba disegnare un futuro in cui le persone che svolgono attività in questo settore del tessile, in questo caso le imprenditrici (ma naturalmente questo riguarda anche gli uomini), arrivino ad un punto in cui con questa attività possano sostenersi. Per fare questo è necessario un rapporto con le istituzioni che veda tutta una serie di azioni rivolte essenzialmente agli utenti. Questo è un mercato di nicchia, però la nic-chia non può essere troppo piccola perché altrimenti anche le singole attività non sono sostenibili. Bisogna anche creare una cultura degli utenti, affinché le persone si indirizzino verso prodotti che generalmente sono più cari. Anche questo va detto: se sono prodotti di qualità, se sono fatti a mano, se sono fatti in un certo modo, se sono fatti con un certo stile, se sono fatti con certi materiali, sono più cari. Questa è la criticità maggiore; tutte le altre cose vengono di conseguenza. Tutti gli altri problemi sono specifici o delle categorie o dell’imprenditoria, sia essa femminile o maschile, però la sostanza dei fatti è questa: bisogna arrivare alla sostenibilità. L’identificazione delle criticità va in questa direzio-ne, serve a capire cosa può fare l’istituzione pubblica per rimuovere queste criticità. Io penso, ad esempio, al turismo: finché il turismo è di un certo tipo, non si avvicinerà mai al prodotto di nicchia, perché per un prodotto di nicchia che tendenzialmente è abbastanza caro, è necessario un turismo abbastanza

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colto, che si ferma sul territorio. Quindi è necessaria tutta una serie di azioni che non sono solo legate alle imprese, all’artigianato o alla filiera. Se non c’è questo, la filiera non può campare; su questo bisogna essere concreti. Io for-se do un taglio di eccessiva concretezza al mio intervento finale, ma questo è il problema.Se in fondo alla filiera non c’è chi acquista questo tipo di prodotti, la filiera muore. Può rimanere la persona entusiasta, il sognatore, chi ha una grandis-sima passione, chi lo fa tra il “bianco” e il “nero”, però non c’è sviluppo. Noi sappiamo che per questi settori non ci sarà mai uno sviluppo enorme, però per il futuro si può costituire un’alternativa importante alla soluzione industria-le data negli ultimi cento anni. La crisi ci dice che siamo di fronte a un modello che non funziona più. Lo dico da climatologo, perché anche i cambiamenti del clima mettono in evidenza che il modello di utilizzazione dell’ambiente deve essere rivisto. Questa è una delle motivazioni per cui il nostro istituto si occu-pa di queste cose. Anche la crisi finanziaria ci dice che il modello economico che si è usato negli ultimi cinquanta anni comincia a non funzionare più. Ciò nonostante, è evidente che la sostenibilità economica è un fatto impor-tante. Chi fa un’attività desidera almeno camparci. Questa è la condizione minima. Se non c’è questa condizione, il settore non si sviluppa. Quindi la criticità principale, quella che emerge dall’analisi che è stata fatta dalla dottoressa Burgassi e dalla dottoressa Camilli, è proprio indirizzata a capire quali sono le criticità, attraverso il progetto che, tra l’altro, si sviluppa in varie aree. Incontri come questi ci saranno in Emilia Romagna, Campania e Sardegna e anch’essi saranno volti a identificare delle linee di indirizzo con le quali, attraverso una serie di impegni simili a quelli che ricordava l’assessore Brenna, il settore pubblico può facilitare il crearsi di una massa di utenti che siano poi quelli che permettono a questo settore di svilupparsi. Senza quelli il settore non si svilupperà mai e resterà sempre come una cosa residuale. E’ su questo punto che bisogna battere. Io mi auguro che riusciremo, pur nei limiti delle dimensioni economiche del progetto e delle nostre capacità, insieme alle realtà di stamani che vanno dalla Coldiretti, al Consorzio agrario che è una grande realtà di Siena, all’ARSIA, alle Province, a tutti quelli che sono interve-nuti, alla CNA, a capire quali sono gli impegni di politica generale per arrivare a creare un settore in cui la Toscana può essere capofila. Finisco augurando di trovarci alla fine del progetto, che è tra due anni, con dei risultati concreti e anche con dei numeri da far vedere.

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Innovare la tradizione

Innovare la tradizioneIl ruolo dell’imprenditoria rurale femminile

nel settore tessile

Bologna, 5 Marzo 2009 Sala Meridiana - Museo della Tappezzeria Villa Spada

TAVOLA ROTONDA

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Innovare la tradizione

Federica rossiResponsabile di sede CNR-Ibimet

Saluti

Apro i lavori e dandovi il benvenuto al Museo della Tappezzeria di Bologna, unico in Italia per l’ampia collezione – circa 600 pezzi - di arazzi copti, sten-dardi delle corporazioni, tessuti, telai e macchine di incomparabile valore. Il museo fu fondato e voluto dal Cavaliere Zironi: quando egli seppe – durante la 2° guerra mondiale - che il Museo della Tappezzeria di Berlino era stato distrutto, volle tentare di crearne uno a Bologna, sua città di origine. Nel ‘46 cominciò a cercare tessuti e pezzi da collezione e così è nato il Museo della Tappezzeria, luogo di encomiabile valore che racchiude le tradizioni secolari dell’artigiano tessile. La storia del tessuto è vecchia quanto l’uomo. Per questo preservare la tradi-zione tessile è importante e forte deve essere il legame col territorio. Il Progetto che presentiamo oggi è proprio nell’ottica del mantenimento di questa ricchezza tradizionale ma con uno sguardo al futuro. Vorremmo infatti “Innovare la tradizione” e favorire la formazione di micro imprese femminili. Da sempre sono proprio le donne che portano avanti il tessile. L’ente finanziatore di questa ricerca è il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e l’ente incaricato di svolgerla è l’Ibimet- CNR.L’Ibimet è l’Istituto di Biometeorologia del CNR: esso nasce alla fine degli anni ‘70 a Firenze con l’obiettivo di effettuare ricerca nel settore della meteorologia applicata in particolare alla agricoltura e all’ambiente. Negli ultimi 40 anni ha percorso un cammino segnato dall’identificazione e dall’analisi dei grandi temi del nostro tempo, il tessile è uno di questi.A questo progetto partecipano 4 gruppi di ricerca e 4 sono le regioni coinvol-te operativamente e oggetto dello studio, ossia la Toscana, l’Emilia Romagna, la Campania e la Sardegna.L’obiettivo è quello di favorire l’occupazione femminile nelle aree rurali puntan-do sulla crescita dell’imprenditoria quale strumento di sviluppo dei territori e di salvaguardia dei saperi legati alle attività agricole e artigianaliIl progetto si svolge nell’arco di 3 anni. Noi siamo al’interno del primo anno di attività: per ora ci siamo focalizzati sull’individuazione e l’analisi di potenzialità, opportunità e criticità delle imprese femminili in ambito rurale. Il prossimo pas-

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so sarà la sensibilizzazione delle popolazioni locali di aree rurali. Nella II annua-lità procederemo con l’orientamento delle donne di aree rurali all’imprenditoria e con la comunicazione del progetto e dei suoi obiettivi ai territori. Nel corso della III annualità verranno progettate iniziative di formazione, la realizzazione di percorsi sperimentali e la definizione della rete di iniziative.La tavola rotonda di oggi vuole essere un momento di incontro e discussione dopo una fase di raccolta di dati strutturali e le interviste sul campo alle im-prenditrici che ci hanno portato ad individuare potenzialità, punti di debolezza, minacce, opportunità dell’imprenditoria femminile tessile in ambito rurale nella nostra regione.

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Innovare la tradizione

Nicola di Virgilio CNR-Ibimet

Il contesto regionale del progetto “Percorsi di Orientamento

Nell’ambito della prima fase del progetto, è stata effettuata una piccola analisi dello stato dell’arte riguardante il mondo rurale e la pluralità dell’imprenditoria femminile e tessile nella Regione Emilia Romagna, al fine di comprendere la situazione e lo stato dell’arte regionale. Sono stati elaborati dati da database pubblici come quelli dell’ISTAT, inseriti in un sistema informativo territoriale GIS, ed estrapolate le informazioni di interesse. Brevemente i dati strutturali relativi al territorio rurale dell’Emilia Romagna sono riassumibili come qui di seguito.Il 98 % della superficie complessiva della Regione è classificata come area rurale, dove è presente il 99.1 % dei comuni della Regione. Circa la metà della popolazione che risiede nelle aree rurali (ossia il 43.4 % della popolazione regionale) è concentrata nelle zone ad agricoltura specializzata ed intensiva. Le aree a ridosso della dorsale appenninica presentano una densità abitativa molto bassa e sono caratterizzate da isolamento e da una posizione geogra-fica periferica; vi prevale inoltre una popolazione anziana. Per quel che riguarda l’imprenditoria, in regione c’è una buona presenza di imprese femminili (a fine 2007 ne sono risultate attive 87.090), delle quali più di 21.200 sono aziende agricole, di cui la maggioranza nella Provincia di Bologna.La presenza maggiore delle attività tessili è in provincia di Modena, che ha il 40 % di tutte le industrie tessili e dell’abbigliamento emiliano - romagnole (i settori sono quelli della filatura, tessitura, finissaggio e confezioni di articoli del vestiario). Particolarmente presente è anche l’impresa di tipo artigiana (il 68 % del totale degli artigiani del tessile).Le aree rurali con problemi di sviluppo presentano pochissime attività legate al tessile.

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Incontri e confronti con i territori

silVia gaiaNi CNR-Ibimet

Il contesto regionale del progetto “Percorsi di Orientamento”

Vi presento qualche dato emerso dall’analisi qualitativa che abbiamo operato e dalle interviste alle imprenditrici tessili che ho svolto da ottobre 2008 a fine gennaio 2009.In tutto sono state intervistate 15 imprenditrici, per lo più nelle provincie di Bologna, Modena, Forlì.Da queste interviste sono emersi i punti di forza e di debolezza, le minacce e le opportunità dell’imprenditoria femminile tessile rurale in Emilia Romagna.Tra i punti di forza vi sono la capacità e la volontà delle imprenditrici di an-dare incontro alle esigenze del cliente e quindi la flessibilità della lavorazione artigianale, l’organizzazione e l’efficienza, la personalizzazione del servizio. Inoltre l’ampia offerta di prodotti di qualità e in alcuni casi di nicchia e la con-sapevolezza delle proprie radici legate alla moda e al tessile e della propria creatività.Tra i punti di debolezza abbiamo riscontrato la mancanza di capitale materiale e umano, la mancanza di adeguati corsi di formazione, il momento storico di crisi economica che impedisce una programmazione a lungo termine di acquisti e vendite, la legislazione carente che tuteli dalla sleale concorrenza di prodotti a basso costo non Made in Italy o Europe, la mancanza di politiche di conciliazione, la difficile valutazione economica del proprio lavoro e la difficile organizzazione delle risorse interne umane.Le opportunità potrebbero essere costituite dalla creazione di reti tra impren-ditrici, dal puntare su prodotti di nicchia, ad alta specializzazione e magari biologici e naturali.Le minacce sono rappresentate dalla legislazione carente per cui le impren-ditrici si sentono poco difese e tutelate giuridicamente, la concorrenza di Paesi con manodopera a basso costo, e la scarsa attenzione ai corsi di ag-giornamento con il conseguente rischio di perdere opportunità di innovazione. Rimangono certamente da approfondire e valutare alcuni aspetti.Sarebbe interessante capire se è possibile la ricostruzione di una filiera tessile “corta” in Italia e come si potrebbe fare rete tra fasi diverse di una stessa filiera, tra operatori di una stessa fase ma anche tra filiere diverse. Il supporto

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Innovare la tradizione

istituzionale nelle prime fasi della creazione di queste reti pare fondamentale. Un altro aspetto da valutare è se la creazione di marchi territoriali per il pro-dotto “agro – artigianale” può essere pensabile.

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Incontri e confronti con i territori

soNia di silVestre Assessorato Attività Produttive, Regione Emilia Romagna

Gli interventi della Regione a sostegno delle imprese

Sostituisco il Direttore Generale Dr. Morena Diazzi chiamata a Roma a un ta-volo per le misure anticrisi. Desidero illustrare gli interventi che sono stati fatti a sostegno delle imprese nella regione Emilia Romagna.L’Assessorato alle Attività Produttive non ha a che fare direttamente con l’im-prenditoria agricola, ma cerca di collaborare in fase di analisi di dati con chi si occupa di agricoltura, soprattutto per quanto riguarda alcune tematiche dell’imprenditoria femminile che sono trasversali e sono legate a questioni di sostegno alle imprese tradizionali.Innanzitutto, sono stati riportati alcuni dati. Anche nel 2008, quando era già iniziata la crisi, le imprese femminili hanno continuato a crescere. Il motivo va indagato: alla base c’è di certo una forte motivazione personale, ma c’é anche la necessità di tentare la via dell’imprenditoria. Nel 2008 il numero delle impre-se femminili in Emilia Romagna è cresciuto dell’1% rispetto al 2007, ma dal 2004 al 2007 la presenza delle imprese femminili era già cresciuta del 5,3%, a fronte di un aumento quasi nullo di imprese non femminili.Adesso vi fornirò qualche dato qualitativo su campioni molto consistenti di imprese. A novembre 2008 si è visto che le imprese femminili hanno situazioni economico-patrimoniali in genere molto solide anche in momenti di crisi: sono più attrezzate di altre in momenti difficili come questi. Ora si sta cercando di fare un monitoraggio degli effetti della crisi suddividendo le imprese per genere (maschile e femminile). L’impresa femminile ha da sempre ricorso in modo molto diffuso ad associazioni di categoria. Le donne si affidano ad esse sia per lo start up, sia perché vogliono trovare - e lo trovano - un appoggio. Mostrano di avere la volontà di fare rete con altri, superando il limite dimen-sionale che le caratterizza. Per fare rete, un ruolo fondamentale è assunto dalle Associazioni di Categoria. L’Assessorato alle Attività Produttive lavora sull’innovazione tecnologica, strumento che può far superare momenti di crisi anche nel tessile. Anche le imprese femminili, indipendentemente dalle dimen-sioni, innovano, magari non in modo classico. Da evidenziare che le imprese femminili sono sensibili a temi etici, di responsabilità sociale, riciclo, salva-guardia dell’ambiente. Un problema comune sono i tempi: conciliare tempi di

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Innovare la tradizione

vita con tempi lavoro é difficile per tutti; lo stesso vale per l’accesso ai servizi. L’aspetto economico non prevale quasi mai sul bisogno di recuperare tempo.Cosa si è fatto dal 2003 al 2007? Parole chiave sono state innovazione, reti e servizi, strutture e qualificazione, accesso al credito, tempi, responsabilità sociale. Sul tema delle professioni e sul recupero delle competenze specia-listiche, il settore è molto ricco, considerando anche la disuguaglianza tra le carriere e il lavoro. Ora abbiamo a disposizione il DUP (Documento Unitario di Programmazione) con cui la Regione Emilia Romagna investe 1,5 miliardi di euro che vanno sommati agli investimenti degli enti locali che portano al raddoppio di questa cifra. Gli investimenti sono fondamentali in quanto sono il motore dello sviluppo. Si tratta di risorse reali, regionali, che vanno da temi di intervento per le infrastrutture ad interventi mirati. Gli assi prioritari di inter-vento FESR (appena partito), in particolare l’asse 2 relativo allo sviluppo inno-vativo per le imprese, comprendono misure a sostegno delle imprese, anche quelle piccole. Gli interventi per la competitività regionale riguardano grandi tematiche, ad esempio i tecnopoli, aree ecologicamente attrezzate, valoriz-zazione ambientale, evoluzione e rafforzamento consorzi e fidi territoriali. Gli interventi vedono come priorità l’investimento in innovazione e tecnologia, an-che nel settore tessile in cui, indipendentemente dalle dimensioni delle impre-se, c’é innovazione. Le competenze specialistiche sono ampiamente presenti, assieme alle capacità di fare ricerca in maniera artigianale ma proficua, dando così, come risultato, prodotti di eccellenza. I bandi sono già partiti.Gli interventi per le imprese hanno visto come punto di partenza la ricerca col-laborativa con le imprese, il finanziamento per gruppi di imprese - ad esempio sul tema delle reti che vengono considerate luoghi che producono ricerca e innovazione - e per imprese innovative e quindi start-up di impresa.È stato dato sviluppo organizzativo alle piccole imprese. Sui 547 programmi approvati, il 9% ha riguardato imprese femminili. Per questo aspetto sono sta-ti concessi 2,7 milioni di euro di finanziamento. Il bando introduceva la nuova figura di “temporary manager”. Uno dei punti importanti per il settore moda, per rilanciare le piccole imprese tessili e abbigliamento, é la capacità di fare ricerca, fare innovazione, per capire come posizionarsi sul mercato cercando di ampliarlo e fare rete.Altre leggi su questo argomento: la legge Sabbiottini per un contributo e per dare garanzie per l’accesso al credito delle imprese artigiane; si tratta di con-tributi per investimenti. Il bando 08 ha visto la partecipazione di 105 imprese femminili, con grossi investimenti e importanti risultati. In tutte le misure POR

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Incontri e confronti con i territori

FESR e nella programmazione regionale triennale, le imprese femminili sono una priorità. La logica seguita non è stata, come nella legge 215, quella di dedicare un finanziamento specifico alle donne togliendo loro la possibilità di accedere ad altre opportunità, ma piuttosto una logica main streaming.Le misure prevedono un salto verso l’innovazione e verso la solidità e que-sto, date le dimensioni limitate delle imprese femminili, è sia un limite che uno stimolo. La Regione non ce la fa da sola a promuovere sia sul territorio che all’interno della rete le priorità; anche le associazioni di categoria devono promuovere e la Regione si va attrezzando anche in questo. Altri interventi riguardano l’efficienza energetica che coinvolge il sostegno ai processi di in-ternazionalizzazione che non si è ancora riusciti a sviluppare per le imprese femminili. È stato poi fatto un accordo anticrisi sottoscritto dalla Regione Emi-lia Romagna e da 48 istituti di credito riconosciuti, al fine di disporre crediti per le piccole e medie imprese, per soddisfare esigenze di liquidità a breve e medio termine.Come ultima informazione dirò qualcosa su cosa si pensa possa succedere dopo la 215. Una volta abrogata, sono rimasti dei fondi. Il grosso di questi fondi non è ancora stato restituito dalle Regioni allo Stato. C’e in corso una trattativa per poter trattenere parte di queste risorse a livello regionale e ridistribuirle alle imprese locali: la partita è ora a livello della Conferenza Stato-Regioni. Il tavolo rimane aperto anche con la Direzione Generale delle Attività Produttive. Se tornassero queste risorse, si potrebbero far partire misure dedicate con vincolo di destinazione alle imprese produttive e così si potrebbe fare un discorso settoriale e di filiera anche per il comparto tessile.

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Innovare la tradizione

luisa BargossiAssessorato Agricoltura, Regione Emilia Romagna

Il sostegno della Regione all’impresa agricola multifunzionale

Ritengo utile approfondire il progetto del CNR e per questo, invece di raccon-tarvi il Piano di Sviluppo Rurale che rappresenta il riferimento dei contributi finanziari alle aziende agricole per il 2007-2013, vorrei interloquire con la vostra iniziativa triennale. Ci tengo a ricordare che diversificazione e polifunzionalità non sono termini interscambiabili. Se parliamo di diversificazione la prima forma di diversifica-zione cui si pensa è l’agriturismo, una forma di ricettività e di ristorazione a cui si sono aggiunte anche attività didattiche, ricreative e sportive. Diversifi-cazione significa utilizzare le strutture dell’azienda agricola anche per altre funzioni in un rapporto di complementarietà. Diversificazione significa inoltre connessione con la prevalenza comunque del reddito di provenienza agricola. Sull’imprenditoria femminile abbiamo affidato un’indagine a Dinamica per ca-pirne la reale situazione. Le fonti ufficiali usate sono state l’Anagrafe azienda-le, AGREA ( organismo pagatore della Regione Emilia Romagna) e RICA. Ne è risultato che il 25% delle imprese sono femminili e gli agriturismi rappresen-tano il 37% di queste con un trend in crescita. Nel 2008 il numero di imprese agrituristiche è rimasto fermo. Di 1300 imprese agrituristiche registrate solo 810 sono attive. Non esistono misure che abbiano le donne come beneficiario unico, ma priorità nelle quali si cerca di incentivare un’imprenditoria femminile che ha diverse difficoltà, come il maggior isolamento, la difficoltà di accesso ai servizi, la rarefazione dei rapporti fisici tra imprenditrici agricole. Con la Legge Orientamento si è allargato il concetto di redditività agricola (adesso per esempio coinvolge anche la produzione e la vendita di energia da biomas-sa); questo per dire che ci sono innumerevoli opportunità da esplorare e c’è la necessità di farsi carico di nuove aspettative.Il progetto del CNR è necessario per andare a forzare i paletti normativi e per allargare al tessile il concetto di plurifunzionalità. Da sempre le donne gesti-scono molte attività. La canapa che era tipica della Regione Emilia Romagna, era per esempio un’attività portata avanti dalle donne. Ora, se cerchiamo di reintrodurre la canapa abbiamo molte difficoltà economiche (sul tema della canapa rinvio a un progetto sostenuto dall’assessorato all’agricoltura che ha

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Incontri e confronti con i territori

avuto storia complessa e travagliata). Oggi si deve innovare e i confini tra una attività agricola e una artigianale nel settore tessile sono forzati o non esistono quasi più.Nei laboratori degli agriturismi si fanno trasformazioni (marmellate, succhi e conserve per es.). I confini tra il cosiddetto artigiano del comparto alimen-tare e il produttore agricolo sono labili in questa dimensione; d’altra parte il produttore agricolo può avvalersi di imprese artigianali esterne di trasforma-zione con una lavorazione per conto terzi .Talvolta un prodotto se comprato in azienda è agricolo, se è invece comprato in una bottega è artigianale. Si può creare una rete di opportunità che arricchisce il tessuto locale, si può avere cooperazione invece che solo competizione. Oggi possiamo sperimen-tare qualcosa di nuovo e costruire un patrimonio di nuove esperienze che poi intervengono a modificare i limiti normativi.Gli imprenditori che si occupano e lavorano col sociale richiedono ad esempio nuove leggi. L’azienda agricola può infatti svolgere funzioni sociali: le attività sociali in Regione sono svolte da cooperative sociali che hanno in conduzione o sono proprietarie di aziende agricole. C’è però un punto di chiarezza da mantenere: se si promuovono gli agri-asilo nido, queste devono essere strut-ture professionali con uguali prestazioni dell’asilo nido di Bologna. Sì alla fun-zione sociale, ma con alti standard di qualità che devono essere una garanzia per il mondo agricolo. Un problema fondamentale per l’imprenditoria femminile che emerge dalla no-stra indagine è certamente quello dell’accesso al credito. “Investi Agricoltura” è la convenzione che noi abbiamo stipulato con le banche per agevolare l’ac-cesso al credito. Altri problemi ricorrenti sono quelli della scarsa informazione e formazione. Nell’ambito della formazione (asse 1 e 3 del PSR) abbiamo riscontrato una scarsa adesione femminile a molte iniziative: stentiamo per-sino a saturare le risorse a disposizione. Cercheremo in futuro di fluidificare i bandi, ma temo che sia necessario accostarsi diversamente al tema della formazione. Mi preme infine sottolineare che i gruppi di azione locale (finan-ziati dall’asse 4 ed eredi del P.I.C. Leader), che sono un partneriato pubblico-privato e hanno maggiore elasticità perché operano con un approccio dal basso, possono essere soggetti attenti a cui proporre innovazioni e prototipi. Nella nostra Regione ci sono 5 Gal che coprono il territorio dal Delta del Po all’Appennino: bisognerebbe coinvolgerli per capire se ci può essere animazio-ne territoriale sul tema proposto.

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Innovare la tradizione

BarBara Busi Consigliera di Parità Effettiva Provincia di Bologna

Le pari opportunità e la conciliazione dei tempi nelle aree rurali

Buongiorno, vi porto i saluti oltre che miei, della collega Dr. Rosa Amorevole che è consigliere regionale di parità e che non è potuta essere qui presente (ma ci teneva moltissimo) e mi ha pregato di portare questi saluti ed esprime-re il nostro apprezzamento, il mio e il suo, rispetto all’iniziativa di oggi. Nel nostro ruolo di consigliere di parità abbiamo già avuto modo di incontrare e confrontarci con coloro che stanno portando avanti il progetto che viene presentato quest’oggi, perché abbiamo organizzato l’anno scorso (2008) nel mese di Ottobre una iniziativa specifica sul tema “Donna e Agricoltura” e tra i relatori che avevamo invitato c’era proprio il CNR - Ibimet per presentare que-sto progetto. Abbiamo quindi trattato per la prima volta, in collaborazione con l’Assessorato all’Agricoltura della Provincia di Bologna - c’era anche la Dotto-ressa Bargossi - questo tema, che è un tema per noi non abituale, nel senso che non sempre abbiamo la possibilità di incontrare donne che operano nelle aree rurali, ma era un tema che ci interessava molto e ritenevamo opportuno effettuare un approfondimento. Prima di procedere nell’analisi del tema che mi è stato assegnato, ruberei un minuto per spiegare chi sono le consigliere di parità, perché non capendo questo, difficilmente si capisce perché siamo qui a parlare di conciliazione. Le consigliere di parità sono una istituzione, non è un organismo politico: siamo nominate dal Ministero delle Pari Opportunità in accordo con Ministero del La-voro e ci occupiamo di controllare e promuovere l’applicazione dei principi di parità e uguaglianza tra uomo e donna all’interno del mercato del lavoro. Noi siamo pubblici ufficiali, quindi supportiamo giuridicamente e gratuitamente le donne che hanno problemi di discriminazione sul luogo di lavoro. Nello svol-gimento del nostro ruolo noi agiamo per favorire una partecipazione paritaria delle donne nel mercato del lavoro. Come potete immaginare, nello svolgere questo ruolo, quotidianamente siamo chiamate a riflettere e a misurarci col tema della conciliazione dei tempi perché comunque, lo dimostravano anche i dati presentati prima, la conciliazione rappresenta tutt’oggi uno dei primi ostacoli; diciamo una complicazione alla partecipazione femminile al mercato del lavoro per non metterla troppo in negativo. Questo è particolarmente vero

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per le donne imprenditrici che devono gestire, il più delle volte in autonomia, quando le aziende sono molto piccole, non solo il tempo lavorativo ma anche il tempo altro, dove per tempo altro c’è sicuramente il tempo dedicato a sé, ai propri hobby, alle proprie passioni, ma in realtà c’è soprattutto il tempo di cura dei figli in età scolare e pre-scolare e sempre di più il tempo di cura da dedi-care alla gestione e alla cura di parenti anziani che richiedono un’assistenza e che ahimè (le cose non cambiano) continuano a pesare totalmente sulle spalle delle donne. Chiaramente riflettere sul tema della conciliazione è un obiettivo complesso, anzitutto perché significa ragionare su una problematica che non attiene solo la sfera privata della persona ma, in realtà, ha ricadute anche nella sfera sociale. Quando il sistema sociale attuale non è in grado di dare risposta all’esigenza di cura delle donne e quando le donne sono costrette a farsi carico di questo problema, inevitabilmente si fanno carico di un problema sociale e danno risposta ad un problema che il sistema sociale non riesce a risolvere. Questo però ha un costo e il costo primo ce l’ha proprio in relazione alla capacità delle donne di partecipare al mercato del lavoro. Tutti i dati dimo-strano che per esigenze di cura le donne hanno difficoltà di accesso al merca-to del lavoro; di permanenza nel mercato del lavoro e nell’avvio di percorsi di carriera o imprenditoriali di successo. I dati lo dimostrano chiaramente, non solo la mia esperienza quotidiana: dimostrando come l’accesso e soprattutto la permanenza nel mercato del lavoro sia difficile soprattutto per le donne con figli, ad esempio. Ed aumenta all’aumentare del numero dei figli. Ho riportato alcuni dati ISTAT che dimostrano come i tassi di occupazione femminile sono più alti, quasi l’80%, per donne single, iniziano a calare al 70% per donne in coppia senza figli a dimostrazione che in realtà non è poi tanto il discorso dei figli: anche i mariti, i compagni, hanno un certo peso nella gestione del tem-po delle donne; ed infine crollano al 50% per le donne con figli. Poi, se i figli aumentano, addirittura arriviamo a quote veramente basse. Questo riguarda, come vi dicevo, donne occupate ma anche donne imprenditrici; soprattutto con riferimento per esempio all’abbandono della carriera, i dati dimostrano come nell’ambito professionale l’arrivo di un figlio sia normalmente il fattore primo di uscita della donna dall’attività lavorativa e professionale. Quasi il 20% delle donne occupate al momento della gravidanza non lavora più dopo la na-scita del primo figlio. Questo significa che l’arrivo di un figlio rende impossibile alle donne continuare a lavorare. Sto parlando in generale. Mi dovrei ora concentrare sul settore che stiamo analizzando. Ammetto che non è semplice, nel senso che i dati sono pochi. Noi raramente incontriamo

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donne che lavorano nelle aree rurali. Sicuramente però la partecipazione al convegno che abbiamo fatto ad Ottobre 2008 e alcuni testi che ho letto per prepararmi anche all’evento di oggi, mi hanno dato alcune indicazioni e spunti di riflessione sul tema della conciliazione nel mondo rurale. Prima di tutto si-curamente il tempo, in particolare delle aree rurali, ha sempre rappresentato un elemento di rilievo per le donne. L’assessore alle pari opportunità parla delle donne nella campagna come antesignane della doppia presenza. Dove si intende per doppia presenza questa necessità di essere presente nei campi, in casa coi figli ed il più delle volte, ce lo ricorda Marinella Manicardi nel suo spettacolo, presente nel lavoro anche dopo la cena, davanti al camino a fare i cappelli di paglia, a rammendare, eccetera. Quindi il concetto del tempo era molto dilatato tradizionalmente per le donne e dimostrava questo ruolo, che non era degli uomini, della doppia presenza. Le donne hanno dimostrato tradizionalmente una capacità di fare fronte a questa esigenza di conciliazio-ne dei tempi che ha trovato nella rete di solidarietà femminile una risposta: la famiglia allargata era il contesto che aiutava le donne in un qualche modo a gestire questi impegni. La presenza di donne più anziane all’interno della famiglia allargata aiutava le donne, con qualche compromesso ovviamente. Si parla della “arzdora” la donna anziana, aveva un ruolo di rilievo e anche a volte di peso, sulle più giovani, però sicuramente era una grande mano nella ge-stione del tempo. Ahimè gli ultimi venti anni in particolare hanno visto questo scenario modificarsi radicalmente. La famiglia allargata come sapete è ormai rara, sicuramente la presenza della popolazione nelle aree rurali si è andata via via riducendo, conseguentemente le donne che sono rimaste sono spesso donne che soffrono il problema dell’isolamento, veniva richiamato prima, e dell’assenza di servizi: dove c’è poca popolazione, i servizi scarseggiano. Il problema della conciliazione è diventato ancora più forte, anche perché sono cambiate tante cose ma, sicuramente, non è cambiato il fatto che spetta con-tinuamente alla donna occuparsi del problema della cura. Questo non cambia, cambia lo scenario, le abitudini, gli impegni lavorativi e, conseguentemente, le donne ancora devono fare fronte a questo problema. Come richiamavano i dati iniziali, anche le donne imprenditrici, nell’ambito più specificatamente tessile, esplicitano nel problema della conciliazione, uno dei primi problemi di partecipazione al mercato del lavoro e di sviluppo della propria attività impren-ditoriale. Però vorrei anche riportare un dato positivo che ho trovato analizzan-do una ricerca dell’ISTAT realizzata qualche anno fa, nel 2004 e poi nel 2005, molto importante sul tema della conciliazione dei tempi. Nello svolgere questa

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ricerca Linda Laura Sabadini, per l’ISTAT, ha definito otto modelli di donne al lavoro, capendo, per ognuno di questi modelli, quanto pesa il tema della con-ciliazione. Mi ha molto stupito vedere che l’unico modello in controtendenza rispetto al tema della conciliazione è proprio quello delle donne lavoratrici indipendenti in agricoltura. I dati dell’ISTAT, ve lo leggo, vedono queste donne come sovraccariche di lavoro, ma assolutamente soddisfatte del tempo per i figli. Questa cosa mi ha un po’ stupito, devo dire la verità; addirittura le donne agricoltrici dichiarano di dedicare un tempo adeguato ai figli, di non incontrare difficoltà nel conciliare i propri tempi con gli orari dei servizi, negozi, uffici; però la motivazione c’è: i margini di flessibilità possibili nell’attività agricola, in realtà, danno risposta naturale alle esigenze di cura di queste donne. Quindi la campagna, le aree rurali, si confermano come habitat che per la maggior parte delle donne è comunque soddisfacente e più appagante di quanto non lo sia l’habitat cittadino. Quindi pur non negando le difficoltà do-vute al fatto che comunque il tempo di cura continua a pesare sulle loro spalle, sicuramente le donne nelle campagne riescono a dare una risposta al problema della conciliazione. Ovviamente è una risposta autoindotta, cioè da sole devono trovare la soluzione e questo è l’elemento negativo, e va a dimostrazione che comunque la società non dà la risposta a questo problema. Anzi, proprio la creatività e ancor più l’innovazione che le donne esprimono nel partecipare al mondo dell’agricoltura odierna, anche attraverso le sperimen-tazioni che venivano richiamate prima (gli agri-asili, fattorie didattiche; ovvia-mente nel massimo rispetto del livello di qualità necessario) sono per le donne un modo sicuramente di dare risposta alle proprie esigenze di conciliazione, e paradossalmente di offrirle anche alle altre donne del territorio. Quindi in realtà queste nuove forme di imprenditoria femminile rappresentano quasi un servizio sociale, in risposta alle esigenze di conciliazione di tutte le altre donne. Questo non basta, non è possibile pensare che siano sempre le donne a dovere dare risposte ai propri problemi di conciliazione; è assolutamente necessario attivare percorsi indotti dalle istituzioni (non solo all’interno delle stesse organizzazioni aziendali) che favoriscano il superamento di tali proble-mi. A livello istituzionale i finanziamenti, ma non solo, devono poter fornire alle donne gli strumenti per far fronte alle loro esigenze. Da questo punto di vista, per quanto riguarda la normativa sulle pari opportunità, è da richiamare sicu-ramente la Legge 53, che è più nota come la Legge sui “congedi parentali” che, al suo articolo 9, mette a disposizione delle donne anche imprenditrici dei fondi per poter gestire il periodo di assenza legato alla maternità. All’in-

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terno di tale Legge alle donne imprenditrici viene data la possibilità di finan-ziarsi una figura di sostituzione, che sia un’altra imprenditrice, che gestisca, al posto della donna che è a casa in maternità, l’azienda e permetta a questa donna di non bloccare la propria attività, e di poter rientrare, nei tempi corretti e naturali, a svolgere l’attività lavorativa. Ahimè, come veniva ricordato prima per la Legge 215, anche sulla Legge 53, c’è un monte di fondi che non vengono utilizzati e che rischiamo di perdere perché, inevitabilmente, quando i fondi non vengono usati, soprattutto in mo-menti di crisi, si fa in fretta a riprenderli e a spostarli su altre necessità. Quindi assolutamente le associazioni qui presenti devono, così come noi con-sigliere, fare presente questa opportunità e lavorarci. Oltre alle misure legislative è però necessario attivare servizi di supporto al lavoro di cura. Credo che anche nel mondo agricolo si possano attivare delle sperimentazioni importanti, che hanno avuto successo nei contesti cittadini. Cito le sperimentazioni della Banca del Tempo. Credo che si potrebbe valutare l’attivazione di una sperimentazione della forma della Banca del Tempo, per le donne occupate nel mondo rurale e credo che molti fondi possano andare a supportare queste esperienze di polifunzionalità, come le fattorie didattiche, gli agroasili, trovando in questi non solo canali di occupazione femminile, ma canali di risposta alle esigenze di conciliazione delle donne.

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ilVa Paola Moretti Coordinatrice della rete Emilia Romagna dei Comitati per la promozione dell’imprenditorialità femminile, Camera di Commercio e Artigianato di Piacenza

Imprenditoria femminile tra sogno e realtà

La Camera di Commercio ha al proprio interno i comitati per l’imprenditoria femminile e in ogni Provincia ce n’è uno. Io ho anche l’onore, in questo caso, di rappresentare la Regione Emilia Romagna. E a mia volta sono imprenditrice nel settore dei servizi alla persona, però sono iscritta a Confindustria: una delle prime donne che non ha scelto la via della cooperazione ma ha scelto la via del privato profit. Finalmente si può anche dire. E devo dire è una bella sfida, al di là del ricordo personale di donne in agricolturaI. Io sono di origine friulana, le donne hanno fondato le cooperative e soprattutto, visto che uomini non ce n’erano perché erano in guerra, sopra le case anche padronali, c’era la famosa seta e il famoso baco da seta. Noi ne abbiamo ancora ricordo perché teniamo nella casa, pur crollata e ricostruita del Friuli, questi bellissimi solai che facevano caldo e nel frattempo portavano reddito. La mamma invece è di Modena e voi sapete quanto la Provincia di Modena aiuti in questo senso. L’idea di venire a raccontare dati che vi darò in un ambito che non mi appar-tiene proprio come ambito di appartenenza della mia azienda, di ricordi ne ha mosso, non solo ricordi. Le donne, al di là dell’età, hanno effettivamente una posizione non poi così poco rilevante ed hanno, all’interno delle attività produttive e di servizi, un ruolo che è soprattutto il coraggio al di là dell’età, di iniziare un’attività. Io ho iniziato un’attività, sono sempre stata una libera professionista, a 44 anni. Ora ne ho 59. La donna inizia ed intraprende una nuova attività molto di più rispetto ad un uomo. L’uomo ha per scelta, ar-chetipo, una scelta di lavoro che lo accompagna: un ingegnere farà sempre l’ingegnere. La donna, una laureata in pedagogia, inventa qualche cosa di diverso. Io ho un fratello e un papà ingegneri, immaginate. Meno male che io sono creativa. Una delle cose ancora più interessanti è che la donna, quando si mette in gioco, al di là della conciliazione, sa molto bene dove va. Sa molto bene la difficoltà. Forse quello che non sa è che l’aggregazione fra le donne effettivamente è una delle situazioni più terribili che noi abbiamo. Quando io ho sentito “mettiamoci in rete”, con la Dr.ssa De Silvestri ne abbiamo parlato

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molto, mi è venuto una specie di brivido. La donna ha una difficoltà oggettiva nel mettersi in rete, ma ha una difficoltà oggettiva perché noi abbiamo altri livelli di ricerche di comunicazione. Avete mai visto un uomo che giudica un altro uomo su come è vestito? Su come è pettinato? Su come è truccato e quanti gioielli porta? Qualche volta fanno qualche accenno sulla cravatta, noi invece abbiamo ancora questo livello di comunicazione. Che, per altro, se noi utilizziamo in un modo molto chiaro, preciso e cosciente, ci dà invece l’oppor-tunità di dire “guarda, quella persona è creativa; quella persona pur essendo così eccessiva può”. Se noi non stravolgiamo questo dato di fatto, la rete non la faremo mai, perché è un livello di comunicazione che non ci appartiene. Sulla professionalità noi abbiamo una opportunità di incontro che è doppia ri-spetto all’uomo. Perché bravissime nel conciliare e nel fare la spesa, abbiamo la possibilità di incontro di fortuna raddoppiato rispetto all’uomo. Dovremmo anche chiederci proprio su incontri personali, fuori dagli schemi, esattamente dove vogliamo andare a parare. Il sogno. Non ho mai capito perché l’attività imprenditoriale dell’uomo è impre-sa, quella femminile è un sogno. È così? Attenzione: il sogno è la motivazione ma la cosa che porta a realizzare un’azienda, sia di servizi, sia di comunica-zione, sia manifatturiera, sia agricola, è l’idea. Se noi non partiamo dall’idea tutti i nostri finanziamenti non servono. La Legge 215 dovrebbe insegnarci qualcosa perché i soldi non utilizzati sono dei sogni bellissimi sulla carta ma assolutamente irrealizzabili. Oppure di persone che hanno tentato di farlo e poi non sono riusciti a fare cose di questo genere. Allora, tra il sogno e il mettersi in gioco e la realtà, c’è l’idea. L’idea deve avere una credibilità finan-ziaria, commerciale. Perché altrimenti noi potremmo fregiarci di essere asso-ciati a Confindustria eccetera, ma se non produci, non vai avanti. L’altra diffi-coltà, diffusa tra le donne, che ho potuto riscontrare, e devo dire che parteci-pare a questi incontri mi è servito per questo, è la conciliazione. Evidentemen-te, nonostante l’impegno che ci stiamo mettendo, non riusciamo a rendere applicativa la Legge 53. Anche perchè probabilmente non è questo che noi donne cerchiamo. Io sono sposata, divorziata e con un figlio: ho quindi affron-tato e fatto i conti con il problema della conciliazione. Problema che non è le-gato tanto all’anziano, al bambino, che fanno parte ormai di un qualche cosa che noi sappiamo appartenerci. Probabilmente noi non abbiamo capito che invece di chiedere i soldi e dire “faccio i soldi e li do tutti alla baby sitter”, po-tremmo metterci a lavorare insieme ad un’altra persona, e riuscire a dividere questa idea, magari cercando nella partner qualcosa che non è di nostra

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competenza, quella risorsa che magari noi non abbiamo. Mettetemi a fare i conti e io sono morta. Allora io cercherò, invece di avviare un’impresa da sola (perché sono brava, bella, furba, intelligente e perché ho l’idea) di trovare qual è quel mio “meno” che mi può dare un’altra persona con cui avviare un’attività e che mi lascia poi spazio per questa famosa conciliazione. Su questo io lavo-rerei un po’. Nel frattempo però vi do dei dati interessanti, sono del 2008 di Unioncamere. È una chicca che ho portato per voi stamattina. Piccoli impren-ditori, non una situazione generale che non credo sia proprio fra le più felici. Nel 2008 le donne tengono più degli uomini. Lo sapevamo, non era poi così certo. Fare impresa in tempo di crisi è più difficile ma, a guardare il bilancio delle titolari di imprese individuali, ovvero di piccole e piccolissime attività imprenditoriali, il 2008 evidenzia una migliore tenuta di quelle guidate dalle donne, rispetto alle performance di quelle guidate da un capo uomo. Se lo scorso anno le poltrone dei piccoli imprenditori individuali si sono ridotte dello 0,91%, quelle occupate da donne hanno limitato le perdite allo 0,84%, mentre quelle dei concorrenti uomini nel totale è lo 0,94%. È molto perché poi noi lo 0,84% dobbiamo rapportarlo al numero delle donne, vuol dire che nel biennio 2007 e 2008 le titolari donne di ditte individuali, sono rimaste stabili. Sono infatti il 25,5% del totale dei titolari, praticamente su quattro titolari di ditte individuali, una è donna. In totale, alla fine del 2008 erano poco meno di 900.000 le donne alla guida di queste piccole e piccolissime imprese soprat-tutto presenti nel commercio, agricoltura e servizi, dove si concentra com-plessivamente il 72% di tutte le poltrone. In termini strutturali i settori caratte-rizzati da una presenza delle donne si confermano: sanità 66%; servizi alla persona 59%; presenze significative quindi superiori al 30% si registrano in: istruzione, alberghi e ristoranti e agricoltura, che ha un 30,7%. Considerando i soli settori quantitativamente più rappresentativi, rispetto al 2007, questo piccolo esercito si è comportato relativamente meglio dei colleghi uomini. Tenete presente che in agricoltura le donne hanno perso il 2,2%; gli uomini hanno perso quasi il 3%. Anche nelle comunicazioni siamo andate molto me-glio. Tenete presente un dato che riscontra la Camera di Commercio, e lo dico perché è molto interessante, e cioè che abbiamo avuto un aumento nel setto-re delle costruzioni del 6,6% rispetto all’1% degli uomini. Posso essere molto onesta perché noi l’abbiamo guardato a Piacenza: sono false imprese! Queste sono le donne che si prestano ancora una volta ad assumersi delle responsa-bilità finanziarie che poi ricadono su di loro, per persone che hanno già avuto precedentemente problemi, soprattutto nel settore delle costruzioni, ed assu-

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mono persone extracomunitarie. È un dato di fatto ed è gravissimo. Anche noi come Camera di Commercio stiamo veramente monitorando questo perché: che garanzia dà una persona che inizia un’attività di cui non sa niente, ma che è solo un prestanome? Vuol dire che noi ci comportiamo esattamente come facevano gli uomini fino a 15 anni fa quando c’era chi prestava il nome. Ades-so, siccome loro si sono esauriti perché si sono massacrati, ce lo chiedono ancora una volta. E ancora vi do un dato interessante, ve lo do sull’agricoltura. Titolari di imprese individuali, donne, anno 2008, in agricoltura 251.237; uo-mini 566.993. In effetti le donne sono calate del 2,20% e gli uomini invece sono calati quasi del 3%. Vuol dire che la Regione Emilia Romagna ha perso lo 0,51% di ditte femminili mentre gli uomini hanno perso esattamente l’1,52%. Io mi domando che cos’è che fa la differenza. Per chi mi conosce sa che spesso mi faccio questa domanda. Probabilmente quando la donna fa impre-sa, quel famoso sogno ha dietro un progetto, un’idea, dove davvero i finanzia-menti possono essere importanti. Ma la donna ha imparato anche nell’acces-so al credito a rimboccarsi le maniche. Non è vero poi che dobbiamo dare più garanzie noi donne degli uomini; le garanzie in questo momento (e, vi posso garantire, anche negli anni precedenti) vengono chieste a tutti in modo indiffe-rente, ad uomini e donne. Basta soltanto avere delle associazioni di categoria che sanno dove andare a parare. Io per esempio sono nel settore di servizi e pensate che, pur essendo iscritta all’associazione degli industriali, fino a po-chissimo tempo fa, Confindustria non dava finanziamenti ad aziende del terzia-rio avanzato. E quindi io mi sono rivolta ad un’altra associazione di categoria che mi ha permesso di finanziare la mia azienda, cercando di andare a ricopri-re quello di cui sono capace. Io non sono capace di grossi voli pindarici, quello che riesco a fare è piccolo e moltiplicatorio. Ecco allora: piccole case di riposo, piccoli appartamenti, è quello che io so fare meglio. Ma in momenti di crisi aziendale può valere la pena cercare una socia che abbia le competen-ze che a noi mancano, ben coscienti comunque di correre un rischio. I rischi d’impresa sono non solo di idee, ma anche economici. E a maggior ragione io penso che la donna in questo momento abbia bisogno di un vero aiuto per il consolidamento imprenditoriale. Non è solo il passaggio generazionale, sto parlando di un’altra cosa. La donna inizia e poi chiude. Io sono andata a vede-re i dati di chi chiude: ci sono ancora donne che hanno aperto un’attività per-ché nel frattempo aspettavano il concorso in banca, in posta, eccetera, ma ci sono donne che si sono scoraggiate o hanno scelto male la loro attività im-prenditoriale. Le attività di commercio devono sapere che devono essere at-

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tente ad aiutare donne nel settore del commercio: donne che si impiccano con i franchising, donne che fanno spendere tutti i risparmi ai loro genitori, soprattutto le giovani, impiegandosi e pensando che aprire un’attività sia come essere un lavoratore dipendente: non è così. Questo deve essere chia-ro. Io credo che il sogno, possiamo raccontarcelo finalmente, può avere esat-tamente non più un colore rosa sbiadito ma un bel rosa shocking, io ho preso una bella borsa rosa shocking perché è il colore che ci contraddistingue. Però usciamo dal pallore, dal fatto che il sogno sia l’unica alternativa alla donna per fare impresa. L’unica alternativa alla donna per fare impresa è l’idea, suppor-tata naturalmente da una situazione ben chiara di business plan. I corsi di formazione ormai tutti li fanno e credo che siano l’unica certezza. Noi dovrem-mo valutare non soltanto la disponibilità economica, i finanziamenti che questi progetti hanno dietro, ma anche la loro fattibilità. Dovremmo quindi consolida-re le imprese già esistenti e prima di aprirne un’altra verifichiamo se possiamo farlo con qualche altra persona, con qualche amica, ed in questo internet po-trebbe essere uno strumento molto interessante. Verificare dunque se anche attraverso la “rete” noi riusciamo a vedere una partner, a conoscere una part-ner con cui riuscire davvero a fare rete.

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Paola saNsoNiPresidente Regionale di CNA Impresa Donna Emilia Romagna

Buongiorno a tutti, a dire il vero ero partita con tutta un’altra idea di argomenti, poi ascoltando le colleghe, vari spunti diversi mi sono sopraggiunti, quindi se siete d’accordo parlerei delle peculiarità dell’attività di CNA Impresa Donna che raggruppa più di 27.000 imprese nella nostra Regione. In CNA Impresa Donna l’intento è quello di raccogliere le peculiarità dell’im-prenditoria femminile. Fra l’altro con neanche poche difficoltà, in quanto, pri-ma di tutto ci troviamo di fronte ad una trasversalità di settori di imprese che rende difficile la progettazione delle reti e la loro gestione. Però indipenden-temente da questo, qualcosa si è fatto, qualcosa si è realizzato anche con dei bei risultati. Nonostante difficoltà e criticità, la rappresentanza dell’asso-ciazione verso le istituzioni sollecita costantemente lo sviluppo del fare rete proprio con le istituzioni stesse, perché questo poi permette soprattutto uno scambio di buone prassi, patrimonio che dovremmo riuscire a non perdere. Anche perché risorse impiegate per sviluppare certi ambiti devono essere frutto prelibato e messe a disposizione anche di realtà e di livelli diversi. È verissimo che fra donne è ancora più difficile fare rete. Ma è più difficile perché? C’è quella competitività che è estremizzata rispetto alle reti che ci sono fra gli uomini. Ma è proprio un aspetto culturale, non dimentichiamolo. L’uomo è abituato al cameratismo, a viaggiare parallelamente con un collega, con un altro imprenditore; tirare fuori le idee, svilupparle, fare business. Noi rimaniamo sempre un pochino più chiuse. Forse anche per la peculiarità di un’altissima percentuale di imprese individuali; imprese che appunto lavorano specificatamente sull’artistico, sul tradizionale, quindi microimprese con una maggioranza altissima di imprese individuali. In questa peculiarità qui c’è la competenza individuale, la propria esperienza. Metterla in rete cosa significa? Condividerla, trasferirla, renderla trasparente. Non c’è sempre questa dispo-nibilità. Soprattutto nell’ambito delle imprese orizzontali, laddove in effetti i progetti devono orientarsi specificatamente allo sviluppo di nuovi mercati, al potenziamento della clientela. Lavorare in gruppo, avere una vera e propria governance di gruppo per arrivare ad un risultato. Le difficoltà nascono pro-prio in queste specificità. Quindi prima di tutto siamo noi imprenditrici che dobbiamo spogliarci dalla nostra cultura e dalla nostra educazione. Qualcosa è stato fatto, ma non è sufficiente; ci sono questi aspetti più critici. Però c’è

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la consapevolezza che si potrebbe fare molto. Infatti mi viene da dire: “Perché non le cogliamo queste opportunità?” bisogna aprirsi, siamo nella globalizza-zione. Uno sforzo in più bisogna che cerchiamo di farlo anche noi come cultu-ra imprenditoriale femminile. Questo è proprio uno stimolo che vorrei lasciare in questa direzione, perché credo che se incominciamo un po’ alla volta ad educarci vicendevolmente, questo ci aiuta poi, credo e spero, a rafforzare a cogliere le opportunità che abbiamo. Fra l’altro l’aspetto del credito nella specificità dell’imprenditoria femminile assume una particolare criticità; non condivido che non sia elargito in ugual misura verso imprenditrici e imprenditori. E’ inaccettabile che siano diversi i trattamenti in termini di costo del denaro, nonostante le donne siano maggior-mente solventi nei confronti delle banche, e che esista un differenziale anche quando le garanzie richieste provengano da uomini piuttosto che da donne: l’applicazione dei tassi e/o delle condizioni applicate continuano a non essere le stesse. In questo momento sono in atto comunque dei protocolli di intesa che si stanno firmando, anche per andare a coprire quelle che sono le difficol-tà economiche di questo periodo di crisi, protocolli di intesa con le associa-zioni e gli istituti bancari, in questo caso CNA, per sviluppare maggiormente e creare più facilità nella concessione del credito, soprattutto alle PMI. È un cavallo che in questo momento deve essere cavalcato.

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eleNa BalsaMiNi Imprenditrice

Le criticità rilevate da un’imprenditrice

Mi presento. Sono una imprenditrice di Forlì. Quando i mesi scorsi Silvia Gaiani mi ha telefonato e mi ha chiesto di avere un appuntamento per parlare delle criticità dell’imprenditoria, la prima cosa a cui ho pensato è stata: qualcuno si è accorto di noi, com’è possibile? Considerate che sono la proprietaria di una piccolissima impresa dell’artigianato artistico tipico tradizionale roma-gnolo. Penso di aver affrontato un po’ tutte le difficoltà legate alla necessità di avere visibilità e di inserirsi in un contesto uno po’ più ampio. Io faccio un lavoro un po’ particolare, che può essere a conclusione di quella che è una filiera tessile. Io faccio il tipico stampato romagnolo a ruggine. Non so se lo conoscete, penso di sì perché poi è una cosa che si conosce anche fuori dalla Romagna; siamo vicinissimi alla Romagna. È una scelta che ho fatto tredici anni fa, nonostante sia stata una scelta veramente difficile, perché è un mestiere veramente limitato, soprattutto maschile. Però mi ha spinta la mia voglia di recuperare quelle che sono le tradizioni, di riappropriarsi del proprio territorio, fondamentale nei tempi che corrono, e soprattutto di proporre un prodotto di qualità, limitato anche in quello che può essere la quantità. È un mercato di nicchia. Però la mia scelta è stata ben precisa e, anno dopo anno, dicevo: “Adesso tengo duro, vado avanti”. Sono già tredici anni, penso che ad un certo punto mi abbia ripagato di questa mia scelta. Le difficoltà. Inizialmen-te ho fatto una scelta molto limitata anche come rischio perché il mio lavoro non necessita né di macchinari particolari, né di preparazioni; non si fanno corsi di formazione perché non esistono. Per cui io sono andata a conoscere gli stampatori direttamente in bottega, mi sono fatta un’idea del lavoro, ho os-servato, perché era l’unica cosa che si può fare in questo lavoro e ho deciso di mettere in piedi la mia attività. Ho investito i miei risparmi personali, non ho fatto richieste di finanziamenti, l’ho fatto nel momento in cui ho deciso di acquistare i muri del negozio; ho visto questo bellissimo negozio nel centro storico, in un palazzo del ‘600, “Facciamo questa follia: me lo voglio com-prare”. Ovviamente con tanto di garanzie maschili multiple alle spalle e non è stata una mia impressione, perché finalmente ottenuto questo finanziamento, quando qualche anno dopo, una delle tante volte che andavo a pagare la mia

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rata mensile, ho avuto modo di incontrare il funzionario che mi aveva seguito all’inizio, mi disse “Le devo fare i miei complimenti”. Io mi sono sentita tutta orgogliosa pensando conoscesse il mio lavoro, il mio negozio, la mia attività. Invece mi ha detto: “I miei complimenti sono perché lei ha pagato oltre la metà delle rate, noi non avremmo mai creduto che lei potesse farlo, nonostante avesse gli appoggi maschili alle spalle”. Allora posso smettere di lavorare a questo punto, se vi ho già dato una soddisfazione tale, possiamo anche smet-tere. Lui ovviamente voleva farmi un complimento, per me invece è stata una mazzata spaventosa, nonostante io non avessi mai incontrato effettivamente degli ostacoli evidenti. In fondo dicevo, le garanzie me le avevano chieste e so che le chiedono a tutti, uomini e donne; ma sentirmi dire una cosa del genere per me è stato veramente degradante. Avessero detto “Ti ammiriamo perché hai fatto una scelta particolare di fare un lavoro che non esiste più”. Tenete conto che in Romagna, in tutta Italia siamo dieci; non è un’attività remunera-tiva e che dia ampio spazio per allargarsi ai mercati esteri. L’unica cosa che loro avevano guardato era il fatto che fossi una donna. Quello che ovviamente negli anni ho notato è che, nel mio piccolo, nella mia piccola bottega, lavoro da sola; per un po’ ho avuto un collaboratore ma ammetto di lavorare meglio da sola. Come tutte le brave donne, innanzitutto non vorrei mai avere un’altra donna a fianco, lo ammetto, perché so che andremmo sempre a litigare su questioni di come fare le cose: c’è il lato artistico, ci piace di più sistemare la bottega in un modo o nell’altro. Allora ho cercato di avere delle collaboratrici, di venire a creare una rete, la famosa rete. Io vi dico che purtroppo ho notato una difficoltà enorme con le donne. Il problema della conciliazione per me è importantissimo ed è gravissimo perché, sempre più spesso c’è il problema dei figli, poi del marito che ha le necessità: “Poverino non può rimanere a casa a mezzogiorno perché non sa come infornare il pollo nel microonde”, mi son sentita dire. Poi subentrano gli anziani, ti prendi carico del tuo ex marito, se vuoi anche il quartiere è disponibile. Le difficoltà sono queste e le donne ten-dono sempre di più a sobbarcarsele anche se avrebbero le possibilità di dire ogni tanto: “Penso a me stessa”. Un po’ c’è questo vittimismo, facciamoci un po’del male. Invece io dico: datevi da fare ragazze, quante volte abbiamo visto un uomo – io non sono una femminista lo dico subito – che ha iniziato a dire: io devo stare a casa perché i bambini hanno bisogno. Mai o rarissime volte. Le donne lo devono fare con questo atteggiamento un po’ di “Mi faccio del male, ma mi tocca”. O lo fai perché sei volenterosa quindi vuoi farlo veramente con coscienza, oppure punta tutto sul tuo lavoro. Ho visto molte attività che hanno

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chiuso tenute da donne, soprattutto dell’artigianato artistico che hanno chiu-so, in particolare della filiera del tessile. Con grandissimo dispiacere perché io sono praticamente l’ultima fase, che è quella della lavorazione del tessuto. Hanno chiuso prima quelle che facevano i tessuti: lo so dato che lavoro so-prattutto sui tessuti fatti al telaio a mano perché è una tradizione specifica; poi hanno chiuso quelle che facevano i filati, io adesso mi trovo che o mi portano i tessuti che hanno in casa o non posso lavorare. Addirittura mi hanno chiuso le fabbriche che facevano i tessuti per la stampa. Leggevo un articolo due settimane fa che hanno chiuso non so quante fabbriche di filati in Italia, una cosa impressionante. Sono veramente situazioni gravi, per cui bisognerebbe invece sempre più puntare su queste piccole realtà di lavorazione del filato e del tessuto. È ovvio che è un mercato di nicchia piccolissimo, perché il mio mercato è Forlì, la provincia; poi vendo all’estero, non si sa il motivo. Forse abbiamo troppe cose belle in Italia e tendiamo a sottovalutare quelle che sono le nostre tradizioni. Fare rete è importantissimo ma un po’ bisognerebbe cambiare mentalità, purtroppo lo dico. Ci vorrà sicuramente un aiuto notevole sull’aspetto sociale. Io penso sinceramente con un po’di paura a quando in famiglia ci sarà bisogno: io non ho una famiglia mia, non ho un marito, però ho una famiglia di origine e sono sicura che prima o poi ci sarà bisogno. Ho un fratello, siamo in due, e non credo che mio fratello sarà molto disponibile a badare a chi in casa avrà bisogno e quindi è un peccato. Io alla mia attività ci tengo tantissimo e con ostinazione voglio andare avanti.La creazione della rete è importante ma bisogna spronare un pochino diver-samente anche le donne, soprattutto per quello che riguarda la conciliazione. Grazie a tutti. Buongiorno.

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BarBara Maccato Responsabile Sindacale Confartigianato Regione Emilia-Romagna

Gli aspetti giuridici

Buongiorno a tutti. Mi riallaccio a quello che in conclusione aveva detto la dottoressa Moretti. L’idea imprenditoriale è sicuramente alla base. Ci sono poi aspetti di business plan che io credo vadano valutati nel momento in cui c’è una decisione di intraprendere. L’intraprendere significa oggi, più che in passato, avere un rapporto con l’istituzione. Quindi se una qualsiasi donna dovesse ave-re un’idea da sviluppare, deve comunque pensare di iscriversi alla Camera di Commercio che è la cosa probabilmente meno costosa: si tratta, nel caso di un’impresa individuale, di avere un costo di bolli, di segreteria. Per un’impresa artigiana, deve considerare di avere dei costi fissi che sono la contribuzione INPS che è fatta su un minimale indipendente dal reddito d’impresa: il reddito d’impresa potrebbe non esserci nelle prime fasi, chi intraprende deve avere un’idea finanziaria e quindi anche un investimento iniziale tenendo conto anche che, per esempio, i costi fissi relativi alla contribuzione INPS sono annualmen-te intorno ai 4000 Euro. Non vorrei scoraggiare nessuno, però io credo che di fronte a un’idea di impresa vada tenuto conto che oltre all’investimento per i macchinari e il luogo dove lavorare, ci sono anche questi costi fissi. In passato questa grande diffusione della piccola impresa nelle prime fasi di attività è sta-to possibile, fino a una ventina d’anni fa, probabilmente, il mondo era diverso. Oggi oltre ad avere un’idea imprenditoriale che potrebbe essere anche forte, questo tipo di impatto va valutato, in un momento peraltro in cui, per esempio, il settore tessile e abbigliamento – lo dico perché purtroppo nella mia attività mi confronto giornalmente con imprenditori soprattutto del distretto di Carpi stanno attraversando momenti particolarmente difficili. Il quadro generale è un quadro difficile. Per il settore del tessile e abbigliamento, l’apertura dei mercati internazionali, alle fine degli anni ‘90, rispetto alla fibra tessile, ha avu-to un impatto negativo violento e immediato poichè sono entrati nel mercato grandissime quantità di prodotto provenienti da paesi tipo la Cina o l’India dove, ovviamente, i prezzi erano fortemente concorrenziali. Parliamo di pro-dotti di nicchia, parliamo di prodotti di alta specializzazione, che potrebbero avere un mercato, sicuramente. Va comunque valutato il contesto. Le filiere corte potrebbero essere un elemento interessante e anche le reti. Io sulle reti

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vorrei fare qualche sottolineatura. Le reti sono un elemento che oggi va molto di moda, ma tenete conto che le reti non sono istituzionalizzate, nel senso che noi oggi abbiamo un quadro giuridico definito; dentro a quel quadro giuridico noi possiamo inserirci. Al massimo abbiamo un contenitore che si chiama consorzio, ma la rete sul piano giuridico non esiste. C’è un confronto con il Ministero delle attività produttive e non solo, per tentare di andare a definire un possibile contenitore giuridico per le reti, perché è vero che potrebbero essere soprattutto sul piano della commercializzazione, non mi riferisco solo al tessile, ci sono altri settori che potrebbero avvalersi di questo contenitore giuridico, però vanno definiti in modo preciso quelli che sono i limiti: sul piano fiscale, nel momento in cui tu vai a costituire una rete non si capisce chi è il soggetto. Saranno le singole imprese della rete, però voi capite bene che la rete non esiste. Sono aspetti fortemente rilevanti perché, al di là dell’idea imprenditoriale, ci sono poi aspetti di confronto con l’istituzione che non sono elementi sui quali l’imprenditore si confronta tutti i giorni e la burocrazia, vi assicuro, occupa molto tempo della giornata. È sicuramente un’idea alla quale bisognerà tentare di dare una risposta, se possibile. Tra l’altro, c’è un elemen-to ulteriore: nel momento in cui si va a dare una definizione giuridica di rete, c’è poi un confronto con l’Europa, che non è marginale in questo momento. La definizione giuridica per quel che riguarda il quadro giuridico italiano, non pre-scinde poi dal quadro europeo dove ovviamente ci si deve andare ad inserire perché ci sono degli obblighi.Sono tutti aspetti che dalla base imprenditoriale arrivano alle associazioni, c’è un confronto con le istituzioni, non è una semplice soluzione. Sicuramente in un momento come questo, un momento complesso, in cui tutti noi siamo presi anche da altre cose, perché tenete conto che l’aspetto di crisi che sta attraversando, tra l’altro, anche il sistema produttivo emiliano romagnolo, fa sì che su queste idee ci si concentri tutto sommato meno perché ci sono altre emergenze. Quindi le scelte di emergenza sono quelle che ti chiedono le imprese, però io credo che probabilmente questa potrebbe diventare un ele-mento sul quale la tenuta della piccola impresa potrebbe anche avere un suo futuro, nel senso che sicuramente i costi di commercializzazione del prodotto potrebbero essere abbattuti, sempre però che ci sia una risposta precisa da parte delle istituzioni che non sono quelle regionali, quelle locali, ma sono quelle nazionali e sovranazionali. Quindi è un problema che, voi comprendete, non è di semplicissima soluzione, che non può essere neanche affrontato con leggerezza.

