Renzo Radice La genia di Adamo · 7 Tra passato e futuro Non ci siamo per caso La storia della...

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Renzo Radice La genia di Adamo tra passato e futuro I buchi neri della storia né lunga né unica su Madre Terra di una civiltà al capolinea per la crisi globale che ne ha investito le fondamenta. I tremori per l’immediato e l’attesa di un nuovo inizio

Transcript of Renzo Radice La genia di Adamo · 7 Tra passato e futuro Non ci siamo per caso La storia della...

Renzo Radice

La genia di Adamo tra passato e futuro

I buchi neri della storia né lunga

né unica su Madre Terra di una civiltà al capolinea per la crisi globale che ne ha investito le fondamenta.

I tremori per l’immediato e l’attesa di un nuovo inizio

Di sicuro non ci siamo per caso ma siamo arrivati per primi? Si favoleggia di un mitico inizio, l’era felice, di un sogno interrotto, Atlantide, e di un spartiacque - il diluvio universale - seguito da

migliaia di anni di buio pesto, fino al miracolo di popolazioni nomadi convertitesi in una manciata di secoli alla civiltà che, con secondarie

varianti, ci si porta dietro da cinque millenni. Mah! Oggi questa civiltà, nata zoppa per l’eccesso di disuguaglianze che

provoca, è al capolinea per un mare di ragioni scontate: gli Stati sovrani sull’orlo della bancarotta; la democrazia rappresentativa

incalzata dal web, dove ci si rappresenta da sé e in tempo reale; il declino irreversibile del consumismo e tanto altro. Prima ancora lo è però per un motivo sottaciuto: oltre l’orizzonte non c’è più niente da

arraffare o da sconvolgere. La Terra ha già dato anche troppo. E allora? Allora il futuro arriverà comunque portandosi dietro la

bufala dell’apocalisse, gli alieni che continueranno a starsene per i fatti loro con sollievo dei governanti, la robotica e città

intelligenti, care ai futurologi, che si riveleranno roba primitiva rispetto al chilo e 400 gr circa di neuroni, relative sinapsi e

prolungamenti in testa a ciascuno: una massa innervata celante potenzialità tali da aprire ai futuri figli di Adamo

prospettive da semidei. Solo a smetterla di affannarsi per il fuori e a guardarsi dentro.

1 Tra passato e futuro

Anteprima E’ curioso ma solo da qualche decennio la stragrande maggioranza di noi umani ha capito – anche se la scienza non lo ha ancora dimostrato – che la vita è sparsa in ogni dove e l’intelligenza è un momento scontato del suo divenire. Ci si sta anche rendendo conto – sempre con la scienza un po’ dietro - che non siamo figli unici di Madre Terra ma gli ultimi nati nel suo grembo. Infine c’è il dubbio – forte perché a farlo sorgere sono una infinità di tracce, indizi, riscontri, miti in altro modo non spiegabili, ai quali è dedicata la prima parte del libro – che questa nostra civiltà sia stata aiutata a decollare da gente che ci assomigliava tantissimo, era qui da un sacco di tempo, aveva conoscenze che non ammettevano e per diversi aspetti non ammettono paragoni; dopodiché si era dileguata per ragioni che probabilmente non sapremo mai. Pensarlo comunque è importante perché se da un lato carica il non essere soli, in quanto demitizza lo spazio infinito e offre all’orizzonte mète e opportunità da non mancare, dall’altro relativizza le conoscenze acquisite e la stessa civiltà che da millenni ci portiamo dietro; una civiltà da rifondare esclusivamente per mano nostra stavolta. Ad imporlo ormai in termini ultimativi (se ne parla nella seconda parte) è la gravissima crisi che sta colpendo i fondamentali dell’economia, attorno alla quale tutto ruota sin dall’inizio.

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La situazione, specie in Occidente, appare senza sbocchi al punto che la parola “crescita” rimbalza – a vuoto - da ogni schermo e dagli uditori più influenti. Finirà che si riproporranno le invocazioni dei secoli andati, quando si andava in processione o si recitavano nelle chiese rosari perché piovesse laddove la siccità prolungata mandava in malora i raccolti e affamava uomini e bestie. L’assenza di prospettive degne di questo nome porta molti a vedere nero, al punto da immaginarsi disastri incombenti – ai quali sono dedicati alcuni capitoli della terza parte – causati da fattori vuoi totalmente inventati (la presunta apocalisse datata dicembre 2012), vuoi pendenti sull’umanità di ieri, di oggi e di domani. E’ perciò inutile stracciarsi le vesti al pensiero di quello che succederebbe il giorno in cui, per dire, si svegliasse il vulcano che romba e tuona ma sta per fortuna ancora sotto il Parco di Yellowstone negli Usa. Pochi per la verità vedono nel fallimento in arrivo la fine di un’era ma non della storia umana che, raschiato il fondo, saprà ripartire anche grazie alle tecnologie di cui si è dotata, ma soprattutto alle conoscenze che viene acquisendo su quello che si porta in testa. Il libro sponsorizza queste tesi anche in ossequio alla affermazione di Talete per il quale l’immensità è dentro e non fuori di noi, dove - secolo dopo secolo - si è svilita in uno sterile confronto spirito/materia diversamente argomentato. La convinzione è che quella del grande pensatore sia fosse stata la premonizione di ciò che si viene scoprendo

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sul cervello umano, entità di cui è impossibile segnare i confini. Così fosse l’avere non reggerà in futuro il confronto con l’essere, anche perché a quel punto tutto sarebbe già cambiato. Ma si è corso troppo avanti, questa è solo l’anteprima.

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5 Tra passato e futuro

_____________________Prima parte _____________________

Un passato non solo nostro

Non ci siamo per caso Il mitico inizio: l’era felice

Il sogno interrotto: Atlantide Il Diluvio: lo spartiacque

Il Primo Tempo I “fuori quadro”

Megaliti “C’erano sulla Terra i giganti ….”

Nazca e la città degli dei Cosa c’è in fondo al mare?

La Grande Piramide e le altre Conoscenze senza tempo

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Non ci siamo per caso

La storia della nostra specie di sicuro non decolla dagli ziggurat dai quali sumeri e babilonesi scrutavano il cielo o dalle pitture rupestri delle Grotte di Altamira - da Picasso ammirate al punto da esclamare, al termine della visita, che dopo tutto è stato decadenza - e meno che mai ha le date della Bibbia. Gli antefatti in particolare sono nebulosi, se non bui. Gli evoluzionisti – sulla scorta delle tesi di Darwin – negli ultimi 150 anni li hanno portati molto indietro, fino ad un tempo di mezzo, un “purgatorio” seguito al vero e proprio inferno ambientale che provocò la scomparsa dei dinosauri 65/70 milioni di anni fa. E guarda caso venne chiamato Purgatorius il topino d’un paio d’etti, sopravvissuto alla catastrofe, dal quale tutti discenderemmo. Decine di milioni di anni dopo, nella infuocata savana africana, un gibbone – primate della famiglia degli ominoidi lungo meno di un metro per una decina di chili di peso – si mise ritto sulle zampe posteriori per arrivare, con le anteriori lunghe e articolate, a cogliere dai rami ciò che voleva senza arrampicarsi. Da questo particolare gli esperti in materia hanno tratto la convinzione che il gibbone sia di famiglia in quanto predecessore delle scimmie antropomorfe della quali si condivide oltre il 90% del Dna. Le somiglianze del patrimonio genetico non a i u t a n o tuttavia più di tanto a venire a capo del rebus del comune passato in termini evolutivi.

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Lo scimpanzé – per dirne una - lo ha più simile al nostro che all’orango, suo cugino stretto, ma entrambi – aspetto non di secondo ordine - pur sapendo lanciare un sasso o impugnare un bastone, non li conservano una volta usati. Solo l’uomo ha p o i l a nozione del tempo e conserva gli oggetti. Inoltre il corpo umano nei confronti di quello di una scimmia ha meno componenti minerali, la cui abbondanza è un inequivocabile segno di anzianità evolutiva. Anche lo sviluppo fisico evidenzia le diversità. Dalla nascita il nostro è lentissimo se paragonato a quello di specie alle quali si dovrebbe essere contigui e che per di più si mostrano da subito specializzate: la mano di uno scimpanzé è perfettamente adatta all’ambiente in cui è destinato a vivere mentre quella di un essere umano è universale, nel senso che ha la possibilità di adattarsi ad una molteplicità di impieghi. Sempre con riguardo ai nebulosi antefatti, non essendo la sede per un confronto di tesi tra evoluzionisti, creazionisti e vie di mezzo più o meno agguerrite, non si va oltre l’idaltu, il primo nato, venuto al mondo in Africa molte centinaia se non un milione di anni fa. Sarebbe lui l’antenato del doppio sapiens, l’espressione infelice con cui si designa il comune progenitore, che è stato posto, con una decisione chiaramente di parte, un gradino sopra Cro Magnon e Neanderthal, con i quali peraltro deve aver coabitato per lunghi periodi. Per differenziare il doppio sapiens dai cugini stretti, supposti un po’ meno sapienti, fondamentalmente ci si

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basa sulle dimensioni della scatola cranica. Ed è qui che emerge una contraddizione non di poco peso. Il cranio dei Neanderthal infatti era più voluminoso di almeno 100 centimetri cubici. Perché allora si è messa in giro la diceria che fosse uno stupidone? E non è neanche vero che avesse una andatura ciondolante. L’erronea interpretazione del modo di camminare deriva da alcune anomalie delle ossa delle ginocchia di uno dei resti rinvenuti agli inizi del secolo scorso; gli altri è da presumere camminassero ritti e a testa alta. Quanto ai Cro Magnon, la loro capacità cranica era dai 200 ai 400 centimetri cubici maggiore della testa che di norma ci portiamo appresso; e che fossero dotati di un elevato senso artistico lo confermano i m a g n i f i c i dipinti – sicuramente di loro mano – rinvenuti in diverse grotte d’Europa. Come veramente sia andata la storia tra noi e loro nessuno è in grado di spiegarlo ma è largamente diffusa l’opinione che l’apparizione sulla Terra sia nostra che dei cugini in discorso sia recente, contestuale e non dovuta al caso. Il grande matematico e astronomo Emile Borel ha colto il livello di complessità e insieme le concatenazioni logiche insite in tali “entrate” nel paradosso a seguire: “Vi sono tante probabilità che l’uomo si sia originato casualmente quante ne potrebbe avere una scimmia che - battendo all’impazzata sui tasti di una macchina da scrivere – ottenesse come risultato tutto il testo della Bibbia, senza errori e con punti e virgole al posto giusto”.

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Molto più terra/terra, si potrebbe osservare che il pensiero di tutti noi umani si svolge da sempre su regole ferree date e si evolve per le nuove conoscenze che preleva dal suo cantiere. Come può tutto questo trarre origine da combinazioni fortuite?

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L’era felice

Tanto porta a supporre che nel lungo corso di Gaia ci siano state più albe e tramonti con altri Adamo e altre Eva, chissà se anch’essi privilegiati da un temporaneo soggiorno in paradisi in terra dei quali è rimasto a noi, ultimi venuti, il mito. Esiodo ne “Le opere e i giorni” scrive in proposito: Gli uomini erano come dei, liberi da fatiche e sventure; né incombeva la miseranda vecchiaia ma, sempre fiorenti di forza nelle mani e nei piedi, si rallegravano nei conviti, lontani da ogni malanno e morivano presi dal sonno”. E Platone fa dire sul tema ad Aristofane: “Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era distinzione tra maschi e femmine. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li separò”. Di quel paradiso di pace, abbondanza e uguaglianza nella area mediterranea si onorava il ricordo con grandi feste e complicati rituali, dedicati al greco Crono e al latino Saturno. Era un modo molto popolare e dunque largamente sentito di augurarsi il ritorno di quegli anni favolosi, confortati dagli astrologhi per i quali le stelle e le costellazioni influivano in modo deciso e ciclico sulle condizioni di vita. Se, dicevano in sostanza, all’estate seguono autunno, inverno, primavera e di seguito un’altra estate, perché non attendersi – dopo le età dell’argento, del rame e del ferro - una nuova età dell’oro? “Ci sarebbe dunque stata, in un passato indecifrabile –

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come ha scritto Sprague de Camp - non una terra e piuttosto una condizione la cui scomparsa colpisce le corde più profonde del cuore per il senso di malinconica perdita di una cosa meravigliosa, una perfezione felice un tempo appartenuta al genere umano”. Ma cosa può averci reso orfani di una tale perfezione? Il Popol Vuh, vera miniera di tradizioni precolombiane, suggerisce una intrigante ipotesi riandando, con un tuffo all’indietro di svariati millenni, ai tempi in cui i maya ricevettero dai ”primi uomini” di Quetzalcoatl tutto il loro sapere. Giaguaro dal Dolce Sorriso, Giaguaro della Notte, Giaguaro della Luna e Nome Eminente – questi i nomi dati loro da quell’antico popolo – vengono descritti come grandi saggi con capacità eccezionali “tanto che le cose nascoste per la distanza le vedevano tutte”. A un certo punto però successe il fattaccio perché gli dei si sarebbero preoccupati fino a chiedersi: “Devono essere pari a noi, che possiamo abbracciare ogni luogo e tutto sappiamo e vediamo? Facciamo anche di loro degli dei? Certo che no, si presume si siano risposti all’unisono. E così dopo un po’ la vista di quei saggi “si appannò come quando si soffia sulla lastra di uno specchio e i loro occhi poterono vedere solo ciò che era vicino”. E guarda caso anche nell’Antico Testamento il Signore Iddio pronuncia parole di senso analogo: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi ….. Affinché egli non stenda la mano e non prenda dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre, sia cacciato dal Giardino di Eden”. Espressioni a ruota libera? Piuttosto espressioni da

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interpretare, specie da quando anche dalla scienza vengono conferme sulle capacità “dormienti” del cervello di noi umani. Più avanti si riprenderà l’argomento. In questa sede basti sottolineare che potrebbero essere tante e – chi lo sa! – addirittura in grado di riportarci per direttissima nel Giardino dell’Eden. Certo, aver avute in perfetta funzione tali capacità – in piena era felice – e poi essersele perse o dimenticate o viste sottrarre è una cosa che fa gridare vendetta. Fosse vera, naturalmente.

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Il sogno infranto: Atlantide

Perché in tanti continuano a cercare Atlantide? La risposta è una e incontrovertibile: cambierebbe il mondo, non solo a costoro, ad avere la prova provata della esistenza, in un passato remoto, di una società in cui, a stare al mito, la vita dei comuni mortali era come tutti la sogneremmo. Sprague De Camp (ancora lui) lo spiega così: “Pensare ad Atlantide risveglia in noi una speranza che quasi tutti portiamo dentro; la speranza tante volte accarezzata e tante volte delusa che chissà dove e chissà quando possa esistere una terra di pace e abbondanza, di bellezza e di giustizia dove da quelle povere creature che siamo potremmo essere felici”. Ecco perché Atlantide “tira”. Un catalogo bibliografico del 1926 le assegnava 1700 titoli, ai quali negli ultimi ottant’anni non è azzardato ritenere se ne siano aggiunti almeno altrettanti. Il problema centrale è rappresentato da dov’era. Per Platone l’isola “ più grande di Libia e Asia assieme” (Nord Africa e Asia Minore) si trovava al di là delle Colonne d’Ercole. Egli aggiunge che là dove si inabissò, a seguito di ripetuti cataclismi, c’è “bassofondo fangoso, difficile al passaggio pei naviganti che fanno vela verso l’alto mare che di là si estende. Ci si deve arrestare, tanto è forte l’ostacolo”. Una descrizione in fondo non vaga che peraltro fin qui non ha portato a niente. Dell’isola scomparsa in un baleno non è infatti s ta ta t ro va ta traccia in ogni

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angolo del pianeta dove si è provato a c e rca r ne i r e s t i . Nel Mediterraneo hanno avuto i loro momenti d’oro le ipotesi Azzorre, Cipro, Santorini, la divagazione sarda e la puntata andalusa, che ha fatto da scalino al Sahara. Poi c’è stato il balzo oltre oceano che ha toccato i l Mar dei Sargassi prima di sbarcare in Sud America e alla fine al Polo Sud, che in epoche remote avrebbe effettivamente potuto essere davvero nel bel mezzo dell’Atlantico. Malgrado gli insuccessi a ripetizione, il fascino del mito di Atlantide resta intatto perché chi voglia crederci, ne scriva o ne cerchi segni, spera non di recuperare reperti qualsiasi ma di ritrovarsi a tu per tu con una civiltà da pa rad iso piuttosto che di questa terra. E avendo finalmente tra le mani quello che ne rimane, si potrebbe sperare di tornare ad essere com’erano loro, i figli di Atlantide. Si sbagliava dunque di grosso Aristotele credendo di aver posto una pietra tombale sull’argomento con queste parole: “L’uomo che l’ha sognata, l’ha fatta scomparire”. Il sogno, nei 2500 anni di cruda realtà succedutisi all’annuncio, ha invece retto alla grande. Può darsi che Platone stesso, stregato dal racconto tratto da fonte ignota, lo abbia voluto collocare in una dimensione chiaramente da sogno allo scopo di farlo durare nel tempo. Pare quasi confessarlo quando colloca la capitale del regno su un’isola irraggiungibile “per l’invalicabile mare

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che la circonda”; un mare che saliva – in virtù di una fantastica canalizzazione – lungo il Sacro Monte fino a lambire il Tempio che era in cima, dove regnava la luce essendo rivestito d’argento fuori e di oricalco (!!) al suo interno. Gli ingredienti fondamentali del mito della creazione ci sono tutti: il Monte della Conoscenza e il suo Tempio; la dimora di Dio che emana luce e ne è pervasa; l’unità di fondo tra il dentro e il fuori di ogni vivente (argento e oricalco). Non solo Platone ma chiunque si staccherebbe a fatica da questi sogni, per cui è scontato che non si smetterà mai di cercare Atlantide. Persino in Antartide si sono organizzate spedizioni con la speranza di annunciare urbi et orbi: ecco quel che resta di Atlantide!. E se un giorno, nelle gelide acque della Baia della Regina Maud, dei sommozzatori si imbattessero per caso in un numero notevole di massi squadrati, sparsi sul fondo e un tempo costituenti, indiscutibilmente, la massicciata di un molo, se ne trarrebbe la conclusione di trovarsi di fronte ad uno dei porti dell’isola perduta. Allo stesso modo, se si scoprisse che una collina - al centro di una vasta piana di una delle due grandi isole sotto i ghiacci perenni che formano la Groenlandia - nasconde un’enorme piramide di duro granito, quale giornale o telegiornale o sito Internet non darebbe per giorni evidenza al ritrovamento non di una piramide tra le tante, se di questo si trattasse, ma di un monumento legato alla civiltà atlantidea? Era felice, Atlantide: miti sovrapponibili, accomunati dal

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medesimo sogno ancestrale di una dimensione chissà se veramente vissuta. La ragione dice no ma il mistero che la precede e l’origina dice si perché non può né vuole rinunciare a ciò che gli è contiguo: il paradiso che sa di tenere dentro e non riesce a ritrovare fuori.

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Il diluvio universale: lo spartiacque

11/12 mila a.C. Uomini troppo simili fin quasi ad essere in concorrenza con i loro creatori, la decisione di questi ultimi di sbarazzarsene con un apocalittico diluvio e di salvare il più remissivo tra quelli perché ammonisse le generazioni successive a non ritentare la sfida al divino: è la base condivisa dai miti sul diluvio universale. Il “prescelto” tenuto in vita era Atrahasis per i sumeri, Gilgamesh per i babilonesi, Noè per gli ebrei, Yiwa per i persiani, Dwifa per i celti, Matsia Purana e Shetepatha Brahamana per gli indù, Nuwah per i cinesi. Nelle Hawii era Nu-u, in Amazzonia Noa, Tamanduare in Perù, Tapi in Centro America, Pokawo e Manibusho tra i pellerossa, Zeukha per gli abitanti (radi) della Patagonia. Ce ne saranno ovviamente stati con numeri a tripla cifra di cataclismi a dimensione planetaria nei miliardi di anni di vita della Terra ma questo – subìto come vittime in qualche modo predestinate e raccontato da testimoni – c’è il fondato sospetto si sia incasellato nel Dna. Ad avvalorarlo anche la descrizione della fine dei tempi fatta da Giovanni nell’Apocalisse, in cui potrebbe aver richiamato un drammatico incrocio del comune passato. Dal “diluvio” di Giovanni: “…. e dal cielo cadde una stella grande e ardente come fiaccola …. e vidi un astro caduto dal cielo ….. e ne seguirono folgori e grida e tuoni e gran terremoto, si rovinoso che da quando l’uomo è sulla Terra non vi fu mai terremoto così

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grande….. e tutte le isole fuggirono, i monti scomparvero e grandine grossa come talento cadde dal cielo ….. e tutti i naviganti, i marinai e quanti trafficano sul mare se ne stettero alla lontana ….” Sarà andata così? Forse. Negli ultimi decenni si è fatta strada l’ipotesi di uno tsunami planetario provocato dallo slittamento improvviso negli oceani di enormi masse di ghiaccio sia dell’Antartide che dell’Artide; un fenomeno che, in proporzioni neanche lontanamente paragonabili, si sta verificando ai nostri giorni a causa del progressivo riscaldamento del pianeta. L’idea di un diluvio che abbia avuto a protagonista un gigantesco tsunami – o più di uno in contemporanea - non è in ogni caso alternativa alla stella grande e ardente di Giovanni in quanto l’ipotizzato slittamento, tutti assieme, dei ghiacciai da un capo all’altro del pianeta deve pur aver avuto una causa scatenante. In più è in perfetta sintonia con il racconto biblico per il quale fu “l’esplosione delle fontane del grande abisso” a precedere “l’apertura delle cateratte “. Né mancano conferme scientifiche di un evento epocale a livello planetario, con effetti devastanti sul clima e sulle condizioni di vita nel pianeta. Le perforazioni degli strati di ghiaccio ai poli hanno infatti permesso di “misurare” la quantità di ossigeno residuo e di stabilire, in relazione a questo, il clima prevalente al momento della loro formazione. E’ stato possibile in tal modo datare con certezza quando la Terra, praticamente dalla sera alla mattina, cambiò faccia.

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Prima del diluvio, il Nord Europa fino alle latitudini di Londra e Berlino era interamente coperto da calotte di ghiaccio. Sull’area dell’Hudson, dal Canada orientale a fin dove sorgerà New York, gravava una coltre ghiacciata spessa più di 3 chilometri. Per contro, in Alaska e in Siberia scorazzavano una quantità di specie animali che, per numero e varietà, non avrà pari: decine di milioni di mammut, renne, rinoceronti, cavalli, ippopotami, orsi, leoni, leopardi; e poi castori, bradipi giganti, cervi dalle grandi corna, persino cammelli e tigri dai denti a sciabola. Questo mentre in Australia e Nuova Zelanda faceva molto più freddo di oggi e l’Antartide – almeno sul versante atlantico – era parzialmente libero dai ghiacci. Potrebbe legarsi all’apocalisse sopravvenuta anche il ritrovamento nelle desolate pianure siberiane di mammut congelati tanto all’improvviso da rimanere irrigiditi sulle zampe posteriori, taluni mentre attraversavano il letto di un fiume. ”Avevano nello stomaco pisellini e lattuga” scrisse di quei ritrovamenti Peter Kolosimo. Dunque in quei giorni tremendi dell’Era del Leone -oltre 12 mila anni fa - le calotte glaciali potrebbero essere in parte “affondate” negli oceani provocando un innalzamento improvviso e disastroso del livello dei mari. In parallelo debbono esserci state impressionanti sequenze di esondazioni, alluvioni, perturbazioni di inaudita violenza che investirono tutti i continenti, modificandone anche gli assetti.

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Niente dev’essere stato più com’era il giorno prima sugli altipiani peruviani (dove Tiahuanaco si perse il lago), nelle valli dell’Indo, negli arcipelaghi del Mar del Giappone (che arcipelaghi non erano), in Nord Africa dove terre rigogliose si ritrovarono prima devastate e poi, con il tempo, ridotte progressivamente a contenitori di sabbia infuocata. La causa prima di tutto questo? P rob ab i lment e l’impatto con un asteroide di non meno di cento metri di diametro, o con la coda di una cometa. Due le evidenze coerenti con l’ipotesi: lo spostamento brusco dei poli magnetici e lo strato di iridio al suolo (è alto più di mezzo metro in certe zone), non altrimenti spiegabile. Anche il dopo si caratterizzò per un campionario unico di criticità: risveglio generalizzato di attività vulcaniche, terremoti spaventosi – testimoniati dal crollo delle volte nella maggior parte delle caverne – alluvioni insistite con decimazione degli animali superstiti, campo magnetico fortemente perturbato. Fu per decenni se non per secoli un’angosciosa lotta per la sopravvivenza. Su altipiani e in territori comunque distanti dai litorali o dall’alveo di fiumi, le popolazioni stanziali ebbero qualche possibilità di scamparla; per il resto, l’azzeramento di ogni traccia di vita non deve aver fatto eccezioni. Succedesse qualcosa di analogo nei nostri anni, vengono i brividi a pensare agli effetti sulle catene del freddo e sul sistema energetico complessivo. Occorrerebbe ripartire quasi da zero. Per maya, greci,

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libri sibillini, scritture buddiste, tradizioni degli indiani l’umanità vi è stata più volte costretta. Anche noi ci riusciremmo, se e quando dovesse riaccadere?