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Io ho visto nelle criticità che venivano evidenziate nella prima parte dell’espo-sizione di questo seminario, un problema di marchi. È un problema forte-mente sentito dalle imprese e, in particolare, dalle imprese del tessile e del tessile-abbigliamento, sul quale c’è stato anche un investimento abbastanza importante, soprattutto sulla definizione anche legislativa della tracciabilità dei prodotti, così come avviene nel settore alimentare ed è avvenuto in realtà per dare risposte a crisi che erano evidenziate per la sicurezza degli alimenti. Questa è una crisi economica che potrebbe far sparire migliaia di imprese, potrebbe essere questa la molla che fa scattare una legislazione di protezio-ne. Io ve lo dico molto tranquillamente, è un crinale difficile sul quale stare, però la qualità del prodotto si fa anche proteggendolo e dando indicazioni al consumatore rispetto a quali sono gli elementi di qualità rispetto al luogo di produzione. Volenti o nolenti è così. Ci sono state varie iniziative in passato che sono state peraltro adesso riprese con grande intensità per dare una de-finizione di tracciabilità dei prodotti tessili e non solo di questi, ma anche dei prodotti di abbigliamento, con questo marchio “Made in Italy” in cui si dice che si garantisce che il produttore finale, che è quello che assembla, dà la garan-zia di tracciabilità del prodotto. Ovviamente su questo le lobbies delle grandi imprese che soprattutto avevano investito fortemente in Paesi a basso costo del lavoro, hanno fatto muro. Tenete conto che poi, anche sul piano degli ac-cordi internazionali, questo elemento ha delle problematicità forti, perché noi siamo dentro a un mercato globale; l’Italia ha sancito accordi internazionali e si è impegnata a non mettere in atto politiche protezionistiche. Questo tipo di politica potrebbe anche essere considerata una politica protezionistica. Quin-di sono tutti elementi che non sono di facile soluzione; li butto perché sono elementi di una discussione che probabilmente andrebbe approfondita e che ha dei punti sicuramente importanti di sviluppo che però non possono essere risolti nel dialogo sociale con le istituzioni a livello locale, perché io credo che ogni giorno ci confrontiamo con la Regione, ma addirittura sono argomenti che hanno caratterizzazioni che sono sovranazionali, non sono elementi di poco conto. Io capisco, il marchio di rintracciabilità credo sia sicuramente im-portante però è una cosa che non risolviamo in Emilia Romagna. Ci possono essere delle nicchie di occupabilità con filiere corte, ma bisogna stare molto cauti, lo dico con grande franchezza, rispetto alle speranze che si danno a delle persone, perché si rischia anche, con le speranze di persone che sono in carne e ossa, dato che le possibilità del mercato sono molto contenute. Però ci sono degli esempi che, guarda a caso, sono localizzati in regioni a statuto

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speciale, ad esempio la provincia autonoma di Bolzano che ha provato a fare filiere corte a partire dalla produzione locale per arrivare ad un prodotto arti-gianale di nicchia, con sostegni che sono obiettivamente altri. La Val D’Aosta l’ha fatto su produzioni che sono quelle del tessile. Tenete conto che sono esempi molto belli perché tra l’altro il tipo di produzioni sono molto accattivan-ti, però sappiate che il costruire filiere corte vuol dire un impegno anche sul piano finanziario iniziale, che è un impegno assolutamente importante. Questo lo vorrei sottolineare perché non è facile partire e dire “Ci mettiamo in moto”. Bisogna che stiamo attenti a non dire “Armiamoci e partite”: se ci armiamo partiamo tutti insieme. Arrivederci e grazie.

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soFia treNtiNi Presidente Associazione Donne in Campo - CIA Regione Emilia Romagna

Buone pratiche di imprenditoria agricola

Buongiorno a tutti. Mi sono scritta alcune cose ieri sera per avere comunque il rispetto dei tempi che mi era stato caldamente richiesto, e soprattutto per focalizzare due o tre aspetti che riguardano appunto l’imprenditoria femminile della nostra associazione. Racconto un po’ in generale per chi non la conosce cos’è l’Associazione Donne in Campo della CIA. L’Associazione a livello nazio-nale è stata costituita nel 1999-2000, mentre in ambito CIA dell’Emilia Roma-gna ha avuto uno sviluppo consistente grazie all’attivismo e alla voglia delle donne imprenditrici agricole che si volevano appunto incontrare per analizzare le tematiche di difficoltà della gestione dell’impresa che stavano attivando per la prima volta, o conducendo o rilevando dalla precedente conduzione di un membro della famiglia. Grazie a questo strumento a disposizione dell’im-prenditrici agricole, si sta rafforzando l’incontro e la discussione in merito alle problematiche del settore, con tutte le esigenze che si presentano durante il percorso di impresa. Al nostro interno noi crediamo molto che, anche se molti dicono che l’impresa non ha sesso, ci siano sempre dei modi diversi di realiz-zarla o di condurla: sia che se ne occupi un’imprenditrice donna piuttosto che un imprenditore maschio. Prevalentemente le tipologie d’azione condotte dal-le nostre imprenditrici si orientano all’esercizio dell’agricoltura multifunzionale non tradizionale. È sempre stata elevata la presenza delle donne nell’impresa agricola familiare ma, nel momento in cui una donna decide di intraprendere da protagonista l’attività agricola, ha una diversa motivazione di fare impresa, legata al rispetto dell’ambiente, prevalentemente, anche se sullo stesso piano mantiene l’obiettivo di realizzare un reddito adeguato e di valorizzare se stes-sa nella professione. All’interno della nostra Associazione abbiamo imprendi-trici che provengono da “diversi strati” di formazione dell’impresa. C’è chi ha ereditato l’azienda di famiglia: ricordiamo che prima della riforma degli anni ’70, la donna non ereditava l’azienda familiare, ma era esclusivamente il figlio maschio che ereditava l’azienda. C’è chi si è trovata a gestire l’azienda per la necessità di avere un altro reddito familiare esterno da parte del capo fami-glia, e anche in questo c’è comunque la consapevolezza della “conservazione” della struttura aziendale da parte della donna, quando l’uomo lavora fuori, è

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la donna che mantiene quanto di consolidato fino al quel momento. C’è (e sono buona parte, anche se di piccole dimensioni) chi ha deciso di sperimen-tare nuove idee per realizzare un reddito aggiuntivo per l’impresa familiare. Ad esempio attraverso la multifunzionalità, cioè realizzando la propria idea di svolgere una attività in agricoltura preservando le tradizioni, recuperando antichi modi di coltivare gli orti, di vinificare, di trasformare il latte, l’olio e altri prodotti. Ciò che viene affrontato oggi, riguardo alle fibre tessili, ci permette di affrontare in maniera importante il tema delle buone prassi in agricoltura, per uno sviluppo diverso possibile per il nostro settore. Se penso alle aziende condotte dalle nostre associate, non posso non rilevare che esse svolgono in maggioranza attività di agriturismo, fattorie didattiche, moltissimo la vendita diretta di prodotti coltivati e trasformati nei laboratori aziendali, ma poco vi è di coltivazione od allevamento animale per la produzione e trasformazione di fibre tessili. Chi già non lo sapesse (questo è un nostro orgoglio!), le nostre colleghe della Toscana hanno già iniziato un importante progetto di filiera di coltivazione delle fibre naturali da trasformare e tingere, con sostanze atossi-che, che ha portato alla realizzazione di alcuni manufatti artigianali tra cui la “nascita” di un abito da sposa molto bello e molto particolare, a cui anche la trasmissione televisiva di Rai3 “Geo & Geo” (non so chi ha potuto vederla) ha dato visibilità in un programma del 2008. Ma a parte questo non posso che fare un’analisi dei filoni principali che si sviluppano per noi in Emilia Romagna: la coltivazione della canapa e l’allevamento di animali come la capra e la peco-ra per la lana merinos, che sono i due aspetti che penso di poter comunque analizzare all’interno della tipologia delle nostre aziende. Io provengo da un territorio, quello ferrarese, in cui vive ancora il ricordo delle grandi estensioni di terreni coltivati a canapa negli anni ’50: ho delle foto di mia nonna al mace-ro con l’acqua alla vita, intenta a recuperare le fascine della canapa. Questa coltivazione poi è andata via via scomparendo con l’avanzare della meccaniz-zazione agricola e del boom economico, per cui si doveva produrre derrate per l’alimentazione umana. Ora vi è un progetto di recupero di cui ha parlato anche la Sig.ra Bargossi nel suo intervento, della coltivazione della canapa realizzato nelle zone delle Valli del Mezzano, sempre nel ferrarese, inizialmen-te con alcuni ettari in sperimentazione, che sono poi stati incrementati. Ma anche i tecnici dalla esecuzione materiale delle lavorazioni della coltivazione hanno evidenziato delle difficoltà di tenuta del reddito: infatti noi che abitiamo nel ferrarese conosciamo bene le problematiche di un impegno notevole in termini di costi delle macchine agricole per la lavorazione. Una volta, negli

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anni ‘50 c’era tanta manodopera molto spesso sottopagata. Adesso invece le macchine agricole necessarie per le operazioni di coltivazione sono mol-to costose, non c’è più nessuno operaio agricolo che lavora manualmente; queste macchine costruite apposta per questa coltivazione essendo, come si diceva, costose devono avere un buon progetto di ammortizzazione e ol-tretutto, richiedono grandi estensioni di ettari che sono lontani da ogni ottica di conduzione di un’imprenditrice donna, in quanto quasi sempre le imprese femminili sono caratterizzate per la piccola e media SAU (superficie agricola utilizzata) dei terreni (3-5 ettari). Pochissime imprenditrici hanno a disposizio-ne tanti ettari di terreno. Ma nonostante questo nulla vieta che esse si possa-no inserire nel segmento della trasformazione della fibra naturale, coniugando la valorizzazione del turismo con le abilità dell’artigianato rurale: penso alla realizzazione di canovacci, tovaglie, tipici della tradizione contadina; i ricami, eccetera. L’aspetto che mi preme però sottolineare è l’opportunità che può derivare dall’allevamento di pecore e capre merinos in tutte quelle aree, zone svantaggiate di montagna, che possono realizzare appieno il concetto della multifunzionalità dell’azienda agricola. Credo che sia l’argomento che poi le mie colleghe di Coldiretti affronteranno. Infatti conosco imprenditrici di cui, se siete interessati, vi darò i nominativi, che conducono aziende in zone svan-taggiate dell’Appennino bolognese e modenese, che allevano capre e pecore per la produzione di lana, che poi vendono a ditte esterne, per la realizzazio-ne di maglioni, sciarpe ecc... Attraverso questa attività realizzano un duplice obiettivo: un piccolo reddito aggiuntivo a ciò che già producono in azienda ed, inoltre, la tutela e conservazione di animali che, attraverso il pascolo, gestiscono eco-compatibilmente l’ambiente della montagna, non lasciandolo all’abbandono. Tutte queste attività però, che non sono molte, almeno per quanto riguarda le nostre imprenditrici, hanno la lacuna che non sono orga-nizzate: sono lasciate alla libera iniziativa di impresa delle imprenditrici che, a volte, non sono veramente a conoscenza dei progetti di filiera nei quali potersi inserire al meglio. Se da questo dibattito si riuscirà a realizzare un approccio di scambi e collaborazioni tra le diverse parti in campo, si valorizzeranno le capacità professionali delle imprenditrici e la conservazione di territori margi-nali che altrimenti saranno destinati all’abbandono. Grazie.

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lorella aNsaloNi Responsabile Coordinatrice Donne ImpresaColdiretti Regione Emilia Romagna

Multifunzionalità in agricoltura: nuove opportunità per nuove sfide

Ho preparato alcune note sulla multifunzionalità, l’argomento che ci coinvolge più da vicino e per il quale Coldiretti ha speso tanta energia. Coldiretti che qui rappresento, e’ stata infatti la promotrice principale della legge di orientamen-to nazionale e che si sta sempre più traducendo in realizzazioni concrete gra-zie anche all’appoggio delle istituzioni. Ma sulla multifunzionalità la dottoressa Bargossi ha già detto tanto in termini molto precisi, soffermandosi anche sugli aspetti giuridici e sul sottile confine fra quello che può essere attività agricola e attività artigianale lasciando peraltro intravedere, nella sua veste istituziona-le, ampliamenti verso prospettive future che potrebbero contenere evoluzioni anche per progetti come quelli di cui si parla oggi.La riflessione che vorrei fare ora è duplice: questo progetto di filiera corta o di attività tessile, quale possibilità concrete potrebbe avere? Esistono sperimen-tazioni e/o possibilita’ di aiuto economico rivolte a questa finalità specifica?Sicuramente stiamo parlando di una nicchia molto ristretta di possibile appli-cazione, perché anche fra le nostre aziende, ci sono pochissime realtà di tra-sformazione di filati o simili. Pertanto si tratta di un progetto tutto da studiare, da sperimentare, da vedere . Noi ci rendiamo disponibili a valutarne gli sviluppi e le opportunità, stando attenti però che abbia effettivamente uno sviluppo e un ritorno economico.Questa opportunità potrebbe rappresentare un’altra nicchia di reddito alterna-tivo che si può aggiungere alle altre tipologie di prodotto e/o servizio offerto. La legge d’orientamento attraverso la multifunzionalità ha creato innovative possibilità che le donne, soprattutto, sono state bravissime a cogliere per il loro spirito di iniziativa, fantasia imprenditoriale ed innata capacità nel coniu-gare i vari impegni, conciliando tempi di lavoro e vita familiare. Con Sara Paraluppi, coordinatrice regionale di Donne Impresa, abbiamo pen-sato a quali potrebbero essere gli sbocchi anche commerciali di questi prodot-ti tessili (canovacci, tovaglie, tessiture varie o altro) e si potrebbe ipotizzare il loro posizionamento negli agriturismo accanto alle marmellate o a qualsiasi altro prodotto alimentare, ma anche nei mercati contadini. I Farmers’ Market

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in particolare, ben supportati da un punto di vista organizzativo e legislativo, nascono per dare al consumatore una garanzia di qualità, di professionalità e di sicurezza soprattutto sulla provenienza assolutamente italiana dei prodotti. Vogliamo salvaguardare l’etichettatura dei prodotti, per la quale ci stiamo bat-tendo da anni, perché la rintracciabilità e la sicurezza delle nostre produzioni devono essere assolutamente difese, in quanto unica arma che possiamo avere per distinguerci dalle altre produzioni. E’ impossibile creare un prodotto di altissima qualità ad un prezzo molto basso e, anche se in Italia siamo per-denti dal punto di vista del costo della manodopera, possiamo essere vincenti sul fronte della qualità, della fantasia, del design, con un patrimonio di saperi antichi che possiamo cercare di recuperare e riproporre in chiave moderna, eliminando nel contempo i passaggi inutili che fanno diventare più costoso un prodotto senza dare però il giusto riconoscimento a chi lo produce o lo crea. Infine sul tema della conciliazione io rappresento un esempio abbastanza em-blematico di quelle che sono le difficoltà del nostro essere donne che lavora-no. Ho tre figli e fino al secondo figlio ho lavorato come dipendente in un Isti-tuto di Credito, con il supporto degli asili nido e dei nonni, e non intervenivano le strutture pubbliche. Questo mi ha permesso abbastanza serenamente di lavorare, percorrendo anche un certo iter professionale che mi ha dato soddi-sfazione. Alla nascita del terzo figlio e alla soglia dei quarant’anni, ho deciso di voltare pagina e mi sono licenziata, perchè ho intravisto diverse possibilità nell’attività di mio marito già nel settore agricolo per tradizione familiare. Lavorando a casa avrei potuto stare vicino ai miei figli, dando un aiuto con-creto a mio marito che era in quel momento oberato di lavoro in un settore potenzialmente in crescita come quello della floricoltura e giardinaggio, intra-vedendo anche possibilità diverse da quelle già percorse e potendo sviluppare un’attività di soddisfazione. Le donne in generale hanno la capacità di sapersi reinventare anche in base alle necessità della famiglia o di progetti “interessanti”. Abbiamo messo a punto un’attività di servizi di giardinaggio e manutenzione per il nostro territorio, oltre alla attività di vendita diretta delle nostre pro-duzioni floricole (gia’ in essere), con l’aggiunta di complementi vari, il tutto esposto in un ambiente gradevole, ristrutturato ed “emozionale” per far sì che il consumatore potesse continuare a sceglierci non solo perché trovava come sempre il geranio o la primula che ormai si trovano anche nella grande distribuzione a prezzi stracciati, ma dandogli una motivazione ed un interesse diverso con una lavorazione del prodotto particolare.

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Questa e’ la mia esperienza, ma credo possa trovare applicazione in tanti altri settori, che siano quelli dell’alimentare o del tessile. Devo dire grazie alla legge di orientamento e mi rivolgo alle istituzioni chiedendo di continuare a supportarci, stando vicini alle idee degli imprenditori che possono nascere dal mondo agricolo, perché questo consente di mantenerlo vivo e far sì che molte donne, ma anche i giovani, continuino a trovare sempre di più nuovi spunti lavorativi . Non ci si deve mai fermare.Il nuovo progetto a cui stiamo lavorando come Donne Impresa Coldiretti in questo momento è quello degli agri-asilo e dell’agricoltura sociale che, come ha detto prima la Dottoressa Bargossi, deve avere come fondamento la ga-ranzia di qualità e serietà e su questo non ci devono essere deroghe, ma sicuramente lavoreremo su queste idee al meglio, nel rispetto delle regole e dando il cuore e l’anima “agricola” a questo lavoro. Le regole ci devono esse-re, ma dobbiamo lasciare la possibilità di percorrere questa strada al nostro mondo. Riteniamo che possa essere un’alternativa all’assistenza sociale fornitaci dagli enti sin qui preposti, non può essere una sovrapposizione. Oppure essere an-che una nuova filosofia di vita: pensiamo agli spazi tipici del mondo rurale; alla serenità che può dare una cascina ristrutturata in campagna; alla vista degli animali che vengono allevati, alla possibiltà di veder crescere l’orto o vedere finalmente da vicino la stagionalità. Sono tutti aspetti che si stanno perdendo, soprattutto negli ambiti cittadini, mentre negli ambiti rurali possono essere perfette integrazioni della mancan-za di strutture pubbliche, da mettersi al servizio o delle altre donne rurali o del-le famiglie che vogliono continuare a risiedere in aree a minor densità abitativa dando loro l’opportunità di avere i figli custoditi in un ambiente sereno, sano, controllato. Si tratta di un’alternativa per portare i nostri figli in strutture diver-se da una struttura pubblica tradizionale che talvolta non riesce a rispondere alle richieste del territorio. Anche nelle nostre zone che sono fortemente ser-vite da queste strutture, ci sono liste di attesa che non vengono evase, quindi bambini che devono essere affidati a destra o a sinistra, spesso costringendo le mamme a rinunciare al lavoro. Anche in questi ambiti i progetti di filiera tessile possono svolgere una funzione educativa e rievocativa.

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MariNella MaNicardi Attrice - Autrice di “Luana Pronto Moda”

Una voce fuori campo

Ho raccolto dati dal mondo del lavoro con la mia pièce teatrale “Luana Pron-tomoda”. Come è nata Luana Pronto Moda? Mi è stato chiesto di raccontare il lavoro dalle mie parti, a Mirandola. Così ho fatto una ricerca sul lavoro femmi-nile. Ho pensato alle trecce di paglia che faceva mia nonna: le donne all’epoca facevano un lavoro casalingo. Le paglie servivano per arrotondare il reddito. Sono finita all’Istituto Storico Parri dove Luisa Cicognetti ha portato avanti il progetto “Dalle paglie alle maglie”. Sono andata al Museo etnografico di Carpi dove Luciana Nora, ricercatrice e parente di Maria Nora - magliaia gloriosa di Carpi - ha raccolto la memoria delle donne di Carpi e ha messo insieme un archivio straordinario.Il mio è uno spettacolo di narrazione. Dalle interviste io ho ricavato storie pie-ne di orgoglio enorme di queste donne che lavoravano nel tessile. Molte non parlano italiano, ma sono consapevoli di aver prodotto la ricchezza della città di Carpi, il capitale sociale. Tutto è esploso negli anni ‘60 e ‘70 e poi la crisi è cominciata col pronto moda. Negli anni ‘50 Carpi era la capitale mondiale di produzione delle paglie. Addirittura le famose paglie di Firenze erano prodotte a Carpi. A Carpi si pro-ducevano persino sombreri per il Messico. Ciro Menotti a metà dell’’800 fece l’unità d’Italia perché i produttori di cappelli di paglia non volevano più pagare i dazi.Il crollo - la crisi delle paglie - comincia quando qualcuno scopre le macchine da maglieria e dentro le stalle entrano le macchine. Le macchine da maglieria stanno in cucina o nelle stalle. La crisi del tessile arriverà invece col pronto moda che è l’assenza totale di innovazione. Purtroppo non ho ricette per l’im-prenditoria femminile, ma spero che voi sappiate portare risposte.

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Interventi programmati

MaNuela FariNelliRestauratrice di tessuti

La mia formazione di base è tecnica: sono infatti Perito Agrario e la mia pro-fessione, praticata ormai da 25 anni è il restauro tessile.Questi ambiti sembrano realtà estremamente distanti e per molti aspetti lo sono ma, per altri, convergono e proprio su alcuni punti di contatto e con-vergenza che ho costruito il mio percorso professionale e, volendo spingersi un po’ oltre, anche quello personale. Non dico niente di nuovo affermando che per una donna la vita lavorativa, culturale, famigliare e sociale sono stretta-mente intrecciate, con risvolti sia positivi che negativi.Le competenze primarie della mia professione sono legate all’artigianalità o “sapere manuale”, alla conoscenza delle materie naturali di cui i manufatti tes-sili sono costituiti, alle sostanze necessarie al loro trattamento ed ai materiali da utilizzare nel restauro, ovviamente compatibili con quelli originali.E’ necessario prendere contatto con la lana, la seta, la canapa, il cotone e il lino provenienti dal mondo antico, in manufatti come gli arazzi, i tappeti, i ri-cami ed i merletti, contemporaneamente agli stessi materiali prodotti adesso che sono da studiare, tingere, rendendoli compatibili e sicuri per un interven-to di restauro corretto.La conoscenza di base acquisita negli studi primari, legati al mondo agricolo, come le coltivazioni, la biologia degli animali, la chimica organica ed inorga-nica, mi hanno sicuramente aiutato ad affrontare le molte problematiche ed anche le scelte etiche che il restauro di un tessile comporta.L’interesse verso questa professione ha avuto un suo punto di partenza nella “tessitura manuale “, che ho praticato sia sul telaio orizzontale che sul tela-io verticale. Le mie ambizioni giovanili erano proiettate verso l’espressione artistica legata a questi strumenti. La conservazione e il restauro dei tessili divenne poi una opportunità successiva di lavoro estremamente interessante e affascinante. L’obiettivo principale era la formazione. Ho avuto una grande opportunità le-gata ad un artigiano di grande valore umano e professionale: il Cav. Vittorio Zironi al Museo della Tappezzeria da Lui fondato. In questo Museo era attivo un laboratorio di restauro, all’avanguardia tecnica dal punto di vista delle

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Incontri e confronti con i territori

strumentazioni, e che poteva contare su una esperienza ”sapienzale” ricchis-sima, oltre che su un patrimonio tessile che si estende dai reperti archeologici Copti, al periodo della rivoluzione industriale.In questo laboratorio ho lavorato dal 1991 a tutt’oggi con incarichi professio-nali continuativi. Da questo incontro è maturata anche la scelta di formarmi attraverso l’inse-gnamento diretto, da artigiano ad artigiano. Una scelta sicuramente dettata da un ”imprinting” iniziale positivo, ma ci sono anche altre ragioni.La principale è che l’esperienza di un lavoratore artigiano abbraccia molti ambiti e realtà diversificate, quindi la conoscenza che si riesce ad acquisire dagli artigiani, ha valore esponenziale ed è soprattutto unica e irriproducibile. I corsi e le scuole, invece, anche se molto utili, rimangono limitati a settori specifici e circoscritti.Nel mio caso è stata anche una scelta in parte obbligata, in quanto questo tipo di formazione, crescendo di pari passo al mio lavoro, era maggiormente compatibile con gli altri aspetti della vita personale, come il farsi una famiglia, figlio compreso.E’ necessario precisare inoltre che il tipo di percorso da me intrapreso è col-legato anche alle possibilità effettive che esistevano in quegli anni: i miei inizi risalgono ai primi ‘80.Il tessile è un mondo infinito e quindi anche la ricerca che sta alla base del lavoro di restauro. Ho proseguito la mia formazione sempre con maestri di grande qualità ed esperienza andandoli a cercare e conquistandoli con fatica, per farmi accet-tare come allieva.Quando ho dovuto restaurare abiti e divise, sono andata ”a bottega“ per molto tempo da un sarto con lo scopo di apprendere le tecniche sartoriali; quando ho avuto la necessità di imparare l’arte del merletto ad ago ho avuto il privi-legio di essere allieva dell’ultima merlettaia legata alla nascita dell’Aemilia Ars a Bologna ,una signora di 94 anni, recentemente scomparsa e che ha lasciato una eredità formidabile a tanti. Il mio percorso lavorativo è stato molto soddisfacente, ma i punti di criticità e le difficoltà sono state e sono notevoli; tanti sono stati i momenti in cui credevo di doverlo abbandonare. Le motivazioni sono principalmente di na-tura economica in quanto la mia è una attività che si può esercitare solo con la libera professione con tutti i rischi connessi; segue la necessità di avere pluri-competenze in altri ambiti, e di esercitarle in prima persona, come ad

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Innovare la tradizione

esempio la contabilità, le documentazioni gestite a livello informatico ecc..In questo periodo storico è anche difficile poter avere allievi o assumere col-laboratori, in quanto i costi sono inaffrontabili. Per poter contare su un’altra persona, oggi come oggi, è necessario che la stessa assuma i rischi im-prenditoriali su di sé, formando a sua volta una ditta, anche in mancanza di esperienza.Le garanzie occupazionali in questo settore non ci sono e ci vuole molto co-raggio e motivazione ad intraprenderlo, a meno che non cambino determinate condizioni, legate alla possibilità di lavorare in rete e di poter trasmettere esperienze senza far rischiare troppo a chi collabora, soprattutto se giovane. Credo sia necessario impegnarsi per creare realtà in cui sia accessibile la collaborazione con altri professionisti o contattare ambienti lavorativi tra loro collegati.Nel mio caso specifico tutto questo sarebbe importantissimo anche per po-ter recuperare percorsi immaginati, che, per infinite ragioni non ho potuto intraprendere, ma che restano valide opportunità di crescita personale e pro-fessionale per me e forse per altre persone.

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Incontri e confronti con i territori

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Lo scrigno nascosto di Aracne

Lo scrigno nascosto di AracneImpresa femminile e filiera corta del tessile

per la valorizzazione del territorio

Napoli, 22 Aprile 2009 Sala Parlamentino - Camera di Commercio di Napoli

TAVOLA ROTONDA

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Lo scrigno nascosto di Aracne

Antonio RAschi Dirigente di Ricerca CNR-Ibimet

Saluti

Innanzitutto un grazie a coloro che hanno accettato di partecipare.Non voglio dilungarmi sul tema di questo progetto, ne parlerà la collega Nico-letta Lucia quasi subito, essendo la prima oratrice. Mi limiterò ad una breve introduzione: il progetto rientra in una strategia di lavoro del nostro Istituto avviata ormai da una decina di anni, volta a promuovere lo sviluppo rurale tramite la conoscenza del patrimonio presente sul territorio e delle sue poten-zialità. Sembra una banalità quella che sto per dire, ma non è un concetto così scontato: spesso si parla di sviluppo rurale senza rendersi conto che se non si conoscono le potenzialità di sviluppo, questo non può realizzarsi. Quindi è ne-cessaria prima di tutto una promozione del territorio attraverso i suoi abitanti per i suoi abitanti: sembra una fesseria, ma non lo è; del resto chi ha dei figli giovani sa che sono ancor più di noi distaccati dalle tradizioni e dal territorio in cui vivono. Io, ad esempio, vivo in una zona relativamente rurale, insieme ai miei figli, che però non sanno cos’è una zona rurale, vivendo proiettati sulla città e sul mondo telematico dei computer, di internet, della televisione. Questo è il terzo progetto che svolgiamo con il patrocinio del Ministero del Lavoro in Campania. Il primo non fu un grande successo, anche per nostra inesperienza, il secondo è andato molto meglio ed è stato svolto nella zona di San Marco dei Cavoti e comuni limitrofi, dove tutt’ora abbiamo un ufficio aperto e continuiamo a lavorare su altri progetti. Questo progetto è iniziato da qualche mese e si spera in un maggior successo, essendo più esperti e meglio inseriti nel territorio.

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Incontri e confronti con i territori

nicolettA luciA CNR-Ibimet

Campania: opportunità e criticità rilevate

Il progetto “Percorsi di Orientamento” ha l’obiettivo di favorire l’occupazione femminile nelle aree rurali, in particolare puntando sull’imprenditoria come strumento di sviluppo dei territori e di salvaguardia dei saperi legati all’attività agricola e artigianale.Siamo in Campania e le azioni del progetto durante la prima annualità hanno mirato alla fotografia di questo territorio. Abbiamo cercato di descrivere il territorio attraverso dati di tipo quantitativo e qualitativo: fondamentale per il reperimento dei dati è stato il contatto con persone che già operano nel set-tore del tessile “agro-artigianale” che ci ha permesso di mettere in evidenza le criticità, le potenzialità e le minacce legate allo sviluppo di una filiera corta in tale settore. Questa tavola rotonda vuole essere un primo momento di con-fronto e discussione riguardo alle problematiche rilevate. Ci stiamo lavorando, ma per la Campania manca ancora un’analisi dei comparti su cui eventualmen-te puntare per sviluppare la fase iniziale della filiera, dopodiché si dovrebbero individuare delle aree pilota su cui procedere nelle prossime annualità del pro-getto di orientamento. Riguardo alla fotografia del territorio, dopo questi primi mesi di contatto con le realtà territoriali (ne approfitto per ringraziare tutte le imprenditrici ed artigiane che ci hanno consentito di capire cosa c’è sul terri-torio campano e cosa si può promuovere) abbiamo individuato alcuni punti di forza e di debolezza relativi alla filiera. Tra i punti di forza, innanzitutto, c’è la forte motivazione personale delle donne impegnate in questo settore, cioè la passione per la propria attività. Ci credono fortemente, per cui sono pronte ad affrontare una serie di problematiche sia nella fase di start up dell’attività che negli anni successivi (ad esempio riuscire a trovare i canali giusti per commercializzare il proprio prodotto e sopravvivere grazie ad un mercato che non risulta semplice da gestire). Bisogna ricordare che in Campania esiste un diffuso patrimonio di competenze e saperi tradizionali, un vero e proprio teso-ro disperso, spesso nascosto, che ha difficoltà ad emergere. Esiste un forte legame delle imprenditrici e delle artigiane con il proprio prodotto, che viene vissuto come una vera e propria creazione, visto come qualcosa di fortemen-te personale: la loro impronta è visibile e ci tengono molto a sottolineare il

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Lo scrigno nascosto di Aracne

fatto che il loro prodotto è originale, non imitabile. Esistono inoltre nella regione altre realtà che non sono di tipo prettamente imprenditoriale, ma di tipo associativo, attive nel recupero e promozione di competenze artigianali, che possono svolgere un ruolo importante nella rico-struzione della filiera fungendo da presidio culturale nei territori in cui ope-rano. Infine tra i punti di forza va ricordato che c’è la disponibilità da parte delle imprenditrici e delle artigiane ad introdurre elementi di innovazione nella produzione, come l’uso di materie prime prodotte localmente (ad es. fibre naturali).Per quanto riguarda i punti di debolezza, il principale, a mio parere, è la so-stenibilità economica delle attività artigianali di microimpresa, in particolare la difficoltà di superamento della fase di start up. C’è inoltre una grande difficoltà a fare rete sia in fasi diverse della filiera, sia fra chi opera all’interno della stes-sa fase. Altro punto dolente riguarda l’attività di marketing, che rappresenta l’anello debole della catena: esistono infatti molte difficoltà di promozione e commercializzazione dei prodotti. Tra gli elementi di debolezza vanno poi an-noverate la mancanza di percorsi formativi adeguati per la trasmissione di competenze che sono diffuse sul territorio; la difficoltà a far riconoscere sul mercato e da parte del consumatore il valore del prodotto, soprattutto a livello locale e quindi di imporre il giusto prezzo per il prodotto. Inoltre, una parte di attività è sicuramente sommersa a causa di ostacoli di tipo normativo e di una forte pressione fiscale. Risulta dunque necessario individuare degli specifici target di mercato che siano in grado di apprezzare il prodotto, target che ora come ora sono prevalentemente non locali: la filiera corta può essere ricostru-ita sul territorio, ma difficilmente questo offre plausibili sbocchi sul mercato. Per ovviare a questa problematica si potrebbe pensare alla formazione di una figura professionale ad hoc: l’esperto del marketing territoriale tessile.Esistono opportunità di sinergie, di alleanze con i settori dell’agricoltura (parte iniziale della filiera) e della ricerca (per la ricostruzione della filiera) e di inse-rimento all’interno di circuiti di promozione e commercializzazione più ampi (agroalimentare di qualità e turismo). Tutte le iniziative presenti in campo a diversi livelli vanno messe in rete per amplificarne l’efficacia. Importante è l’educazione al consumo, ossia capire come educare all’importanza della qua-lità del prodotto. Rispetto alle minacce, la prima è la dispersione e la perdita del patrimonio dell’artigianato tessile tradizionale; poi c’è una diminuzione del potere d’ac-quisto dei consumatori, potenzialmente interessati a prodotti di qualità; altra

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minaccia importante è la scarsa valorizzazione dell’artigianato come opportu-nità occupazionale. Infatti c’è disinteresse da parte delle giovani generazioni di donne ad intraprendere la “carriera” di imprenditrici artigiane, da cui sca-turisce il peggioramento della situazione occupazionale femminile nelle aree rurali e di conseguenza lo spopolamento di queste aree. La fotografia del territorio va comunque approfondita con il censimento delle realtà imprenditoriali femminili esistenti in Campania e indagini sulla normativa che regola questo settore.

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Lo scrigno nascosto di Aracne

MenA cAccioppoliPresidente Coldiretti Napoli

Impresa femminile e multifunzionalità in agricoltura: caratteristiche e prospettive

Buongiorno a tutti e benvenuti a Napoli. Un saluto da parte di tutta la struttura Coldiretti Napoli e Coldiretti Campania ed un ringraziamento per aver voluto la nostra Associazione come testimone di un tema importante. Dalle poche parole che ho scambiato con il dott. Raschi, ho avuto modo di capire che si tratta di un progetto molto importante, da implementare perché mette al cen-tro il territorio in tutte le sue accezioni: agricoltura, artigianato, artigianato del tessile, risorse agricole, agroindustriali ed agroalimentari. Il tema che mi è stato assegnato, “La multifunzionalità in agricoltura”, è un tema a noi molto caro.Ricordo quando qualche anno fa si cominciava a parlare di multifunzionalità (mi riferisco al convegno di Rio), sembrava un concetto talmente teorico e chiaramente nuovo che difficilmente si poteva credere avrebbe ridefinito un nuovo modello agricolo europeo e il futuro della nostra agricoltura. Devo dire che la nostra associazione è stata lungimirante nell’aver indirizzato le azien-de associate verso la multifunzionalità, ed oggi sul territorio sono presenti aziende multifunzionali che partecipano e contribuiscono a pieno titolo alla competitività territoriale; e se oggi si parla di aziende al femminile devo dire che la multifunzionalità viene interpretata in maniera felice da imprenditrici donna. Sarebbe interessante soffermarsi a delineare le tappe dell’ evoluzione teorica di questo concetto, anche perché in letteratura e nel dibattito politico non esistono percorsi univoci. In molti casi la multifunzionalità è sinonimo di differenzazione delle attività agricole, in qualche altro semplicemente attività di integrazione del reddito, in altri ancora sentieri evolutivi delle aziende agri-cole a prescindere dalle loro dotazioni strutturali. In un primo momento la Conferenza di Rio definisce la multifunzionalità come possibilità data alle imprese di fare reddito non solo attraverso la produzione di beni, ma anche fornendo dei servizi che contestualmente avrebbe creato delle esternalità positive verso l’ambiente e la società ( ad es. tecniche di produzione ecocompatibili), che non vengono direttamente pagate all’ agri-coltore.

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Si comincia così a parlare di multifunzionalità intesa come bene pubblico da preservare, che deve essere sostenuta ed incentivata e necessita e legittima specifiche politiche di sostegno.Più tardi il concetto di multifunzionalità appare più completo ed interessante, quando viene riconosciuta la capacità di risposta del mondo agricolo ad alcune esigenze della società e del consumatore che possiamo racchiudere nell’esigenza di “sicurezza ambientale”, “sicurezza alimentare” e anche di “pre-servazione della storia e delle tradizioni del territorio”; fino al riconoscimento all’ agricoltura delle sue nuove e importanti “funzioni sociali” , “etiche“ e “culturali”, percorso centrale nell’ aver ribaltato la considerazione del settore agricolo da settore marginale e “arretrato” a settore strategico, non solo nell’ immaginario collettivo di una società con nuovo bisogni, ma in un panorama economico dove vecchi modelli economici sembrano fallire.

Il discorso sulla multifunzionalità è ancora molto importante e da approfon-dire. Mi rendo conto che gli interventi sono molti, ma vorrei darvi qualche esempio. Se provo a racchiudere il concetto di multifunzionalità in tre grandi temi: ambientale, sociale ed economico, in ognuno di questi o in tutti e tre contemporaneamente, potrei fare numerosi esempi di aziende multifunziona-li. Potrei citarne qualcuno: un allevatore che alleva bovini di razza Agerolese sul territorio napoletano, contemporaneamente contribuisce al recupero di una biodiversità importantissima, può guadagnare di più se con il suo latte produce o fa produrre “Provolone del Monaco DOP” e lo vende direttamente, rende più attrattivo il territorio a cui questo prodotto è fortemente legato.Volendo rimanere in tema di recupero della biodiversità, la stessa attività agri-turistica può essere di tipo venatorio per il recupero della fauna. In un’ ottica più generale, un agriturismo diventa centrale non solo come attrattività turi-stica, ma come baluardo della storia e delle tradizioni del luogo. Oggi un’im-presa multifunzionale è lasciata al suo imprenditore ed alla propria creatività e passione. Qualche anno fa, proprio in questa sala, è stato presentato un vestito da sposa fatto di fibre di mais: questo è un classico esempio di mul-tifunzionalità e integrazione tra agricoltura ed artigianato. Altri esempi sono quelli del floricoltore che produce fiori e li trasforma in creme o dell’olivicoltore che produce olio, ma con quell’olio fa anche prodotti cosmetici e li vende ad esempio nei nostri Farmers’ Markets. Questi ultimi raccolgono gli imprenditori che producono, trasformano e vendono attraverso un sistema organizzato di imprese e che incontrano il consumatore nelle più importanti piazze cittadine

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Lo scrigno nascosto di Aracne

ed in maniera sistemica. Ma lascerò il tema a chi mi seguirà. L’agricoltura multifunzionale può e dovrà declinare al massimo le sue po-tenzialità. Quando penso alle prospettive e al futuro del settore agricolo ed artigianale, penso ad un futuro ancora da definire e ad una multifunzionalità ancora da declinare in tutti i suoi aspetti . Ecco perché credo che l’impresa femminile possa giocare in questo una partita importante. L’impresa gestita da donne e quella gestita da uomini devono però operare su un livello parita-rio. Ben vengano le politiche a sostegno delle imprese femminili, non perché l’impresa condotta da una donna deve, già sul nascere, pensare di dover competere in modo diverso rispetto ad un’impresa condotta da un uomo, ma perché ha uno slancio diverso. L’imprenditrice donna considera il suo prodotto come un’opera d’arte. In conclusione dovremmo capire come organizzare uno sviluppo partendo dalle potenzialità del territorio stesso e come sviluppare dei sistemi produttivi locali dove l’integrazione viene da una cooperazione più stretta tra imprese agricole ed extra-agricole, istituzioni intermedie, capacità e valori radicati in un territorio dove la curvatura multifunzionale delle aziende non può prescindere da un affondamento pieno in questo percorso di sviluppo integrato inteso come vantaggio competitivo.

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Incontri e confronti con i territori

FRAncesco BoRRelli Assessore all’Agricoltura provincia di Napoli

Valorizzare i prodotti no-food: il ruolo della filiera corta

Cercherò di essere rapido, ma soprattutto di restare nel tema assegnatomi, cioè la valorizzazione dei prodotti no food ed il ruolo della filiera corta. Voglio darvi dei numeri relativi al nostro territorio che possono risultare particolar-mente interessanti per capire cosa si sta sviluppando e che tipo di impresa sta andando avanti in Campania. Partiamo da un presupposto: al di là della risorsa delle donne, che risulta importante, in provincia di Napoli, in Campania e nel sud in generale, non abbiamo ancora né culturalmente, né struttural-mente, né economicamente, né socialmente realizzato una sorta di parità che riguardi le condizioni lavorative, non solo in termini di spazi in quanto tali, ma di investimenti, anche dal punto di vista personale. A questo aggiungo un elemento particolarmente interessante del nostro terri-torio: la provincia di Napoli è la più giovane d’Europa (il 30% degli abitanti ha meno di 30 anni, la metà dei quali ha meno di 18 anni). Dei 3.057.000 abitanti di Napoli e provincia, il 54 – 55% sono donne. Se non erro, siamo la seconda o la terza città, ma come grandezza la prima, con il più alto tasso di natalità in Italia. Mi sembra che approssimativamente il tasso sia di 1,5, assolutamente superiore al dato medio nazionale. A Roma se non sbaglio è 0,2, a Milano 0,8; stiamo parlando delle altre 2 province dove ci sono circa 3 milioni di abitanti. A questo fatto dobbiamo aggiungere un altro dato: un numero così elevato di abitanti, di donne, di natalità è concentrato in un area microscopica, essendo la provincia di Napoli estesa per 1.100 km quadrati (5,2% del territorio regio-nale, dove sono concentrati il 56% di abitanti).In provincia di Napoli c’è poi il maggior numero di attività commerciali, impren-ditoriali, ludiche, di luoghi dove si svolgono eventi, il che significa che ogni giorno abbiamo un saldo attivo di circa 500.000 persone. Le sedi delle più importanti amministrazioni sono concentrate nella provincia di Napoli. La pro-vincia di Napoli è un territorio unico: siamo la provincia più piccola con la più alta concentrazione di vulcani attivi (Vesuvio, Campi Flegrei, Ischia). Intorno a queste zone pericolose si concentra circa 1/3 della nostra popolazione, in crescita. Abbiamo il più alto tasso di abusivismo edilizio in Italia. La pericolosi-tà dei vulcani rende, nonostante tutto, il nostro terreno unico al mondo perché

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Lo scrigno nascosto di Aracne

abbiamo una capacità delle coltivazioni e del nutrimento del terreno unici. In caso contrario non si spiegherebbe come questo lembo di terra, così piccolo e colmo di abusivismo edilizio, sia unico al mondo per una serie di prodotti: la mela annurca nella zona giuglianese, il limone di Sorrento; inoltre nella zona di Agerola è stata salvata la razza bovina agerolese (da 99 capi siamo passati a più di 500); gli ottimi vini provenienti dalla zona dei Campi Flegrei, dalla zona del Vesuviano e di Ischia. Tutti questi prodotti sono agro piratati. Poi abbiamo alcune coltivazioni di pomodoro, come il San Marzano coltivato nella zona di Sarno, Striano, Poggiomarino. Siamo però la provincia più agro piratata al mondo. Quando si parla di cibo, nel mondo, si parla di Napoli e, in generale della Campania. Ultimamente un sondaggio europeo ha evidenziato che la parola italiana più conosciuta è “PIZZA”, la seconda è “MOZZARELLA” (“polenta” è al numero 182). Quindi quando si parla all’estero del cibo, sostan-zialmente si pensa a Napoli perché ci sono delle grandi tradizioni culinarie. Un importante chef internazionale in un’intervista dichiarò che esistevano 3 gradi di cucina: quella cinese, quella francese e quella napoletana. Anche la dieta mediterranea è nota, anche se non viene ben applicata: infatti siamo la provincia con il tasso di obesità infantile più elevato. Vi sto dando un quadro di luci ed ombre per farvi capire il tessuto in cui ci muo-viamo, dove l’eccellenza convive tranquillamente con il peggio che ci possa essere. Tutto questo per arrivare alla questione no food. Abbiamo messo in campo una serie di operazioni che hanno portato dei frutti. Per farvi un esem-pio, nonostante il PIL dell’agricoltura della Regione Campania abbia segnato in tutti gli anni, anche in quelli peggiori, un segno positivo, abbiamo analizzato il sistema della nostra filiera per cercare di capire gli elementi che possano farla funzionare al meglio. La tutela e la difesa del territorio sono fondamentali per la salvaguardia della nostra cultura. Mantenere delle produzioni, dei pre-sidi di questo tipo, significa difendere e conservare la nostra cultura. E non è semplice perché, soprattutto nella filiera che va dalla produzione al consumo, l’aumento dei prezzi, a volte, è anche del 110%. Un caso eclatante è quello delle patate che venivano vendute a 0,3 cents /kg dai produttori per essererivendute a 2,00€ - 3,00€ nei supermercati. Tutto questo ci ha fatto ra-gionare e abbiamo messo in piedi tutti quei presidi territoriali che potevano portare economia e mantenere cultura, come ad esempio i Farmers’ Markets della Coldiretti. All’inizio sono stati fortemente ostacolati perché una parte dei commercianti nelle vicinanze dei mercatini vuole abbattere qualsiasi forma di concorrenza, il che è devastante per il mercato perché il cittadino consu-

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matore non ha possibilità di scelta. Questo fenomeno ha creato un’economia alternativa, di qualità. Oltre al comparto ortofrutticolo, molto importante è il comparto florovivaisti-co: tra Pompei, Ercolano e Torre del Greco abbiamo i più importanti comparti florovivaistici che esistono in Italia. La gran parte dei fiori di San Remo sono napoletani, ma i nostri produttori li vendono sotto costo. Comparto agricolo, comparto turistico, comparto enogastronomico e difesa dell’ambiente vanno di pari passo. Il 25% dei turisti stranieri che vengono nella provincia di Napoli, dichiarano che il primo motivo per cui si ritengono soddisfatti è il rapporto qua-lità del nostro cibo - prezzo. Dobbiamo concentrare l’attenzione sulle aziende. La gran parte di esse sono a conduzione familiare: col passare degli anni si è verificato un invecchiamento, senza passaggio di consegne degli operatori in questo settore. Obiettivo di questi ultimi anni è stato dunque avvicinare i giova-ni a questo tipo di attività, ottenendo già qualche risultato. Alcuni giovani con cui ho avuto modo di avere a che fare non pensavano che l’attività agricola fosse interessante e portasse dei guadagni. Anche il comparto agrituristico ha creato molte soddisfazioni ai giovani agricoltori, legando l’attività agricola con l’ospitalità turistica. In conclusione, l’attività del nostro territorio è stata particolarmente complicata, però abbiamo segnato dei passi in positivo. La svolta è legata ai giovani e alle aziende con una maggior presenza di donne. Se la donna partecipa pienamente alla funzionalità dell’azienda, questa è resa migliore in tutte le sue accezioni. La questione dei ruoli è uno degli elementi fondamentali per la funzionalità dell’azienda perché molto spesso i ruoli non sono assegnati in base alle capacità, ma in base a strutture culturali ultrade-cennali. Iniziative come queste avranno sempre il nostro consenso.

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Lo scrigno nascosto di Aracne

AnnAchiARA pAlMieRi Assessore alle politiche sociali della provincia di Benevento

L’imprenditoria femminile in provincia di Benevento: caratteristiche e prospettive

Buongiorno a tutti. Rappresento la provincia di Benevento. Mi riallaccio breve-mente al discorso che faceva l’assessore Borrelli. La nostra è una realtà mol-to diversa da quella napoletana perché rappresentiamo solo il 15% della po-polazione campana: abbiamo quindi una natura completamente diversa sia da un punto di vista di popolazione, che di produzione, ma anche da un punto di vista territoriale. Sicuramente la nostra è un’economia rurale ed i settori eco-nomici prevalenti del nostro territorio sono concentrati soprattutto sull’agricol-tura, sull’allevamento e su tutte le filiere di trasformazione della materia prima. In realtà il tema del tessile per noi è un po’ una spina nel fianco, in quanto non ha prodotto dei risultati eccellenti, o meglio le scelte politiche adottate negli scorsi anni non hanno indotto un proliferare del settore tessile, bensì hanno creato dei piccolissimi indotti sui quali sono stati concentrati notevoli investi-menti che, purtroppo, ad oggi, risultano delle realtà fallimentari. Mi riferisco in particolare alla zona di Airola: oggi stiamo tentando la riconversione di questo distretto tessile, che fu creato per realizzare una localizzazione della parte finale della filiera tessile (produzione e distribuzione), senza tener conto della natura del nostro territorio che è vocato soprattutto alla produzione della materia prima. Questa scelta ha prodotto dei danni per i quali oggi cerchiamo rimedio con la cassa integrazione dei dipendenti di queste imprese. Oggi stiamo lavorando affinché ai nostri lavoratori del tessile vengano applicate le stesse condizioni degli operai di Somigliano della Fiat. Ovviamente le scelte di cui parlavo sono state in qualche modo dissociate dal contesto produttivo della provincia di Benevento: basti pensare al gran numero di allevamenti di ovini nella zona e alla quantità di lana buttata via annualmente. Quindi se banalmente avessimo spostato la filiera del tessile sulla prima fase, cioè sulla trasformazione della materia prima, sulla fornitura di materie prime al settore tessile, invece che sulla fase finale, probabilmente oggi avremmo un grande successo imprenditoriale. La provincia di Benevento ha una serie di peculiarità, con intere aree dedicate all’agricoltura ed all’allevamento. Benevento è sconosciuta per molti aspetti,

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Incontri e confronti con i territori

benché in Campania molte cose vengano fatte con l’ausilio delle risorse esi-stenti in questa provincia. Ad esempio, a Benevento esiste il CONSDABI (con-sorzio per la valorizzazione della biodiversità e per la conservazione genetica e la salvaguardia delle specie bovine ed ovine): un centro importante da cui è partito un contributo per la salvaguardia della razza agerolese. Nonostante ci siano anche centri di ricerca, non si riesce a capire perché questa provincia abbia delle serie difficoltà da un punto di vista imprenditoriale. La donna in agricoltura per noi è un pezzo di storia. Tutti ricorderanno le famose tabacchi-ne nell’area di Benevento: nell’immediato dopoguerra infatti l’area fu riconver-tita sulla produzione di tabacco e l’80% delle donne impiegate in agricoltura era destinata alla coltivazione del tabacco. Oggi siamo alla riconversione del tabacco: questo ha comportato che la nostra provincia è stata svuotata della voce principale dell’agricoltura tradizionale e manca una valorizzazione dei prodotti tipici. Abbiamo sì diversi prodotti di rilievo con diversi marchi DOP, ma tutte queste azioni sul territorio non sono mai sviluppate in maniera sinergica, per cui corrono il rischio di disperdersi e di non essere riconosciute. Nella provincia di Benevento ci sono circa 11.500 aziende rosa (47% dell’inte-ra attività produttiva). Negli ultimi anni tramite varie forme di finanziamento da parte di SVILUPPO ITALIA o altri enti come la Regione, si è alimentato il fiorire di queste imprese. Però solo il 5% delle nostre imprese ha davvero usufruito delle agevolazioni consentite dalla legge: questo significa che la donna è sì attiva nell’imprenditoria, ma le manca una parte di informazione e comunica-zione che le permetta di costruire un’impresa rosa. È necessario investire in percorsi di informazione ed orientamento per le donne perché ogni anno abbiamo un elevatissimo numero di imprese che si cancellano dal registro, proprio a causa della mancanza di quella spinta propulsiva di informazione, di consulenza tecnica, di relazioni, di marketing. Anche su questo dato siamo in controtendenza rispetto al resto della regione perché abbiamo un tasso di natalità di imprese rosa pari al –1,40%. Sia il comune che la provincia di Benevento avevano attivato gli sportelli COF, sostenuti per un determinato periodo di tempo con attività di sensibilizzazione (noi avevamo un camper per spostarci a causa della condizione morfologica del nostro territorio). Fin quando sono state svolte queste attività i risultati erano visibili. Oggi che ci tro-viamo in difficoltà con le istituzioni da questo punto di vista, troviamo questo dato di mortalità di impresa che avanza e che è in controtendenza perché su Napoli c’è un +0,6%. Importante è discutere sull’impostazione dei percorsi di orientamento per le donne e soprattutto dove indirizzarle. Abbiamo bisogno

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di reinvestire in quelle che erano importanti realtà territoriali, basti pensare alle ceramiche di San Lorenzello, di Cerreto Sannita, all’arte orafa dell’area di Ponte Landolfo e ad altre realtà artigianali di notevole prestigio che negli ultimi anni sono andate disperse, nonostante la loro unicità. Questi percorsi di orientamento e valorizzazione sono importanti per avvicinare i giovani a realtà con un loro pregio ed una loro storia. Noi siamo in una fase di riconversione, sia da un punto di vista del tessile che dell’agricoltura; grande slancio c’è stato anche con le iniziative della Coldiretti come i Farmers’ markets. Il nostro assessorato all’agricoltura sta pensando di istituire Farmers’ Markets permanenti sul nostro territorio, anche se questa era una realtà già presente fino a pochissimi anni fa, cioè era normale che il contadino andasse a vendere al mercato. Con l’arrivo della grande distribuzio-ne queste realtà sono diminuite.Sono molto contenta che mi abbiate invitato perché di solito la provincia di Benevento resta sempre in disparte rispetto a queste iniziative e quando sono stata contattata da parte dell’ Ibimet ho espresso estremo entusiasmo. Mi au-guro che Benevento possa essere partecipe di questi percorsi di orientamento che dovremmo studiare insieme, per dare l’apporto d’innovazione necessario a sostenere le imprese esistenti e dare la possibilità di crearne altre, perché il principale problema delle imprese è non riuscire a sostenere l’innovazione; sono interessate, ma non riescono ad investire nella comunicazione. La new economy che ci viene dagli Stati Uniti, l’immagine della moglie di Obama che coltiva l’orto nella Casa Bianca è di impatto fortissimo; è un segnale che noi dobbiamo essere in grado di cogliere. Noi che abbiamo la fortuna e la peculia-rità di essere già vicini a questa realtà perché non investire immediatamente in questa direzione in modo da mantenere lo spirito di innovazione che ha caratterizzato gli ultimi anni e accompagnarlo al settore agricolo? Perché non cominciare con le donne!

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Incontri e confronti con i territori

MAssiMiliAno cleMente Confartigianato Avellino

Quali prospettive per la microimpresa artigiana femminile del tessile

Io vengo dalla provincia di Avellino e alcune cose vanno viste e vissute da vi-cino. Certe cose vanno tastate con mano per capire quali sono le caratteristi-che e le potenzialità dei nostri territori . Il mio intervento riguarda la situazione del tessile in provincia di Avellino. Voglio prima di tutto complimentarmi con il dott. Raschi perché questa tavola rotonda sta assumendo un aspetto interessante e sono tanti gli spunti che andrebbero approfonditi. In provincia di Avellino abbiamo due anime, una relativa al distretto tessile di Calitri, un’altra relativa alle tradizioni della tessitura come quella del tombolo, il ricamo classico e della tessitura col telaio antico. Queste anime sono il frutto di un’unica matrice. Io parto col parlare della realtà più moderna, il distretto di Calitri, frutto di politiche calate dall’alto sulla realtà esistente che si sono estrinsecate in una maniera un po’ avulsa da quello che è il tessuto produt-tivo: è arrivata l’industria che ha apportato un elemento di globalizzazione (prendiamo questo termine con le pinze) il quale avrebbe dovuto scatenare delle reazioni a catena ma in realtà, per vari motivi, la riuscita è stata un po’ particolare perché le piccole e medie imprese non si sono coalizzate. Da una parte dunque si è sviluppata l’industria e dall’altra l’artigianato. L’industria tessile che c’era è stata venduta ad un gruppo di Messicani, che non si sa bene se andranno avanti, per quanto tempo e come; le imprese ar-tigiane vanno avanti tra mille difficoltà. Erano una quarantina fino a 2 – 3 anni fa, adesso ne contiamo una trentina: ovviamente c’è una crisi che attanaglia il mondo del tessile. Passando al mondo delle donne nel tessile, un 40% di aziende sono a titolarità femminile nel distretto di Calitri e anche la manodopera è femminile. Come Confartigianato abbiamo cercato di invogliare queste aziende a far fronte co-mune. Abbiamo infatti istituito un tavolo tecnico che parlasse un po’ di par-tenariato, che provasse ad approdare ad un consorzio che potesse porsi in campo nazionale ed internazionale come referente nei confronti di clienti di target importante, per cercare di offrire una cultura ed un “saper fare”, una tecnica di sartoria che ha delle radici.

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Il passaggio ulteriore che vogliamo cercare di portare avanti nel distretto è quello di ottenere coesione e di arrivare, attraverso una strategia di qualità, ad un polo della moda e non ad un semplice distretto del tessile che tra l’altro, si sta affievolendo sempre di più. Quindi o si ragiona e si fa un salto di qualità passando da una realtà di contoterzisti a qualcosa di più strutturato cha abbia un marchio proprio, un sistema di qualità certificato, oppure la vedo dura e difficile e le qualità presenti andranno disperse.L’altra anima del tessile è quella che abbiamo toccato con mano quando ci siamo recati dalla maestra del tessile, la famosa Adelina Egidio, che, chi si interessa del settore lo sa, è un’esponente che ci invidiano: infatti in Germania le hanno chiesto di collaborare perché affascinati dalle sue creazioni e mi rode che vengano da Friburgo per scoprire la nostra tradizione, quella del tombolo, e non dall’Italia.Tradizione che si fa risalire al 1700 a partire da un convento che ha diffuso quest’arte tra le giovani donne di Montefusco e Santa Paolina. Questi due pae-si si contendono infatti il primato del tombolo: in realtà quest’arte proviene da altre nazioni e regioni italiane, però qui siamo riusciti ad avere un’eccellenza che pochi conoscono, così come pochi sanno che a Bisaccia è stato rinve-nuto nella necropoli romana un corredo, risalente all’Xi sec. a.C. e attribuito alla principessa Bisaccia, che fa intravedere una tradizione di tessitura che si è protratta nel tempo. Una nostra artigiana, Sandra Luongo, di Bisaccia, ha iniziato a dedicarsi ad una tessitura con telaio antico tramite un corso di for-mazione. Adesso sta riscoprendo quest’arte e porta avanti una tradizione che altrimenti andrebbe persa. In un’intervista lei afferma che non ha avuto nonne o mamma che le abbiano trasmesso questa arte, ma ha dovuto cercarsela da sé: da questo esempio è evidente la passione di queste donne imprenditrici che portano avanti le nostre tradizioni tra mille difficoltà. Il problema comune che riguarda sia la faccia moderna del tessile, ossia Calitri, sia le artigiane della tradizione è legato alla trasmissione del sapere intesa in due modi: tra-smissione delle conoscenze e quindi formazione di nuove leve che abbiano l’entusiasmo e la possibilità di mettere a frutto quest’entusiasmo, ma anche sapere inteso come conoscenza dell’unicità del prodotto. Prodotto in cui la qualità non appare immediatamente riconoscibile perché non la si sa ricono-scere: se vi parlassi della tecnica della foglia d’uva, nessuno saprebbe di cosa si tratta; la signora Egidio ce l’ha spiegata e ci ha detto che non si pratica più da nessuna parte. Il mercato di questi prodotti è un mercato di nicchia, ma è lì che bisogna insistere: cercare di trovare dei percorsi per poter portare al

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Incontri e confronti con i territori

risalto del pubblico, anche di nicchia, queste creazioni. Cogliendo il discorso fatto riguardo ai Farmers’ Markets, io rilancio un ”experiential” market che faccia conoscere le nostre tradizioni artigiane (come in parte abbiamo fatto con la Confartigianato e con la collaborazione del GAL Irpinia per la creazione di corsi di formazione, non solo orientati alle scuole, ma anche alla gente comune: abbiamo così trovato vari appassionati tra tutte le generazioni, cosa che ha sorpreso noi ed i maestri artigiani). Troviamo una maniera di allargare il concetto di Farmers’ Market anche all’artigianato, e quindi anche al tessile, in una maniera coinvolgente perché altrimenti è difficile arrivare agli obiettivi che ci si prefigge. L’altro spunto che volevo sottolineare, che comprende anche il problema del ricambio generazionale, è la capacità di spostare l’obiettivo da parte delle Istituzioni alla realtà delle piccole e medie imprese, non pensando di farle diventare come un distretto del nord – est o quant’altro, ma cercando di dare loro degli input recepibili, perché sono realtà fervide con capacità di porsi sul mercato internazionale. Puntare non solo sull’industria, ma sulle realtà locali, dando loro formazione e consulenza, non pretendendo che facciano dei voli pindarici, ma seguendole passo passo, con una maggiore attenzione: allora tutti i progetti e le iniziative di recupero di filiera corta assumono un rilievo importante. Se i tentativi vengono solo dal basso si fanno dei buchi nell’acqua. Questo è quello che mi premeva sottolineare.

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AngelicA cetRAComitato per l’Imprenditoria Femminile (CIF) Provincia di Salerno

Promozione dell’imprenditorialità femminile nella provincia di Salerno: criticità e prospettive viste dal CIF

Buongiorno. Io rappresento la provincia di Salerno, però dalla parte delle im-prenditrici. Il CIF è un comitato che si è formato nel 1999 in sede camerale per un patto d’intesa tra il Ministro dell’Industria e l’Unioncamere nazionale. An-che la provincia di Salerno che è sempre attenta allo sviluppo del territorio, ha voluto questo comitato. L’impresa femminile è nata nel 1990, nel senso che prima di questa data era inesistente ed il 60% delle imprese che oggi esistono sono state fondate dopo il 2000: quindi l’impresa femminile ha cominciato a farsi strada nel mondo maschile solo in questo secolo. Il nostro comitato ana-lizza i dati di questo settore, nella provincia di Salerno, che poi vengono pub-blicati ogni 3 anni. Dagli ultimi dati emerge che la maggior parte delle imprese femminili sono ditte individuali, quindi sono le donne che da sole partono e vanno sul mercato. Oltre alle imprese femminili ci sono delle società di perso-ne in cui la donna si associa a familiari, a parenti; pochissime sono società di capitali o altre forme societarie. Come comitato siamo molto presenti sul ter-ritorio e, secondo me, siamo il comitato più attivo in Campania; abbiamo sem-pre partecipato a seminari, a convegni sia in Campania che in Italia e qualche volta siamo andati anche all’estero a promuovere questa nostra missione. Le nostre azioni sono volte fondamentalmente a far conoscere alle donne le age-volazioni offerte dalle leggi in materia di imprenditoria femminile: siamo stati vicino alle donne per spiegare loro i vari bandi. Oltre 10.000 donne si sono recate presso gli sportelli che abbiamo in sede camerale, per capire come fare domanda e come poter usufruire delle agevolazioni perché la comunica-zione è fondamentale. Avendo questo tipo di rapporto con le imprenditrici o con donne che volevano diventarlo, ci siamo resi conto che le difficoltà sono tante e nel mondo rosa ancora di più. Sono difficoltà relative alle infrastrutture che mancano, le solite che si acuiscono quando si parla di donne. Ma tra tutte queste criticità abbiamo visto tante donne farsi strada, andare avanti verso un obiettivo che era quello di mostrare il proprio prodotto. Le donne mettono il cuore in quello che fanno, la passione nella loro attività. Ultimamente in sede camerale abbiamo partecipato alla giornata dell’economia ed il nostro

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presidente, forse per la prima volta, ha fatto accenno all’impresa rosa e ci ha dato dei dati che ci hanno fatto ben sperare in questo periodo in cui quasi tutti i dati sono negativi. I dati dell’Osservatorio sull’imprenditoria femminile dell’Unioncamere riguardanti il 2008, dicono che le imprese femminili sono aumentate, in modo particolare in alcune regioni tra cui la Campania; i settori di maggior sviluppo sono il commercio, la manifattura e i servizi alle imprese. È un dato che lascia uno spiraglio, un raggio di sole in questa economia che sembra essere così cupa e nera. È un forte richiamo. L’economia ha bisogno delle donne e dell’impresa al femminile. Questa è una nostra speranza.

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MARiA loFFRedoConsulente Parco del Cilento

Marketing territoriale e prodotti tessili tradizionali: il progetto Linea Parco

Sono qui perché da alcuni anni mi interesso per conto dell’Ente Parco Naziona-le del Cilento e Vallo di Diano di coordinare progetti europei di sviluppo rurale. In realtà lavoriamo in questo settore dal 2002 e l’ultimo progetto si è concluso a fine 2007, ma stiamo continuando ad operare. In particolare, si è avviata un’iniziativa molto importante nell’ambito del progetto “TOOLS”, il cui obiettivo generale è individuare strumenti e strategie per lo sviluppo dell’imprendito-rialità femminile nelle aree rurali, in particolare nell’area del Parco. Questo progetto pilota è teso a creare una filiera produttiva breve nel settore tessile denominata appunto “Linea Parco”. Gli obiettivi specifici sono quelli di contri-buire allo sviluppo locale sostenibile mediante incentivazione e promozione di nuove imprenditorialità nei settori produttivi ed ecocompatibili. In particolare si è scelto il settore tessile perché, sulla base di una ricerca e profonda ana-lisi effettuata sul territorio, è venuto fuori che proprio questo settore, tra le donne in particolare, era quello di cui si conservava maggior memoria e che costituisce ancora un patrimonio economico sommerso sul quale conviene operare per risvegliare queste memorie e renderle attive e soprattutto visibili. Gli obiettivi sono creare nuove opportunità lavorative, recuperare la cultura, le tradizioni locali e le specificità territoriali e non ultimo stimolare la coope-razione tra le imprese: abbiamo infatti una grande difficoltà a far cooperare i soggetti individuali, le imprese e le istituzioni in un progetto unitario. Nono-stante le risorse umane siano valide e presenti, con grandi capacità di opera-re, è molto complesso riuscire a chiudere in maniera utile l’operazione finale del progetto; sto parlando di anni di ricerca, di accompagnamento, di grandi difficoltà di risorse economiche. Il problema alla base sta nell’incapacità e non tendenza a cooperare, a collaborare e secondo me questo è uno degli aspetti fondamentali. Abbiamo lavorato sulla base di analisi e abbiamo un po’ supera-to il discorso dei dati statistici, in quanto da quello che abbiamo appreso con l’esperienza, conoscendo e vivendo la realtà, ci siamo resi conto che erano poco attendibili perché non venivano fuori tutte queste presenze sommerse, quest’economia sommersa che di fatto costituisce un grande patrimonio per

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il territorio ed una grande opportunità economica. I percorsi da noi effettuati sono molto simili a quelli di questo progetto, il modo di lavorare è stato lo stesso: incontrando le persone, partecipando a eventi come questo, che per me sono molto importanti perché si continua ad imparare, si aumenta la con-sapevolezza che si lavora per qualcosa per cui vale la pena. È fondamentale trasferire le conoscenze territoriali specifiche laddove ogni progetto si espri-me sulla base delle specificità territoriali. Il nostro progetto era di coopera-zione interregionale esterna per cui operavamo con Estonia e Finlandia, paesi completamente diversi per cultura, geografia, territorio, natura, per tutto: ciò da un lato ci ha stimolato a lavorare in maniera empirica, non possedendo elementi per poter lavorare diversamente, ma nello steso tempo il risultato doveva essere un modello di sviluppo locale trasferibile. Da qui il grande pro-blema per chi coordinava il progetto perché ci si muoveva in progress, cioè modificando di volta in volta le scelte strategiche per non allontanarsi dagli obiettivi finali, ossia stare quanto più vicini e confrontarsi col fabbisogno locale e con le problematiche delle artigiane (alcune sono qui presenti).È stato un lavorare insieme sul territorio. Sono molto contenta per quello che si è riuscito ad avviare e per il fatto che tutto sta continuando al di là del progetto. Riguardo all’analisi del territorio, penso che abbiamo operato con le stesse modalità del vostro progetto: analisi del contesto, formulazione o riformulazione di alcuni obiettivi, delineazione delle strategie.Nel corso degli anni il progetto si è andato arricchendo in base anche al con-tributo dato dalle artigiane; è stata, inoltre, posta particolare attenzione alla fattibilità ambientale ed economica, soprattutto ambientale, dal momento in cui il soggetto promotore è un Ente Parco ed uno degli obiettivi fondamentali del progetto è stato la valorizzazione della biodiversità.Per chi non lo sapesse, il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano si trova a sud di Salerno, è un territorio vasto di 180.000 ha, 80 comuni, 230.000 abi-tanti, una densità bassa, diversa da quella di Napoli ed una situazione tipica-mente rurale, con alto tasso di disoccupazione, età media della popolazione in rialzo, bassa natalità. L’area dispone di aree costiere che vivono di turismo, purtroppo ancora prettamente balneare e di aree interne che restano sempre emarginate e quindi spopolate e abbandonate. L’Ente Parco ha spostato l’at-tenzione sui paesi collinari, in modo da attrarre turisti anche in queste zone. Il turista è richiamato da questi luoghi dal grande fascino, ma una volta arrivato, si trova in un luogo morto perché non c’è artigianato, non c’è agricoltura, non c’è produzione. Nel museo tessile di Morigerati ci sono alcuni capi d’epoca

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tinti con tinture naturali.Riguardo all’analisi operativa, sono stai individuati dei gruppi e dei sogget-ti singoli da seguire e da accompagnare nel discorso del progetto, perché alla base della filiera era indispensabile trovare soggetti che ne volessero far parte. La linea Parco non comprende solo il settore tessile, ma abbiamo in-serito anche prodotti erboristici e di cosmesi naturale. Era fondamentale che il prodotto avesse una forte territorialità: inizialmente si è esclusa la produ-zione di fibra tessile perché è un discorso complesso, in parte pericoloso, in parte da studiare, ma è stato incluso il discorso delle tinture naturali. Il Parco Nazionale del Cilento è ricco di piante officinali tintorie. Con il forte apporto dell’Associazione Tinture Naturali Elda Salice e di Pharma di Salerno, con cui c’è una forte collaborazione (qui con me c’è la dott.ssa De Falco e delle giovani tecnico - erboriste), si sta studiando e mettendo a punto il discorso dell’utilizzo e la differenziazione da ottenere con le piante tintorie. Si è operato dando formazione alle artigiane, alle imprese, aiutandole anche da un punto di vista singolo, cioè con progetti sia individuali che collettivi. Da un punto di vista individuale si sono costituite delle cooperative tipo la Cooperativa Pene-lope, e sono stati attivati dei corsi di formazione. Tutto questo per migliorare le capacità delle singole artigiane e per arrivare alla collaborazione tra loro, che ancora stenta ad attuarsi, però si è avviata. Infatti alla base della filiera c’è anche il consolidamento dei rapporti tra le imprese sia dello stesso set-tore che di settori complementari. Nello schema del progetto ci sono delle fasi iniziali, intermedie e finali. Attualmente si lavora sulla fase iniziale, per la raccolta di piante spontanee tintorie ed aromatiche; le piante, su richiesta, possono essere fornite dalla Cooperativa Agricola “La Rinascita” disponibile anche all’avvio di nuove colture. Riguardo alla materia tessile, al momento non ne disponiamo, ma si spera nel recupero delle lane locali. Il laboratorio è in fase di progettazione e di attuazione, nel senso che l’Ente Parco, visti i risultati soddisfacenti e le richieste della comunità di continuare con queste attività, ha mostrato disponibilità ad avviare un laboratorio. Proprio in questi giorni si sta parlando dell’avvio di un laboratorio congiunto che sia centro di formazione per l’intera filiera. La manifattura è condotta dalle imprese locali cha fanno parte della rete. Al-cune sono imprese, altre sono artigiane ancora non iscritte e si sta cercando una forma giuridica per riunirle in un consorzio in modo da poter operare nella filiera. Prima si accennava al problema, non indifferente, del marchio, problema grosso, ma che stiamo affrontando insieme all’attuazione ed alla

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Incontri e confronti con i territori

crescita del progetto di filiera. Il marchio di questo prodotto deve essere asso-lutamente consapevole del percorso del prodotto. Questo potrebbe attrarre i turisti e diventare un punto di richiamo per le aree interne. Il marchio deve far percepire la filiera, che deve essere fruibile dal visitatore, dall’intenditore, dal soggetto di settore, ma anche dal curioso. Il marketing territoriale non si può concludere nella vendita del singolo prodotto, bensì nella vendita di un pac-chetto territoriale. Dato che non si possono abbattere i costi perché bisogna rispettare il lavoro dell’artigiano, non si può rendere il prodotto competitivo a livello di prezzo. Il prezzo deve essere equo, stabilito dai soggetti che opera-no, quindi non si possono immaginare vendite enormi, ma bisogna abituare all’acquisto i soggetti, anche locali. I turisti devono acquistare pensando che quel prodotto mantiene nel tempo le emozioni del luogo che si è visitato, è qualcosa che va al di là dell’uso dell’oggetto. Anche il residente dovrà essere abituato all’acquisto del prodotto del proprio territorio, dovrà essere consape-vole che quel prodotto è la salvaguardia del proprio territorio e magari vale la pena comprare solo una T–shirt lavorata a mano con materiali biologici e colo-ri naturali che durerà molto di più, avrà un valore personale maggiore, invece che dieci sintetiche e lavorate in serie. È su questo che dobbiamo lavorare. Prodotto e territorio devono viaggiare insieme. È importante formare soggetti capaci, perché non credo ci sia una figura specifica per poter portare avanti il discorso del marketing territoriale.

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MARinA leBRo Designer e ricercatrice tessile – Consulente Fondazione Mondragone

Le fibre naturali tra tradizione ed innovazione, arte ed una nuova economia etica

Sono una ricercatrice e designer del tessile, responsabile della formazione alla Fondazione Mondragone che è polo regionale della moda e del tessile in Campania e anche ente di formazione. Porto i saluti della Presidente Giulia Parente che non è potuta venire, quindi nel mio intervento cercherò di parlare anche del ruolo istituzionale della fondazione. La fondazione è nata a metà del ‘600, da subito con una vocazione di formazione e salvaguardia delle antiche tecniche del tessile. Questa vocazione è arrivata fino ad oggi diventando polo regionale del tessile e della moda campana. All’interno della fondazione sono responsabile della formazione e di tutti i progetti formativi di settore. Profes-sionalmente mi sono formata a Londra e ho avuto un approccio col mondo del tessile e della moda che mi ha portato a contatto con diversi paesi. Tornata in Campania, ciò che mi ha maggiormente stimolato è stata la necessità di trovare nuove formule espressive, cioè salvaguardare le tradizioni locali incen-tivando anche le colture locali che negli ultimi anni sono state completamente abbandonate, ed allo stesso tempo traghettare l’antico, la tradizione in una formula contemporanea, più vicino alla sensibilità del consumatore di oggi. Il 2009, in particolare, è stato dedicato alle fibre naturali, e questa sensibilità si cala su un territorio che ha visto perdere il legame e la tradizione di queste colture. In Campania, infatti, c’era una forte produzione di canapa, ma i territo-ri vocati sono stati convertiti negli anni ’50 in colture di tabacco. Ultimamente si sta parlando molto della canapa perché è una fibra tessile che si presta ad utilizzi diversissimi; è una coltura da riposo ed il suo utilizzo non è solo legato all’aspetto tessile, ma anche ad altri settori dell’industria: ad esempio, in alcu-ne industrie tedesche si sta utilizzando la fibra di canapa per il settore delle automobili, in quanto la fibra ha dei punti di resistenza molto forti; altri settori possono utilizzare gli scarti di produzione. A questo si affianca anche un di-scorso etico, cioè il promuovere delle colture che possono essere utilizzate in pieno, riducendo dei costi.C’è stato un problema in passato sull’uso di questo tipo di coltura legato ad un fraintendimento che c’era riguardo alla canapa sativa, utilizzata per sco-

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po tessile, e alla canapa indica che, invece, viene utilizzata per estrarre la marjuana e l’hashish. A livello europeo si sta riprendendo l’ipotesi di ricoltivare la canapa abbassando il livello tossico di sostanze psicotrope presenti nella pianta. Nel frattempo in Francia, grazie ad una legislazione più elastica, c’è stato un incremento della produzione, per cui quando l’Italia ha cominciato a manifestare interesse nella ripresa di questa coltivazione, magicamente il livello di presenza di sostanze psicotrope si è abbassato.L’alternativa ad una produzione su larga scala è inserire la canapa insieme ad altre coltivazioni locali come la ginestra e l’ortica per l’identificazione di un prodotto finale. Tale prodotto deve riuscire a trasportare gli antichi stilemi arti-stici di riferimento in una collezione che riesca a portare avanti un concept di design contemporaneo. Il mercato naturalmente ipotizzabile per questo tipo di produzione deve essere necessariamente di lusso e qui bisogna rimodulare il concetto del mercato del lusso perché in linea di massima per mercato del lusso si intende un mercato dedicato ad un prodotto qualitativamente alto, anche con dei costi molto alti. Se però si riesce ad abbassare di poco quello che è il discorso sul costo finale, pur mantenendo entro certi parametri il mercato alto, noi avremo un prodotto forte da un punto di vista stilistico e al tempo stesso competitivo sul mercato internazionale.Da questa idea stanno nascendo una serie di iniziative che vogliono cercare di coinvolgere territori anche vicini per portare ognuno un prodotto e fare rete. Negli interventi precedenti ho sentito parlare anche della lana; questo è un altro problema perché è vero che ci sono lane ottime da lavorare (Abruzzo, Sardegna…), ma la selezione delle razze è stata fatta privilegiando la produ-zione di prodotti caseari. C’è però una tradizione forte legata alla lavorazione della lana con tessuti, come l’orbace in Sardegna, il feltro (proprio ora mi sto occupando di ricerca legata alla lana locale per la produzione di feltro). Non dimentichiamoci che la parola feltro nella Toscana del ‘400 – ‘500 serviva ad indicare il cappello perché veniva fatto con questo tessuto, quindi noi dobbia-mo riappropriarci delle nostre tradizioni.

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Interventi programmati

AntonellA DiniPresidente Associazione Ricami e Merletti Campania

Io vengo da un’esperienza diversa, ho fatto carriera in Camera di Commer-cio, Regione Campania, internazionalizzazione delle imprese, sono andata in pensione e ho deciso di fare questo lavoro nell’Associazione di ricamo perché da sempre ho ricamato e mi è sempre piaciuto molto. Il motivo che mi ha spinto è stato il discorso dello “scrigno nascosto”, cioè ovunque andavo con questa mia passione la Campania non esisteva, quando poi abbiamo dei veri tesori: ad Avellino c’è il merletto a tombolo, a Gallo Matese c’è il tombolo di Gallo Matese, da noi c’è tutta una provincia in cui fanno dei lavori splendidi di ricamo in bianco, di corredi etc.; questo insieme di realtà che sono importanti nel mondo del ricamo fino ad ora non le conosceva nessuno. Ho cominciato a portare queste meraviglie dappertutto, nelle fiere, nelle manifestazioni e le altre ricamatrici dicevano: “ma voi davvero fate tutto questo?.... che meravi-glia!”, questo è stato un orgoglio per me, ma per far diventare quest’operazio-ne un mezzo di sostentamento per delle realtà ci vuole un po’ di lavoro perché esiste la competitività, la gelosia e c’è bisogno di disponibilità e formazione perché è impossibile pensare di insegnare il ricamo in pochissimo tempo, ci vogliono alcuni anni, bisogna preparare le giovani leve e far maturare quelle che già sanno ben ricamare che possono fare dei prodotti di qualità. La cosa importante, secondo me, è ricreare il discorso del territorio, cioè cominciare a pensare a dei prodotti integrali, un “total look home collection”. Parliamo di Salerno: l’idea che mi era venuta stamattina vedendo i manufatti della nostra amica che tesse, è di fare qualcosa che fosse connesso ai ceramisti di Saler-no, cioè cominciare a vedere come si può fare una filiera di territorio, magari impegnandomi personalmente a fare qualche campione sperimentando i nuovi filati su questi tessuti e cercando di collegare i disegni su dei prodotti che esistono e hanno già una dimensione internazionale, perché il prodotto che ha una dimensione internazionale tira l’altro prodotto automaticamente. Poi su Benevento ci sono già delle idee sempre legate alle produzioni tipiche, perché io credo che la valorizzazione di un prodotto artigianale sia legato a quello

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che esprime il territorio e che si è già attestato sul territorio, che è già noto, quindi bisogna utilizzare questo volano favorevole per integrare i due aspetti. Poi esistono sempre la linea classica e quella dell’innovazione. Noi del mondo del ricamo potremmo anche innovare e proporre, ma ci potrebbero anche seguire gli artigiani per proporre linee nuove. Rimane sempre quest’interroga-tivo: come organizzare la produzione? Perché se abbiamo per alcuni prodotti un contributo regionale legato alle quantità, su prodotti di nicchia bisogna cercare di capire quanti e come lavorano perché altrimenti diventa difficile rispondere alla domanda della clientela. Questa è la realtà del prodotto di nicchia: è tanto bello, ce la cantiamo e ce la suoniamo tra di noi però poi dal punto di vista del business non esce niente; devono nascere le cooperative, ci deve essere una formazione, ci deve essere un’attività di controllo e, senza nulla togliere alla signora Angelina Egidio, io penso che lei sia chiusa nella sua ditta e non voglia far entrare nessuno, perché sono prodotti di nicchia molto ben remunerati e che quindi sono molto legati all’immagine personale. Invece per la Pro Loco di Santa Paolina, avevo organizzato dei corsi estivi ed il sinda-co, una donna, si stava dando molto da fare, non so se lei ne è a conoscenza. Quindi una cosa è l’artigiana che guadagna molto bene sulle sue capacità, una cosa sono le istituzioni. Quello che pensavo, soprattutto per la Linea Parco, era di organizzare dei corsi estivi per i turisti, da pubblicizzare sui siti stranieri, in particolar modo inglesi e francesi che sanno fare solo il punto a croce, e quindi sarebbero interessati a frequentare questi corsi, e di addestrare delle donne che abitano nel Parco a ricamare prodotti del Parco rispondenti per esempio alla flora locale.

lAurA CArusoPro Loco San Marco dei Cavoti

Il mio intervento sarà brevissimo, giusto per ringraziare gli organizzatori della possibilità che ci è stata data di venire a confrontarci rispetto al turismo e all’imprenditoria femminile. Ascoltare gli interventi ci dà la conferma che la nostra associazione di cui sono membro del consiglio direttivo, da qualche anno a questa parte si sta muovendo nella giusta direzione. Sono vicepresi-dente della Pro Loco di San Marco, che presenta un consiglio direttivo tutto al femminile, gestisco un B&B a titolarità femminile, lavoro molto con le donne e

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Lo scrigno nascosto di Aracne

riusciamo ad ottenere dei risultati, piccoli risultati, piccoli passi. La Pro Loco per sua fortuna ha incontrato quattro anni fa i ricercatori del CNR; questo tipo di associazioni si preoccupano essenzialmente di valorizzare il territorio e di organizzare sagre, feste di paese. Ma l’incontro con il CNR ha permesso di invertire un po’ l’ordine delle cose, abbiamo iniziato a preoccuparci della promozione e anche di creare un’opportunità economica per il territorio cer-cando di attrarre un flusso turistico non solo di visitatori, ma di turisti veri e propri che permangono sul territorio. Per fare questo, però, bisogna avere delle risorse, bisogna saperle aggregare, bisogna saperle offrire con i dovuti servizi. Ci siamo accorti che il nostro territorio era ricco di risorse, oltre al “croccantino” di San Marco, prodotto di eccellenza. C’erano tante altre realtà che però andavano messe insieme per offrire un pacchetto strutturato e fare in modo che il turista potesse restare più giorni; quindi abbiamo iniziato e stia-mo cercando di fare rete, anche perché San Marco da solo può impegnare la giornata di un turista, ma anche due. Bisogna aprirsi al territorio e quindi fare un discorso di rete che decolla con molta fatica a conferma di quello che si è detto prima: San Marco è un piccolo paese, ha 3.500 abitanti, ognuno un po’ invidioso dei propri progetti. Abbiamo iniziato questo percorso di apertura alla realtà geografica e creato una struttura che si chiama “FORTour: rete per il turismo rurale per il Fortore Tammaro” che è la zona interna del Beneventano. Siamo a circa 35 km da Benevento, con tutte le difficoltà dovute alla viabilità, quindi il turista deve desiderare di visitare quest’area trovando un’offerta ric-ca. “Prodottibus” è un risultato di questo FORTour: si tratta di accompagnare il turista per fargli vivere la storia del prodotto attraverso la lavorazione, quindi sono stati organizzati dei minibus che portano il turista a vedere come nasce il prodotto ed eventualmente ad acquistarlo. Interessante anche l’apertura al mondo del tessile artigianale: a San Marco c’è una signora che lavora i tappeti, c’è una tradizione di lavorazione della lana e della canapa, ma con le persone che avanzano con l’età questa tradizione va a finire, quindi questo settore, se rivalutato, potrebbe essere un ulteriore tassello di quel pacchetto che possiamo offrire al turista. Concludo con un grazie ai ricercatori del CNR perché il loro supporto scientifico ci ha aiutato ad intraprendere delle azioni idonee. Nella Pro Loco non ci sono esperti di marketing, ma siamo volontari che amano il territorio in cui vivono e cercano di farlo crescere. Un grazie ed una richiesta di aiuto negli anni successivi per cercare di chiudere il cerchio.

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Incontri e confronti con i territori

Giuseppe tArAlloEx Presidente Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano

Volevo fare alcune osservazioni in base agli interventi precedenti. Io sono sta-to presidente e commissario del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano quando è nato e si è sviluppato, quindi ho avuto modo di veder crescere e ac-compagnare questo bel progetto “Linea Parco”. Proprio perché siamo Parco abbiamo toccato con mano quali sono le difficoltà ed i limiti del campanilismo riferito ai paesi e al territorio e dell’individualismo delle persone e credo che noi dobbiamo imparare un’arte particolare, cioè quella di saper valorizzare l’aspetto positivo del campanilismo o della gelosia di mestiere, cioè ognuno deve dare il meglio di sé, però costruendo la rete. Il Parco già di per sé è una rete. Quando è nata “Linea Parco” avevamo pensato al marchio d’area per ga-rantire attraverso disciplinari una parvenza di qualità dando a chi aderiva la ca-pacità di un marchio collettivo, vantaggio che il singolo non può avere. Come presidente riuscii a far entrare nella finanziaria regionale un emendamento proposto dal nostro Parco, quello della “Banca dei semi”. È possibile pensare alla banca degli antichi mestieri, che sono in via di estinzione, è anche possi-bile provare a creare una normativa semplice. Come Parco ci eravamo dati da fare per una no tax area. Oggi si parla tanto di detassazione, Regione e Stato possono favorire i mestieri in via di estinzione o di particolare pregio? Su que-sto bisogna cimentarsi per proteggere produzioni che rischiano di rimanere sommerse. Un altro problema è la disaffezione o il disinteresse delle nuove generazioni. Con l’avvento della scuola c’è stato il taglio netto con i lavori del territorio. Una proposta su cui ci stavamo cimentando è che a partire dalle scuole professionali sia possibile creare delle cooperative scolastiche, anche perché c’è una normativa in merito che nessuno utilizza, cioè creare dei mo-menti produttivi e di formazione: in questo modo si educa non solo alla pro-duzione, ma anche ad uscire da quello spirito individualistico spesso presente nei nostri territori, abituando fin dalla scuola a fare rete, fare cooperativa. Quindi bisogna riuscire a dar vita alla normativa sulla banca dei mestieri in via di estinzione, alla normativa di detassazione o di no tax area, all’intervento nelle scuole, ad utilizzare la gelosia di mestiere in maniera positiva, dalla con-correnza al concorrere insieme per obiettivi comuni. Volevo anche aggiungere che come Parco ci siamo dedicati alle tinture, ma abbiamo fatto esperienze anche con alcune fibre, come la ginestra, la canapa. Con la Prof.ssa De Falco stiamo cercando di capire come le radici di queste piante possano servire alla

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Lo scrigno nascosto di Aracne

manutenzione del suolo. Con queste piante si può fare molto, quindi la filiera c’è e si può creare. Bisogna cercare di portare questi prodotti naturali nelle città; abbiamo la fortuna di avere Napoli che è una metropoli, anche se c’è stato un rapporto ineguale tra città e campagna, ma dovremmo lavorare per rendere questo rapporto positivo, la città può essere il mercato naturale dei prodotti del piccolo paese. I paesi, invece di svuotarsi, potrebbero ritrovare un nuovo motivo di essere, di vivere, di fare un’economia. Dovremmo essere capaci di valorizzare le nostre ricchezze. Grazie.

enriCA De FAlCoUniversità degli studi di Salerno, Dipartimento di Scienze Farmaceutiche

Prima di tutto grazie per averci invitato. Svolgo attività di ricerca per la facol-tà di Farmacia dell’Università di Salerno, anche se provengo dalla facoltà di Agraria. Però devo dire che la Facoltà di Farmacia mi ha costretto ad occu-parmi in particolar modo di piante officinali. Le piante tintorie hanno un fascino grandissimo, quando le ho scoperte non sono riuscita più ad allontanarmene; poi ho incontrato il Parco del Cilento che lavorava sulle piante tintorie e da allora li ho proprio “costretti” a lavorare insieme perché mi è sembrata un’idea molto bella, affascinante, ed ho pensato a grandissime potenzialità per il ter-ritorio. Anch’io sono molto campanilistica, mi spiace che la nostra regione sia sempre ultima e vorrei che le risorse che abbiamo venissero valorizzate. Ho l’impressione che stiamo tentando di mettere insieme dei mondi che non sempre collaborano: il mondo della ricerca, dell’università, i Parchi e quelli che sono i potenziali imprenditori; non so se ci riusciremo ma delle piccole cose le stiamo ottenendo. L’esperienza è di lavorare a stretto contatto con chi ha un progetto di sviluppo del territorio per cercare di collaborare, dando un suppor-to scientifico, per mettere a punto meglio i processi nei vari settori. Nel nostro caso ci stiamo occupando di tutto ciò che ha a che fare con la parte tintoria; la nostra attenzione si è focalizzata essenzialmente sulle nostre piante, dell’area mediterranea, sugli scarti di lavorazione, perché oggi questi sono dei temi importanti. Questo significa legarsi al territorio ed ottenere prodotti altamente sostenibili ed ecocompatibili. Veniamo dalla facoltà di Agraria e forse abbiamo sulla coscienza quest’indirizzo industrializzato dell’agricoltura degli anni scorsi che ha fatto scomparire una serie di produzioni. Ricordo che quando studiavo e mi sono laureata il mito era “produciamo il massimo che c’è” in alcuni set-

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Incontri e confronti con i territori

tori; il resto è stato completamente dimenticato, anzi chi si occupava di ciò era considerato in modo negativo. Oggi per fortuna non è così. Non so se sia positivo o negativo spingere i neolaureati su questo settore, ma mi sembra molto bello.

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La sostenibile leggerezza del tessere

La sostenibile leggerezza del tessere Risorse locali e saperi tradizionali:

nuovi intrecci per uno sviluppo sostenibile

Sassari, 8 Maggio 2009 Sala Conferenze Maelchisedek - Diaz, Villino Ricci

TAVOLA ROTONDA

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La sostenibile leggerezza del tessere

PierPaolo DuceResponsabile di sede CNR-Ibimet, Sassari

Saluti

Questa mattinata è dedicata ad una tavola rotonda di presentazione del pro-getto “Percorsi di orientamento”, finanziato dalla Direzione Generale per le politiche per l’orientamento e la formazione del Ministero del Lavoro. Si tratta della tavola rotonda conclusiva di una serie di quattro incontri organizzati sulle stesse tematiche nelle regioni coinvolte nel progetto: Toscana, Emilia Roma-gna, Campania e Sardegna.Prima di dare la parola alle autorità per i loro interventi e i loro saluti, vorrei dare una risposta ad una domanda che molti dei presenti ci hanno posto quando sono stati contattati durante la fase organizzativa: come mai l’Istituto di Biometeorologia (Ibimet) si occupa di tematiche legate all’orientamento al lavoro, all’imprenditoria femminile e all’artigianato? Si tratta di una domanda più che lecita alla quale è doveroso dare una risposta. L’Ibimet è articolato su quattro diverse sedi territoriali: Firenze, sede legale dell’Istituto, Bologna, Sassari e Roma. Questa articolazione è il risultato di un’opera di riorganizzazione della rete scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il principale ente di ricerca pubblico italiano, realizzata negli ultimi anni e che ha accorpato secondo criteri tematici gruppi di ricerca che faceva-no parte di Istituti indipendenti. Attualmente, il nostro Istituto comprende circa 70 ricercatori che operano a Firenze, Bologna, Sassari e Roma svolgendo studi e ricerche su tematiche tradizionalmente incentrate, e la denominazione dell’istituto lo esplicita, ai legami tra l’ambiente fisico (la meteorologia, la clima-tologia, ecc.) e l’ambiente biologico (la coltivazione delle piante, l’allevamento di animali, la salute umana, ecc.). Questi sono i principali ambiti di studio a cui si ricollegano il background culturale e le competenze tecnico-scientifiche dei ricercatori Ibimet. Perché si è allargato il campo d’azione? Una prima motiva-zione è senz’altro poco “nobile”. La situazione e le problematiche della ricerca in Italia sono ben note: risorse scarse e blocco delle assunzioni rendono l’Italia il fanalino di coda degli investimenti in ricerca tra i Paesi sviluppati. Un esem-pio per tutti: il nostro Istituto, con oltre 100 ricercatori tra personale di ruolo, assegnisti di ricerca e ricercatori a contratto, per lo scorso anno ha ricevuto dal Ministero di riferimento (quello dell’Università e della Ricerca) una dotazio-

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Incontri e confronti con i territori

ne ordinaria di 60.000 euro (600 euro per ricercatore!!). Tale cifra ha consen-tito di far fronte, a stento, alle spese necessarie per la normale manutenzione di attrezzature e strumenti. Questa situazione, che dura da anni, ha portato a potenziare la nostra capacità di reperire fondi esterni e di autofinanziare sia la ricerca sia il funzionamento dell’Istituto. Al di là della necessità di autofinanziamento, l’interesse dell’Ibimet per queste tematiche è scaturito anche da altre motivazioni. Nel corso degli anni, con la nostra attività di ricerca, tradizionalmente concentrata sulla produzione agri-cola e sugli effetti che l’ambiente ha su qualità e quantità della produzione, ci si è imbattuti nelle problematiche dei cambiamenti climatici e ci si è interessati all’impatto che essi hanno sulle diverse attività umane, sul mondo agricolo, sulle risorse naturali ecc. Discutendo di cambiamenti climatici, le opinioni pos-sono essere divergenti, ma c’è un consenso sufficientemente unanime sul fatto che si sia di fronte a una crisi e tutta una serie di sforzi sono dedicati a capire come fronteggiarla, come limitare i danni potenziali e quali strategie di adattamento e mitigazione adottare.Questa crisi climatica è chiaramente legata alla crisi energetica ed è per certi versi “la crisi” di un modello di sviluppo che ha difficoltà a reggersi sulle pro-prie fondamenta strutturali: la stessa recentissima crisi finanziaria ne è una componente. Questa analisi ci porta a fare delle riflessioni. Una è quella di capire come, all’interno di queste crisi di sistema che ci toccano in maniera diretta, il mon-do della ricerca possa intervenire non solo con studi e ricerche di base, ma anche con contributi e iniziative che possano migliorare la nostra capacità di adattamento ai cambiamenti. Ovviamente, occupandoci di agricoltura e di mondo rurale, uno dei mutamenti ai quali stiamo assistendo è lo “svuota-mento” dei territori rurali, determinato dai processi di urbanizzazione e glo-balizzazione con il conseguente rischio di perdere irrimediabilmente tutta una serie di valori di cui il mondo rurale è portatore. Sino a quando il processo di globalizzazione, è stato visto come unico e vincente modello di riferimento, a pochi importava della salvaguardia delle identità e dei saperi locali. Ora che ci si trova a fronteggiare crisi ricorrenti e strutturali ci si è resi conto che il modello di globalizzazione deve essere riconsiderato e richiede opportuni aggiustamenti. Da qui nasce l’attenzione verso realtà come quelle del tessile e dell’artigianato artistico. Tutte realtà legate al mondo e alla cultura rurale che garantiscono prodotti di elevatissima qualità, quali quelle tipiche dell’arti-gianato tessile della Sardegna e di altre regioni. In questo contesto, la ricerca

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e l’innovazione tecnologica devono svolgere un ruolo chiave per dare nuove prospettive e creare nuove opportunità di sviluppo. In sostanza e per concludere questa breve introduzione, questo è il percorso che abbiamo seguito tentando di non perdere il nostro bagaglio di competen-ze iniziale: creare dei gruppi di lavoro interdisciplinari che possano analizzare e studiare questi processi che stanno mutando molto rapidamente e verso i quali, se si vogliono trovare soluzioni, bisogna agire altrettanto rapidamente. E questo è il contesto del percorso del progetto “Percorsi di Orientamento” e queste sono le motivazioni che hanno portato l’istituto di Biometeorologia a interessarsi di queste tematiche. Lo stesso titolo di questa tavola rotonda consente di evidenziare il problema che vogliamo porre: queste attività, tuttora vive e presenti in Sardegna, ma con uno spessore economico fragile, possono garantire sufficienti livelli di sostenibilità sociale ed economica? È possibile la sopravvivenza di queste attività in assenza di un sostegno pubblico? Detto questo ringrazio le autorità che sono intervenute e passo loro la parola per l’avvio della discussione.

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Incontri e confronti con i territori

SebaStiano SannituAssessore al Turismo, Artigianato e Commercio e Vicepresidente della Giunta Regionale - Regione Autonoma della Sardegna

Ho colto con molto piacere l’invito del CNR - Ibimet a questa tavola rotonda in quanto si tratta un argomento molto interessante che merita di tornare al centro del dibattito politico. Inoltre credo, ed i dati lo confermano, che questo settore sia stato in qualche maniera trascurato.Da poche settimane ho l’onore, il piacere ed anche la difficoltà ad orientarmi alla guida di un Assessorato piuttosto complicato che tratta di Turismo, di Arti-gianato e di Commercio. Negli ultimi anni il turismo è entrato trasversalmente in altri settori economici e sono convinto che tale commistione debba essere rafforzata e riguardare ogni settore, in quanto il comparto turismo può essere d’aiuto per sviluppare anche il comparto primario e per dare una prospettiva di sviluppo e di crescita a questa regione. Sono anche convinto che non si possa fare turismo di qualità se il territorio non offre un’agricoltura ed un artigianato di qualità. Per questi motivi stiamo cercando di porre in primo piano nell’agenda politica questi argomenti. Abbiamo già individuato qualche iniziativa che potrà dare respiro a questi settori. Cercheremo di dare delle risposte a questi comparti e all’artigianato in particolare, perché riteniamo che la piccola-media impresa, soprattutto quella che produce qualità (e questo è di certo il caso dell’arti-gianato artistico), possa rappresentare uno strumento di ripresa economica. Riteniamo che da questo momento veramente difficile si possa uscire solo ed esclusivamente se daremo soddisfazione, se daremo incentivi, se dare-mo supporto alla piccola e media impresa. E la piccola e media impresa in Sardegna è soprattutto l’impresa artigiana, l’impresa commerciale, l’impresa turistica, l’impresa agricola. Questo significa anche riprendere l’attività che è stata interrotta, nella forma-zione professionale. Sono stati interrotti i bandi per l’apprendistato già dal 2005, perciò siamo in assenza di bandi da circa 5 anni, e credo sia opportuno riprendere questa attività. Cercheremo di ripartire con l’apprendistato perché riteniamo che la formazione professionale che si fa in bottega sia quella più produttiva, sia quella che qualifica maggiormente e nel modo migliore i giova-ni e che quindi possa dare davvero ai nostri giovani, ai ragazzi, l’opportunità di imparare meglio. E questo discorso a maggior ragione vale per le attività ricche di contenuti artistici. Io sono molto critico rispetto alla formazione:

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La sostenibile leggerezza del tessere

abbiamo sprecato negli anni passati risorse ingenti di danaro pubblico. Invece credo che la formazione professionale che si impartisce con l’apprendistato sia la strada migliore per dare risposta ai giovani, per dare risposta alle impre-se artigiane e quindi per fare crescere l’economia in modo sostanziale. Un’altra delle iniziative che vi preannuncio, e credo sia apprezzata soprattutto dall’artigianato artistico, è quello della politica del marchio. Partiremo a breve con una campagna di informazione sul marchio per l’artigianato, un marchio che risponde anche a direttive di tipo comunitario, affinché esso sia ricono-scibile ed abbia valenza all’interno dello stesso ambito comunitario. Voglia-mo un marchio che sia davvero valore aggiunto per le produzioni artigianali e che perciò sia qualcosa di forte che tuteli le produzioni artigianali e che, soprattutto, incida sul pubblico e sul consumatore. Per tale motivo ci deve essere anche un messaggio, una comunicazione forte, una promozione che va all’esterno dell’isola e faccia capire qual è la ricchezza dell’artigianato arti-stico della Sardegna. Abbiamo delle straordinarie capacità, delle straordinarie ricchezze che devono essere valorizzate e che rappresenteranno, devono rappresentare, quel valore aggiunto per la promozione, anche turistica, dei nostri territori e che vogliamo in qualche maniera rilanciare. Avremo un marchio di valenza europea, quindi “l’ombrello” del marchio che è stato depositato all’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (Marchi, Disegni, Modelli) di Alicante sarà in seguito affiancato da una serie di Denomi-nazioni legate alle diverse tipologie di lavorazione dei nostri prodotti artigiana-li, che andranno ad aggiungersi a quelle che sono state già introdotte e che sono depositate nell’Ufficio Brevetti nazionale. Quindi a breve partiremo con questa campagna e con questa attività che riteniamo fondamentale, essenzia-le, strategica e necessaria per tutelare i nostri artigiani. Si tratta di una serie di iniziative di comunicazione, di iniziative concrete che crediamo possano ridare fiato a questo comparto. Mi fermo qui in questo intervento di saluto ma non prima di aver sottolineato che ritengo questo connubio tra artigianato e Istituto di Biometeorologia, tra artigianato e mondo della ricerca, tra l’impresa e la ricerca, efficace e fonda-mentale per tutti i settori coinvolti.

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Incontri e confronti con i territori

Salvatore Marino Assessore al Lavoro, Formazione professionale e politiche occupazionali Provincia di Sassari

Porto i saluti dell’amministrazione provinciale di Sassari, della Presidente Ales-sandra Giudici, della Giunta e di tutto il Consiglio. Vorrei iniziare, approfittando della presenza dell’Assessore Regionale Sannitu, rivolgendo una esortazione affinchè, a quasi a 10 anni e forse anche di più dalla riforma del titolo V della Costituzione, che prevedeva la delega agli enti locali intermedi di alcune competenze fondamentali tra le quali il lavoro e la formazione professionale, questa delega si acceleri dato che tutte le altre province di Italia esercitano delle competenze in maniera fondamentale per le politiche di formazione, politiche attive del lavoro e lavoro e invece noi siamo enti intermedi che non esercitano completamente una funzione di importanza rilevante. Quindi l’auspicio è che la famosa legge di riordino sulla istruzione e la formazione professionale che giace nei cassetti della Regione da tempo, sia finalmente discussa ed approvata.La Provincia ha un potere meramente consultivo sulla formazione professiona-le, cioè ogni anno la Regione ci invita a predisporre un piano per la formazione provinciale che noi stiliamo dopo aver interloquito con le organizzazioni sinda-cali, con le associazioni di categoria, con il terzo settore, con alcuni sindaci. Quest’anno il Comune di Ozieri ci ha invitato ad indicare nel nostro piano di formazione professionale i corsi per tessitore di tappeti e per tessitore di orbace. Mi hanno mostrato la tessitura dell’orbace e mi hanno detto che non è una materia nobile ma che, se lavorata secondo antichi criteri, diventa un tessuto particolarmente pregiato, che alcuni stilisti hanno saputo ben utilizza-re facendone un fiore all’occhiello della propria produzione stilistica. Questo suggerimento è stato bene accolto, e questo nostro piano della formazione professionale è stato ulteriormente ricevuto dalla Regione che dovrebbe at-tivarlo nei prossimi mesi. Mi auguro che i corsi di tessitura dell’orbace e di tessitura del tappeto possano essere numericamente molto ben frequentati anche da donne. L’interlocuzione con i territori e la formazione professionale che noi possiamo mettere in campo sono soltanto una parte delle azioni di prospettiva che ci poniamo. Io penso che l’orientamento, la formazione, il lavoro e le successive politiche del lavoro siano tra loro concatenati e che interrompere anche un solo pezzo di questa catena porti all’empasse.

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La sostenibile leggerezza del tessere

Nel settore che rappresento, che comprende anche l’istruzione, crediamo molto al rilancio dei comparti tradizionali e abbiamo previsto delle azioni pre-cise di politica per il lavoro e di politica dell’autoimpiego. Ci sarà un bando, uscirà tra qualche giorno, che prevede un piccolo contributo a fondo perduto attraverso il quale potranno attivare azioni di autoimpiego coloro che hanno un’idea particolarmente originale nel campo dell’artigianato artistico di quali-tà e dei servizi innovativi. Penso che il settore tessile e i territori che fanno riferimento a queste progettualità possano avere una chance. Le borse non saranno tante, saranno circa una dozzina, però sono un segnale importante e speriamo pervengano progettualità che si possano condividere e finanziare. L’autoimpiego è una parte delle politiche attive del lavoro, tuttavia non si può pretendere che tutti i giovani, anche chi ha qualità artigianali, abbiano le quali-tà per essere imprenditore e bisogna ricordare che l’opzione cooperativistica in questi territori ed in questi settori può essere importante. Tornando agli auspici, vorrei che si invertisse una tendenza che prevede che i nostri corsi di formazione siano molto richiesti per quelle figure che io ritengo residuali: mi piacerebbe che ogni volta non ci fossero oltre 5.000 iscrizioni ai corsi di parrucchiere mentre vanno letteralmente deserti quelli sui nuovi impieghi. Per esempio: abbiamo spinto perché in questa provincia venissero banditi i corsi di “Riparatore per motori marini” e “Addetto al rimessaggio delle barche”. Sono nicchie, settori di mercato che in altre province con molto meno vocazione marinara, per esempio Ravenna, sono richiesti e hanno gran-de successo, eppure da noi sono andati deserti. Noi abbiamo dei nuclei, come quello legato all’attività dei porti e quello al settore tessile, che possono essere produttivi e che vogliono dire anche turi-smo, e tutti devono essere opportunamente sfruttati. Il nostro piccolo sforzo da questo punto di vista lo abbiamo fatto: i corsi, che dipendono ancora dalla Regione, partiranno spero a breve in maniera tale che si possa dare anche un minimo di risposta a chi aspetta di poter iniziare. Spero che nei bandi che usciranno entro fine mese ci sia anche parecchia richiesta proveniente da questo settore di cui oggi si discute e da quei territori che noi a volte, anche se non vogliamo, indirettamente trascuriamo. Perché la Provincia non è solo il triangolo Sassari-Alghero-Porto Torres, c’è tanto altro, c’è tanto territorio che forse colpevolmente non esploriamo a fondo.

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Incontri e confronti con i territori

eliSabetta SircaCNR-Ibimet

Il Progetto in breve e le criticità rilevate in Sardegna

Vi parlerò del progetto in breve e delle criticità rilevate in Sardegna. Insieme alle colleghe, la dott.ssa Melis e la dott.ssa Nieddu, seguo il progetto in Sar-degna. Il progetto “Percorsi di Orientamento”, promosso dal Ministero del Lavoro in collaborazione con il CNR - Ibimet, interessa quattro regioni Italiane: Sardegna, Toscana, Emilia Romagna e Campania. Il progetto mira a favorire e sostenere l’imprenditoria femminile nelle aree rurali e a delineare le filiere tes-sili locali che vanno dalla produzione di lana, piante da fibra e tintorie, alla loro trasformazione, produzione e vendita sotto forma di tessuti e prodotti dell’ar-tigianato. Le azioni del progetto sono state programmate ed articolate in tre annualità. Nella prima annualità, quella in corso, dopo una prima fase di studio basata sull’analisi quantitativa dei dati strutturali, si è avviata una ricerca qua-litativa il cui scopo è stato cogliere quegli aspetti “intangibili”, quali l’identità locale e la sua rappresentazione, il senso di appartenenza al territorio, i sim-boli, la memoria storica e tutte le altre informazioni non rilevabili o deducibili dalle “comuni” fonti statistiche ma ugualmente importanti per far emergere le risorse del territorio e le sue potenzialità, nella prospettiva di progettare e prevedere un possibile sviluppo. Avvalendosi di questionari si sono intervista-te le imprenditrici che operano in contesti rurali con attività legate alla filiera tessile, quali testimoni delle difficoltà legate alla scelta di “fare impresa” in aree rurali, la loro propensione al rischio, il loro coraggio ad investire, a creare un’attività senza sicurezza di successo, le loro paure, i dubbi e le soddisfazio-ni. Alla ricerca di possibili “best practices”, di esperienze imprenditoriali che potrebbero essere per alcuni un modello da seguire. Si sono altresì intervistati i responsabili di associazioni, enti, e istituzioni locali allo scopo di approfondire le diverse tematiche attraverso le opinioni di chi, con strumenti, modalità e ruoli diversi, amministra, gestisce e lavora nel territorio. Dall’analisi di queste interviste sono scaturite una serie di considerazioni che abbiamo cercato di mettere insieme e presentarvi oggi sotto forma di S.W.O.T. analisi.

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La sostenibile leggerezza del tessere

Punti di forza (Strengths):

• Produzioni artigianali di pregio: le produzioni artigianali sarde hanno rag-giunto e conservano negli anni un’ottima qualità garantita dall’utilizzo di materie prime di pregio e dall’eccelso e certosino lavoro delle artigiane.

• Passione per il lavoro svolto. Forte motivazione personale delle imprendi-trici che hanno un comune denominatore: la passione per l’attività svolta.

• Patrimonio di competenze, conoscenze e saperi diffuso nel territorio: i “saperi” legati al mestiere, radicati da secoli nel territorio, si preservano e si tramandano soprattutto nelle zone “interne” e più isolate della Sardegna.

• Riconoscibilità del prodotto: il prodotto è (qualitativamente e visivamente) facilmente riconoscibile. L’artigianato sardo ha caratteristiche etniche che lo rendono unico grazie ai particolari motivi decorativi che rappresentano un vero linguaggio simbolico.

• Innovazioni, ricerca, differenziazione di prodotto (diversificazione di atti-vità e prodotti artigianali): la disponibilità da parte delle imprenditrici ad introdurre innovazione ha favorito la ricerca che, garantendo il processo e la qualità del risultato finale, ha portato a differenziazioni di prodotto e all’utilizzo di nuovi filati (seta, fili d’oro e d’argento, rame, sughero).

• Consapevolezza delle difficoltà e dei limiti dell’azienda e del comparto: tale consapevolezza è considerata un punto di forza perché può essere una base comune per stimolare lo sviluppo delle prime collaborazioni e la nascita di reti.

Punti di debolezza (Weaknesses):

• Struttura produttiva frammentata in un elevato numero di microimprese a carattere familiare spesso con un unico addetto: imprese di questo tipo, anche se dispongono di un prodotto di qualità, hanno grosse difficoltà ad operare sui mercati. La frammentazione della struttura produttiva compor-ta una debolezza strutturale soprattutto nei rapporti con gli intermediari commerciali.

• Debolezza dell’attività di marketing: i costi di marketing sono elevati e rara-mente si possono destinare risorse specifiche (sia finanziarie che umane) alla commercializzazione. Il passaparola continua ad essere, insieme alle fiere, il loro principale, se non unico, mezzo di promozione. Molte imprendi-trici non hanno un sito internet dedicato. E’ assente la figura del consulen-

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Incontri e confronti con i territori

te-esperto di marketing che studi il mercato, le dinamiche dello stesso, per pianificare adeguate strategie promozionali con mezzi e strumenti specifici ed aiuti le aziende a trovare nuovi canali di vendita.

• Mercato delle produzioni tipiche prevalentemente locale: mercato locale di dimensioni troppo limitate, poco dinamico e generalmente saturo. Bassa propensione all’export da parte delle imprese; sono ancora pochi i casi di imprese che riescono ad arrivare con successo ai circuiti dei mercati extra locali e regionali.

• Scarsa propensione alla imprenditorialità: attività artigianali caratterizzate da nanismo. Inoltre la maggior parte delle artigiane ha aperto bottega seguendo una passione ma senza prestare molta attenzione alla trasfor-mazione dell’attività in impresa.

• La formazione delle imprenditrici è principalmente di tipo informale: legata alle tradizioni e conoscenze familiari. Del tutto trascurato è l’aspetto “eco-nomico” nei suoi aspetti gestionali, amministrativi, finanziari e commerciali.

• Scarsa propensione al lavoro in rete: le collaborazioni tra artigiani dello stesso settore e della filiera sono praticamente assenti. La scarsa pro-pensione delle singole realtà aziendali a fare “sistema” non permette lo scambio di competenze conoscenze ed informazioni utili per la crescita del singolo e dell’intero comparto.

• Economia di sussistenza: basso ritorno economico dell’attività. Il lavoro manuale ben fatto richiede tempo, cura, e pazienza, aspetti che non sem-pre vengono riconosciuti e, di conseguenza, ripagati. Portare avanti un’atti-vità artigianale spesso non è sostenibile in quanto non consente a fine anno il raggiungimento del punto di pareggio (copertura dei costi di produzione attraverso i ricavi derivanti dalla vendita). Gli elevati oneri di gestione del personale e l’eccessivo carico-pressione fiscale, inducono a rinunciare alla regolarizzazione dell’attività, ed affiancare la stessa ad un’altra attività più redditizia.

• Il sommerso: la pratica della tessitura è diffusa a livello capillare nell’isola. In molte famiglie è presente un telaio che può essere attivo continuativa-mente (imprese operative a tutti gli effetti) od occasionalmente (in risposta a stimoli occasionali del mercato). Lavorare in nero a casa propria è comu-ne in tutti i segmenti della filiera del tessile.

• Assenza di tutele e o marchi: il lavoro artigiano, il fatto a mano, spesso non viene tutelato/garantito/distinto da quello di tipo industriale. A volte le etichette sono ingannevoli e le stesse botteghe dell’artigianato vendono

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La sostenibile leggerezza del tessere

entrambi i prodotti senza fare distinzioni. Tali comportamenti penalizzano il “fatto a mano” che appare ingiustificabilmente meno conveniente.

• Carenza di infrastrutture e servizi: orografia tormentata, viabilità limitata al trasporto su gomma (in alcune aree anche il trasporto su gomma sconta percorrenze medie orarie altissime), carenza di infrastrutture legate alle telecomunicazioni e alla telematica. La connessione internet veloce è as-sente soprattutto nei centri più interni e isolati.

• Le allevatrici non sentono di appartenere alla filiera del tessile: la produzio-ne della lana è una delle attività meno rilevanti per un‘azienda zootecnica, la tosatura delle pecore si effettua in quanto necessaria ma è vista come un ulteriore costo. La lana viene acquistata dai grossisti a prezzi irrisori (dai 30 ai 50 cent di euro al chilo) ed il guadagno non copre le spese di to-satura. La maggior parte degli intervistati non conosce né la destinazione né l’utilizzazione finale della fibra, né si sono mai posti il problema.

• Limitata interazione con il sistema turistico costiero

Minacce (Threats):

• Rischio di plagi ed altre azioni offensive verso i prodotti tipici non ancora tutelati da marchi di origine.

• Concorrenza sleale di prodotti contraffatti provenienti da aree a basso co-sto del lavoro, lavorati con tecnologie meccaniche e spacciati per locali, che sottraggono mercato ai prodotti locali più costosi.

• Attrattività delle aree costiere dell’isola quale ulteriore spinta allo spopola-mento delle aree rurali.

• Rischio di dispersione dei saperi locali nella fase di ricambio generaziona-le.

• Scarsa valorizzazione dell’artigianato come opportunità occupazionale.

Le opportunità (Opportunities):

• Educazione al consumo consapevole di qualità e sostenibile: individuazione di target specifici di mercato in grado di apprezzare il prodotto, riconoscer-ne il valore ed il giusto prezzo.

• Trend in crescita sostenuta e costante della domanda nel mercato comuni-tario dei prodotti “tipici” ed ecosostenibili.

• Cambiamento della percezione dei beni di lusso da parte dei consumatori, sempre più sensibili alla qualità del prodotto fatto a mano e sempre più

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Incontri e confronti con i territori

orientati verso la sostenibilità.• Possibili sinergie tra settori economici diversi (turismo, agroalimentare):

inserimento in programmi e circuiti di promozione territoriale più ampi. Quello turistico è un mercato cruciale non solo come bacino di domanda ma anche come veicolo di marketing in quanto contribuisce a diffondere la conoscenza dei prodotti locali nei luoghi di provenienza.

• Multifunzionalità: ruolo multifunzionale dell’azienda agricola come strumen-to efficace per creare collegamento tra l’ambiente rurale e l’intero sistema economico-sociale e per incrementare i redditi degli imprenditori agricoli. Le nuove fonti di reddito consentono il consolidamento dell’azienda agrico-la nel territorio.

• Farmers’ Market (vendita diretta): i mercati senza “mercanti” che accorcia-no la filiera permettendo l’incontro diretto tra produttore e consumatore (ciò è garanzia di qualità e sicurezza dei prodotti). Un’economia alternativa, di qualità, che consente di vendere i prodotti senza il “ricatto” degli inter-mediari, evitando il trasporto su lunghe distanze.

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La sostenibile leggerezza del tessere

efiSio PerraResponsabile Tecnico Centro Assistenza Imprese Coldiretti Sardegna

La filiera corta nelle produzioni no-food: il ruolo dell’agricoltura

Porto i saluti del direttore Luca Saba che non è presente per impegni istitu-zionali. Vorrei illustrare il progetto di Coldiretti per lo sviluppo dell’economia rurale e fare il punto sulla filiera no-food nell’eventuale dibattito; inoltre vorrei sot-tolineare che la nostra organizzazione è interessata ad interagire con tutti i segmenti della filiera no-food. La scorsa settimana la Coldiretti ha presentato un progetto di rilancio eco-nomico per il Paese, un progetto che nasce dalle difficoltà che sono state accennate nella relazione introduttiva del dott. Duce, ossia le difficoltà delle economie reali rispetto ad una globalizzazione dell’economia che ci ha visto protagonisti purtroppo in negativo, soprattutto nelle aree rurali. Il progetto di Coldiretti prevede la valorizzazione diretta dei produttori rendendo prota-gonista la produzione primaria (l’agricoltura e l’agroalimentare così come le produzioni artigianali di qualità) all’interno della filiera. Oggi, come già sottolineato nell’intervento precedente, il grande elemento di criticità sia per l’agricoltura e sia per l’artigianato consiste nel vedere valoriz-zato e remunerato il lavoro ed il prodotto che si ottiene dalla propria attività. La scelta di Coldiretti è quella di aggredire il mercato attraverso una strategia che prevede il rafforzamento della vendita diretta delle aziende, prevede la costituzione di quei mercati, i cosiddetti Farmers’ Market che noi abbiamo definito e regolamentato chiamandoli “Mercati di Campagna Amica”, con l’ob-biettivo di avvicinare il più possibile il consumatore al produttore e comunque di accorciare la filiera. Altro obbiettivo è cercare di identificare e tracciare la propria produzione, ossia fare in modo che il consumatore conosca ciò che acquista e perciò conosca la produzione e la qualità della stessa. L’obiettivo di Coldiretti nei prossimi due anni, 2009-2010, è di aprire 20.000 punti vendita segmentati a livello nazionale. Questo è il progetto che noi stiamo proponendo, un pro-getto ambizioso per la valorizzazione delle produzioni ma che ha una base concreta rappresentata da 2.000 mercati contadini, dai Consorzi agrari che sono coinvolti nel progetto e diventano punti vendita, dai 5.000 agriturismi

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Incontri e confronti con i territori

che dobbiamo coinvolgere. Naturalmente questo è un progetto appena nato e che ancora deve essere portato avanti; in Sardegna, poi, è un percorso che deve essere completamente sviluppato. Tuttavia, si parla di 5.000 agriturismi e di 10.000 aziende che già effettuano vendita diretta, si parte cioè da numeri concreti, di attività che già sono presenti o stanno crescendo.Parlando di Sardegna e di no-food nel territorio in cui operiamo, crediamo che per la cereazione di filiere no-food, finalizzate allo sviluppo di agroenergie da derivati animali e vegetali, alla rinascita della linea del tessile di cui oggi nello specifico stiamo parlando, agli stessi coloranti naturali oppure alla produzione di oli essenziali per uso cosmetico e/o farmaceutico, ci siano una serie di opportunità. Lo stesso sughero, una produzione primaria agricola anche se molti aspetti sono gestiti a livello industriale, ha grandi potenzialità. Noi crediamo si debba partire dal sistema territoriale, dalla vocazionalità e dalle produzioni esistenti e magari cercare di sviluppare nuove filiere multi-funzionali legate all’attività agrituristica; attività che possono dare risultati in tempi medio lunghi, ma che possono anche dare risposte e avere ricadute nell’economia locale.E poi le pecore: abbiamo una grossa risorsa nel territorio e perciò valorizzia-mo la filiera della lana, ma senza dimenticare che sarebbe anche possibile portare avanti colture per la produzione di fibre vegetali. In questo campo occorre che si facciano delle sperimentazioni (ma non fine a se stesse come è stato anni fa per la canapa) e che i risultati delle stesse vengano divulgati e le opportunità fatte conoscere. Bisogna anche stare attenti alla contestualiz-zazione dei progetti e ricordare che indirizzare l’investimento verso produzioni non legate al territorio, e quindi produzioni non regionali, può spesso significa-re una dispersione di risorse e l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo di fare sistema, di fare economia a livello territoriale. Il nostro auspicio e la nostra volontà è di leggere il territorio e vedere quali sono le produzioni, capire su cosa si basa realmente l’economia locale e da questo partire per sviluppare l’economia di sistema. Abbiamo anche delle richieste per i rappresentanti delle istituzioni regionali. Queste filiere no-food, che si accompagnano allo sviluppo di un’economia di sistema, hanno bisogno di essere sostenute da un progetto che necessaria-mente deve essere integrato. Si ha dunque bisogno di un progetto che passi e sia diffuso nel territorio e che coinvolga il produttore primario, e quindi l’agri-coltore o l’allevatore che produce la materia prima, e che consenta di arrivare alla valorizzazione finale del prodotto. Senza quest’ultimo passo, senza que-

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La sostenibile leggerezza del tessere

sta valorizzazione e promozione, lo stesso allevatore o la stessa allevatrice rischiano di non cogliere quella che potrebbe essere un’opportunità. Potrebbe accadere quello che oggi succede per la lana di pecora: non avendo il pro-dotto finale una giusta remunerazione, un giusto sbocco commerciale, per il produttore iniziale della materia prima la remunerazione è insignificante e anzi la stessa tosatura, non coprendo la vendita della lana le spese della stessa, diventa un mero costo. Non aiuta di certo, inoltre, il fatto che la lana sia ormai considerata un rifiuto e non più un sottoprodotto da valorizzare. Come si evince su questi aspetti c’è molto da fare, ma noi crediamo che ci siano le condizioni per poter lavorare bene. Uno strumento, un’opportunità in questo senso può sicuramente essere un altro progetto che Coldiretti deve mettere in campo anche in Sardegna. Si tratta di un progetto che si pone l’obiettivo di favorire l’integrazione tra i settori e nella fattispecie, lo sbocco dei prodotti di qualità delle nostre aree rurali attraverso gli agriturismi. Cioè, i nostri agriturismi, oltre ad utilizzare prodotti aziendali, devono offrire, anche se pare scontato, realmente solo cibo prodotto nella nostra isola, devono avere tappeti che sono prodotti in Sardegna, e cosi via. Questo è un progetto di coerenza e una sfida che ci dobbiamo porre. L’obiet-tivo, come ho già detto, sembra talmente ovvio da essere spesso dato per scontato eppure è una delle aspettative o dei risultati meno perseguiti. Per questo non riteniamo esagerato definirlo una sfida: sappiamo bene tutti che spesso chi fa impresa cerca in tutti i modi di abbattere i costi e favorire i ri-cavi, ma dobbiamo far capire che, se tutto si valuta solo attraverso il prezzo, si fa un errore. Si tratta di un impegno che si richiede agli operatori locali, un impegno a fare sistema e permettere così di integrare i prodotti dell’agricoltu-ra con quelli dell’artigianato artistico e non. Questa integrazione tra i comparti economici considerati, tra le produzioni tradizionali e il settore turistico, dovrebbe essere naturale e non riguardare solo le aree rurali. In ogni centro turistico devono essere presenti una vetrina ed uno sbocco commerciale per le produzioni territoriali di qualità certificate. Tuttavia, allo stato attuale, perché questo avvenga è necessario un sostegno, un progetto che preveda questa integrazione e l’accompagnamento della filie-ra fino alla commercializzazione.