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Il Primo Tempo

Ai miti della creazione e dell’era felice, la cui vaghezza da spazio al sogno, sono seguiti - ai quattro angoli del mondo - resoconti e cronache di tempi meno lontani in cui è evidente lo sforzo di dare credibilità a fenomeni, presenze, episodi dagli aloni pur sempre leggendari. Buona volontà a parte, a prenderle una ad una non si salverebbe una riga di memorie avvolte in contorni da favola, mentre il quadro cambia e il giudizio si concede un punto interrogativo a provare a metterle insieme. Succede in particolare, per l’area del Medio Oriente, ponendo a confronto riferimenti biblici e accadici, scritti di Erodoto, Diodoro Siculo e Manetone; per le Americhe cronache del Popol Vuh e tradizioni inca, sopravvissute alle devastazioni dei conquistadores. Per Diodoro Siculo, lo storico greco che visitò l’Egitto nel 1o secolo a.C. nel tentativo di scandagliare gli abissi di tempo della sua plurimillenaria storia, “dapprincipio gli dei e gli eroi governarono il paese per 18 mila anni e l’ultimo degli dei a regnare fu Horus, figlio di Iside … Poi vennero re mortali, dicono, per 5 mila anni”. Sommando i due numeri e tenendo conto dell’epoca in cui scrive, si va indietro di 23000 anni, con il pianeta in piena era glaciale e il Nord Africa beneficiario di un clima quasi identico a quello che si immagina vi sia in un qualsiasi paradiso terrestre degno di questo nome. Erodoto, vissuto quattro secoli prima, aveva dato numeri anche più sbalorditivi. Nelle sue “Storie” parla infatti di un immenso periodo preistorico della civiltà egizia, che

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ad Eliopoli i sacerdoti gli avrebbero quantificato nel seguente, sibillino modo: “Mi dissero – ha lasc iato scri tto – che il Sole si sviò quattro volte dall’usato suo corso; due volte sarebbe spuntato là dove ora tramonta; e dove ora sorge, due volte sarebbe tramontato”. Parole mirate a stupire? Nei suoi scritti spesso si è lasciato prendere la mano ma non sembra questo il caso, anche perché la frase è circostanziata al punto che il matematico Schwaller de Lubicz la interpretò come un riferimento al tempo che serve all’equinozio di primavera per completare un ciclo e mezzo dello Zodiaco. Vediamo. Negli anni di Erodoto il Sole sorgeva in Ariete avendo in opposizione la Bilancia. Retrocedendo di sei “Case zodiacali” (circa 13 mila anni) l’orologio cosmico, il Sole sarebbe sorto in Bilancia e calato in Ariete. Con ulteriori 13 mila anni di arretramento ancora un nuovo capovolgimento: alba in Ariete e tramonto in Bilancia. Andando infine a ritroso di un identico numero di anni, alba di nuovo in Bilancia e tramonto in Ariete. Domanda inevitabile: i sacerdoti sapevano che il Sole risorge nella medesima costellazione ogni 25920 anni? Se si, poiché una volta e mezzo detto numero fa 39 mila (circa), tanto sarebbe durato il Primo Tempo, lo Zep Tepi precedente i 3000/5000 anni di durata complessiva dei regni di mortali sulla Casa della Spirito di Ptah, vale a dire l’Egitto. Il tema coinvolge anche il Papiro di Torino o Canone Reale. Arrivato nel capoluogo piemontese danneggiato da un’improvvida spedizione, vi si elencano i nomi degli

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dei che avrebbero retto il paese dagli albori: Ptah, Ra, Shu, Geb, Osiride, Seth, Horus, Thoth e Maat. In pratica, è un Diodoro Siculo che va al dettaglio. Altro riferimento obbligato è l’Aegyptiaca di Manetone, cronistoria dei re del paese fino ad Alessandro Magno. L’originale è andato perso ma parti important i si sono recuperate dagli epitomi d i Giuseppe Flavio, Sesto Africano, Eusebio di Cesarea. Da costoro viene la conferma del lunghissimo periodo in cui regnarono sull’Egitto dei e semidei, con nomi che si ripropongono. Ad inaugurarlo è infatti il creatore Ptah seguito da Rha, il dio Sole, da Geb il dio barbuto e da Osiride. I seguaci di Horus, ovvero “coloro che seguono il cammino di Rha”, chiudono l’eletta compagnia. Anche la divisione delle dinastie storiche ricavabile da tali frammenti coincide sostanzialmente con quella delle altre fonti, mentre non quadra il computo degli anni complessivi di regno dei faraoni: 5 mila per Manetone e Diodoro Siculo, 3 mila per la cronologia ufficiale. Solo l’Egitto sarebbe stato governato per così tanto da esseri uguali a noi ma con conoscenze superiori a quelle dei mortali di allora? Parrebbe di no. Con minime varianti ma (va precisato) considerevoli sbalzi di datazione, leggende dello stesso tenore vengono da Centro e Sud America, dalle valli dell’Indo e dello Yangtze, dal delta del Mekong e dalla Mesopotamia. “Nei tempi antichi sono venuti uomini di grande portamento che indossavano tuniche di lino nero aperte sul davanti. Non avevano cappuccio e lasciavano scoperto il collo”: è l’inizio del racconto ripreso da Juan

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de Torquemada dal “Popol Vuh”, libro della comunità maya della Terra Quiché (l’odierno Guatemala),salvato cinque secoli fa dall’indice. La successiva frase, anche più interessante, è dedicata al capo del gruppo: Quetzalcoatl, il Serpente Piumato di olmechi, mixtechi, toltechi, aztechi e maya “che riusciva a vedere quello che c’è sulla Terra senza muoversi … conosceva ogni cosa e sapeva dei quattro punti della volta del cielo e della faccia della Terra”. Sarebbe stato costui (fisicamente somigliava ad un europeo con la barba) a insegnare ai nativi a costruire abitazioni, coltivare la terra e “leggere” il cielo. Pure l’egizio Osiride aveva sembianze umane e veniva ricordato come un grande riformatore. Si vuole che abbia vietato il cannibalismo, insegnato fondamentali pratiche agricole, redatto codici, fatto costruire argini sul Nilo e canali irrigui, Aspetto, qualità e meriti analoghi erano attribuiti al dio Sole Viracocha, lo “Splendore originario” del popolo inca. “Era l’alba del giorno equinoziale e le stelle cantavano tutte in coro quando scese sulla Terra la Sovranità Celeste per creare l’uomo nuovo”: è la Bibbia che da anche una data all’evento con cui la divina presenza si rivelò al popolo ebraico, il 7 ottobre del 3671 a.C. Presenze divine specchiate a noi quanto a sembianze che venivano a fare, in quei tempi remoti al punto da rendere impossibile una datazione anche approssimata, tra primitivi che passavano le notti in fumose caverne e di giorno cacciavano utilizzando bastoni di legno con punte di selce?

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O si trattava di personaggi nati e cresciuti qui che, per ragioni ignote, ne sapevano tanto di più? Se così fosse stato, in quali angoli del pianeta si sarebbero ritagliati esclusivi resort? Domande su domande senza ragionevoli risposte. Per quel che se ne sa, prima della immane catastrofe il pianeta era semi congelato e quasi disabitato. 40 mila anni prima di Cristo tra una calotta e l’altra, coprente più di un terzo delle terre emerse, si e no una decina di milioni di primitivi, concentrati in prevalenza nella fascia mediana dell’emisfero boreale, si spostava di continuo alla ricerca di pascoli e prede. La loro (e nostra) madre comune era nata e vissuta 100 mila anni prima in Africa, in una regione tra Kenia, Tanzania ed Etiopia. Lo sappiamo perché il suo Dna mitocondriale è l’unico che, da quei tempi remoti, si sia trasmesso immutato di madre in figlia. Adamo vide invece la luce, sempre in Africa, diverse decine di migliaia di anni dopo e ne dovettero passare altrettanti prima che un gruppo con il suo cromosoma si spostasse dal nucleo originario africano verso l’India per poi raggiungere - secondo certe ricostruzioni grazie a Lemuria, il “continente perduto” - il Sud Est asiatico e l’Australia. Di un secondo gruppo, sbarcato sull’altra sponda del Mediterraneo, una piccola parte si sparpagliò in una Europa semi congelata, convivendo con Neanderthal e Cro Magnon molto a lungo, mentre il grosso inseguì le mandrie di animali fin nelle sterminate e rigogliose pianure siberiane.

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Alcuni attraversarono infine la striscia di terra che all’epoca collegava l’Asia alle Americhe, dove rimasero in attesa degli antichi confratelli che tanti millenni dopo arriveranno non per abbracciarli, come forse avrebbero sperato. E’ qualcosa tale sapere ma non è credibile che in tanto tempo sia successo tanto poco. Si ipotizza così l’esistenza di uno o più territori nella fascia mediana del pianeta in cui un’altra genia avrebbe vissuto in un modo neanche lontanamente paragonabile a quello di quei rozzi migratori. Ma è inutile chiedersi se presenze di tale livello fossero stanziali o di passaggio: non ci sono riscontri né in un senso né nell’altro. Perché allora se ne parla con tanta insistenza? Perché non c’è ad esse alternativa, salvo a chiudere gli occhi e a bloccare i circuiti cerebrali favoleggiando di “culle” ai piedi dell’Himalaya o in Mesopotamia in cui, nel giro di una manciata di secoli, popolazioni nomadi da tempi immemorabili si sarebbero convertite alla vita cittadina con tanto di strade, scuole, templi e osservatori astronomici. Che storietta è mai questa! E’ evidente che una “spinta”, neanche modesta, deve esserci stata e se non esiste documentazione al riguardo, qualche segno indiretto c’è. A cominciare dallo Zodiaco. Vengono da un cielo antico le sue figure, immaginate a contorno di stelle visibili solo dal 10o al 20o parallelo dell’emisfero boreale perché nell’estremo Nord o mano a mano che ci si avvicina all’equatore si assottigliano fino a sparire.

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Si tratta beninteso di grappoli assolutamente anonimi di stelle, alle quali è stata data un’identità precisa. Perché? C’è una spiegazione, meno arrischiata di quanto possa apparire a prima vista. In assenza di orologi, i non meglio identificati “dei” decisero di collegare alcuni addensamenti – scelti in funzione del progetto - ad immagini familiari alla quotidianità di scolari digiuni di ogni conoscenza per facilitarne l’individuazione. Si inventarono così le “stazioni” da toccare sulla volta celeste ogni 2160 anni. Forse spiegarono pure che la Terra dondola sul suo asse, dando luogo al fenomeno della precessione degli equinozi: una supposizione che non aggiunge né toglie alcunché al modo elementare ma tecnicamente perfetto di segnare il tempo e di tenerne conto. In conclusione si può affermare con qualche senno che non soltanto prima ma pure dopo il diluvio è probabile non ci fossero esclusivamente cavernicoli in giro.

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I “fuori quadro”

L’ultima leggenda sul mitico paradiso originario ce l’ha regalata uno dei più grandi tra gli umani con quel suo racconto sull’isola sbocciata per incanto in mezzo ad un immaginifico mare. Dopodiché è nata la storia, che è allergica ai sogni per principio, dovendo tenere i piedi in terra. Prova a farlo anche per epoche in cui il tempo trascorso ha avuto buon gioco nel cancellare molte se non troppe sequenze di vissuto. In tali casi si ingabbia la ricostruzione su schemi definiti a priori per area, periodo o contesti specifici. Se i riscontri arrivano in numero congruo, il buco viene riempito e il registrato entra a pieno titolo nel tracciato storico. Cosa succede però se qualcosa di non cercato salta fuori mettendosi di traverso? Bisogna dire le cose come stanno: nella più parte dei casi lo si ripone in un fondo di magazzino e se non fosse proprio ignorabile si dedicano volumi, filmati, depliant alla “meraviglia”, ufficializzandola come “fuori quadro”.E fin qui non è ok ma passi, il dopo no. Gli esperti del ramo sono infatti tentati, e molto di rado riescono a sfuggire la tentazione, di dare spiegazioni intricate a tali “fuori quadro”; spiegazioni finalizzate a farli rientrare a forza nel tracciato di cui sopra. E il motivo c’è. Ammettere che non sia stato Cheope il costruttore della Grande Piramide; che Colombo doveva per forza disporre

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di carte ricopiate da mappe sorgenti (di cui si dirà) grazie alle quali tirò dritto fino alle terre al di là dell’Atlantico; che Baalbek, i Moai, le linee di Nazca non hanno niente a che vedere con la nostra storia; ammettere questo priverebbe i tracciati in questione di ogni credibilità. Ma una credibilità costruita su un sotterfugio o bufala che sia – oltre ad essere moralmente riprovevole – non toglie forse fascino ad una ricostruzione storica che si imbatta in una perla di mistero? Capitano a fagiolo in materia uno spezzone di un celebre film di Kubrick e il vialone di Teotihuacan. Stanley Kubrick apre “Odissea nello spazio” con la scena degli ominoidi che si ritrovano in modo inopinato faccia a faccia, nella savana, con un monolite perfettamente sagomato e ritto su uno dei suoi quattro angoli in barba alle leggi di gravità. Si vede che sono sorpresi da quell’insolita forma capitata loro davanti girovagando in una savana primordiale; ma dopo un po’ quei lontanissimi progenitori familiarizzano con il mistero che hanno davanti, fino ad omaggiarlo con una danza che ha tutti i crismi del rito. In altre parole pongono di fatto quell’ignoto su di un altare. Venendo al vialone di Teotihuacan, vi campeggiano le Piramidi del Sole e della Luna che hanno quasi a ridosso i resti di costruzioni realizzate migliaia di anni dopo. Qui lo stacco di quei giganti che emanano mistero con ciò che hanno attorno è tale che il visitatore non solo non li considera “resti” ma ignora il contesto per poterli ammirare tout court. Misteri/altari: una liaison che viene istintiva anche ai

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giorni nostri nel trovarsi vis a vis con cose orfane di un come e di un perché, venute da un passato non databile, che impattano sul presente con tale forza da rilanciare sul futuro. Per cui cosa si vuole ingabbiare?

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Presi dal mazzo

Si fa avanti il numero 12, un protagonista della mitica alba del genere umano e anche dei primordi della civiltà. Erano 12 gli dei sumeri, ittiti ed egiziani; 12 quelli di Ellade, di Roma e dei Veda dove Zeus è Dyaus, Urano Veruna e via elencando.12 sono i segni zodiacali, gli apostoli, le fatiche di Ercole, i cavalieri di re Artù, i titani (sei maschi e sei femmine), i mesi dell’anno, le porte di Gerusalemme, le tribù di Israele, le riflessioni dello jainismo, gli anelli della creazione del Buddhismo Thervada, gli imam dell’Islam, i profeti della tradizione giudaico/cristiana. Che siano 12 pure i pianeti del sistema solare? Il primo a fare l’elenco, dettagliato, dei misteri aleggianti sugli inizi della nostra e spe r ienza te r r ena è stato Charles Fort (1874/1932) che passò la vita a catalogare articoli, libri e ogni altra documentazione possibile su eventi e scoperte che avrebbero dovuto far riflettere sul chi siamo e da dove veniamo. Dopodiché il nostro si è avventurato in una ipotesi che lascia interdetti: l’uomo sarebbe stato reinventato (!!!) da un potere alieno e indirizzato a un progresso in linea con gli imperscrutabili fini del potere medesimo. Ma Santo Iddio, con tutto quel potere di fare e disfare e le conoscenze conseguenti, che fini degni del loro livello avrebbero potuto conseguire con i derelitti che eravamo e sostanzialmente siamo? E’ il solito tallone d’Achille degli ufologi, impegnati a stanare questi curiosoni, quasi che ogni intelligenza

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evoluta dell’universo (ce ne saranno un’infinità di gran lunga avanti della nostra) fosse smaniosa di ritrovarsi a Via Montenapoleone. Ciò posto, vorremmo tutti essere figli esclusivi, il meglio del meglio venuto su dal grembo della Grande Madre, luce e respiro di ogni vivente, che ci ospita concedendo troppo di sé. Non è forse umano pensarla così? Si che lo è ma non al punto da reggere cinquant’anni di bufale tipo l’uomo di Piltdown, basato su reperti “misti” (un cranio umano più una mascella scimmiesca) che avrebbero dovuto rappresentare l’anello che mancava per far quadrare la teoria sull’evoluzione della specie; anello che manca e c’è il sospetto di non poterlo mai trovare in qualche osso. Teniamoci dunque stretti i tanti misteri dai quali siamo stati e siamo contornati, che talvolta suggestionano e tal’altra lasciano ammirati. Sono, oltretutto, la probante conferma di un lunghissimo futuro della specie, perché non sarebbe da creatore farci passare la mano prima di avere risolto almeno quelli terra-terra, dei quali segue un fior da fiore. Chi ha inventato i geroglifici? Nell’antico Egitto i reperti risalenti al periodo predinastico non rivelano tracce di scrittura. Poi, all’improvviso appaiono grafie perfette di una lingua compiutamente strutturata, con segni riferiti a suoni specifici e un sistema di simboli numerici. Nessuno finora è stato in grado di chiarire come mai quelle grafie fossero fin dall’inizio stilizzate, perfette e senza evidenze di alcun tipo di una evoluzione da tratti

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elementari a vere e proprie opere d’arte. Da dove viene il sanscrito? Si parlava dalle pendici himalaiane allo Sri Lanka quando il faro della civiltà, per le tradizioni di quei luoghi, era il mitico popolo di Lemuria, i Redin, che leggenda vuole sia scomparso con le terre in cui prosperava nel grande oceano a seguito di un immane evento catastrofico. Era il loro idioma? Non c’è risposta naturalmente ma resta il fatto che la madrelingua di almeno metà dei popoli del pianeta – oltre a nascere perfetta come i geroglifici – ha il primato della complessità: otto declinazioni (una più del latino arcaico, due più del classico e tre più del greco); singolare, duale e plurale (solo il greco antico gli sta al passo) generi maschile, femminile e neutro. E’ la lingua dei Veda, l’antico sapere: 450 mila parole formanti 1028 Inni per un totale di 10.589 versi, che i sacerdoti della religione vedica, evolutasi nell’induismo, avevano tramandato oralmente per moltissimo tempo. Essi infatti ritenevano fosse questo il modo migliore di conservare i suoni originali, ai quali annettevano una enorme importanza. A proposito dei Veda, da l’idea dell’approssimazione con cui talvolta si ricostruiscono vicende del nostro passato il fatto che, fino a pochi decenni fa, la loro trascrizione fosse attribuita ad una non meglio precisata popolazione ariana, piombata nella penisola indiana intorno al 1500 a.C. Ovviamente una colossale panzana, riportata però nelle enciclopedie e nei libri di scuola.

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Reperti impossibili Sul tema il ciarpame abbonda ma non è il caso dell’Homo Alaoulite, il teschio (6.1 x 3.9 cm) rinvenuto nel deserto di Tafilelet nel giugno del 2005 dallo studioso Mohammed Zarouit. Stava lì da qualcosa come 360 milioni di anni con gli incavi dei suoi 32 denti e la posizione dell’osso occipitale dalla quale è venuta la conferma che camminava. Pertanto, nonostante le dimensioni mini, la sua appartenenza a una specie simile alla nostra non può essere messa in discussione. Di dimensioni anche più ridotte la mummia delle Pedro Mountains rinvenuta seduta, con le gambe incrociate e le braccia raccolte in grembo nell’ anfratto di una parete a strapiombo: una figura dall’aspetto umano, anche se incredibilmente minuta (36 centimetri), con una regolare dentizione e spina dorsale integra. Gli anni che stava in quel buco? Milioni. Che dire poi dell’impronta fossile di una calzatura – la foto fece il giro del mondo - rinvenuta nello Utah? Sul tacco era impressa la forma di un piccolo crostaceo – il trilobite – vissuto tra 300 e 600 milioni di anni fa Non è la sola impronta. Ce ne sono anche di suole con cuciture vecchie di 250 milioni di anni e pure di piedi indiscutibilmente umani accanto a quelle di animali preistorici, dinosauri in particolare. L’uomo di Vladimir – un elegantone per i suoi tempi – lo hanno disseppellito dopo 52 mila anni nei pressi della cittadina russa da cui ha preso il nome. Era non solo morfologicamente identico ai suoi scopritori ma vestiva in modo analogo. La ricostruzione dei suoi indumenti è

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stata resa possibile dalle placche in avorio recuperate intatte su corsetto e maniche di quella che doveva assomigliare a una camicia e sulla chiusura in vita di calzoni o di un panno di foggia analoga. Uno scorcio sorprendente di passato viene anche dai graffiti di Lussac le Chateau in Francia, dove gente che pare uscita da una stampa ottocentesca – schizzata in modo magistrale almeno 15 mila anni fa – esibisce cappelli, pantaloni e sottane, stivaletti e scarpe; gente che è probabile condividesse – per sconosciuti motivi - quegli stessi ambienti con uomini e donne nudi o quasi, appena in grado di bofonchiare qualche grugnito. Le pietre di Ica Lo scomparso Javier Cabrera Darquea, medico e docente di biologia e antropologia all’Università di Ica, cittadina non lontana dagli Altipiani di Nazca, ha messo assieme nel corso della sua vita una sterminata collezione di pietre dalle dimensioni più varie. Si va da ciottoli a massi di qualche quintale – senza spigoli, abrasioni o scalfitture - recanti figurazioni che lasciano interdetti per ciò che descrivono e per le date loro attribuite. Il dr Cabrera raccontò di aver avuto la prima in regalo da un contadino; un omaggio di p o c o valore e in uso in zona perché da secoli quelle pietre figurate venivano vendute nei mercatini dei villaggi. Il futuro collezionista rimase subito colpito dal peso e dalla forma della pietra, troppo tondeggiante persino per un ciottolo di fiume. Osservandola meglio, vi notò un pesce che lì per lì non riuscì ad identificare. Incuriosito,

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chiese in giro e venne a sapere che al Museo di Ica ne tenevano nel sottoscala vari esemplari ritenuti dei falsi, come confermatagli dallo stesso direttore del Museo, che non deve averlo convinto. Cabrera infatti da quel momento decise di andare lui stesso per mercatini, dando il via ad una collezione che alla fine conterà 15 mila pietre. Per datarle la maggioranza degli esperti fa riferimento al processo di ossidazione: se ha ingrigito pure l’interno dei solchi e non vi si notano segni di interventi extra, sarebbe provata l’autenticità del reperto. E il pesce sconosciuto, qualcuno si domanderà? Era un agnato, sprovvisto di mascelle ed estinto da 400 milioni di anni. Cabrera riuscì a mettere insieme le pietre riproducenti il suo ciclo riproduttivo: 205 pezzi!. Vi sono, nella sua collezione, pietre raffiguranti esseri con grandi teste su esili corpi a cavallo di dinosauri, i quali corrono con la coda alta (cosa nota agli addetti ai lavori solo da pochi anni); vasi sui quali sono riprodotti sette continenti (i due in più sono situati nel Pacifico e nell’Atlantico), veri e propri trattati di alta chirurgia. Alcune pietre arrivano a pesare 500 kg. A trovarlo un campesino che riesca a portarle in giro per cavar soldi a turisti vogliosi e creduloni! Si contesta il fatto che in alcune raffigurazioni spuntino coltellacci e cannocchiali da giocattolaio, per dire che gli esecutori materiali dei dipinti erano persone semplici e chiaramente non all’altezza delle conoscenze esibite. E chi sostiene il contrario! Le pietre incise prima che si ossidassero, delle quali è

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impresa ardua contestare l’autenticità, avevano avuto a protagoniste mani comunque diverse da quelle della cultura e della civiltà che intendevano rappresentare o forse solo raccontare, a loro modo naturalmente. E doveva trattarsi di una cultura e di una civiltà che non aveva chiesto di perpetuarsi su ciottoli di fiume. Le due vie delle Ande Ai conquistadores – più predatori dei lanzichenecchi, più barbari degli unni, più crudeli delle orde di Gengis Khan – calati in Sud America a far polpette ( q u a s i s e n z a c o l p o f e r i r e ) degli Inca, è mancato il tempo o la voglia di percorrere dall’inizio alla fine le due strade, tuttora esistenti e con qualche difficoltà transitabili, che attraversano il continente: una a Ovest, lungo la costa occidentale; l’altra, parallela, sulle Ande. Quel popolo non disponeva di mezzi su ruote e quindi è impensabile che potesse aver realizzato i due tracciati: 24 mila chilometri complessivi, pianificati per forza a tavolino, che superano montagne, strapiombi e asperità di ogni genere. Saggiamente in tal caso non si è tentato di metter su l’ennesima congettura su chi avesse realizzato opere di complessità e portata tali da impegnare, a rifarle, le tecnologie odierne per decenni. Stanno lì e basta. Un’atomica su Mohenjo Daro? Immaginiamo di tornare indietro magari di 6/7 mila anni e di sorvolare, a bordo di uno dei tanti aggeggi che a momenti si intruppano oltre l’atmosfera, la regione tra Himalaya, Iran, Delhi e

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lo Stato indiano Maharashtra. Sotto vedremmo la Terra pressappoco com’è ma con punteggiature impossibili da decrittare da quell’altezza, addensate nei pressi di un corso d’acqua ora a secco - il Saravati - e lungo le valli dell’Indo e di suoi affluenti. Scendendo a quote familiari ai voli d’uccello, gli anomali puntini si rivelerebbero città nient’affatto preistoriche e apparentemente dello medesimo stampo: stradoni c o n canali di scorrimento delle acque, intervallati da aree per il deposito dei rifiuti. Nella parte alta degli insediamenti colpirebbero l’occhio grandi palazzi, aree di mercato, piscine e granai; più sotto, a corona, una miriade di edifici a due/tre piani tirati su con mattoni cotti al forno, affacciati su stradine diritte con incroci ad angolo retto, risultato evidente di un’attenta pianificazione urbanistica. Harappa, Mohenjo Daro, Dholavira, Lothal, Rakhigarhi, Ganweriwala,Daimabad, Chanudarho, Sutkagen Dor al tempo rappresentavano i luoghi più popolati e civili del pianeta, perché nulla di altrettanto avanzato era ancora apparso nella pianura mesopotamica e nel bacino del Fiume Azzurro. Oggi ne restano veramente poche cose, oltre al mitico racconto della tragica fine di Mohenjo Daro, la città più ricca e densamente popolata. Il Mahabharata,poema epico della tradizione indù, ne indica la causa: “Si levò all’improvviso un vento che fece tremare le montagne e si vide un Grande Fuoco navigare nell’aria. Nel cielo c’era una nube luminosa, con fiamme di un fuoco ardente”.

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Le campagne di scavi hanno riporta to a l la luce la metà di quella che, all’epoca, era una metropoli e fatto registrare una sconcertante anomalia: con i resti di molti animali, sono stati recuperati solo una ventina di scheletri umani, per di più in un’area circoscritta e non accasciati ma letteralmente schiacciati al suolo, come se fossero stati vittime di un evento di inaudita forza. Cosa poteva averli ridotti così? Nello stesso luogo, una striscia di mattoni lunga diverse decine di metri deve essere stata irradiata. Ne ha i segni, come i pavimenti di molte abitazioni: vetrificati, al pari delle suppellettili in ceramica su tavole ancora apparecchiate, quasi non ci fosse stato il tempo di portare via alcunché. Da notare infine che alcuni degli oggetti r i n v e n u t i risultano radioattivi, con emissioni di uranio, plutonio e potassio 40/50 volte superiori al normale. Il Bhagavad Gita, che fa parte del Mahabharata, una indicazione la offre: “Se la luce di mille Soli potesse splendere di colpo nel cielo, sarebbe come lo splendore del Grande Fuoco che diventa distruttore di mondi”. I segreti del Vymanika Shastra Sempre a Mohenjo Daro una trentina d’anni fa David William Davenport – conte di nascita ed esperto come pochi di sanscrito (aveva iniziato a studiare la lingua in India all’età di quattro anni) pubblicò un libro contro già dal titolo di copertina: “2000 a.C.: distruzione atomica”. Partendo da reperti recuperati personalmente nell’area in cui sorgeva la città e collegando ciò che sapeva alle

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narrazioni dei Veda, arrivò all’ipotesi allora temeraria e oggi affascinante, intrigante, persuasiva che il titolo anticipa. A distruggere la città sarebbe stato il grande fuoco che diventa morte, secondo lui un’atomica tattica lanciata da un vimana, un uccello artificiale che vola (dal prefisso vi = uccello/volare e dal suffisso man = luogo artificiale). Non gli bastò perché successivamente diede alle stampe “Scienza dell’aeronautica” in cui non si limita a tradurre il testo vedico Vymanika Shastra ma lo interpreta. Riferito a esperienze risalenti a tempi non quantificabili ma precedenti di molto quello in cui venne trascritto (1200 a.C.), vi sono illustrati i 32 congegni che i piloti dovevano dimostrare di saper impiegare prima di essere autorizzati a guidare quegli straordinari uccelli volanti. DWD li ha riproposti sulla falsariga di un libretto di istruzioni, corredato da spiegazioni. E la cosa fantastica è che quasi sempre combaciano alla perfezione, oggi più di ieri, con le nostre conoscenze sul volo. Spulciando dal testo, c’è il capitolo Antaraala su come evitare danni nelle regioni atmosferiche battute dal vento. In tali frangenti occorreva “arrestarsi e proseguire con prudenza”. In effetti alla fine degli anni trenta si scoprì che a circa 12 mila metri ci sono correnti molto forti, sfruttate dai jet nei voli intercontinentali. In Goodha si ricorda che per nascondere il vimana è indispensabile attrarre i contenuti bui dei raggi solari. Pure qui l a s c i enza con f e rma : l’occhio percepisce una banda ristretta (dal rosso al violetto) delle vibrazioni di frequenza della luce. Probabilmente i piloti dovevano

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azionare determinate leve per consentire ai velivoli di riflettere solo le frequenze “cieche”, rendendosi in tal modo invisibili. In Paroksha la forza che si genera entrando nel secondo strato delle nubi andava sfruttata “attraendone il potere con uno degli specchi di attrazione del vimana”. Conoscevano e erano in grado di utilizzare la carica elettrica dei cumulonembi? In Sankocha si legge: “Quando il vimana sta prendendo velocità con le parti completamente stese, le parti stesse possono essere fatte contrarre”. Dunque accelerando ali e coda rientravano. Il Mahaashabda Vimohana tratta gli effetti di una forte e continua onda sonora sul sistema nervoso. Nelle istruzioni ai piloti si legge: “Concentrando la forza dell’aria nei tubi del vimana e azionando l’interruttore ci sarà un crescendo di tonante rumore che farà tremare la gente stordendola e rendendola insensibile”.

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Megaliti

Doveva esserci qualcosa più della volontà di professare una fede a indurre genti forse di un’altra storia, vissute comunque prima di essere capaci o di volerla scrivere, a costruire templi con pietre enormi, appena sgrossate, trasportate da luoghi anche molto distanti e conficcate in terra non si sa in che modo, considerati i tempi e gli attrezzi in uso: si va da massi messi insieme a formare filari o circoli, ad architetture complesse, alle vertigini di pietra di Stonehenge e agli altari al cospetto del cielo di Machu Picchu e del Monte Miwa. Aggirandosi in quei siti – sorti nella notte dei tempi in punti considerati caldi della rete energetica avvolgente il pianeta – alcuni ritengono di avvertire un mantra (dal sanscrito manas, mente, e trayati, liberare) evocante un suono particolare che sarebbe in grado di affrancare la mente dai pensieri del quotidiano. Tali colossi vengono da un remoto passato, sono stati realizzati da popoli di cui non si sa praticamente nulla e si trovano in ogni parte del pianeta. In Europa possono essere menhir, pietre isolate poste in verticale; circoli (Stonehenge e Avebury in Inghilterra, Callanish in Scozia); dolmen, pietre sormontate da una lastra solitamente coperta di terra a formare un tumulo. I megaliti polinesiani, melanesiani e della Micronesia – ciclopici anch’essi ed eretti senza alcun legante – hanno spesso pareti e coperture in roccia grezza. I più noti, per originalità e arditezza esecutiva, sono: il Trilite di

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Mua, nell’arcipelago delle Tonga; le piattaforme presenti nell’isola di Pasqua; le Tinian delle Marianne, colonne coniche di strati di corallo. Ce ne sono di straordinari anche in Sardegna e a due passi da casa, a Malta, dove viene da chiedersi perché questo puntino sulla cartina d’Europa abbia ospitato complessi tanto imponenti. Mancano – a colpo d’occhio – territorio, popolazione, e risorse per giustificarli. Se un tempo li aveva, doveva essere ben dietro i 5000/5500 anni fa, quando il mare era decine di metri più basso e c’era tanta più terra. In particolare, all’interno di alcuni templi maltesi vi sono modellini dalle linee dritte e intersezioni a angolo retto che non hanno niente a che vedere con le forme a uovo dominanti i grandi complessi di Ggantija, Mnajdra, Tarxien,Skorba,Ta’Hagrat, fino all’ipogeo di Hal Saflieni: un labirinto sotterraneo con un alveare di caverne a più livelli formatesi prima di essere ampliate da interventi umani. L’interrogativo è: quei modelli geometrici, chiaramente affini alla nostra cultura, sono rimasti progetti o li avevano in precedenza costruiti e giacciono da un sacco di millenni sui fondali del Mediterraneo? I sacerdoti scintoisti di Miwa in Giappone sottopongono a elaborate cerimonie di purificazione i pellegrini che intendano scalare la montagna. La salita richiede un paio d’ore d’arrampicata lungo un crinale fiancheggiato da un ruscello. Una volta in cima l’impatto con i megaliti disposti in cerchio suscita emozioni inspiegabili perché non vi sono

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arcate spettacolari o altro degno di nota: è roccia pura, disadorna. Sarà il cielo che la incorona a suggestionare quanti arrivano fin lassù col fiatone, al punto da farli sentire avvolti in un’aura di insondabile e appagante mistero? Ci siamo persi quel qualcosa o non è mai stata farina del nostro sacco? L’idea, non nuova, per la quale la civiltà umana avrebbe avuto molti inizi e altrettante cadute trova in Estremo Oriente l’ennesima, intrigante sponda. Qui una stirpe ritenuta di origine “divina” – vale a dire (al solito!) con conoscenze straordinarie - avrebbe avuto rapporti stretti con popolazioni Cro Magnon: carnagione chiara, alti, grandi orecchie, capelli a crocchia e fisici possenti. A costoro la genia avrebbe svelato come erigere, a mani nude, colossali costruzioni, ricavare grotte in posizioni impossibili, scavare profonde gallerie. E meraviglia delle meraviglie c’è riuscita perché è opera loro quanto si può ammirare in Cina a Luoyan, Longme, Dunhuang e soprattutto a Yungang dove 252 caverne sembrano intagliate col laser sulla parete di roccia viva: una straordinaria prova di destrezza, forza e tecnica che sfila per un chilometro davanti all’affascinato visitatore dei nostri giorni. Nelle cosiddette “Grotte dei mille Buddha” di Dunhuangsono dipinte scene con personaggi barbuti e d enormi orecchie, vestiti da monaci, con capelli rossicci e occhi azzurri. Qual è la storia che intendevano immortalare? Nella regione afgana dell’Hazarajat, abitata dagli Hazara (di pelle chiara), in enormi nicchie scavate sulle alte

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pareti rocciose di vallate impervie quanto belle da togliere il respiro, gigantesche statue (poi distrutte dai talebani) in origine rappresentavano, per le leggende del luogo, enigmatici civilizzatori. Ritocchi di epoche successive le hanno trasformate in Buddha. Alla più grande di queste, scolpita a Bamiyan in Afganistan, non sono però riusciti a eliminare il mantello, che L’Altissimo mai avrebbe indossato. A proposito di gallerie, i superstiti di una razza vissuta tra Tibet e Nepal - l’Aryavartha dei Veda - a seguito di uno spaventoso cataclisma si sarebbero rifugiati nelle viscere della terra, dando vita sotto il deserto dei Gobi al Regno dell’Agarthi, l’Inaccessibile. E il mito vuole che una fitta rete di gallerie sotterranee lo colleghi al mondo intero, con ingressi ben occultati in luoghi strategici o simbolici. Sui Moai dell’Isola di Pasqua merita almeno un cenno il quadrato di pietra dagli angoli smussati di colore rosso vivo che ciascuno di loro ha in testa. Si riteneva fosse un originale “copricapo”. In realtà si tratterebbe della loro capigliatura. Quei giganti avevano i capelli rossi.

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“C’erano sulla Terra i giganti …”

22 metri di lunghezza per almeno 1200 tonnellate di peso: è il più grande blocco di pietra lavorata esistente e giace in una cava nei pressi dell’antichissima Baalbek, in Libano, dove il Tempio di Giove - costruito in epoca romana - poggia su un piano terrazzato composto da massi di non meno di 300 tonnellate cadauno. A che doveva servire la gigantesca piattaforma? Zecharia Sitchin ha ipotizzato che fosse una base di atterraggio e di decollo di navicelle spaziali. Ammesso e non concesso pure questo, perché impiegare pietre di tale peso? Con le tecniche che non dovevano far difetto agli occupanti dei veicoli alieni, si sarebbe potuto in un batter d’occhio spianare e pavimentare quel sito con un composto da far invidia al cemento. L’interrogativo di fondo dunque ritorna: a cosa serviva una tale esibizione di forza senza senso apparente? Domanda questa che bisognerebbe porsi anche per Machu Picchu, Cuzco e Tiahuanaco. Per la vulgata, gli autori degli exploit in questione erano i giganti: meno intelligenti, meno capaci di adattarsi ai cambiamenti, meno organizzati e molto più ingenui di quelli che arrivavano si e no alla loro cintola e alla fine li hanno fatti fuori. Comunque hanno segnato un’epoca: si va dai titani ai ciclopi, agli izdubar della Caldea, ai danava e daitia de l la mi to log ia ind iana , ai rakshasa di Ceylon, ai grandi uomini dei maya, dai nomi impronunciabili nella lingua d’origine, fino agli xelua dell’antico Messico.

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La Bibbia fa ripetuti accenni ai giganti. In Genesi 4,1-4 il riferimento più esplicito: “E avvenne che gli uomini cominciarono a moltiplicarsi e nacquero loro d e l l e figlie. I figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero per mogli quelle che vollero. C’erano sulla Terra i giganti a quei tempi e anche dopo, quando i figli di Dio si univano alle figlie dell’uomo e queste partorivano dei figli che divennero uomini potenti e furono celebri eroi dell’antichità”. Da notare che l’inciso – “ C’erano sulla Terra i giganti a quei tempi e anche dopo” – se tolto non altera il senso del discorso; è una pura presa d’atto. Il primo reperto gigante ad essere oggetto di seria analisi è stato lo scheletro rinvenuto nel 1577 nei pressi di Lucerna, in Svizzera. La commissione di esperti che lo esaminò, guidata da un anatomista di riconosciuto valore, concluse che si trattava senza ombra di dubbio di resti umani, anche se di dimensioni ciclopiche. Nel 1810, in California, fu trovato uno scheletro gigante con sei dita; nel 1870 in zona limitrofa vennero estratti teschi di 60 centimetri di diametro. A Glozel – nei pressi di Vichy, in Francia – fece il giro del mondo nel 1925 il rinvenimento di ossa, crani e impronte assolutamente fuori norma, il tutto datato 17/15 mila anni prima di Cristo. A Gargayan nelle Filippine venne riportato alla luce uno scheletro di 5,8 metri di altezza. A Shemya, nelle Isole Aleutine, genieri militari scoprirono per caso nel 1943 ossa e crani di dimensioni abnormi, che successivi esami hanno certificato appartenere ad individui alti 7

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metri. Si potrebbe proseguire per pagine su pagine elencando i reperti con i quali dimostrare in modo incontrovertibile la presenza sulla Terra, in tempi neppure troppo remoti, di una o persino più razze giganti; e ciononostante non si modificherebbe di un niente ciò che è scritto nei libri, in particolare dei nostri ragazzi. Il muro di gomma che si crea invariabilmente su tali argomenti ha infatti dell’incredibile. Un esempio fra i tanti. L’impagabile Peter Kolosimo provò a spiegare in “Terra senza tempo” cosa successe in Martinica quando, nel 1902, esplose Mont Pelè e i gas vulcanici liberati non diedero scampo agli abitanti dell’area circostante: per più di 20 mila di loro fu una fine terribile. “Dopo un po’”, scrive Kolosimo, ”la vita non solo tornò prepotente ma cani, gatti, tartarughe, lucertole, persino gli insetti divennero grossi come mai erano stati e crebbero ulteriormente di generazione in generazione”. Gli stessi scienziati francesi, che avevano attrezzato un laboratorio di ricerca ai piedi del vulcano, avanzarono l’ipotesi che l’abnorme crescita dipendesse da radiazioni emesse dalle rocce portate in superficie dall’eruzione; anche perché loro stessi ne davano la prova vivente: il capo della spedizione era cresciuto di 6 centimetri e il suo maturo assistente di 5 e mezzo. Ebbene, nessuno si è filato né Kolosimo né i dati degli scienziati cresciuti loro malgrado.

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Nazca e la città degli dei Che ci fanno sullo squallido altipiano di Nazca i disegni – visibili solo dall’alto - realizzati con ciottoli nerastri, disseminati un po’ dappertutto, che danno rilievo sul terreno sabbioso a figurazioni svariate: animali, piante, spirali complesse, rette prolungate per miglia e miglia senza sgarrare di un niente? E come hanno fatto a realizzarli senza una guida in quota stabile? Questi interrogativi se li deve essere posti più di ogni altro l’archeologa dell’Università di Amburgo Marie Reich, che per larga parte della sua vita si è dedicata (invano) al rompicapo. Tante per contro le supposizioni: si va da linee guida per l’atterraggio di velivoli alieni a rappresentazioni religiose, a calendari metereologici. Ma andiamo! Per far atterrare un Ufo, celebrare un rituale, stare al passo con le stagioni non era necessario ad esempio far vedere l’organo riproduttore di un ragno mai sognatosi di fornicare sul desolato altipiano. Per fare un discorso serio intanto bisognerebbe poterle datare queste linee: hanno 2000, 10.000 o 50.000 anni? Una volta appurato questo, ci si potrà esercitare in ipotesi varie. Fino ad allora perché non le ammiriamo e basta? Garcilaso de la Vega – detto El Inca, per essere figlio del conquistador Sebastian e della principessa inca Isabel – nei “ Commentari regi sugli Inca”, ai quali deve la sua fama in Sud America e qualche rigo sui libri di storia, offre un paio di saggi esemplari su come porsi

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davanti al mistero. Il primo Scrive El Inca ricordando l’emozione provata davanti alla fortezza di Sacsahuaman, poco a Nord di Cuzco, in Perù: “Le sue proporzioni sono inconcepibili se non la si è vista con i propri occhi; e una volta guardata da vicino risulta tanto straordinaria da far pensare che qualche magia abbia governato la sua costruzione, che sia opera di demoni anziché di esseri umani. “E’ fatta di pietre talmente grandi e numerose che ci si chiede come gli indios abbiano potuto non solo estrarle ma trasportarle e in contemporanea spaccarle e metterle una sull’altra con tanta precisione. “Non disponevano di arnesi di ferro con cui perforare la roccia, tagliare e levigare le pietre; non avevano né carri né buoi anche se in tutto il mondo non esistono davvero carri e buoi in grado di realizzare una tale impresa, tanto enormi sono queste pietre e aspri i sentieri di montagna sui quali si sarebbe dovuto farle transitare …” Il secondo Lo dedica a Tiahuanaco, non ancora offesa e degradata dagli oltraggi e dagli indiscriminati saccheggi degli ultimi secoli. Annota: “C’è una collina artificiale molto alta, eretta su fondamenta di pietra in modo che la terra non frani; ci sono figure giganti scolpite nella pietra e molto consumate, il che dimostra che sono antichissime; ci sono mura con massi così grandi che è impossibile braccia umane abbiano potuto collocarli; e ci sono resti di strane costruzioni, tra le quali la più eccezionale è un portale di pietra, sbozzato nella roccia viva, che poggia su di un basamento lungo circa nove metri, largo quattro e spesso quasi due. Il tutto ricavato da un unico, gigantesco

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pezzo …” “In che modo e con l’uso di quali strumenti e arnesi sia stato possibile realizzare tali opere sono domande a cui non si è in grado di rispondere”. Per far combaciare i massi uno sull’altro avrebbero i n e f f e t t i dovuto issarli una prima volta per verificare le congiunzioni sopra, sotto e di lato; poi sarebbe stato necessario spostarli uno a uno di fianco quello che bastava per realizzare le scanalature, prima di elevarli nuovamente per poi calarli nella posizione definitiva. Il loro peso? 50/100 tonnellate cadauno. Semplice, no? Non bastasse, su quelle ciclopiche mura sono scolpiti volti dai tratti africani, asiatici, caucasici e semitici. Che si sia voluta dare una rappresentazione dell’Onu del tempo?

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Cosa c’è in fondo al mare?

20 mila anni si poteva andare a piedi dalla Inghilterra alla Francia e viceversa; il Golfo Persico non esisteva; lo Sri Lanka era tutt’uno con l’India; Malaysia, Indonesia e Filippine facevano continente e sé, al pari di Australia, Nuova Guinea e Tasmania; il banco delle Bahamas era un altipiano assolato collegato a Florida, Yucatan e Nicaragua; sulle pianure del Sahara dominava il verde. Un numero quantifica le differenze: c’erano al tempo 25 milioni di chilometri quadrati di terre in più lungo le coste, avendo la glaciazione ridotto il livello degli oceani al suo picco di 100/120 metri. Nei millenni successivi la deglaciazione portò spesso alla formazione di enormi bacini di acque di scioglimento a ridosso di enormi dighe di ghiaccio che, all’improvviso, cedevano provocando giganteschi tsunami. Siffatte ricostruzioni di emergenze climatiche avvenute nel passato danno credibilità crescente alla tesi per la quale, se non si trovano tracce di civiltà sviluppatesi sulla Terra in tempi relativamente recenti, è perché ciò che ne resta si trova sotto decine se non centinaia di metri d’acqua. Sia o no questa la causa dell’assenza totale di riscontri, è comunque impensabile che i nostri lontani avi abbiano vissuto per decine di migliaia di anni come raccoglitori e cacciatori per poi decidersi in contemporanea, e solo qualche millennio fa, di operare il gran salto in aree del globo ben definite. Deve per forza esserci stato un prima, un percorso in

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virtù del quale si siano affinate progressivamente e in ogni campo conoscenze che poi hanno fatto sbocciare la comune civiltà. Ma dove cercare i segni della trafila? Sono davvero gli oceani a celarli? A stare solo alle tradizioni Tamil, un intero continente – Lemuria - sprofondò in una notte nel Pacifico con 64 milioni di esseri umani e le Maldive sarebbero le cime di terre congiungenti 20 mila anni fa Madagascar, India e Australia. Questo “buco” della storia fa il paio con il pezzo di strada sommersa a una profondità di 5/7 metri dalla superficie un chilometro a Sud di Punta Paradiso, a Bimini nelle Bahamas. A mezzo secolo dalla scoperta continuano a restare un affascinante mistero quei massi a forma di guanciale, con angoli e margini arrotondati, che non si comprende come madre natura abbia potuto disporre in modo tanto linearmente organizzato. Ancora. Al largo dell’isola Yonaguni, la più a Sud delle Ryukyu, c’è la “Tartaruga”, una struttura rocciosa di forma rettangolare, lunga 150 metri e alta 40, con la cima a soli 5 metri dalla superficie del mare. In tempi remoti, quando per le tradizioni locali era all’asciutto, l’avrebbero ritoccata per utilizzarla nei rituali. Impressionano i suoi terrazzamenti. Difficile pensare che siano il prodotto del gioco delle correnti, pur fortissime. Fa riflettere anche l’orientamento di due enormi e ben sagomati megaliti, ciascuno del peso di 100 tonnellate, che si ergono uno a fianco dell’altro. Sembra studiata quella posizione, fino a far supporre che, allo scoperto,

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nello spazio che li separa si disegnerebbero allineamenti equinoziali. Si era ai primi duemila quando, sui fondali prospicienti la costa dello Stato di Gujarat, nel Golfo di Khambat, in India, vennero localizzate a circa 40 metri di profondità strutture megalitiche somiglianti a quelle di Mohenjo Daro e della contigua Harappa, altra città simbolo della civiltà dell’Indo. Successive esplorazioni subacquee a più vasto raggio portarono a scoprire, a 20 chilometri dalla linea di costa e alla medesima profondità, altre imponenti strutture. Vennero anche recuperati manufatti in ceramica e in legno intagliato che – quanto a datazione - hanno dato esiti da prima pagina: si va dal 7500 al 31 mila a.C. Nel luglio del 2000 Paulina Zelitsky e suo marito Paul Weinzwei stavano esplorando con la loro nave, attrezzata per la ricerca di relitti da recuperare dalle profondità marine, i fondali al largo di Capo S. Antonio a Nord Ovest di Cuba. Un giorno (che non dimenticheranno) i loro sistemi di rilevamento e monitoraggio testarono a 600 metri di profondità un’area di circa 20 chilometri al cui interno sembravano esserci strutture artificiali. Una volta verificati i riscontri schermografici, dovettero arrendersi all’evidenza: là sotto c’erano enormi massi dalle evidenti forme geometriche, alcune posizionate in. modo simmetrico o perfettamente allineate. E poi strade, muri e altre costruzioni sviluppate come se si fosse in presenza di un grande e polifunzionale centro urbano. I due decisero che valesse la pena di vederci chiaro, per cui mesi dopo venne calato a quella profondità un

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robot per filmare ciò che c’era e per raccogliere dal fondo reperti rocciosi. Le riprese confermarono l’eccezionalità della scoperta perché le telecamere inquadrarono blocchi di pietra alti più di tre metri e di forma geometrica. Sempre dall’osservazione dei filmati venne un’ulteriore, decisiva evidenza: il bianco delle superfici dei megaliti spiccava sullo scuro delle rocce vulcaniche sparse lì attorno, tanto da far sorgere il sospetto che fossero di granito, introvabile nell’intera penisola dello Yucatan; sospetto confermato dai campioni prelevati: era proprio granito levigato, incrostato da fossili organici che vivono abitualmente vicino a riva.