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Incontri e confronti con i territori

Grazia MancaDipartimento per la Multifunzionalità dell’Impresa Agricola, per lo Sviluppo Rurale e per la Filiera Agroalimentare – LAORE

PSR 2007-201: nuove prospettive di sviluppo rurale nell’ottica della multifunzionalità dell’impresa agricola

Il mio intervento riguarderà l’illustrazione delle opportunità che la nuova pro-grammazione 2007-2013, ed in particolare delle opportunità offerte dal piano di Sviluppo Rurale 2006/2007. Vorrei innanzitutto sottolineare come la multifunzionalità sia oggi un tassello importante nel piano di sviluppo rurale. Ma cosa si intende per multifunziona-lità? Un minimo di definizione è necessaria perché, nonostante sia una parola ormai entrata nell’uso quotidiano, è necessario stabilire dei parametri. Prima di tutto bisogna dire che il concetto di multifunzionalità è già presente nella riforma della politica agraria comunitaria iniziata negli anni ‘90 ed in cui si evi-denzia l’evoluzione dell’agricoltura che passa dalla mera produzione di beni e di prodotti, anche, a quella di erogatore di servizi. I profondi mutamenti sociali ed economici avvenuti in Europa negli ultimi decenni hanno fortemente influito su questo cambiamento e questo si è unito ad una nuova coscienza dell’opi-nione pubblica sulla sicurezza alimentare, maturata anche in seguito ad alcune emergenze (vino al metanolo, atrazina nelle falde acquifere, mucca pazza, ecc.). E’ cambiato tutto il quadro di sostegno all’agricoltura: non più sostegno diretto ai prodotti, restituzione all’esportazione, ecc. ma due pilastri di peso quasi uguale, PAC e Sviluppo Rurale, con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile nell’ottica della crescita e della competitività. Lo sviluppo rurale è una strategia di sviluppo integrato dei territori che raf-forza il settore attraverso un miglioramento che coinvolge anche il contesto riguardante i servizi alle imprese, la qualità della vita, l’integrazione con altri settori produttivi. Ciò scaturisce anche dalla riflessione sulla situazione in agri-coltura rispetto alla percentuale di manodopera, ormai arrivata al 10%, ad un’età media degli addetti altissima, alla fuga dei giovani, ai dati sullo spopola-mento e su come non si possa mettere tutto ciò in diretta correlazione con il successo o l’insuccesso delle aziende. Spesso anche là dove le aziende sono floride non si ha un corrispondente benessere sociale. Perciò cosa si chiede all’agricoltura oggi? Si chiede di continuare ad avere una

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La sostenibile leggerezza del tessere

funzione economica, di continuare a produrre reddito e dare lavoro, di conti-nuare, di più e meglio, a produrre alimenti, ma si domanda anche la funzione di presidiare il territorio, tutelare l’ambiente ecc. Capirlo è facile: provate a pensare da una parte al paesaggio agrario e dall’altra a quello incolto; pensa-te alle colline della vite che si incontrano e si uniscono con quelle dell’olivo, e al tappeto dei prati,… ed ora provate a confrontare le due immagini con i luoghi che l’uomo ha abbandonato. All’elenco delle cose che si domandano all’agricoltura aggiungo la funzione sociale delle aziende agricole, il loro ruolo nelle attività di pubblica utilità, garantendo per esempio la qualità e sicurezza degli alimenti. Aspetto questo che i consumatori oggi pongono come un’esi-genza forte: tu oggi devi produrre, devi vivere, devi campare ma non mi devi avvelenare. Ancora, si domanda una funzione sociale e culturale di custode delle tradizio-ni socio-culturali rurali: la trasmissione e la valorizzazione dei saperi antichi, arcaici, spesso legati al lavoro ed alla attività agricola. Oggi è in atto un trend del mercato dei servizi educativi, ricreativi, sociali che si rivolge sempre di più alle aree rurali. Per poter attingere a questi saperi e quindi conservare, valorizzarli e metterli a sistema è una responsabilità posta in capo a chi nelle aree rurali vive. Non bisogna poi dimenticare il contributo dato dall’agricoltura ad uno sviluppo equilibrato del territorio. Così, anche per tutta questa serie di implicazioni, non parliamo più di agricoltura ma di sviluppo rurale, non parlia-mo più di sviluppo agricolo ma di aree rurali. Da questo quadro si evince che anche le politiche della Unione Europea nel frattempo sono molto cambiate: non sono più orientate ad intervenire in agri-coltura con una serie di fondi come il PON ed il POR ed il programma LEADER della vecchia programmazione del 2000-2006. Oggi, in virtù della semplifica-zione che ha inaugurato la programmazione 2007-2013, abbiamo un unico fondo che finanzia il Piano di Sviluppo Rurale la cui definizione si realizza in parte con decisioni assunte a livello centrale europeo e nazionale: gli orienta-menti strategici comunitari, il regolamento 1698, gli orientamenti strategici nazionali per arrivare all’applicazione del principio del “bottom-up” nella defi-nizione dei Piani di Sviluppo Rurale Regionale ed, in particolare, nell’Asse 4 del PSR. L’approccio metodologico LEADER diventa strumento di definizione delle misure dell’Asse 3, ma anche obiettivo finale di accrescimento della Governance territoriale.Com’è strutturato il PSR 2007/13 della Sardegna? E’ organizzato in tre grandi schemi ed in un Asse metodologico. Nei primi due Assi sono allocati i finanzia-

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Incontri e confronti con i territori

menti diretti a migliorare la competitività delle nostre imprese agricole e, quin-di, a migliorare lo standard qualitativo dei prodotti, delle colture, delle infra-strutture, ecc. Nell’Asse 2 vi sono le misure cosiddette agroambientali dirette a compensare i minori redditi derivanti dagli svantaggi naturali, da vincoli, o a finanziare attività di tutela della biodiversità, valorizzazione ambientale ecc.La valorizzazione dell’ambiente, priorità trasversale di tutti i fondi europei, viene interpretata e impostata come un’opportunità di sviluppo. Io pastore o contadino, io che in quell’ambiente vivo e che contribuisco a mantenere e salvaguardare quell’ambiente, ricevo un riconoscimento per questo. Andiamo a vedere tutti gli ambienti agricoli periurbani, dove le aziende hanno smesso di lavorare, cosa sono diventati: terreni dove scoppiano gli incendi, discariche a cielo aperto, sono comunque terreni tornati ad essere inselvatichiti in un modo che dell’ambiente originario conservano ben poco. Allora, se noi all’agri-coltore riconosciamo una funzione, un lavoro ed un ruolo come valorizzatore dell’ambiente, nell’Asse 2 gli riconosciamo tutta quella serie di piccoli inden-nizzi proprio perché continua a lavorare e vivere in collina, perché vuol salvare la biodiversità vegetale ed animale, eccetera. Nell’Asse 3 sono invece collocati tutti quei finanziamenti destinati proprio alla multifunzionalità. L’unione Europea dice che l’88,8% del nostro territorio, di-ventato di 25 paesi, è costituito da aree rurali dove si concentra la maggior parte della popolazione. Abbiamo detto che, però, spesso al benessere eco-nomico non corrisponde una qualità sociale della vita e una possibilità di la-voro adeguata. Allora dobbiamo intervenire nell’insieme perché intervenendo solo sull’agricoltura propriamente intesa non possiamo tenere vivo il tessuto sociale. Nell’Asse 3 quindi vengono collocate le risorse per diversificare l’eco-nomia rurale, per migliorare la qualità della vita delle aree rurali, per combat-tere lo spopolamento, per acquisire nuove competenze e tutte le misure tese a rafforzare la Governance del territorio. A questo livello, si sostanzia il con-cetto della programmazione dal basso perché, a questo punto, sono i territori a decidere come allocare le risorse e quali strategie assumere. Le risorse dell’Asse 3, devono essere spese secondo una metodologia parte-cipativa contenuta nell’Asse 4. Mentre nell’Asse 2 e nell’Asse 1 è esattamente definito cosa devo fare e cosa posso fare, nell’Asse 3, all’interno di un quadro di misure e azioni definite, sarà il territorio a decidere quali attivare e quali sce-gliere in base ai propri bisogni ed esigenze. Aggiungo che, nonostante ci si sia lamentati tanto, in realtà le risorse rispetto alla programmazione passata sono aumentate.

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La sostenibile leggerezza del tessere

L’Asse 3 pone i seguenti obiettivi da raggiungere: mantenimento e creazione di nuove opportunità di occupazione nelle aree rurali, miglioramento della at-trattività dei territori rurali per le imprese e la popolazione. Quindi nell’Asse 3 si parte da un ragionamento legato all’idea di uno sviluppo complessivo delle aree rurali e in esso sono presenti molte delle risorse che possono finanziare attività come queste di cui oggi si parla. La multifunzionalità dell’agricoltura è tante cose, compreso, per esempio, l’uso delle erbe tintorie e dei prodotti tessili nelle attività didattiche e ricreative culturali e sociali. Tra le attività delle Fattorie Didattiche abbiamo una forte richiesta di diversificare e la tessitura e la tintura naturale rispondono con successo a questa esigenza. Le fattorie didattiche sono laboratori esperenziali, laboratori all’aperto, dove si possono imparare tante cose, ma sono anche uno strumento di promozione, di valoriz-zazione delle produzioni agricole e non solo. L’Asse 3, abbiamo detto, ha l’obiettivo generale di combattere lo spopolamen-to. I dati che vi presento, relativi al GAL Logudoro-Goceano, mi permettono di fare dei ragionamenti esplicativi. Il bando con la richiesta ai territori di costituirsi in GAL è stato fatto basandosi sui dati del 2001, che indicavano 67.000 abitanti: tuttavia già al 1 gennaio 2002 in numero di abitanti era più basso (64.487) e lo è ancora di più ora (nel 2007 erano 62.178). Durante le riunioni per la creazione dei Gruppi di Azione Locale, quando vengono messi in evidenza questi dati mi spavento perché sembriamo scomparire, pare ci sia un erosione più invisibile di quella della montagne. Se questi paesi continuano a spopolarsi i fenomeni come la desertificazione, questi mutamenti climatici che comunque sono influenzati dall’azione dell’uomo sul territorio, come facciamo ad arginarli? La dramma-ticità del dato si mostra anche evidenziando che il territorio in questione in quei 5 anni ha perso più di 4.800 persone, 3.408 delle quali si collocano in una fascia d’età dai 0 ai 39 anni, e sono 1.604 uomini e 1.804 donne (e qui arriviamo alle questioni di genere, dato preoccupante che ci deve far riflettere molto). Anche l’indice di vecchiaia è altissimo e ci fa capire che intervenire per creare nuova occupazione, nuove occasioni di lavoro per i giovani e per le donne è una cosa veramente importante. In Sardegna si sono costituiti 13 partenariati per la creazione dei GAL, di que-sti 2 sono nella Provincia di Sassari. Il Gal dell’Anglona può accedere a risorse pari a 5 milioni e 736 mila euro, il Gal Logudoro–Goceano a 12 milioni e 144 mila euro ai quali e, questo vale per tutti, andrà aggiunto il 30% in funzione della posizione che ciascuno di loro avrà in graduatoria.

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Incontri e confronti con i territori

Cosa si può fare? Rispetto alle attività di cui oggi si parla, molte delle risorse sono collocate nell’area LEADER (anche se bisognerebbe pensare ad una pic-cola azione LEADER di questo tipo su tutto il territorio regionale). Quindi, le attività che si possono svolgere sono per esempio nella Misura 3.11 con la quale possiamo fare piccoli laboratori di trasformazione attrezzati all’interno delle aziende, lo sviluppo della attività agrituristica ed agricampeggio, il turi-smo equestre, attività didattiche e produzione di energia da fonti rinnovabili. Anche queste azioni sono misure di genere, di pari opportunità, perché tutte hanno l’obiettivo di evitare lo spopolamento e di aumentare le occasioni di lavoro e di occupazione e di impresa per i giovani e le donne. Abbiamo nella Misura 3.12 una misura calzante rispetto all’argomento, perché fa dell’arti-gianato artistico e delle produzioni legate all’agricoltura una leva fortissima. Poi abbiamo un’altra serie di misure interessanti sul commercio, sui servizi educativi e culturali, sulla valorizzazione ecc. Le tre grandi categorie nell’Asse 3 contengono una serie di finanziamenti direttamente rivolti all’azienda agricola, ma l’Unione Europea introduce una innovazione importantissima: il concetto di famiglia rurale. Si tratta anche in questo caso di misura di genere perché interviene ad aumentare l’occupabi-lità delle donne della famiglia rurale: io che sono la figlia, la moglie, la nipote dell’imprenditore agricolo, pur non avendo una posizione contributiva o giuri-dica, posso per la prima volta in questa tornata di programmazione, accedere ad un finanziamento diretto alla famiglia agricola per diversificare l’attività. Inoltre è presente un altro pacchetto di misure a favore delle piccole e medie imprese, che sono il tessuto economico di un territorio. Immaginate un’im-presa agricola che pratica l’ippoturismo, che investe in miglioramenti, ma poi non trova un artigiano che gli ferri i cavalli o nessuno che faccia selle. Perciò l’obiettivo di tali misure è fare in modo che il tessuto economico del territorio si sviluppi in modo equilibrato: sviluppo di nuove attività, sviluppo di servizi rivolti alle imprese e alle persone e sviluppo di attività che mettano a sistema ed in rete tutte queste cose. Il bel sottotitolo della tavola rotonda di oggi, poiché gli intrecci non sono solo quelli dei tessuti, potrebbe essere il sottotitolo delle riunioni di parternariato dei GAL. Per fare la programmazione dal basso, la programmazione parteci-pata, per creare i partenariati come si procede? Sono persone che si incon-trano, che si devono vedere negli occhi, si devono fidare l’uno dell’altro. Le reti non sono solo informatiche ma sono anche le relazioni fra gli uomini e le donne e la cosa più importante che ci rimarrà in questo processo parternaria-

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le della costituzione dei GAL è proprio questo: è vedere che dopo le riunioni, spontaneamente, l’operatore turistico, l’operatore di agriturismo, l’artigiano dei coltelli o quello del legno decidono di incontrarsi perché, comunque vada il processo, vorrebbero organizzare qualcosa insieme. Questo è il sottopro-dotto che, come spesso succede con la ricerca, diventa alla fine il prodotto principale. Oggi c’è un pensiero più maturo rispetto alle politiche di genere nello Svilup-po Rurale, così come in tutti i Fondi Strutturali, che è quello di pensare alla sostenibilità economica e sociale dei territori e, nel pensare a questo, non si può non tenere conto della parità di genere altrimenti si rischia uno spreco di risorse. Immaginate, tornando ai dati precedenti, 3.500 giovani che se ne sono andati, 1.800 donne che non ci sono più. Ma se le donne se ne vanno e non mettono su famiglia, chi rimane nel paese, chi si occupa di quel territorio e delle sue tradizioni? E se per restare nei piccoli centri i figli poi devono anda-re nelle scuole pluriclasse, niente piscina, niente servizi, chi rimane? L’analisi sull’imprenditoria femminile della Provincia di Sassari dell’Osservato-rio della C.C.I.A.A. mostra un quadro uguale a quello regionale, ossia impre-se piccole, spesso piccolissime e a conduzione familiare, e medie imprese, perciò la possibilità di sviluppare attività integrative e complementari è una grande occasione per le donne. Si rileva, inoltre, una forte propensione delle donne a fare impresa e le donne iscritte come imprenditrici agricole in Pro-vincia di Sassari hanno una percentuale che corrisponde a quella nazionale. Nei vecchi P.O.R. 2000/06 era prevista una premialità per le donne, 5 punti tanto criticati dagli uomini che asserivano servissero soltanto a dare un van-taggio a false imprenditrici, false iscritte solo per poter avere più punteggio nelle graduatorie dei fondi a disposizione dell’agricoltura. Io ho sempre rispo-sto che è come quando si tira (o meglio tirava) l’aria della macchina: qualche volta si ingolfa, ma nella maggior parte dei casi riparte. Quella premialità è stato un pubblico riconoscimento di un ruolo ed una responsabilità che le don-ne nelle nostre aziende agricole hanno sempre avuto, solo che prima erano nell’ombra. Di 10 donne che sono venute allora nei nostri uffici è vero che, in qualche caso, è stato il marito ad indicare dove firmare, ma quando sono ritornate, magari dopo un anno, erano consapevoli ed informate e vi garanti-sco, per esperienza, che una volta che il processo è in atto non si ferma più. Questo è una ricchezza per il territorio, così come sono un valore la memoria, i racconti, i saperi tradizionali di cui spesso proprio le donne sono custodi e sono un valore aggiunto anche per le imprese che arricchiscono così la loro

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Incontri e confronti con i territori

gamma e il loro modo di produrre i servizi. Concludo dicendo che noi dobbiamo con il nostro lavoro contribuire a creare nuove occasioni di lavoro, partendo certo dal PSR, ma soprattutto dobbiamo dare una speranza di futuro per il nostro territorio, i nostri giovani e le nostre donne.

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La sostenibile leggerezza del tessere

franca SabinoSegretaria Confederale CGIL Territoriale di Sassari, Componente Commissione Pari Opportunità della Provincia di Sassari e del Comune di Sassari

Donne e lavoro. L’imprenditoria femminile tra pari opportunità e conciliazione

La continua crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro rappre-senta uno degli aspetti più significativi della società occidentale negli ultimi quarant’anni. In tema di occupazione femminile è stato di recente ribadito che più donne al lavoro portano una moltiplicazione di reddito, dunque un aumento del PIL e conseguentemente del tasso di natalità, perché creano un circuito virtuoso. È ampiamente dimostrato che le donne contribuiscono alla crescita del benessere della famiglia generando un forte impulso ai consumi ed alla richiesta di servizi. A fronte degli obiettivi di Lisbona che puntano al 60% per il 2010, la Sar-degna ha un tasso di occupazione femminile tra i più bassi di Europa (39% contro il 66% maschile) e una disoccupazione femminile doppia rispetto a quella maschile (14,2% contro il 7,2% maschile). Ad un seminario del CREL (08/05/2008) è stato rilevato che in Sardegna negli ultimi vent’anni c’è stato un forte incremento dell’occupazione femminile che è passata da 122.000 occupate nel 1979 a 236.000 nel 2007. Nel 2° trimestre del 2008 il tasso di occupazione in Sardegna ha toccato il 54,2% (41,1% donne), contro una media nazionale del 59,2% di cui 47,5% donne. Le vecchie province sarde tra le 102 complessive si attestano, secon-do i dati ISTAT relativi al 2007, tra il 70° e il 77° posto per il tasso di occupa-zione femminile. Sassari con il 40,3% si colloca al 1° posto, seguita da Nuoro con il 38,8% e da Cagliari con il 37,7%, Oristano si ferma al 36,1%.Tuttavia, in Sardegna il lavoro femminile è ancora segnato da disparità di ge-nere che riguardano le opportunità di carriera, di guadagno, la durata del rap-porto di lavoro, il tempo del lavoro. Le imprese femminili rappresentano il 24% del totale delle imprese pari a 36.249 su 150.145 nel 2007. La stragrande maggioranza sono ditte individuali ed incorrono in numerosi ostacoli quali il reperimento di capitali, l’acquisizione di clienti e la mancanza di servizi, ma anche la complessità degli adempimenti burocratici e soprattutto la possibilità di conciliare il lavoro con le esigenze familiari.

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Il tasso di occupazione, appunto, scende al salire del numero dei figli: una donna su cinque lascia il lavoro dopo il primo figlio. In Sardegna solo il 3,8% dei bambini sotto i tre anni trova posto negli asili nido pubblici contro il 16% dell’Emilia Romagna, a fronte dell’obiettivo fissato nel 2002 dal Consiglio Eu-ropeo di Barcellona, di assicurare entro il 2010 un posto in un asilo nido ad almeno un bambino su tre (33% di copertura); infatti, se ciò avvenisse, il tasso di occupazione femminile potrebbe raggiungere in ciascun paese il fatidico 60% indicato a Lisbona. Questo appare “fuori dalla portata” del mercato del lavoro sardo anche per i prossimi decenni, quantomeno in assenza di più de-cise ed integrate politiche sociali.La promozione della parità tra donne e uomini rappresenta uno degli aspetti fondamentali della strategia europea per l’occupazione. La tabella di marcia per la parità tra donne e uomini (2006-2010) definisce gli obiettivi strategici e ribadisce che le pari opportunità non sono un problema a sé, ma fanno parte in modo integrante della democrazia e dell’equità sociale. Tutte le politiche devono contenere consapevolmente il principio di parità, ed essere valutabili per gli effetti che producono sugli uomini e sulle donne (Mainstreaming). L’articolo 30, “Politiche di Pari Opportunità “, della L.R. 20/2005, impegna la Regione ad azioni integrate di promozione del lavoro, a promuovere le pari opportunità di accesso alla formazione e all’istruzione e la conciliazione dei tempi di vita e del lavoro, a realizzare campagne di sensibilizzazione, nonché ad assicurare le funzioni delle Consigliere di Parità. L’istituzione, nominata ai sensi dell’art. 15 del D. Lgs 198/2006 dal Ministro del Lavoro di concerto col Ministro per i Diritti e le Pari Opportunità, è presente in Sardegna dal 2003 e svolge il duplice ruolo di promozione delle pari opportunità e di lotta alle discri-minazioni sui luoghi di lavoro, promuovendo specifici interventi. Le Province hanno provveduto ad istituire i rispettivi Uffici delle Consigliere.Le donne sono state i soggetti attivi di tutti i cambiamenti relativi alla organiz-zazione del lavoro, dei tempi e dei rapporti relazionali in ambito lavorativo. Per di più la diffusione di forme contrattuali atipiche più flessibili ha permesso alle donne di conciliare meglio la vita lavorativa con quella familiare, ossia di poter accedere al mercato del lavoro senza rinunciare ad occuparsi della famiglia e dei figli. Forme contrattuali come il part-time permettono di conciliare entram-bi gli aspetti anche se rimane sempre il dubbio se si tratti di una scelta libera o piuttosto forzata. L’aumento del numero delle occupate si deve principalmente a due fenomeni: l’espansione delle attività dei servizi e la maggior diffusione dei contratti part-

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time, che in Sardegna è stata più intensa che altrove. Le donne sono prevalen-temente occupate nel commercio, nel turismo, nei servizi alle imprese e nei settori relativi alla assistenza ed alla cura. Le donne vengono prevalentemente impiegate nel lavoro dipendente. Il tentativo di sottrarsi alla rigidità del lavoro dipendente e la possibilità di gestire il proprio tempo in maniera più autonoma hanno probabilmente determinato un aumento dell’imprenditoria femminile.Le iniziative imprenditoriali sono in aumento, anche se l’accesso alle risorse finanziarie per le donne è ancora difficile, dato che l’idea di una donna impren-ditrice stenta ancora ad affermarsi con decisione nell’immaginario collettivo, soprattutto, degli istituti di credito. In Sardegna, rispetto ad altre regioni d’Ita-lia, la crescita dell’occupazione femminile è superiore alla media nazionale e questa tendenza è imputabile proprio al settore terziario, il settore su cui le donne puntano per accedere al mercato del lavoro, soprattutto per le garan-zie che ancora fornisce rispetto alla attività imprenditoriale autonoma. Inoltre il lavoro femminile è molto più di quello maschile legato a problemi quali il lavoro nero o lavoro sommerso e quindi il primo passo da compiere è quello di mettere le donne nella condizione di poter realmente scegliere che lavoro fare e con quali modalità. Solo allora il cammino verso la parità potrà dirsi davvero concluso. Le donne sarde stanno esercitando una pressione straordinaria sul mercato del lavoro locale e, nonostante l’attuale tasso di occupazione sia pari a circa la metà del corrispondente dato nazionale, cresce in modo im-ponente il numero delle lavoratrici dipendenti ed autonome, professioniste ed imprenditrici, che danno un apporto, silenzioso ma sostanzioso, allo sviluppo economico del nostro territorio.Il problema per le donne non è solo quello di trovare un lavoro, ma è anche quello di riuscire a lavorare da donna. Ed è soprattutto sul fronte lavorativo che si registra in tutta evidenza la mancanza di un adeguato cambiamento nella distribuzione dei compiti familiari, a fronte di un aumentato impegno di cura e del moltiplicarsi delle attenzioni femminili per la famiglia. Il tema della concilia-zione tra vita professionale, personale e familiare è di importanza prioritaria perché mette in gioco la riproduzione della società e la stessa tutela dei diritti umani. Pari opportunità nel lavoro che cambia vuol dire soprattutto ampliare le possibilità di scelta per tutte le donne, siano esse single o madri e, soprattutto moltiplicare le opportunità per coloro che sono meno istruite e più indigenti.Alcuni dati. In Sardegna il fallimento della grande industria pubblica ha com-portato che il sistema produttivo isolano si componesse quasi esclusivamente da piccole e medie imprese, molte delle quali condotte da donne. Esattamen-

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te il 24% delle imprese sono al femminile e crescono in tutti i settori, compresi quelli tipicamente maschili: +10% nel settore delle costruzioni e + 7% nella intermediazione finanziaria e mobiliare. Un dato importante è che solo il 16% delle donne si rivolge alle banche per il primo finanziamento contro il 60% degli uomini. Le imprese rosa non sempre vengono messe in condizioni di crescere, a causa anche della difficoltà dell’ambiente in cui operano, e i dati ci devono far riflettere perché evidenziano lo scarso contributo alla costruzione di una società migliore e al superamento delle discriminazioni di genere.Tra l’altro la legge 215/92 sull’imprenditorialità femminile è una legge disat-tesa ed una sua modifica risulta quanto mai urgente. La trasformazione da bando a sportello, i progetti in domande e l’innalzamento del contributo e del finanziamento dovrebbero essere i punti fermi della modifica.La difficoltà maggiore si riscontra nella conciliazione fra maternità e lavoro. Il tempo di cura ricade all’80% sulle donne: sono 5 ore e 20 minuti al giorno dedicati al lavoro familiare rispetto ad 1 ora e 35 minuti degli uomini. Dietro gli incentivi che passano sotto la voce razionalizzazione delle strutture pubbliche si nascondono i tagli allo stato sociale, a quell’insieme di tutele e garanzie di cui la famiglia avrebbe bisogno oggi in un momento di crisi e di recessione del Paese. Occorre favorire e mettere in atto politiche attive e di conciliazione dei tempi di vita.Gli aspetti più rilevanti possono essere così sintetizzati:• I servizi alla persona non sostengono adeguatamente le donne nel mercato

del lavoro.• L’organizzazione del lavoro è rigida. L’art.30 della legge regionale

n.20/2005 impegna la regione a sostenere le organizzazioni pubbliche e private che applichino o stipulino accordi contrattuali che prevedono azioni positive per la flessibilità dell’orario o servizi aziendali.

• I carichi di cura ricadono soprattutto sulle donne. E’ ancora ridotta la quota degli uomini che utilizzano il part-time (in Sardegna sono il 6% sul 28% di donne) o utilizzano il congedo parentale (previsto dalla Legge 53/2000). Infatti, il basso livello dell’indennità previsto per legge, pari appena al 30% della retribuzione, e la rigidità della modalità di fruizione, scoraggiano gli uomini e le stesse donne ad usufruire dei congedi.

• I tempi di percorrenza casa-lavoro sono lunghi. La legge 53 prevede che le Regioni, con proprie leggi individuino criteri e procedure per l’adozione da parte dei comuni di piani territoriali di coordinamento degli orari dei servizi pubblici.

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• Le condizioni di lavoro sono meno vantaggiose per le donne.• Le donne guadagnano meno degli uomini. Tra le cause la concentrazione

delle donne in settori produttivi professioni e posizioni di lavoro a bassa retribuzione, orari di lavoro più brevi.

• L’instabilità lavorativa è maggiore tra le donne. Le donne sono spesso assunte con orari ridotti e con contratti di breve durata.

• La difficoltà di fare impresa. Le imprese femminili in Sardegna sono pari al 24% del totale e il loro sostegno è previsto dall’articolo 30 della legge regionale n. 20/2005. Le leggi di incentivazione sostengono le iniziative femminili di impresa sotto il profilo finanziario, ma è necessario prevedere la promozione della cultura di impresa ed anche un’attività di monitoraggio per la valutazione degli interventi.

L’importanza fondamentale del lavoro delle donne per la crescita culturale ed economica della Regione Sardegna impone l’adozione di alcune politiche:

• un ruolo attivo da parte dei Centri Servizi Lavoro (CSL) nella sensibilizza-zione delle donne verso il lavoro, facilitandone l’ingresso nel mercato del lavoro;

• iniziative di sensibilizzazione e di formazione sui temi della conciliazione rivolte al sistema pubblico ed al sistema delle imprese;

• il potenziamento della rete dei servizi pubblici sociali e di trasporto;• occorre ripensare le città ed il territorio al femminile, rimuovendo gli osta-

coli all’incontro tra le donne ed il lavoro;• occorre promuovere azioni positive per la rimozione di qualsiasi politica

discriminatoria all’interno dei posti di lavoro pubblici e privati: infatti la fru-strazione che deriva dalla penalizzazione salariale e dalla discriminazione nell’organizzazione aziendale e nelle prospettive di carriera può agire da deterrente all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro.

Insomma, per concludere, dobbiamo convincerci che la strada è quella di mettere in atto politiche mirate e meccanismi istituzionali capaci di promuo-vere azioni per il raggiungimento di una più equilibrata presenza femminile, riconoscendone diritti, aspirazioni e capacità che porterebbero ad un modello di sviluppo sostenibile. Affinché il lavoro professionale diventi un’opportunità per tutti, le soluzioni vanno cercate su diversi piani: quello del riequilibrio del carico familiare all’interno della coppia (livello privato); quello dell’incontro tra esigenze dell’impresa ed esigenze dei lavoratori (livello aziendale), quello del sostegno finanziario e della diffusione e qualificazione dei servizi pubblici (li-vello pubblico).

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laura PaoniAssessore alle Politiche sociali e giovanili, Pubblica istruzione, Provveditorato scolastico e osservatorio scolastico, Provincia di Sassari

Ringrazio gli organizzatori per avermi permesso, attribuendomi questo ruolo, di porre in evidenza un’altra sfaccettatura del tema che stiamo affrontando. Fino a questo momento abbiamo parlato di formazione professionale, ma è evidente che non si può ignorare la sua contiguità con l’istruzione professiona-le, finalizzata all’acquisizione di un titolo di studio e soprattutto di conoscenze e competenze non solo generali e trasversali, ma anche specifiche in alcuni ambiti. Il titolo di questa iniziativa, “Percorsi di Orientamento” coglie un aspetto fon-damentale rispetto alle azioni indispensabili per un lavoro di riconciliazione tra la scuola, il territorio e la popolazione giovanile ed anche quella non più gio-vanile. Molto brevemente vorrei descrivere la situazione in cui noi ci troviamo. La scuola in questo momento soffre di mali antichi e di mali nuovi. Mali antichi nel senso che il sistema scuola della provincia di Sassari è un sistema scuola arretrato, direi anche anacronistico nei suoi connotati. La sua rivisitazione non è stata facilitata dall’incertezza di questi ultimi quattro anni: gli istituti tecnici e professionali sono stati aboliti e poi ricostituiti, con la caduta del governo Pro-di si è aperta una nuova fase di incertezza, ora pare che vengano riabilitati e rimessi in funzione. Non solo, l’istruzione professionale vive anche l’incertezza che deriva dal fatto che, tra Stato e Regione, non è chiaro a chi appartenga la competenza.L’istruzione professionale nella provincia di Sassari ha tradizionalmente due ambiti. Uno è quello dell’industria e dell’artigianato, l’altro è quello della agri-coltura e dell’ambiente. Abbiamo una dislocazione territoriale periferica, in numero limitato, di istituti professionali che vivono una vita precaria, oggi anche a rischio di chiusura. Infatti il fenomeno dello spopolamento, di cui si è parlato precedentemente, tocca profondamente la scuola, anche se segnalo come dato positivo che questo anno i bambini della scuola elementare sono aumentati. Questi istituti professionali sono marginali e la loro marginalità è data da una serie di fattori che si intrecciano e si rafforzano. Dovremmo affrontare con urgenza il problema della loro qualità e del cambiamento del loro ruolo. E’ evidente che gli istituti professionali e tecnici per l’agricoltura non possono essere ciò che sono stati fino a questo momento. Devono essere pervasi

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da una cultura nuova, ad esempio quella che si stava delineando qui nella molteplicità dei suoi aspetti, devono offrire una sostanza e un’immagine di sé completamente diversa, devono cioè essere attrattivi verso fasce di popola-zione scolastica che non siano soltanto anche esse marginali ed in difficoltà e, insieme, essere in grado di offrire a chi è marginale e in difficoltà la possibilità di compiere un miglioramento reale delle sue qualità e delle sue potenzialità di vita, direi, oltre che di cultura e di capacità. Tutto questo quindi, tutto ciò che è stato detto oggi, dovrebbe tradursi in percorsi di orientamento rispetto alla scuola e alla popolazione giovanile per-ché solo l’offrire prospettive di futuro realmente praticabili, realmente tali da modificare anche un sistema valoriale e di principi oggi fortemente in crisi, o almeno molto fragile e in difficoltà, soltanto questo può intervenire su una frat-tura che rischia altrimenti di consumarsi in maniera irreversibile tra le nuove generazioni e l’istruzione stessa. Questo è il problema di fondo e può essere affrontato solo lavorando su un’offerta che sia concreta e capace anche di interferire con modelli che oggi sono pervasivi se non vincenti. Quanto qui è stato proposto, così affascinante e ricco di implicazioni rispetto alle prospettive di vita, comporta comunque l’adozione di modelli di comportamento e di modelli di vita faticosi perché fondati sullo studio, sul lavoro, sulla capacità di vivere una vita di istruzione e di ricerca continua. Tutto questo va proposto e tradotto in un linguaggio che sia accessibile anche ai giovani ed ai ragazzi. Perciò questa occasione è particolarmente importante: permette di porci insieme il problema del come possano cooperare i centri di ricerca, le agenzie preposte a queste temati-che, le amministrazioni. Una grande sfida perché il lavoro di rete di cui tanto si parla ancora non c’è per responsabilità delle amministrazioni,ma anche per responsabilità culturali complessive rispetto a qualcosa che occorre concet-tualizzare e tematizzare. Questa occasione infine permette alla amministrazione a cui appartengo sia di far conoscere le difficoltà in cui si trova il sistema scolastico, sia di mani-festare la disponibilità e il desiderio di lavorare e collaborare con tutti coloro che in questo ambito danno prova di capacità e di competenze veramente importanti. Quello della istruzione è un ambito oscuro, poco conosciuto nei suoi connotati reali, ma nasconde al suo interno problematiche drammatiche. Molte scuole del territorio rischiano di sparire e non abbiamo concordato come collettività cosa vogliamo per il nostro sistema formativo. Per questo inserisco anche questa tematica nella riflessione odierna.

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Incontri e confronti con i territori

luciano boninoStilista

Cultura, storia e tradizioni tessili tra creatività e contaminazioni

Ringrazio per l’invito anche perché il tema di questo convegno mi è abbastan-za caro. Alleggerirò la mia storia omettendo vari anni della mia esperienza professionale, quest’anno festeggio i 40 anni di attività, parlandovi solo di quelli direttamente rilevanti in questo contesto. La mia prima esperienza lavorativa risale ai primi anni ’70 quando, giovanissi-mo, fui ospitato per uno stage, anche se allora non si chiamava così, presso alcune case di moda francesi (in quegli anni eravamo ancora realmente nello spirito degli atelier). Subito dopo, nel 1972, fui convocato dalla casa di moda di Sergio Soldano, che in quel tempo si occupava di pellicce e l’esperienza che vissi fu l’incontro con tutto quello che era la creatività di moda nascente in quel momento - all’epoca la parola stilista non esisteva, si parlava solo di creatore di moda - un incontro che per me ha significato l’avere avuto a dispo-sizione un pubblico ed un laboratorio in cui ho potuto iniziare la mia ricerca personale. Davanti alla necessità di disegnare una collezione di pellicce, cosa che non rifarei più perché ora dal punto di vista morale mi è inconcepibile, recuperai, in mezzo ad una serie di pellicce, del Swakara (l’acronimo di Star West African Karacul, un piccolo agnello persiano) e partendo da questa pel-liccia e con degli avanzi di ricami indiani realizzai delle giacche. La cosa ebbe molto successo ed infatti ci fu un’ondata di queste due realtà messe insieme. Rientrato a casa per motivi di studio, all’epoca studiavo filosofia, aprii un ate-lier a Cagliari. Era il 1973. Nel mio primo articolo in cui mi occupavo della Cagliari della moda, edito in un libro sulla città di Cagliari dal titolo “Artigiani di Cagliari”, scrivevo: «Non vi è alcuna differenza tra l’artigiano e l’artista». Erano esattamente le parole di Walter Gropius, quelle che fecero nascere il Bauhaus, il fenomeno che ha trascinato tutto il novecento tessile e che purtroppo fu di-sperso dal nazismo. Mi permetto di dire, però, che allo stesso tempo questa dispersione è stata utile perché il seme di questa tessitura particolare si è dif-fuso in tutto il mondo grazie ai sopravvissuti. Voglio partire da questo pensiero allora espresso e ancora oggi per me valido, legandomi a tutta la diatriba che dura ancora, legata alle definizioni di artigiano e di artista: nella mia carta di identità non c’è scritto stilista ma c’è scritto artigiano. Tengo profondamente

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a questo perché parto da un principio: chi fa qualcosa deve saperla fare. La mia ricerca stilistica dell’epoca riguardava la tradizione sarda. Il mio primo approccio col tessuto plissato deriva dal fatto che trovai in un vecchio ma-gazzino di Cagliari quattro pezze di un tessuto plissato da cui sono partite le gonne sarde e, sempre nello stesso filone, ricordo che realizzai una giacca cardigan con le frange da una partita di scialli di bouclé, quelli che nei paesi si chiamano “su sciallu de ispugna”. Oggi mi piacerebbe trovare qualcuno che mi facesse ancora quel bouclé senza dover essere costretto a tagliare gli scialli. Fin da subito, decisi che l’atelier sarebbe stato semplicemente il posto in cui con una sarta (non parlo di premiere perché non me lo potevo nè posso per-mettere) avrei prodotto i prototipi e avrei cercato dei confezionatori esterni per realizzare i prodotti; si trattò, quindi, di andare in giro per la Sardegna a cercare manodopera tra le grandi opportunità che allora esistevano. Decisi di portare queste creazioni, sempre utilizzando dell’artigianato esterno, per la prima volta al prêt a porter di Parigi e devo dire che, come sempre capita, fare il pioniere fu molto faticoso. Incontrai tutta una serie di difficoltà - i finan-zieri, ad esempio, non sapevano cosa volesse dire fare un carnet di espor-tazione - comunque superate con un certo successo, soprattutto per quanto riguarda le ordinazioni. Ma, ecco il cahiers de doleances, quasi mai queste ordinazioni si poterono evadere a causa della mancanza della materia prima che arrivava dal continente e per l’inaffidabilità di molti dei lavoratori esterni. Nell’’83 mandai una delle mie prime creazioni sarde con dei bottoni di argento a un gruppo milanese, Contempore, che si occupava di ricerca nelle colle-zioni, ma la mia collezione fu bocciata in quanto ritenuta molto folcloristica. Nell’’84 decisi, insieme ad un gruppo di persone, di creare un consorzio di esportazione che poi non andò a buon fine per tutta una serie di questioni burocratiche. All’Hotel Excelsior di Roma, davanti a un’esterrefatta Chiara Sa-mugheo, presentai alcune collezioni di abiti ispirati alla tradizione col costume sardo tradizionale e fui anche sgridato dalla signora. Oggi, se la ritrovassi, avrei motivo di sgridarla io, perché mettendo in ordine il Museo di antropolo-gia di Monserrato ho scoperto che la signora, per fare le fotografie del bellis-simo “Vanità di Sardegna” di Franco Maria Ricci si permise di correggere col pennarello abiti che avevano circa 200 anni. L’ho scoperto perché il pennarel-lo, distendendosi sul tessuto, ha creato una specie di maculatura nella gonna. Continua la ricerca, un’altra mia collezione si chiamava “Africando” in cui uti-lizzai sempre dettagli sardi però con materiali diversi da quelli tradizionali, c’erano la rafia, le perline etc.: scoprii dopo molto tempo che era già stato

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fatto da Yves Saint Laurent.Dopo la chiusura del primo atelier e l’apertura della boutique, nel 1987 ci fu la presentazione dell’atelier di via Azuni che nacque anche come luogo per presentare eventi, collezioni d’arte o altro. Uno spazio tutt’ora aperto per chiunque me lo chiedesse per degli eventi, compresi quelli di artigianato. La prima mostra interamente sarda si chiamava Trame di Luce (1989) e per realizzarla occupammo una serie di case di Gavoi. Siccome stiamo parlando di luoghi che si spopolano, devo dire che queste case erano assolutamente abbandonate; molte di esse, compresa la caserma dei carabinieri, riuscii a farle acquisire al comune di Gavoi che in seguito le ha utilizzate per il famoso festival letterario. Nel 1990, per Isole ’90, a piazza del Carmine a Cagliari, presentai lo stesso abbinamento: abiti tradizionali della Sardegna con le mie creazioni. In questa collezione ispirata alla moda sarda ci fu l’intervento di Gino Latini, un grande artigiano dell’argento, con dei bottoni d’argento, “sa buttonera”, che presentai anche alla Biennale dell’Artigianato di Sassari. Un altro percorso di creatività è quello con abiti ispirati alla Sardegna: la mia parte si chiamava “La tela di Aracne”. In questa mostra portai anche un te-sto di Anna Del Bo Boffino, che introduce un libro sul tessile, dal titolo “Bello quotidiano”. Accenno solo ai primi due passaggi per lasciarvi il piacere di leggerlo personalmente: «lo scenario della vita quotidiana in ogni tempo e cul-tura è fittamente intessuto di oggetti utili o decisamente ornamentali destinati a creare bellezza a dare piacere a chi li guarda, li tocca, li indossa. Questo Bello quotidiano è quasi sempre opera delle donne che l’hanno prodotto con un paziente lavoro di mani e di fantasie alternandolo al lavoro domestico e di cura familiare». Siamo alla conciliazione.E’ del ’92 la presentazione della mostra che si chiamava “Cerdeña Isla de colores” in un bellissimo spazio che era l’Expo di Siviglia. Devo dire che ho sempre preferito alla sfilata, che oggi va molto di moda, un allestimento in cui ai vestiti si può girare intorno, osservarli da vicino, vedere la qualità dei vestiti senza che siano affidati ad un manichino umano che ne può addirittura stravolgere il significato. Un mio piccolo passaggio da docente è stato quello fatto presso l’Istituto Europeo di Design di Cagliari, dove ho insegnato “Costume cinematografico”. Istituto che purtroppo ha avuto una vita molto breve. La scelta di insegna-re costume cinematografico derivò direttamente dalla mia prima esperienza

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presso la casa di moda di Sergio Soldano. La sede di Sergio Soldano nel ’73 era in Piazza Capitelli, se guardate il film “Gruppo di famiglia in un interno” la terrazza in cui si affaccia Silvana Mangano è la terrazza del nostro atelier. Gli abiti del film erano assolutamente moderni e ogni vestito era combinato con il gioiello: c’erano delle scollature preparate apposta perché la gancera avesse un buco architettonico, c’erano dei fiocchi sulle asole, etc.Passiamo alla fase che più mi interessa, il convegno di Bestimentas dove ho condotto una vera battaglia per evitare di relegare l’abito tradizionale al solo folklore. Il sottotitolo era “Mostra di abiti tradizionali ed arte sartoriale in Sar-degna”, fu realizzato anche un evento a Solarussa dal titolo “Origini stilistiche e fogge dell’abito tradizionale della Sardegna”. A Bestimentas, già da allora, presentai insieme agli abiti tradizionali la loro destrutturazione, compresi i cartamodelli. Questo per cercare di far capire che l’abito tradizionale sardo ha una architettura molto complessa e il dividerlo nelle varie parti che lo com-pongono fa capire esattamente come la struttura viene creata. Tale idea la condivido e la porto avanti ancora oggi, ritengo che si parli conti-nuamente di modernità e di tradizione, ma che non ci sia una reale e precisa conoscenza della tradizione, per cui la modernità diventa una minigonna di orbace. Conoscere la tradizione, e questo credo vada applicato a qualunque oggetto di artigianato di cui si parla, è alla base del rinnovare o del farne un progetto moderno, solo allora il tessuto e l’innovazione della tradizione può diventare crescita e sviluppo economico. Un altro aspetto che voglio considerare è quello della tintura naturale. Par-tecipai ad un evento organizzato a Samugheo in cui intervenne Rossella Ci-lano, rappresentante dell’Associazione di Tintura Naturale Maria Elda Salice di Milano, con un contributo dal titolo “Tingere naturale oggi. Presentazione dell’esperienza naturale”. Era presente anche Leonardo Cappelletti dell’istituto Battelle con una relazione dal titolo “La ricerca scientifica nella colorazione naturale” e ci fu anche un intervento del Consorzio 21 “Rapporti tra impresa ed innovazione tecnologica”.Passiamo da un convegno tenutosi a Collegno che si chiamava “Filo lungo un nodo si farà, storie e leggende dell’artigianato tessile”; e continuiamo con una mostra, e questa era una mia selezione di manufatti per la collezione Manconi-Passino, che rappresenta il mito della tessitura: il filo di Arianna, quello che porta alla luce dal labirinto del buio e che sempre si rappresenterà nella tradi-zione della tessitura. Del 2002 è una ricerca sulla tintura naturale sempre con l’Associazione Elda

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Salice. Del 2003 è l’esperienza di Atzara in cui, grazie alla comunità, siamo riusciti a mettere insieme la raccolta delle erbe e il racconto orale. Le signore del posto ci hanno raccontato quali sono le erbe tintorie o officinali, i loro nomi in sardo, il loro utilizzo. A proposito di modernità, ci fu un aneddoto molto divertente: ad una signora che ci raccontava delle erbe e delle loro proprietà, l’antropologo di Torino, incaricato della registrazione e delle interviste, doman-dò come fosse venuta a conoscenza di queste cose, se si trattasse di una tradizione orale del paese. “No - rispose la signora – ho il libro di Mességué”; da lì la signora aveva preso una parte del suo discorso. E’ del 2003 una pubblicazione della Ilisso “Costumi” che finalmente scalza tutti i luoghi comuni precedenti rispetto all’abito tradizionale della Sardegna. L’abi-to tradizionale ha delle complicanze e solo uno sguardo esterno ed esperto riesce a capire l’originalità e l’origine senza doverla per forza far ricadere in una tradizione orale spesso falsata. Nel mio contributo al testo presento l’inizio di una ricerca sui tessuti tradizionali della Sardegna ispirati dalla moda e che inizia nel ‘54 con i tessuti disegnati da Eugenio Tavolara e da un ente re-gionale allora molto attivo che si chiamava ESVAM - Ente Sardo Valorizzazione Artigianato e Moda. Fu chiamata una grande giornalista, Maria Corsini, furono chiamati grandi stilisti, cominciò Cappucci nel ‘51 a Cagliari, a venti anni, con una sfilata ispirata ai costumi della Sardegna. Questi lavori in parte esistono ancora e fanno parte dei fondi inalienabili dell’ISOLA. Inoltre, e sono lieto di poterlo comunicare qui per la prima volta, a giugno a Firenze alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti, inizia una mostra intitolata “La Sardegna veste la moda”. Vorrei fossimo tutti orgogliosi di questo avvenimento: quei vestiti che nel 1954 fece Tavolara finalmente oggi vanno in un museo nazionale. E’ del 2005 un invito dell’assessore alla cultura del comune di Cagliari per uno scritto sul libro “Comadres. Segni di Spagna in Sardegna”: il mio intervento si chiama “Due mondi in un ordito”. Due mondi in un ordito perché nel mito clas-sico il mondo è rappresentato dal telaio, l’ordito rappresenta l’unione dei mon-di mentre la trama è il percorso temporale. Le trame si uniscono, quindi, e il mondo spagnolo ed il mondo sardo si uniscono con questa trama temporale data dall’arrivo di un manipolo catalano-aragonese nel 1323 che dura per 400 anni. Questa permanenza ci lascia la loro cultura e tutta una sovrastruttura degli abiti tradizionali sardi che non è possibile raccontare ora, ma pensiamo, per esempio, al “trache de agua de Occiavia”, quindi queste gonne plissate di orbace (qui potremmo aprire un altro varco: l’orbace non è tradizionale sardo, è un diagonale di lana che esiste in tutto il mediterraneo, esiste in Grecia,

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esiste in Puglia nonché in Calabria). La presenza degli spagnoli ci ha lasciato molte parole, come la parola mantiglia, e molti costumi: c’è una foto antica, per esempio, in cui noi sardi vediamo raffigurata una donna di Iglesias ma invece ritrae una donna di Roncalli con un costume assolutamente identico in tutte le sue particolarità a quello di Iglesias. In seguito fui invitato a Nule per la prima edizione del Tappeto d’Artista, l’edi-zione più romantica ma anche quella in cui gli equilibri ancora si devono cre-are, in cui bisogna conoscersi ed abituarsi a lavorare insieme, unire le idee verso un obiettivo comune. Dei problemi sono apparsi insuperabili e delle richieste irraggiungibili, per esempio: non avrei voluto la frangia nel tappeto ma abbiamo dovuto tenerla per un problema tecnico; l’ordito è in cotone e non in lana anche se per fortuna la tessitura a stuoia lo ricopre completamente e non si nota; non è stato possibile avere delle lane colorate con le erbe tintorie. Il lavoro che presento oggi si chiama “Tappeto della vita”, un tappeto che in generale dovrebbe essere quello di tutte le vite, ma che è sopratutto quello della mia vita. Inizia con un filo rosso, il famoso fil rouge della vita francese, che attraversa tutta la tessitura e con una parte tutta nera che rappresenta il tessuto e l’orbace nero della tradizione sarda ma anche l’archetipo della tes-situra con i due tessuti primari. Ho anche ripreso la tradizione molto povera del tappeto “de stracciu”, cioè l’uso dei fiocchetti di tessuto da cui si facevano i tappeti poveri di un tempo (che è come il pezzotto valdostano ma senza fiocchetto che si solleva). I primi tessuti rappresentati sono i tessuti della mia infanzia, sono i pezzetti di tessuto delle cravatte di mio babbo, sono i pezzetti di seta dei vestiti di mia mamma, delle zie etc.. Ho preso come ispirazione quella che un tempo era la coperta da sposi, il quilt americano, che partiva da un centro dove veniva posto il pezzo di tessuto più antico che la famiglia possedesse e intorno a questo centro si cucivano tutti i tessuti che ne narra-vano la vita e le vicende. Il secondo passaggio è una coppia, un maschio ed una femmina che si prendono per mano con un fondo nero alle spalle. In quello che sembra uno sfondo omogeneo ci sono tre passaggi di neri e tre passaggi di azzurro e la coppia rappresentata è assolutamente uguale a quella di “Su ballu” di Eugenio Tavolara della quale ho avuto la fortuna di trovare i cartoni dei disegni all’interno dell’ex Centro pilota dell’ISOLA di Nule. Sotto c’è il passaggio che rappresenta l’infanzia, sono praticamente pezzi di lenzuolino e di tutine, quindi, organza, tessuti celesti e fiocchetti. Il terzo pas-saggio rappresenta la terra, perciò sono presenti i marroni e le terre bruciate, un colore creato con quattro diverse lane. Il pezzo immediatamente sotto è

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un ingrandimento di un piccolissimo motivo decorativo di un tappeto sardo, quindi un macrodisegno, che vuole rappresentare la sintesi della tradizione ma vuole anche mostrare che si può essere moderni senza tralasciare la tra-dizione stessa. Sotto inizia la storia della moda e del lavoro: è tutto un susse-guirsi di fiocchetti di tessuti optical, quindi i bianchi e neri, c’è un passaggio di bianco, c’è il passaggio azzurro, anche questo fatto con quattro colori diversi, e poi c’è il lavoro rappresentato da una tela olona, da una tela spazzino e da una tela Jeans. Si evoca, poi, la parte che riguarda il mio lavoro con gli abiti tradizionali sardi, la striscia è composta da piccoli pezzi di tessuto plissato viola, marrone e nero che sono quelli delle mie collezioni sarde. L’altra banda è quella che le tessitrici chiamano “sa mustra de su broccau”. Anche in questo caso ho trovato al Centro Pilota il cartone con il disegno originale del tappeto “su broccau” e l’ho fatto rappresentare come era all’origine (sviluppando il disegno si ottiene quasi un broccato rinascimentale perché i disegni raffigu-rano un melograno tipico del periodo). La parte sottostante è un omaggio al paese che ci ospitava e trattandosi di Nule ho fatto inserire la nota fiamma. Normalmente essa viene realizzata in orizzontale, invece in questo caso è stata tessuta in verticale e affiancata da tessuti che sono tafetà arancio, verdi e viola (gli stessi colori della fiamma) di una collezione ispirata a Desulo: un accostamento assolutamente moderno. Da qui ricomincia il fil rouge della vita che finisce con un gomitolo di lana. Devo dire che io, Piero Zedde e Nietta Condemi siamo stati gli unici ad essere andati dalle artigiane che tessevano per assistere alla nascita e alla crescita dei nostri tappeti: e siccome la tessitura è paragonata alla scrittura, posso dire di avere visto la scrittura del tappeto della vita. Cosa voglio dire con questo? Molto spesso l’artigiano e l’artista si criticano a vicenda, però se l’artigiano e l’artista si incontrano con i loro saperi, con il rispetto reciproco e decidendo l’uno di prendere dall’altro quello che la tecnica o la tradizione offre, si trova un connubio altamente interessante. Io ho imparato dalle tessi-trici e spero che loro abbiano imparato da me. Questo tappeto voleva, inoltre, essere un esempio di quello che può essere fatto, perché da ogni mostra, da ogni striscia di esso possiamo ricavare un tappeto unico, una sorta di tappeto indicativo che le stesse artigiane, a cui io l’ho affidato, ora lo possono ripro-durre come meglio desiderano.

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franceSca MurruResponsabile Settore Servizi Reali (REA), Agenzia Regionale Sardegna Ricerche

Le politiche di innovazione per i settori tradizionali

Le problematiche che la collega dell’Ibimet ha esposto all’inizio della mattinata sono quelle alle quali anche Sardegna Ricerche cerca di dare una risposta. Sicuramente la dimensione delle imprese che fanno parte del comparto arti-gianale e dei comparti tradizionali in generale, di cui mi occupo all’interno di Sardegna Ricerche, è uno dei vincoli alla crescita dell’economia nel settore. 76 ditte individuali, il numero dato dal dott. Pili, significa per noi che doman-diamo alle aziende di aderire ai nostri progetti e di partecipare alle riunioni, chiedere agli imprenditori di chiudere la bottega e di non lavorare e di non avere quindi una fonte di reddito per quel giorno. Questo chiaramente è già di per sé un handicap così come lo è la commercializzazione, tuttavia prima di tutto bisogna pensare alla produzione. E’ evidente che non si può pensare alla commercializzazione del prodotto dove ci sono delle carenze a monte, a livel-lo produttivo, inutile pensare di affrontare delle fiere, di affrontare il mercato che va al di là del territorio regionale, se poi non si è in grado di rispondere agli ordini di un ipotetico cliente. A queste criticità noi cerchiamo di rispondere realizzando dei progetti per sistemi di impresa, questo anche per sopperire alla scarsa propensione al lavoro in rete. Portiamo avanti dei progetti con i quali cerchiamo di mettere insieme aziende di uno stesso comparto o di una stessa filiera e di affrontare congiuntamente le tematiche comuni. Le tematiche stesse sono la premessa per fare in modo che le aziende si conoscano tra di loro, dialoghino e trovi-no delle soluzioni comuni. Le nuove collezioni create dai progetti sul tessile e sull’oreficeria avevano l’obiettivo non tanto di creare una nuova collezione quanto l’intenzione di fare sistema, creare una struttura di rete, fare in modo che le imprese imparassero ad affrontare i problemi in maniera congiunta. Questo, secondo Sardegna Ricerche, è uno dei metodi attraverso i quali si possono superare criticità quali, prima tra tutte, la dimensione estremamente ridotta delle imprese che origina problemi di natura produttiva e di natura commerciale. Un altro sistema è lanciare nel mondo il “Made in Sardegna”, su questo sono d’accordo con il dott. Pili. Di recente abbiamo realizzato un progetto sull’agro-

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alimentare, nel quale, su stimolo di 52 imprese che hanno aderito al progetto, abbiamo intervistato, nel corso della stagione estiva scorsa, 2000 turisti che lasciavano il territorio regionale a conclusione di una vacanza in Sardegna. Molti di loro ci hanno detto “vengo in Sardegna perché ho amici sardi” o “ven-go in Sardegna accompagnato da amici sardi che mi hanno parlato della re-gione”, o “che mi hanno parlato del prodotto tipico e dell’artigianato artistico e voglio conoscerli”. Il problema però è che il prodotto artigianale, il prodotto tipico e tradizionale difficilmente riesce a raggiungere questo ulteriore mer-cato e si tratta di un mercato che si crea nell’isola nei mesi estivi, per il quale non c’è neanche il bisogno di varcare il Tirreno, e quindi raggiungibile a costo quasi zero. Questo accade perché purtroppo ci sono degli scollamenti tra le varie filiere, ci sono degli scollamenti tra il settore turismo, il settore artigiana-to e il settore dell’agroalimentare che insieme, invece, potrebbero creare delle sinergie. Qui si tratterebbe anche di fare rete, di fare sistema anche a livello degli stessi comparti, così come io credo e spero che questa giornata possa essere l’occasione per fare sistema anche tra le varie agenzie ed istituzioni pubbliche che si occupano di queste tematiche e che spesso non dialogano tra di loro. Nel caso specifico del settore tessile, stiamo conducendo un progetto che coinvolge diverse aziende. Esso prevede un nuovo prodotto ma soprattutto un nuovo approccio alla creazione dello stesso perché si deve aver la capa-cità di lavorare in gruppo. In realtà già dalla scorsa stagione estiva abbiamo confezionato e commercializzato una collezione di abbigliamento “Made in Sardegna” e ci piacerebbe a questo punto lavorare in partnership con chi poi si dovrà occupare della commercializzazione. Vorremmo fare un lavoro sulla filiera e in particolare sulla filiera della lana dove abbiamo già iniziato, anche in collaborazione con l’Ibimet, un lavoro di ricerca e ci piacerebbe avere a questo punto il supporto dell’ente più vicino all’agricoltura per fare in modo che si riesca a trovare delle collaborazioni anche con il settore agropastorale per cercare, se possibile, di arrivare a dei miglioramenti del prodotto anche a partire alle origini (esempio con la cura del capo, il lavaggio della pecora, etc.), oltre che con le lavorazioni.Vorrei anche portarvi alcuni dei risultati dai noi raggiunti, in particolare due progetti che riguardano tematiche vicine a quelle che stiamo affrontando oggi: uno dedicato al settore dell’oreficeria e l’altro al settore tessile. La metodologia adottata per entrambi è molto simile: abbiamo, attraverso dei bandi, chiesto alle aziende che lavorano nel settore se volevano provare insie-

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me a noi a risolvere delle tematiche. Con il settore dell’oreficeria abbiamo la-vorato diversi anni alla realizzazione di un prodotto nuovo che potesse meglio rispondere ai gusti di un mercato internazionale. Il risultato ha portato persino al deposito di brevetti: infatti grazie al supporto di un architetto sono stati progettati dei pezzi di oreficeria realizzati completamente a mano attraverso l’utilizzo di sistemi modulari. Questi sistemi consentono, da una parte, l’abbat-timento dei costi in quanto i singoli moduli non devono più essere saldati ma semplicemente e meccanicamente agganciati gli uni agli altri e, dall’altro, un miglioramento quantitativo della produzione. Inoltre per i clienti è quasi come acquistare una scatola di Lego e possono giocare a creare ogni volta il loro gioiello. Le cinque imprese che hanno collaborato al progetto si ritrovano un prodotto altamente innovativo anche se ora , purtroppo, necessitano di un supporto promozionale per la commercializzazione. Per le aziende del settore del tessile, che all’inizio erano 28, il percorso è stato sostanzialmente analogo e si è partiti dalla proposta di creare una nuova collezione. Anche qui, ripeto, non tanto con l’intento di avviare una produzione quanto con la volontà di creare dei rapporti tra le imprese (paradossalmente, imprese che lavorano nello stesso comparto e fanno lo stesso lavoro non si conoscevano nonostante spesso avessero la sede legale dell’azienda nello stesso comune) e di portarle a ragionare in un’ottica di rete. Molti incontri sono stati necessari perché ci si conoscesse e si iniziasse a collaborare per la creazione del prodotto che doveva essere frutto di una sorta di contamina-zione tra artigianalità diverse. Anche in questo caso lo scopo è stato non tanto stimolarli dal punto di vista della creatività e del design, quanto far capire che spesso l’unione fa la forza. Il risultato è che all’inizio della stagione estiva dello scorso anno alcuni degli artigiani partecipanti al progetto hanno dato vita ad una società consortile spontanea, con la quale è stata commercializzata la collezione di abbigliamen-to nata nell’ambito del progetto, all’interno di un punto vendita dedicato che Sardegna Ricerche è riuscita ad avere a seguito di una partnership con il Forte Village. IS, Immaginazione Sardegna, è il marchio commerciale dell’intera col-lezione. Questo ci ha permesso a costo zero di approcciarci ad un mercato internazionale (all’interno del Forte Village transitano turisti con una fascia di reddito decisamente alta provenienti da più o meno tutte le parti del mondo) e di contare su un test commerciale che ci ha consentito di capire meglio quali strade percorrere in futuro. Contemporaneamente abbiamo lavorato con l’Ibimet per una ricerca sulle pro-

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prietà delle colorazioni naturali. Un tema sicuramente molto interessante, ma la colorazione naturale nell’isola viene eseguita a livello assolutamente artigia-nale, locale, direi familiare e difficilmente si può poi applicare su produzioni ampie. Se anche tutte le aziende che lavorano in Sardegna volessero utilizza-re le tinture naturali, di fatto non potrebbero farlo, quindi anche qui riteniamo ci siano spazi per fare dei ragionamenti comuni. Ancora, abbiamo fatto un lavoro di riscoperta dei tessuti tradizionali e delle tradizioni. Abbiamo per esempio scoperto che ad Orgosolo c’è ancora una si-gnora che alleva il baco da seta e da esso ricava un filo di seta che utilizza per fare i copricapo del costume tradizionale locale. Un’altra bellissima storia che però potrebbe trasformarsi, se la produzione, a seguito del trasferimento da parte della signora del suo saper fare, raggiungesse una soglia accettabile. Le prospettive. Nell’ambito del progetto sono nati diversi spunti per progetti futuri tra cui quello di lavorare sulla filiera; sui miglioramenti anche qualitativi del materiale perché il nostro orbace è affascinante ma non è diciamo con-fortevole; sulla scoperta di vecchi materiali come per esempio la seta; sul design, abbiamo appena bandito un concorso per la ricerca di giovani creativi per cui speriamo di trovare qualche giovane da incoraggiare; sull’organizza-zione: spesso all’interno di questi progetti facciamo formazione con l’obiettivo di creare un po’ di quella cultura di impresa che è carente nelle piccole e micro imprese del nostro settore. Tutti questi ragionamenti cerchiamo di portarli avanti con grandissima fatica. Non è semplice lavorare sul territorio in quanto spesso significa perlustrarlo fisicamente, perché non possiamo pretendere che l’imprenditore venga ogni volta da noi perché questo, come abbiamo detto prima, significherebbe chiu-dere la bottega. Non è semplice lavorare sul territorio perché significa cerca-re di abbattere quei limiti culturali che abbiamo tutti. Al momento anche noi Agenzie dobbiamo imparare a lavorare insieme, anche noi abbiamo quel limite culturale esattamente come gli imprenditori. Bisogna però cercare di fare que-sto sforzo e imparare a lavorare congiuntamente per la soluzione di problemi che poi, alla fine, riguardano tutti e la soluzione dei quali va egualmente a be-neficio di tutti. Chiudo perciò questo mio intervento auspicando una maggiore cooperazione, un maggiore approccio di networking come si dice in inglese, e auspicando che, ispirandomi al titolo, questi nuovi intrecci per uno sviluppo sostenibile non siano lasciati soltanto agli imprenditori.