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La Grande Piramide e le altre

I dati macro Alta inizialmente 146 metri, fu costruita utilizzando 2.300.000 blocchi di pietra da 2 a 15 ton. (ce ne sono che superano le 30). In origine era rivestita di calcare levigato che sotto i raggi del Sole dovevano farla brillare nello spazio come un diamante. E’ questo grosso modo l’identikit della più grande delle tre piramidi di Giza, attribuita al faraone Khufu che nel 2500 a.C. avrebbe impiegato 100.000 operai per venti anni a tirarla su. Al suo interno la temperatura si mantiene costante a 68 gradi farhenheit; ha lati di 230 metri con un margine di errore dello 0,1%; angoli di 900 vicini alla perfezione; le facce allineate ai punti cardinali con divaricazioni di tre minuti di grado (0,0015%), risultato difficilmente ottenibile ai giorni nostri; pareti appena convesse con un valore di curvatura, in gradi, corrispondente a quello terrestre. La piramide si trova all’incrocio tra il meridiano e il parallelo coprenti la maggior parte delle terre emerse; il suo peso, moltiplicato per un miliardo di miliardi, è uguale al peso della Terra; dividendone il perimetro per il doppio dell’altezza si ricava il phi greco. Ma questi c’è chi sostiene siano dei numeri al lotto e qualche ragione ce l’ha. Un sarcofago o cos’altro? Racconta Graham Hancock: “All’interno della vasca sembra di stare dentro la cassa

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armonica di un risonante strumento musicale costruito per emettere in eterno un’unica nota riverberata”. L’improbabile sarcofago è lungo 198, profondo 87.3 e largo 68 centimetri. Collocato in un lato di quella che dalle guide turistiche viene chiamata la Camera del Re, è ricavato da un unico blocco di granito con ramature di feldspato, quarzo e mica; roba che a scalfirla ci vuole un’attrezzatura da anni duemila. Per realizzare l’incavo gli egizi avrebbero dovuto disporre di trivelle in grado di esercitare pressioni di più di una tonnellata per centimetro; pressioni che non sarebbero peraltro bastate per le iscrizioni sulle coppe di diorite. Perché no Khufu La prima meraviglia del mondo viene attribuita a Khufu sia perché così sosteneva Erodoto, sia per il rinvenimento nel 1837 di una presunta prova. Perché presunta? Il dubbio gli egittologi se lo sarebbero dovuto porre fin da quando, tra le rovine del tempio di Iside, venne dissepolta una pietra con questa iscrizione: “Egli (Khufu) fondò la Casa di Iside, Signora della Grande Piramide, accanto alla Casa della Sfinge”. Il che significa una sola cosa: la Grande Piramide e la Sfinge c’erano già! La “Stele dell’Inventario”, questo il nome che gli venne dato, aveva tutti i crismi dell’autenticità ma accettarne i l tes to s igni f i cava smonta re la r i co struz ione data ad un momento fondamentale della intera storia dell’Egitto; cosa che non era e non è proponibile. Si imbrogliarono quindi le carte e in primis si obiettò che, da riscontri ortografici, l’iscrizione risultava essere

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successiva alla morte del faraone. Anche fosse stato così, che cambiava? Ci voleva qualcosa di più convincente che parve arrivare con la pretesa scoperta di segni di pittura rossa in spazi sigillati sotto la Camera del Re: si trattava di simboli e geroglifici con il cartiglio di Khufu nel 18mo anno di regno. Senza richiamare i comportamenti gravemente dubbi dei protagonisti della scoperta nei giorni che precedettero l’annuncio ufficiale, ecco come l’esperto del Museo del Cairo smontò all’epoca tale “prova”nella sua relazione: - i simboli in rosso sulle pietre erano in caratteri lineari, una forma di scrittura semplificata rispetto agli originari pittogrammi,venuta in auge svariati secoli dopo il tempo di Khufu; - molti geroglifici risultavano confusi, incompleti, fuori luogo, impiegati in modo sbagliato; - la sequenza traducibile con benevolo veniva utilizzata ad indicare il 18mo anno di regno; - c’erano due nomi di reali e non solo quello di Khufu. Graham Hancock, in “Impronte degli dei”, va giù netto: “Quei segni” – scrive – “sono gli unici trovati in una struttura priva di iscrizioni di qualsiasi genere; per di più si trovano in un angolo buio e insignificante”. L’unica risposta possibile al fatto che si sia dato spazio e credibilità a due emeriti imbroglioni è la seguente: se la Grande Piramide non era stata eretta nel 2500 a.C. la data alternativa sarebbe stata il 10500 a.C. con non solo la storia dell’Egitto ma quella dell’intera umanità che prenderebbe un’altra piega.

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Non è una tomba La tesi che la Grande Piramide sia la tomba del faraone appare peregrina: non si è trovato i n f a t t i n u l l a che possa r a g i o n e v o l m e n t e essere messo in relazione con un corredo funerario e la “vasca” della Camera del Re a tutto assomiglia fuorché ad un sarcofago.

I materiali Alcuni massi in granito rosso sono stati lavorati con una precisione al decimo di millimetro su lunghezze di svariati metri: impresa difficilissima anche oggi su grandi blocchi pure con l’impiego di utensili in acciaio diamantato; e non va dimenticato che all’epoca l’unico metallo disponibile era il piombo, non in grado neppure di scalfire il granito. C’è da fare, sempre a proposito dei materiali utilizzati, un’aggiunta non da poco. Ai raggi x campioni di granito - prelevati sia dalle piramidi che dalla Sfinge – hanno confermato la presenza di centinaia di migliaia di gusci fossili di protozoi marini, particolarmente diffusi nelle regioni mediterranee da 30 a 50 milioni di anni fa. Nella sola Grande Piramide essi rappresentano il 40% del volume complessivo delle pietre, che non furono quindi ricavate dalla polverizzazione e dal rimpasto di materiale calcareo ma vennero estratte nelle dimensioni volute da rocce sedimentarie emerse dai fondali marini. Il trasporto Si è ipotizzato che i massi, già predisposti, siano stati portati a destinazione per via fluviale ma le migliori chiatte di legno e giunco disponibili al tempo, per quanto robuste, non avrebbero potuto sostenere

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carichi di centinaia di tonnellate. Anche fosse (e non è pensabile), non ci sono tracce di attrezzature portuali per il trasbordo dei megaliti che – una volta su terra – sarebbe stato necessario far slittare fino ai luoghi di posa in opera a forza di braccia e tiranti. Il cantiere Pur disponendo dei mezzi della moderna tecnologia, una tale costruzione avrebbe imposto, per lo intero perimetro dei lavori, una pavimentazione come quella del Tempio di Giove a Baalbek, oltre all’impiego di gru gigantesche. Energie sconosciute? Napoleone, durante la campagna d’Egitto, sostò all’interno della Grande Piramide per una intera notte in completa solitudine. Ne uscì il mattino seguente visibilmente sconvolto ma non volle confidare ad alcuno cosa gli fosse successo. A Sant’Elena, pochi giorni prima di morire, al segretario che gli chiedeva di parlarne, parrebbe aver replicato: “E’ inutile, nessuno mi crederebbe”. Da allora molti, reduci da visite più o meno prolungate all’interno della monumentale struttura, hanno parlato di energie sconosciute grazie alle quali avrebbero avuto esperienze straordinarie di proiezione mentale. Le altre Quante sono? Millenni dopo Giza, all’altro capo del pianeta gli aztechi si imbatterono, nel corso della loro espansione in Centro America, in due monumenti a forma di piramide ai quali abbiamo già fatto cenno. Collocati ai lati di uno stradone (che probabilmente

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tanto tempo prima conduceva ad un porto), non sapendo come e perché fossero stati costruiti, essi li attribuirono a entità superiori, dando loro nomi all’altezza: Piramide del Sole chiamarono la più grande e Piramide della Luna l’altra. A Chodula c’è un’enorme agglomerato di pietre di forma piramidale - 4,5 milioni di metri cubi posizionati su una base di 500 metri per un’altezza di 67 – che non si ha la più pallida idea a cosa dovesse, in origine, servire. Il Castillo di Chichen Itza avrebbe invece una finalità precisa. Salendo lo scalone, i passi risuonano come se gocce di pioggia cadessero su un secchio. Sono onde diffratte nei passaggi interni a provocare tale risonanza lungo i gradoni ….. chiamando (eccola la finalità) a raccolta le nuvole per far piovere!! Allargando l’orizzonte, e senza voler far concorrenza ad Internet, balza all’occhio che non passa mese senza notizie di nuovi ritrovamenti. Ormai è una fissa, al punto che colline ricche di vegetazione richiamanti la sua forma sono puntate in ogni angolo del globo da entusiasti ricercatori, il più delle volte assolutamente neofiti in materia. Ci sono new entry in Giappone, Albania, Bosnia, persino a Checco di Brianza dove 60 mila anni fa ne avrebbero scolpita una nella roccia. In Cina se ne sono aggiunte in anni recenti decine su decine, mentre in Inghilterra c’è ancora chi vorrebbe accertare se Silbury Hill sia solo una collina o celi una piramide, magari con “meraviglie” pari a quella di Khufu.

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Resta in sottofondo, a proposito di piramidi, un grande interrogativo che precede e contemporaneamente va al di là dei tanti misteri che le circondano: se le più antiche e imponenti non erano (a giudizio dei più) tombe, perché le hanno costruite? A cosa dovevano servire?

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Conoscenze senza tempo

Plutarco sapeva,circa 1600 anni prima di Copernico, che l’universo era infinito; sapeva inoltre, anche a dispetto di molti di noi oggi, che è popolato da mondi animati. Prima di lui Platone sapeva che la Terra era a forma di palla e, in più, riteneva fosse ingabbiata in una griglia energetica a forma di dodecaedro. Di punto in bianco i sumeri inventano, 6400 anni fa, il calendario e un sistema per calcolare lo scorrere del tempo, tale e quale a quello che ci indica l’orologio al polso. Le effemeridi erano tavole in cui venivano, sempre dai sumeri, indicate le posizioni dei corpi celesti toccate o da toccare dalla Terra. I calcoli relativi li facevano sulla base di schemi aritmetici di cui i loro astronomi non spiegavano la logica. I Dogon, stanziati sulle costiere del Bandiagara in Malì da un numero ragguardevole di millenni, sapevano dalla (loro) notte dei tempi molte cose su tre corpi celesti che formano il Sistema Sirio. Strabilianti in particolare sono le informazioni che essi dichiarano di aver avuto in un insondabile passato sul più piccolo, Sadula, con una materia talmente pesante da esigere 480 carichi d’asino per un solo granello. Sta di fatto che il nominato Sistema è composto da tre stelle: Sirio A, Sirio B e Sirio C. Quest’ultima - detta Il Compagno – si è calcolato abbia una densità superiore 50 mila volte a quella dell’acqua!

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C’è poi una pelle di gazzella che ha molto da dire in proposito. La storia che la riguarda è legata alla vita avventurosa di Muhiddin Piri Ibn Haji Memmed, detto Piri: pirata in gioventù, ebbe la nomina a ammiraglio da Solimano II, lo stesso che anni dopo lo farà decapitare per aver tolto l’assedio a Gibilterra dietro compenso degli assediati. Piri doveva la carriera alle battaglie vinte e all’essere un mito tra i suoi marinai per la conoscenza di anfratti, baie, bassifondi e correnti dell’ex mare nostrum; tanto da indurre Solimano I a commissionargli il “Libro del mare”, pietra miliare della cartografia moderna. Cosa c’entra la pelle di gazzella? C’entra perché ai posteri arriverà con parte di quello che vi aveva messo sopra grazie a una passione coltivata dalla prima gioventù: le antiche mappe. Ne circolavano ancora in quantità all’epoca nei maggiori porti. Provenivano senza alcun dubbio dalla Biblioteca di Alessandria, la cui distruzione fu guidata di persona dal patriarca di una cristianità allora in forte ascesa. Si chiamava Teofilo questo energumeno, lontanissimo dal sapere e dalle idee di suoi contemporanei del calibro di Eratostene che, non pago di considerare la Terra una sfera, andava sostenendo la possibilità di arrivare alle Indie partendo dalle coste atlantiche della Spagna e tenendo ferma la rotta verso ovest. Cosa poteva averlo convinto? Con ogni probabilità antiche carte geografiche, avute sottomano nello straordinario reliquiario di conoscenze

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della Biblioteca di Alessandria prima che la radessero al suolo. Pure Cristoforo Colombo doveva essersene procurato qualche frammento sopravvissuto allo scempio. Una prova indiretta viene dall’aver tenuto dritta quella rotta come fosse un binario e le terre da toccare una stazione di arrivo già individuata. Un passaggio del diario di bordo di Padre Las Casas è al riguardo illuminante: “Si cominciò a vedere gran copia di erba verdissima che sembrava si fosse da poco staccata da terra, perciò tutti stimavano di trovarsi vicino a isole; non però alla terraferma che, per l’ammiraglio, doveva trovarsi più avanti.” Tornando alla pelle in questione, Piri come anticipato ne fece dono a Solimano I il Crudele dopo avervi fatto riprodurre un mappamondo. Meno di un terzo dell’originale ci è giunto ma basta a confermare, anche così ridotto, che non siamo le prime intelligenze ad aver calcato il suolo terrestre. Ritrovato nel 1929, nel corso della ristrutturazione del Museo di Istanbul, raffigura le linee costiere dell’Africa e di una buona parte del Sud America fino alla Terra del Fuoco, riprodotta agganciata – lo era f i no a 13 mila anni fa – all’Antartide, di cui si conosce l’esistenza dal 1818. Per giunta i contorni del continente australe sono, secondo studi recenti, quelli di quando era quasi del tutto sgombro dai ghiacci. Che il mappamondo fosse stato realizzato con l’ausilio di più mappe “sorgenti” di diversa datazione lo dimostra in modo incontrovertibile quello che a una prima lettura

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appare un errore: nella mappatura del Sud America non c’è l’Orinoco e il Rio delle Amazzoni ha due sbocchi al mare, con il primo sull’isola di Marajo. Spiegazione: fino a 13 mila anni fa, l’isola di Marajo era unita al continente e il Rio Orinoco non esisteva. E’ dunque attendibile la carta? In un documento della Marina Usa risalente agli anni sessanta si legge: “La carta di Piri Reis” è una corretta proiezione a griglia circolare partendo da Il Cairo”. Gli autori della mappa originale, dalla quale Piri copiò la sua, dovevano perciò conoscere la trigonometria sferica, la curvatura della Terra e i metodi di proiezione. Maurice Chatelein (consulente Nasa) la mette così: “La mappa è una proiezione della superficie terrestre, vista posizionati a grande altezza sopra l’Egitto”. Da sottolineare che quella sulla pelle di gazzella non è la sola “mappa impossibile”, semmai è la più spettacolare. Anche Oronzo Fineo, Hadji Ahmed e Mercatore - a citare i più noti – hanno indicato nelle loro carte ciò che non poteva esserci, stando alle conoscenze dell’epoca in cui le avevano stese.

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________________ Seconda parte____________________

Una civiltà agli sgoccioli Si è perso l’orizzonte Ascesa e declino del consumismo I pilastri in crisi Mercato globale e debiti sovrani Senza ismi Con Gesù e Buddha Disuguaglianze allo specchio

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Si è perso l’orizzonte

Il mondo per Cristoforo Colombo ed i suoi marinai era sconfinato, con spazi e risorse da scoprire e fare proprie avendo capacità da impegnare e spirito di iniziativa. Questo dava ai migliori fiducia nel domani che avrebbe potuto regalare – a chi gli fosse andato incontro con mente aperta e cuore saldo - emozioni degne di un non anonimo vissuto. Oggi il mondo è una palla su format di telegiornale e inquieta il pensiero di essere abbarbicati a una realtà che - a vederla sullo schermo mentre ti viene incontro rotolando se stessa – rende manifesto il tanto di limitato e di provvisorio in cui si vive. Aggrava tale sensazione l’assistere quotidiano, su media e web, a ciò che gli succede dentro senza la speranza, anche a ridursi a lillipuziani, di scoprire un angolo o uno scorcio che non siano dejà vu. Sta contestualmente calando il sipario su alcuni degli orizzonti che si erano dischiusi lo scorso secolo, tipo l’ammirare, sempre sugli schermi televisivi , Marte o i fantastici anelli di Saturno, per il rimando delle verifiche dirette di decine d’anni. Insomma ci si sente come appesi in modo precario a un pianeta che da la sensazione netta di fare una fatica crescente a reggerci, non sembra offrire occasioni e neppure stimoli ad ulteriori passi in avanti e obbliga ad una ossessiva ripetitività di comportamenti in situazioni generalmente scontate.

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E’ in tale contesto che acquista corposità la sensazione di un futuro con ben poco da dire e dare, fatti salvi avvisi di attenzione a dove posizionarsi nel trionfo di strade, gallerie, viadotti, parcheggi, quasi fossimo stati presi da un odio forsennato per la cara e vecchia nuda terra. Esagerato in negativo? Forse si perché ad esempio si sta meglio in salute e c’è il fitness, senza contare lo zapping su informazione e spettacoli, vera e propria alternativa virtuale. Per contro incombe su moltitudini un’indefinibile ansia chiamata stress, che poi è ansia e basta. Monta, specie a notte fonda, tra i meno fortunati ai quali strappa in genere la promessa di un salto l’indomani in tabaccheria per grattare qualche cartoncino colorato al fine di donarsi, in cambio della vincita sperata, il sogno di poter scegliere tra pacchetti di tour e soggiorni in un mondo servito a più stelle, facendola così una buona volta finita con un vissuto piatto, se non decisamente insopportabile, e con la suspense sempre dietro l’angolo di essere come in bilico su di una catastrofe senza pari. Da più parti se ne è voluto desumere che sarà anche perché i cardini della società di un tempo sono nelle forme ciò che erano mentre nella sostanza non lo sono più. Si prendano le nazioni: comprese le più grandi e potenti, debbono ormai scansare non tanto nemici esterni quanto gli incombenti rischi di una bancarotta che purtroppo presto o tardi si verificherà, provocando frane di posti di lavoro, di sicurezze, di presidi, di servizi entrati a far

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parte del collettivo fino ad essere percepiti e pretesi alla stregua di diritti inalienabili. La famiglia ha perso l’originaria sacralità, riconoscendosi i componenti nel valore fondante dell’unione volontaria ed intima: un gran salto in positivo, che però fa a pugni con la istituzione del tempo che fu, all’interno della quale si era – e in qualche misura si è – tutelati ma talvolta pure costretti. La stessa natura, anche dove venga curata come meglio non si potrebbe, sembra reduce da una violenza che l’ha devastata, facendole perdere irrimediabilmente ciò che era ed aveva. Per rendersene conto basta andare in un qualsiasi ben organizzato parco, messo su a modo di teatrino. Questo e tanto altro di cui si dirà sono il risultato, neanche ultimo, del costante specchiarsi in un mondo voluto a misura, perciò inevitabilmente artificiale e quindi estraneo se non opposto al progetto originario per il quale siamo qui. Ed è inutile, prima che ipocrita, chiedersi da dove nasca la determinazione ad alterare gli equilibri dati in funzione di prodotti che non solo non appaiono in grado di reggere il confronto, ma si stanno rivelando incapaci di offrire una prospettiva premiante alla stessa specie che se ne è fatta e se ne fa un vanto. E’ inutile se possibile in misura anche maggiore interrogarsi sui motivi per i quali in tanti ci si senta al capolinea di un percorso non generazionale ma epocale; un percorso dettato dal pensiero unico che - con un

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esercito scelto di padrini al seguito – domina dall’inizio comportamenti e fini degli umani. Il pensiero unico, si sa, non ne ammette altri per cui giocoforza mercato, politica, morale corrente ne hanno fatto il loro nume tutelare ma, specie negli ultimi tempi, non gli è bastato. Così ha imposto – senza che si muovesse foglia contro - una comunicazione multimediale che calcasse la mano, anzi per meglio dire voce e immagini, sugli imperativi che discendono dai suoi espliciti assunti, del resto mai contraddetti; al punto che non solo le forze politiche, economiche e sociali ma pure gli individui nei loro convincimenti (chiamarli ideali si rischia troppo) hanno finito per essere contaminati se non lesi dai suoi incipit. Quando la popolazione dell’intero pianeta sembrava ad un passo dal ritrovarsi un governo mondiale ovviamente supino al medesimo, pare che in molti tifassero perché pensiero unico e dogmi annessi trovassero posto nella vecchia Bibbia allo scopo, sussurravano con il dovuto rispetto, di rivitalizzarla e riportarla in auge. Invece, guarda cosa combina la vita, passano un pacco d’anni e avviene l’impensabile: ci si viene accorgendo che l’onnipotente pensiero unico sta franando, anche se non si può dirlo chiaro per i pericolosissimi (in quanto incontrollabili) rimbalzi che ciò avrebbe sul sistema già in affanno. Ecco allora il preoccuparsi da un lato di tranquillizzare su quello che succederà nei giorni a venire; dall’altro di confezionare e mandare in onda ripetitive sequele di j’accuse su negatività riconosciute e conclamate, senza

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peraltro riconoscere che discendono, in linea diretta o indiretta, dall’onnipotente in questione. Ne deriva uno sciorinar di cifre e valutazioni “a latere”, indicate come responsabili del quadro allarmante: la finanza che viaggia da regina incontrastata, strutture industriali in sofferenza specie in Occidente per il calo dei consumi e la sempre più forte concorrenza di un Oriente impegnato a ritrovare la s u a grande storia. E poi gli squilibri Nord/Sud, i flussi migratori, le risorse energetiche più care che mai e globalmente in calo, le nuove dilanianti povertà, i conflitti regionali. Problemi veri ma lo erano pure prima, imperante a tutto tondo il pensiero unico nel plurisecolare e incontrastato regno che ha finito per travolgere ogni pensiero altro, ogni tradizione altra, ogni etica altra nella rincorsa ad un progresso mirabile per i suoi padrini ed escluso agli altri. Per cui, se una perplessità viene spontanea è perché mai alcuni degli altri, oggi in temporaneo recupero, dovrebbero fermarsi e ridare fiato a chi ha approfittato di principi e regole pro domo propria. Tant’è che non si fermano e non ascoltano. E allora? Allora rieccoci. Serve un miracolo (definirlo in altro modo sarebbe idiota) che cali sulle nostre teste in qualche sconosciuto modo per un nuovo inizio, un cambio radicale di coscienza e di approccio all’esistere. Ma vallo a decifrare, qui è il punto, quale sia il modo in virtù del quale realizzare il bramato, fondamentale reset dalle attuali angustie, causate principalmente dal voler ridurre quanto di naturale ci accomuna a misura di

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piaceri e ambizioni soggettive, ignorando volutamente la simbiosi di partenza tra l’essere umano e un creato di cui è suicida ritenersi alternativa. Se questo essere nella sua inesplorata complessità fosse r i c ond o t to alla casa madre, lo si accreditasse di quel che esige e se ne seguissero i dettami innati ma compressi con il medesimo rigore dimostrato nella osservanza di quelli del pensiero unico, allora si che l’uomo di domani potrebbe ritrovarsi con due poteri capaci di ribaltare in positivo l’asfittico trend attuale: - il potere di sentirsi altro nella biosfera in cui s i vive, responsabile in prima persona tra prime persone di un armonico sviluppo di uno spicchio di creato da non snaturare alterandone gli ecosistemi; un creato che potrebbe tornare ad essere il paradiso agognato ove si fosse liberi di scorazzarvi - altri tra gli altri - senza quei sovraccarichi destinati non a far vivere tutti meglio ma a far si che alcuni appaiano al meglio nel loro circoscritto ed esclusivo ambito; - il potere di sentirsi altro anche nella sfera personale, da non ritenere prevalente sul resto della società, come peraltro sancito da principi inderogabili che, sarà una fatalità, non escono però dalle carte in cui sono scritti da tempo immemorabile. Perché diverrebbero poteri smisurati? Perché mentre le capacità potenziali di singoli, gruppi, nazioni,escono dal permanente confronto, non solo dialettico, sfinite dagli schemi antagonisti obbligati dal modello di civiltà in auge, la somma di intenti individuali non in antitesi

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inciderebbe in modo forte, determinato e armonico sull’esistere in ogni sua espressione. Come arrivarci? Lo detterà il futuro il modo con cui lasciare per strada i tanti Genius da Mille e una notte impegnati a far uscire da magici otri cose del tutto inutili o superflue, che però continuano ad abbagliare la gente assiepata alle Fiere della Vanità da essi gestite. Che c’entrano i Genius? C’entrano. Sono la lunga mano del pensiero unico e finché anche loro saranno in azione mancheranno le condizioni di base perché il mai troppo rimproverato egoismo innato in ciascuno – fatto proprio da cordate, lobby, nazioni dalla notte dei tempi – sia impedito a dotarsi dei soliti indecenti imbuti nei quali convogliare, a proprio esclusivo uso e profitto, gli optionals offerti da un mercato combinato per lo scopo. Dunque, per mettere un punto e andare a capo, l’imperativo è liberarsi anche di tali Genius e farlo al netto di ogni indulgenza per i giochini di prestigio nei quali erano e sono maestri, così da non ritrovarseli tra i piedi con aggiornati abbagli una volta che ci si avventuri nella nuova e auspicabile dimensione del pensare e del vivere.

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Ascesa e declino del consumismo

Robert Kennedy nel lontano 1968 – tre mesi prima di essere assassinato – ha dedicato un monologo al Pil, Il Prodotto interno lordo, e lo ha fatto in un modo che ci si è ben guardati dal ricordare nelle tante commemorazioni della sua breve ma brillante stagione politica. Stupisce perché, non avesse detto o fatto altro, basterebbero quelle sue parole a renderlo degno di memoria. Eccole. "Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale, vera soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto interno lordo. Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. “Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi tv che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte. “Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari.

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“Il Pil non può misurare né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Robert Kennedy non è stato peraltro il solo a dare una scrollata al totem dell’economia contemporanea. Tanti, sia prima che dopo di lui - anche se non con la medesima, trascinante e benedetta retorica – sono andati oltre puntando l’indice sul suo principale azionista: la civiltà, come ci si ostina a definirla, legata a consumi il cui acquisto non è motivato da bisogni effettivi o da scelte maturate in proprio. A incentivare un turn over esasperato di consumi non connessi a vere necessità sono infatti impulsi dettati da sofisticate tecniche di mass marketing mirate a stimolare nell’io reazioni identitarie, specie se di privilegio e di auto celebrazione. Victor Lebow, analista di vendite al dettaglio, negli anni cinquanta dello scorso secolo fotografava il “capitalismo consumistico”, allora in piena espansione in particolare negli States, con le annotazioni a seguire. “L’irresistibile ascesa del modello di vita consumistica rappresenta il più veloce ed importante cambiamento che la specie umana abbia mai sperimentato nella vita di tutti i giorni. “Nell’arco di un paio di generazioni il quinto più ricco dell’umanità è diventato automobilista, telespettatore, frequentatore di centri commerciali e acquirente di prodotti usa e getta“.

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Aggiungeva poi a titolo di commento:”La nostra economia impone di plasmare sul consumo la nostra stessa vita, di trasformare in riti l’acquisto e l’uso dei beni materiali, di fare del consumo la nostra unica fonte di soddisfacimento spirituale e di auto realizzazione. “ Si smania indecentemente, a dirla tutta, per consumare, eliminare,sostituire ogni genere di cose a un ritmo sempre più rapido”. Vivesse oggi che dai suoi tre siamo passati a oltre sei miliardi di popolazione complessiva potrebbe riproporre integralmente il virgolettato, salvo per quel “quinto di umanità ricca”, perché si convive tutti ormai con gli usa e getta su Madre Terra che, a poterlo fare, ce l’avrebbe da tempo fatta pagar cara. Walter Benjamin, filosofo di mestiere, percepì l’alba del consumismo sostando davanti alle Maison parigine e non solo non ne ricavò una grande impressione ma andò giù pesante sul tema cogliendo nell’uomo moderno “aspetti necrofili derivati dalla tendenza ad emozionarsi alle cose inanimate piuttosto che a persone in carne e ossa”. Magari la conclusione è esagerata ma che lo shopping compulsivo degli ultimi decenni evidenzi comportamenti del tutto fuori logica è innegabile. Anzi, a metterla proprio franca, ragione vorrebbe che sia al limite del demenziale comportarsi a questo modo. Eppure, il meccanismo del consumo inutile che chiama consumo inutile ha fatto e farebbe un’eccezionale presa se le condizioni generali continuassero a permetterlo nella medesima passata misura.

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A tenere a battesimo meccanismo e conseguente civiltà è stata la rivoluzione industriale, che nasce in Inghilterra nella seconda metà del 700, arriva nel continente agli inizi dell’800 e trova alla fine di quel secolo negli Usa - beneficati dal West, dalle risorse naturali e dall’etica protestante - condizioni ideali per la prima, spettacolare crescita dei consumi voluttuari, estesasi nel Novecento progressivamente alle aree del pianeta a più elevato reddito pro capite. Ribadito ancora una volta che il volano consumo chiama consumo non riguarda bisogni essenziali - e non scatta neppure per sostituire ciò che non sia più utilizzabile o per acquisti ritenuti di migliore qualità – non ci si può non porre, in via prioritaria, la domanda: perché il consumatore ci sta? La sua prima risposta è di solito un sorriso, quasi a volersi far perdonare. Segue una lieve autocritica del tipo: Si, non si dovrebbe ma così fan tutti e poi ci sta a non voler rimanere indietro; senza dire che sono davvero tanti i richiami e talvolta si può cedere. Giustificativo aggiunto, sempre a titolo esemplificativo: E’ sbagliato ma ci si convince che una cosa sarà uscire l’indomani con jeans ultima moda, strappo incluso, un’altra con la tristezza del solito gabardine nero fumo che si scrive gli anni da solo. Allora sono i consumatori che li vogliono, per le ragioni descritte, questi consumi labili? Ma va! E’ la superficie, l’apparenza scambiata per sostanza. Non ci si avventura oltre perché l’autocritica va bene ma fino ad un certo

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punto; e poi il campo è minato, nel senso che per tanti significherebbe tagliarsi l’erba sotto i piedi. Ad andare un passo più in là del comodo così fan tutti si scoprirebbe infatti che il consumatore è un soggetto costantemente manipolato e indotto ad acquistare beni e ad avvalersi di servizi dichiaratamente inutili perché lo affascina stare sull’onda, quale che essa sia; per cui basta mettere qualunque cosa in cresta ad esse e voilà, il gioco è fatto. Pardon, era fatto perché il meccanismo si è rotto, una stagione ha chiuso i battenti in via definitiva e le illusioni di una ripresa che faccia leva sulle basi franate servono soltanto a far passare altro tempo. Ne discende il bisogno di trovare da subito qualcosa di fondamentalmente nuovo per ripartire senza guardarsi indietro e magari pretendere il ritorno di anni in cui, per dire, le vendite di automobili salivano di cima in cima, malgrado nulla di sensato ne favorisse l’acquisto, o argomentate promozioni si omologavano e imponevano con una facilità impensabile oggi, finendo per inglobare interessi, propensioni, free time, rapporti interpersonali, la stessa dimensione vitale dell’individuo. Tutta roba defunta, con i sogni che restano sogni perché il mattino è arrivato da un pezzo. A voler tentare un giudizio non storico sul consumismo – per il troppo poco tempo trascorso dall’avvio del suo declino - non appare affatto esagerato considerarlo una forma di tirannide più penetrante e omnicomprensiva di tante dittature nate - e per fortuna sepolte - negli ultimi duecento anni.

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L’enorme potere di stordimento e di distrazione, che g l i veniva dalle tecniche di cui si è avvalso, finiva per coinvolgere il soggetto fino a rubargli spazi e tempi di riflessione, elevando le promozioni volute al momento a componenti chissà perché irrinunciabili di un vivere quotidiano che in caso contrario lo avrebbe fatto sentire in seconda fila. Si era in tal modo passati, può darsi senza rendersi conto del tutto dell’enormità del fatto, dal tradizionale sfruttamento a scalare di una classe sull'altra allo sfruttamento sistematico – da posizioni in qualche modo astratte dal contesto - sull’uomo in quanto tale, ridotto a oggetto da rifinire e adornare con produzioni a più sequenze, diversificate ad arte per alimentare altrettante varietà di desideri in contesti fantasmagorici e senza concedergli alcuna possibilità di rientro nella propria responsabilità decisionale. E persino se in qualche modo e misura si riusciva a rendersi conto della sudditanza in atto, nonché della assenza di significato di esistenze imperniate sulla rincorsa irragionevole al successivo miraggio, spesso era tardi per età, condizioni fisiche e componenti varie; e quand’anche non lo fosse stato era il sistema a isolare da par suo l’improduttivo, il non consumatore, la mosca bianca, il fuori formato, il comportamento che non era da esempio. Ora sul mercato dei consumi, rispetto agli andamenti registrati per tante stagioni, pure dagli analisti vengono (sottovoce) i de profundis. Non che essi rappresentino il verbo, sia chiaro, essendo gli stessi che ogni giorno

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spiegano, il più delle volte senza riuscirvi, i motivi delle improvvise fluttuazioni di Borsa. Talvolta per la verità lo sanno perché a provocarle sono stati loro eseguendo ordini di basso profilo. Comunque c’è chi li ascolta e li ha presi alla lettera anche quando hanno sostenuto (sbagliando alla grande) che a dare il via al declino della civiltà che ci ha portato sin qui e al calo dei consumi in special modo sarebbe stato il fallimento di grandi istituzioni finanziarie. Chi non ricorda gli impiegati (sono sempre gli ultimi a finire sbeffeggiati) ripresi in dirette televisive all’uscita da palazzi prestigiosi con le proprie cose messe alla rinfusa in contenitori di cartone? In realtà quel via era stato dato prima e le cronache in discorso si sono ridotte a riprendere dettagli canaglia su eventi che venivano da tempo maturando. E’ accaduto, senza ulteriori inutili giri di parole, perché gli strumenti atti a governare una civiltà in ascesa, in un mondo (che non c’è più) capace di offrire spazi e opportunità di sviluppo, sono i meno adatti a gestire la fase opposta, quando vengano meno i confini ulteriori da varcare senza pagare alcun dazio, le risorse di cui approfittare perché sono lì e gratis, masse da sfruttare riconoscendo loro molto meno del dovuto, guerre decise a tavolino per ampliare o consolidare imperi economici. Allo stato il pianeta questi spazi, queste opportunità, queste possibilità di voli in avanti non ne ha più; a meno che non salti fuori la scoperta delle scoperte: l’energia illimitata e a un soldo per tutti. Ma anche ad averlo in portafoglio questo salvatutto,

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occorrerebbe andarci prudenti a sbandierarlo prima di aver avuto garanzie ferree; perché non trabocchetti ma burroni verrebbero frapposti alla sua messa in opera. Boccate d’ossigeno vengono e verranno per qualche tempo dalla delocalizzazione di produzioni un tempo esclusiva del mondo occidentale e dall’esplosione dei consumi in aree molto arretrate, che però daranno il colpo finale al clima globale e alla regressione in atto dove le esclusive sono venute meno ridimensionando gli status preesistenti, ritenuti intoccabili, con inevitabile corredo di drammatici conflitti sociali. Segnali preoccupanti a quest’ultimo riguardo rimbalzano da un continente all’altro e a subirne i devastanti effetti saranno in prevalenza fasce di popolazione con livelli di istruzione medio/alti e molti anni davanti da vivere in condizioni precarie o con redditi (se va bene) di pura sussistenza. Quel che è anche peggio, si elargiscono loro contentini conditi da promesse impossibili da mantenere e non ci vuole molto a capire che se ne faranno fascine per il grande fuoco planetario che scardinerà quel che resta del pensiero unico, delle sue inamovibili caste, dei suoi fallimentari progetti in barba a chi si ostina in alti siti, per ragioni facilmente intuibili, a non prendere atto della realtà incipiente. Non merita un epitaffio il consumismo perché la storia lo ha condannato senza possibilità di appello; semmai vanno ricordate, per non ricadere in consimili cadute di civiltà, le sue due facce: una esibita in modo sfrontato e in via di sepoltura, l’altra tenuta costantemente sotto

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traccia e tuttora in (forzato) tiro. Per la faccia quasi presentabile si ricalca uno spot abusato su uno dei consumi principe. Esterno di vettura ultra accessoriata Sembra di sentire il respiro profondo e cupo del motore mentre la linea filante della super car si mangia il rettilineo tra due file fitte di alberi: forse una vera foresta violentata, forse una foresta incantata aperta per omaggiare quel mix di potenza e tecnica. 1o stacco Insistito primo piano delle mani del guidatore, le cui dita scorrono sui tasti a lato del volante. 2o stacco Si indugia sul confort dell’interno e sui preziosi gadget fino a lasciar intuire che l’hifi stereo sta facendo il suo. Esterno conclusivo Ripresa da dietro, la super car ha per unico compagno l’orizzonte che è lontano ma alla portata. Bello eh! Provare a rifarlo lo spot - stessa macchina, stesso guidatore, stessa musica, stesso rombo - senza quell’orizzonte, sostituito magari da una via cittadina all’ora di punta. La differenza sta lì. Naturalmente se ne è consapevoli e, per sopravvivere in questo tempo di mezzo, si punta sempre più decisi su nicchie privilegiate e sul desiderio smodato di apparire della totalità di coloro che vi sono bene accomodati. Così è un diluvio di promozioni di orologi di gran marca il cui costo spropositato è l’unica ragione che ne motiva l’acquisto, al pari dei vestiti firmati e di una vastissima gamma di offerte che, se non fossero dichiaratamente

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d’élite, non varrebbero un accidente. Ma con le èlite alla lunga si va a sbattere. La faccia impresentabile la descrive uno spezzone di film che definire indimenticabile è poco. L ’ en t rat a L e valchirie del Trionfo della Morte tagliano l’aria con i loro elicotteri d’assalto in formazione: sotto paludi e capanne di un supino Vietnam in attesa della apocalisse che arriva puntuale, spudorata, senza freni e remore. L’azione La pressione decisa su un pulsante tra i tanti di una nera tastiera di lato ai neri comandi e tutto avviene mentre la musica sale e lo spazio si ritrae, quasi a voler inglobare la tragedia sottostante. L’orizzonte è anche qui lontano ma sembra pur sempre alla portata. Scena finale a tutto campo. La musica travolgente, le eliche rotanti, volanti/comandi/pulsanti che aggiungono alle mani potere smisurato, l’impatto dissacrante con ciò che è sotto e non può opporsi o far sentire le grida dei bruciati vivi. E’ fatta, anzi era fatta perché se dio vuole non ci sono più orizzonti per quelle valchirie e per i loro abominevoli volanti/comandi/pulsanti. Ognuno l’orizzonte lo ha in casa.

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Pilastri in crisi: produzioni alimentari Per avere consumi medi di beni e servizi e un livello di vita pro capite pari a quello degli abitanti di Lombardia e California servirebbero – sulla base degli assetti e delle tecnologie fruibili – spazi, risorse agricole, minerali ed energetiche riconducibili ad almeno tre pianeti come la Terra. Ora, mentre si discute sui tempi entro i quali sperare di raggiungere comunque l’obiettivo, fidando su scoperte rivoluzionarie nei sistemi di produzione e quant’altro, si da per scontata la linea da seguire: favorire le condizioni e mettere in atto le iniziative che consentano di elevare – in termini quantitativi - gli standard di vita laddove siano al di sotto di quelli presi a riferimento. Ma si rivelerà davvero così scontata la linea sulla quale si incamminerà il futuro o sarà perché è molto più facile presumerla sostanzialmente immutata che la si disegna a quel modo? Il contenuto dei due precedenti capitoli fa intuire quale sia la risposta all’interrogativo. Per renderla appena un po’ circostanziata prendiamo un giovane, lo chiamiamo Paolo e lo immaginiamo a vivere da solo, in questo nostro tempo, in una casetta ad un piano dalle mura antiche, posta in cima a una collina e collegata allo stradone che scorre più sotto da uno sterrato che ne attraversa quasi l’intera proprietà: un appezzamento di poco più di un ettaro dove nel tempo che gli lasciano gli impegni di lavoro coltiva di tutto un po’. Una volta la settimana, ma talvolta ogni due, inforca

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la bici e con un bustone a tracolla va fino al paese poco distante. Da lì con mezz’ora di pullman è in città; due passi a piedi in pieno centro e lo si ritrova negli uffici di una Società di marketing dove scarica dal suo Mac l’impianto grafico del sito commissionatogli per conto di una ditta intenzionata a promuoversi nel web. Ha un incarico a progetto Paolo e si dichiara fortunato per gli euro che mette insieme ogni mese, spesi quasi tutti per migliorie varie a quel pezzetto di terra che gli permette di mangiare quasi gratis; e dire che è una buona forchetta. Adesso proviamo a vedere come e dove potrebbe vivere questo Paolo tra vent’anni. Strano ma sta ancora lì e pure la casa, almeno da fuori, è la stessa salvo per le antenne sul tetto, sparite. Com’è dentro? Andando avanti di diversi capitoli ognuno se ne farà un’idea. Sempre in esterni c’è un’altra stranezza: lo stradone che portava al paese è sparito insieme ai tralicci dell’alta tensione, ma la cosa può sfuggire perché l’occhio cade sulla cupola, imponente e trasparente, che sovrasta il podere: molto curato, tanto verde, fiori, addirittura una grande fontana ma niente pomodorini e lattuga. Guadagna assai Paolo ma non è questa la ragione per la quale non si appassiona a veder crescere pomodorini, zucchine e peperoni. Il fatto è che non mangia più con le cadenze e la quantità di una volta. Quando mai! Ogni tanto – un paio di volte al mese nella norma, tre se esagera – si ritrova la sera con amici preferibilmente in locali dove propongono assaggini di specialità dei tempi

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andati, assenti in toto dal loro quotidiano e che gustano in tali occasioni per ritrovare odori e sapori di gioventù. In casa o al lavoro, acqua, qualche frullato, un rapido e striminzito brunch più un paio di pasticche con dentro quel che serve all’organismo: bastano e avanzano per mantenersi in forma, non sentirsi appesantiti o poco lucidi, non mettere su chili di troppo e non temere malattie e alterazioni del metabolismo diffusissime nei tempo passati mica poi da tanto. Insomma, in quell’immaginario futuro del nostro Paolo non si spenderebbe praticamente niente per mangiare e sul piano planetario nemmeno l’ombra dei problemi che angustiano l’umanità nella fase odierna, come emerge dal quadro a seguire. Nella prima decade degli anni duemila il prezzo del grano è più che triplicato e quello del riso è aumentato fino a 5 volte. E’ successo e continuerà a succedere sia perché le bocche da sfamare crescono ogni stagione di 70/80 milioni di unità, sia soprattutto perché la domanda di queste e altre produzioni di base dell’alimentazione umana si trova a fare i conti con un’offerta che non cresce globalmente, come farebbe presumere il notevole incremento negli anni della produzione per ettaro, e non è più in prevalenza “porta a porta” come accadeva in passato. Le colture a piccola scala - i classici “fazzoletti di terra” che fino a pochi decenni fa hanno consentito quasi dappertutto di produrre quote considerevoli di derrate, destinate per lo più al fabbisogno di consumatori dietro

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l’angolo – sono state infatti progressivamente sostituite da monoculture a grande scala: vasti appezzamenti le cui coltivazioni sono gestite a distanza da multinazionali con l’impiego di tecniche finalizzate a massimizzarne i quantitativi, incluso l’irradiamento sistematico e l’uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti di sintesi. Dopodiché i prodotti così ottenuti vengono immagazzinati in attesa di prendere la via del mercato o dei mercati appetibili. Due gli effetti altamente negativi: da un lato l’esodo dalle terre degli avi di milioni e milioni di famiglie, che per la maggior parte vanno ad ingrossare le invivibili favelas di congestionate metropoli; dall’altro, la formazione di cartelli per rialzi governati dei prezzi all’origine, ai quali si aggiunge la pratica del frequent trade, per la quale lo stesso stock passa di mano anche quattro/cinque volte prima della sua movimentazione e quindi al netto delle ricariche degli intermediari classici e dei rivenditori al dettaglio. Ciò avviene specialmente da quando si specula molto meno sugli immobili (la bolla scotta) mentre vanno alla grande le cosiddette commodities che – a oro, petrolio, rame, ferro e argento – hanno aggiunto riso, grano, cacao, caffè, zucchero e cotone. E c’è un paradosso, scandaloso in sé: la sponda offerta, al crescente interesse dei predatori della finanza per questi comparti, dalle iniezioni di liquidità decise sia dalla Bce (Europa) che dalla Fed (Usa) per rivitalizzare le rispettive aree di mercato. I potenti gruppi di riferimento, ai quali il denaro non manca, riescono (chissà come!) a rastrellarne quantità

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non indifferenti a interessi molto bassi (gli istituti di credito le incamerano a costo zero) investendole in tali acquisti virtuali, quindi senza rischi e con la certezza di immediati guadagni. Seri problemi si presentano anche nel comparto carni. Il principale viene dal fatto che popolazioni da sempre a dieta forzata di cereali, in assoluta prevalenza coltivati nel proprio campo, stanno mettendola nel piatto, non proprio quotidianamente ma quasi. Un esempio macro è la Cina, dove dai 20 kg pro capite l’anno di un paio di decenni addietro si è passati agli oltre 80 registrati alla fine della prima decade del nuovo millennio. Fenomeni su per giù specchiati si evidenziano in India, sulle sponde mediterranee dell’Africa e nei paesi del Sud America a più elevato tasso di sviluppo. In prospettiva pesa soprattutto la mancanza di terreni destinabili all’allevamento del bestiame. E pensare che fino a cent’anni fa ce n’erano a volontà per ragioni tanto evidenti quanto sottovalutate. Intanto eravamo meno della metà sul pianeta, di cementificazione neanche a parlarne, si contavano a centinaia le macchine sbuffanti nelle principali vie delle capitali occidentali e gli Stati Uniti non erano ancora la prima potenza industriale, economica e militare del mondo ma una terra promessa grazie alle praterie del West e alle opportunità di lavoro offerte agli emigrati. Allo stato oltre l’80% delle superfici produttive globali sono invece impegnate e, anche a voler sacrificare i residui polmoni verdi del pianeta, non ne verrebbe

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granché. Calice amaro pure sulla “fattoria mare” che ci sta voltando le spalle e ha ragioni da vendere nel farlo perché i vistosi cali registrati negli ultimi tempi nella produzione ittica si devono all’inquinamento massivo e allo stravolgimento di habitat marini, provocato dalla pesca di frodo senza regole. Un dato da la misura delle conseguenze di questo modo dissennato di rapportarsi con il mare e la sua biologia: più del 30% delle specie esistenti appena mezzo secolo fa si sono estinte mentre il continuo peggioramento delle condizioni indispensabili allo sviluppo delle biodiversità fanno da acceleratore al declino di specie contigue a quelle in via di sparizione.

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Pilastri in crisi: l’ambiente

Arrivano sul web pretesi scoop del tipo: “In Cina, India e Stati Uniti” (i tre più grandi produttori al mondo di cereali) “da tempo si assiste con preoccupazione ad un costante abbassamento delle falde acquifere”. “Ciò è dovuto”, spiega in modo allarmato la fonte, “ad un eccesso di prelievi con pompe diesel“. Notizie del genere - messe circolo con il vessillo della difesa dell’ambiente - sono fuorvianti nel senso che, per cogliere le dimensioni reali del problema, bisognerebbe parlare di ben altro. Ad esempio degli oltre 3 miliardi di persone che vivono nei bacini dei fiumi Gange, Indo, Brahmaputra, Yangtze, Mekong, Salween e Fiume Giallo. I ghiacciai della imponente catena montagnosa che ne alimentano i corsi danno vita al cosiddetto Sistema himalayano includente Afganistan, Bangladesh, Bhutan, parti considerevoli di Cina e India, Nepal, Birmania, Cambogia,Thailandia,Laos, Vietnam, Malesia e Pakistan. Il solo Gange, a dare un mini parametro, fornisce acqua potabile e per usi sia industriali che agricoli a territori popolati da oltre 500 milioni di esseri umani. Ebbene, entro vent’anni, se la temperatura media del pianeta continuerà a salire ai ritmi attuali, l’immenso bacino si ritroverà tappezzato a macchia di leopardo da zone desertiche sempre più estese. Ed è scontato che nella maggior parte degli altri alvei fluviali si presenteranno situazione pressoché analoghe. Con quali conseguenze? Altro che veder abbassarsi le

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falde acquifere a causa di antidiluviane pompe diesel!! Il primo a collegare allo sviluppo industriale l’aumento delle emissioni di gas serra nell’atmosfera fu il fisico Arrhenius all’inizio del 20mo secolo. Egli fece anche delle rozze stime, non allontanandosi di molto dal vero, sugli effetti che avrebbe avuto l’aumento della temperatura media del globo, dovuto a una molteplicità di concause con l’industrializzazione non rispettosa dell’ambiente in prima fila. A chiedersi cosa, da allora, si sia fatto per avviare una qualche soluzione, finalizzata quantomeno a contenere il fenomeno, la risposta che ne viene è poco nelle zone più critiche e assolutamente niente altrove. Allora cos’è tutto questo casino di proclami sulla difesa dell’ambiente, stilati nei salotti internazionali in cui periodicamente usano ritrovarsi i vertici degli 8/14/20 paesi più industrializzati, gli stessi – per intendersi – che sono i primi corresponsabili della dispersione nell’atmosfera dei gas serra in questione? Grandi annunci, dichiarazioni di guerra di no global e affini, costosissimi interventi di restyling nelle località ospitanti (ogni ospite tiene a fare la sua figura), migliaia di poliziotti in assetto anti sommossa e alla fine la firma solenne di un documento, limato alla virgola da stuoli di ghost writer, in cui i tagli con percentuali a due cifre delle emissioni sono rimandati alla riunione successiva, previa verifica di evenienze, concomitanze e varie disponibilità. Si tratta in sostanza di sceneggiate studiate e messe ogni volta in atto - attorno a un pezzo di carta - dalle

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delegazioni presenti all’unico scopo di rassicurare gli interessi domestici sul nulla di fatto che interverrà. Questo mentre l’ultima carta in ordine di tempo siglata solennemente chi se la ricorderà o avrà interesse a riproporne il criptico contenuto nella sopravveniente tornata, di nuovo tutta da sceneggiare? L’importante è che ad ogni appuntamento internazionale gli schieramenti siano visibilmente contrapposti: gli uni a porre l’accento sui rischi che correrà Gaia in assenza di interventi finalmente adeguati; gli altri a mostrare il viso dell’armi al minimo accenno a paletti che rallentino il trend espansivo nei loro territori, quali che siano le conseguenze sul piano ambientale. Ai media è infine affidata la spettacolarizzazione di tali parti in commedia, recitate su entrambi i fronti mentre si naviga a vista verso un approdo, l’ambiente risanato, che i troppi esperti gravitanti in scena non fanno certo fatica, con tali premesse, a giudicare lontano anni - luce dal tempo che rimarrà da vivere al più giovane tra loro. Sono parti in commedia anche quelle di una miriade di grandi e medie aziende che delocalizzano, con il tacito consenso e l’aiuto sotterraneo dei propri governi, perché dove ci si insedierà la manodopera costa meno e ha scarse tutele, i consumi sono in ripida salita e non ci si preoccupa minimamente di controlli ambientali. Agli antipodi de l d ichia ra to anche i traguardi che si propongono le popolazioni lì residenti, non toccate in precedenza dai benefit dello sviluppo. Adesso vedono le tv, leggono i giornali, sentono dai racconti degli emigrati, ritornati con sudati risparmi, che tanti uomini e donne

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uguali a loro vivono molto meglio in altri posti. Come pretendere che si neghino una analoga prospettiva in nome di un’aria un po’ più pulita, di meno anidride carbonica, di un abbassamento appena registrabile della temperatura media globale, quando del degrado odierno e delle conseguenze che ne derivano non hanno avuto e non hanno la benché minima responsabilità? Ecco perché le sceneggiate continueranno e la tutela dell’ambiente resterà un sogno da inseguire di rimando in rimando, finché non si realizzerà l’unica condizione per ribaltare in positivo la situazione: energia pulita a gogò per tutti e a bassissimo costo. Arriverà? Si, se la lasceranno arrivare.