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Interventi programmati e dibattito

rinalDo baGella Imprenditore

Gestisco un negozio di abbigliamento a Sassari. Il nostro era, fino ad una decina di anni fa, un negozio tradizionale che siamo riusciti a riconvertire in un punto vendita specializzato in abbigliamento sardo. Vorrei riallacciarmi al di-scorso della Dott.ssa Murru in cui si accennava alla difficoltà nel trovare punti di distribuzione destinati a questi articoli. Penso che proporre determinati arti-coli all’interno di contenitori istituzionali non sia assolutamente funzionale allo scopo. Secondo il mio parere, per esempio, l’ISOLA rassomigliava più ad un museo che ad un negozio. Credo che sia importante, invece, fidelizzare ne-gozi e boutique che hanno intenzione di intraprendere questa strada perché la vendita di certi articoli deve essere molto curata: non deve essere fredda, non deve essere realizzata in spazi troppo grandi e deve essere costante-mente seguita da vicino. In altre parole, ritengo che la collaborazione tra le istituzioni e gli operatori del settore debba essere vista nella prospettiva di un miglioramento del tessuto sociale ed economico della nostra isola che sia finalizzato alla migliore promozione dei prodotti artigianali da parte degli operatori coinvolti, ma che non debba andare nella direzione della promozione diretta e un pò distaccata da parte del settore pubblico dell’abbigliamento e dell’artigianato locale. Per questo, ritengo che l’Agenzia Sardegna Promo-zione recentemente costituita si debba impegnare nella individuazione delle aziende che abbiano intenzione di colmare questa carenza.Il marchio di cui ha parlato l’assessore Sannitu è fondamentale perché servirà a proteggere i nostri prodotti da quelle che possono essere ingerenze esterne da cui bisogna ben guardarsi: è molto facile copiare come già avviene per tappeti e altri capi. Penso, però, che sia importante garantire con un marchio anche il prodot-to confezionato legato all’abbigliamento. Per esempio, noi vendiamo capi in velluto che devono essere garantiti da un marchio ufficiale che ne assicuri l’autenticità e la tracciabilità, che assicuri che l’abito è stato creato in Sarde-gna secondo determinati canoni. Per il turista che viene in Sardegna e che compera uno zaino, un vestito in velluto o delle scarpe ci deve essere una garanzia che il prodotto è stato fatto qui e non altrove.

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Incontri e confronti con i territori

Inoltre, perché l’interazione tra i vari settori dell’artigianato sia reale, è fonda-mentale che vengano organizzati degli incontri come quelli di oggi, in cui si abbia il modo di dialogare e magari venire a conoscenza di realtà che non ci erano note. Questo può avvenire, probabilmente, anche aiutando le aziende che lavorano in questi settori a migliorarsi da un punto di vista tecnologico, per l’acquisto di saperi che riguardano internet e il modo di comunicare. Que-sto faciliterebbe, infatti, la comunicazione reciproca e permetterebbe di farlo anche in modo veloce perché è importante poter avere un riscontro immedia-to nel momento in cui si ha bisogno di un riassortimento dei capi, avere lo scambio delle immagini dei modelli del prodotto. Questo potrebbe permette-rebbe altrettanto velocemente anche la commercializzazione.

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Marina ManGhinaLANES Cooperativa produzione lavoro

Mi chiamo Marina Manghina e sono la presidente di questa piccola cooperativa di Chiaramonti. LANES è l’acronimo di Lavorazioni Artigianali Naturali Ecoso-stenibili della Sardegna. E’ un progetto del LEADER II, nato voluto e sostenuto dal GAL Anglona Monte Acuto che, nell’ambito di un progetto transnazionale, attivò una azione di valorizzazione delle lane autoctone. Il progetto cercava di trovare una nuova collocazione a quello che allora, forse oggi un po’ meno, veniva considerato un rifiuto speciale, la lana, che spesso non veniva raccolta ma anzi veniva addirittura sotterrata nei terreni adiacenti la tosatura. Il Programma LEADER ebbe allora la lungimiranza di prevedere qualcosa che potesse recuperare questo rifiuto e allo stesso tempo far ritornare e valorizza-re alcune lavorazioni tradizionali, come quella dell’orbace che veniva utilizzato nei tempi antichi per il costume sardo e per i vestiti da lavoro o addirittura per delle coperte. Furono coinvolte alcune persone e artigiani e ditte che lavoravano nel settore per studiare un progetto che prevedesse, a partire dallo studio, dalla ricerca scientifica, dalla analisi della lana di pecora sarda un prodotto finito che fosse, sì, lo stesso orbace, lo stesso tessuto antico, ma con peculiarità moderne. La ricerca venne effettuata dall’istituto Rivetti di Vercelli e tutta la parte di studio della fibra tessile, della sua lavorazione e del suo adattamento a specifiche utilizzazioni, come quelle progettate, furono effettuate dal lanificio Piacenza di Biella (lo conosciamo tutti ed è famosissimo per il suo cachemir). Il Progetto era transnazionale quindi coinvolgeva, oltre al nostro GAL, anche un Gal del Piemonte, un Gal delle Marche e un Gal della Spagna. Ognuno di questi Gal portò una certa quantità di lana che analizzata, lavata, tessuta e trattata e colorata con tinture naturali venne utilizzata per la creazione di un campionario, il cui pezzo più importante era il Plaid del Giubileo. Era il 2000 e si voleva un prodotto particolare che si potesse utilizzare ma che fosse anche un riferimento per il periodo, e si pensò al Plaid del giubileo. Lo spunto erano i pellegrinaggi a Santiago di Campostela, perciò fu creato in modo che lo si potesse arrotolare e con delle corde portare sulle spalle, così come si faceva anticamente nei vari percorsi di pellegrinaggio. Questo progetto fu portato avanti e promosso in tutte le regioni e le nazioni coinvolte, i prodotti furono anche portati in Inghilterra dove il plaid riscosse un discreto successo. Ne furono creati 2000 esemplari che furono distribuiti gratuitamente.

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Passiamo ora alle note dolenti. La cooperativa LANES nacque nel 1999, sono passati 10 anni e la cooperativa conserva solo in parte la composizione ori-ginaria, sono rimasti 6 soci, dei quali 3 donne. Gli uomini si occupano preva-lentemente della raccolta della lana, sono allevatori perciò si occupavano di raccogliere la lana presso gli allevamenti della zona e di effettuare la rivendita di una parte della stessa. L’altra parte viene mandata a lavare e trattare per poter avere il filato che ci occorre per produrre l’orbace che utilizziamo per la realizzazione di costumi. Nell’anno 2002 abbiamo partecipato ad un bando de minimis con il quale abbiamo ricevuto dei finanziamenti che ci hanno permesso di aprire un pic-colo laboratorio sartoriale nel quale attualmente lavora una delle socie. Tale laboratorio aveva l’obiettivo principale di promuovere la riscoperta e la lavo-razione dell’orbace per la realizzazione dei costumi sardi. Il progetto per un certo periodo è andato avanti abbastanza bene, si riusciva a vendere l’orbace, si è effettuata una sorta di promozione facendo una divulgazione presso le corali, presso i gruppi folcloristici e presso dei designer che hanno visto nella lavorazione dell’orbace un nuovo strumento per poter addirittura arredare de-gli studi professionali o fare dei rivestimenti particolari per poltrone e divani. Però nel corso del tempo tutto questo si è andato, come dire, allentando fino a scemare completamente. La cooperativa lavora attualmente solo con una socia, abbiamo cercato negli ultimi due anni di interessare delle giovani donne prendendole a lavorare in laboratorio con noi e quindi insegnando tutto il sape-re, anche perché, è particolarmente difficile confezionare costumi tradizionali, come sapete busto, “su corittu”, ricami sono veramente cose molto partico-lari che richiedono una cura estrema. Tuttavia queste ragazze dopo un anno, un anno e mezzo che lavoravano per noi hanno preferito andare via e questo ha tagliato le gambe alla cooperativa non essendo più riuscite a trovare delle altre persone interessate. Da tutto questo consentitemi un paio di considerazioni. In tutto quello che è stato detto stamattina, man mano, in ogni intervento noi trovavamo qualcosa che calzava perfettamente con la nostra situazione e purtroppo sempre in negativo. Il voler portare avanti iniziative, alle quali noi abbiamo comunque creduto tantissimo, come queste possono comunque essere opportunità di lavoro. Un’opportunità, comunque, solo per persone che amano questo tipo di lavoro, non per persone che cercano il guadagno facile o che vogliono la-vorare, semplicemente lavorare. Sappiamo benissimo che lavorare artigianal-mente significa a volte impegnarsi anche oltre misura, oltre persino il tempo

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che vorremmo dedicare alle cose che facciamo, ma la maggior parte di noi lo fa per e con amore e passione. Per questo sono d’accordo che abbiate inserito la passione tra i punti di forza del settore. Tuttavia è un punto di forza che può diventare un punto di debo-lezza, perché a volte ci mette un velo davanti agli occhi e ci fa andare avanti comunque, ad ogni costo, perché ci piace farlo, perché ci dispiace dover riconoscere che alla fine abbiamo disperso tante energie per una qualcosa alla quale non si riesce a dare una continuità. L’ultima considerazione. Tutti i soci si sono resi conto di questo: vanno bene i progetti, i finanziamenti, i corsi di formazione. Va bene tutto, ma a nostro avviso, ciò che manca realmente è un’educazione al lavoro. Al lavoro qualunque esso sia. Ai nostri ragazzi non si riesce ad inculcare questo tipo di valore, che è il valore del lavoro fatto anche per amore veramente per il volerlo fare.

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luiSa leDDaAgronoma

Ci sono stati offerti tantissimi spunti in questa tavola rotonda. Tuttavia vorrei dire qualche parola legandomi al discorso della standardizzazione, che un po’ è la standardizzazione delle persone in funzione di obiettivi prefissati. Spero di non fare un discorso troppo soggettivo ma penso che un problema del modo di operare dei ricercatori, io sono agronoma e perciò mi vedo più ricercatore che artigiana, sia che quando ci poniamo un obiettivo vediamo solo questo e non il processo che porta ad esso. In questo processo entrano delle persone che sono funzionali all’obiettivo ma se in qualche modo non si adeguano, non ri-spondono come desideriamo, evidenziamo tale aspetto come un punto critico. Io penso che ci sia il pericolo di voler standardizzare la figura dell’artigiano, per spiegarmi meglio porto un paragone. Io tingo utilizzando piante e tecniche tradizionali della Sardegna, ho imparato da una tessitrice di Isili conosciuta ed apprezzata, Dolores Ghiani. Lei mi ha sempre detto: la pianta è questa ma il colore finale che otterrai non lo puoi determinare con precisione solo con la tua volontà, impara ad accogliere ciò che la natura ti regala. Questo è l’attenzione al processo: sto attenta a ciò che faccio, utilizzo a pieno le mie competenze ma con la consapevolezza di non conoscere il risultato. In que-sto senso, per esempio, si è fatto cenno alle artigiane che tingono in casa e poi producono dei manufatti. A volte fanno dei lavori che nessuno vede, però sono manufatti di altissimo pregio, vere opere d’arte totalmente fuori da ogni standard. Sono contenta che ci sia Maurizio Savoldo che ha fatto della tintura con le erbe il suo lavoro, io lo faccio a scopo didattico, ma ritengo che il fatto che esista un laboratorio sia una grande risorsa per il nostro territorio anche per-ché ci permette di sapere che abbiamo a disposizione questi materiali. Il rischio è che si chieda sempre e comunque il prodotto standardizzato ma credo che i prodotti artigianali, come le persone che li realizzano, non possa-no e non debbano rientrare totalmente negli standard. Un altro aspetto di cui si è parlato è legato a questo discorso. Si è detto che la trasmissione dei saperi in qualche misura si sta interrompendo, che la trasmissione dei saperi tradizionale si sta perdendo, ma dobbiamo anche pensare che quando andiamo a parlare di marchi tutta una serie di aspetti delle tradizioni artigianali, così come già succede per l’agro-alimentare, vanno perduti.

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Sul filo del lavoro

Sul filo del lavoro Nuove trame per lo sviluppo della fibra tessile

e dell’occupazione femminile nei territori rurali

Roma, 30 Giugno 2009Sala Marconi - Consiglio Nazionale delle Ricerche

CONVEGNO

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Sul filo del lavoro

AlessAndrA TomAiMinistero del Lavoro e delle Politiche Sociali

Saluti

Buongiorno a tutti voi. Grazie per l’invito a presenziare ai lavori di questa giornata. Mi presento brevemente: al Ministero del Lavoro finora mi sono oc-cupata sostanzialmente di coordinamento, a livello europeo e nazionale, dei programmi del fondo sociale europeo e dei programmi che intervengono in materia di apprendimento permanente. Quindi una vocazione che mi porta più verso le sedi europee, Bruxelles in particolare, che non alla gestione o alla supervisione dei singoli progetti. Però recentemente ho assunto anche l’inca-rico di seguire una serie di progetti fra cui questo, che il Ministero del Lavoro finanzia attraverso le risorse del fondo di Rotazione. Quindi, pur non essendo realmente addentro all’iniziativa che si sta sviluppando, ritengo utile richiama-re brevemente alcune questioni che si riconducono alle direttive ministeriali che orientano l’azione del Ministero.Si tratta di questioni e di principi non certo innovativi, tuttavia nella pratica poco applicati. Quando si dice, per esempio, che bisogna utilizzare le risorse per obiettivi concreti e per raggiungere risultati effettivi, non si sta esprimen-do di per sé una novità, tuttavia nei fatti ciò non accade così spesso come ci si aspetterebbe. Non dobbiamo dimenticare oltre tutto che il contesto in cui ci muoviamo è caratterizzato da risorse finanziarie limitate, comunque in prospettiva di risorse non crescenti. Scenario e contesto, d’altro canto di grandi bisogni e grandi domande, di crisi economica e occupazionale: quindi di problemi oggettivi da affrontare. In questo scenario, in questo contesto e con queste condizioni, diventa ancora più importante e ancora più doveroso che l’utilizzo delle risorse sia il più possibile efficiente, concentrato su progetti specifici, su iniziative e su risultati dimostrabili. Un altro aspetto importante è collegato al lavoro che in questi mesi è stato condotto per l’individuazione di interventi atti a fronteggiare la crisi, e cioè l’apparente dicotomia tra azioni di sistema ed azioni rivolte alle persone: voi sapete che, sulla base della divisione delle competenze stabilita a livello costituzionale, c’è una specie di separazione piuttosto netta tra le competenze dei vari attori, gli attori a livello centrale, le regioni, le province autonome. Si sa che gli attori a livello centrale debbono svolgere più un ruolo di indirizzo o stimolo, di promozione, di coordi-

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Incontri e confronti con i territori

namento, con obiettivi di sistema più che azioni rivolte a persone o a imprese. Questo però nel tempo si è tradotto, anche nell’immaginario collettivo forse, nel fatto che al centro si finanziano attività di cui non si riesce ad apprezzare la ricaduta diretta a beneficio di persone ed imprese. A livello territoriale sono attribuiti l’impegno, la responsabilità, la competenza a svolgere azioni più mi-rate ai lavoratori, alle imprese ed ai cittadini in genere. Bene. Per i motivi che ho richiamato prima è necessario che si superino degli stereotipi e si lavori in modo collaborativo tra i vari attori perché tutti perseguano, ognuno con i propri mezzi e le proprie responsabilità, l’obiettivo di garantire servizi e possi-bilità reali di occupazione o di innalzamento delle competenze da parte delle persone. Non si può trascurare il fatto che l’azione istituzionale, amministra-tiva e operativa debba dare dei risultati. Quindi il nostro grande tema adesso è come coniugare obiettivi che rimangono di sistema, con la promozione di azioni concrete che abbiano un beneficio diretto sulle persone. Gli obietti-vi di sistema sono infatti importanti perché sono obiettivi strutturali: cioè èl’investimento che deve dare risultati a medio - lungo termine. Quindi quando si dice che si deve rimuovere gli ostacoli all’accesso alle opportunità formative del lavoro, questo è un obiettivo di sistema. Come si fa? Anche attraverso iniziative come quella di cui parlerete oggi. Promuovere l’adattabilità, l’occu-pazione, la competitività delle persone in un ambiente favorevole a questi obiettivi è un obiettivo di sistema, ma si deve raggiungere con azioni concre-te. La ricerca-azione sembra un po’ la risposta a questa esigenza di coniugare obiettivi strutturali con iniziative concrete e credo, pur, ripeto, non essendo un’esperta ancora dell’iniziativa odierna, che ci siano questi ingredienti in que-sta iniziativa e comunque noi ce lo auguriamo sinceramente. Sapete che il Ministero finanzia moltissime iniziative, soprattutto realizzate dai suoi Enti di riferimento come Isfol e Italia Lavoro, e vale per tutti la stessa “regola”: la ricerca, la modellistica, la teorizzazione sono importanti, però oggi è ancora più importante, è ancora più urgente che il modello, la teoria, il metodo imma-ginato, sviluppato, teorizzato possa essere applicato, possa essere testato e questo in tempi brevi, cioè compatibili ma brevi. Quindi non concentrando tutta l’attenzione sulla fase iniziale di finanziamento dell’iniziativa per poi di-menticare strada facendo i risultati che deve raggiungere.L’altro aspetto che mi sembrava importante sottolineare oggi era questo, che mi sembra di cogliere, di una integrazione tra più obiettivi ma anche tra più, come posso dire, ambiti. Voi saprete senz’altro che a livello europeo, proprio nel regolamento del Fondo Sociale Europeo che è il fondo che mag-

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Sul filo del lavoro

giormente finanzia iniziative volte all’occupazione e all’adattabilità di imprese e lavoratori, una delle questioni che è richiamata, ed è una questione di tipo politico prima ancora che di tipo operativo, è la necessità proprio di integrare mondi che altrimenti sembrerebbero separati. Per esempio lo sviluppo rurale con l’apprendimento, con l’imprenditorialità, con obiettivi che finora, essendo stati finanziati da canali differenti anche a livello europeo, hanno viaggiato su binari separati, quindi con una prevalenza dello strumento finanziario rispetto all’obiettivo, al risultato che si vuole raggiungere. Anche questo chiaramente è un approccio che si deve superare. L’integrazione non deve essere una retorica, deve essere veramente praticata in modo sistematico.Ho citato spesso la parola risultati: un aspetto chiave è questo della misu-rabilità. Il risultato o è misurabile o è valutabile, oppure non è tale. Anche su questo c’è un indirizzo pregnante che informa l’azione del Ministero, ma che poi il Ministero riversa in tutte le iniziative che sta finanziando; sono necessari un vero monitoraggio, una vera valutazione, una vera misurazione dei risultati, nei tempi opportuni ma comunque più tempestivamente possibile. Quindi io credo che anche un progetto singolo, una singola iniziativa, pur non dovendo caricare su di sé “l’onere” del raggiungimento di obiettivi generali possa e deb-ba contribuire a questo disegno, a questa missione che un po’ tutti dobbiamo darci non solo, perché le risorse sono scarse, ma anche perché è veramente necessario dare delle risposte concrete. Credo che non si possa andare avan-ti a lungo mantenendo separato il mondo delle Istituzioni dal mondo reale, che è quello dei cittadini, delle imprese, del mercato del lavoro, del tessuto produttivo.Io credo e mi auguro che questo progetto possa essere una tessera di questo mosaico. Ne sono convinta, e con questo auspicio auguro a tutti un buon lavoro.

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Incontri e confronti con i territori

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Risultati della prima annualità di progetto

Buongiorno a tutti.Cercherò di fare una presentazione il più scorrevole possibile di questa prima annualità di progetto, che ha raccolto tanti dati. Peraltro, io ho il compito in qualche modo di riportare il lavoro svolto da quattro gruppi di persone che lavorano appunto su quattro contesti regionali diversi, ossia Toscana, Emilia Romagna, Campania e Sardegna. Questo convegno chiude anche un ciclo di quattro tavole rotonde che si sono svolte a partire dallo scorso febbraio a Fi-renze e si sono concluse a Sassari lo scorso 8 maggio, durante le quali siamo entrati un po’ più nello specifico dei contesti regionali. Quindi oggi riporteremo in maniera trasversale quelli che sono stati dei punti di criticità e anche le potenzialità rilevate dalle analisi fatte nei quattro contesti. Gli argomenti sono tanti, quindi cercherò in qualche modo di affrontarli o almeno citarli un po’ tutti. Come dicevo, è un progetto questo abbastanza esteso che comprende quat-tro regioni. Peraltro quattro regioni diverse da tanti punti di vista: dal punto di vista geografico, dal punto di vista della loro conformazione socio culturale, fattori questi di cui abbiamo dovuto tener conto, pur mantenendo un impianto metodologico nel rilevamento dei dati che fosse comune a tutte e quattro le aree. L’obiettivo di questo progetto “Percorsi di Orientamento” è quello di favorire l’occupazione femminile nelle aree rurali sia attraverso l’incentivazione dell’im-prenditoria femminile in queste aree, sia attraverso la creazione di nuove im-prese ed il rafforzamento di quelle già esistenti. Tutto ciò considerando lo svi-luppo del territorio rurale nel suo complesso e facendo emergere le ricchezze legate ai saperi tradizionali, alla salvaguardia e alla tutela dei saperi legati alle attività agricole ed artigianali e, in particolar modo alla trasformazione artigianale tessile che è l’ambito che un po’ più ci interessa e che è anche la sfida di questo progetto. Il progetto è suddiviso in tre annualità: attualmente siamo alla fine della prima annualità, durante la quale abbiamo fatto una fotografia delle quattro regioni; la seconda annualità invece prevede delle azioni di orientamento e di infor-

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mazione a donne che vogliono fare impresa o che già la stanno facendo e che vogliono diversificare la propria attività imprenditoriale. È poi prevista una terza annualità durante la quale speriamo possano nascere dei percorsi anche sperimentali con cui monitorare le attività iniziate e che proseguiremo nel prossimo anno. Questo è lo schema un po’ semplificato delle attività che abbiamo svolto: da un punto di vista del metodo abbiamo raccolto dati strutturali, cioè dati stati-stici, concernenti la conformazione dei territori, la loro realtà socio economi-ca, il mercato del lavoro ed in parallelo abbiamo iniziato una serie di interviste ad imprenditrici sia nel settore agricolo che nel settore della trasformazione tessile e correlati, compresi anche gli stadi ultimi della trasformazione tessile: quindi anche aziende di sartoria o di ricamo, aziende che trattano di tinture naturali ad esempio, altro settore di interesse. Da queste interviste abbiamo fatto un’analisi SWOT (Strenghts, Weaknesses, Opportunities and Threats - analisi dei punti di forza, debolezza, opportunità e minacce) con cui abbiamo rilevato i punti di forza e punti di debolezza, le potenzialità, le minacce. Tale analisi è stata il riferimento per la costruzione di tracce di interviste che sono state rivolte a stakeholders territoriali.Dall’analisi di queste interviste sono stati ricavati altri dati ulteriormente di-scussi durante le tavole rotonde di cui parlavo prima. Nel frattempo si è reso necessario, per i temi affrontati, delineare anche linee di ricerca che abbiamo chiamato analisi di comparto finalizzate alla verifica della fattibilità del recupero di certi materiali, come le lane di scarto o di risorse vegetali del territorio, come le specie officinali tintorie o le piante da fibra (ad esempio in Emilia Romagna si parla di canapa). Abbiamo cercato di ricostruire la realtà economico produttiva per valutare se è possibile in que-sti contesti regionali riproporre filiere di trasformazione che, utilizzando delle risorse locali, arrivino poi a prodotti finiti. Prodotti che sicuramente devono essere di qualità, con un certo valore aggiunto dato anche dalla connotazione territoriale in cui nascono.Per concludere questo quadro generale, siamo attualmente nella fase di indi-viduazione di aree pilota all’interno di ogni regione - perché non potremmo fare questa attività di orientamento e di informazione su tutti e quattro i contesti regionali nel loro insieme e quindi dovremo procedere ad una selezione. Se-lezione che certamente faremo insieme anche ai referenti di Enti e Istituzioni locali, con cui siamo già in contattato. Dopodiché avvieremo queste attività, presumibilmente da gennaio 2010.

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Incontri e confronti con i territori

Ritornando alla fotografia dei territori, abbiamo evidenziato dei punti di forza in qualche modo trasversali, comuni a tutti e quattro i contesti regionali, ricavati sia attraverso interviste fatte alle imprenditrici che attraverso i dibattiti scatu-riti dalle tavole rotonde.Dalle interviste è emersa una grande passione da parte delle imprenditrici che fanno microimpresa, spesso sole nella gestione di imprese agricole o artigiane. Grande determinazione e passione: questo è sicuramente uno degli aspetti positivi che emergono. C’è una forte consapevolezza delle proprie radici e quindi anche una consapevolezza di un sapere diffuso nei territori, legato soprattutto al tessile ed alla moda. È emersa anche una disponibilità all’innovazione anche se poi, come vedremo, c’è altrettanta difficoltà ad af-frontare dei percorsi verso l’innovazione. Si riconosce la grande qualità del prodotto italiano: un punto di forza su cui chi abbiamo intervistato ha posto un accento molto forte. Il prodotto italiano, infatti, gode ancora di una fama di qualità che dovrebbe essere sfruttata e che dovrebbe essere il riferimento per chi vuole fare impresa. Il lavoro artigiano (e quindi anche l’impresa artigiana) è risultato, dalle interviste effettuate, per quanto riguarda i suoi aspetti positivi, come una forma di lavoro che offre grande flessibilità anche, ad esempio, per la possibilità di offrire un prodotto personalizzato a chi lo richieda, cosa che un’impresa più strutturata ha sicuramente più difficoltà a proporre. Abbiamo anche rilevato da parte di chi fa impresa in questi settori una grande sensibi-lità ai problemi etico ambientali. Ci sono anche altrettanti punti di debolezza: sicuramente ci sono problemi di tipo fiscale, soprattutto per quanto riguarda le aziende artigiane, ci sono carenze normative che spesso non mettono dei paletti certi a cui rifarsi, il che ha anche poi come effetto quello di avere una serie di attività sommerse che non fanno bene a quelle produzioni di qualità italiane di cui si parlava prima e certo anche al contesto socio economico. C’è un problema di valutazione economica del proprio lavoro da parte di tan-te imprenditrici - mi riferisco all’impresa artigiana soprattutto – cioè, non si riesce a dare un valore in termini economici che riconosca effettivamente la fatica impiegata nell’eseguire quel lavoro. Ritornando alle imprese, un proble-ma forte è quello della formazione: queste imprese cioè non fanno sufficiente aggiornamento. L’altro punto debole che sarà, mi auguro, anche un punto di riflessione e dibattito della giornata di oggi, è la difficoltà a fare rete: uno dei pochi strumenti, per non dire il solo, per le microimprese situate in territori spesso emarginati, che possa fare da supporto a chi non ha mezzi per trovare soluzioni ai problemi che incontra nel cammino di impresa. C’è una scarsa

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Sul filo del lavoro

propensione all’imprenditorialità, nel senso che queste persone spesso sono da sole e da sole devono fare tutto: sia il lavoro tecnico - e quindi provvedere alla qualità del prodotto ed a un livello di lavoro che raggiunga determinati standard – che, allo stesso tempo, a quello della comunicazione del prodotto e dell’azienda, al lavoro di marketing e di promozione del loro prodotto, senza pensare a tutto ciò che concerne gli aspetti fiscali e della gestione di impresa. Da soli non si può fare tutto ovviamente: coloro che ci riescono sono vera-mente un numero limitato. Altre difficoltà emerse sono di tipo strutturale: per esempio, la difficoltà di accesso al credito.Passiamo ora alle opportunità. Le opportunità ci sono, come appunto ci sono le potenzialità che ho citato prima: esistono numerose attività di artigianato tradizionale nel settore tessile ed esiste un certo livello di apprezzamento del-la qualità del prodotto da parte del consumatore. C’è poi un trend di crescita della domanda di prodotti eco sostenibili o comunque di prodotti che abbiano una connotazione tradizionale: c’è quindi una domanda legata la territorio mol-to forte. Sicuramente tante opportunità devono essere maggiormente sfrut-tate, come creare sinergie con altri comparti, a cominciare da quello del turi-smo, ma anche con quello agro alimentare che è molto forte e, soprattutto, è necessario cercare di potenziare quelli che sono gli aspetti multifunzionalità - altro tema di dibattito di oggi - da sviluppare ulteriormente così che le impre-se possano sfruttare opportunità di crescita. Ritornando ai territori in cui ci siamo mossi, molti godono in maniera diversa di una reputazione molto forte che sicuramente potrebbe essere sfruttata di più per la crescita delle impre-se, come andrebbero sfruttate competenze e saperi che ancora esistono ma sempre più a rischio di estinzione.Le minacce, appunto, riprendono in parte quelli che sono i punti di debolezza: scarsa attenzione alla formazione, disponibilità all’innovazione ma anche alto rischio di perdita dei saperi locali. Questo comporta non solo una perdita di un valore, di una ricchezza di per se stessa, ma anche serie conseguenze a livello di presidio del territorio. Se pensiamo, ad esempio, all’importanza che un’azienda agricola - ma anche altri tipi di azienda - può avere nel presidiare un territorio (si tratta di territori sempre più soggetti ad abbandono), l’atten-zione a mantenere in loco certe attività dovrebbe essere molto alta. Questo vorrebbe dire anche minor rischio di disoccupazione. Altro aspetto critico che ci riguarda come Ente di ricerca è il trasferimento del know how alle imprese: non è una criticità soltanto dei territori rurali in quanto tali, ma la abbiamo rilevata anche in questo caso.

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Incontri e confronti con i territori

Vediamo quali sono i temi da approfondire: in primis la possibilità di ricostru-ire alcune filiere corte. Sarebbe bello che tante attività presenti nei territori rurali potessero usufruire di un sistema di produzione quanto più “locale” . Locale tra virgolette , se ovviamente non si può pensare ad una filiera tessile che si esaurisca, necessariamente, in un territorio regionale, ci si può però porre nell’ottica di utilizzare materie prime che sono una ricchezza per questi territori ed immetterle in cicli di produzione che possano creare indotti e ric-chezza in loco. Questa è una sfida che si può pensare di affrontare o almeno di valutare. Ripropongo il tema del far rete tra queste imprese in tre prospettive: sia in una prospettiva di far rete di filiera, cioè in verticale, sia tra operatori di una stessa fase, sia soprattutto fra operatori di filiere diverse. Questo ultimo pun-to sembra essere, secondo alcuni interventi fatti durante le tavole rotonde, una delle modalità per creare e implementare sinergie tra comparti diversi. Sicuramente c’è una discussione da fare a livello istituzionale sulla dimensione del supporto necessario per attivare questi percorsi, così come è necessario riflettere sull’esigenza di creare e sostenere dei marchi territoriali che possa-no aiutare, connotandoli, prodotti e attività produttive.Durante quest’anno ci siamo concentrati su analisi di comparto prendendo come riferimento tre settori: quello delle lane locali e autoctone, quello della canapa e quello delle piante officinali-tintorie. Per quanto riguarda la lana, ci siamo concentrati sulla Sardegna data la grande quantità di capi ovini esisten-te in questa regione, sulla Toscana per cercare di ricostruire questa filiera e valutare anche le risorse tecniche presenti per la lavorazione e stiamo cercan-do di fare la stessa cosa per la Campania, nonostante una grande difficoltà nel reperimento dei dati. In Emilia Romagna abbiamo invece concentrato l’at-tenzione sulla canapa, considerato l’importante progetto di recupero su cui la Regione ha già investito da molti anni.Le lane autoctone o le lane locali derivanti da razze comunque allevate in questi territori, sono lane che attualmente non hanno un mercato: la maggior parte di questo materiale (una piccola parte viene in realtà utilizzata) viene buttata via ed è considerata, anche da un punto di vista normativo europeo, un rifiuto speciale e come tale deve essere trattata da parte dell’allevatore. È un materiale in genere, considerato di bassa qualità, trasformato dà luogo a tessuti molto grezzi e quindi non è considerabile per quelle che sono le pro-duzioni tessili per l’abbigliamento. In passato, era utilizzato in gran parte per la produzione di materassi.

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Sul filo del lavoro

Dai dati reperiti, abbiamo cercato di valutare la produzione di lana sucida: in Sardegna si arriva alle 4.000 tonnellate di lana circa, in Toscana di 600.000 chili. Si tratta ovviamente di stime. Abbiamo cercato di valutare la quantità di lana disponibile, cercando di suddividerla per razza: questo è stato un compito difficilissimo ed abbiamo dovuto fare stime, sicuramente per difetto, perché esiste un registro ovino in cui però gli allevatori non hanno obbligo di riportare la razza. Non conoscendo la consistenza per razza dei capi presenti sul territorio, non è possibile valutare la quantità per tipologia della lana pro-dotta ed è difficile per non dire impossibile prevedere una destinazione d’uso.Per quanto riguarda le caratteristiche delle lane, andiamo a vedere quali sono quelle della razza sarda la cui consistenza è la più alta non solo in Sardegna, ma anche in Toscana poiché, al momento, l’interesse per ciò che concerne l’allevamento ovino è concentrato sulla produzione casearia, e la razza sarda è la più produttiva a livello di latte ed è dunque la più consistente 8nonché quella responsabile del maggior numero di forme di meticciato tra le razze). Ho riportato insieme i dati relativi alla massese e alla nera di Arbus, anche se la prima è toscana e la seconda è una razza che è stata di recente recupera-ta e certificata in Sardegna, perchè sono entrambe razze nere: volevo infatti sottolineare che alcune lane hanno già caratteristiche proprie specifiche, in questo caso la colorazione nera naturale e non necessitano colorazione. Per ciò che concerne la Toscana c’è poi la razza appenninica la cui lana in realtà viene utilizzata – e qui si torna al discorso che facevo prima circa il fatto che in realtà un mercato in qualche modo esiste - in alcuni settori, ad esempio per fare rivestimenti sia di scarpe che di capi di abbigliamento. In Toscana ci sono anche capi di Suffolk e Romanov che non sono razze autoctone ma che po-trebbero essere interessanti ai fini di una sperimentazione e tanti capi meticci.Ritornando ai punti di criticità, punti critici si ritrovano già a livello di allevamen-to. In realtà si può dire che questa filiera corta che dovrebbe prevedere un riavvicinamento del comparto agricolo a quello della trasformazione, inserita destrutturata. Ossia, agli allevatori non interessa quello che succede alla loro lana, perchè ad oggi, questo prodotto agricolo non ha veri canali di desti-nazione: per gli allevatori la lana è un onere, sia in termini economici che di organizzazione. È un materiale infatti ingombrante, con tempi deterioramento molto lunghi, che non può essere facilmente stoccato ed immagazzinato in qualsiasi luogo, anche per motivi normativi.Inoltre, sia la manipolazione che il commercio sono soggetti a regolamenti ben precisi. Questo prodotto in parte commercializzato è destinato a mercati

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asiatici (India e Pakistan), per fare tappeti o ai mercati dell’Europa del Nord dove la lana italiana è mescolata ad altre per la produzione di moquettes o di rivestimenti di interni. Tutto il resto viene sotterrato o, nella peggiore delle ipotesi, bruciato con un impatto ambientale molto forte. Ciò comporta che, a livello di allevamento, non si curi la tosatura. Tosatura che è comunque un passaggio obbligato - perchè le pecore hanno necessità di essere tosate - e che avviene secondo varie modalità: i piccoli allevamenti spesso si ritrovano in maniera informale tutti insieme, magari presso un’azienda, per ottimizzare i tempi e le spese di questa operazione. In Sardegna anzi spesso questo evento è stato collegato a manifestazioni di tipo turistico che possono ri-chiamare l’attenzione su tradizioni un tempo moto forti. I grandi allevamenti sardi si servono invece di squadre provenienti dalla Neozelanda (ma anche da altri paesi) hanno un costo che varia dai 2 ai 4 euro a capo. Tra l’altro, una cosa interessante rilevata da parte della COLDIRETTI in Sardegna è che questo è un mestiere che potrebbe essere rivalorizzato e potrebbe offrire delle forti opportunità di guadagno. Naturalmente, previa formazione delle persone che dovrebbero poi fare questo mestiere, perché anche questo è un punto dolente: la tosatura non si fa secondo i giusti criteri. Quindi quali sono le criticità. Mancanza di selezione della lana a partire dall’animale: le diverse parti del vello non vengono distinte (ad esempio, la schiena è una parte più pregiata rispetto alle zampe), non c’è una separazione secondo le razze e c’è mancanza di tempo da dedicare a questa operazione. Ci sono insomma, dei costi e gli allevatori non sono assolutamente interessati a quella che può essere la riutilizzazione in fasi successive della filiera. Abbiamo rilevato co-munque in Toscana, che esistono aziende agricole che allevano capi ovini e rientrano in qualche modo nei casi che vorremo discutere, perché queste sono aziende multifunzionali che mandano la lana a lavare e anche a filare ma-gari, esternalizzano cioè alcune fasi, o le fanno tutte in casa, arrivando ad un prodotto artigianale finito che parte dalla terra e ritorna al punto di partenza. Il lavaggio è un punto critico a questo livello, perché è un passaggio obbligato e sottoposto a normative stringenti. Spesso viene fatto in casa o in laboratori improvvisati. Chi ha allevamenti di grandi dimensioni, come ho già accennato, riesce invece a convogliare la lana verso mercati che sono poco conosciuti ma che esistono. La criticità in questo caso è che la lana spesso viene recu-perata, in Toscana, da intermediari commerciali che si occupano di latte o di carne - con una retribuzione al pastore che va da zero a 90 centesimi (anche questo è un aspetto molto critico: la remunerazione) - che la portano poi al

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lavaggio. Per quanto riguarda la Toscana non esiste un vero e proprio centro di raccolta. Questo primo passaggio potrebbe essere maggiormente traccia-to e potrebbero essere pianificate le tipologie di prodotto, da valutare con un certo margine di rischio. Per quanto riguarda la Sardegna, i centri di raccolta sono quattro, di cui due coprono però la raccolta dei 2/3 della lana sarda. Esiste un unico centro di lavaggio in Sardegna, cioè una realtà che fa lavaggio industriale, e lo stesso in Toscana, nella zona di Prato. Lavaggio che come già detto è un collo di bot-tiglia, perché da questa prima operazione viene raccolto del materiale refluo che deve essere trattato: i cascami della lana infatti contengono varie impuri-tà, di origine organica e anche inorganica (dipende da come viene tenuto l’alle-vamento). Dunque i piccoli allevatori che fanno lavaggio da soli lo fanno senza considerare tutta una serie di aspetti e di vincoli ambientali. Gli impianti di lavaggio richiedono notevoli investimenti economici e volumi di lana sufficienti a mettere in moto il ciclo di produzione. Si parla 300kg di lana all’ora, quindi i quantitativi devono essere davvero ingenti: per questo la creazione di centri di raccolta potrebbe favorire la costruzione di questa prima fase della filiera. Quello che potrebbe essere interessante considerare è anche la possibilità di recuperare i sottoprodotti dal lavaggio della lana: si parla di lanolina, per impieghi nell’industria cosmetica, farmaceutica, nella produzione di detergen-ti. Peraltro, la lanolina è una molecola che veicola tutto e quindi deve essere soggetta a un processo di purificazione molto attento; questo implica costi di adeguamento degli impianti considerevoli. Altro elemento da considerare è il cascame secco che è costituito da residui organici molto utili per la fertiliz-zazione dei terreni e che potrebbe essere materiale che l’agricoltore stesso potrebbe recuperare dopo il lavaggio della lana.Altro punto critico è la filatura di queste lane, su cui magari potremo tornare nella seconda parte della giornata quando tratteremo anche aspetti più tec-nici. Ho citato lavaggio e filatura perché anche nella possibilità di ricostrui-re queste filiere e di incentivare le microimprese artigiane dei territori rurali, non si può prescindere da alcune fasi che allo stato attuale possono essere espletate solo a livello industriale. Non si può prescindere cioè dalla fase di lavaggio e dalla fase successiva di filatura: questi sono i due risultati cui siamo arrivati. Cosa fare con la lana: ci sono dei prodotti che già esistono. In Sarde-gna ad esempio già esistono produzioni magari da incentivare, da migliorare, da promuovere, da valorizzare ulteriormente che riguardano la produzione di tappeti, di antichissima tradizione o quella del tessuto orbace che è un po’

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Incontri e confronti con i territori

il capostipite di tutti i panni rustici a cui possiamo pensare, a cominciare da quello toscano del Casentino, ma anche il tweed e il loden, cioè tessuti che hanno acquisito una loro fama, un loro pregio, ma che nascono poveri.Per quanto riguarda la canapa, è una produzione che è stata abbandonata per 60 anni quindi in questo caso, come anche nel caso della ricerca sulle lane autoctone e locali, è stato investito poco nella ricerca nel settore tessile fino ad oggi. La Regione Emilia Romagna ha promosso il reinserimento della coltu-ra cercando di valutare se questo ha una sostenibilità economica sia a livello agricolo che industriale. Da un punto di vista della ricerca agronomica, sulla canapa esiste tantissimo: ricerca sul miglioramento genetico delle varietà, mi-glioramento delle tecniche di coltivazione e meccanizzazione anche se questi sono aspetti che risultano da approfondire. Gli scenari di filiera per la canapa sono due. Uno è legato ad un progetto europeo, HempSys, studiato però solo a livello sperimentale: infatti nonostante avesse dato dei buoni risultati e si fosse proposto in maniera molto innovativa non è stato trasferito a livello indu-striale. L’altro scenario è invece quello della coltivazione della cosiddetta baby canapa: si tratta di una varietà alta 1,5 mt (mentre l’altra raggiunge i 3-4 mt) che è stata oggetto di coltivazione di questo progetto dell’Emilia Romagna. Ricordo brevemente alcune caratteristiche del progetto HempSys: l’uso di varietà locali; per quanto riguarda la stigliatura, cioè la separazione del tiglio dalle fibre, viene fatta in campo a verde; infine, la cosa forse più interessante, la sperimentazione aveva avuto un certo grado di successo con la possibilità di macerare ed estrarre la fibra nel modo più opportuno. L’ aspetto negativo per il quale non è andato avanti, è che ci sono state problematiche a livello di adeguamento dei macchinari per l’altezza delle piante. Per quanto riguarda la baby canapa, i punti salienti sono: alta densità di semina, utilizzo di varietà precoci, piante più basse con buone rese, macerate in campo a secco. Due sono le destinazioni: settore tessile e della carta. Sono state fatte varie pro-duzioni con questi due ordini di percorso. Quali sono le criticità per la canapa. Manca un sostegno legislativo e ci sono criticità proprio a livello di agricoltore che deve pagare un prezzo alto per il seme che deve essere comprato in Francia - il monopolio delle sementi è in-fatti francese. Ci sono criticità anche a livello di macerazione che è il processo di estrazione della fibra e di meccanizzazione a livello di raccolta. Nell’analisi di questo comparto abbiamo poi rilevato che non ci sono filatori: esiste un unico riferimento, il Canapificio Linificio in Lombardia che è l’unico anche a livello europeo. Ci sono difficoltà anche a vendere i sottoprodotti: anche se

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potrebbero essere utilizzati nell’industria cartaria, in realtà, i sottoprodotti non hanno trovato modo di essere utilizzati, tanto che i magazzini sono pieni. Inoltre, risulta che la coltivazione della canapa non è abbastanza competitiva con altri tipi di coltivazione e la struttura delle aziende agricole in cooperative non è adeguata a tale coltura che, peraltro, non richiede grandi attenzioni: ne deriva, dunque, un’elevata quantità di “tempo morto” di lavoro per l’azienda e la coltivazione di canapa dovrebbe essere affiancata da altre coltivazioni.Per quanto riguarda le piante officinali, non si può parlare di comparto vero e proprio perché non c’è un vero mercato. Abbiamo cercato di ricostruire quella che può essere una situazione, a livello italiano, di utilizzazione di estratti derivati da piante officinali tintorie e sicuramente il lavoro non è esaustivo (è ancora in corso d’opera). Abbiamo raccolto tutta una serie di riferimenti che comprendono sia aziende (quindi realtà industriali tintorie che si dedicano a linee di produzione utilizzando colori naturali), sia realtà associative che promuovono e fanno formazione e didattica sull’utilizzo di queste piante, sia realtà museali. Abbiamo anche cercato di fare un elenco dei progetti di ricerca e di valorizzazione territoriale in questi ultimi dieci anni finalizzati al recupero di specie vegetali tintorie e di evidenziare alcuni laboratori artigiani che fanno uso di queste piante ed estratti, ma questi ultimi sono veramente pochi - ce ne sono due in Sardegna. Le attività fatte con l’utilizzazione di coloranti naturali in campo tessile sono veramente poche, stanno nascendo ora e le stiamo monitorando. Sono molte le attività didattiche e di tipo educativo, e in questo caso, ci si riallaccia al tema della multifunzionalità delle aziende agricole che svolgono questa attività. L’aspetto della sostenibilità economica è quello più problematico, così come lo è anche il giudizio sul risultato finale della tintura spesso ritenuto non soddisfacente perché equiparato a quello delle colora-zioni effettuate con prodotti di sintesi – anche se a mio parere questo tipo di colorazione dovrebbe essere considerato nella sua identità. Un punto molto importante è la tracciabilità di questi prodotti, perché al di là delle applicazioni che vengono fatte raccogliendo del materiale spontaneo (spesso a livello di attività di divulgazione, didattica o hobbistica), gli estratti utilizzati vengono importati spesso da paesi extraeuropei e al momento non c’è obbligo normativo di tracciabilità del prodotto che garantisca compatibi-lità del prodotto stesso con l’ambiente, rispetto di certi processi di produzio-ne, garanzia, magari, di minor impatto sulla salute a livello epidemiologico (contenimento di allergie o dermatiti).Tuttavia, le piante officinali tintorie meritano attenzione da un punto di vista

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della loro multifunzionalità, perché la specie vegetali officinali, quasi sempre anche tintorie potrebbero essere considerate proprio per le loro molteplici potenzialità di applicazione. Il nostro istituto ha delle collaborazioni in essere con il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università di Firenze e con-tatti con il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università di Salerno che operano nella stessa direzione, ossia verso lo studio e la comprensione delle molteplici modalità con cui una stessa pianta può essere sfruttata nelle sue diverse parti e per utilizzazioni in settori produttivi diversi. Per fare un esempio e tornando al caso di un’azienda agricola che voglia coltivare piante officinali, la multifunzionalità deve dunque essere considerata in un’ottica di insieme di applicazioni che possono riguardare il tessile ma anche la cosmesi e/o la fitoterapia.Questo è più o meno il panorama dell’attività del primo anno del nostro proget-to e concludo ringraziandovi per l’attenzione.

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Sul filo del lavoro

susAnnA cenniDeputato – Membro XIII Commissione Agricoltura

Le reti delle donne per la valorizzazione del territorio

Buongiorno a tutti, ringrazio per l’invito che ho molto apprezzato. Ho avuto modo di lavorare anche in altre occasioni con il professor Maracchi e conosco l’attività interessante dell’Istituto anche in relazione all’agricoltura. Vorrei cominciare con un riferimento a quello che è stato appena detto a pro-posito della lana, dei viaggi e dei chilometri che la lana fa per essere lavata, poi filata etc.. Purtroppo questo è un fenomeno che continua a rappresentare una delle grandi difficoltà dell’agricoltura italiana: la mancanza di un’ adegua-ta organizzazione delle filiere. Siamo sicuramente ancora molto lontani dalla logica del chilometro zero. Credo che il tema della filiera delle fibre, della multifunzionalità, sia un tema di grandissimo interesse, che avrebbe bisogno di uscire un po’ di più dai circuiti della sperimentazione, dell’approfondimento scientifico e tecnico e di essere preso un pochino più sul serio sul piano normativo. Dico così perché mi è capitato negli anni in cui ho fatto l’Assessore all’agricoltura nella mia regione, ma mi capita tuttora nella mia veste di Deputata, che quando si illustrano esperienze e progettualità diffusa si viene accolti, in contesti diciamo esterni a quelli interessati al progetto stesso, con dei sorrisi quasi di sufficienza, come se stessimo parlando un po’ di folklore, mentre l’economia, quella seria, sarebbe altrove. Io ritengo che invece che non sia così: in certi territori la sperimentazione di micro progetti, accompagnata da un’attenta analisi dei costi e dei risultati, rappresenta la possibilità di avere sviluppo locale e presidio del territorio. Prima il Dr. Raschi si chiedeva quanti sono a conoscenza della presenza di così tanti capi allevati: io sì, perché ho passato tante di quelle giornate a fare il prezzo del latte ovino assai utili a far maturare una sufficiente consapevolez-za. Il punto è che queste presenze, anche dal punto di vista dell’analisi econo-mica, di chi fa allevamento ovino, sono state valutate soltanto con riferimento all’ attività casearia, quindi produzione e trasformazione del prodotto latte attraverso caseifici. Però qualcosa si sta muovendo e, guarda caso, ancora una volta, prima di tutto attraverso l’interessamento delle donne. Voglio citare l’esperienza delle

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donne del consorzio per l’allevamento dell’agnello di Zeri che già da alcuni anni ha avviato la sperimentazione del recupero e la valorizzazione della lana della zerasca con la riscoperta di tessuti e capi di abbigliamento tipici della Lunigiana. Certo, il progetto si è sviluppato con l’aiuto della Regione, con ricerca applicata a quel tipo di esperienza, ma è nato dall’impegno di giovani donne che in un luogo sperduto, alla periferia nord della Toscana, hanno inizia-to ad interrogarsi, avendo avuto buoni risultati con la ripresa dell’allevamento e con la vendita della carne di qualità di questo agnello, sul perché non ragionare anche sulla lana che si buttava via e che costituiva un problema di smaltimento. È abbastanza affascinante questo tema del filo, delle reti, del tessuto, che evoca moltissimo del dibattito del pensiero femminile. Alle “reti” spesso le donne si richiamano anche perché, in molte realtà, è solo dandosi forza l’un l’altra che riescono ad affrontare le difficoltà che riguardano le piccole impre-se e le micro attività diffuse nei territori. Un tema che evoca il rapporto tra l’in-dividualità femminile e la forza collettiva che può produrre risultati importanti e la possibilità di mandare avanti progetti di filiera come quelli di valorizzazione delle fibre vegetali. Ho avuto la fortuna, ed anche il privilegio, di stare per otto anni nel governo della Regione Toscana e ho avuto modo di seguire alcune interessanti espe-rienze di reti di donne: penso alla rete nata nel settore del turismo fra tante imprenditrici, in particolare donne titolari di attività agrituristiche, che ha dato vita nel 2004 al progetto “Benvenute in Toscana” per una qualificazione dei servizi di accoglienza turistica riservati alle donne che viaggiano da sole; vorrei ricordare le attività svolte dalla “Rete delle donne per la sicurezza ali-mentare e la salvaguardia della biodiversità”, nata nel 2007 con l’intento di mettere in connessione e valorizzare i talenti delle donne che in tutto il mondo sono impegnate per tutelare la sicurezza alimentare e promuovere un’agricol-tura sostenibile. Attraverso la rete sono nati alcuni progetti, ad esempio, per quanto riguarda proprio il settore tessile, fra donne toscane e donne indiane. Inoltre con la Rete nazionale delle donne rurali messicane (RENAMUR, Red Na-cional de Mujeres Rural) con l’obiettivo di sviluppare una strategia di sviluppo rurale integrato nella prospettiva di genere. Sicuramente si va avanti su questi progetti, anche perché su queste tematiche già da anni si era cominciato ad indagare nella nostra Regione e credo che la ragione fondamentale stia nelle peculiarità del modello di sviluppo dell’agricol-tura toscana.

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Sul filo del lavoro

Già negli anni ’70 la Toscana ha vissuto la crisi dell’industrializzazione dell’agri-coltura, cioè quel fenomeno della rivoluzione verde che in buona parte dell’Ita-lia aveva portato ad un aumento delle produzioni e che ha trovato ovvie diffi-coltà nel nostro territorio collinare, dove non ci sono aree vaste da destinare a colture intensive. Con anticipo, quindi, istituzioni e imprese toscane hanno cominciato a ragionare su un modello diverso: sulla possibilità di investire su una competitività che stava assieme alla qualità delle produzioni, alla diversi-ficazione, alla multifunzionalità. Si è investito prima che altrove sulla biodiver-sità e su politiche tese a sostenere lo sviluppo locale e quindi anche i micro progetti fortemente legati alle vocazioni dei singoli territori ed, in questa cor-nice, tantissime donne hanno trovato l’opportunità di mettere in piedi progetti di attività particolare.Queste scelte che sono scelte imprenditoriali ma anche di governo, hanno portato all’approfondimento di una dimensione di relazioni in funzione dell’ex-port e al sostegno di politiche di rete di carattere internazionale: penso al tema del cibo e della sovranità alimentare, alle politiche di qualità e di valoriz-zazione, penso alla scelta di non fare produzioni OGM collegandosi in rete con buona parte dell’Europa e del mondo. La seconda ragione è sicuramente legata alla forte presenza di donne in agri-coltura nella nostra regione, una crescita favorita proprio da questo modello di sviluppo. Abbiamo potuto rilevare, anche attraverso il monitoraggio di attua-zione dei Piani di Sviluppo Rurale, quanto questa presenza sia caratterizzata da uno stile particolare: c’è sicuramente una vocazione caratterizzata da un certo stile di imprenditoria. Solo negli agriturismi registriamo una presenza quasi del 40% di donne titolari di impresa, nel biologico siamo intorno al 32-33% e più le imprenditrici sono giovani, più caratterizzano la loro scelta per dimensioni di impresa, e per elevato titolo di studio. Se in Italia, in tutte le nostre regioni, abbiamo una per-centuale più alta di donne laureate rispetto ai coetanei maschi, in agricoltura questo dato è impressionante: le titolari di impresa sotto una certa età sono percentualmente molto più qualificate dei loro colleghi della stessa età. Se andiamo ad analizzare le motivazioni della scelta delle donne di fare impre-sa agricola, vediamo che un 25% di donne dichiara di farlo per il reddito, un 18% per continuare un’attività familiare ereditata o di ausilio al marito, e ben un 40% per scelta di vita, un dato che spiega molto della presenza delle donne nei progetti di alta qualità. Mi sono voluta soffermare su questi dati ed evidenziare le caratteristiche

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Incontri e confronti con i territori

dell’impresa femminile in agricoltura perché credo ci sia un nesso molto forte con la possibilità di sviluppare alcune progettazioni come quelle che ci sono state illustrate. Bisogna crederci fortemente per andare avanti su questi pro-getti,. Se la ragione fosse solo quella del reddito, di un certo tipo di reddito, consapevoli dell’andamento dei redditi in agricoltura, credo davvero che fa-remmo filosofia e non riusciremmo a dare adeguata forza a questo tipo di pro-gettualità diffusa che può anche dar reddito, ma soltanto quando riusciamo a costruire reti e filiere forti in grado di sostenere tutta questa logica. Certo sono fondamentali anche gli strumenti di aiuto e le normative per andare in questa direzione. In attuazione degli obiettivi del PRS per il sostegno alle pari opportunità abbia-mo fatto scelte precise, come quella dell’introduzione dei parametri di genere in tutti i bandi che attribuiscono contributi e quindi anche nei bandi di attuazio-ne delle misure del Piano di Sviluppo Rurale 2007-2013 in cui si riconoscono punteggi di priorità, non solo alle donne imprenditrici, ma anche alle imprese che offrono servizi di conciliazione e flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Nella legge regionale sull’imprenditoria agricola professionale, abbiamo previ-sto in favore delle donne, nella maturazione del tempo per il riconoscimento della professione, anche quel tempo che è stato dedicato alla cura e all’assi-stenza di anziani e di figli; l’ultimo provvedimento varato dalla Toscana è stato infine l’approvazione della recente legge regionale sulla cittadinanza di genere (L.R. 2 aprile 2009 n.16).Fra le esperienze più interessanti, dal punto di vista della interconnessione tra produzione agricola, recupero delle fibre, trasformazione e quindi artigianato, prima richiamavo la Rete delle donne per la biodiversità, nata dalla collabora-zione che dura da anni, della regione Toscana con Vandana Shiva che credo conosciate tutti. La rete che tiene assieme donne imprenditrici, ricercatrici, giornaliste, donne impegnate nelle istituzioni, mira a sostenere progetti di cooperazione e di sviluppo attraverso il trasferimento dei risultati di ricerche e lo scambio di concrete esperienze ed ha già dato vita ad alcuni primissimi progetti anche con la collaborazione di Ibimet, uno dei quali – quello fra donne toscane e donne indiane che prima ho ricordato – è stato presentato un anno fa a Terra Futura, manifestazione annuale sui temi della sostenibilità che si tiene a Firenze.Nel Programma di Sviluppo Rurale si ritrovano misure a sostegno della lana, del lino e della canapa, con progetti di valorizzazione che hanno visto forte il coinvolgimento di reti di donne agricoltrici toscane: penso a Donne in campo

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Sul filo del lavoro

(CIA), a Impresa donna di COLDIRETTI, che hanno dato un contributo validis-simo per lo sviluppo di questo tipo di progettualità che ha consentito il recu-pero di conoscenze, di tradizioni territoriali che si andavano perdendo: per esempio la riscoperta di tessuti come la “mezzalana”, stoffa fatta con ordito di canapa e trama in lana e la “bisotta” con ordito in cotone e/o lino e trama in lana, ed ancora, antiche lavorazioni come la tecnica del feltro. Lo stesso è stato fatto con alcuni laboratori per le tinture naturali, penso all’utilizzo della reseda, della robbia, del guado, della ginestra per le colorazioni e così via. Progetti che molto spesso, come vi dicevo, quando vengono illustrati sono accolti con un pò di sufficienza, io però sono convinta che sia utile insistere e che anche il progetto di cui stamani si parla e che proseguirà nei prossimi anni, in sinergia fra 4 regioni che quindi hanno anche abbondanza di materiale da mettere a disposizione, siano utili e lo saranno tanto di più in fasi come quella che stiamo vivendo. Stiamo vivendo una fase difficile e sarebbe interessante interrogarsi ed ap-profondire seriamente quanto questa crisi stia modificando gli stili di vita e di consumo. Credo che su questo tema ci siano possibilità interessanti, già in atto, perché oggi il consumatore è molto più attento anche alla qualità ed alla provenienza dei prodotti che acquista.Credo che avere strumenti di sostegno a produzioni sempre più attente all’im-patto ambientale, all’origine, a quanto sta dietro al prodotto finale, sia sicura-mente una strada vincente, anche per contribuire al superamento della crisi, che è frutto anche di un certo modello di sviluppo e di alcuni errori e di questo non sono più soltanto le fantasiose donne a parlarne. Qualche giorno fa mi ha colpito un articolo della giornalista Maria Biancucci sul Sole 24 ore che ragionava proprio sulla provenienza di biancheria di pregio e così come Wendell Berry, contadino poeta del Kentucky, sostiene che man-giare è un atto agricolo, lei sostiene che in fondo lo è anche vestirsi, anche scegliere la biancheria o per il letto o i tessuti dei divani.I nostri acquisti possono determinare colture o allevamenti, sicuramente que-sto è vero dentro certe dimensioni perché l’agricoltura non è tutta quella agri-coltura che si fa nelle aree montane, residuali, scarsamente abitate etc., ma c’è anche altro. Penso che questo tema avrà in futuro un peso sempre più grande che occorre guardare con attenzione e sostenere adeguatamente, anche con strumenti normativi ad hoc, nuovi contesti e possibili nuove dina-miche economiche. È interessante che siano state le donne a rilevare tutto ciò e che ci sia una

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Incontri e confronti con i territori

forte ostinazione delle donne a lavorare in questa direzione e a tentare di produrre dei risultati. Ci sono ambiti di lavoro che competono, a livello nazionale, al Governo ed al Parlamento, e che quella logica di sistema che veniva richiamata qui dalla Dr.ssa del Ministero sia una logica che va però ripresa e sviluppata con ini-ziative concrete, anche legislative, che permettano di disegnare una cornice ed alcune scelte di fondo utili a sostenere sempre di più filiere integrate (produzione, trasformazione e commercializzazione). Se non faremo questo, tutti i nostri ragionamenti si fermeranno alla sperimentazione. Chi ha avuto modo nelle Regioni di seguire questi progetti sa che possono produrre risultati bellissimi, affascinanti ma che rischiano anche di morire nel giro di pochi anni se non viene costruita un adeguato sbocco soprattutto nella commercializza-zione e quindi nella possibilità di far vivere, autonomamente ed indipendente-mente dal sostegno pubblico, queste attività.La mia esperienza passata e le mie convinzioni mi rendono ovviamente dispo-nibile a lavorare in questa direzione. Grazie a tutti per l’attenzione.

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Sul filo del lavoro

mAriA luisA BArgossiServizio Territorio Rurale, Regione Emilia-Romagna

Agricoltura, ruralità e multifunzionalità: un’opportunità per il settore tessile?

Buongiorno a tutti. Io non parlerò con sussidi multimediali anche per econo-micità di tempo e quindi farò forse alcune affermazioni un po’ troppo secche, voi farete finta d’aver capito tutte le argomentazioni che sono a sostegno di questa tesi alla quale io arriverò con un po’ di brutalità, eventualmente farete delle domande. Io vorrei accogliere lo spirito di questo incontro che, se ho capito bene, serve a discutere i risultati del primo anno e anche ad intravedere qualche successivo passo per il lavoro dei prossimi due anni del progetto ma soprattutto per passare dalla sperimentalità ad una possibilità di dare continui-tà nel tempo a queste idee e allora, ripeto, con un pochino di brutalità e di nettezza vorrei partire dalla fine, e la fine è questa: ci sono reali opportunità di reddito per un’impresa al femminile, ma anche per un’impresa in senso gene-rale legata al tessile? Ci sono reali possibilità? Sapendo che ci sarà sempre un posto nel mondo in cui si produrrà fibra, ma anche tessuto, ma anche con-fezioni ad un prezzo più basso del quale qualunque tipologia delle nostre im-prese riuscirà a farlo. C’è un mercato per i prodotti di basso prezzo? Sicura-mente sì, ci sarà sempre un mercato per i prodotti di basso prezzo. Ma allora è già finita qui la nostra discussione? Non penso. Contemporaneamente infat-ti, ce lo diceva l’onorevole Cenni, ma ce lo dicono i dati di mercato, sta cre-scendo percentualmente pur all’interno di una complessiva crisi dei consumi finali, la quota, che è tuttavia molto piccola, e di questo bisogna essere con-sapevoli tutti, dei consumi, chiamiamoli etici, non solo “bio” ma etici in senso generale, che quindi rispondono alla responsabilità sociale di impresa. È lega-ta alla sicurezza alimentare? Sicuramente si. È legata solo alla sicurezza ali-mentare? Forse no. Crescono i prodotti di Altro Mercato, crescono i prodotti a responsabilità sociale, a marchio sociale, cresce complessivamente l’atten-zione da parte di un consumatore sicuramente avvertito, sicuramente più con-sapevole, non solo della qualità intrinseca del prodotto ma del modo con cui quel prodotto, quella derrata, ma anche quel prodotto finito è stato realizzato: con attenzione per l’ambiente, per la sicurezza dei lavoratori, per l’impiego di manodopera minorile. Quindi potremmo intravedere in questa direzione lo

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Incontri e confronti con i territori

spazio per quella produzione di qualità che, se sceglie di confrontarsi avendo come riferimento la filiera che conduce alla grande distribuzione, è sicuramen-te schiantata e non ha futuro. Dove si colloca invece questa produzione di qualità? L’abbiamo suggerito già nei primi interventi di questa mattina, si col-loca probabilmente nel suo contesto più prossimo, quello della multifunziona-lità. Aggiungo anch’io una riflessione su questo tema: a me sembra che si debba cominciare, o si possa cominciare a delineare sulla multifunzionalità vista dal lato dell’azienda agricola, una duplicità di declinazioni, cioè esiste un’azienda multifunzionale nel senso che più tipologie di lavoro prodotte in azienda consentono a quell’azienda di stare in piedi, molteplicità di figure delle quali qualcuna direttamente impegnata in azienda e qualcuna impegnata in azienda in part-time come coadiuvante, nei momenti delle grandi raccolte, nei momenti particolari di attività dell’azienda agricola, anche questa è un’azienda multifunzionale, è multifunzionale perché al suo interno come piccola unità produttiva si svolgono più funzioni rivolte all’esterno. Poi c’è l’azienda che ha fatto della multifunzionalità il proprio orientamento produttivo, cioè quell’azien-da che non è zootecnica, non è a produzione sementiera o vegetale prevalen-te, ma in cui le produzioni zootecniche e vegetali sono orientate e decise in funzione dell’essere azienda multifunzionale. Allora immediatamente viene in mente l’agriturismo, perché una scelta di agriturismo è una scelta dentro la quale, nel rispetto delle regole della connessione e della complementarietà, c’è bisogno di avere una percentuale definita di produzione propria per il menù per esempio. Ma non è solo questo. L’azienda multifunzionale che sceglie di darsi questo orientamento produttivo, organizza il suo tempo di lavoro, il tem-po di lavoro del suo gruppo familiare o imprenditoriale che sia, organizza i suoi investimenti, le sue strutture fisiche, organizza la stessa produzione, per dare quella risposta. Questa “azienda della multifunzionalità”, secondo me, può trovare e può dare il contesto dentro al quale l’imprenditoria tessile trova il suo habitat, il suo stato migliore per svilupparsi in connessione con almeno altri due elementi che già oggi sono stati evocati e che a me sembrano deci-sivi: la connessione con le tradizioni locali e la valorizzazione del territorio. Sono infatti aziende fortemente legate ad un’esperienza locale, del come si lavorava, del come si produceva, del come si arrivava al prodotto finale, del come lo si collocava sul mercato. Per sostenere questa imprenditoria c’è una funzione propria anche per il soggetto pubblico che potrebbe assolvere con molteplicità di scopi: c’è da ricostruire il patrimonio della memoria storica. Ecco perché hanno senso i musei, gli eco-musei, hanno senso le raccolte, più

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Sul filo del lavoro

o meno etnografiche che, se le depuriamo dall’aspetto di folclore banalizzato, che pure a volte hanno, costruiscono l’ancoraggio con il passato, contribui-scono a mantenere viva e vivace la conoscenza di un territorio, delle sue produzioni, e dei rapporti sociali connessi. Se poi sono collocate all’interno di contesti territoriali ambientali caratterizzati e significativi, questo acquista un valore ulteriore perché legano il rurale, l’ambientale, il produttivo ed il sociale e finalmente ricomponiamo ciò che abbiamo voluto un po’ artificiosamente separare. Dobbiamo segmentare il reale per conoscerlo ma senza perdere l’insieme. Ecco anche in questo caso noi abbiamo segmentato e quindi perse-guiamo la tutela ambientale separatamente le produzioni buone, però ad un certo punto il rurale, il territorio, è un’unità, che non accetta di essere spac-chettato. Allora ci sono sedi, ci sono luoghi, ci sono porzioni di territorio, mi vengono in mente i parchi nei quali queste funzioni si ricompongono in manie-ra intelligente e armonica. È stato citato l’esempio della canapa e più tardi è prevista una comunicazione specifica, io quindi non ne parlerò a differenza di quanto mi invitava a fare la nostra coordinatrice. Dico solo una cosa: la critici-tà dell’esperienza della canapa, non è stata la filiera che si è interrotta: quella era una filiera che portava al mercato un prodotto, a firma di un grande nostro stilista emblema del made in Italy, che vendeva questi jeans ad un prezzo as-solutamente rispettabile, il quale ad un bel punto ha deciso che costava di meno comprarsi la canapa da fuori. Quindi non è che non fosse stata costrui-ta una filiera, quella filiera ha avuto dei problemi per la delocalizzazione, per la crisi del tessile, per le difficoltà ben note che hanno messo in crisi il tessile in Italia, non una di meno, cioè ha imbarcato tutte le difficoltà di un comparto industriale maturo. Che cosa è rimasto? Alcuni elementi sono rimasti, di tipo agronomico prima di tutto, già sono stati citati, sui quali si può lavorare e ai quali agganciarsi, e poi sono rimaste delle esperienze legate al Parco del Delta del Po. A Comacchio se un visitatore fa la passeggiata, poi va nel centro visita del Parco trova anche il prodotto finito confezionato con la canapa e a quel punto quel visitatore, quel turista, quell’appassionato ha ricompreso nel-la sua esperienza ambientale e culturale anche la lavorazione della canapa, i maceri e le zone umide, dentro a uno schema, dentro alla ricostruzione di un passato che si fa presente e che rinvia a un’immagine di un futuro praticabile. Dopodiché l’acquisto della borsa di canapa piuttosto che del tovagliato, va insieme a quello del vino di sabbia o dell’anguilla marinata: è esattamente un prodotto del territorio con un valore aggiunto che quel turista/visitatore vuole pagare, è disponibile a pagare ben al di sopra di quello che può essere il puro

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Incontri e confronti con i territori

e semplice valore commerciale della borsa comprata nel negozio di fianco. Ecco perché io dico: a me sembra che ci possano essere delle prospettive solo se si riconnettono insieme queste potenzialità. Noi abbiamo fatto nel nostro PSR una scelta volta a non attivare la 312, quella che veniva identifica-ta come appunto la più artigianale delle misure: abbiamo invece rivolto molte risorse, molte attenzioni alla 311 che è la misura della multifunzionalità. In contemporanea abbiamo approvato una nuova legge sulla multifunzionalità che genericamente va sotto il nome di legge dell’agriturismo, ma che in realtà vuole essere la legge contenitore di tutte le esperienze della multifunzionalità, con cui abbiamo dato valore all’esperienza di fattorie didattiche, che escono dalla storia ormai annosa delle fattorie didattiche nella Emilia Romagna, che oggi vengono finalmente assunte a un riconoscimento formale. La legge 4/2009 è una legge di inquadramento della multifunzionalità, con la quale diamo anche valore all’agricoltura sociale e alla vendita diretta di qualunque tipo, quindi non esclusa anche quella legata ai prodotti del tessile. Tengo mol-to stretti questi elementi perché l’ imprenditoria femminile in questi contesti ha avuto e continua ad avere percentuali significative. Noi abbiamo intrapreso una ricerca analitica sul mondo dell’imprenditoria femminile perché chi lo ha fatto sa quanto poco siano ancora disponibili i dati di genere, quanto poco significativi siano. Noi abbiamo svolto questa indagine attingendo dalla RICA, cioè utilizzando la rete contabile, elaborando i dati forniti da Agrea (agenzia regionale per le erogazioni in agricoltura) e anche quelli dell’anagrafe azienda-le. I dati di AGREA e della RICA sono utili per andare a vedere quanto le impre-se agricole al femminile sono capaci di attrarre risorse dal piano di sviluppo rurale, quanto le imprese agricole sono strutturate in termini anche di redditi-vità e di produttività. Abbiamo intenzione di continuare, ma già fin da adesso questi dati confermano in qualche misura ciò che è stato anticipato stamatti-na: per esempio che il settore della multifunzionalità nella accezione che io davo, cioè delle imprese che hanno scelto come orientamento produttivo quello della multifunzionalità, vede in prima fila le imprese condotte da donne e quanto anche loro ci segnalino, per le indagini piccolissime che abbiamo fatto, la difficoltà di fare rete, la difficoltà di accesso al credito, i problemi di conciliazione. Noi abbiamo intenzione di continuare questo progetto e abbia-mo intenzione di ampliarlo, non solo per renderlo più analitico ma anche per dare servizi reali all’impresa agricola, servizi di formazione, servizi di concilia-zione. Questo è quello che voi trovate nella scheda che vi è stata data sotto il nome di progetto IDA, Imprenditrici Donne in Agricoltura, che parla alle im-

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prenditrici che vivono nel rurale, avendo considerato che dal punto di vista della conciliazione tempi di vita-tempi di lavoro, che subiscono le stesse mi-nacce e hanno le stesse difficoltà delle imprenditrici agricole anche le artigia-ne e le libere professioniste. Stiamo tentando un’operazione di questo genere, dico stiamo tentando perché la difficoltà vera ovviamente è di trovare un im-pulso e risorse che sostengono questi tipi di progetti oltre le scarse risorse che la singola regione può mettere in campo. L’occasione odierna di presen-tare il progetto a voi è perché qui ci sono altre rappresentanti, altre regioni, e l’idea è quella di presentare alla Rete Rurale Nazionale questo progetto e direi di farne scaturire un progetto di interesse interregionale sostenuto dalla rete. Da ultimo anche qui una richiesta che è anche un po’ un appello: siamo sicure che i gruppi di azione locale finanziati dall’Asse 4 non possano essere sedi di sperimentazione per piccoli progetti e per progetti di cooperazione transna-zionale o, perché no, anche in cooperazione a scala intereuropea? I GAL pos-sono mettere insieme la capacità dei gruppi di azione locale di dare servizi, un po’ di rete, un po’ di animazione, qualche facilitazione sotto il profilo della as-sistenza tecnica e qualche risorsa economica. A me sembra che qui ci possa essere o si possa provare a proporre qualcosa di interessante per le impren-ditrici femminili del settore del tessile e non solo. Grazie per l’attenzione.

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VeronicA nAVArrAPresidente delegato ONILFA

“Multifunzionalità aziendale: un’opportunità per le imprese femminili e il territorio”

La funzione dell’agricoltura, ormai da diversi anni, non è più solo identificabile nella produzione di beni di prima necessità.Infatti, l’agricoltura è chiamata sempre più a svolgere numerose funzioni. Fra queste vi sono: quella economica (relativa alla crescita delle economie a livello locale e globale), quella ambientale (associata alla protezione delle risorse na-turali e degli ecosistemi), quella sociale (legata al mantenimento della vitalità della comunità rurali, alla prevenzione della disoccupazione), quella culturale (comprendente la conservazione del paesaggio e dell’identità culturale), quella relativa alla sicurezza alimentare (intesa come produzione di alimenti sani e sicuri), quella ricreativa (relativa alla fornitura dei servizi turistici), quella didat-tica (concernente la realizzazione di attività educative sull’ambiente).Questa “multifunzionalità” dell’agricoltura scaturisce dal ruolo che le politiche di sviluppo (internazionali, comunitarie e nazionali) hanno assegnato al settore agricolo nel promuovere lo sviluppo economico e sociale dei paesi europei ed extraeuropei, ma è anche la risposta ai recenti comportamenti di consumo manifestati dalla società civile, sempre più attenta alle problematiche ambien-tali e alla ricerca di ambienti e prodotti sani e di qualità.Esistono diversi approcci alla tematica della multifunzionalità in agricoltura e, quindi, diverse definizioni di multifunzionalità.Essa è, comunque, la caratteristica fondamentale del nuovo modello di agri-coltura e si attua con il superamento della dimensione specificamente produt-tiva e di presidio territoriale della funzione agricola tradizionale, attraverso l’offerta di servizi aggiuntivi e di presidio sociale ed ambientale.Quindi, il concetto di multifunzionalità si collega al riconoscimento che l’agri-coltura, oltre a produrre cibo e fibre, produce anche un’ampia gamma di beni e servizi non commerciali, modella l’ambiente, influisce sul sistema sociale e culturale e contribuisce alla crescita economica. La conservazione dei valori ambientali, culturali e sociali tradizionalmente prodotti dal settore agricolo è sempre più richiesta dagli abitanti dei centri urbani. Le due forze principali che guidano questa crescita nella richiesta di beni e servizi diversi da cibo e fibre

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Sul filo del lavoro

sono: 1) una maggiore coscienza del valore attribuito alla funzione ambien-tale e sociale; 2) la maggiore preoccupazione per la loro crescente scarsità, dovuta al ruolo sempre minore che l’agricoltura svolge nelle aree rurali e alla pressione crescente dell’urbanizzazione sulle tradizioni rurali e sui modi di vita e delle attività antropiche sugli ecosistemi naturali.La sostenibilità e la qualità della vita sono due principi fondamentali che le donne rurali vogliono rispettare. È risaputo che le donne rurali hanno un ruolo importante nella sicurezza alimentare e nella conservazione della biodiversità. Infatti, quando valutano un raccolto, non solo tengono in considerazione il valore di mercato del prodotto, ma anche le proprietà organolettiche e gastro-nomiche, nonché le necessità alimentari della propria famiglia.La maggior parte delle aziende condotte da donne sono efficaci, innovative e dinamiche, ma la vera caratteristica che le distingue è l’orientamento verso la diversificazione e la multifunzionalità.La diversificazione si riferisce all’uso della terra e degli altri principali fattori di produzione (capitale, lavoro) per produrre beni e servizi che non sono di-rettamente collegati al settore primario, come il turismo, le attività ricreative, educative e terapeutiche. Esempi tradizionali di diversificazione includono la trasformazione in azienda, la vendita diretta dei prodotti agricoli e l’agrituri-smo. Il processo di diversificazione può portare all’esclusione dell’agricoltura, cioè ad una completa disattivazione nell’impresa agricola della funzione di produzione agricola.Contrariamente alla diversificazione, che come abbiamo detto può portare all’esclusione dell’agricoltura, l’adozione delle pratiche multifunzionali rafforza la funzione di produzione agricola delle aziende.Il concetto di multifunzionalità dell’agricoltura è incentrato su determinate ca-tegorie principali di funzioni:

1 - Funzioni economiche ed occupazionali, come:• Produzione alimentare• Generazione di reddito e occupazione nelle aree rurali• Tutela ambientale

2 - Funzioni di pubblica utilità, riconducibili al suo ruolo nel garantire:• Qualità e sicurezza degli alimenti• Mantenimento delle tradizioni e dei tessuti socioculturali rurali• Contributo allo sviluppo equilibrato del territorio

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Incontri e confronti con i territori

L’importanza della multifunzionalità viene riconosciuta anche all’interno del Programma di Sviluppo Rurale – programma operativo con cui si attuano il PSN (Piano Strategico Nazionale) e gli OSC (Orientamenti Strategici Comuni-tari) – dove sono sviluppati quattro Assi.Tra questi, l’Asse tre è dedicato alla qualità della vita nelle aree rurali e diver-sificazione economica (es. diversificazione verso attività non agricole, servizi di base per l’economia e la popolazione rurale, sostegno attività turistiche, rinnovamento e sviluppo villaggi). L’obiettivo è quello di migliorare l’attrattività dei territori rurali per le imprese e la popolazione con i seguenti investimenti di carattere economico:

• sostegno agli interventi per il miglioramento del contesto sociale, eco-nomico e ambientale entro cui operano le popolazioni locali

• creazione di reti di servizi economico-sociali nei settori del turismo e dell’artigianato

• realizzazione e ammodernamento di infrastrutture locali• recupero, tutela e valorizzazione del paesaggio e del patrimonio im-

mobiliare anche storico e architettonico che quello di mantenere e/o creare opportunità occupazionali e di reddito in aree rurali, che impli-cano investimenti di carattere socio-culturale:

• incentivi per favorire la diversificazione economica nelle aziende agri-cole su attività quali: agriturismo, turismo locale, agri-asili, fattorie didattiche, eco-fattorie, produzione di energia

• sostegno alla creazione di micro-imprese artigianali, manifatturiero, valorizzazione del patrimonio storico- locale

• mantenimento e sviluppo del turismo locale. • In Italia le realtà multifunzionali si indirizzano verso: • Turismo rurale• Fattoria didattica• Agriturismo • Asili rurali con servizi integrativi e sperimentali per la prima infanzia• Servizi ludico-ricreativi/ludoteche (corsi di artigianato e cultura locale)• Assistenza per anziani, comunità di tipo familiare mamma-bambino

per persone non abili (pet-therapy, horticultural therapy etc.)• Fattorie didattiche ed eco-fattorie: percorsi didattici di educazione

all’agricoltura compatibile, alle produzioni di qualità, all’educazione alimentare, nel rispetto delle tradizioni, dell’ambiente e della cultura

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Sul filo del lavoro

locale• Inserimento lavorativo, formazione per diversamente abili, ex-detenuti

e altri soggetti deboli.

La multifunzionalità rappresenta, quindi, un’opportunità economica per le aziende del settore agricolo poiché valorizza le risorse locali; aiuta uno svi-luppo integrato ed equilibrato delle zone rurali svantaggiate; crea nuovi posti lavoro e nuove professionalità; migliora la fruibilità dei fabbricati, borghi e cen-tri urbani minori; sensibilizza sui temi dell’ambiente e del territorio, dell’agricol-tura, delle tradizioni, dell’ambiente e della cultura locale.Per competere economicamente sui mercati globali è necessario ottenere delle produzioni ad alto valore aggiunto tramite l’esaltazione delle specificità produttive, delle qualità sensoriali e della tipicità.Valorizzare l’impresa agricola, così come quella artigianale, è una compo-nente fondamentale dell’identità del territorio e della sua economia. I punti di forza delle produzioni agricole si basano sulla tipicità e genuinità, sulle tradizioni secolari che spesso si nascondono dietro al prodotto finale.Un’opportunità per le aziende agricole potrebbe essere quella di produrre le fibre e aprire delle fattorie didattiche incentrate sul tessile. Le misure del PSR: 121 (agricoltura), 121 o 123 (trasformazione), 312 (artigianato), ad esempio potrebbero essere un’opportunità per le imprese femminili e per il territorio:— la coltivazione di piante tintorie, coltivazione di piante da fibra, coltivazione

di piante da essenze— la produzione di lana

oppure, nell’ambito della trasformazione:

— la produzione di pigmenti coloranti— la produzione di fibre (per la produzione tessile e/o della carta)— la produzione di essenze e prodotti cosmetici, di erboristeria, fitoterapici — l’impiego di materiale di rifiuto per biomassa.

Così come le fattorie sociali potrebbero sviluppare l’artigianato tessile a mano, con produzioni di cesterie, accessori, etc.Come l’agricoltura, anche la storia del tessuto è vecchia quanto l’uomo ed è per questo che è importante preservare la tradizione tessile per il suo legame col territorio.

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Incontri e confronti con i territori

Anche il tessile è portato da sempre avanti dalle donne e la formazione di micro imprese femminili potrebbe essere il futuro.Punto di forza è: la volontà delle imprenditrici di rispondere alle esigenze del cliente, la flessibilità quindi della lavorazione artigianale, ma anche organiz-zazione e efficienza. Fondamentale ,quindi, è il fare rete con altri per creare quella sinergia necessaria a rivalutare le “vecchie” tradizioni che aiutano lo sviluppo dell’agricoltura ma anche quello dell’artigianato.

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Sul filo del lavoro

AdriAnA BuccoDonne Impresa Coldiretti

“L’integrazione del comparto agricolo e artigianale: esempi, strategie e proposte di multifunzionalità territoriale”

Buongiorno, sono Adriana Bucco responsabile nazionale di Donne Impresa, sono un’imprenditrice agricola. Stamattina si è parlato di azioni a favore delle imprenditrici agricole, ne avete una qua davanti. Innanzitutto vorrei fare una precisazione a proposito della multifunzionalità: la multifunzionalità racchiude un concetto che nasce dalla legge di orientamento a cui noi in agricoltura facciamo riferimento ed è una grande opportunità che tutti gli agricoltori pos-sono cogliere e che è stata accolta soprattutto dalle donne (non mi dilungo sul perché delle donne in agricoltura perché è già stato detto di tutto e di più, sia-mo fantastiche, dinamiche). Le donne, così come gli uomini, hanno un obietti-vo in agricoltura, come penso in tutti i settori dell’economia, e quest’obiettivo è quello di fare impresa. Fare impresa vuol dire portare a casa uno stipendio. Tutto quello che noi facciamo e ci inventiamo tutti i giorni sul campo è per riuscire a portare a casa un reddito e conciliare la vita in azienda con quella in casa. Noi imprenditrici agricole abbiamo anche qualche carta che gioca mol-to a nostro favore: il fatto spesso di conciliare il luogo di lavoro e l’azienda con la casa, scusate non è poco, è una cosa che ci risolve un sacco di problemi. Ed è per questo motivo che stiamo lavorando, noi donne imprenditrici proprio a questo progetto di cui parlava Veronica Navarra che è quello degli agri-asilo. È questa è la parola giusta da usare se questo è riferito al progetto della Coldiretti. In sintesi il progetto degli agri-asilo nasce dall’esigenza di fornire l’opportunità ai bambini di poter trascorrere il loro tempo, la loro giornata in un’azienda agricola, con un apporto didattico decisamente diverso da quello che può essere fatto in un asilo, ma assolutamente valido e con dei valori che probabilmente si stanno un po’ perdendo. Ci stiamo lavorando molto e pertan-to stiamo mettendo in piedi una bella rete. Ma non è facile, perché ovviamente l’ostacolo non sono i bambini, non sono i genitori, non sono le aziende agrico-le, non siamo noi: sono organi quali l’ASL o le amministrazioni comunali che devono alla fine concedere la licenza. Ma ci stiamo lavorando e sicuramente, grazie alla nostra determinazione, riusciremo a superare questi ostacoli.Vi do due dati: le aziende agricole in cui la titolarità è femminile sono il 30%,

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Incontri e confronti con i territori

(la titolarità, non dove ci son le donne, perché in tutte le aziende agricole c’è una donna che normalmente è una coadiuvante, ma nel 30% di queste azien-de la donna è titolare di impresa); vi dico anche che il 45% degli studenti che frequentano la facoltà di agraria sono donne; è già stato detto che anche nel mondo del biologico siamo molto rappresentate, lo dico perché siamo il primo stato europeo a livello di produzioni e normalmente in un’azienda biologica , non dico sempre, ma nella maggior parte dei casi c’è una donna. La mia è un’azienda biologica, io produco frutta, verdura, vino. Sono piemontese. Va da sé che dove c’è più fatica, dove bisogna avere più cura, dove c’è la cura del dettaglio, dove bisogna lavorare con la schiena chinata perché la terra è molto bassa, lì normalmente ci sono le donne.Come ben saprete, la FAO ha dichiarato il 2009 l’anno internazionale delle fibre naturali.Lo scenario agricolo sta veramente cambiando. E non si tratta solo di multi-funzionalità, ma è la figura dell’imprenditore agricolo che ha deciso finalmente di gestire personalmente il mondo dell’agricoltura, mondo che forse è stato per troppo tempo lasciato in gestione ad altri. Abbiamo parlato di filiera corta, filiera lunga, io vi lancio un nuovo messaggio, un messaggio molto forte che la Coldiretti ed io vogliamo mandarvi: c’è una filiera che può essere corta, lunga, ma noi vogliamo fare in modo che questa filiera sia tutta italiana. Non è così ovvio e facile realizzare una filiera corta; io nella mia azienda la faccio la filiera corta, perché io ho le mie piante di frutta, raccolgo io la frutta, la trasformo in confetture e queste, le etichetto, le metto in vendita. Ho un punto vendita all’interno della mia azienda agrituristica.Ma ci sono settori agricoli IN CUI realizzare una filiera corta è davvero difficile. Ma noi oggi siamo qua a parlare di tessile e realizzare una filiera corta nel tes-sile è complicato perché c’è un processo di trasformazione e di lavorazione che difficilmente un’azienda agricola può avere al suo interno. C’è bisogno di macchinari, per coltivare e per lavorare le fibre naturali. Occorrono appositi laboratori. In Piemonte, regione da cui io provengo, si stanno facendo speri-mentazioni con la canapa. Coltivare la canapa significa riportare in vita delle tradizioni, significa valorizzare un territorio. Abbiamo ascoltato oggi relazioni sui problemi che molte aziende hanno: una produzione di lana enorme, per esempio, che va mandata al macero perché non conviene lavorarla. Perché il processo di lavorazione richiede l’utilizzo di macchinari molto costosi. E quindi, nel migliore dei casi, la lana prodotta in azienda viene mandata all’este-

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Sul filo del lavoro

ro per essere lavorata. Ma così abbiamo perso, perché il prezzo poi non lo conteniamo più, e allora andiamo a comprare i jeans dai cinesi. La filiera deve essere italiana nel senso che tutto il procedimento deve essere fatto qui. Quindi, di cosa abbiamo bisogno noi per realizzare questa filiera tutta italiana e, vi aggiungo, firmata dagli agricoltori? Gli agricoltori che in questo momento sono in campo e stanno facendo una sperimentazione molto buona per esem-pio sulla canapa, stanno ottenendo dei grandi risultati. Prima è stato detto che il seme della canapa è francese, ma in Italia stiamo ottenendo le prime se-menti biologiche certificate di canapa, questo ad opera dell’Assocanapa che ha sede in Piemonte. Abbiamo quindi bisogno che la ricerca scientifica lavori a supporto dell’agricoltura perché anzitutto trovi, escogiti dei macchinari che ci permettano di fare tutta la lavorazione qua in Italia, (in Piemonte stanno fa-cendo dei prototipi di macchine per raccogliere e lavorare la canapa). Questa è una prima cosa che noi assolutamente chiediamo alla ricerca scientifica, in secondo luogo chiediamo anche un aiuto sulle sementi per riuscire ad avere un seme che sia nostro, italiano, certificato, perché anche questo rientra nella filiera. Solo così, possiamo difendere il marchio del “Made in Italy” anche in un setto-re come quello del tessile.

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Incontri e confronti con i territori

susi crispinoCNA IMPRESA DONNA

L’integrazione del comparto agricolo e artigianale: esempi, strategie e proposte di multifunzionalità territoriale

Salve, sono Susi Crispino e rappresento la CNA, sono componente della pre-sidenza nazionale di imprenditoria femminile. Visto che già si è parlato di tutte le capacità con cui la donna riesce a fare impresa e innovazione, mi soffermo sulla parola artigiano che si identifica con manualità, competenza, con un pro-dotto che viene lavorato anche parzialmente con manodopera professionale. Come rappresentanti CNA siamo molto attente a promuovere e a cercare di fare rete tra le imprenditrici, in un mondo così vasto di esperienze, dal com-parto artistico o tessile al meccanico eccetera.Questo progetto mi piace ed è un invito ad una riflessione su quelle attività che sono state ”eccellenze” nel passato ed oggi sono in crisi, stanno morendo, e come, in alcuni casi, con la creatività e la diversificazione si porta avanti con fatica pur non essendo tutelati e coadiuvati.Noi come artigiani siamo abituati a comprare materie prime con attenzione alla qualità; ma con i problemi dei costi e la necessità di essere competitivi, difficilmente si sviluppa una cultura di comprare prodotti italiani anche se co-stano di più per sostenere lo sviluppo economico italiano.Questa cultura, secondo me, va promossa e sostenuta, il nostro “Made in Italy” deve avere un processo lavorativo del prodotto, dalla fibra al manufatto alla commercializzazione, interamente italiano. Bisogna porre l’attenzione sul-le nostre materie prime e avviare processi di multifunzionalità.Come CNA saremo sollecitati a fare questo tipo di comunicazione, ma è an-che vero, come ho visto prima, che non è così facile, nella lavorazione di filati tessili oggi ci sono delle lacune. Noi come produzione di moda siamo stati i primi nel mondo, ma quello è un lavoro proprio di manufatto, di creatività; nel caso in cui si dovessero utilizzare lane e canape nostrane, queste dovrebbero avere determinate prestazioni tecniche per essere confezionate. Sicuramente ci si può cimentare di nuovo nella produzione di canapa, che in Emilia dagli anni trenta agli anni settanta è stato uno dei migliori prodotti esportati, o fruttare la lavorazione della lana, ma occorre una nuova tecnologia per i filati, perché è in questa fase che sta la lacuna. Una cosa è la signora che tesse con

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Sul filo del lavoro

il telaio un capo o poche unità con creatività, una cosa è promuovere o incen-tivare un prodotto da fare reddito, sia pure nelle quantità limitate, con rispetto della tradizione culturale, legato al territorio e soprattutto alle competenze di produzione italiana. Quindi dobbiamo incentivare proprio la parte meccanica della trasformazione della fibra. Ad esempio noi siamo bravissimi nel finissag-gio dei colori, le nostre stampe su sete sono le migliori nel mondo, anche le sete, con i filati comprati in Cina e tessute in Italia, sono le migliori del mondo.Noi per cultura siamo portati ad usare tessuti naturali, soprattutto noi donne, sia perché non procurano dermatiti, sia per la traspirazione: infatti non ampli-ficano i cattivi odori, tipici dei tessuti sintetici. Poi però nel mercato globale si importa per il basso costo penalizzando così la qualità. Ed è proprio nella richiesta di qualità che si valorizza il prodotto italiano, ed è importante certifi-care il processo produttivo italiano in contrapposizione alla contraffazione che da anni subiamo.Oltre alla tutela si deve fare attenzione anche alla trasmissione dei nostri siste-mi produttivi, bisogna trasmettere tutta la competenza delle nostre aziende artigiane, con grande tutela di questo patrimonio e, come ripeto, non si tratta del semplice ”fatto in Italia”, ma soprattutto fatto con processi e competenze professionali italiane.Ogni azienda che detiene tale patrimonio lo deve trasmettere ma anche tute-larle e, magari, brevettarlo. Le competenze e l’azienda sono tutt’uno, e questo vale anche se all’interno dell’azienda ci sono dipendenti di altre nazionalità. L’importante è che il prodotto sia fatto interamente in Italia e non legato al nome di una persona (come accade per alcuni marchi che di italiano oggi hanno solo il nome!).Prima ci si chiedeva come fare filiera, micro filiere o multifunzione per la pro-duzione di tali prodotti italiani. Sicuramente ci deve essere una responsabilità di ogni soggetto produttivo all’interno della filiera, legato anche da vincoli finanziari. Non si può avviare un progetto “agro-artigianale” e poi dopo qual-che anno per inadempienza di un attore vederlo fallire a discapito anche del territorio, non può accadere, come è già successo, che ad esempio chiude lo zuccherificio e non si può più coltivare la barbabietola da zucchero in Lombar-dia. È necessaria una organizzazione e una strutturazione vincolanti all’origine della filiera.Grazie.

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Incontri e confronti con i territori

AnTonellA Turci Tutela dei Consumatori e Politiche di Genere - Regione Toscana

Sono qui oggi per conto della Regione Toscana, per rappresentare la posi-zione di una pubblica amministrazione, quale la nostra, che affronta una pro-blematica come quella dell’imprenditoria femminile con l’aspettativa di potere sostenere anche una sua multifunzionalità. Logicamente per potere impostare e modificare nel tempo le nostre politiche regionali, ci basiamo sulle nostre esperienze, esperienze che non devono essere soltanto a livello teorico, ma sempre più di tipo pratico.Il nostro punto di osservazione principale, come voi avete avuto modo di sen-tire anche in precedenti incontri, prende le mosse dall’attuazione di una legge nazionale, la Legge 215/1992 sull’imprenditoria femminile. Questo è stato il punto di partenza che ha condotto in tutti questi anni il nostro intervento su due filoni principali: uno sul sostegno diretto alle imprese femminili e, in que-sto campo troviamo imprese di vari settori fra cui anche quello dell’agricoltura (che vede una buona presenza di imprese condotte da donne e che sempre più si attiva per utilizzare al massimo i contributi pubblici che derivano sia dalla comunità europea sia a livello statale e regionale); l’altro filone riguarda, invece, il sostegno vero e proprio alla donna che vuole fare impresa attra-verso diverse iniziative che servono proprio a supportare la sua capacità o potenzialità manageriale. Diciamo che negli ultimi anni la quota dei finanziamenti e di contributi pubblici è andata sempre più diminuendo e, quindi, da necessità virtù, abbiamo spo-stato sempre di più l’attenzione verso il supporto alle attività di formazione/informazione, ai percorsi formativi, per fare sì che la donna che decide di fare impresa abbia tutte le opportunità non solo di aprire, ovvero si parla di “start-up” della propria attività, ma anche di mantenerla nel tempo, cioè saper stare sul mercato. Per questo motivo, basandoci su dei dati che adesso non sto qui a ricordare perché ci vorrebbe troppo tempo, bisogna annotare che c’è stata negli ultimi anni una pesantissima mortalità di imprese al femminile che, sì, nascevano nel giro di poco tempo grazie a delle buonissime idee e dei buoni progetti, ma che si rivelavano buoni solo sulla carta; perché passati i due anni, proprio nel momento di entrata in esercizio dell’attività, le aziende trovavano diverse difficoltà che purtroppo le portavano al fallimento dell’impresa.Questo ci ha posto degli interrogativi, anche come amministrazione pubblica

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Sul filo del lavoro

destinata ad attivarsi per mettere in campo queste risorse, per capire quali erano le effettive cause.Una delle prime cause che veniva evidenziata, era proprio la fragilità di queste imprese. L’impresa al femminile è all’80% un’impresa individuale o di piccolis-sime dimensioni, e per piccolissima si intende un’impresa che ha massimo di 5/10 addetti, mentre le piccole possono arrivare fino a 50 addetti. Questo lo si rileva in tutti i settori, sia che si parli di turismo, di commercio, di servizi, sia dell’artigianato e anche nel campo dell’agricoltura, anzi spesso e volentieri proprio nel campo dell’agricoltura troviamo la presenza dell’imprenditrice indi-viduale. Quindi questa era una delle caratteristiche che ci poneva l’obbligo di effettuare una verifica.Altra causa era la difficoltà di accesso al credito, quindi anche in questo caso volevamo dare un supporto alla donna che entrava all’istituto bancario e chie-deva un credito e per prima cosa le veniva richiesta una garanzia, cosa che magari all’uomo, a pari condizioni, non veniva richiesta. Quindi questo è stato un altro elemento caratterizzante di cui dovevamo tener conto.Una terza causa è stata quella, superata grazie anche alle modifiche all’ultimo bando, di carattere più tecnico-strutturale relativa alla progettualità che dove-va essere molto più fattibile, ovvero cantierabile, in modo tale che il progetto che veniva presentato doveva rientrare in un range che lasciava completamen-te fuori i progetti troppo piccoli e gli altri troppo grandi, ( il range andava dai 60.000 ai 400.000 euro). Un altro elemento che ha spostato l’attenzione delle nostre azioni è stato rendersi conto del problema dell’imprenditrice in quanto manager di se stes-sa, sia che si trattasse di una aspirante, di una neo imprenditrice, oppure anche di un’imprenditrice che aveva già maturato un’esperienza e che voleva trasformarsi, modificare la propria attività per potere valorizzare meglio sia la propria azienda ma soprattutto se stessa, le proprie capacità manageriali. È per questo che abbiamo messo in campo delle iniziative che andavano a sostenere più la sfera individuale, attraverso un supporto anche psicologico. Per questo motivo siamo giunti a definire dei percorsi formativi che partivano da una prima verifica di bilancio di competenze, la cui impostazione vi verrà meglio spiegata dalla Professoressa Annamaria Di Fabio. Io voglio solo accen-nare al corso di bilancio di competenze che noi abbiamo già proposto per ben tre volte, vista la notevole riuscita, nel nostro Programma Regionale di azioni per l’imprenditoria femminile. Lo abbiamo promosso perché abbiamo capito che il ritorno, il feedback po-

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Incontri e confronti con i territori

sitivo arrivava non tanto dalle aspiranti imprenditrici (intendendo con queste ragazze giovani che uscivano dalla scuola ben preparate e che avevano gran-di idee, grande voglia di fare e che ancora non conoscevano esattamente le proprie potenzialità e quindi avevano bisogno solo di potersi rafforzare), ma soprattutto per noi quello delle imprenditrici che avevano già una grossa espe-rienza, un bagaglio anche di tipo manageriale, di professionalità sul campo e che erano pronte a riguardarsi allo specchio, a mettersi in discussione, a rimettersi in gioco. Da questa esperienza abbiamo capito quanto anche una azione come la nostra, che partiva dal soggetto pubblico, da una pubblica amministrazione, potesse essere di aiuto alle donne che vogliono fare impre-sa. Quindi non si lasciava sola o non si abbandonava più l’imprenditrice a se stessa ma le si dava una risposta anche in termini di un servizio di supporto per una formazione professionale che servisse ad una causa ben precisa (an-che per trasformare l’attività).Quindi da un lato diminuivano le risorse economico-finanziarie, ma dall’altro aumentavano quelli che erano i sostegni reali, effettivi, per dare più spazio alla propria potenzialità. Perché racconto questa esperienza? Perché serve a capire che se c’è l’in-tenzione di migliorare o trasformare la propria professionalità, questa può avvenire anche nella direzione di una multifunzionalità. Forse è già intrinseco, oltre tutto la propria attività può essere migliorata in questo senso, quindi i progetti come quelli che sono stati presentati oggi, servono proprio ad au-mentare l’attenzione che dobbiamo porre ad attività ed iniziative che servono a migliorare il sistema, anche perché bisogna capire che su un territorio serve fare sinergia, serve concertare certe attività da parte di tutti gli attori che intervengono. Non basta che il pubblico faccia la sua parte e il privato la sua o le organizzazioni sindacali la loro, ma tutti insieme devono riuscire a poter rendere appetibile un territorio, ove hanno competenza ad agire, ovvero devo-no esser in grado di rendere appetibili le “strade” per ampliarlo e per mettere in comunicazione e quindi mantenere quelle reti di cui si parlava stamattina. Per questo motivo la Regione Toscana, con l’ultima normativa che abbiamo approvato ad aprile, L.R. 16 del 2 aprile 2009 “Cittadinanza di genere”, va nella direzione di migliorare e sostenere questa sinergia attraverso la defini-zione di Patti Territoriali di genere. La parola può essere un po’ altisonante, però serve a fare capire che se vogliamo veramente andare nella direzione che veniva già fuori dagli interventi della mattina, bisogna agire tutti insieme, in sinergia, bisogna concentrarsi sulle potenzialità che ci sono su un territo-

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Sul filo del lavoro

rio, potenzialità di tipo finanziario ma anche logistico: pensiamo ai trasporti, pensiamo quindi alla mobilità, pensiamo a tutto quello che può servire per rispondere ai problemi di conciliazione dei tempi di vita-lavoro.L’imprenditoria risente di tutto ciò, soprattutto ne risente la donna che lavo-ra, perché anche se vuole migliorare e mantenere la propria attività, dovrà sempre fare i conti con la propria vita privata. Quindi, soltanto se riusciamo a trovare delle soluzioni armoniche si può dare una spiegazione a queste criti-cità ed una risposta alle aspettative della componente femminile del sistema produttivo. L’importante è fare si che tutte le persone riescano ad arrivare ad essere consapevoli di quella che è la loro potenzialità. Noi crediamo di poterlo fare anche attraverso questi strumenti che abbiamo messo in pista e che, dopo un passaggio di primo impatto come può essere lo strumento del bilan-cio di competenze, approdano ad altri progetti più specifici come quello del mentoring che non è altro che una forma di tutoraggio che, nel nostro caso, ha previsto una relazione diretta tra imprenditrici esperte e aspiranti. Grazie per l’attenzione.

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Incontri e confronti con i territori

AnnAmAriA di FABio Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Psicologia

Dispositivi di orientamento a supporto della multifunzionalità nell’impresa femminile

Grazie, buon giorno a tutti, un ringraziamento agli organizzatori del congres-so perché, lavorando insieme al mondo dell’imprenditoria, in particolar modo femminile, da molti anni, ho trovato questa opportunità un momento di rifles-sione molto incisivo, basato su stimoli preziosi, su circolarità, su posizioni a 360° quali di per sé una tematica come la multifunzionalità evoca. Noterete nella mia comunicazione il piacere sincero di essere qui con voi perché il mondo dell’imprenditoria, specialmente femminile, è un mondo che ho avuto il modo di apprezzare ormai da circa un decennio (Di Fabio, 2008; Di Fabio e Palazzeschi, 2008; Di Fabio e Turci, 2009). Il primo bilancio di competenze che abbiamo realizzato in Toscana per l’imprenditoria femminile è stato nel 2003, precedentemente avevamo fatto già altre esperienze prodromiche, per cui ho avuto modo di cogliere e di interiorizzare in una dimensione diacroni-ca molte ricchezze dell’imprenditoria femminile e dell’intervento di bilancio di competenze in tale contesto. Sulla base di questi elementi, cercherò di pre-sentare in maniera succinta il senso di un bilancio di competenze a servizio e a supporto di un processo di empowerment dell’imprenditrice, ancora di più in un’ottica di multifunzionalità. Il bilancio di competenze è un intervento finalizzato a sviluppare il sé pro-fessionale ed imprenditoriale dell’imprenditrice, con modalità ancorate ad un principio di complessità interna e di complessità esterna, con la ricerca di una declinazione armonica fra questi due elementi di complessità (Di Fabio, 2002; Di Fabio, Lemoine e Bernaud, 2008; Di Fabio e Majer, 2004). Troppo spesso tendiamo a soffermarci sulla complessità esterna che, peraltro, urge, visti i problemi di globalizzazione, di mercato del lavoro, ma tendiamo a sottostima-re i problemi di complessità interna all’imprenditrice. È proprio dalla declina-zione di questi aspetti che in realtà si rafforza e si realizza un vero processo di empowerment imprenditoriale. Per approfondire scientificamente questi temi, oltre agli interventi sul campo, sono state realizzate in Tascana varie giornate di studio a livello internazionale sul bilancio di competenze a servizio dell’im-prenditoria femminile e questo ormai decennio di esperienze sul bilancio di

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competenze come dispositivo a sostegno dello sviluppo e del rafforzamento di problematiche di tipo professionale, in particolar modo imprenditoriale, ha aperto in realtà la strada anche all’inserimento, sia pure a livello più potenzia-le, di altri dispositivi psicologici per l’empowerment dell’imprenditrice, come il counseling per l’imprenditoria femminile, nel caso in cui ci sia bisogno di un intervento non sul planning di sviluppo imprenditoriale ma sul fronteggiamento di crisi più congiunturali, più momentanee, oppure tecniche di development center nell’imprenditoria femminile, oppure forme di coaching imprenditoriale se sono più legate esclusivamente a problematiche di performance. E la Re-gione Toscana su questo, e ringrazio molto la dottoressa Turci perché effet-tivamente ha profuso molte energie per far sì che si concretizzassero queste numerose esperienze al servizio delle imprenditrici, ha costituito un faro di qualità in termini sia di ricerca che di azioni concrete.Cercando di presentare una definizione di bilancio di competenze, l’interven-to costituisce un percorso di consapevolezza progressiva, all’interno della complessità che l’imprenditrice si trova ad affrontare, emblematicamente una modalità attiva e proattiva per sciogliere molti nodi, per prendere visione, affrontare, rendere evidenti e poter agire su determinate criticità nutrendo la consapevolezza delle risorse. Tale aumento di puntualità e globalità nella visione, declinato anche sul versante di quelle che sono le caratteristiche, le risorse, le potenzialità a vari livelli dell’imprenditrice, in primis come persona, elicita per sua natura processi di trasferibilità che appaiono intrinsecamente connessi con una riflessione di multifunzionalità. Il progetto professionale di sviluppo dell’imprenditrice, in termini proprio di business imprenditoriale, per risultare vincente non può essere avulso da un ancoraggio alla realtà rispetto a una visione potenziata e più estesa delle risorse realmente disponibili, ma anche da una consapevolezza più attenta dei vincoli, in particolar modo di quelli costituiti dall’incompetenza inconsapevole. Il bilancio di competenze costituisce, pertanto, per sua natura, un processo molto motivante per l‘imprenditrice, di per sé faticoso e bisogna al riguardo avere l’onestà intellettuale di dirlo, perché il bilancio di competenze è un’ope-razione che chiama in gioco la persona a riflettersi in uno specchio con se stessa, in cui il facilitatore agisce ma non può togliere la fatica del guardare fino in fondo ciò su cui, invece, molte volte risulterebbe più semplice illudersi. Si tratta sostanzialmente di un processo per muovere l’imprenditrice ad un movimento verticale di coscienza riflessiva, alla responsabilità e alla proattivi-tà per un reale ed efficace empowerment imprenditoriale; è un’occasione per

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la persona, può essere utile soffermarsi soprattutto su questi ultimi tre pas-saggi, per verificare e rendere maggiormente consapevole l’interezza del suo bagaglio di esperienze e di competenze, con una volontà di anticipazione di autonomia e, soprattutto, potenziare l’ampiezza delle informazioni del proprio campo visivo – sta utilizzando un grandangolo o sta utilizzando un teleobietti-vo nel momento in cui si rappresenta il suo sviluppo imprenditoriale? Cosa può significare cambiare prospettive, quali implicazioni può avere verificare da altri punti di vista in termini di progettualità imprenditoriale? Questo è il senso del percorso che si articola in tre distinte fasi, all’interno delle quali molto importante è il lavoro sulla mappatura delle competenze e sulla loro trasferibilità. Soffermandosi su questo aspetto, quando noi ragioniamo in termini di compe-tenza, troppo spesso sottostimiamo quali sono i diversi ambiti di riflessione sulla competenza. I nostri progetti sono forti in virtù della nostra competenza consapevole, perché ciò ci arricchisce di self-efficacy, ci offre la possibilità di sentirsi capaci e sappiamo che senza questa consapevolezza non riuscirem-mo ad affrontare il mercato e gli sviluppi, ma quello che può rendere ancora più ricca la nostra possibilità di sviluppo imprenditoriale, sta nella nostra com-petenza inconsapevole. Ci sono, per esempio, nella letteratura specialistica molti compiti, definiti “compiti di seconda natura”. Si tratta dei compiti che noi abitualmente svolgiamo senza renderci conto del raffinato livello di com-petenza che, invece, convogliano ed implicano al loro interno. Solo per fare un esempio banale, un velista che come hobby pratica questo tipo di sport, in genere, tende a relegare tutta la complessità implicata in un ambito che non è lavorativo mentre, riflettere sul tipo di difficoltà che comunemente incontra per realizzare, svolgere, agire quel preciso hobby e capire che le competenze hanno un’enorme trasferibilità, è molto importante ed arricchente. Rispetto al mondo femminile, ad esempio, la donna ha l’abitudine a lavorare in parallelo rispetto a lavorare in serie: per noi donne ciò è normale in quanto siamo indot-te dalla pluralità dei compiti e dei ruoli a lavorare in parallelo, mentre in genere i nostri colleghi uomini tendono a lavorare in serie. Eppure per le donne tutto ciò è talmente normale, talmente “seconda natura”, direbbero i testi scientifici citati, che non riusciamo a rendercene pienamente conto. Per cui è la compe-tenza inconsapevole da portare in figura, da far emergere nella sua ricchezza e potenza motivazionale: il bilancio di competenze è molto focalizzato su questo aspetto, sull’emersione, su una consapevolezza maggiore rispetto a questi aspetti. È altrettanto vero, però, che i nostri progetti sono anche fragili

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in relazione al versante dell’incompetenza inconsapevole. Mentre l’incompetenza consapevole è quella che ci porta a usare una certa prudenza, è quella che ci fa rendere conto che prima di intraprendere una certa operazione abbiamo bisogno di rinforzarci su determinati aspetti, il vero elemento di criticità dei nostri progetti non sta nell’incompetenza consapevo-le, ma nell’incompetenza inconsapevole. Allora il bilancio di competenze, se da un lato è focalizzato sul fare emergere tutte le risorse che non vediamo, pur possedendole e agendole nella realtà della nostra vita, cerca anche di portare in figura tutte le criticità inconsapevoli che vanno a costellare il nostro sviluppo imprenditoriale affinché, prendendone consapevolezza, possiamo in maniera proattiva attivarci, riflettere sulle strategie di coping da utilizzare e mettere in campo, attrezzarci, impegnarci per un miglioramento che ci con-senta davvero di essere più pronti al superamento delle difficoltà. Noi non sia-mo “forti” nella misura in cui ci illudiamo di qualcosa, siamo “forti” nella misura in cui ne abbiamo pienamente controllo e rafforziamo le nostre possibilità di agire un controllo. In conclusione, in relazione alle varie valutazioni che la Regione ha raccolto in merito alle esperienze di bilancio di competenze realizzate in Toscana, ci sono alcune considerazioni che sono emerse e che vale la pena condividere per le implicazioni che ne derivano. Tra le varie sollecitazioni, c’è una domanda emblematica che è stata rivolta ai vari gruppi delle aspiranti imprenditrici coin-volte: l’intervento di bilancio di competenze è stato professionalmente utile? Il verde del grafico rappresenta il massimo grado di apprezzamento, ed è pos-sibile vedere che c’è davvero una buona percentuale di adesione. Se tuttavia rivolgiamo la stessa domanda al gruppo rappresentato dall’insieme dall’altro target, i vari gruppi di imprenditrici esperte coinvolte, si vede chiaramente che l’adesione riguarda la totalità delle imprenditrici esperte, in quanto il campione nella sua interezza sostiene che l’intervento di bilancio di competenze è stato professionalemente utile. La medesima leggera differenza di valutazione si ripropone in riferimento ad un’altra domanda emblematica: l’intervento può essere riproposto ad altre aspiranti imprenditrici? La maggior parte, espressa dal verde del grafico, è stata d’accordo. Tuttavia, nel caso delle imprenditrici esperte, è di nuovo la totalità del campione, senza alcuna indecisione, che ha espresso il suo pieno sostegno a questa tipologia d’intervento, riuscendone a recepire fino in fondo e senza nessuna esitazione la forza e la potenza ope-rativa.Ciò ci consente di sottolineare che all’interno del mondo delle aspiranti im-

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prenditrici molte volte si rintracciano realtà che necessiterebbero probabil-mente più di specifici interventi di counseling di orientamento professionale, cioè di processi di reale costruzione di un Sé professionale ancorato alla realtà delle risorse e dei vincoli, a prescindere talvolta dal versante impren-ditoriale, in quanto quella fragilità che viene poi esperita come rimando nel feedback di talune aspiranti imprenditrici, probabilmente coagula un piccolo zoccolo duro non ancora adeguato per azioni raffinate di potenziamento e di progettualità del Sé imprenditoriale mentre potrebbe maggiormente giovarsi magari di azioni finalizzate alla costruzione della propria identità professiona-le, qualunque essa sia. Alcune aspiranti imprenditrici risultano infatti ancora legate a processi di lettura dell’imprenditoria idealizzati quanto stereotipici, con una visione disgiunta dalla complessità reale del mondo imprenditoriale e pertanto soggette alla frustrazione del contatto con il principio di realtà, rifiutato in quanto non sufficientemente idealizzabile. L’altro target, al con-trario, quello delle imprenditrici esperte, è costituito in genere da donne già fortemente abituate a muoversi all’interno delle difficoltà della complessità imprenditoriale, dell’intersezione dei piani, in possesso di realtà progettuali e imprenditoriali reali, concrete, già in qualche modo affermate anche se da sostenere e da potenziare, e possono pertanto affrontare le varie fasi dell’in-tervento e progressivamente facilitare se stesse nei processi di consapevo-lezza che ne scaturiscono, riuscendo a percepire fino in fondo il vantaggio del dispositivo in termini di rafforzamento dei processi di sviluppo imprenditoriale. È facilmente inferibile che ciò potrà verificarsi a livelli ancora maggiori in un contesto imprenditoriale intrinsecamente congruente quale quello connesso alla multifunzionalità.

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serenA TArAngioliIstituto Nazionale Economia Agraria – INEA

Donne, territorio e impresa, le opportunità della politica di sviluppo rurale

Mi presento, sono ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria e faccio parte dello staff della Rete Rurale Nazionale, il network per l’assistenza tecnica alla Politica di Sviluppo Rurale 2007-2013 creato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.Con il mio intervento avrei voluto dare un quadro dell’imprenditoria agricola femminile in Italia ma, visti i tempi e il contenuto degli interventi che mi hanno preceduto, mi soffermerò sugli strumenti messi a punto, nell’ambito della Poli-tica di Sviluppo Rurale 2007-2023 per affrontare i temi relativi all’imprenditoria femminile in agricoltura e della qualità della vita delle donne nelle aree rurali. Inoltre, mi soffermerò sulle attività di accompagnamento create nell’ambito del Programma Rete Rurale Nazionale, a favore delle “donne rurali”.Prima di procedere con il mio intervento, mi preme però sottolineare la gene-rale mancanza di informazioni riguardo il ruolo e le attività delle donne nelle aree rurali. Infatti, nella predisposizione dei programmi di Sviluppo rurale ci siamo dovuti scontrare con questo problema; sappiamo che il 35% delle don-ne italiane vive in aree rurali (quando parliamo di aree rurali parliamo di aree che hanno bassa densità demografica, una forte presenza di attività eco-nomiche legate all’ambiente e all’agricoltura) però su cosa fanno le donne e come si muovono abbiamo scarsissime informazioni (se non quelle dell’ISTAT, relative alle indagini demografiche, che ci danno un quadro piuttosto parziale di quella che è la figura femminile).Sia la commissione europea sia le analisi nostre hanno messo in evidenza che la donna è sicuramente molto attiva nelle aree rurali. Essa ha un ruolo importantissimo, però questo ruolo non è né percepito dalla società rurale in cui vive, una società legata a tradizioni, a culture ancora molto particolari e, soprattutto, le stesse donne non sono consapevoli del proprio ruolo. Detto questo passiamo all’analisi dell’attività agricola in senso stretto. Tantis-sime sono le donne che si occupano di agricoltura, anche perché i processi sociali che hanno caratterizzato il mondo rurale negli ultimi decenni hanno por-tato ad una sorta di trasferimento delle funzioni economiche e sociali sull’uni-

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verso femminile (si pensi ai processi migratori, solo per fare un esempio). In ogni caso, quando andiamo ad analizzare le statistiche ufficiali, notiamo che le imprese femminili sono imprese condotte soprattutto da donne che hanno oltre 65 anni di età (il 38% di queste aziende sono condotte da donne anzia-ne), le donne sotto i 24 anni rappresentano soltanto lo 0,5% dell’imprenditoria femminile. Abbastanza modesto risulta anche il tasso di scolarizzazione, il 13% delle donne non ha titolo di studio, il 48% ha soltanto la licenza elemen-tare, quindi le donne laureate sono brave ma, in effetti, ancora pochissime. Le aziende condotte da donne hanno un orientamento tecnico-produttivo tra-dizionale (il 50% con coltivazioni permanenti e il 25% con seminativi), spes-so scarsamente innovative e fortemente legate a un vecchio modo di fare agricoltura, anche perché le donne non hanno la possibilità di aggiornarsi, di investire e si confrontano con una serie di ostacoli che determinano il modo di fare agricoltura. E anche quando parliamo di diversificazione, notiamo che solo il 10% delle aziende condotte da donne sono diversificate. Il 74% di queste aziende svolge attività legate al settore agroalimentare, fa piccola trasformazione o piccola lavorazione dei propri prodotti. Quindi, ancora una volta, un’attività molto tradizionale che, confrontata con quello che succede negli altri paesi d’Europa, fa vedere che la diversificazione in Italia è ancora un concetto in forte evoluzione e a cui si fa scarsamente ricorso. Il confronto da fare, per chi vuole approfondire, è con quello che succede in Francia o in Germania, dove non solo si fa diversificazione, ma sono anche attente alla novità: un dato per tutti, quello delle energie rinnovabili, il settore più attuale, più moderno. Detto questo, come ci siamo organizzati in termini di strumenti messi a posto dalla programmazione di sviluppo rurale? Abbiamo capito che prima di tutto era importante intervenire nell’azienda agricola. L’azienda agricola femminile ha necessità di innovarsi e, soprattutto, le imprenditrici agricole hanno ancora necessità di essere accompagnate nello sviluppo della propria azienda. Per questo motivo è stato creato uno specifico strumento, il “pacchetto donne”, che cerca di dare alle donne l’opportunità di sviluppare un’idea complessiva di sviluppo aziendale. Che cosa si cerca di fare? Attraverso una domanda unica di accesso ai finanziamenti previsti dalla politica di sviluppo rurale che toglie alla donna l’incombenza di stare attenta ai vari bandi che escono per le diverse misure dello sviluppo rurale, si cerca di dare la possibilità alle donne di soddisfare tutte le proprie esigenze, siano esse di tipo immateriale - la forma-zione, l’assistenza tecnica, la consulenza aziendale - o strutturali - gli interventi

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nell’azienda agricola, gli interventi per la trasformazione, per la diversificazio-ne dell’azienda. Ciò, attraverso un’unica domanda di finanziamento. Quindi, la donna può avere un obiettivo specifico di sviluppo e portarlo a termine parte-cipando ad un solo bando della politica di sviluppo rurale. Questo strumento è stato messo a punto nel Piano Strategico Nazionale e intende valorizzare ed intervenire in maniera massiccia sull’imprenditoria femminile in agricoltura.Devo dire purtroppo che le regioni hanno un po’ tralasciato questo strumento, quindi anche a livello di regione, a livello di istituzioni, non c’è una percezione ben chiara di quali sono le esigenze a livello di imprenditoria femminile in agri-coltura. Una sola regione, la Regione Sardegna, ha scritto esplicitamente nel proprio programma di sviluppo rurale che esisterà un pacchetto donne, altre regioni accennano più o meno all’utilizzo di questo strumento. L’unico dato di fatto che abbiamo è che, ad oggi, se altri pacchetti sono già stati banditi per i giovani imprenditori che stanno facendo domanda, per le donne ancora non c’è niente di pronto.L’altro strumento importante è quello della progettazione integrata di filiera, che cerca di soddisfare le esigenze che sono venute fuori qui stamattina (svi-luppo delle filiere produttive). Attraverso la progettazione integrata di filiera si cerca di creare integrazione tra i vari attori delle filiere produttive per far fronte alle dinamiche e alle problematiche cui si confronta quotidianamente il mondo agricolo. Il progetto integrato di filiera permette di sviluppare un’idea complessiva di sviluppo che coinvolga il produttore, il trasformatore, chi fa commercializzazione, e tutti i soggetti che, a monte e a valle della filiera produttiva, in qualche modo entrano in contatto o soddisfano delle esigenze legate a quello specifico obiettivo. L’altra cosa su cui intendo soffermarmi è la politica per la qualità della vita che propone interessanti e importanti attività per le donne, la Rete Rurale Na-zionale. La Rete Rurale Nazionale ha come obiettivo prioritario la creazione di un luogo di confronto su tutto ciò che interessa o riguarda lo sviluppo rurale: la competitività, l’ambiente, l’imprenditoria femminile, quella giovanile, la pro-gettazione integrata, lo sviluppo del territorio. Questo per cogliere al meglio quelle che sono le esigenze del territorio, aprire dibattiti e confronti con le isti-tuzioni, con gli attori economici e sociali, col mondo della ricerca, per trovare momenti di discussione che si possono trasformare in progetti di sviluppo per il territorio rurale. La Rete Rurale Nazionale prevede due task force che pos-sono interessare la platea: una è la task force imprenditoria femminile, dove si affronteranno tutti gli argomenti che riguardano l’imprenditoria femminile in

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agricoltura; la seconda è la task force progettazione integrata, che si occupa proprio delle filiere produttive, delle filiere territoriali, insomma di tutti quei pacchetti e quegli strumenti che fanno integrazione. Mi metto a disposizione del Progetto che è stato presentato stamattina, sia-mo ben disposti, per quelle che sono le nostre possibilità, ad accompagnare e promuovere tutte le iniziative che, come quella presentata oggi, sono partico-larmente innovative nell’individuazione dei target di riferimento dell’assistenza tecnica e nella diffusione di nuovi approcci alla vita aziendale e ai processi di sviluppo delle aree rurali. Grazie.

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Sul filo del lavoro

Interventi programmati

grAziA mAncADipartimento di Multifunzionalità dell’impresa Agricola - LAORE Sardegna

Buongiorno a tutti. Poiché molte cose sono state già dette ed il tema della ru-ralità e della multifunzionalità è stato abbondantemente dibattuto, non ripeterò concetti già approfonditi e sui quali mi pare siamo tutte/i d’accordo. La collega dell’INEA mi ha fornito un buon assist illustrando una serie di dati relativi alla dimensione di genere dell’imprenditoria femminile in agricoltura ed alle misure dirette alle donne all’interno dei PSR. Ciò mi consente di entrare direttamente in argomento segnalando il “pacchetto donne” previsto nel PSR della Regione Sardegna, proprio in funzione del trend in crescita dell’impren-ditoria femminile in agricoltura anche nella nostra regione. Questa misura, fortemente caldeggiata sia dall’Autorità di Genere della Regione Sardegna e sia dagli organismi di parità, è una di quelle misure che hanno bisogno di essere divulgate e sostenute anche dall’assistenza tecnica altrimenti rischia di rimanere un’opportunità sprecata e fine a se stessa. Mi è stato chiesto di focalizzare l’attenzione su come la valorizzazione delle erbe tintorie e la coltivazione delle piante da fibra giochino un ruolo nella valorizzazione della multifunzionalità in Sardegna e quali azioni concrete si possano realizzare. Noi stiamo andando a concludere la seconda fase del bando relativa ai finanziamenti dei nuovi GAL previsti con l’asse 3 e 4 del Pia-no di Sviluppo Rurale. Come Agenzia Laore abbiamo sostenuto il processo di formazione dei Gal attraverso l’assistenza tecnica ai partenariati e attraverso l’animazione. Quest’ultima è stata rivolta a focalizzare gli interventi possibili con le misure e le azioni previste dall’asse 3 del PSR. Particolare attenzione è stata dedicata proprio alla misura che interviene direttamente ad aumentare l’occupabilità dei giovani e delle donne nelle aree rurali attraverso lo sviluppo delle attività integrative dell’azienda agricola e i cui benefici sono estesi anche ai componenti della famiglia agricola. L’asse 3 fa leva nel sostenere lo svilup-po rurale, su tutte le attività si pone l’innovazione al centro della valorizzazione delle risorse locali, tra queste si possono collocare anche il tessile e le erbe tintorie. Queste azioni sono previste con la misura 3.11 che, fra le attività integrative dell’azienda agricola, prevede l’allestimento di piccoli laboratori

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di trasformazione che potrebbero essere destinati per es. anche alle erbe tintorie. È prevista inoltre una misura che sostiene la creazione di laboratori di artigianato artistico, la misura 3.12, molto simile a quella attivata dall’Emilia Romagna. Un fatto sul quale mi vorrei soffermare, suffragato tra l’altro dall’analisi fatta dalla collega Tarangioli e da altre relatrici, è che spesso noi lavoriamo in assenza di dati di base disaggregati per genere: ciò rende i ragionamenti monchi e le scelte a volte risultano impraticabili. È giusto quindi porci qualche domanda: per es., chi sono queste imprenditrici di cui tanto parliamo? Chi sono le donne delle aree rurali a cui ci vogliamo rivolgere? Quale è la loro età? Quale il loro livello di istruzione?Ho estrapolato alcuni dati riferiti ad uno spicchio di territorio della provincia di Sassari, l’area rurale del Mejlogu, comunque molto significativa, che vi vor-rei proporre. Premetto che la regione Sardegna ha una densità demografica media bassissima, di 68 abitanti per chilometro quadrato, in alcuni territori si arriva addirittura a 18 abitanti per chilometro quadrato. Quello dello spopola-mento è un dato molto importante dal quale partire, perché la desertificazio-ne inizia proprio da qui. Analizzando, quindi, il dato demografico si mette in evidenza una struttura di genere che mostra la maggiore propensione delle donne a trasferirsi verso la città. Ho portato un dato di 34 comuni, ma esso rispecchia il trend generale del resto della nostra regione. Nei territori delle aree interne, che sono poi i territori interessati dalle aree GAL, abbiamo una presenza di donne bassissima e, rispetto al dato medio regionale, abbiamo una tendenza progressiva delle donne ad allontanarsi dalle aree rurali. Se poi prendiamo quella che è stata la decrescita demografica, nei comuni in esame si evidenzia che, a fronte di una contrazione totale di 4.800 abitanti registrata fra il 2002 ed il 2007, abbiamo circa 3.500 abitanti in meno nella fascia di età fra i 20–24 anni ed i 35-39 anni e fra questi il dato maggiore riguarda le donne. Per cui quando parliamo di attività integrative e complementari all’azienda agricola, di multifunzionalità, di sviluppo integrato delle aree rurali, è lecito chiedersi: di chi stiamo parlando? Ed anzi a chi stiamo parlando? Di cosa stiamo parlando? Di territori che si stanno spegnendo, di territori i cui abitanti non esistono più? Ho provato ad incrociare i dati demografici con i dati del CESIL (Centro Servizi Inserimento Lavorativo) della stessa area. I CESIL, molti di voi lo sapranno, si occupano di mercato del lavoro e di politiche attive rivol-gendosi prevalentemente a soggetti svantaggiati nella accezione più ampia:

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dai soggetti disoccupati da oltre sei mesi ai soggetti cosiddetti svantaggiati in senso stretto, quelli del collocamento obbligatorio. Quello che viene subito in evidenza è quanto sia alto il numero di utenti e come fra questi spicchino in assoluto le donne. Altri dati, anche questi uno spicchio della nostra realtà, mettono in evidenza come, anche in Sardegna, stia crescendo l’occupazione femminile, ma d’altra parte continua a crescere il dato della disoccupazione. Le donne sono, inoltre, quelle che si rivolgono di più ai centri di informazione, ai centri per l’autoimpiego, ai centri per l’imprenditorialità. Si deduce, quindi, la forte propensione delle donne a cercare lavoro ed anche all’autoimprendi-torialità. È possibile azzardare che le donne, più degli uomini, abbandonano le aree rurali perché non trovano lavoro? Se andiamo a vedere altri dati troviamo una conferma al fatto che nelle aree rurali l’occupazione femminile è uno dei problemi con la “P” maiuscola. Ho voluto portare questi esempi, non solo per farvi conoscere la nostra situazione che è a mio avviso drammatica, ma an-che per riflettere sul fatto che se vogliamo promuovere lo sviluppo delle aree rurali a partire dalla valorizzazione di qualsiasi risorsa, se vogliamo costruire progetti con le donne, fare impresa, e non partiamo da un’analisi di contesto dove i dati siano disaggregati per genere, difficilmente riusciremo a proporre qualcosa di durevole ed efficace.Questi dati ci fanno riflettere su un altro aspetto: lo sviluppo economico delle aree rurali non può prescindere da un’equità di genere. Uno sviluppo econo-mico non può fare a meno di una potenzialità forte dei nostri territori che è rappresentata dalle donne che in quei territori vivono, che sono poi quelle che lì hanno deciso di rimanere, che genereranno prole che magari manderanno all’agrinido, se l’agrinido si farà. Se noi non riusciamo, con lo sviluppo integra-to di questi territori, a stabilire un’equità di genere credo che non possiamo, di conseguenza, fare nessun discorso innovativo di nessuna filiera; del resto lo stesso Reg. ( CE) 1698/2005 lo impone. Lo sviluppo rurale e la multifunzionalità possono rispondere bene a questa esigenza perché, come è stato detto stamattina dalle altre relatrici, può con-tribuire a valorizzare ed a mettere a sistema i saperi delle donne, i saperi taciti, i saperi formali, i saperi informali. Il problema sarà, poi, come tradurre questi saperi in attività: a me è piaciuto molto l’intervento della Dr.ssa Bargos-si quando invitava ad una riflessione sulla necessità di calibrare il “fare” del progetto alla dimensione di nicchia, poiché qualsiasi discorso che si basi sui grandi numeri ci vedrebbe perdenti, anzi per usare le sue parole “schiantati”.