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Pilastri in crisi: l’energia

Se in oltre i due terzi del pianeta la gente comune ha difficoltà a far quadrare il pranzo con la cena, se non c’è Stato al mondo che non abbia un debito stratosferico o galattico e se è pura follia pensare possa essere non azzerato ma ridimensionato prima di porlo a carico delle generazioni che verranno, se l’incertezza per l’immediato futuro è tale da ingenerare anche paure prive di senso; se accade tutto questo e molto altro, che è superfluo rimarcare in quanto contiguo al comune presente, allora sarebbe da augurarsi il tempo della formica e non quello della cicala pure in termini di sfruttamento e di utilizzo delle risorse energetiche. Invece non è così perché nel mondo quasi globalizzato continua a salire la febbre di watt e joule aggiuntivi, che rappresentano rispettivamente le unità di misura della potenza e dell’energia. Succede per motivi più che noti. La maggior parte delle persone vive in casoni che andrebbero rasi al suolo perché dentro vi si gela quando fuori è freddo e non si respira con il caldo. Per riequilibrare un po’ le cose serve quindi tanta energia. Inoltre ci si muove quasi esclusivamente all’interno di scatole di latta e plastica con quattro ruote che puzzano dagli scarichi, forse una forma di protesta delle foreste di un tempo che non ci stanno a rivedere la luce a quel modo. Certo, il controcanto è facile perché non c’è alternativa al chiudersi dentro quelle scatole maleodoranti per poi

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mettersi disciplinatamente in fila e raggiungere il posto di lavoro. O a disporsi sempre in fila, a date fisse, con la scusa di antiche ricorrenze ormai ridotte, per quanti se lo possono permettere, ad abbuffate di cibo con scambio regali. O a dirigersi, sempre in lunghe e strombazzanti file, verso arenili dove sdraiarsi non in fila indiana ma su più file parallele, con il mare più in là o molto più in là che si porta odori, sapori e colori di quanto di nostro ci si butta dentro. O al fare la fila allo skipass, in attesa di sfrecciare con un paio di sci sulla spianata posta quasi in prossimità della vetta imbiancata di una montagna dove l’aria è inquinata come o più del centro città appena lasciato. L’alternativa non c’è perché nel recente passato non la si è cercata con la necessaria continuità e oggi si frena più che si può – negli ambienti “responsabili”- a dare un taglio deciso all’utilizzo di risorse energetiche che non hanno futuro, sono costosissime e condizionano la vita di tutti i giorni della popolazione nel mondo intero. Eppure l’energia – pulita e teoricamente disponibile – è in ogni dove, con numeri potenzialmente stratosferici: 86000 Terawatt (1Tw = 1012 watt) dal Sole, 870 Tw dal vento, 32 dal calore che sale da sottoterra. Ce ne sarebbe d’avanzo – a mettersi d’impegno - per farsi sberleffi della miseria utilizzata quotidianamente con le complicazioni ed il degrado ben noti, se non ci fosse il costante, sotterraneo remar contro dei potentati economici, interessati all’attuale assetto che da un lato consente plusvalori giganti sulla commercializzazione

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soprattutto di petrolio e metano; dall’altro obbliga a costruire mega centrali (con finanziamenti conseguenti da parte dei governi coinvolti) per garantire l’energia che manca. Non deve quindi meravigliare se agroenergie, geotermia, energia idroelettrica, solare, marina ed eolica coprono appena l’11% del consumo energetico annuo a livello planetario: la miseria di 18 Tw! E ancora meno sorprende che - a colmare l’enorme gap - ci sia tuttora il fronte delle “sporche”, non rinnovabili e con riserve ridotte al lumicino. Il carbone (oltre la metà viene dall’Asia) contribuisce per il 25% alla copertura del fabbisogno annuale mentre la produzione attuale di petrolio è dell’ordine di 90 milioni di barili/giorno. Un barile ha una capacità di 159 litri (42 galloni), da cui si ricavano 55 litri di benzina più una serie di derivati. Ci si domanda in modo ricorrente: la risorsa petrolio sta per raggiungere il suo “picco”, oltre il quale la discesa nell’utilizzo e nella stessa reperibilità saranno repentine, o ce n’è praticamente per altri mille anni? La fiera degli esperti del ramo registra fans (magari non proprio disinteressati) per entrambe le previsioni. C’è infatti chi favoleggia che esistano nel ventre della Terra mostruose riserve di idrocarburi e basterebbe, per trovarli, scavare più in profondità; la maggioranza degli esperti per contro ne stima al più tardi entro il 2050 il definitivo esaurimento, con note aggiuntive dedicate agli sconvolgimenti politici ed economici che provocherà la sua uscita dal merca to , dominato per oltre un secolo.

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Governi e grande finanza resistono tuttora sulla ridotta della risorsa nucleare, malgrado i recenti disastri. Da tale fonte viene grosso modo il 20% dell’energia prodotta dai 450 reattori in funzione nel mondo. In costruzione o in procinto di esserlo ve ne erano almeno altri 200 prima dell’inversione di rotta del 2011. Il nucleare da fissione, malgrado sia visto tuttora con favore dai poteri forti per gli investimenti colossali che esige, non potrà comunque essere l’energia del futuro soprattutto per le conseguenze disastrose nel caso in cui gli impianti venissero coinvolti in calamità naturali; un aspetto da pollice verso al quale aggiungere i rischi insiti nella conservazione delle scorie radioattive, che restano tali per almeno10 mila anni. Non rappresentano una concreta alternativa - nel senso che nella migliore delle ipotesi darebbero un contributo non risolutivo - le biomasse che, nel caso di reimpianti non immediati (come regolarmente avviene nel terzo mondo), hanno l’aggravante di lasciarsi dietro deserti. Anche la prospettiva di trarre energia su vasta scala dalla fusione cosiddetta calda dell’atomo si allontana per due ordini di ragioni: - il permanere di qualche residuo dubbio sulle prove di laboratorio, anche recenti, dalle quali risulterebbe un aumento effettivo dell’energia prodotta rispetto a quella immessa; - i tempi di costruzione delle centrali in cui “contenere” temperature dell’ordine di milioni di kelvin e densità del plasma elevatissime.

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Servirebbero a tal fine investimenti tre/quattro volte superiori a quelli degli impianti a fissione anche se – una volta realizzati - non vi sarebbe rischio di fughe radioattive né il problema delle scorie. Discorso completamente diverso per la fusione fredda, caratterizzata cioè da pressioni e temperature di gran lunga inferiori. Venne alla ribalta mondiale, con relativo scatenamento dei media, quando i chimici Martin Fleischmann e Stanley Pons convocarono una conferenza stampa per annunciare che un elemento di platino e uno di palladio, immersi in una cella elettrolitica avente a base acqua pesante, erano in grado di produrre una considerevole quantità di energia termica in più di quella immessa, con rilascio di un raro isotopo dell’elio, spiegato come cenere della reazione lì avvenuta. Naturalmente dal giorno dopo in centinaia di laboratori fu un susseguirsi di tentativi di replicazione, andati però quasi tutti a vuoto. Nei mesi successivi per Fleischmann e Pons fu un’altalena di ovazioni e feroci critiche, finché dal MIT ( Massachusetts Institute of Technology) non arrivò la bocciatura senza appello, con grande e malcelato sollievo dei produttori delle energie tradizionali. Solo in anni molto recenti ai due, che non mancò molto venissero accusati di truffa, ha reso giustizia il capo dell’ufficio stampa dello stesso MIT: una volta andato in pensione, ha infatti ammesso l’alterazione all’epoca di alcuni fondamentali e positivi test “per non rubare scena e fondi al nucleare classico”. Sarà infine per la legge del contrappasso se sempre nel

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prestigioso Istituto si sia testata con successo, vent’anni dopo quel disonorevole episodio, una reazione nucleare a bassa energia (Lern) che sostanzialmente replica la loro. E non è la sola, di replica. In Italia in prima fila c’è l’E- Cat mentre quasi ogni giorno si allunga l’elenco degli impianti che i rispettivi ideatori dichiarano essere in grado di garantire l’auto sufficienza energetica senza cavi e relative bollette. Ricerca e sperimentazione si fermano qui ma quanto meno una segnalazione merita il mistero che si ha di fronte nello scollegare una qualsiasi bobina dalla sua batteria. Succede questo: finché il circuito del congegno è chiuso, la corrente passa regolarmente, generando un campo magnetico nella bobina medesima e nei suoi immediati dintorni; quando però viene aperto, tensione e corrente hanno un “enigmatico” picco prima di interrompersi. Sembra niente ma capire la ragione per cui si verifica porterebbe a disporre di fiumi di energia senza costi né fine. In conclusione quale sia la strada percorribile, su questo o su altri versanti, per arrivare all’agognato traguardo lo dirà al solito il futuro. Varrebbe veramente la pena esserci quel giorno, anche per bearsi fermi immagine ed eventuali commenti degli attuali gestori delle energie disponibili, sporche o quasi “pulite” che siano, di punto in bianco senza più l’otre magico da cui traggono illimitati guadagni. E dopo la soddisfazione di vederli non tanto vinti quanto

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finalmente fuori causa, annusare l’aria senza odore di combusto e godersi Gaia sgombra di fili e transenne che non le danno tregua, permettendosi di sfregiare il suo ed il nostro habitat. Per ora siamo qui a sperarlo il cambio di passo di questo vecchio, travagliato e discriminante mondo, tuttora schiavo di un atomo difficile da gestire, oltre che di petrolio e carbone inquinanti e calanti, con la quasi totalità degli esseri umani a preoccuparsi di quel che gli costano quattro ruote, luce e annessi.

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Mercato globale e debiti sovrani

Il mercato globale lo volevano due ismi: comunismo e liberalismo, anche se con prim’attori opposti. I debiti sovrani non li volevano entrambi ma il destino - cinico e baro - ha fatto in modo che le due ideologie si perdessero prima di vederli gonfiati dall’interfaccia del pensiero unico; un autentico sollazzo il suo sul quale sarà d’obbligo tornare dopo un omaggio agli ismi rimasti per strada, che proprio non meritavano lo sgarbo. Fu Marx ad aprire per primo alla globalizzazione. Lo fece dall’assunto per il quale filosofia e politica non potevano limitarsi a contemplare il mondo; dovevano invece esporre, fino ad imporle, le linee guida in virtù delle quali trasformarlo globalmente. A quella che Antonio Gramsci definirà “la filosofia della prassi”, il nostro giunse partendo da posizioni condivise con i giovani hegeliani, i quali radicalizzavano le tesi del maestro mantenendosi comunque nell’ambito di una critica teorica. Marx invece aveva preso conoscenza diretta di ciò che accadeva in fabbriche e miniere del primo Ottocento: i lavoratori avevano un compenso misero e variabile in funzione della quantità del lavoro svolto, dall’alba al tramonto, per sei giorni lavorativi la settimana. Rispetto a siffatte ”pratiche”, le posizioni ex cathedra servivano a ben poco; di qui l’appello a non limitarsi a commiserare la forza lavoro trattata a quel modo ma ad attivarsi per renderla consapevole del suo insostituibile apporto al progredire della specie, facendola crescere

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fino a pretendere la condivisione dei frutti del lavoro, da affrancare dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in un mondo non spezzettato da confini che frenano il divenire in ogni sua forma. Se è questo lo zoccolo duro del materialismo storico, anche l’antagonista, il liberalismo, nato e cresciuto nel pensiero occidentale, ha dai suoi inizi avuto l’idea fissa di poter un giorno operare in un mondo senza dazi e contingenti all’importazione, che avrebbe dovuto consacrarne l’insostituibile ruolo e in più legittimarlo in un contesto appunto globale e irreggimentato in niente, fatta eccezione per identità e regole di impresa e lavoro. Andrebbe letta tra le righe (ma non è la sede) la feroce e ormai superata contrapposizione tra le due tesi globali finché - a lungo inseguito - il libero mercato mondiale s’è fatto a modo suo e non è che ci vada leggero. Divora vecchi imperi industriali e ne disegna di nuovi - impiantati in prevalenza in territori con popolazioni che avevano fame di sviluppo e l’hanno trovato – crea linee super favorite per gli scambi commerciali, da le cadenze dei flussi e stabilisce le quotazioni delle materie prime; il tutto in ossequio alle scelte di 400 istituzioni finanziarie - l’interfaccia del pensiero unico - con una capacità di investimento diretto valutabile in più del 50% di quella in complesso disponibile, che finisce per condizionare pesantemente la quota residua. Poveri Karl Marx e liberal d’antan. Anonime serie di codici e cifre con un unico fine condiviso, in transito istantaneo nel web, fanno e disfano destini collettivi che

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hanno al loro interno vite da un giorno all’altro ferite o premiate senza uno straccio di perché. Si chiama grande finanza la regina pigliatutto di questo mercato fatto di input di acquisto/vendita trasferiti in tempo reale da Oriente a Occidente e viceversa, con puntate rapide o soste prolungate dove loro aggrada; mai per investimenti che portino a timbrare cartellini di entrata ed uscita da nuove fabbriche ma per ricavare un margine immediato di maggiore guadagno: siano quotazioni di Borsa o il grande mercato parallelo dei titoli di Stato, materia prima fondamentale di quei debiti sovrani da cui traggono un mare di soddisfazioni. Ora, sarà perché la “famigerata” li punta come vittime predilette dei suoi grandi affari, sarà perché questa predilezione li sovraccarica oltre il tollerabile, sarà perché molti Stati sono costretti a far debiti a valanga avendo sul groppone spese pubbliche esagerate e al tempo stesso incomprimibili, sarà per molto altro qui impossibile da dettagliare ma sta di fatto che i paesi un tempo sovrani non sono più tali, specie in certe aree del pianeta. A fine 2011, questi i numeri relativi al rapporto debito pubblico/Pil dei componenti il G7: Giappone 214.3%, Italia 120.2%, Usa 89.5%, Francia 86%, Canada 81.2%, Gran Bretagna 81.1%, Germania 79.8%. Il Fondo monetario è andato oltre con la previsione al 2014 della media di indebitamento (in percentuale sul Pil) dei paesi rappresentati nel G20, comprendente potenze economiche in ascesa come Cina,India,Brasile, Russia e Australia.

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Il dato che ne esce le condanna tutte e, con esse, il sistema in essere: 106% ! Tecnicamente falliti dal 2014? Si se la previsione si rivelasse corretta. Da più parti ci si azzarda anche ad indicare il primo in lista e c’è di che sobbalzare. Si tratterebbe non del paese – che in effetti ha ancora tante risorse inespresse – ma dell’impero Usa destinato, per l’azzardo in questione, a crollare come un castello di carte per le stesse ragioni che hanno causato il tracollo del suo antagonista negli anni ottanta: l’impossibilità di sopportarne i costi. Gli Usa sono tuttora un paese fenomenale: con il 5% della popolazione mondiale, formano oltre il 20% del Pil planetario ma spendono per la difesa e il mantenimento delle basi sparse sul globo quanto tutti gli altri paesi rappresentati in sede Onu. Per farlo riempiono di titoli del loro debito pubblico due terzi dei caveau utilizzati a tale titolo; in più operano da tempo alla stregua di una gigantesca banca d’affari, rastrellando depositi a breve termine da paesi in attivo per investirli in rischiosi prestiti a lungo termine a se stessi. Ma i miracoli umani, contrariamente a quelli divini, se non lasciano il segno alla fine presentano il conto, che nella fattispecie evidenzia una esposizione finanziaria quadruplicatasi dalla fine degli anni novanta. Altri fondamentali campanelli d’allarme: l’apporto diretto al Pil dell’industria statunitense arrivava al 25% negli anni settanta, era sceso al 12% nel 2007 e l’incidenza continua a calare, mentre i l risparmio interno copre quote ormai minoritarie del debito pubblico, a fronte di

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una crescita vistosa di quelle in possesso di Stati esteri, Cina su tutti. Che stia davvero per scivolare in un cassettino della storia la delega in bianco che la Casa Bianca, alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, si è auto concessa per porsi alla guida prima del mondo cosiddetto libero (in realtà con dentro di tutto un po’, dittature incluse) e quindi del mondo tout court? E fuori da quel cassetto che accadrà? In Occidente, ma pure in Estremo Oriente e da un po’ persino dove la crescita era a due cifre (e sta calando), i governi di ogni peso e colore si fanno notare per l’immobilismo. Sembrano in permanente stand by e si preoccupano di mascherarlo con un diluvio di incontri, tavole rotonde, summit dedicati a questo o quel falso problema, come se volessero sottrarsi anche a mettere all’ordine del giorno non le soluzioni ma l’esame comparato dei problemi veri. Viene il sospetto che siano - chi più chi meno ma per sfumature - in attesa di un qualche punto di svolta, di una concatenazione di eventi (non alla loro portata) in virtù dei quali si apra prima ai paesi amministrati e quindi al resto dell’umanità una prospettiva che oggi non vedono o non hanno il coraggio di indicare. Così finiscono per invocare (ma rivolgendosi a chi?) con diluvi di parole una globalizzazione che, sull’onda delle componenti “ricerca” e “nuove tecnologie”, porti alla magia di una “crescita” generalizzata in un quadro di ripresa forte e duratura di settori strategici ora in crisi, di contestuale copertura dei bisogni primari delle fasce disagiate, di rilancio dei consumi, di revisione ma non di

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ridimensionamento degli apparati, lasciando invariate – per carità - le logiche di sistema. Non meraviglia, davanti a tali miraggi, che tra la gente la paura del futuro si tagli a fette come mai prima, specie in aree dove la globalizzazione, in precedenza osannata, viene ora vissuta alla stregua di un pericolo mortale. Le diffuse situazioni di crisi che si registrano e le incertezze per il domani si teme possano portare alle conseguenze più gravi, anche considerando che i primi a esserne colpiti sono popoli per secoli convinti (dai loro governanti) di essere titolari inamovibili di una qualità di vita migliore di quella di altri popoli, non importa se sfruttati appositamente per garantirla loro. Non potrà più essere così. Quasi due miliardi e mezzo di indiani e cinesi sono da pochi anni entrati nell’economia globale con l’energia e l’ottimismo che da altre parti stanno venendo meno. Non solo sanno competere ma le loro imprese hanno gestioni alleggerite – come si è già notato - da costi di produzione decisamente inferiori per prodotti spesso di qualità equivalente; situazioni e risultati, questi, fino a ieri neppure immaginabili. E il trend proseguirà perché saranno sempre di più le attività imprenditoriali trasferite in tali aree nevralgiche o per dirla in chiaro, premianti per l’impresa grazie al costo del lavoro molto più basso ( riedizione globale degli sfruttamenti di marxiana memoria), a tasse ridotte, a pochi adempimenti burocratici ed a blande verifiche di funzionalità e sicurezza degli impianti.

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Come in un fabbricato il cedimento di una o più delle strutture portanti è evidenziato da fenditure n e t t e al centro di reticoli di crepe, così oggi la crisi dei consumi, pretesi in continua espansione, traccia il solco più profondo proprio là dove l’idea, e l’industria che l’ha messa in pratica, è nata e ha portato ad una plurisecolare crescita. Si può rimediare mantenendo principio e sistema? No perché non esistono più le condizioni che avevano reso possibile quel tipo di sviluppo. Lo si coglie visivamente il decadimento progressivo nei quotidiani spot televisivi su produzioni solo qualche decennio fa prese a simbolo di una superiore qualità del vivere e ora declassate a oggetti anonimi, standard per modalità di presentazione e contenuti delle offerte. E c’è di peggio. Da un passato pieno di contraddizioni e sprechi, legati a un’abbondanza che si riteneva non dovesse finire mai, sta venendo in scadenza un’enorme massa di debiti non procrastinabile oltre il 2014, lo stesso anno in cui si prevede il corale fallimento dei debiti pubblici degli Stati più potenti e ricchi al mondo. Di che si tratta è presto detto. Nel 2006/2007, prima della grande crisi finanziaria di cui nessuno sa indicare la fine, la liquidità scorreva abbondante e l’orizzonte appariva roseo, fatta salva qualche isolata e sottostimata previsione fosca. Le banche, in particolare quelle d’affari, erano al top dei top, autentiche protagoniste di un mercato che l’ avvio della globalizzazione stava facendo diventare, se non proprio unico, aperto alle più rosee prospettive.

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Mai registrate in precedenza emissioni così massicce e per lo più a lunga scadenza (2012/2014) di obbligazioni con rendimenti elevati ma profili di rating che alcuni, subito zittiti, si erano permessi di definire alquanto “nebulosi”. Il senno di poi darà loro ragione bollandole come junk bond, cioè spazzatura; eppure all’epoca se ne fece una autentica abbuffata. Con il sopravvenire della crisi, obbligazioni della stessa natura ma con scadenze più ravvicinate (2009/2010) – vennero “ristrutturate” a due/tre anni data, per cui si andranno a sommare alle precedenti. Verranno poi a scadere, sempre nel 2014, molti titoli con i quali le banche centrali di grandi paesi, Fed in testa, hanno dovuto per forza coprire nel 2008 e nel 2009 i buchi delle loro banche a causa dei titoli spazzatura che ne appesantivano i bilanci: 15 mila miliardi di dollari la cifra complessivamente uscita dalle sole casse Usa per la copertura dei disavanzi di diversi Istituti di credito di importanza fondamentale per la loro economia. Ma non sono solo le banche in crisi. Bisognerà anche tener conto di quella che è ritenuta la vera palla al piede dell’Occidente: la sua incapacità, per alcuni ormai strutturale, di progredire senza indebitarsi; tant’è che fino al 2010 sono stati rifinanziati 2300 miliardi di debito pubblico di Usa (1300), Germania (200), Francia (200), Gran Bretagna (200), Spagna (130), Italia (100); e va da sé che da qui al 2014 la massa debitoria da coprire con nuovi prestiti sarà molto più elevata. E anche a supporre che ci sarà liquidità sufficiente a

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rifinanziare i troppi titoli proposti sul mercato, è da presumere una maggiore cautela dei risparmiatori a reinvestire nelle situazioni più rischiose, anche se in presenza della promessa di lauti guadagni. In chiaro: salterà il banco? Ecco perché nella società globale, nel mercato globale, negli incontri dichiaratamente globali dei potenti della Terra al di là dei discorsi di facciata l’atmosfera è cupa, da ultimo atto. Si è coscienti che il pensiero unico va in malora con l’economia che ne è figlia e un interrogativo fisso incombe da dietro le rispettive quinte sulla data dell’epocale frittata e su quali paesi si troveranno con il cerino in mano. Meglio non avere la palla di vetro per vedere come finirà tra barlumi di contestazione di segno opposto che negli ultimi tempi hanno mostrato tutta la loro chiassosa irrilevanza. L’unica certezza è che ce ne vorrà di tempo perché la burrasca passi e ci si ritrovi a navigare in un mare limpido, con le esigenze del sociale portate in cresta dall’onda lunga di un’economia con il vento a favore. Ma non sarà lo stesso mare.

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C’era una volta la società scolarizzata

Anno 2040. Hanno dai due ai tre anni e escono vociando – a gruppetti di 15/20, ciascuno con due adulti al seguito - da una palazzina a più piani con piloni che assomigliano vagamente al cemento e pareti richiamanti le odierne vetrate a diversa opacità. In realtà si tratta di varianti dello stesso prodotto di laboratorio, ma questo è un dettaglio rispetto a quello che segue. Si perché, sempre a prima vista, sembrerebbe un asilo se non fosse che in quel futuro non ne esisteranno più come li intendiamo. Oggi a noi - che pure non ci preoccupiamo minimamente di quanto avranno di pensione i nostri figli e nipoti, né ci facciamo il minimo scrupolo a caricare sulle loro teste debiti per decine di migliaia di dollari/euro/yen – viene come un sussulto di dignità offesa a pensare di privare gli angioletti delle cantilene imperanti nel loro primo approccio alla scolarità. Eppure oltre mezzo secolo fa c’era chi aveva previsto la rivoluzione della didattica. Anno 1960. “A scuola gli studenti si sottomettono a dei diplomati per ottenere a loro volta dei diplomi. “Se sollecitate, le persone ammettono di aver imparato ciò che sanno più fuori che dentro la scuola. E’concepibile una maniera diversa di apprendere, la creazione di un nuovo tipo di rapporto educativo tra l’uomo e il suo ambiente”? Ai nostri padri di sicuro è sfuggito questo argomentare, altrimenti sai che reazione sdegnata. Eppure Ivan Illich

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non solo si chiedeva al tempo tutto ciò ma individuava in nuove reti, fatte in modo da assicurare a tutti eguali possibilità di apprendere e di insegnare, uno dei fondamentali traini per il superamento della società scolarizzata. Annotava in proposito: “L’individuo è portato a vedere il mondo come una piramide di prodotti confezionati in anticipo e riservati a quanti siano in possesso del prescritto scontrino”. Aggiungeva poi ( e all’epoca il concetto venne sanzionato come provocazione nella provocazione) che, se le finalità dell’insegnamento non fossero state determinate dalle scuole e dagli insegnanti, si sarebbe esteso a dismisura il materiale didattico. Vedeva giusto sia con riguardo agli “scontrini” sia al materiale didattico perché è innegabile che ancora oggi ci si muova in un intrico di istituzioni, culturali in senso lato e scolastiche, che hanno per tratto comune l’isolamento dal contesto; il che comprime la diffusione scritta e parlata del pensiero. Solo i bambini vivono in una specie di zona franca perché riescono ad entrare in contatto diretto con ciò che li circonda e ad interagirvi. La loro mente è infatti cablata per capire il mondo com’è e non nel modo in cui, crescendo, lo si teorizza. Questa facoltà straordinaria della primissima infanzia andrebbe “coltivata” e invece non si fa nulla aspettando – tra un giochino insulso e l’altro – il brutto giorno in cui arriva immancabile E adesso ascolta e impara.