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Allora: il tessile, l’abbigliamento tradizionale, le tinture naturali, etc., se rico-nosciamo che tutte queste attività sono attività di nicchia (come abbiamo accettato che sia attività di nicchia fare il formaggio di fossa o il formaggio di capra), si inseriscono in un progetto più ampio di sviluppo integrato e di marketing territoriale. Chi si rivolge ai mercati locali insieme ai prodotti vuole portar via un pezzo di memoria, di storia, di cultura di tradizione.Non dimentichiamo che nell’analisi SWOT relativa al progetto illustrata dalla Dr.ssa Camilli, fra i punti di forza del settore si sono individuate due voci che sono “determinazione” e “passione”, due fattori che sicuramente non si pos-sono comprare al mercato e che spiegano anche come molte delle nostre attività tradizionali siano sopravvissute. Tutte le strutture pubbliche insieme ai soggetti privati che si occuperanno del progetto o che, più in generale, si occupano di sviluppo rurale, dovrebbero riuscire a trasformare questa pas-sione e determinazione di questi custodi di saperi e tradizioni, di cui spesso proprio le donne sono depositarie, in azioni che, anche attraverso lo studio della metodologia di trasmissione dei saperi taciti, arricchiscano di “emozioni” i prodotti e i servizi offerti dalle aree rurali.

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Sul filo del lavoro

VincenzA cAsseTTAComitato per l’imprenditoria femminile, Provincia di Salerno

Buongiorno a tutti voi, un saluto particolare ai nostri relatori, un ringraziamen-to agli organizzatori che hanno voluto a questo tavolo la presenza del CIF, il Comitato per l’Imprenditoria Femminile di Salerno, da me rappresentato. Il sistema camerale nazionale, sulla base di un Protocollo di intesa del 1999 tra il Ministero dell’Industria e Unioncamere nazionale, successivamente rin-novato nel 2003, ha creato i “Comitati per la Promozione dell’Imprenditoria Femminile (CIF) ” al fine di avviare un confronto e azioni concrete a sostegno della componente femminile nel mondo del lavoro.Ci riferiamo alla crescita dell’occupazione femminile, allo sviluppo di idee im-prenditoriali originali e innovative dal punto di vista organizzativo e tecnico-produttivo, allo svolgimento di attività di ricerca funzionali allo sviluppo della propria realtà aziendale o all’investimento in azioni particolarmente rilevanti per lo sviluppo all’estero.Il Comitato risulta essere un importante strumento per l’osservazione e la valorizzazione dell’imprenditoria femminile salernitana, finalizzato anche ad approfondire la conoscenza dell’intero sistema economico, in linea con gli obiettivi che la Camera di Commercio di Salerno persegue da tempo.Abbiamo, inoltre, voluto rafforzare il nostro ruolo di Comitato per l’Imprendito-rialità Femminile al servizio del territorio con la realizzazione di una pubblica-zione relativa allo studio sull’imprenditoria femminile della provincia di Salerno nel 2007, che risulta essere uno studio approfondito delle imprese femminili sul territorio quasi unico a livello nazionale.Ma l’attività del nostro Comitato si è anche sostanziata con l’organizzazione di seminari tematici specifici sull’imprenditorialità femminile, con la partecipazio-ne ad iniziative provinciali, regionali, nazionali ed anche europee su tematiche di nostro interesse e ad iniziative come quella in corso.Abbiamo poi istituito il Premio Venere d’Oro che quest’anno giunge alla sua terza edizione (un Premio dedicato alle migliori imprese femminili della nostra provincia, che teniamo a fine anno) al quale fin da ora invito tutti voi presenti. La provincia di Salerno si presenta fortemente variegata sul fronte della pre-senza di imprese femminili. Il tasso di femminilizzazione, risultato da un’in-dagine elaborata dalle associazioni di categoria del settore agricoltura, indu-stria, commercio ed artigianato, evidenzia una presenza importante e qualifi-

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cata delle donne nel tessuto produttivo, ma evidenzia soprattutto un tasso di professionalizzazione maggiore e più qualificato. Al 30 giugno 2008 la provincia di Salerno ha come iscritte 26.125 imprese femminili (un incremento di +1,16 sul 2007) più alto rispetto alla regione Campania che registrava un aumento dello +0,79 e sicuramente più alto ri-spetto allo +0,45 del valore di tutta Italia.In particolare, le percentuali di imprese rappresentate da donne che occupano posizione di vertice sono distribuite in queste misure: Agricoltura: 32%Industria: 15% Artigianato: 15%Commercio: 27%Il settore più dinamico alla base della crescita dell’imprenditoria femminile si conferma quello dei servizi alle imprese, tra cui i servizi immobiliari, le attività professionali, l’informatica e la ricerca. Seguono quello dei servizi alla persona (nel quale si considerano le attività legate al benessere e alla cura della perso-na), allo sport e allo spettacolo e ai servizi di pulizia. Dinamismo e crescita caratterizzano queste attività macrosettoriali, che regi-strano il tasso di femminilizzazione più elevato della nostra economia. L’im-presa femminile, insomma, amplia completamente la sua sfera, il suo raggio d’azione; anche nella sanità, dove cresce la sua presenza, seguita dal settore più tradizionale alberghiero, della ristorazione e dell’istruzione.A contribuire alla crescita dell’imprenditoria femminile sono anche le nuove imprenditrici immigrate che iniziano ad inserirsi nel nostro tessuto economi-co. La nazionalità maggiormente presente di imprenditrici straniere è la Cina, seguita da Marocco e Niger. A queste si aggiunge una presenza cospicua di ucraine ed albanesi. La Campania registra una variazione di +5,84 tra il 2007 e 2008 di imprese individuali rosa extracomunitarie, collocandosi al 4° posto (dopo Lombardia, Toscana e Lazio). Entrando nello specifico dell’argomento di oggi parliamo del settore tessile.La ricerca proposta, realizzata dal CNR, a cui abbiamo aderito con piacere e grande interesse, costituisce l’ossatura di un progetto di rilancio di un settore che vede nella provincia di Salerno: nella Campania una grande tradizione storica, ma anche una presenza, oggi, di tutto rispetto sul piano nazionale. Un settore di tradizione che si inserisce nel tessuto produttivo con grande incisività .

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Sul filo del lavoro

La grande tradizione del tessile salernitano: nella mia memoria si fa avanti il ricordo di piccole industrie sul territorio vietrese come l’industria Mattio-li, impresa di trasformazione delle balle di cotone in filati; l’industria Notari produttrice di tessuti in lana e seta; la ditta Cavalieri, produttrice di tessuti in cotone per poi arrivare alle famose Cotoniere Meridionali, la Marzotto, a fare la storia della provincia nel settore, come pure dell’economia globale durante gli anni ’60 e ’70 in particolare. Industrie che rappresentano oggi un passato che si è ampiamente trasformato, con la presenza di microimprese, come di piccole e medie imprese. Il tessuto produttivo del settore esprime 1.253 attività dislocate sul territorio provinciale, su 8.622 imprese tessili della Campania, sono il 14,5%. Secondo alcuni dati, il settore espresso attraverso l’import e l’export di filati, tessu-ti, abbigliamento, pellicceria, maglieria, conciario, calzature, mostra nume-ri significativi, con due province che trainano la regione, Napoli ed Avellino (quest’ultimo per la sua tradizione conciaria in particolare), ma anche con sofferenze da segnalare. Tra il 2007 ed il 2008, infatti, sono aumentate in tutta la regione le impor-tazioni dei prodotti tessili, un aumento comunque contenuto. Si sono però contratte le esportazioni, passando invece da 909 mila a 820 mila. Un dato che, scorporato per province, vede le due province più dinamiche, Napoli ed Avellino, ridurre le importazioni, ma Salerno aumentarle di parecchio con in-vece una contrazione delle esportazioni. Dati che evidenziano una sofferenza, anche se il dinamismo delle imprese è notevole, come pure è variegata la dislocazione sul territorio provinciale, con piccoli distretti di settore in alcune aree, Agro, Cava e Campagna. Proprio la nascita di questi micro distretti, nati per la produzione di cravatte (Campagna), ad esempio, di filati (Cava), di abbigliamento (Agro), produce una classificazione dinamica del comparto, pur in presenza di difficoltà da ascrivere alla crisi globale degli ultimi mesi ed alla forte concorrenza dei Paesi extracomunitari.Un problema comune a tanti, un problema con cui confrontarsi e da affronta-re, anche in sede legislativa. Da un’analisi elaborata attraverso un questionario somministrato ad un 2% di imprese, assunte come campione (Indagine 2009 di “Donne in Campus”), il problema della falsificazione, dei costi contenuti dei prodotti di importazione condiziona pesantemente il mercato.Le imprese chiedono innanzitutto una tutela legislativa a questo dilagante fe-

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Incontri e confronti con i territori

nomeno, sia per tutelare l’impresa italiana, sia per tutelare i nostri prodotti, sia per salvaguardare l’occupazione, messa a dura prova da questo sistema che sembra essere entrato in una pericolosa spirale.In una lettura di un articolo molto interessante di cui ora non ricordo l’autore, si dice che il cachemere italiano, prodotto nelle Langhe, territorio particolar-mente fecondo, non potrà mai essere eguagliato da quello cinese ed indiano, che si pongono in forte concorrenza con noi. Infatti, tecnici cinesi ed indiani hanno studiato sul posto la qualità di questo nostro prodotto per riprodurlo, ma hanno dovuto desistere dal momento che né la Cina né l’India posseggo-no la nostra acqua, la purezza della nostra acqua che rende non imitabili, non riproducibili i prodotti di quel territorio. E con questa considerazione positiva che lascia sperare in una ripresa della nostra economia basata sulle nostre specificità, sulle nostre professionalità, sulla qualità dei nostri prodotti che si dovrà puntare sempre più in alto. Con questo auspicio vi ringrazio per la vostra attenzione ed auguro buon prose-guimento nei lavori e nell’iniziativa, rinnovando fin d’ora la disponibilità del Comitato per l’imprenditoria di Salerno a future collaborazioni.

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Sul filo del lavoro

AnnAmAriA mollicAAssessorato politiche sociali Provincia di Benevento

Un saluto a tutti, anche a nome dell’assessore Annachiara Palmieri, assente per impegni istituzionali. Ho ascoltato con interesse le testimonianze e le riflessioni maturate in questa giornata di confronto tra le diverse realtà regionali che hanno aderito al pro-getto. Avevo partecipato anche a Napoli alla conclusione della prima annualità delle attività progettuali in Campania e confermo in questa sede l’interesse della Provincia di Benevento ad avvalersi della collaborazione del CNR-Ibimet per la ricerca di nuove prospettive di sviluppo della provincia sannita.Dal punto di vista strutturale, il nostro territorio appartiene alle aree interne della Campania, che il meridionalista Manlio Rossi Doria definì l’osso, rispetto alla polpa delle zone costiere.Non è stato mai facile per il Sannio competere con la ricchezza e le dimensio-ni dell’area flegrea e non lo è soprattutto oggi, nel momento di esplosione di una crisi globale che si abbatte con maggiore violenza sulle nostre zone. La sfida consiste nel trasformare la crisi in opportunità, mutare l’osso in polpa. Il tessuto produttivo sannita si presenta altamente polverizzato. Rispetto a un totale di oltre 30.000 aziende attive, composte per l’82% da ditte individuali, il 7% è rappresentato da imprese femminili. I settori produttivi prevalenti sono l’agricoltura e il commercio. Nonostante la nostra provincia sia a vocazione agricola, il settore primario continua ad avvalersi di metodi di conduzione di tipo tradizionale che non contribuiscono ad un significativo aumento del PIL. Inoltre, al di là di alcune eccezioni, le imprenditrici agricole risultano solo nominalmente intestatarie di aziende condotte da altri componenti della loro famiglia. Tra le criticità della nostra agricoltura, dobbiamo evidenziare soprat-tutto quella della tabacchicoltura. Il Sannio ha da decenni vantato una pro-duzione di tabacco di elevata qualità. La politica agricola comunitaria, però, ci impone di riconvertire tale tipo di produzione, adeguandola agli standard europei. Come superare questa crisi?La soluzione non è affatto scontata e le istituzioni locali sono alla ricerca di opzioni alternative, operando un confronto con le associazioni di categoria del settore.Potremmo, però, provare a partire da alcune suggestioni che offre la no-stra provincia per rilanciare l’economia agricola del Sannio: siamo la terra dei

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Incontri e confronti con i territori

Santi e delle Streghe, il Comune di Pietrelcina è il paese natale di Padre Pio e, intorno a questo richiamo religioso, una serie di aziende agrituristiche sta cercando di far gravitare la propria attività, nonostante il polo turistico non sia ancora decollato. Siamo anche la terra delle Streghe, secondo un’antica tradizione diffusa e accreditata che si confonde tra storia e leggenda.Dal punto di vista della riconversione della produzione del tabacco potremmo pensare, perciò, alla produzione, trasformazione e commercializzazione di erbe officinali per uso alimentare, estetico e medicinale, a cui potremmo as-sociare anche un Parco Letterario delle Streghe e un Museo delle Streghe (già in allestimento) creando una completa filiera turistica attorno a questo tema.Un ulteriore settore in crisi della nostra economia locale, oltre al tabacco, è il comparto del tessile, a San Marco dei Cavoti così come ad Airola, nella Valle Caudina. Saluto, in proposito, i rappresentanti della comunità locale di San Marco dei Cavoti presenti in sala. La forte criticità è dovuta al fatto che, per motivi di ordine diverso, sia nel distretto industriale di San Marco che nell’area di Airola, non si sono creati i presupposti per uno sviluppo endogeno, ma il ciclo di produzione è stato incentrato sulla trasformazione di materiali e tessuti provenienti da altre sedi. Tutto questo non ha creato un vero e proprio indotto nell’economia territo-riale ed ha ulteriormente indebolito l’imprenditoria locale. Come trasformare questi elementi di debolezza in punti di forza? Per quanto riguarda il tessile, faccio ricorso ad un esempio illuminante, offerto da un articolo di “Affari e Finanza” di Repubblica pubblicato il 15 giugno scorso: vi si riporta il caso di un’azienda tessile, operante a Vicenza. Il titolo dell’arti-colo è “Bonotto, il tempo lento di una fabbrica a chilometro zero”. Si tratta di un’azienda, che vanta un fatturato di 34 milioni di euro e occupa 200 addetti, dove si producono tessuti per le più grandi griffes di lusso, utilizzando vecchi telai e macchine degli anni ’50. Grazie a questo tipo di attività sono state per-fino riscoperte figure professionali ormai scomparse da decenni, come quella dell’oliatore di telai. Potremmo cercare di legare insieme tutto quello che è rimasto dei telai e dell’attività della produzione artigianale di cui sono ricchi i distretti industriali di San Marco dei Cavoti e di Airola per tentare un salto di qualità del tessile nella nostra provincia, partendo anche dalla trasformazione della lana prodotta dai nostri ovini.Potremmo operare questo tentativo intercettando prioritariamente le risorse finanziarie del Piano di Sviluppo Rurale e del Fondo Sociale Europeo per l’imprenditoria femminile. Ovviamente, queste sono delle sfide che lanciamo

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Sul filo del lavoro

al CNR-Ibimet, perché chiediamo di essere sostenuti nel processo di ricon-versione insieme agli attori dello sviluppo locale e a tutte le istituzioni che ne sono coinvolte.Confidiamo, quindi, sulla seconda annualità del progetto, che sarà costituita da percorsi di orientamento d’impresa, e sulla terza fase, basata sulla speri-mentazione di una formazione imprenditoriale innovativa, per superare la crisi e costruire insieme uno sviluppo sostenibile che parta dall’identità del nostro territorio.

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Incontri e confronti con i territori

norA desmond KrAVisAzienda Agricola La Penisola

Cashmere sostenibile. Una filiera tracciabile, sostenibile,“Made in Tuscany”

Sono Nora Desmond Kravis, americana di nascita, toscana d’adozione, re-sidente nella campagna senese dagli anni ‘70 e proprietaria del primo alle-vamento di capre cashmere in Italia, creato nel 1995. Mi sono laureata in Medicina Veterinara all’Università di Pisa nel 1980, sono stata uno dei soci fondatori nel 1995 della European Fine Fiber Network, socia fondatrice anche dell’Associazione Arianne nel 2001 e sono rappresentante degli Allevatori di Animali da Fibre della European Association of Animal Production (Animal Fiber Working Group), creato nell’estate del 2008. Parliamo molto al giorno di oggi di sostenibilità. Ma come qualcuno giusta-mente ha sottolineato durante il Convegno sulla “Moda Etica” del mese scorso la sostenibilità non deve essere una moda – deve essere un modo di gestire le proprie risorse. Soprattutto per l’allevatore che vive non del proprio lavoro, ma vive di una passione e per una scelta di vita, qualche volta molto bucolica ma, sopratutto, di duro lavoro fisico, di sacrifici giornalieri e, spesso e volen-tieri, poco remunerato.Parliamo tanto di sostenibilità nella filiera e nel tessile, non solo della lana ma anche delle altre fibre animali più pregiate come il cashmere, ma sareb-be più giusto fare ancora un passo indietro alla fonte della materia prima, e cioè all’allevamento, al benessere e alla selezione genetica degli animali che producono la fibra grezza perché, se la produzione stessa a monte non è sostenibile, non lo può essere nessuna delle fasi susseguenti.L’allevamento della capra cashmere al di fuori dalle zone storiche, come la Cina e la Mongolia, non è un’idea recente, in quanto altri paesi (specificamen-te l’Australia, gli USA, la Scozia ed altri di minore importanza) hanno fatto o continuano a fare, l’allevamento delle capre cashmere con più o meno suc-cesso. A partire dal 1995 presso la nostra Azienda, abbiamo allevato diversi ceppi di capre cashmere, importando da allevamenti qualificati esteri ed incrociando le capre straniere con le capre autoctone italiane per creare una vera capra cashmere italiana. Nel 2006 abbiamo costituito il CapCashIt, l’Associazione

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Sul filo del lavoro

Capra Cashmere Italiana, con sede legale presso la nostra azienda a Radda in Chianti, per garantire un supporto agli allevatori italiani, per creare un Registro Nazionale della Capra Cashmere Italiana, per garantire il riconoscimento a li-vello nazionale e comunitario della nostra genealogia, e per garantire ai nostri associati la filiera di trasformazione nella sua totalità: dalla fibra grezza fino al prodotto finito, in maniera tracciabile e documentabile. Tutti gli animali allevati da noi sono identificati con microchip alla nascita e la loro genealogia con il DNA: il che significa che ogni prodotto grezzo o finito che sia che ne deriva, è tracciabile al 100% alla sua origine, puramente toscano.Tutte le procedure – sia il sistema di allevamento estensivo, sia la raccolta manuale della fibra, sia la degiarratura e la filatura, sono fatte o presso la nostra azienda toscana oppure, ove è impossibile, per esempio, per le analisi della fibra a Prato e per la degiarratura e la filatura, a Biella, con tracciabilità al 100%. Invece di cercare di competere con il sistema asiatico che vede il degrado dell’ambiente nella desertificazione di vaste zone, con conseguente perdita di produttività, di biodiversità e di sistemi pastorali secolari e di tutto il lavoro indotto che vede l’inquinamento dell’aria e del suolo con i prodotti chimici ed i metalli pesanti, una produzione nazionale di cashmere ritornando al modello della pastorizia ci permette di capovolgere questa situazione, sfruttando al meglio il nostro territorio con impatto positivo e sostenibile.Dalla fine del dopoguerra i terreni agricoli coltivati sul territorio italiano sono diminuiti di oltre il 60% con conseguenze veramente drammatiche in alcune zone: abbandono dei territori montani e collinari, perdita di lavoro, degrado della superficie agricola, perdita della biodiversità e via di seguito. Il nostro è un sistema di produzione agricola che va oltre il biologico, che integra i principi di salute ambientale e l’utilizzo efficiente delle risorse non rinnovabili, che garantisce l’economicità delle aziende, il trattamento etico ed il benessere degli animali ed il miglioramento della qualità della vita per la società in generale.Con il sistema integrato “Brucare non bruciare”, un progetto InterRegionale già avviato in Val d’Aosta e in via di espansione anche in alcune paesi dell’Est come la Romania, adoperiamo il pascolo mirato della capre cashmere sui terreni incolti ed abbandonati pubblici e privati, lungo gli argini dei fiumi, nei boschi e nei parchi, per pulire, bonificare, riciclare le biomasse e riducendo gli incendi e mantenendo la qualità del suolo senza l’utilizzo di carburanti fossili od altre risorse non rinnovabili.

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Incontri e confronti con i territori

ll sistema di allevamento di pascolo estensivo delle nostre capre è quello che più si avvicina al loro stato naturale: le capre vivono tutto l’anno all’aria aperta, dove le condizioni climatiche e atmosferiche assicurano le condizio-ni per la produzione di fibra di qualità e quantità commerciabili. Il risultato è la longevità e il benessere degli animali e la qualità superiore del nostro prodotto finito: un esempio di benessere animale semplice e cost-effective.N.B.: l’esempio piu interessante per il nostro territorio è la nostra proposta al Comune di Radda in Chianti di recuperare i terreni incolti della Val di Pesa e la creazione di un parco sostenibile utilizzando il pascolo mirato delle capre cashmere, per produrre fibra cashmere di qualità con effetto esattamente op-posto a quello della produzione in oriente: con i conseguenti risultati e benefici economici, sociali, turistici ed ambientali per il territorio.Nel nostro caso definiamo la sostenibilità nella creazione di più prodotto di quanto ne viene consumato, con la riduzione, il riciclaggio, il riutilizzo ed il recupero più volte possibile della stessa materia prima, il mancato utilizzo di carburanti fossili e/o energie non rinnovabili e l’assenza dell’uso di ormo-ni, prodotti chimici o altri materiali che possano lasciare residui nel suolo o nell’aria.L’impatto della nostra proposta sarà:— ripristino degli argini dei fiumi e creazione di piste ciclabilii e pedonali;— bonifica dei terreni abbandonati lungo tutto il tracciato del fiume Pesa e

creazione di campi coltivati, orti scolastici; — riciclaggio delle biomasse e potature degli ulivi di tutte le aziende limitrofe

utilizzandoli come foraggio per le capre e creando del compostaggio ver-de da usare come ammendante per i terreni delle stesse aziende.

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mArinA leBroRicercatrice tessile, consulente della Fondazione Mondragone per la Formazione, Polo Regionale della Moda Campania.

Filiere corte e fibre naturali: nuove prospettive di creatività ed etica nel settore e nell’impresa tessile

Attualmente mi sto occupando di progetti per il settore tessile, che vedono come attori i Paesi del bacino del Mediterraneo.Vorrei soffermarmi su degli aspetti che riguardano le nuove prospettive nel settore dell’impresa tessile, parlando anche delle filiere corte. Un aspetto, quest’ultimo, che è molto legato alla cultura dei luoghi che noi andiamo ad analizzare. Di solito quando parliamo di luoghi in questi ambiti ne parliamo facendo riferimento a quelle che sono le identità culturali ed a come esse siano connesse anche alla storia delle culture che vi nascono e vi crescono. Quindi come parole chiave possiamo indicare: geografia, tradizione, identità, cultura ed è proprio intorno a questi concetti, infatti, che si costruisce un reale sviluppo locale. Potremmo quasi dire, quando si parla di una geografia dei popoli, di fare anche riferimento a quella che potremmo definire una geografia emozionale, fatta di memoria storica e, quindi, altre parole chiave diventano, in questo modo, partecipazione, estroversione e comunicazione: una comunicazione che è anche costruire insieme, nella reciproca consapevolezza delle proprie diversità. Quando si parla di identità locale - ed in questa sede si è parlato molto del pro-teggere le tradizioni esistenti sui vari territori - dobbiamo anche pensare però a come storicamente questi territori siano sempre stati in contatto tra di loro. Infatti quando noi parliamo di globalizzazione in realtà facciamo riferimento a “qualcosa” che in fondo è sempre stato, nel bacino del mediterraneo spe-cialmente. La nostra cultura, intesa come cultura mediterranea, è una cultura che si è sempre avvalsa di quelli che sono gli input culturali che ci sono per-venuti dai paesi limitrofi. Quindi la difesa di quelle che sono le tradizioni deve, secondo me, esistere, innanzitutto, manifestandosi nella tutela dell’artigianato locale e dei prodotti; quello che poi, invece, riguarda l’estroversione, che è un dato sensibile della nostra cultura, deve invece tradursi nella possibilità di trasformare un mercato regionale e limitato in un mercato più esteso, quindi

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Incontri e confronti con i territori

creare una rete che diventi fondamentale per quello che riguarda appunto l’esportazione e la presentazione sul mercato finale dei prodotti. Credo che le esperienze dei singoli territori, sia in ambito nazionale che in ambito internazionale, possano essere molto utili a determinare questo. Cioè bisogna avvalersi delle esperienze comuni per costruire insieme dei progetti produttivi che vadano ad identificare finanche dei modelli espressivi nuovi; in questo senso, io credo che la ricerca per quello che riguarda i settori da incentivare, sia per quello delle fibre vegetali che di quelle animali, e con-cernente, quindi, la coltivazione anche di piccole colture locali come quelle legate alla ginestra, all’ortica, alla ripresa della lavorazione della canapa, così come di tutte le fibre naturali come anche la lana e la seta, debbano andare a connettersi con un discorso più ampio che è legato anche alla ricerca ed individuazione di un nuovo prodotto che si affianchi sul mercato a quelle che sono le espressioni tradizionali e che, nella sua veste di design finale, manife-sti quello che è il traghettare nel futuro una tradizione artistica e commerciale insieme. Perché se noi guardiamo alla tradizione come tutela di un passato e basta, noi non costruiamo il futuro. Quindi per poter costruire questo nostro percorso verso il futuro dobbiamo cercare, anche guardando a quella che è la tradizione, delle nuove possibilità espressive, anche da un punto di vista formale. Quelle che sono le difficoltà legate a quello che può essere chiaramente solo un prodotto di nicchia, mi pare siano emerse oggi da più interventi. In breve possiamo affermare di non poter fare riferimento e parlare di un mercato vastissimo per questo tipo di produzioni, ma dobbiamo necessariamente guardare ad un settore di qualità, dove la quantità, per una questione anche di costi, che non possono essere bassissimi, si accompagni a quello che è un discorso di qualità e di valore sì, ma anche di nicchia. Mi sembra abbastanza ovvio quindi che debba, per poter crescere e promuoversi, accompagnarsi magari anche ad altri settori di mercato. Se noi pensiamo anche al turismo culturale, allora possiamo facilmente intuire come un un turismo culturale nelle zone dove c’è una tradizione artigianale forte possa incentivare ancora di più queste produzioni. Quindi il turismo si deve sposare a queste attività produttive. Anche perché, e qui ritorniamo alla geografia, noi andiamo sì a parlare di luoghi, ma attraverso una dimensione culturale che sottolinea come la cultura di un popolo non è altro, nella sua espressione pratica, ciò che questo popolo produce. Quindi io credo che bisogna tentare di creare reti non solo, su quelle che sono le singole produ-

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Sul filo del lavoro

zioni, ma anche per quello che è questo tessuto culturale da proporre, che avrà anche una sua presentazione formale, e che si servirà poi anche di altri canali di comunicazione, perché comunicare bene quello che si va a fare è importantissimo. Non si può pensare di avere una bellissima produzione artistica ed artigianale ma non supportarla con le tecnologie contemporanee, legate alla trasmis-sione dei saperi di quella che è sì tradizione, ma anche un “prodotto” e che, quindi, si deve servire, anche e necessariamente, oggi più che mai, di un marketing strategico: così il pensare a tutto questo vuol dire anche rivisitare la tradizione e rivalutarla facendo, appunto, “rete”. Io credo che il mio contributo si possa fermare qui e passerei invece a presen-tare Michela Cavagna che ci porta un esempio di filiera corta, dall’allevamento ovino alla trasformazione della lana. Lei è presidente ed art director dell’Arsa-litArtes s.c.a.rl. di Camandona, Biella.

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Incontri e confronti con i territori

michelA cAVAgnA Architetto, presidente & art director di ArsalitArtes s.c.a.r.l. Camandona Biella

Due esempi di filiera corta, dall’allevamento ovino alla trasformazione della lana

Innanzitutto un ringraziamento personale a tutte le persone che sono interve-nute questa mattina, sono stati interventi molto importanti.Oggi sono qui per presentarvi due esempi di filiera corta e di identità territo-riale.Sono piemontese, di Biella. Vi parlerò del progetto di valorizzazione delle lane autoctone piemontesi e della cooperativa ArsalitArtes, una realtà neonata, un esempio di imprenditoria femminile in territorio rurale, legata alla tessitura.Il “Progetto Valorizzazione Lane Autoctone del Piemonte” è un progetto di valorizzazione di una risorsa locale finalizzato alla promozione produttiva di un settore, quello ovino, che trova condizioni favorevoli nell’ambiente rurale e nei territori montani.Siamo a Biella, un territorio e un distretto conosciuto in tutto il mondo per i suoi filati di pregio che ha a disposizione il know-how più avanzato, la tec-nologia e la tradizione tessile e meccano-tessile per trattare anche le lane autoctone che presentano qualche problema di lavorazione rispetto alle lane australiane o neozelandesi, molto più fini e di selezionata qualità. Nel 1996 l’Agenzia Lane d’Italia, attraverso un progetto di cooperazione tra-snazionale finanziato dal programma europeo LEADER II e realizzato dal GAL Valle Elvo in collaborazione con altre aree italiane (Anglona Monte Acuto, Sar-degna; Monti Sibillini Marche e aree spagnole, Valladolid Norte e Montanas del Teleno e Castilla y Leon), ha realizzato i primi prodotti sperimentali e i campionari in lana autoctona. Il progetto oggi è nuovamente in fase attuativa, ha infatti ricevuto un nuovo finanziamento dalla Regione Piemonte.Il destinatario del contributo, la Camera di Commercio di Biella, è l’ente che gestisce il progetto e cofinanzia con una sua propria quota.La Camera di Commercio ha affidato il coordinamento del progetto al Dr. Oliviero Girardi, Vice Presidente dell’Agenzia Lane d’Italia, che si occupa di gestire l’operatività del progetto.

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Sul filo del lavoro

Dal punto di vista tecnico operativo ci si avvale di realtà presenti sul territorio, per ricreare una filiera corta del prodotto: il Lanificio F.lli Piacenza e il Consor-zio Biella the Wool Company per quanto riguarda la lavorazione della lana nella prima fase (dalla tosa al lavaggio della lana sucida fino alla filatura e tintura del filato); per la direzione artistica ci si avvale della competenza del Centro di Arti Applicate W. Kandinskij, nella figura della d.ssa Patrizia Maggia che porta avanti da anni la ricerca e la valorizzazione delle lane autoctone attraverso la produzione di manufatti di pregio.

Il progetto di valorizzazione delle lane autoctone prevede tre settori di utilizzo:1. Per l’abbigliamento2. Per accessori ed arredamento (compresa l’oggettistica in feltro)3. Per l’utilizzo in edilizia come isolanti e fonoassorbenti

Nelle aree interessate dal progetto si riscontrano abbondanza di capi ovini e di materia prima (lana) inutilizzata o razze a rischio di estinzione, lavorazioni tradizionali che si stanno perdendo ma anche esempi di know-how, capacità tecnico professionali e tecnologie applicabili a lane di qualità non elevata.Utilizzare la lana di razze ovine autoctone, essenzialmente da carne e da latte, significa non solo, trovare una valida integrazione economica nel comparto dell’allevamento ovino, ma anche recuperare una risorsa tradizionale, risco-prire antichi saperi locali, incentivare la produzione di manufatti legati al co-stume locale e richiamare così quegli elementi culturali che caratterizzano e identificano maggiormente i contesti rurali. Significa, in definitiva, trasformare una situazione produttiva in estinzione (per gli inesistenti margini di vantaggio economico) in una chance.La valorizzazione delle lane autoctone è un progetto integrato che ha diverse finalità quali: la tutela ambientale, la difesa dell’economia montana e di aree rurali svantaggiate ma con notevoli patrimoni culturali e paesaggistici.In questo progetto si può vedere come attraverso un controllo diretto, come diceva la dottoressa Susi Crispino, si può ottenere un prodotto di qualità. Questo progetto può essere un esempio molto valido di come, su un territorio si riesce a lavorare a partire da una tutela di una sua risorsa, la lana. E non di-mentichiamo l’allevatore che è la prima figura della catena che viene coinvolta e che deve essere assolutamente supportata. È vero, oggi la lana è una fibra forse poco utilizzata, sicuramente meno del cotone o altri filati. Però è molto importante per il territorio italiano. Per dare

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Incontri e confronti con i territori

anche continuità agli allevatori, che, in poche parole, sono le prime e le uniche persone che hanno un reale controllo sul territorio: quindi il nostro è un proget-to veramente di tutela ambientale. Non dimentichiamo che oggi la lana delle pecore, siccome è considerata un rifiuto speciale, spesso viene bruciata e interrata, perché all’allevatore non conviene far tosare le pecore. La tosatura costa circa 1.5 euro e la lana prodotta viene pagata all’allevatore anche meno di un 1 euro. Quindi, forse, è proprio da questo punto che bisogna partire. Il progetto sta cercando di creare, attraverso il controllo di tutta la filiera a partire dall’allevatore, un percorso virtuoso.In questa seconda fase del progetto è stata acquistata tutta la produzione di tosa delle pecore biellesi, che è stata lavata presso un’azienda locale e si proseguirà fino alla filatura ed alla tintura. La seconda fase prevede la speri-mentazione in tre settori, abbigliamento, accessori di arredamento ed edilizia, perché, comunque, la lana della pecora biellese così come quella di molte altre lane autoctone è più grossolana e quindi poco adatta per capi di abbi-gliamento.Secondo me è molto importante sottolineare il valore di questo progetto non solo per la sperimentazione nel settore dell’edilizia, ma anche per il valore più importante che è proprio quello di andare ad indagare e a capire come creare una nuova chance in un territorio dove la crisi del tessile sta portando a una continua moria e chiusura di fabbriche un distretto tessile che ha una storia molto importante. Questa è una nuova opportunità. Le pecore esistono e devono essere tosate due volte all’anno. Bisogna cercare veramente di prendere in mano una tradizione, di valorizzarla e guardare al futuro creando nuove opportunità attraverso la ricerca e l’innovazione. E davvero io sono con-vinta che la valorizzazione di questi prodotti tradizionali, realizzati anche con la nostra lana, oppure la canapa in altra parte d’Italia, potrà dare un prodotto turistico di nicchia, però secondo me non poi così tanto di nicchia! Bisognerà ovviamente valorizzarlo nel modo giusto e fare in modo che tutti gli attori, pubblici e privati, le aziende turistiche locali, i privati stessi si mettano tutti in gioco e lavorino nella stessa direzione. Certo sono progetti molto ambiziosi, però oggi è arrivato veramente il momento di fare e di agire. Gli obiettivi di questo progetto che vi ho appena indicato saranno quindi quelli di produrre nuovi campionari e di commercializzarli. La Camera di Commercio di Biella ha acquistato la materia prima che verrà poi confezionata e commer-cializzata e servirà come promozione del prodotto turistico di Biella ad esem-pio per l’Expo 2015: insomma c’è già un lavoro di marketing in questo senso.

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Sul filo del lavoro

La valorizzazione delle lane autoctone ha notevoli potenzialità di sviluppo. Il progetto è entrato nei programmi di attività dell’Agenzia Lane d’Italia, con sede presso la Camera di Commercio di Biella e che vede associate altre Ca-mere di Commercio e Province italiane. L’Agenzia Lane d’Italia si propone di valorizzare e recuperare le razze ovine autoctone, alcune in via di estinzione, promuove attività formative per la tenuta degli allevamenti, per la tosatura, per il miglioramento qualitativo della lana eccetera. La collaborazione avviata dall’Agenzia Lane d’Italia e dall’Associazione Time Art – Centro Arti Applicate V. Kandinskj di Biella con Slow Food rappresenta un’ulteriore opportunità per il progetto “Valorizzazione delle lane autoctone”. Il Centro di Arti Applicate è stato l’unico, a livello nazionale, invitato da Slow Food a presentare il proprio progetto delle lane autoctone alla manifestazio-ne “Cheese 2007”. In occasione della manifestazione è stata realizzata una particolare giacca, la “Giacca Pericle”, il cui modello, preso da una giacca da montagna e da caccia dei primi del novecento, ha riscosso un notevole interesse, anche da parte degli stranieri, ed è stata susseguentemente pre-sentata al salone della montagna di Torino. La filosofia di Slow Food si coniuga pienamente con le lane autoctone; i prodotti della filiera ovina (carne, latte, formaggi) si arricchirebbero di un prodotto ricco di tradizione, cultura, identità territoriale: la lana.Perchè a Biella? Il distretto biellese, l’unico in Europa che possa garantire il ciclo completo della lavorazione della lana (dalla lana sucida al prodotto finito: filato o tessuto) potrebbe essere il centro di lavorazione delle lane autoctone non solo d’Italia ma anche di altri paesi europei. Il Gal Valle Elvo ha fatto lavora-re a Biella lane italiane (piemontesi, sarde, marchigiane) ma anche spagnole e numerosi sono stati i contatti con altre realtà europee. È chiaro che il progetto deve essere sostenuto da interventi pubblici, ma la sensibilità e l’interesse esistono sia grazie all’attenzione sui problemi ambientali sia in tema di so-stegno allo sviluppo locale in aree marginali, ma anche di interventi finalizzati alla eco-sostenibilità e alla equo-solidarietà e alla promozione di un territorio attraverso i suoi prodotti tipici. Si pensi solo ad un tema attualissimo come la “tracciabilità” dei prodotti: con la lavorazione delle lane autoctone si potrebbe arrivare a dare per ogni capo di abbigliamento una etichetta con l’indicazione del nome dell’allevatore, del luogo e dell’anno di tosa.Vorrei ora raccontarvi un’altra esperienza che mi tocca più da vicino e che è collegata in qualche modo a questo progetto.Sono stata fino agli inizi di giugno assessore allo sviluppo del territorio nel

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Incontri e confronti con i territori

piccolo comune in cui vivo, Camandona, un paese di montagna a 15 km da Biella, dove si parla e si vive e si è sempre vissuto di tessile, come a Biella. Camandona è uno di quei territori rurali con gravi problemi, è un’area sotto-sviluppata, con continuo spopolamento e grande rischio di degrado sociale, a causa della mancanza del lavoro e di quella attività che è venuta a mancare negli ultimi 50 anni grazie al tessile, che è l’allevamento. Ancora oggi a Ca-mandona c’è un movimento ovino di circa 2000 capi, però se pensiamo che 50 anni fa il territorio in cui vivo era una distesa di pascoli e oggi è un unico bosco di castagni, possiamo dire che l’ambiente ha risentito fortemente di questo cambiamento. Nel giro di 50 anni c’è stato uno stravolgimento ambien-tale incredibile. Oggi io faccio parte di una nuova generazione, quella che ha scelto di vivere in una realtà rurale in quanto sono convinta che il futuro possa essere anche lì, che ha scelto di non far morire la nostra identità culturale e le nostre radici restando ad abitare nelle località di montagna. Bisogna però cercare di fare qualcosa al più presto affinché la situazione non continui a de-gradare. Ho ascoltato con molto interesse anche l’intervento della dottoressa Manca che ha fatto vedere un grafico in cui era chiaro che bisogna lavorare in tutte queste direzioni. Però non dimentichiamoci che quando parliamo di ruralità, andiamo a scontrarci con gravi problemi di spopolamento, quindi i progetti rischiano anche di non essere recepiti.A Camandona si trova l’ex Asilo Infantile Clelia Ferrua, un edificio degli anni Trenta dal valore documentato, che ha ripreso a vivere grazie alla nascita del progetto “Trame in gioco” che ho promosso in collaborazione con il Centro di Arti Applicate V. Kandinskij.Il progetto “Trame in gioco” è stato avviato per cercare di far fronte alla man-canza sul territorio di realtà che rivitalizzassero una situazione a rischio di degrado sociale, anche per la mancanza di attività di aggregazione.Partendo dalla ricerca sul territorio delle tracce di un passato non così lon-tano, attraverso i segni, le testimonianze della nostra identità culturale, sono sorti i presupposti per l’attuazione di questo importante progetto basato su attività di artigianato artistico.Nel 2009 è sorta la volontà di far evolvere il progetto per cercare di concretiz-zarlo in modo più ampio. È nata così la Cooperativa ArsalitArtes, con la finalità di raccontare il territorio attraverso l’artigianato artistico e con uno sguardo al futuro che si pone come occasione per la creazione di reali opportunità oc-cupazionali e di rilancio del territorio sia da un punto di vista socio-economico che culturale.

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Sul filo del lavoro

La ricerca, la riscoperta e la valorizzazione delle proprie radici culturali av-vengono attraverso l’offerta formativa di laboratori e corsi di tessitura, feltro, tintura naturale, in un’ottica di sviluppo di un’economia sostenibile, salvaguar-dando le specificità territoriali.Ho deciso nel 2006 di fare qualcosa in questo senso, di promuovere un pro-getto di valorizzazione del territorio cercando di aggregare nuovamente le donne, le donne disoccupate, con una certa età e con problemi di integrazio-ne sociale ed abbiamo organizzato, grazie anche ad una finanziaria del 2005, con pochi fondi, dei corsi di artigianato artistico, attingendo da quella che era la nostra tradizione culturale, la nostra identità territoriale. Il progetto ha avuto un buon riscontro, ha avuto un’incubazione di tre anni. Un mese fa abbiamo deciso di concretizzarlo creando una cooperativa, chiamata ArsalitArtes che ha il ruolo catalizzatore sul territorio per la promozione dell’artigianato artisti-co.Nel 2009, l’anno internazionale delle fibre naturali, ArsalitArtes si propone come concreta, reale opportunità di sviluppo del territorio attraverso un pro-getto di tutela ambientale, anche attraverso azioni volte alla sua promozione fuori dai confini locali.ArsalitArtes parteciperà il 22 settembre prossimo alla sfilata organizzata da Cittadellarte Fashion – Bio Ethical Sustainable Trend, un’importante iniziativa promossa da Michelangelo Pistoletto per la promozione di una moda etica-mente sostenibile. Infatti, alcuni dei manufatti in feltro e tessuti a mano saran-no utilizzati per la creazione dei capi di abbigliamento appositamente studiati dagli stilisti selezionati. ArsalitArtes produce i suoi manufatti nel pieno rispetto dell’ambiente.In conclusione vorrei sottolineare l’importanza del sostegno e dell’apporto economico dell’ente pubblico o privato per il perseguimento di progetti come questo che possono avere un’importante ricaduta sul territorio, a partire dal basso.Secondo me ci sono delle possibilità, ma bisogna lavorare con dei prodotti di nicchia, perché non saremo mai competitivi con la grande produzione ed i bassi costi di lavoro della Turchia e della Cina. Però, se promuoviamo e sap-piamo questo, i nostri obiettivi devono essere la produzione di un certo “Made in Italy”. Non dimentichiamo mai però la ricerca, l’innovazione per potersi proporre in un mercato che non deve essere solo locale. Io finirei qua perché ritengo che ci siano molte altre cose molto interessanti da ascoltare. Ringrazio tutti e sono disponibile se avete bisogno di informazioni aggiuntive.

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Incontri e confronti con i territori

Vorrei infine ringraziare la dottoressa Francesca Camilli che ho avuto il piacere di conoscere a Biella qualche mese fa e che è venuta a Camandona per veri-ficare nella realtà a quali risultati positivi in termini di ricaduta sociale, anche per l’occupazione femminile e lo sviluppo dei territori rurali, possono portare tali progetti.Grazie.

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Sul filo del lavoro

mArilenA zAccAriniProgetti per l’Ambiente

La filiera della canapa: criticità, sfide e prospettive per l’imprenditoria femminile.

Ringrazio gli organizzatori che mi danno l’opportunità in questa sala di parlare di canapa sativa. Una pianta conosciuta fin dall’antichità: già coltivata all’età del bronzo, la conoscevano gli sciiti, ne troviamo resti negli scavi archeologici di epoca romana e pompeiana. Alcuni esempi significativi: la prima Bibbia di Gutenberg è stata stampata su carta di canapa, le vele e le gomene delle caravelle di Cristoforo Colombo erano tutte di canapa, quindi la canapa è una pianta che ha una grande storia ed una grande tradizione. Fino alla metà degli anni ‘50 del ‘900 una produzione, quella della canapa, che ha segnato l’economia di molti paesi e in Italia, in particolare, di tre regioni: Emilia Romagna, Piemonte e Campania.In quegli anni la coltivazione viene abbandonata. Molte sono le motivazioni, dai costi di produzione elevati - gran parte del processo di lavorazione era manuale e richiedeva molte ore di lavoro e anche molta fatica, all’introduzione sul mercato dei prodotti di sintesi ottenuti dal petrolio. Per toglierla completa-mente dal mercato sono state introdotte le norme proibizionistiche.La canapa è la classica pianta multiuso; si utilizza tutto, dalle radici alle foglie al frutto. Una parte nobile della pianta è la fibra per uso tessile: una fibra che assorbe l’umidità il 15 % in più del lino, è antiallergica e termoregolatrice, tiene fresco d’estate e caldo d’inverno. La canapa è anche alimentazione, co-smesi. Dal frutto della pianta, un piccolo achenio di pochi millimetri, otteniamo olio e farina. Un olio ricco di Omega 3 e Omega 6 ma anche di vitamina E e A; una farina ricca di proteine e sali minerali. La situazione attuale, cogliendo alcune delle osservazioni della mattinata, è ancora di grande confusione. I diversi soggetti che operano in questo settore si fronteggiano per sminuire i risultati ottenuti dagli altri.Alcuni risultati ci sono: oggi è possibile avere fibra tessile con la tracciabilità italiana per l’intero processo produttivo, dal campo al capo confezionato. Non stiamo parlando di migliaia di tonnellate ma di centinaia sì. In Italia esiste,

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Incontri e confronti con i territori

ed è l’unico in Europa, un impianto per la lavorazione della fibra della canapa. Dal processo produttivo si ottengono la fibra lunga per il settore tessile e la fibra corta destinata alla produzione di prodotti per l’edilizia e di cellulosa. La fibra corta oggi prodotta in Italia viene esportata nella Repubblica Ceca per produrre pasta di cellulosa, dal momento che in Italia non c’è nessun impianto di produzione e lavorazione della pasta di cellulosa. Per cui oggi, parlando di canapa, faccio un po’ fatica a ragionare in termini di filiera corta o a chilometro zero, proprio perché ha delle esigenze di lavora-zione, delle tecnologie di lavorazione (e poi Antonio Mauro parlerà di un per-corso per l’utilizzo della fibra tessile) che richiedono un approccio in termini di mercato globale. In Italia la superficie investita a canapa è di circa 500 ha/anno: già questo dato è significativo per valutarne il peso economico. Con l’impianto di Ecoca-napa la filiera è completa, dal campo al prodotto finito. Ma è un progetto che non decolla. Sono ormai 12 anni che lavoro in questo settore e ritengo di conoscerlo bene; devo purtroppo rilevare che nonostante i numerosi progetti avviati siamo ancora nella fase di start-up, anzi con il rischio che nel giro di poco tempo venga considerato un progetto chiuso e senza risultati.I soggetti che vi hanno operato non sono stati (e non lo sono tuttora) in grado di fare azione comune per sostenerlo, anzi sono riusciti a determinare una grossissima confusione nelle istituzioni, nei politici ma soprattutto tra gli im-prenditori. Questo che affrontiamo non è un progetto ideologico, quanto fa bene la cana-pa all’ambiente, ma un importante progetto di sviluppo economico che potreb-be dare nuove opportunità alle imprese italiane. Il nostro sistema istituzionale e bancario non aiuta le imprese e i loro progetti innovativi. Al presentarsi del primo grosso ostacolo all’avvio della filiera, di fronte all’esi-genza di nuovi finanziamenti, le istituzioni e le banche si sono tirate indietro. Sono rimasti gli imprenditori con le loro capacità, a volte scarse, e con i loro errori, ad investire e ad andare avanti. Ma anche la stampa non ha aiutato a valorizzare il settore. Vengono pubblicati centinaia di articoli che parlano di canapa, ma il consumatore non sa dove andarla a comprare oppure la considera troppo costosa. In Italia la parola canapa viene associata al tessuto ruvido e grezzo della nonna o alla droga. E anche questo non aiuta la diffusione dei prodotti e della produzione.C’è una convinzione diffusa che la canapa costi come il cotone, mentre è una fibra che ha prezzi di mercato maggiori, come lo erano i prodotti biologici agli

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Sul filo del lavoro

inizi della produzione. La reintroduzione della canapa richiede investimenti importanti per mettere a punto l’intero processo produttivo: sono da definire i protocolli di coltivazione e di meccanizzazione della fasi di coltivazione, le tecnologie di lavorazione della materia prima e dei semilavorati per fornire alle aziende dei diversi settori merceologici prodotti idonei agli attuali processi di produzione. Insieme agli investimenti per l’avvio dei processi produttivi ci sono anche i costi legati alla quantità, la produzione saltuaria è più costosa, il tessuto pro-dotto da un telaio che lavora fibra di canapa 365 giorni all’anno potrebbe costare anche un 15-20% di meno. Le donne protagoniste, ieri e oggi, anche nel settore della canapa. Ieri erano le donne che si facevano carico di gran parte delle faticose fasi di lavorazione della canapa, a bagno fino alle ginocchia dal mattino presto, poi la raccolta, la filatura e la tessitura.Oggi le donne sono ancora protagoniste della canapa, sono loro che hanno dimostrato e dimostrano una maggiore attenzione alla canapa, perché è un prodotto naturale, nuovo, perché le donne hanno sicuramente una maggiore propensione all’innovazione. Parlare di canapa vuol dire parlare di tradizione, di territorio, di cultura, di qualità ed esclusività del prodotto italiano. Ma questa tradizione, questa cul-tura, questa storia deve essere anche innovazione e capacità di guardare il mercato globale.La canapa deve uscire dalla nicchia senza potere economico, deve diventare nicchia di qualità, di prestigio, di valore. Se non riusciamo a fare questo ri-schiamo veramente che in Italia il progetto fallisca, mentre negli altri paesi dal Canada al Sud Africa, dalla Germania alla Repubblica Ceca la canapa comincia ad avere un ruolo e un peso economico.Per cui oggi parlare di canapa vuol dire, soprattutto - e ritorno al tema dell’im-presa - parlare di innovazione, di mercato globale, di impresa che deve fare reddito. Richiamo la vostra attenzione all’impresa, alla piccola impresa, per-ché, soprattutto quelle femminili, sono piccole imprese. In Italia sono poche le donne amministratori delegati o presidenti di grandi società, se invece parliamo di piccole imprese le troviamo molto numerose.Ma anche se parliamo di canapa, di filiera tessile, di prodotti artigianali e di artigianato artistico, il tema dell’impresa resta centrale. Anche la piccola impresa deve fare i conti con il suo consumatore, quale consumatore e quanti.Oggi i prodotti a base canapa non sono per il mercato della grande distribuzio-

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Incontri e confronti con i territori

ne, sono prodotti di grande qualità e pensati per un consumatore che sceglie un prodotto per le sue caratteristiche e performance. Un mercato nel quale la piccola impresa potrebbe far fatica ad entrare.Questa mattina abbiamo sentito esperienze molto belle ma difficilmente ripe-tibili. Io penso all’impresa al femminile che lavora canapa, che è strutturata, che fa fatturato.Sono troppe le imprese al femminile che vivono esclusivamente sulla persona dell’imprenditrice e che spesso (e le motivazioni sono tante) si trovano a dover chiudere. Attenzione quindi al mercato, anche e soprattutto per cambiarne alcune rego-le. Anche le realtà rurali, come è il titolo dell’intervento di oggi, non possono non esserne parte integrante. Per dare visibilità economica e reddituale alle imprese non si può stare fuori dal mercato, dall’ICT, dalla comunicazione, dall’e-commerce. Occorre porre grande attenzione al marketing, alla comu-nicazione. Diventa sempre più urgente dare un nuovo aiuto alle imprese femminili, tro-vando nuove forme e nuovi metodi. Troppo spesso ci sentiamo dire le stesse cosa da anni: è vero, le donne hanno maggiore difficoltà ad avere accesso al credito, ma questo è un problema che interessa l’intero sistema bancario italiano. Per le donne è spesso più difficile una trattativa commerciale in un mondo maschile, ma è anche vero che ancora non abbiamo imparato a fare business tra di noi.In questa difficile crisi economica che stiamo attraversando saranno le piccole imprese e le imprese al femminile, a pagare il prezzo più grosso nei prossimi mesi si prevede la chiusura di molte imprese).È quindi indispensabile trovare nuovi strumenti di supporto per le imprese fem-minile, per quei settori, come la canapa, che non hanno ancora completato il processo di affermazione.Le ultime parole per la canapa: mi auguro che, dal convegno di oggi, dall’op-portunità che mi avete dato, si possa ricominciare a parlare in termini nuovi di canapa e delle opportunità per lo sviluppo economico del paese.

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Sul filo del lavoro

enricA de FAlcoUniversità degli studi di Salerno, Dipartimento di Scienze Farmaceutiche

Colorare una filiera: valorizzazione delle piante officinali tintorie per lo sviluppo territoriale del Parco del Cilento

Ringrazio gli organizzatori per l’invito ed anche l’ex Presidente del Parco del Cilento e Vallo di Diano dott. Giuseppe Tarallo e l’Arch. Mari Loffredo, qui presenti, in quanto sono stati gli ideatori del progetto e ci hanno permesso quindi di lavorare sulle piante tintorie. Nella mia presentazione ho inserito molte immagini del Parco perchè vorrei portare in questa sala il suo territorio, forse non da tutti conosciuto, e le sue piante su cui abbiamo lavorato e che hanno caratterizzano il progetto. Nell’ambito del Dipartimento di Scienze Far-maceutiche dell’Università di Salerno, in qualità di agronomo importato nella Facoltà di Farmacia, mi occupo di coltivazione e valorizzazione di piante offi-cinali. Le piante officinali sono piante che contengono principi attivi oggi estre-mamente importanti e che si stanno rivalutando non solo nel settore tradizio-nale, quello che era il tipico settore erboristico o condimentario. Infatti oggi ritroviamo le piante officinali tra le “erbette” che contribuiscono ad arricchire le insalate e a cui stiamo riconoscendo sempre più un valore salutistico, pro-prio dei così detti alimenti “nutraceutici” ed anche in settori come quello agroindustriale, per l’utilizzazione dei principi attivi come conservanti, antios-sidanti, nella lotta contro i parassiti delle piante o contro le erbe infestanti in alternativa a prodotti chimici di sintesi. Oggi, infatti, c’è sempre più l’esigenza di prodotti a basso impatto ambientale. Proprio in questa logica, abbiamo cominciato ad occuparci di piante tintorie le quali sono, a tutti gli effetti, pian-te officinali poiché contengono dei pigmenti, principi attivi, cioè, che utilizzia-mo come sostanze coloranti. Perché oggi si riparla di piante tintorie nel setto-re tessile? Prima di tutto per limitare l’impiego di sostanze chimiche di sintesi nelle diverse fasi del processo: teniamo conto che oggi uno dei problemi prin-cipali è rappresentato dallo smaltimento dei residui dei processi di lavorazio-ne. L’incremento di allergie tra la popolazione, la richiesta crescente di natura-lità da parte di alcuni consumatori, il recupero di antiche tradizioni dell’artigia-nato sono tra gli altri motivi che abbiamo individuato alla base della riscoperta delle piante per il settore tintorio. In questa logica si è inserito il progetto, sostenuto dal Parco del Cilento e Vallo di Diano, che ha portato alla definizione

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Incontri e confronti con i territori

di “Linea Parco”, Marchio d’Area che aveva lo scopo di valorizzare il patrimo-nio di risorse umane e naturali in modo da incentivare l’occupazione e lo svi-luppo del territorio. Ricordiamo che il Parco del Cilento e Vallo di Diano è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1998, tra l’altro perché è ricco di una flora molto particolare, strettamente legata alle sue condizioni pedo-climatiche che la rendono spesso unica. In questo territorio, inoltre, non sono andate perse alcune tradizioni, capacità e competenze che sono ancora diffuse tra la popolazione. La collaborazione del Dipartimento di Scienze Far-maceutiche con il progetto Linea Parco ha avuto come oggetto essenzialmen-te l’individuazione di piante tintorie all’interno della flora spontanea, sia autoc-tona che naturalizzata del Parco in modo da riuscire a legare strettamente il prodotto al territorio: un tentativo, cioè, di trasferire nel prodotto i profumi ed i colori del territorio stesso. Un altro filo conduttore che ci ha guidato è stato quello della sostenibilità dei sistemi produttivi; quindi abbiamo pensato che fosse importante lavorare su materiali poveri, di facile reperibilità, di basso costo economico ed ambientale. Così oltre a lavorare su piante storiche e tradizionali abbiamo ricercato tra ciò che offriva il territorio, cercando di recu-perare i residui che derivano da altre coltivazioni o lavorazioni agricole (ricci di castagno, residui di potatura degli olivi, scarti di lavorazione dei carciofi). Un altro problema che abbiamo affrontato è stato quello della messa a punto di processi di estrazione e tintura eco-compatibili, poiché non ha senso utiliz-zare delle piante per tingere se poi il processo non usa sostanze a basso im-patto ambientale, sia per quanto riguarda i solventi che i detergenti che i mordenzanti. Così, per fare un esempio, abbiamo scelto di utilizzare come solvente soltanto l’acqua. Infine ci siamo occupati di mettere a punto itinerari tecnici di coltivazione. Come si è detto, il lavoro di ricerca è stato condotto in modo da giungere alla individuazione delle piante tintorie e quindi del tempo balsamico, cioè del momento ottimale di raccolta per ottenere un determinato colore. Inoltre i bagni colore ottenuti sono stati analizzati mediante spettri UV e le fibre tinte sono state sottoposte al test di solidità alla luce, perché se un colore non è solido è improponibile l’inserimento in una filiera tessile. Un no-stro consulente è stato Antonio Mauro, Direttore del Centro Ricerche e Servizi di Calenzano (Firenze), i cui consigli sono stati preziosi. Seguendo i criteri in-dicati abbiamo studiato la robbia selvatica (Rubia peregrina) mentre non ci siamo occupati della robbia dei tintori (Rubia tinctoria), così come abbiamo utilizzato le cortecce di castagno ma anche i ricci e l’acqua di scarto di bolli-tura, ecc. Abbiamo cercato, cioè, di esprimere attraverso le piante ciò che è

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Sul filo del lavoro

un territorio, con l’idea di riuscire a dare un valore aggiunto al Marchio ed al prodotto. Fra le specie che abbiamo testato ne abbiamo individuate alcune che ci sembravano più interessanti sia perché avevano un elevato potere tin-torio ed un’elevata solidità alla luce sia perché di facile reperibilità. Oltre all’oli-vo, pianta molto presente nel Parco e di cui abbiamo utilizzato sia le foglie di potatura che lo scarto della raccolta, ed al castagno, abbiamo trovato interes-santi anche molte altre piante come il mirto, il lentisco e il cisto perché sono tipiche della macchia mediterranea, molto diffuse su tutto il territorio. Per queste piante abbiamo ipotizzato degli impianti di semicoltivazione da destina-re alla raccolta per uso tintorio laddove esiste già una macchia, provvedendo ad infittimenti, leggere potature, creando delle strade di servizio, in modo da non interferire con lo stato dei luoghi e con la salvaguardia del territorio, ma favorire però la raccolta del materiale. Un’altra pianta su cui abbiamo lavorato è stata, come abbiamo detto, la robbia selvatica, una delle poche piante da rosso che abbiamo ed il cui potere tintorio è abbastanza vicino a quello della robbia dei tintori. Per questa specie esiste il problema di recuperare il mate-riale per la propagazione per poterne avviare la coltivazione. Abbiamo avviato delle prove, tuttora in corso, in cui abbiamo prelevato le radici da piante spon-tanee e le abbiamo utilizzate sia per fare le prove di tintura sia per preparare talee di cui stiamo valutando l’attitudine alla radicazione e che utilizzeremo in nuovi impianti. Se si riesce ad organizzare questo tipo di filiera, anche se an-cora rimane da mettere a punto il reperimento della materia prima, si riescono a valorizzare le competenze delle risorse umane ma, d’altra parte, riusciamo anche a recuperare le risorse del territorio. A questo proposito, si è parlato molto di multifunzione: anche le piante possono essere multifunzionali in quan-to possono avere non soltanto fini produttivi ma anche una funzione ambien-tale e paesaggistica, di difesa del territorio. Immaginiamo piante, di cui utiliz-ziamo le foglie per uso tintorio, che possono essere utilizzate per il consolida-mento dei versanti, per il ripristino di aree dismesse, senza però alterare il valore paesaggistico dell’area perché fanno parte della flora spontanea. Que-sto è in breve il percorso che è stato il frutto del nostro lavoro, in collabora-zione con il Parco. Anche se il progetto è finito stiamo continuando come Di-partimento a lavorare su questo argomento, perché ci è piaciuto molto e rite-niamo possa realmente contribuire a creare occasioni di sviluppo per le nostre aree. Questa tematica ha affascinato anche alcune laureate e studentesse del nostro Corso di Laurea, che hanno voluto cominciare a lavorare sulle piante tintorie acquistando anche una notevole professionalità, tanto da decidere di

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Incontri e confronti con i territori

investire questa competenza - fatta di conoscenza delle piante e del territorio nonché dei processi chimici di estrazione e tintura - in una impresa creando l’Associazione “I colori del Mediterraneo” che, come attività prevalente, ha quella di tingere con le piante adottando, appunto, piante dell’area mediterra-nea.