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Addio cablaggio globale e capacità piena e libera di essere e sentirsi in unità indivisa con l’universo di emozioni, di cose, di affetti circostante: una unicità, beninteso, che non è fine a se stessa ma stimola in modo irripetibile ogni millesima frazione di un cervello che non ha ancora sospeso nessuna delle sue potenziali (e tuttora incognite) capacità. Cosa succederebbe se in quegli anni attualmente persi gruppi di bambini – i quali relazionano spontaneamente tra loro - fossero lasciati a tu per tu con cartoni animati, voci, immagini di persone riprese mentre dialogano su aspetti di un quotidiano a loro familiare in una lingua diversa da quella di mamma e papà? E se – in parallelo – non simpatiche maestrine ma veri specialisti stimolassero le loro capacità mnemoniche e di apprendimento in quella che senza ombra di dubbio è la stagione più fertile dell’esistenza? Succederebbe quello che nel 2040 sapranno molto bene, per cui niente più cantilene negli asili ma veri e propri programmi finalizzati a renderli – rispetto alle nuove generazioni in corso – incomparabilmente più dotati, più aperti all’innovazione (una qualità essenziale, data la velocità con cui cambieranno tecniche, situazioni e condizioni), più consapevoli dei propri attributi. Tornando alle provocazioni geniali di Illich e buttando l’occhio al futuro immediato, bisognerebbe rendersi conto che non è di la da venire ma è arrivato il momento di tenersi il grembiule per la vita, in cui continuare ad apprendere in modo personalizzato e condiviso a più voci.

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E’ tempo insomma di saltare a pié pari ciò che offre una scuola r i t e n u t a depositaria della conoscenza, con insegnanti obbligati ad allettare o costringere i discenti a trovare scansioni di tempo in cui imparare ciò che si ritiene debba servire loro per il futuro. Pure i tradizionalisti ante litteram sono ormai costretti a ammettere che laptop e mediateca stanno radicalmente cambiando il contesto in cui ha regnato per secoli il principio guida della scolarizzazione delle masse: una linea di produzione di conoscenze già predisposte, quindi fatalmente non al passo con i tempi, da imporre come materie esclusive di studio con una prima fase, una successiva e ulteriori scalini in funzione degli specifici traguardi da conseguire. Questo perché ora giovani e non più giovani dispongono di un tool attraverso il quale imparare, comunicare, rilassarsi e divertirsi; il tutto in momenti diversificati ma non scissi gli uni dagli altri. Dunque non qualcosa ma molto si muove nel senso e nella prospettiva del visionario dell’altro secolo. Le stesse lezioni “istituzionali” includono sempre più compiti basati su progetti e persino i classici banchi sono sistemati in funzione delle analisi da effettuare. Il docente ha dismesso il ruolo di interlocutore unico del sapere grazie agli addendi tecnologici che consentono di acquisire molte più nozioni con personali programmi di ricerca interloquendo con quanti indagano il medesimo filone di conoscenze, nei luoghi più diversi e magari per finalità di tutt’altro genere. Siamo, per dirla in sintesi, a mezzo di una rivoluzione

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della didattica della quale si fa finta di non accorgersi; ma la rivoluzione è in atto ed è destinata a incidere sul cosa, sul come e sul quando apprendere. Ne discende che c’era una volta – appunto - la società scolarizzata, all’interno della quale ci si preparava alla vita adulta con pacchetti variamente articolati di nozioni e temi preconfezionati, conclusi con l’ufficialità di un pezzo di carta palesemente anacronistico per il semplice motivo che ha perso la sua funzione di passpartout. Perciò anche a non dirlo il salto c’è: da un predefinito mix di esperienze, frutto di analisi e prove codificate in spazi e tempi sempre meno relazionabili al presente, si è passati a conoscenze da acquisire in modo permanente attraverso la multimedialità in cui si veicolano scelte, opzioni, analisi e si sviluppano processi formativi; il tutto completamente al di fuori degli ambiti chiusi della cultura ancient regime e della scolarità classica. Senza dire che su tali autostrade assolutamente aperte le conoscenze si possono arricchire ad una velocità che non teme confronti. Ecco perché l’apprendimento non potrà più concentrarsi nella prima fase dell’esistenza ma occorrerà gestire in continuità l’informazione, trasformarla in competenza e sperimentarla in contesti di complessità crescente, in evoluzione accelerata e fruibile sia faccia a faccia che a distanza. Con le reti telematiche e informatiche sono già realtà l’assistenza tutoriale e l’utilizzazione di satelliti e reti come fossero delle strade per veicolare all’utente lezioni, mix multimedia,sistemi di autovalutazione, banche dati.

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L’ambiente educativo tradizionale è perciò in via di sostanziale rimozione, malgrado le resistenze infinite a spostare una piega dell’esistente per ragioni facilmente intuibili. Per quanto tempo sarà però possibile un atteggiamento siffatto? I modelli sincronici e diacronici operano ormai a tutto campo: nel primo caso per seguire da casa o dal posto di lavoro – in diretta – le lezioni quotidianamente svolte in sedi qualificate come “fonti” della formazione, con interazione in tempo reale docente/studente; nel secondo per ricevere e registrare le lezioni d’interesse, con annessi eventuali prodotti multimediali, insieme a testi e software didattici, suscettibili a loro volta di approfondimenti attraverso progressioni personalizzate. Il futuro, che inizia sempre prima di accorgersene, ha introdotto di fatto in parallelo alle strutture in essere la classe virtuale in cui non solo riprodurre attività di insegnamento e apprendimento ma anche incrementare le informazioni, attivando una molteplicità di legami tra soggetti con esperienze derivate da ambienti formativi eterogenei. Stanno radicalmente evolvendo pure figura e ruolo dell’insegnante: non più docente che istruisce la platea dei discenti ma una delle loro guide sulla scena del sapere; esecutore e interprete - lui per primo - di un brogliaccio da tenere costantemente aggiornato, anche recependo l’indotto dal confronto con gli interlocutori in spazi e tempi sovrapponibili e intercambiabili.

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Senza ismi

Astratto collettivo, fazione, sistema dottrinario: sono i tre significati dati da Giovanni Flechia, linguista, al suffisso ismo al suo primo approccio, nel lontano Ottocento, nei moderni idiomi. Da lì in poi non ci ha messo molto ad appuntarsi in coda a tante parole dell’intero vocabolario plurilingue. Con una connotazione di base: non consente chiavi di lettura diversificate al concetto al quale si lega, che inquadra in una logica di per sé totalizzante. Dall’ideologia - marxismo, liberalismo, fascismo – alla economia - consumismo, capitalismo, libero scambismo - al pensare laico, all’arte pittorica e a tanto altro che ci è familiare, l’ismo impedisce di fatto all’espressione a cui si aggancia di adeguarsi alla poliedricità delle situazioni in essere, proprio per volerle definire senza possibilità di appello. Questa sua rigidità – tanto connaturata quanto insistita – non ha giovato alle tesi, alle mode, ai programmi che lo hanno messo in campo. Con il risultato che – ad una affermazione iniziale, spesso sull’onda di parole guida - è immancabilmente seguito l’invecchiamento precoce o la messa in un canto al primo affacciarsi di un ismo neanche alternativo ma concorrente. Malgrado gli handicap congeniti, bisogna riconoscere che la catena degli ismi ha non solo moltiplicato i suoi anelli ma avuto ruoli di primo piano, in particolare in politica, nello spicchio di pianeta dal quale, negli ultimi due secoli, si è governato il resto.

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Ora non è più così anche se,specie l ad d ov e s i mira più che a convincere a suggestionare dividendo, c’è chi si ostina a richiamare l’uno o l’altro di quelli che ebbero più fortuna, nella speranza di far scattare nell’uditorio diretto l’applauso e di suscitare in quello indotto dai media reazioni del pari coinvolgenti. Talvolta può ancora succedere ma se avviene è per un riflesso condizionato, un omaggio irrituale alla bandiera di una volta. E’ acclarato infatti che la “matrice” non riesce più a trarne forza dirimente o capacità persuasiva c o m e 50 o 60 anni fa, quando bastava appiccicarlo all’ultima idea che fosse per avere una ribalta e provocare una scia di seguaci di questo o quel partito, di questo o quel pennello, di questa o quella teoria economica. Quante se ne sono raccontate appellandosi alla sua magia, perché di magia doveva trattarsi non essendo altrimenti spiegabile come un modo personale e talvolta geniale di proporre luci e colori in un quadro potesse portare alla fondazione di una scuola di pensiero su come dipingere, giudicata da certuni migliore o più avanti di altre; o un teorema politico – necessariamente agganciato ad una cultura dominante o emergente e in ogni caso a contingenze date – assurgere a via maestra di cambiamenti epocali buoni per la collettività intera, compresi gli acerrimi oppositori impegnati a loro volta a dimostrare l’esatto contrario. Anche qui si fa semplicemente finta di non accorgersene ma è come se fossero stati tumulati. Semmai non si sa chi abbia messo l’ultima pietra di

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quel tumulo e se, facendolo, si sia posto l’encomiabile obiettivo finale. Sta di fatto che ormai gli ismi sono sottoterra e così sia.

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Con Gesù e Buddha

Gesù e Buddha si sono finalmente liberati dei rituali in cui li avevano costretti, fino a soffocarli, da millenni e se dio vuole circolano senza quei fardelli sulle strade della vita percorse da ciascuno. Così i nudi pensieri di questi personaggi straordinari possono – in diretta personale ed esclusiva – venire in soccorso di ogni persona, che abbia perso fiducia in se stessa o non si ritrovi in quello che fa. Con quali effetti, ci si chiederà? Uno su tutti: sentirsi o risentirsi demiurghi del proprio destino e vivere il quotidiano senza il concorso di demiurghi supplenti comunque protocollati. L’insegnamento che hanno lasciato, da umani a umani, aiuta poi a procedere lungo il proprio personale asse non più costretto e sovente soffocato da presunte vie maestre predefinite, scorciatoie o agganci privilegiati di alcun tipo. Al cuore del messaggio dell’ebreo finito (forse) crocifisso c’è infatti la persona: insieme irripetibile di aspirazioni ed emozioni attraverso le quali definire il rapporto con il proprio essere e il mistero che lo governa. 500 anni prima, l’Altissimo aveva anticipato la stessa linea guida nella sintesi mirabile del suo estremo lascito all’umanità, racchiuso nelle parole rivolte a quanti lo attorniavano negli ultimi istanti di vita. “Tutti voi siete il Buddha”, avrebbe detto il nostro. Sia vero o no, non sposta perché non c’è differenza, nel suo pensiero, tra gli insiemi che viaggiano - in parallelo alla

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realtà fisica – nei rispettivi infiniti interiori orfani di preti, guru, autorità supreme decidenti cosa sia giusto o sbagliato, o di fonti esterne alle quali attribuire colpe o da implorare per chissà cosa. Nessuna prescrizione/comandamento, salvo l’adoperarsi per un contatto/approdo permanente con l’immutabile e l’indefinibile di cui, nell’apparente divenire, si percepisce la presenza vuoi nella mente, vuoi nel cuore. Riferimenti invarianti mente/cuore non avendo il tempio di Gesù, di Buddha e di ciascuno di noi uno spazio e un tempo in cui limitarsi.

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Disuguaglianze allo specchio

Il relazionarsi nella comune, grande casa virtuale sta mettendo anche più a nudo, se possibile, i nervi scoperti di larghissime fette di umanità, più che mai alle prese con l’handicap congenito, il vero tallone d’Achille di una civiltà cresciuta zoppa anche e soprattutto per questa causa. Ha un nome tale handicap: le disuguaglianze. Dai tempi biblici sono declinate al plurale per essere tante e a v e r s e g m e n t a t o dall’inizio persone e assetti sociali in modo sovente intollerabile. “E’ il solito mondo”, si obietterà per darci un taglio. No che non è lo stesso! Adesso è miniaturizzato su miliardi di display in cui si vede tutto, si è al corrente di tutto e i confronti si fanno in continuazione su tutto. E’ fatale quindi che le disuguaglianze più stridenti – proprio per essere sfacciatamente visibili - ingenerino, molto più che in passato, irrefrenabili impulsi a mettere in discussione i concetti fondanti di una civiltà nella quale non solo ciò è stato ed è permesso ma viene orgogliosamente esibito. Un paio di dati macro fotografano l’entità e la portata per così dire globali delle disuguaglianze in discorso: oltre il 90% della popolazione mondiale vive con un po’ meno delle risorse economiche del residuo 8/9%, a sua volta scomponibile in 4/5 sottogruppi con capacità di guadagno e di spesa a salire, fino ai nababbi blindati in énclave dove si passa il tempo tra sperperi faraonici o a ritoccare e truccare secondo le proprie voglie la

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natura per farne paradisi artefatti. A dirla intera si fa persino di peggio esibendo quegli oltraggi al senso della misura davanti agli occhi di quanti vivono in tutt’altre condizioni. Questo grazie ai media che, con squillanti esclusive, arrivano a paragonarli al mitico Eden, quasi avessero qualcosa in comune con il favoloso anticipo (ove mai ci fosse stato) in cui non esistevano sostanziali differenze nei fronzoli con cui si accompagnava l’esistenza e di conseguenza non c’era motivo alcuno di farsi vanto di quelli personalmente gestiti o di blindare alcunché.

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____________________Terza parte_______________

Paure e speranze di mezzo

Apocalisse: bufale e rischi latenti

Ufo: le evidenze Glifi in un campo di grano

Un Dna in mutazione?

Una pesante autocritica

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L’apocalisse: bufale e rischi latenti

C’eravamo dati l’ennesima scadenza, con tanto di mese e giorno: 21 dicembre 2012. Avrebbe dovuto segnare il punto di svolta, atteso sotto traccia tra gente che non t’immagini, con annesso carico di paure legate alla prospettiva di venire cancellati dalla faccia della Terra. E invece è stata una sera come tante. A memoria storica, solo a fine anno 1000 la bufala fu analoga. Allora c’era il timore del “mille e non più di mille” a far tremare le vene e i polsi a una parte molto piccola, scarsamente istruita e molto peggio informata della popolazione mondiale. Si era nella ridotta di un’Europa inselvatichita da secoli di barbarie, tanto che non ci sono cronache dettagliate in merito ma sicuramente nei castelli, nei borghi e nei monasteri quel 1o gennaio 1001 devono aver tirato un grosso sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Pure i mancati profeti di sventura uscirono indenni dall’aver male interpretato un semplice detto, non si sa neppure da chi coniato. Da notare invece che lo sballo contemporaneo non è dipeso da un altro detto ma dalla fine di uno dei tre conteggi del tempo da parte di un popolo che aveva conoscenze astronomiche di assoluto livello. Si tratta, è arcinoto, dei maya che ai calendari religioso e solare aggiungevano l’incriminato di “ lungo computo”, in scadenza appunto il 21 dicembre 2012. Il bello è che non se ne sa nulla di tale calendario, a cominciare dal perché fosse di ben 5129 anni e di cosa

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avesse di speciale l’11 agosto del 3114 a.C. vale a dire il primo dei suoi giorni. La “buca” manifesta non può peraltro far sottovalutare i pericoli che corre la Terra per essere relativamente vicina sia al Sole che alla fascia di asteroidi gravitanti tra Marte e Giove. In particolare la luce che ci dona la vita si porta dietro i solar flares, immani esplosioni che si verificano sulla corona solare dilatando plasma a temperature di decine di milioni di gradi Kelvins a enormi distanze. Il più delle volte i filamenti incandescenti (lo spettacolo è indimenticabile a osservarlo dal vivo in un osservatorio astronomico) ricadono nella nativa fornace; cosa che non è pacifico succeda in presenza di eccezionali fiammate - i mega flares - in grado potenzialmente di scaricare su pianeti vicini terrificanti ondate distruttive. Nel 1989 un flare appena più potente di quelli che provocano aurore boreali e australi, sfiorò parte del Nord America in condizioni meteorologiche molto particolari. Era notte e per qualche minuto il cielo venne coperto da filamenti rosso fuoco. Ma non fu soltanto uno spettacolo: bruciarono linee elettriche, saltarono reti di connessione e in vastissime aree fu black out totale. Per dire che basta poco a far andare in tilt una civiltà industriale per i delicatissimi snodi dai quali dipende la sua efficienza. Per far danni inestimabili all’agricoltura ci vuole anche meno. Cent’anni fa un’eruzione vulcanica, più forte della media di quelle che si alternano nell’arcipelago delle Filippine, abbassò di un paio di gradi la temperatura

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nella fascia sub equatoriale per decenni, provocando un drastico calo delle produzioni agricole non solo in aree limitrofe. Altro rischio da non sottovalutare: sono 170 i crateri da impatto accerta ti sulla Terra. Il più grande è in Arizona; l’ultimo – che avrebbe formato un lago per una equipe italiana - è avvenuto il 30 giugno 1908 in una regione disabitata della Siberia centrale, nei pressi del fiume Tunguska. Le cronache dell’epoca raccontano di un’onda d’urto – seguita all’esplosione a mezz’aria o all’impatto – che si calcola abbia abbattuto 80 milioni di alberi in un raggio di 2000 chilometri quadrati e rischiato di far deragliare la Transiberiana a 600 chilometri dall’evento, mentre a Londra si fece giorno in piena notte per alcuni minuti. Non si è ancora potuto accertare in via definitiva se a provocare l’evento sia stata una piccola cometa, esplosa a 5/6 chilometri di altezza, o un asteroide di dimensioni modeste che, schiantandosi, abbia creato l’invaso di cui sopra. Se la terrificante folata si fosse abbattuta su un’area densamente popolata, non saremmo forse qui a parlare della più grande tragedia dell’umanità in epoca storica? Quando la storia nessuno poteva scriverla, 65 milioni di anni fa, un asteroide di medie dimensioni (10 chilometri di diametro) impattò la punta estrema della penisola dello Yucatan. La sua potenza esplosiva fu mille volte superiore a quella dell’intero arsenale atomico: scavò un cratere del diametro di 180 chilometri, sollevò una nube di

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polvere che impedì ai raggi solari di raggiungere la superficie per anni ed anni, fece strage in poche ore di almeno i 2/3 delle specie viventi. Sicuri che non è più successo? Cosa allora ha pietrificato le sabbie del deserto del Sahara per migliaia di chilometri quadrati tra Egitto e Sudan? Gli stessi astrofisici ammettono che ogni mezzo milione di anni la Terra corre il serio rischio di venire “toccata” da un corpo celeste vagante nella cosiddetta fascia degli asteroidi. Facendo i debiti scongiuri, se un sasso grande come un campo di calcio ci venisse addosso da lì, provocherebbe un devastante salto all’ indietro della qualità della vita per i superstiti. Potrebbe anche causare lo spostamento dell’asse terrestre ed è probabile ci fossimo l’ultima volta che accadde. In Egitto,sul soffitto della tomba di Senmut, architetto della regina Hatsepsut (i due si erano legati in segreto per la vita)sono riportate due carte celesti: una con i punti cardinali disposti come sono oggi, l’altra con l’Est a sinistra e l’Ovest a destra; il che porta a concludere senza eccessivo azzardo che gli esseri umani abbiano o vissuto o avuto testimonianze certe di un tempo in cui la Terra si era capovolta. Per gli scienziati le avvisaglie di un prossimo, rilevante spostamento dei poli magnetici ci sono tutte. Con quali effetti? Impossibile quantificarlo. L’ultima inversione v iene fa t ta r i sa l i re a mezzo milione di anni fa per la magnetizzazione in senso opposto a quello

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attuale delle rocce basaltiche proiettate in superficie nel corso di eruzioni vulcaniche di epoche antecedenti. Sempre a proposito di rischi incombenti, c’è infine da tener presente quello che viene dal percorso seguito dalla Terra all’interno della galassia, lungo il quale i pericoli di impatto con asteroidi e comete possono o diminuire o accentuarsi. Al momento è la seconda prospettiva a tenere banco non solo a stare a Graham Hancock, che affronta il tema in uno dei suoi libri più letti e apprezzati, “L’enigma di Marte”, di cui segue uno stralcio. “Il Sole completa l’orbita attorno al nucleo galattico in circa 250 milioni di anni. Il suo “peregrinare” - simile al movimento dei cavalli da giostra o al modo di nuotare di un delfino – lo porta periodicamente (ogni 30 milioni di anni,ndr) a “risalire” il piano centrale della galassia, per poi “nuotarvi” in mezzo ed “emergere” al di sotto. “ In questo suo corso senza fine - con la Nube di Oort, la Fascia di Kuiper (aree del sistema solare con asteroidi, ndr), Marte, la Terra e gli altri pianeti – ha due incontri a rischio proprio nella zona piatta, dove la maggior parte del materiale cosmico libero tende a gravitare: le Braccia spirali e le Nubi molecolari giganti. “Le prime – considerate nursery di comete interstellari, di cui favoriscono l’aggregazione grazie ai gas molto caldi che vi si condensano – contengono materiali in tutte le forme possibili: dal gas etereo ai granelli di polvere, a oggetti grandi come la Luna. “Le Gigantic Molecular Clouds hanno un diametro medio di cento anni luce e una massa almeno mezzo milione di

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volte quella del Sole. “L’attraversamento della GMC ha effetti profondamente destabilizzanti sulla Nube di Oort: strappa via lo strato esterno dell’involucro di molte delle comete lì stazionanti, mentre le sue immense onde gravitazionali ne spingono altre a varcare i confini del sistema planetario. “Di queste, alcune entrano nella Fascia di Kuiper, una specie di limbo in cui possono rimanere milioni di anni prima di ricadere verso il centro; altre sono direttamente fagocitate da uno dei grandi pianeti, che le proiettano su quelli interni. “Il passaggio in un Braccio spirale ha effetti altrettanto sconvolgenti perché la Nube di Oort si arricchisce di nuove comete interstellari e di corpi solidi cresciuti nel Braccio medesimo e le masse subentrate forzano molte comete fuori dalla Nube. Univoca la direzione di questo potenziale d’impatto terrificante: i pianeti interni, investiti da ondate distruttive che possono prolungarsi (ogni volta) per migliaia di anni. “L’estinzione dei dinosauri fu provocata da una cometa gigante che - precipitata nel sistema solare interno – si avvicinò a Giove quel tanto che bastava per essere ridotta in mille pezzi. Dopo ripetuti incroci in un arco di tempo breve (100.000 anni), un frammento del corpo celeste impattò la Terra. “Un episodio non isolato perché, negli ultimi 100 milioni di anni, estinzioni di massa non altrimenti spiegabili sono avvenute 94.5, 65 e 36.9 milioni di anni fa. Sono pertanto tutt’altro che degli sprovveduti quanti – avendone le disponibilità finanziarie - si sono preparati

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e si preparano senza chiasso ad un per ora ipotetico disastro planetario costruendosi rifugi a prova sia di atomica che di asteroide. Non sono da meno governi e vertici militari delle super potenze che hanno posto e pongono molta cura nella realizzazione di strutture ultra protette in cui rifugiarsi in caso di necessità. Al resto dell’umanità rimane la magra consolazione che non solo tali élite sopravviveranno alla temuta catastrofe planetaria. In caveau in cemento armato realizzati nel permafrost delle Isole Svalbard, in Norvegia, sono immagazzinate 4,5 milioni di sementi appartenenti a tre milioni di specie vegetali. A chi, tra i non privilegiati di cui sopra, fosse (dopo) nei pressi sarebbe pertanto assicurata una ricca e varia alimentazione vegetariana.