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Sul filo del lavoro

AurorA mAgniLIUC, Facoltà ingegneria gestionale

Il settore tessile-moda oltre la crisi. Dal rapporto con il mercato e i consumi: input per nuovi modelli d’impresa

Il convegno ci ha consegnato una fotografia molto interessante di quello che si sta muovendo in Italia in questo periodo: esperienze, progetti d’impresa e di filiera, riflessioni e, soprattutto, una nuova sensibilità ecologica che coin-volge direttamente il mondo della moda ed i suoi protagonisti. Sono tanti i progetti che stanno sperimentando la frontiera del tessile “post industriale”, ma che, guarda caso, operano in una dimensione assolutamente industriale recuperando un rapporto con l’agricoltura, con l’allevamento delle razze da tosa e nel contempo con la distribuzione ed i consumatori finali. Il mio lavoro, quello in università e nel giornalismo di settore, mi consente di osservare l’evoluzione degli scenari socio-economici in cui siamo inseriti e anche alcune iniziative progettuali utili a comprendere il cambiamento in atto nel nostro sistema produttivo. Concedetemi quindi qualche considerazione di carattere più generale. Il nostro modello economico attuale si basa sul presupposto che la crescita economica sia un processo libero da vincoli, infinito, e che esista una sorta di reversibilità circolare produzione-consumo autoregolata dal mercato.Oggi sappiamo che ciò è in contrasto con le leggi fondamentali della natura: si deve prendere coscienza dell’irreversibilità di questo processo caratteriz-zato da input di preziose risorse e output di risorse deteriorate ed essere consapevoli che più diffuso è il sistema, maggiore è la necessità di assorbire risorse e di disfarsi degli scarti. Con l’apertura dei mercati, la globalizzazione non ha superato la chiusura dei modelli economici autarchici: in realtà ha riproposto la stessa contraddi-zione limitandosi a spostare (in virtù dell’eliminazione dei localismi) materia ed energia deteriorate in aree socialmente più deboli. Ha ottenuto così un vantaggio solo locale e temporaneo, poiché è l’intero pianeta ad essere un sistema chiuso che non sfugge alla legge dell’irreversibilità. L’accentuazione del disequilibrio dei sistemi locali attuato da modelli economici che adottano comportamenti “colonialisti”, allontana il problema ma non lo risolve, si limita a spostarlo su altre aree del mondo. Il problema è destinato a emergere quan-

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Incontri e confronti con i territori

do le risorse vitali diventano insufficienti o quando la popolazione “povera”, costretta ad assumersi il compito di controbilanciare l’entropia dissipativa del-la popolazione “ricca”, presserà quest’ultima con tensioni sociali o anche solo con la crescita del proprio peso quantitativo nel frattempo acquisito.La fase che stiamo vivendo è caratterizzata da un mercato fortemente asim-metrico. Poiché i paesi industriali producono beni e necessitano di energia, il “mercato degli altri” è visto sempre in termini unilaterali: cioè come luogo dove creare nuovi consumatori e da cui ottenere energia da fruttare. L’ingres-so della Cina tra le grandi potenze industriali è stato infatti visto con grande preoccupazione ma anche con sollievo: “si apre un nuovo enorme mercato”, si è spesso sentito dire.Leggere i sistemi economici in termini di capacità di produrre benessere e nel contempo non aggravare il delicato equilibrio ambientale in cui operano è la sfida che ci attende. Solitamente siamo abituati a valutare il grado di stabilità economica in termini di PIL. Ma oggi non è più questo l’unico indicatore che dobbiamo tenere monitorato, perché è un dato che ci fornisce un quadro parziale, insufficiente.Diventa allora necessario leggere i processi economici, anche quelli del siste-ma della moda, in relazione a due macro indicatori:— da un lato la pressione ambientale del ciclo di produzione e consumo dei

beni in oggetto (diminuzione delle risorse naturali, degrado ambientale, produzione di C02, produzione scarti…)

— dall’altro la risposta sociale: quali le misure adottate per contenere la pressione ambientale, quali le modalità di selezione delle materie prime individuate, di trasformazione e consumo delle stesse?

Per quanto riguarda la pressione ambientale, i prodotti della moda sono parti-colarmente significativi sia per l’enorme vastità dei quantitativi di beni coinvol-ti e per altro in continua crescita (ogni anno sono consumati circa 80 milioni di tonnellate di fibre che si aggiungono a quelle già presenti sul mercato sotto forma di materiale greggio, di manufatti o di scarti di produzioni precedenti), sia per la loro apparente non indispensabilità. Da questo punto di vista la moda rappresenta un paradosso: basa la sua esistenza sulla sua stessa veloce su-perabilità, il bene prodotto ha infatti una durata brevissima, pena il venir meno dei valori che lo contraddistinguono, l’originalità e l’esclusività. Inoltre la moda soddisfa bisogni effimeri, non primari. Produce moltissimi scarti di difficile recupero e solo in parte biodegradabili: per sua natura non è ambientalista.Un problema che si esplica in molteplici fattori:

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Sul filo del lavoro

— le materie prime (fibre), la loro sostenibilità ambientale (rinnovabilità, rici-clo), l’impatto della coltivazione delle stesse, l’allevamento degli animali che le forniscono, i processi di raffinazione che precedono la loro trasfor-mazione in filati e quindi in superfici lavorabili, la loro biodegradabilità a fine life cycle.

— il ciclo di trasformazione: immobili necessari, consumo energetico per impianti ed attività, emissioni, acque di processo, depurazione, sfridi di produzione, energia destinata alla movimentazione, sostanze chimiche uti-lizzate nei trattamenti di nobilitazione e finissaggio.

— la logistica e la distribuzione: trasporti locali ma anche intercontinentali connessi alla globalizzazione, packaging, attività di vendita, promozione e comunicazione.

— la manutenzione del prodotto finale: lavaggi, asciugatura, smacchiatura e stiratura.

— la gestione dei prodotti a fine vita: durata del life cycle, possibilità di rici-clo, tempi di degradazione naturale.

Per quanto riguarda la risposta sociale stiamo assistendo ad una crescente preoccupazione politica come il convegno ha dimostrato e da questa preoc-cupazione hanno preso vita iniziative internazionali quali la decisione dell’Onu e della Fao di dedicare il 2009 alle fibre naturali. Emerge, inoltre, una nuova sensibilità da parte dei consumatori dei paesi ric-chi. Una consapevolezza che si esprime in una maggior attenzione nei con-fronti di ciò che si consuma (origine, valenza culturale ed etica, costo am-bientale della produzione...) ma che rimane ancora espressione di una élite di persone e di gruppi sociali.In realtà la sensibilità eco ed etico sostenibile di cui tanto si parla oggi pare essere più spinta dal sistema produttivo stesso che dai consumatori o dall’opi-nione pubblica, quantomeno in Italia. Per assurdo, subirebbe la stessa vertica-lità della moda, dall’alto al basso: lanciata da stilisti ed aziende capaci di fare tendenza. Che l’ecologia e la responsabilità sociale siano solo manifestazioni accidentali del fashion system? Che l’industria tessile e della moda sia alla ricerca di una nuova modalità di relazione con il mercato è evidente e, non solo, per l’instabilità dei compor-tamenti dei consumatori presso i quali è sempre più difficile legittimarsi, di-stinguersi, rendersi riconoscibili, ma anche per l’esigenza di fare di necessità virtù. I costi di produzione in Italia e in Europa sono il risultato di politiche di responsabilità sociale ed ambientale imposte alle aziende da legislazioni e

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Incontri e confronti con i territori

normative: perchè non farne quindi uno strumento di marketing? La strategia del “Made in Italy” può certamente essere letta (anche) in questo senso.C’è spazio oggi per un sistema produttivo eco ed eticamente sostenibile? Certo. Ma non si tratta solo di opportunità, si tratta di indiscutibile necessità e ogni altro modo di essere impresa non può più essere legittimato né in Italia né nel resto del mondo. Semplicemente perché in discussione è il futuro del pianeta.In questo contesto può/deve avere luogo la sperimentazione di nuovi modelli di impresa in cui il valore aggiunto del prodotto è inscritto nella sua storia: dall’origine della fibra al processo di produzione, dal suo racconto nelle stra-tegie di comunicazione alle modalità di distribuzione, dal suo uso alla sua dismissione.Non si tratta di fare una distinzione ideologica tra buoni e cattivi (buone le fibre naturali - cattive le chimiche, buono l’artigianato - cattiva l’industria, buoni i consumi culturali - cattivi i consumi futili…), si tratta di dotarsi di strumenti di valutazione oggettiva dell’impatto ecologico del life cycle del prodotto e di rispettare le regole, spingendo perché queste vengano esportate così come esportiamo le mode. Significa ripensare al prodotto in termini di intero ciclo di vita intervenendo sulle criticità (processi, tecnologie, trattamenti chimici…). Significa considerare i consumatori attori della filiera produttiva e riconsidera-re il ruolo delle imprese che è, non solo produttivo, ma anche e soprattutto “culturale”.C’è spazio per una nuova imprenditoria tessile magari femminile? Sì, purchè accetti la sfida di confrontarsi su questi temi senza cadere nelle facili ideolo-gie di moda.Io sono veramente molto affascinata dai prodotti naturali, tanto da aver as-sunto con grande passione la responsabilità della redazione di “Naturalmente tessile”, una rivista che si occupa proprio di questi temi, ma sono altrettanto convinta che sia impossibile immaginare una produzione solo di fibre e colo-ranti naturali: noi abbiamo bisogno delle fibre chimiche e dei coloranti sintetici non solo, per le performance tecniche che questi materiali garantiscono ap-plicati in particolare in certi contesti, ma perché non è pensabile che tutto il consumo di prodotti tessili sia coperto da cotone, canapa e ortica. Il mondo, la parte coltivabile del mondo, non è espandibile come un pallone gonfiabile e le aree destinate a coltura servono anche a soddisfare bisogni primari, a dare cibo alle popolazioni del mondo e ossigeno alla biosfera. Se consideriamo l’aumento della popolazione mondiale e il fatto che i materiali tessili sono

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Sul filo del lavoro

applicati a contesti industriali dai geotessili all’edilizia, dalle filtrazioni ai com-positi, si comprende come sia necessario ottenere il massimo ed il meglio ottimizzando terra e risorse. L’ecologia è materia difficile, ha bisogno della responsabilità delle persone, della scienza e della ricerca. Ben venga allora la ricerca sullo sfruttamento non aggressivo dei terreni desti-nati alla coltivazione del cotone: sappiamo bene quali danni ambientali posso-no essere fatti con diserbanti, insetticidi e uso indiscriminato delle acque. Ben vengano le ricerche genetiche: il cotone organico purtroppo però non potrà soddisfare tutti i bisogni del nostro sistema economico (ad oggi infatti non supera 1,5% del totale complessivamente consumato nel mondo).La scienza ed il senso diffuso di responsabilità sono i grandi alleati dell’am-biente e delle produzioni sostenibili.Per concludere: c’è spazio per un’imprenditoria femminile che sappia fare business ma con modalità ispirate all’ ecologia e all’etica d’impresa? Certo, a condizione di non cadere nel sogno di ricostruire “un piccolo mondo antico” o limitarci a giocare alle signore che fanno bricolage. Dobbiamo provare a fare di più. La dimensione ridotta dell’imprenditoria non deve mettere in dubbio la capa-cità della stessa di sperimentare modalità di produzione sostenibile, come l’artigianato di alto livello del “Made in Italy” ci ha ben insegnato. Due allora le modalità di riorganizzazione del nuovo modello di produzione: — l’integrazione del processo produttivo con la capacità di attribuire signifi-

cato culturale allo stesso e al prodotto che realizza, attribuendogli “sen-so” e quindi durata;

— la ricostruzione della filiera attraverso modalità che sappiano trarre da ogni passaggio un contributo qualificante in termini di concreta sostenibi-lità ambientale.

In altre parole, pensiamo ad “oggetti” che non annullano ma premiano il lavoro che li ha realizzati, anzi che traggono da questo valore. Pensiamo a rela-zioni con gli ambienti ed i saperi scientifici che ci aiutino a trovare la strada per decidere un “buono, giusto, sano, equo” non teorico ma riproducibile ed estendibile.

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Incontri e confronti con i territori

rAFFAele mAnnelliDG Sviluppo Economico - Settore Commercio Regione Toscana

Identità e territori - Vetrina Toscana: un’esperienza di qualificazione della rete distributiva locale

L’invito a quest’iniziativa del CNR-Ibimet permette a mio avviso un’interessante intersezione tra iniziative di ricerca in ambito di sviluppo locale e politiche regionali che dichiarano le stesse finalità. Inoltre, si offre un’occasione di ri-flessione sul tema dell’integrazione tra le politiche settoriali1, resa pressante dall’attuale crisi economica.Il tema della filiera che è stato trattato riguarda un’attività precisa e nelle diver-se presentazioni si sono approfondite le molte problematiche attinenti la valo-rizzazione delle produzioni correlate all’allevamento di ovini e caprini. Quindi sono stati evidenziati molti punti critici osservati nel processo di produzione primaria. L’attività di commercializzazione è stata marginalmente rappresen-tata e questo è avvenuto, credo, perché le incognite presenti nella fase della produzione sono ancora molte.Nelle attività che svolgo in Regione Toscana mi occupo di valorizzazione e qualificazione della rete distributiva. Se il commercio possa essere annovera-to tra le attività produttive in senso stretto vi è un ampio dibattito sia teorico che operativo. A mio avviso, se discutiamo di filiera, le imprese del commer-cio sono soggetti attivi della stessa e svolgono un ruolo non secondario a nessun altro attore economico; anzi la funzione commerciale è strategica sia che venga svolta dal canale distributivo diretto che indiretto. A questo riguardo le politiche regionali si sono da tempo indirizzate sulla cre-azione di una rete di punti commerciali che ha coinvolto imprese che operano nel settore alimentare (ristoranti, negozi di alimentari). Recentemente, dopo una prima esperienza che ha permesso di acquisire una conoscenza specifica delle problematiche riscontrate sul campo, il progetto è stato ridefinito nei suoi contenuti.Il mio intervento è quindi focalizzato sulla presentazione di questa esperienza.

1 Danesi S. e Mannelli R. 2009; Opportunità di sviluppo per il commercio nei piani e programmi della regione toscana: una lettura customer oriented; Paper presentato alla XXX Conferenza nazionale di AISRe.

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Sul filo del lavoro

Il progetto di rete distributiva è denominato Vetrina Toscana ed è rivolto prin-cipalmente alle micro imprese2 del commercio, ma coinvolge anche le piccole e confidiamo che in futuro possa attrarre qualche media struttura di vendita. Gli obiettivi della rete sono rappresentati da alcuni valori generali quali la so-stenibilità e l’identità e da alcuni obiettivi specifici di qualificazione dell’ampia e diffusa rete di esercizi commerciali presenti in Toscana.Ma prima di presentarvi l’esperienza Vetrina Toscana credo sia opportuno sin-tetizzare alcuni elementi che qualificano il settore e la sua evoluzione recente.Il commercio in Italia negli ultimi 10 anni (e negli ultimi 20 in alcuni dei paesi fondatori dell’Unione Europea) ha conosciuto un’intensa evoluzione del model-lo distributivo che ha importato elementi avanzati tecnologici ed organizzativi dal sistema produttivo. L’insediamento della grande distribuzione ha rappre-sentato una rivoluzione silenziosa che ha modificato i rapporti tra le imprese della produzione ed il loro accesso al mercato.Questa evoluzione del sistema distributivo è avvenuta contestualmente ad una importante revisione degli accordi internazionali del WTO in senso di liberaliz-zazione degli scambi tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo. In questo nuovo contesto la piccola e media impresa produttiva ha perduto alcune delle proprie capacità di collocare sul mercato le proprie produzioni, quella distributiva ha subito un effetto di disorientamento che ha compromes-so le capacità di competere a fronte della grande distribuzione.Quindi nel settore del commercio abbiamo oggi tre tipologie d’impresa: la grande distribuzione, la media distribuzione e l’esercizio di vicinato. Queste imprese giuocano un ruolo molto diverso tra loro. La grande distribuzione organizzata (GDO) offre un servizio commerciale altamente competitivo sul fronte dei prezzi ma si approvvigiona in contesti in grado di garantire stabilità di forniture, quantità elevate, qualità standardizzata, prezzi bassi. Spesso la GDO ha sviluppato private label con cui presenta al consumatore produzioni che non hanno un’identità territoriale immediatamente riconoscibile; questa forma di commercializzazione non facilita la piccola e media impresa di produ-zione nel percorso di affermare direttamente sul mercato un proprio prodotto ed un proprio marchio.Chiarisco immediatamente che non si tratta di attribuire valori pregiudiziali alle tipologie d’impresa: piccola, media e grande distribuzione. Non è tanto interessante, in questa sede, effettuare riflessioni sulle qualità morali o sociali

2 Secondo la definizione adottata ufficialmente dall’Unione europea.

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Incontri e confronti con i territori

dei diversi tipi di impresa. L’aspetto interessante è che la micro e piccola impresa sono diventate soggetti deboli nel sistema di regole che governa il mercato globale. Questo è l’elemento che permette di riservare una partico-lare attenzione nelle politiche per lo sviluppo locale. Si tratta di un patrimonio di capacità produttive, di conoscenze locali di imprese radicate sul territorio che rischiano di scomparire nell’impari competizione a cui sono chiamate a partecipare dall’ampliamento degli orizzonti effettuato dalle nuove regole della concorrenza e del libero scambio adottate anche dall’Unione europea.Riservare una politica di promozione dell’aggregazione in una rete di valoriz-zazione delle identità del nostro territorio è stata una scelta non rinviabile per permettere al piccolo commercio di individuare una nuova collocazione all’in-terno del sistema distributivo regionale in grado di offrire un futuro sviluppo a queste imprese ed a quelle del sistema produttivo. L’interesse della Regione era e continua ad essere sostanzialmente questo.Tornando al progetto “Vetrina Toscana”, con esso si cerca di rispondere alle difficoltà in cui la piccola impresa del commercio si trova. Inquadrare la rispo-sta in una struttura di rete, permette di proporre alle imprese di assumere una responsabilità diretta sul progetto, attraverso la sottoscrizione di un protocol-lo e di un disciplinare con cui si ricrea un legame con il territorio grazie alle produzioni tipiche e tradizionali della nostra regione.È rilevante per il progetto l’assunzione di responsabilità dell’impresa nell’ade-rire alla rete. Infatti, il primo elemento di successo della rete è legato all’eser-cizio di un diffuso controllo sociale sui comportamenti opportunistici che pos-sono manifestarsi. Questo controllo è affidato in primo luogo alle imprese stesse, alle imprese di produzione che possono individuare nella rete un loro canale distributivo ed ai consumatori attenti alle produzioni locali.Al soggetto pubblico resta un ruolo di coordinamento delle attività di promo-zione e l’esercizio del controllo di accesso ed uscita dalla rete, in attesa che anche queste funzioni possano essere espletate da un futuro organismo di gestione, diretta espressione dei soggetti aderenti.L’obiettivo resta sostanzialmente quello ricordato dall’imprenditrice agricola in questa sede: “portare a casa un reddito sufficiente per l’impresa e per la famiglia”. In questi obiettivi economici più che legittimi, che connotano la logica azienda-le, il soggetto pubblico può contribuire fornendo una chiave di lettura aggiun-tiva, con proprie politiche di segnalazione dove l’apporto di natura finanziaria è destinato a promuovere la rete.

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Sul filo del lavoro

La qualità della rete dipende sostanzialmente dalle imprese che ne fanno par-te e dalla volontà delle imprese che ne fanno parte di tenere alta la qualità del-la rete. L’ente pubblico non esprime giudizi di qualità sugli aderenti alla rete, proprio per evitare di compromettere il proprio ruolo neutrale di regolatore del mercato. Altri soggetti già svolgono una selezione di prodotti e di imprese per il consumatore. È anch’essa un’attività economica retribuita dal mercato.Quindi Vetrina Toscana si basa su di un accordo, un gentlemen agreement, fra i soggetti che aderiscono, un meccanismo molto semplice che consiste nella sottoscrizione volontaria e gratuita di un protocollo di intesa e di un discipli-nare, nell’assunzione dell’obbligo di tenere nella propria offerta merceologica una serie di tipologie di prodotti realizzati in Toscana che rispondono ad una ampia categoria, un logo che identifica la rete ed agevola la sua promozione, nell’impegno finanziario dell’ente pubblico sul piano della promozione del logo e di comunicazione delle iniziative realizzate dalla rete. Il progetto è stato avviato in via sperimentale nel 2004, limitatamente ai risto-ranti, con un modulo chiamato “Vetrina Toscana a Tavola” che ha utilizzato lo stesso logo e uno specifico disciplinare riservato ai ristoranti. Alla sperimen-tazione hanno partecipato più di 900 ristoranti. Quell’esperienza ha permes-so, nel gennaio 2009, di rinnovare il progetto dopo aver ricercato nel 2008, soluzioni ad una serie di problematiche riscontrate dagli aderenti. Il processo di revisione ha portato ad aprire la rete alle botteghe alimentari che hanno in breve tempo raggiunto la quota di 200.Allo stesso tempo è stato fatto un approfondimento su due ipotesi delle produ-zioni non alimentari: un modulo per l’abbigliamento e il tessile ed un altro per l’arredamento e i complementi di arredo per la casa.L’ipotesi di estendere la rete alla partecipazione di imprese del commercio che operano nel non alimentare riveste per noi un notevole interesse, ma dobbiamo constatare che in questo percorso una delle principali difficoltà che abbiamo incontrato riguarda il dialogo con gli stakeholder degli altri settori economici.La rete rappresenta uno strumento per collegare le micro e piccole imprese del commercio con il sistema produttivo locale agricolo, artigianale e manifat-turiero, caratterizzato dalle qualità delle produzioni particolari e potenzialmen-te interessato allo sviluppo della rete stessa3.

3 Crescenzi A. e Mannelli R., 2009, Commercio delle produzioni regionali: un’oppor-tunità per integrare le piccole imprese in una filiera locale; paper presentato alla XXX Conferenza nazionale di AISRe.

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Incontri e confronti con i territori

Il progetto ha ricercato raccordi con tutti i soggetti della filiera, questo ha per-messo di avere come primo risultato il catalogo di fornitori della rete. Il cata-logo riguarda soltanto imprese produttrici di prodotti alimentari ed annovera 90 schede aziendali ed un’offerta merceologica articolata sulle denominazioni d’origine e sulle produzioni tipiche e tradizionali. Questo catalogo permette di agevolare i rapporti tra commercianti e produttori. L’avvio di questo contatto era stato uno degli elementi di criticità osservato nella fase di sperimentazio-ne del progetto Vetrina Toscana.Se le produzioni locali hanno necessità di distinguersi dall’offerta commerciale diffusa che il consumatore incontra nella grande distribuzione, anche il piccolo commerciante ha necessità di distinguersi rispetto ai suoi competitori più grandi. Non può pensare di rimanere competitivo sul prezzo dati i suoi volumi di vendita, ma può svolgere una competizione locale a condizione che carat-terizzi la propria offerta sulle produzioni identitarie e di qualità.A questo punto di attuazione del progetto il meccanismo di rete per la parte alimentare sembra essere costituito. Da ottobre 2009 una campagna di pro-mozione che coinvolge gli aderenti alla rete, farà conoscere la rete ed la sua offerta caratteristica.Ci auguriamo che le imprese produttrici, i consorzi di promozione e tutela, quelli di commercializzazione svolgano un’azione positiva verso queste ini-ziative promozionali, partecipando ad eventi e degustazioni che si potranno svolgere presso tutti gli aderenti alla rete.Le promozioni finanziate dalla Regione sono raccolte da Unioncamere To-scana e cofinanziate dal sistema camerale e degli enti locali. L’insieme delle azioni di promozione viene inserito nel sistema di comunicazione istituzionale della Regione Toscana attraverso i propri canali informativi; principalmente via internet con i siti: www.regione.toscana.it, www.turismo.intoscana.it e www.intoscana.it. Le azioni di comunicazione si fondano sostanzialmente su ele-menti che caratterizzano oggi la vita in Toscana: questo è il messaggio corale che la campagna istituzionale ha accolto e che è racchiuso nella nota colonna sonora adottata “Voglio vivere così”.Un sito di servizio accompagna il progetto Vetrina Toscana, www.vetrina-toscana.it, in cui sono inseriti: gli esercizi commerciali aderenti alla rete, i fornitori della rete, gli eventi promozionali, uno spazio dedicato ai consuma-tori per favorire ogni forma di dialogo con loro. Il sito curato e finanziato da Unioncamere Toscana è in fase di realizzazione e diverrà operativo a partire dal 1 dicembre 2009.

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Sul filo del lavoro

Al progetto ha partecipato come partner finanziario ed organizzativo Union-camere Toscana ed il sistema camerale. Le due associazioni di categoria Confcommercio e Confesercenti hanno contribuito, attraverso il lavoro svolto dai loro Centri di Assistenza Tecnica (CAT), alla realizzazione della rete e degli strumenti.Il Comitato Regionale dei Consumatori e degli Utenti (CRCU) ha riconosciuto la validità del progetto inserendolo nel piano di indirizzo pluriennale delle iniziati-ve in favore dei consumatori.Vetrina Toscana ricerca un’integrazione anche con altre iniziative, ad esempio il progetto “Prezzi in vista” realizzato con il sistema camerale per rispondere alle esigenze di maggiore obiettività sui prezzi, quindi per introdurre elementi di eticità e di sostenibilità nei rapporti con il consumatore. Anche il tema della filiera corta e dei mercatali può rappresentare un’occasione di integrazione e reciproco rafforzamento delle politiche settoriali.Il tema della intersettorialità è importantissimo non solo riguardo agli altri settori economici ma all’intero sistema toscano, la cultura e gli eventi che verranno realizzati, il patrimonio monumentale ed artistico presente sul nostro territorio, il sistema educativo regionale, le iniziative di educazione alla salute.La valorizzazione delle presenze turistiche: eventi quali l’anno galileiano, i fe-steggiamenti per Giacomo Puccini ed ancora prima quelli per il Pontormo pos-sono rappresentare ed hanno rappresentato interessanti occasioni di sviluppo per le imprese toscane.Gli elementi di identità dei territori possono anche diventare gli elementi di unione su cui convergono gli interessi delle filiere produttive.In questo convegno organizzato dal CNR si è parlato di filiera produttive, inten-dendo con ciò l’incorporazione nell’azienda produttiva di tutte le fasi del ciclo economico del prodotto: dall’allevamento della pecora al prodotto finito, dalla tosatura del vello alla lana trasformata in tessuto e dal tessuto in prodotto finito. Vetrina Toscana propone una interpretazione diversa di filiera, evidenziando la possibilità di realizzare un’integrazione tra le imprese che svolgono ruoli e funzioni differenti nello ciclo del prodotto. Ogni impresa si concentri sulla propria attività principale, il core business, e si avvalga di imprese esterne a cui far svolgere le altre funzioni del ciclo, tra cui la commercializzazione al dettaglio. Nel realizzare questo processo integrato occorre ribadire che il fattore dimensionale può essere dirimente in una corretta ed equilibrata rela-zione economica.

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Incontri e confronti con i territori

Il progetto Vetrina Toscana mira a valorizzare le tradizioni di accoglienza, enogastronomiche e culinarie, della qualità delle produzioni artigianali, delle tipicità delle produzioni agrarie ed a creare una integrazione del sistema pro-duttivo con quello distributivo.Il progetto ha recentemente avviato una collaborazione in ambito sanitario che ha portato alla stipula di un protocollo d’intesa con cui si avvia un’iniziativa di integrazione fra le politiche di salute alimentare, la piramide alimentare tosca-na, ed il progetto di qualificazione dei ristoranti e delle botteghe aderenti a Vetrina Toscana.Questa collaborazione prevede tra le prime azioni l’attivazione di percorsi for-mativi ed informativi rivolti ai ristoratori, affinché i pasti fuori casa tengano conto di alcuni parametri nutrizionali utili ad una dieta più salutare.Un’ ultima considerazione sul futuro4 e sulle radici. Con una lettura di “Le radici del futuro” di De Varine, si comprende quanto lo sviluppo locale non si possa lasciare soltanto agli operatori che devono occuparsi di sviluppo locale, ma sia necessario tessere una fittissima rete tra gli agenti dello sviluppo e le imprese che in prima persona sono chiamate a farlo, perché affidare lo svilup-po locale ai soli piani di programmazione spesso rischia di rimanere un buon proposito a cui non segue un risultato.

4 De Varine H. (2005) Le radici del futuro, CLUEB Editore, Bologna

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Sul filo del lavoro

AnTonio mAuroR.S. – Ricerche e Servizi srl

La criticità della filiera

Buonasera a tutti. Ringrazio gli organizzatori per l’invito. Sono lieto di svilup-pare una serie di considerazioni sul tema che mi è stato posto: “La criticità della filiera”. Io, come formazione, sono un chimico e ho lavorato per quasi 30 anni come tecnologo e ricercatore tessile. Ho svolto anche la mansione di direttore tecnico in un’azienda a ciclo completo per la produzione di filati pregiati. Attualmente sono socio e direttore della società R.S. - Ricerche e Servizi, con sede nei pressi di Prato, che si occupa di ricerca e di trasferimen-to tecnologico prevalentemente nei settori del tessile e dell’abbigliamento. La nostra attività consiste nell’individuare problemi su prodotti, processi e sistemi organizzativi, trovare possibili soluzioni e venderle alle imprese inte-ressate. Da tre anni ci occupiamo di canapa per risolvere il difficile problema legato alla riutilizzazione della stoppa, ossia la cosiddetta fibra corta di cana-pa derivante dall’operazione di prima pettinatura e, anche per questa ragione sono stato chiamato per fornire il contributo della mia esperienza. Desidero, perciò, esporre una serie di osservazioni sulle criticità delle filiere relative alla trasformazione in articoli finiti delle fibre naturali prodotte o producibili in Italia e poi fornire indicazioni sui risultati di carattere pre-industriale che abbiamo ottenuto circa la lavorazione della stoppa di canapa. Intanto, una prima considerazione è di riconoscimento ed è dedicata all’Ibi-met, l’istituto organizzatore di questo incontro che, con il suo progetto, sta definendo lo stato dell’arte nazionale (ma sarebbe interessante estenderlo a livello europeo) di tutte le iniziative per la valorizzazione delle fibre tessili natu-rali e delle piante tintorie. Mi riallaccio a quanto ha detto in precedenza la cara amica Aurora Magni che, in questa sala, ha sottolineato, realisticamente, l’importanza che avrà ancora per lungo tempo l’uso delle fibre sintetiche. Parlare delle fibre naturali, canapa, lana, seta, pensare alle tinture naturali, quale contrapposizione alle fibre man-made non ha un senso pratico, almeno nel breve e medio periodo, anche perché la relativa manifattura dovrebbe essere basata su un modello produttivo di tipo post-ford-tayloristico, che deve essere ancora costruito. Io non intendo entrare nella logica che permea questo riferimento applicato all’in-

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Incontri e confronti con i territori

dustria tessile. Posso, però, dire che esiste un’industria tessile, tayloristica e fordista, attualmente in crisi nei paesi occidentali, e una nascente industria tessile, di tipo domestico, che ha difficoltà ad imporsi. È questa l’industria tessile domestica di cui si sta parlando in questa sede e di cui l’Ibimet sta cercando di valorizzare tutti gli aspetti produttivi, sociali ed economici, pur nell’assenza corrente di un modello di riferimento. Da tecnologo, ritengo che sarebbe importante sviluppare una serie di studi di carattere economico. In altre parole, dovrebbero essere definiti gli ambiti tecnico-economici entro cui considerare positive o negative, in termini di redditualità, le produzioni dell’in-dustria domestica costituita da un insieme di micro-imprese. Altrimenti detto, capire quando certe produzioni hanno un senso economico e quando no. Ov-viamente, escludo da questi ragionamenti eventuali produzioni “a nero” oppu-re produzioni che non siano rispettose delle norme per la sicurezza sui luoghi di lavoro e di rispetto dell’ambiente. Ma considerare questi due riferimenti, cioè essere fiscalmente a posto e rispettare sicurezza ed ambiente, e anche guadagnare è tutta un’altra cosa di più complessa soluzione. Parlare di fibre naturali in questo contesto significa valorizzare a livello na-zionale una serie di filiere che dalla materia prima arrivano fino al prodotto finito. In Italia, una volta c’era la canapa. Si può pensare, nuovamente, ad una riscoperta della canapa come una serie di iniziative in corso dimostrano. Si può pensare alla riutilizzazione di lane rustiche anche per produzioni tessili non rustiche, data la disponibilità di tecnologie assenti negli anni scorsi, sulla base della considerazione che è giusto rifarci al passato, ma puntando a fare cose con la qualità merceologica ed il design cui siamo abituati oggi. Prodotti in canapa o in lana, così come erano fabbricati nel passato, adesso non an-drebbero bene perché di mano troppo ruvida, poco leggeri, poco avvolgenti. Per questo credo che bisognerebbe valorizzare, mediante specifiche attività di ricerca, le materie prime nazionali quali seta, lana, canapa, per citare le più note, valorizzare le materie tintorie locali, per renderle disponibili, pronte all’uso – se non di massa, almeno diffuso - in nuovi cicli di lavoro, di cui do-vrebbe essere definito anche il modello di riferimento. In prima formulazione, penso che come modello di riferimento si possa usare una immagine, quella di Saturno con i suoi anelli. Saturno, con richiamo alla produzione domestica di manufatti in lane autoctone, canapa e seta naziona-li, rappresenterebbe quelle fasi dei relativi cicli di trasformazione per i quali sarebbe obbligatoria una lavorazione industriale per ottenere le necessarie economie di scala.

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Sul filo del lavoro

Sono stato per lavoro in Islanda. L’Islanda ha 300.000 abitanti ed un milione circa di pecore da carne. Esiste sul posto una produzione di capi a maglia per i turisti realizzati con quel tipo di lana. Un turista, in genere, compra questo tipo di abbigliamento, ma quando torna a casa lo deposita nell’armadio e non lo usa più perché troppo pesante, troppo ruvido, troppo spesso. Se dovesse succedere una cosa simile con le nostre produzioni avremmo un effetto boo-merang. Il nostro turista, tendenzialmente ricorrente, non ricomprerebbe più quegli oggetti. Credo che un’industria tessile domestica incapace di rinnovarsi producendo con qualità non possa avere molto futuro. In ogni caso, nelle fattorie islandesi che si dedicano a questo genere di atti-vità, la produzione domestica ha comunque connotati ed investimenti di tipo industriale. Cosa vuol dire produzione domestica di tipo industriale? Significa, per esempio, che la compagna dell’allevatore dispone di un piccolo lavaggio industriale della lana, cioè una serie di vasche che imitano i più grandi sistemi di lavaggio. Ha un piccolo impianto di cardatura, uno di filatura ed una serie di macchine per la lavorazione dei tessuti a maglia. Queste macchine si possono vedere in offerta su internet da parte di produttori americani che le vendono non solo in Islanda, ma anche alle tante industrie domestiche attive nelle nu-merose farm. Se queste soluzioni fossero applicate da noi, dovremmo avere delle imprenditrici in grado di spendere non meno di 300.000 euro per linee di lavorazioni complete o dai 10.000 ai 50.000 euro per singole macchine. Non credo che questo sia compatibile con gran parte delle imprese femminili, ma anche giovanili, oggi esistenti in Italia. Naturalmente sto parlando degli investimenti in macchine ed impianti necessari solo per produrre il filato. Se volessimo invece passare alla tintura, a meno di non tingere nei pentoloni o poco più, gli investimenti necessari si aggirano intorno ai 100.000 euro. Do-podiché bisognerà valutare la capacità di lavoro di queste strutture produttive “domestiche” per poter garantire un minimo di reddito, diciamo stipendio, per chi ha investito e ci lavora. Quindi bisogna davvero ripensare certe cose. Nel modello “Saturno” alcune attività, compresa quella agricola, possono essere realizzate solo su gran-de scala, incompatibile con l’attività di un’industria domestica. Chi a Comac-chio produce la canapa sa bene quali siano i grandi investimenti necessari per produrre quantitativi non piccoli di canapa e quindi di costo comparabile con le altre fibre presenti sul mercato. La preparazione delle fibre, come per esempio il lavaggio delle lane o la preparazione iniziale della canapa, richiede macchine industriali il cui investimento è notevole ed il cui costo si giusti-

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fica solo se si lavorano grandi quantità di materia prima. Anche se volessi comprare un lavaggio piccolo, non spenderei meno in proporzione, ma solo poco meno. Altro esempio è dato dalla degiarratura delle fibre di cashmere. Le giarre sono quelle fibre grossolane, fra l’altro presenti anche nelle lane rustiche, che se fossero tolte porterebbero ad una valorizzazione delle stes-se lane. Le giarre devono essere tolte dal cashmere altrimenti questa fibra non può essere lavorata in modo adeguato. Nel caso di piccole produzioni annuali, tipo qualche chilo, si possono togliere quasi tutte a mano. Ma se si dovessero lavorare alcune centinaia o migliaia di chili, l’operazione manuale diventerebbe antieconomica e di difficile gestione in termini di addetti. Una classica macchina industriale per togliere le giarre costa 400.000 euro e adesso sono in uso solo presso i cinesi. Eventuali soluzioni, basate su tecno-logie adattate, ridurrebbero l’investimento necessario intorno ai 60.000 euro e parliamo di una sola fase di lavorazione. Quindi, alcune fasi, costituite da preparazione, cardatura, filatura, “stanno nella palla di Saturno”. Escludo, da questo ragionamento, la filatura fatta a mano come tecnologo che pensa alla vendita del prodotto, perché con questo metodo si producono solo modeste quantità di filato “brutto” rispetto alle nostre attuali sensibilità. Quindi anche la filatura deve essere realizzata su scala industriale. È stato detto stamani dalla dottoressa Camilli che in Toscana esiste solo un’azienda che può lavorare a livello di piccole partite. Riterrei che anche altre sarebbero disponibili se vi fosse un’adeguata domanda. Quella citata è però quella che ha imboccato questo tipo di attività e di rapporti con terzi. Anche le successive operazioni di tintura e di finissaggio, se non sono realizzate sulla base di una produzione minima fissa continua nel tempo, non potranno realizzare lavorazioni a costi accettabili dal consumatore finale. Anche queste fasi sono rappresentabili con la palla di Saturno. L’anello di Saturno è formato invece dalla molteplicità di imprese attualmente esistenti, in genere microimprese al femminile, senza escludere quelle giova-nili. Che cosa fanno queste microimprese? Potrebbero fare tessitura. Oppure confezione per abbigliamento o per arredamento. O la commercializzazione, altrettanto importante. Un grande insieme di queste piccole unità, poste nella seconda metà della filiera tessile, con la loro capacità produttiva diffusa sul territorio, potrebbero sostenere il nucleo centrale di Saturno, cioè quelle la-vorazioni possibili solo su scala industriale. Riterrei che solo in questo modo potrebbe essere costituito un modello tessile produttivo nuovo, in grado di valorizzare le materie prime tessili a nostra disposizione.

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Sul filo del lavoro

Credo che ragionamenti simili debbano essere considerati. Altrimenti non avremo mai i valori economici delle varie fasi di lavorazione, senza i quali di-venta difficile capire se una data attività è in perdita oppure no e, se in perdita, cosa fare per trovare le soluzioni necessarie.Altro aspetto importante è “fare delle cose fatte bene”. L’affermazione è un’ov-vietà. Tuttavia devono essere fatte bene e a basso costo. Pensare a produ-zioni tessili, seppure “alla Saturno”, di elevato valore, ossia di elevato prezzo di vendita, penso sia una grande illusione. Forse qualche articolo può essere realizzato, non lo escludo. Però, per la mia esperienza - ma ci vorrebbe uno studio di carattere economico per approfondire questi aspetti - oltre a produr-re bene, ossia da un punto di vista merceologico, di caratteristiche tecniche e di design, bisogna anche che l’articolo che si andrà a porre sul mercato non costi più del 10-20% di analoghi prodotti di produzione industriale standard. Se un prodotto da industria domestica, non possedendo un brand e una spe-cifica visibilità, dovesse costare molto di più, nessuno lo comprerebbe oppure sarebbe comprato da pochi acquirenti finali, da cui la mancanza di ritorni economici per chi dovesse investire. Dicendo questo non vorrei togliere un po’ di desiderio “a fare”. Io credo che i desideri non debbano essere spenti, ma debbano essere valorizzati attra-verso analisi serie e documentate di quello che è possibile fare. Per poter vendere ai prezzi indicati, i costi di produzione devono essere tali da garantire un differenziale con cui le persone che ci lavorano possano giustificare il pro-prio impegno. Questo significa che per disporre di bassi costi di produzione, con i nostri costi del lavoro, si dovranno ripensare sistemi organizzativi e produttivi. Con quest’ultimo termine intendo anche macchine, impianti e tutto ciò che attiene alla logistica. Solo intervenendo sistematicamente sull’insieme di queste cose sarà possibile avere bassi costi di produzione per unità di prodotto, da cui prezzi di vendita accettabili dal mercato. Altrimenti, il rischio è quello del destino dei maglioni islandesi che uno compra per ricordo e poi abbandona nell’armadio. Io non credo che sia questo il nostro desiderio.Queste le considerazioni di carattere generale che mi ero prefisso di esporre. Adesso una comunicazione riguardante la canapa. In precedenza, la dottores-sa Zaccarini, del Consorzio Canapa Italia, ci ha fatto vedere alcune immagi-ni dell’impianto di pettinatura della canapa installato a Comacchio. Questo è l’unico impianto esistente in Italia, uno tra i 3 o 4 impianti in Europa. Questo è però il più moderno. Il suo costo, come ordine di grandezza, supera abbon-dantemente il milione di euro. Sicuramente non alla portata di microimprese,

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anche se l’impresa che lo gestisce è una microimpresa in termini di numero di addetti, ma con capacità rilevanti sotto il profilo finanziario. Diversi aspetti di carattere tecnico devono essere considerati e risolti durante la lavorazione di questa fibra. Tuttavia, sapere affrontare e risolvere detti problemi è condizione necessaria, ma non sufficiente per disporre a valle di un mercato valido. Come detto all’inizio, uno dei problemi è la stoppa di canapa. Questo sottoprodotto rappresenta dal 50 al 60-70% della canapa prodotta. Attualmente la stoppa è utilizzata, nei casi più favorevoli, per produrre cellulosa da carta oppure per lettiere. I compensi si aggirano su pochi centesimi per quintale. Nonostante le cose molto belle in canapa viste durante il precedente intervento, è ancora aperto il problema di una valorizzazione economica della stoppa. Come RS abbiamo preso della stoppa di canapa a Comacchio e abbiamo creato una mini-filiera di imprese a Prato con cui si è messo in lavorazione questo tipo di materiale. Il problema da risolvere era la mancanza di costruttori di macchine per la lavorazione di stoppa di canapa. Macchine simili risultano ora non più esistenti e, per di più, è stata praticamente persa, almeno in Italia, la memoria tecnologica della lavorazione della stoppa di canapa. Che in Europa ci siano due o tre siti dove ancora queste cose sono fatte con vecchie macchine ed il relativo sapere fare è ancora appannaggio di pochi addetti anziani, è un dato di fatto, ma certamente non è quello che può aiutare a far risorgere l’industria nazionale. Per rendere economicamente plausibile la coltivazione della canapa occorre fornire un adeguato valore aggiunto anche alla stoppa attraverso una trasfor-mazione della stessa in filato. Come RS abbiamo avuto un’idea che è stata quella di adoperare macchine non canapiere per produrre il relativo filato. In pratica abbiamo adattato il ciclo di lavorazione classico della canapa, che prevede la preparazione, la cardatura e la filatura, su macchine diverse e, opportunamente combinate, di vari altri cicli dal cotoniero al laniero e al non tessuto. Siamo riusciti, così, a dimostrare, proprio la settimana scorsa, che la cosa è fattibile. Ho portato il primo filato in assoluto di canapa di stoppa rea-lizzato con un ciclo non canapiero. Noi sappiamo che attraverso l’affinamento di questa lavorazione - spero si possa arrivare allo sviluppo di un progetto - si potranno ottenere dei filati molto belli per arredamento e per uso tecnico. Me-scolando, poi, la canapa con il cotone o con la lana realizzare anche dei filati interessanti per abbigliamento. Rimarrà poi da scoprire come poter nobilitare, cioè tingere o rifinire al meglio questi tessuti che si andranno a realizzare, ma su questo ho fiducia nelle soluzioni individuabili.

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Sul filo del lavoro

FrAncescA murru

Grazie. Buonasera a tutti. Io lavoro per Sardegna Ricerche, un’agenzia della Regione Sardegna che si occupa da un lato di gestire il Parco Scientifico e Tecnologico della Sardegna, dall’altro di promuovere lo sviluppo tecnologico, l’innovazione e il trasferimen-to tecnologico nelle imprese che insistono sul nostro territorio regionale. Ci rivolgiamo principalmente ai cosiddetti settori di frontiera, con particolare ri-ferimento a quelli che nella nostra regione si stanno sviluppando ultimamente con un certo successo: l’Information and Comunication Technology (ICT) le biotecnologie e la biomedicina. Non ci dimentichiamo però del nostro terri-torio di partenza, dell’economia della nostra regione basata prevalentemente sui settori tradizionali, con particolare riferimento all’artigianato, all’agroali-mentare e al turismo, per i quali cerchiamo di promuovere l’innovazione tec-nologica, lo sviluppo tecnologico a 360°, ove per innovazione tecnologica non intendiamo solo la mera innovazione di prodotto o di processo, ma anche un’innovazione di tipo organizzativo. Riteniamo, infatti, molto importante sti-molare le imprese a fare sistema dal momento che nei settori tradizionali, sia nel nostro contesto regionale così come a livello nazionale, le realtà produttive sono di dimensioni molto piccole. Molto spesso la risoluzione dei problemi per un’impresa di piccole dimensioni è molto complessa se viene affrontata a livello individuale, mentre può essere più semplice cercare di risolvere un problema comune quando si fa massa critica, in base al principio che l’unio-ne fa la forza. Partendo da questo, e partendo dal fatto che anche i settori tradizionali hanno bisogno di innovazione tecnologica e che quindi l’high tech non è un argomento avulso da quello che è il settore tradizionale, abbiamo realizzato una serie di progetti, tra cui uno nel comparto del tessile, che ave-vano l’obiettivo di introdurre delle innovazioni. Le innovazioni di prodotto e di processo in una filiera di questo tipo, soprattutto nella nostra regione dove il tessile si sviluppa principalmente con l’aiuto di pochissime tecnologie e con moltissima manualità, sono abbastanza complicate. L’innovazione più sem-plice a cui veniva da pensare era proprio quella gestionale ed organizzativa. Tuttavia è molto difficile convincere le imprese a lavorare ad un progetto che prevede un’innovazione di questo tipo, per cui le abbiamo invitate a realizzare una nuova linea di abbigliamento, quindi un nuovo prodotto. L’obiettivo di un nuovo prodotto in realtà mascherava quello più complesso di cercare di far sì

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che le imprese facessero sistema, cioè lavorassero tutte insieme per risolve-re un problema comune. Abbiamo invitato le imprese a realizzare una linea di abbigliamento “Made in Sardegna”. Al programma hanno aderito a seguito di un bando pubblico un certo numero di imprese. Abbiamo scoperto quella che è la loro natura: microimprese, 14 ditte individuali su 28, il 50%. Microimprese che andavano sostenute anche dal punto di vista organizzativo e per le quali la loro natura dimensionale ha posto dei limiti anche nell’organizzazione stessa del progetto, in quanto chiedere alle imprese di partecipare alle attività del programma significava chiedere loro di chiudere, di non svolgere la loro atti-vità lavorativa magari per una giornata intera. Abbiamo poi scoperto che pur-troppo le imprese tra loro non dialogano, che spesso neanche si conoscono: quindi riunirle intorno ad un tavolo per risolvere i problemi ha fatto sì che tra di loro cominciassero a conoscersi e a rendersi conto che una poteva essere partner dell’altra - non tutte le imprese del gruppo infatti sono esecutrici del capo finito di abbigliamento, alcune tessono, alcune tingono naturalmente, altre hanno imprese di filatura. A seguito dell’avvio del progetto le imprese hanno iniziato a parlarsi, a collaborare, a conoscersi, a capire che magari ciò che prima acquistavano fuori poteva essere acquistato più da vicino con mag-giore facilità e magari con uno spirito di collaborazione. È stato definito il nuo-vo prodotto e facendo in modo che ognuno di loro facesse un singolo capo in collaborazione li abbiamo costretti a lavorare insieme: uno tesseva,l’altro cuciva e così via. Ci siamo subito resi conto che era importante trovare anche un obiettivo commerciale, perché spesso - mi pongo soprattutto come Ente pubblico - si fanno progetti che non hanno obiettivi economici ed alla fine le im-prese partecipano all’inizio, ma poi devono fare risultato alla fine dell’anno e si perdono per strada. Abbiamo ottenuto uno spazio commerciale a costo zero all’interno del Forte Village Resort, un villaggio turistico a cinque stelle nella costa sud occidentale della Sardegna conosciuto nel mondo, dove le imprese hanno potuto commercializzare la loro prima micro collezione approcciandosi ad clientela internazionale senza varcare i confini regionali, con un investi-mento minimo ma con la possibilità di fare un test commerciale di ampio spettro. Quindi sono riusciti a conoscersi, a collaborare, hanno realizzato una collezione, hanno commercializzato ottenendo un risultato economico interes-sante ed hanno capito che insieme, tutto sommato, si possono affrontare e risolvere i problemi. È stata poi fatta una parte di ricerca in collaborazione con il CNR-Ibimet sulle tinture naturali nel rispetto degli obiettivi principali del no-stro Ente Sardegna Ricerche, che sono la ricerca e l’innovazione tecnologica.

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Abbiamo fatto anche un lavoro di riscoperta delle attività sul nostro territorio che andavano scomparendo, una fra tutte quella della coltivazione del baco da seta. In Sardegna esiste ancora una persona che coltiva il baco da seta, riesce a tirare il filo, filarlo e lo utilizza per tessere un copricapo “su lionzu)” che è tipico del costume tradizionale del suo piccolo paese, Orgosolo. Le ab-biamo insegnato che parlando e collaborando con persone che si occupano della realizzazione di capi di abbigliamento avrebbe potuto fare delle cose differenti, con una maggiore possibilità di commercializzazione anche al di là del suo piccolo paese. Adesso stiamo provando a stimolare questa persona a trasferire le sue conoscenze all’interno dell�economia del suo piccolo centro e fare massa critica, dato che la sua produzione è piuttosto limitata.Il gruppo delle imprese del tessile abbigliamento si è talmente consolidato che hanno deciso di creare un marchio collettivo, IS, Immaginazione Sardegna (www.immaginazionesardegna.it) e di commercializzare insieme. Il gruppo si è, dunque, consolidato al punto da costituire una società consortile, ma que-sto dopo un anno di rodaggio, di conoscenza, di rapporti che hanno fatto sì che nascesse la fiducia tale da potersi costituire in una società. Nel mese di giugno del 2008 abbiamo organizzato una sfilata all’attenzione di giornali della stampa locale e nazionale che hanno scritto di noi. I risultati sono stati ovvia-mente la costituzione di un gruppo determinato ed entusiasta, la risoluzione di criticità a livello di vendite e un aumento della visibilità. Adesso il gruppo è formato in modo tale per cui ciascuno può realizzare il medesimo capo: questo garantisce un maggiore quantitativo di produzione ad un elevato livello qualitativo, perché comunque ogni capo viene realizzato a mano. Le nuove prospettive: stiamo realizzando una nuova collezione che presenteremo a bre-ve e che verrà ugualmente commercializzata nel punto vendita del Forte Villa-ge. Abbiamo fatto delle attività formative importanti: per esempio, nessuno di loro era in grado di usare un foglio elettronico, nessuno di loro sapeva tenere la gestione del magazzino, delle vendite e degli acquisti e quindi un minimo di formazione manageriale siamo riusciti ad inserirlo. Stiamo continuando l’atti-vità di sperimentazione cercando di ampliare quella che è la filiera, andando a monte. Abbiamo fatto il percorso inverso cercando di verificare come pos-siamo migliorare la qualità della lana sarda. In Sardegna abbiamo moltissime pecore, ma il livello qualitativo della lana non è elevatissimo, tanto che viene utilizzata principalmente per la produzione di tappeti, ma non per il tessile e per l’abbigliamento. L’unico tessuto che riusciamo ad ottenere è l’orbace che è un materiale estremamente affascinante, ma impossibile da indossare.

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Stiamo quindi cercando di capire come fare per migliorarlo dal punto di vista del comfort, dal momento che disponiamo di lana in abbondanza. Oltre che sulle colorazioni naturali con il CNR, stiamo conducendo anche un’ attività di sperimentazione sull’utilizzo della lana di pecora nera autoctona sarda: abbia-mo delle pecore così scure che la lana non ha bisogno di essere tinta, ma anche su questa tipologia è necessario studiare dei sistemi per migliorarne il confort.La mia è soltanto una testimonianza del fatto che è possibile lavorare con delle microimprese, studiando dei modelli di approccio e progettuali ad hoc.

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loris VenTuriProgetto Seta, Meldola (FC)

Io parlerò del progetto la “Seta di Meldola” che ha trovato qui oggi molta sintonia e molto conforto. Non posso esimermi dal precisare che il mio con-tributo è frutto di lavoro intenso e della collaborazione fra associazioni, enti ed Università messi in rete da vari anni dal coordinatore del progetto, il dott. Luciano Ravaglioli.Il progetto nasce da una serie di considerazioni sull’effettivo potenziale di ri-sorse materiali ed umane presenti nell’area meldolese, dove l’allevamento del baco da seta ebbe in passato un peso economico e sociale tale da farne una vera capitale del mercato italiano. A Meldola si batteva il prezzo della seta. Con il presente progetto si intende delineare e proporre una serie di attività volte a introdurre o, più correttamente, reintrodurre nel comune di Meldola la coltivazione del gelso, la pratica dell’allevamento del baco da seta e delle successive lavorazioni atte a produrre accessori di abbigliamento originali ed esclusivi “Made in Meldola”.Le due principali finalità del progetto sono l’integrazione del reddito in agricol-tura e l’attivazione di neo imprese femminili, con il reinserimento nel ciclo pro-duttivo di donne che abbiano, in questi momenti di crisi, perso il lavoro o che abbiano da intraprendere un qualche nuovo lavoro. In generale riteniamo che la produzione della seta risulti essere attività degna di interesse e suscettibile di un adeguato valido sviluppo almeno per quattro ragioni:1. Sappiamo che l’Italia è fra i paesi più importanti del mondo per la produzio-

ne e l’esportazione di tessuti pregiati di seta, ma dipende quasi totalmen-te, per l’approvvigionamento della materia prima, dalla disponibilità di altri paesi, principalmente dalla Cina.

Il mercato della seta greggia ha subito notevoli alterazioni, spesso prive di logica economica, ma riconducibili a situazioni organizzative e sociali relative alla Cina stessa.

Un esempio: nel corso del 2003 il prezzo della seta cinese risultava in-feriore allo stesso costo di produzione in quel paese; nello stesso anno, però, liberalizzò le vendite di seta greggia per cui le sue scorte, immes-se improvvisamente nel mercato, provocarono prima una riduzione del prezzo mondiale della seta e poi un’impennata dovuta alla mancanza di prodotto.

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2. Oggi che il prezzo della seta greggia è passato dai 15 dollari al chilo ad oltre i 40 dollari si presentano concrete possibilità di ripresa nazionale del settore specialmente per realtà produttive di nicchia.

3. Nel settore tessile tradizionale è necessario puntare alla valorizzazione del bozzolo italiano attraverso la creazione di prodotti originali, inseriti even-tualmente in percorsi agro-turistici o legati a raffinati marchi industriali, per differenziare una produzione di elevata qualità al di sopra della massiva ed invasiva importazione di capi cinesi di qualità scadente.

4. In aiuto all’incentivazione della produzione di bozzolo fresco richiamo la possibilità per l’operatore di usufruire dei contributi europei per gli impianti gelsicoli attraverso i nuovi Piani di Sviluppo Regionali che sono conformi agli orientamenti della Politica Agricola Comunitaria in materia di riorganiz-zazione degli indirizzi produttivi a salvaguardia di occupazione, ambiente e qualità produttiva.

Nel comune di Meldola dal 1996 sono stati effettuati allevamenti didattico-sperimentali impiegando il seme-bachi (uova), prodotto dall’I.S.Z.A., Sezione Specializzata per la Bachicoltura di Padova, e distribuito alle scuole e ai privati cittadini dal G.E.N.M. (Gruppo Entomologico Naturalistico Meldolese); alleva-menti condotti con ottimi risultati: puntuale salita al bosco delle larve e produ-zione normale di bozzolo.Tuttora gli allevamenti sperimentali continuano ad essere effettuati in collabo-razione col il C.R.A. Unità di Ricerca di Apicoltura e Bachicoltura di Padova (ex I.S.Z.A).Sul modello messo in atto in altre nazioni mediterranee e in regioni d’Italia che offrono da tempo esempi stimolanti di esperienze positive e durature nel settore dell’artigianato tessile, si tratta di imprese al femminile nelle quali si parte dalla produzione della materia prima per arrivare ad un prodotto finale originale e di grande qualità.Il gruppo di ricerca del Museo del Baco da seta Ciro Ronchi di Meldola propo-ne lo sviluppo di un’attività finalizzata alla realizzazione di una filiera produttiva che partendo dalla produzione del bozzolo si concluda nel capo e nell’acces-sorio in seta contando sulla qualità e sull’unicità del prodotto finito.La filiera è intesa come una filiera tutta italiana, se non addirittura meldolese, e sicuramente potrebbe essere collocata fra quelle filiere corte che Meldola ha sperimentato in passato con il ”Kilometro Zero” nel campo della ristorazio-ne scolastica e dell’approvigionamento di prodotti biologici e locali. Le fasi della filiera sono, in estrema sintesi, le seguenti: 1) impianto del gelseto e

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allevamento del baco da seta, 2) lavorazione del bozzolo, 3) coltura di piante tintorie e tintura con coloranti naturali, 4) tessitura, 5) stampa, 6) seta selva-tica 7) sartoria e vendita diretta, 8) marketing del prodotto.Brevemente, occorre favorire: 1. la realizzazione di una filiera serica nel territorio di Meldola con un impianto

di tre ettari (accorpati o non) di gelseto specializzato polivarietale. Qui ver-ranno messe a dimora cultivar locali già riprodotte che, a seguito di recenti indagini sulla loro costituzione genetica, risultano del tutto autoctone e quindi molto adatte all’ambiente pedoclimatico di questo territorio;

2. la costituzione di un consorzio o cooperativa di produttori locali;3. la realizzazione di un centro di ammasso, gestione e lavorazione del boz-

zolo prodotto;4. l’allestimento, nel centro di cui al punto 3, di un impianto per la filatura del

bozzolo e la produzione di seta greggia. L’impianto funzionerà anche come processo didattico dimostrativo per la formazione professionale;

5. l’allestimento di un impianto artigianale per la produzione di manufatti di nic-chia. I prodotti dovranno essere orientati verso un elevato livello di comfort e naturalità tale da ottimizzare il senso di benessere e di salute dell’utiliz-zatore. Con l’affermarsi delle richieste del mercato di tali manufatti, la loro produzione potrà essere implementata sia numericamente che qualitativa-mente;

6. la costituzione di un laboratorio-atelier specializzato nella tessitura artigia-nale con iniziale indirizzo didattico dimostrativo. Successivamente verrà valutata la possibilità di ampliare questo tipo di attività.

7. L’individuazione di un insieme di prodotti serici per la costituzione di uno shop aziendale destinato ai visitatori.

Gli obbiettivi del progetto sono, ovviamente, l’impianto dei gelseti e degli al-levamenti del baco da seta e l’organizzazione di corsi professionali in grado di preparare chi fosse interessato all’apprendimento delle tecniche di alleva-mento del baco da seta; la realizzazione della struttura centralizzata presso la quale è previsto l’allevamento dei bachi, fino alla seconda o terza età larvale, da distribuire poi ai diversi soci allevatori che, con la foglia prodotta nei loro gelseti, completeranno le fasi larvali di allevamento ottenendo i bozzoli da consegnare al centro di ammasso che provvederà alla loro essiccazione e successiva filatura; la realizzazione di un impianto di trattura (filatura) che consenta la trasformazione del bozzolo prodotto in matasse di seta greggia da collocare nel mercato nazionale (questo potrebbe essere un segmento già

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Incontri e confronti con i territori

operativo iniziale che può dare quella integrazione al reddito); la coltura di piante tintorie e tintura naturale, in quanto oggi la tintura con prodotti naturale è divenuta un aspetto essenziale per la più alta qualificazione di un prodotto tessile sia dal punto di vista della salute del consumatore che da un punto di vista estetico nella scelta di un pezzo “unico”; la tessitura con l’installazione di telai per la tessitura della seta greggia. Per quanto riguarda la stampa a mano, una fase di grande importanza nella decorazione dei tessuti, Meldola può vantare la presenza del cav. Fabio Visini, unanimemente riconosciuto il più grande artista italiano della stampa a rug-gine, una antica tradizione prettamente romagnola; un artista completo che ha unito all’abilità di stampatore quella di incisore e ideatore di nuovi motivi decorativi e di nuovi, inimitabili, colori per la stampa. Tutta la sua immensa esperienza ed il suo laboratorio saranno a disposizione di chi si dedicherà a questa fase della filiera.Poi c’è un obbiettivo particolare: il gruppo di ricerca del Museo sta portando avanti una serie di allevamenti sperimentali, i primi in Italia, di bachi da seta di specie diverse dal comune e noto baco da seta (Bombyx mori). Si tratta di bachi che producono la cosiddetta “seta selvatica”, un tipo di seta assai ri-chiesta dal mercato asiatico e americano e che sta guadagnando fortemente la stima del mercato europeo. Sicuramente la seta selvatica offrirebbe una materia prima inedita e innovativa che aggiungerebbe valore ed originalità esclusiva al prodotto totale della filiera serica.Sulla sartoria ed il marketing vado veloce, sottolineando che da un sondag-gio preventivo con probabili futuri acquirenti ci è già stato dimostrato grande entusiasmo e disponibilità ad acquisire la produzione futura ed, inoltre, il Mu-seo del Baco da Seta Ciro Ronchi, che attrae annualmente visitatori anche dall’estero, è un punto importante per la pubblicità all’impresa e per interes-sare potenziali acquirenti dei prodotti di nicchia che verranno in parte esposti nel museo stesso. Finendo, quindi, verrà creato un adeguato spazio pubblicitario per mostrare il lavoro e illustrare le qualità del prodotto, un prodotto nel rispetto della salute del consumatore e dell’ambiente.L’esigenza di prodotti che garantiscano una filiera sana, esente da sostanze nocive sia per il consumatore che per l’ambiente, è in continuo crescendo. Gli ideatori del progetto intendono offrire un prodotto sano dall’A alla Z sia in nome di una propria etica sia per la convinzione che un tale prodotto sia altamente competitivo sul mercato che si va profilando.

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Sul filo del lavoro

PresentazioneALESSANDRA TOMAIMinistero del Lavoro e delle Politiche Sociali .............................. pag. 5

IntroduzioneGIAMPIERO MARACCHIUniversità di Firenze................................................................. pag. 7

TAVOLE ROTONDE

IL TERRITORIO CHE VESTELa microimpresa femminile nelle aree rurali per la valorizzazione del tessile. ............................................... pag. 11Firenze, 16 febbraio 2009

INNOVARE LA TRADIZIONEIl ruolo dell’imprenditoria femminile nel settore tessile................. pag. 51Bologna, 5 marzo 2009

LO SCRIGNO NASCOSTO DI ARACNEImpresa femminile e filiera corta del tessile per la valorizzazione del territorio. ............................................ pag. 93Napoli, 22 aprile 2009

LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TESSERERisorse locali e saperi tradizionali: nuovi intrecci per uno sviluppo sostenibile. .................................................... pag. 125Sassari, 8 maggio 2009

CONVEGNO

SUL FILO DEL LAVORONuove trame per lo sviluppo della filiera tessile e dell’occupazione femminile nei territori rurali. .......................... pag. 173Roma, 30 giugno 2009

INDICE

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