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Ufo: le evidenze

Prima evidenza Non siamo soli nell’universo e chi si ostina a pensare il contrario presume troppo di sé. Seconda evidenza Non lo siamo neppure a casa nostra, dato il via vai di presenze parallele tra cielo e terra alla portata di un qualsiasi telefonino munito di telecamera. Terza evidenza Tali presenze non si presentano come imporrebbero le regole della diplomazia per la semplice ragione che vivono in un creato multidimensionale e viaggiano nel tempo per cui l’interesse per ciò che siamo e rappresentiamo è ai minimi termini. Quarta evidenza I governi non sanno più cosa inventarsi nel tentativo, sempre più goffo, di smentire ciò che non è oggettivamente smentibile: la loro presenza “parallela”. In conversazioni tenute riservate giustificano la cosa con la preoccupazione che i suddetti soggetti possano avere intenzioni aggressive e non si vuole creare panico. A parte il fatto che il silenzio sul tema non ci difende, è una balla colossale e del tutto ingiustificata: con tante conoscenze e capacità in più, della aggressività come la intendiamo e pratichiamo il loro Dna non può non aver perso ogni traccia. Viene un paragone grossolano noi/loro: è un po’ come se incontrassimo per strada un ominoide, restato tale negli ultimi 5/6 milioni di anni. Staremmo forse lì a sfidarlo o lo porteremmo, dopo averlo anestetizzato, in un laboratorio di analisi per riscoprire dal vivo tutti i dettagli di come eravamo? La quinta evidenza necessita di una presentazione più

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articolata. Se – poniamo - una bella mattina un’enorme astronave si posizionasse appena qualche decina di metri sopra il grattacielo più alto di Central Park, in una New York appena sveglia, nel primo pomeriggio il mondo sarebbe lo stesso o il meglio della spiritualità, della cultura, della scienza, della politica, dell’economia verrebbe svilito, se non schiacciato, dall ’outing di una realtà avanzata in misura incomparabile che si conceda ad un fermo immagine? Mi pare di sentirli gli ufologi replicare affannati e più o meno in coro: “Che bisogno c’è di spettacolari atterraggi visto che le prove ci sono, anzi abbondano”? E giù a snocciolarle: piloti con decenni di esperienza di volo che dichiarano sotto giuramento di aver avvistato degli Ufo; video di Ufo che disegnano nei cieli traiettorie impossibili per qualsiasi veicolo terrestre; riprese Nasa e registrazioni dei dialoghi di astronauti a tu per tu con lumie varie. Si riporterà appresso la più celebre di queste ultime ma la questione vera non è sulle prove bensì sulle reazioni che un’ammissione esplicita e incontrovertibile di tali presenze provocherebbe nell’opinione pubblica su tutto il pianeta. D’altra parte, se i vertici degli Stati più rappresentativi si destreggiano da decenni tra silenzi pieni di imbarazzo e secche smentite, fatte talvolta sull’onda dell’ultimo falso confezionato allo scopo, dovrebbe venire il sospetto che si tratti di un’ambiguità in certo qual modo imposta, per dirla in politichese, dal “contesto”.

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Dunque non si dice ma si sa: sono da sempre nell’altra stanza e socchiudono – a loro piacimento - la porticina che ci separa, se ritengono di entrare a casa nostra, che poi non è solo nostra. Eccola l’evidenza finale. Ciò posto, la cosa che al presente stuzzica scienziati e vertici militari in particolare è come facciano a coprire immense distanze cosmiche in tempi ragionevoli. Pianeti sui quali sia possibile la vita li scopriremo a breve ma si tratterà comunque di realtà che distano centinaia se non migliaia di anni luce da noi. Per darsi una spiegazione verrebbe di primo acchito da pensare che siano in grado di viaggiare nello spazio a velocità superiori a quella della luce, se non fosse che la maggioranza dei fisici lo esclude. Restano perciò gli warmholes: tunnel spazio/temporali funzionanti come “scorciatoie”, in quanto si ritiene che al loro interno il tempo si dovrebbe quasi fermare. Di conseguenza i galattici (fatto salvo che non siano dei robot) ne uscirebbero vecchi di qualche mese dalla partenza mentre nei pianeti di destinazione sarebbero nel frattempo trascorse ere su ere. Ecco un’altra ragione della difficoltà del rapporto. Molti si chiedono anche cosa si nasconda dentro quei punti luce che vorticano in cielo; sono talmente piccoli da far presumere che possano contenere al loro interno solo mini equipaggi formato pedina. Il sospetto è che riescano non solo a deviare gli impulsi radar ma anche ad impedire agli occasionali testimoni di accorgersi delle grandi e silenti astronavi che scorrono maestose sopra le loro teste fisse su quei punti luce,

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minimi riflessi rientranti nello spettro visibile ad occhi umani. Per dirne un’altra, si sa che i loro dischi o “sigari” non volano ma fluttuano su “isole antigravitazionali” nello spazio. A riprova del fatto che vorremmo tanto poterli imitare, in laboratori segretissimi di diversi paesi è in atto la corsa, senza esclusione di colpi, a chi realizza un prototipo con prestazioni almeno vagamente similari. Si vive così l’eterna vigilia aliena, tra ufologi che alzano continuamente il tiro e governi che fanno, per le ragioni evidenziate, orecchi da mercante. Due “perle” di un’attesa destinata a rimanere tale. La prima è rappresentata dal testo del concitato dialogo tra la navicella guidata dallo scomparso Neil Armstrong e la base Nasa quarant’anni fa: Nasa: Cosa c’è? Neil Armstrong: “Ci sono quei cosi. Sono enormi, mio Dio! Enormi! Da non credere! Vi dico che stiamo vedendo altre navicelle qui fuori. Sono sul bordo del cratere! Sono sulla Luna e ci stanno osservando”. La seconda chiama in causa il modello di “carro armato” del Codice Leicester di Leonardo, che assomiglia in modo impressionante al veicolo di cui parla Ezechiele. Bill Gates, che ha acquistato il Codice, deve aver notato l’innegabile analogia perché ha utilizzato il disegno di Leonardo per uno screen saver in cui il “carro” esce di pagina e vola via. E la gente, che pensa la gente senza etichette degli Ufo? In generale rifiuta di fare ipotesi ma sogna di veder apparire in lontananza un giorno o l’altro nei nostri

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ciel i super traf f icati luci intense e strutture armoniose che scendano di quota per planare magari a due passi dalle loro case e annunciare un nuovo inizio di civiltà. In fondo l’attesa degli Ufo nasce da tale speranza.

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Glifi in un campo di grano

I crop circles sono forme – talvolta stupende - generate dalla piegatura di spighe del grano maturo. Si possono ammirare dall’alto di una collina o sorvolandoli e fanno notizia da almeno quarant’anni perché tanto è il tempo che se ne parla senza venire a capo di come si formino, se siano una inedita forma di comunicazione e, in tal caso, quale ne sia la chiave di lettura. Su quelli giudicati autentici (perché c’è chi s’industria in imitazioni) gli steli non sono pressati come avverrebbe a seguito di uno schiacciamento ma piegati. La innaturale posizione è dovuta al rigonfiamento del primo nodulo del gambo della spiga che ne modifica lo assetto, pur non impedendole di continuare a crescere fino a maturazione. Talvolta si producono microdanni alle pareti cellulari delle spighe mature mentre nelle più giovani avvengono lievi rigonfiamenti. Nei crop circles si è accertata e documentata la presenza di polveri di: - ferro meteorico con una concentrazione anche 600 volte maggiore di quella riscontrata in terreni poco distanti, a riprova dell’esistenza di un campo magnetico molto forte al momento della loro creazione; - quarzo purissimo che – osservato al buio – tende ad assumere una fosforescenza giallo/verde, anche se non vi sono tracce di fosforo o fluoro, gli unici elementi in natura che producano un effetto del genere. Se si gira di buon mattino all’interno di un crop circle, venuto su qualche ora prima, è impossibile non notare il

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terreno più caldo al centro del glifo rispetto ai suoi margini e l’autentica strage di insetti al suolo o ancora sugli steli. Questi segni sarebbero per i più conseguenza del calore irradiato – dall’alto – dalle BOL, acronimo di Ball of lights (le hanno pure filmate ma c’è il forte sospetto di abili contraffazioni) su una zona circoscritta del campo, dove in contemporanea la piegatura delle spighe si auto modulerebbe (!!!) in modo (inspiegabilmente) coordinato fino a realizzare forme di straordinario impatto visivo. Una spiegazione, questa, che infittisce il mistero perché è il primo modulo del gambo (prossimo al terreno) che, rigonfiandosi, fa reclinare la spiga e in pratica compone il glifo. Sostenere poi che al risultato si arriverebbe attraverso una auto modulazione delle spighe è come accreditare fantasie su squarci o strappi da superiori dimensioni di intelligenze extra terrestri preoccupate dei nostri destini. Chissà mai perché. Più concretamente, qualcuno si è chiesto perché i crop circles appaiano – anno dopo anno – per lo più negli stessi posti, ricavandone due costanti: l’abbondanza d’acqua nelle falde sottostanti i terreni sui quali si materializzano e la presenza nelle immediate vicinanze di templi, eremi o comunque di vestigia del passato. Perché? Per spiegarlo occorre riandare ai rabdomanti dei millenni trascorsi che inseguivano (come fanno i pochi tuttora del mestiere) i percorsi sotterranei dell’acqua, ritenendoli i mezzi di trasporto privilegiati dalla forza

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potente e benefica che risale dal cuore della Terra per concentrarsi in massimo grado in “ombelichi”, gli omphatos, in cui convergono i principi vibrazionali legati al Prana (il soffio vitale descritto nei Veda) creatore del suono primordiale AUM. C’è persino una guida alla corretta pronuncia di tale suono: la A deve salire dal profondo dell’essere, la U uscire a lingua rovesciata, la M terminare a labbra chiuse e l’insieme, il quarto suono, evocare la sorgente del pensiero dove tutto torna uno, essendo la nostra realtà – per quell’antica sapienza - il presente di un’onda (sonora) senza inizio né fine. La pensava allo stesso modo pure l’ebreo Joshua. Vangelo di Tommaso (22): “Quando di due farete uno, quando considererete l’esterno come l’interno e il sopra come il sotto, quando del maschio e della femmina farete unità, cosicché il maschio non sia maschio e la femmina non sia femmina, quando considererete due occhi come unità d’occhio, due mani come unità di mano, due piedi come unità di piede e due immagini come unità di immagine, allora entrerete nel Regno”. Non se ne discosta il vangelo di Giovanni, aperto da un lapidario “In principio era il Verbo/Il Verbo era presso Dio/Il Verbo era Dio”. Si rischiano pesanti ironie a chiedersi se l’AUM sia percepibile nei nostri rumorosi e indaffarati giorni. Eppure lo ha richiamato l’annuncio - dato nel 2000 da cosmologi della Ucla di Los Angeles - della scoperta di una vibrazione di fondo del cosmo “con un suono simile all’oboe”.

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Tornando all’abbondanza d’acqua che favorirebbe la creazione di crop circle, l’archeologo dilettante Alfred Watkins sostenne negli anni venti che i siti megalitici della sua Inghilterra seguono tracciati convoglianti la energia del pianeta. Li chiamò leylines (linee della prateria), versione aggiornata degli antichi omphatos. Ne viene l’ipotesi che i crop circles nascano dall’effetto congiunto del campo magnetico terrestre amplificato dalla riverberazione dell’acqua, in particolare agli incroci di omphatos/leylines. Si genererebbero in tale modo vere e proprie onde di energia che, risalendo dal sottosuolo, riprodurrebbero in situazioni adatte (un campo di grano maturo) forme preesistenti in natura attraverso un procedimento di copia/incolla. Per tale linea di pensiero le figurazioni che appaiono in estate su campi di grano maturo dimostrerebbero perciò che il pianeta condivide un alfabeto naturale espresso nelle forme della Geometria Sacra cara a Pitagora, Platone e da ultimo a Keplero, che ne ha riproposto la matrice universale con parole che paiono scolpite, tanto sono nette. “La geometria” – ebbe a dichiarare il grande scienziato – “precede la creazione delle cose, eterna come lo spirito di Dio; anzi la geometria è Dio stesso che ne ha utilizzato gli archetipi per la creazione del mondo”. C’è qualcosa di vero o attendibile nella teoria esposta? Probabilmente tanto. Ecco perché. Oggi si fa sempre più strada negli ambienti scientifici l’ipotesi che una maglia di energie “sottili” si sviluppi a

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rete in lungo e in largo nel sottosuolo, acquisendo forza in predeterminati punti di confluenza. A spingere in tale direzione sono le nuove conoscenze legate alla dinamica dei fluidi, alle onde vibrazionali e alla interazione tra esse e la materia. Cognizioni queste che gli estensori della Genesi debbono aver ripreso da qualche parte, là dove affermano che è stata appunto l’interazione suono/materia a dare il via a ciò che siamo. Al riguardo non fa testo la versione greca - “Dio disse: sia la luce e luce fu” - ma traduzione letterale dall’ebraico antico che così recita: Aleohim disse, dichiarò il principio della luce attraverso il suono … e la luce fu e l’universo apparve e iniziò”. Ad approfondire in modo sistematico l’interazione in parola sono gli esperti della Cimatica (dal greco Kyma, onda), una scienza praticamente agli esordi che studia le forze del campo vibrazionale e i modi, impensabili pochi decenni addietro, con cui il suono struttura la materia, imponendole simboli e schemi che viene da credere siano a monte di entrambi. Su polveri sottili ogni frequenza data, lungi dal lasciare tracce caotiche, si traduce in simboli geometrici correlati all’ampiezza della pulsazione: si spazia dal cerchio con punto centrale a forme complesse e al “Fiore della vita” in cui la visione esoterica vede rappresentata la natura duale di ogni vivente, con le energie uguali e opposte che concorrono a formarlo. Su campioni d’acqua, collocati tra due altoparlanti nel corso di un concerto, il suono rimanda spesso immagini di grande bellezza ed elevata complessità.

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Non sempre peraltro accadrebbe; che debba dipendere dalla qualità dell’esecuzione? I cristalli al contrario non fanno discriminazioni. La rivista Nature ha dato notizia dell’esperimento di alcuni ricercatori che avevano imposto sequenze di suoni su un cristallo di litio; dopo un po’, il cristallo ha emesso un suono identico. La nuova branca di studi riconosce valenza scientifica, in via indiretta, all’idea di Platone anzitutto, che così si espresse sulla forma della Terra: “Vista da sopra, appare come una palla di cuoio dalle dodici facce”. Sapeva quindi non solo che era una palla ma le dava la forma del dodecaedro, l’ultimo dei cinque solidi che portano il suo nome. Duecento anni prima Pitagora aveva definito le forme geometriche musica solidificata. Se ne trae la costatazione che il progredire della scienza porta ad imprevisti agganci con il pensiero antico. Sia una membrana o una stringa, l’universo pulsa e il sanscrito Nada Brahamana - Il mondo è suono - torna d’attualità. L’idea base è che esso sia il prodotto di un software di geometrie, finalizzato a materializzare una inarrestabile vocazione creatrice.

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Un Dna in mutazione? Fino a un secolo fa non si aveva la più pallida idea della onnipresenza della microscopica spirale, niente anima e tutta biologia, con l’essenziale alla vita in ogni luogo e forma, creature aliene comprese in quanto della stessa pasta ma inavvicinabili per le ragioni esposte e anche perché impegnate in viaggi nel tempo. Del Dna, questo protagonista venuto alla ribalta negli ultimi decenni, è noto il 5% dei processi reattivi. Si sa in particolare che regola tempi e modalità delle proteine da produrre o da eliminare. Conoscessimo il restante 95%, alcuni azzardano che sapremmo tanto di più su passato e futuro. Esagerano? Non c’è da esserne tanto sicuri specie dopo che, tre lustri fa, il biologo Leonard Adleman ebbe una idea che definire all’epoca pazza era il minimo: testare il mistero di questa serpentina, che riesce difficile pensare costruita dal caso, per un compito assurdo in apparenza e comunque estraneo alle sue funzioni “istituzionali”. E l’incredibile avvenne perché, contro ogni assennata previsione, il Dna rispose ok. Che ha fatto Adleman? Incorporò nei microprocessori del materiale genetico: cellule al posto di silicio. L’inserimento, coronato da successo, dello schema della vita nella circuitazione elettrica dei chip e dei computer ha posto l’alternativa secca e presumibilmente vincente alla robotica, figlia della civiltà artificiale ritenuta da alcuni incombente. Si perché come per incanto, da quella virata radicale di

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cui non si è ancora colta appieno la portata, almeno una quota di futuro fa capolino su un’umanità che deve dimostrare di volere e sapere starci in mezzo. E per la verità ci sta provando con la nano/biotecnologia: la vita e la sua scienza applicate all’ingegneria e all’informatica. Per adesso il Dna computing aiuta a risolvere problemi matematici complessi con la “partecipazione attiva” del batterio Escherichia coli. Ma è niente al confronto di quanto si prospetta. Un gruppo di ricercatori della Hebrew University di Gerusalemme e della University of Liege è riuscito a sviluppare una piattaforma computazionale, basata sul Dna, capace di elaborare risposte complesse rispetto alla presenza/assenza di una serie di stimoli. Il mattone di base è un biochip a Dna che, come ogni chip, legge i dati in ingresso (input) ed elabora risposte (output). Ciò che lo rende impareggiabile è di essere formato da un'unica molecola, capace di svolgere attività diverse e di interagire con altri biochip. Visto quello che è capace di fare, qualcuno è arrivato a pensare che questo nostro benemerito Dna stia auto modificandosi. Delirio da fantascienza? Va sans dire che potrebbe essere ma, prima di rendere definitivo il giudizio, bisognerebbe riflettere sul fatto che furono considerate deliri o quasi, nei primi anni seguiti alla pubblicazione, le cinque paginette con le quali Albert Einstein, un secolo fa, pose fine al dogma del tempo e dello spazio invarianti. Anche Max Planck subì critiche feroci, qualche decina di anni più tardi, quando mise sul piatto mai pieno della

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scienza un’altra fisica, orfana dei medesimi spazio e tempo, diventati nel frattempo relativi. Sarebbe perciò da tenere in sospeso la sentenza, allo stato scontata, perché non lo conosciamo questo Dna al punto da poter escludere a priori la possibilità che evolva - senza il permesso di alcuno – i propri codici biologici. Lo facesse davvero il dove sarebbe obbligato: la sequenza che impedisce al doppio sapiens di diventare d avve ro sapiente, cioè di saper adeguare se stesso, i suoi comportamenti e i fini perseguiti all’ampliarsi delle conoscenze in divenire. Potrebbe essersi verificato qualcosa di analogo meno di 10 mila anni fa, cioè quando vivevamo nelle caverne, grugnivamo più che parlare e se capitava ci si mangiava l’un l’altro? Nei centomila/duecentomila anni precedenti (i numeri ballano facile quando si incappa in sconosciute stagioni di Gaia) si sarebbe vissuti a quel modo, a fianco o in conflitto con specie a noi consimili senza combinare niente di apprezzabile. Poi di punto in bianco – quasi fosse un appuntamento concordato – in diverse parti del globo ha preso avvio il modo di stare al mondo che abbiamo sostanzialmente tuttora. E’come se all’epoca si fossero passati parola, decidendo di farla finita con una vita da cavernicoli o da perenni cacciatori migranti. Ma si, si sarebbero detti quei nostri dimenticati avi: basta con le rozzezze di una vita scomodissima, da selvaggi; è tempo di costruire città, fabbricare arnesi,

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imparare a coltivare i campi selezionando le colture più produttive e di tradurre il modo di comunicare in parole articolate e in segni con vocali e consonanti, per poter scrivere e leggere ciò che diciamo. Siamo seri. Fare tutto ciò nel giro di qualche centinaio d’anni, in assenza di interventi esterni o al limite della stessa serpentina che ci da pensiero e forma, beh è inconcepibile. Solo che nessuno, fino a ieri e peggio se era ieri l’altro, si è posto il problema. Oggi, a domanda secca su come fossero stati possibili quei giganteschi passi in avanti, avvenuti praticamente in un lampo del tempo terrestre, i più attribuirebbero il miracolo a qualcuno sopravvissuto a civiltà scomparse o capitato da fuori, mentre si potrebbero agevolmente contare quelli per i quali sarebbe stata farina del nostro sacco, grazie ad una maturazione tanto improvvisa da avere, appunto, del miracoloso. Permane in ogni caso un buco conoscitivo grande come una casa su come sia effettivamente decollata questa nostra civiltà, sotto il cui ombrello si è raggiunto – tra geniali accelerazioni e forzate retromarce – il top attuale sancito nelle auliche sedi. Ma siamo veramente al top tra le stelle?La risposta che da la scienza fa cadere le braccia. Il referto Alla fine di una ricerca approfondita, un gruppo di scienziati australiani dai nomi autorevoli è giunto a una conclusione ad un tempo ragionevole e sbalorditiva: tutti gli astri con caratteristiche simili al Sole sarebbero, nella nostra galassia, circondati dai pianeti; il che confermerebbe l’equazione, rimasta negli

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annali, del cosmologo e matematico Frank Drake per la quale sono tra 50.000 e 1.000.000 le civiltà in anticipo su quella che viviamo e da alcune centinaia a 1000 anni-luce la loro distanza da noi. La chiave di lettura Negli anni sessanta lo scienziato dell’allora Unione Sovietica Nikolai Kardashev propose una classificazione dei livelli di civiltà nell’universo, basata sulla capacità di gestire l’energia disponibile in natura. Ne venne fuori che a livello zero si collocherebbero quelle in grado di gestire l’energia del pianeta di provenienza; all’uno l’energia del loro Sole; al due di sistemi stellari; al tre della galassia di cui fanno parte. Al quarto e ultimo livello avrebbe, infine, il proprio onnisciente regno la civiltà padrona dell’energia dell’intero creato. In un ipotetico confronto galattico saremmo pertanto al gradino più basso, anche se va rilevato che negli ultimi tempi le conoscenze si sono estese a dismisura e hanno portato a ritmi di innovazione tecnologica che non danno respiro alla vita di tutti i giorni, facendola correre in avanti in un modo imparagonabile ad ogni altra stagione dell’era umana. A rifletterci il mondo odierno è infatti inconfrontabile con quello di solo trent’anni fa! Pertanto, le condizioni di base ci sarebbero perché pure il Dna si desse (di nuovo?) una mossa, non proprio dalla sera alla mattina ma quasi, inducendo (per quel che può) gli esseri umani in procinto di venire al mondo a buttare a mare le sicurezze dei propri nonni e padri. Esse si stanno rivelando insostenibili gravami, per cui

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occorre tuffarsi anima e corpo nella direzione dei nuovi orizzonti per i quali si stanno ammassando in pensilina i mezzi tecnologici idonei. L’umanità di un futuro prossimo, dopo le inevitabili sbandate che accompagneranno la fine di quello che c’è, quel treno dovrà necessariamente prenderlo per ripartire affrancata dai vizi congeniti e dalle contraddizioni che hanno pesato sul suo passato e non danno sbocchi al suo presente.

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Una pesante autocritica

Diciamocelo: non sarà per niente facile andare incontro al nuovo portandosi appresso – sul piano individuale - paure arcane e sopraggiunte, rancori manifesti o sotto traccia per promesse ricevute e mancate, speranze a lungo accarezzate e ormai fuori portata, il tanto che non si accetta ma non si sa come rimuovere, in definitiva una larga parte del presente. A livello collettivo questo si traduce nella sensazione – avvertita al di là delle differenze di lingua, educazione, tenore di vita – di essere al capolinea, come si è più volte sottolineato in queste pagine, di una civiltà che i suoi meriti li ha avuti ma ha inasprito le differenze, esteso il disagio sociale, relegato i valori di fondo a formalità da esibire. In più essa è appesantita, inflazionata e dunque gravata dal protagonismo di nanetti che si illudono di svagare o blandire da scranni d’altri tempi moltitudini per fortuna sempre più coinvolte nel gigante informatico, la casa virtuale in cui è a disposizione la diretta per sentirsi in qualche modo e misura protagonisti. Assolva o meno la circolazione delle idee nel web anche alla funzione di traino del nuovo, che peraltro emergerà comunque sia, è indubbio che essa già contribuisce ad ingigantire negli animi dei naviganti le negatività del momento e a rafforzare la convinzione di essersi mossi col piede sbagliato sin dall’inizio di una breve e troppo celebrata storia.

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D’accordo, confrontata con quella degli scimpanzé è da magnificare ma magari centinaia di migliaia se non milioni di anni fa qualcuno che ci assomigliava molto o per niente potrebbe essere vissuto con quest’aria, sotto questo cielo, con una terra che era terra e un mare che era mare senza fare guerre, confrontarsi in permanenza per avere qualcosa in più, circondarsi fino ad esserne pressoché seppellito da manufatti con deriva di scorie di ogni tipo. Questo qualcuno potrebbe essere sparito per decisione propria e non deve meravigliare più di tanto che possa essere accaduto perché, se la sua fosse stata una civiltà veramente super, non è concepibile che si sia confinato in un’unica terra; anzi, dopo aver soggiornato in una molteplicità di habitat alternativi, è scontato che abbia deciso di prescinderne; così come è altrettanto scontato che, finché era qui, abbia trovato alternative più valide dell’industriarsi, con sistemi rozzi e devastanti sotto il profilo ambientale, a estrarre dal sottosuolo l’energia che gli serviva quando l’intero creato ne vive. Non c’è prova di tali presenze? E dove sono quelle per le quali un cosmo vecchio di 15 miliardi di anni si sarebbe venuto facendo per preparare la nostra stagione? Senza tirare in ballo (per adesso) la fisica dei quanti, con il suo campo onnipresente e onnisciente, la pretesa - è troppo definirla tesi - non tiene botta davanti a questa semplice domanda: può un creatore quale che esso sia permettere un’assenza tanto prolungata di intelligenza dal creato, accontentandosi poi di quella dimostrata da noi sinora?

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Una minoranza dura e pura dice che non può per non sentirsi ridicola e, visto che c’è, si chiede come mai questa nostra intelligenza, malgrado il lungo tirocinio, non si sia ancora accorta dei condizionamenti assurdi ai quali la assoggetta costantemente un io oltremodo invasivo, autore e vittima a un tempo dei mali in circolo. Per questi “visionari” il futuro obbligherà i figli d Adamo a rigettare nel cestino della storia le logiche egocentriche per le quali il sale della vita viene da fuori e bisogna conquistarselo con tutti i mezzi, buoni o cattivi che siano. Si ma come convincere quest’io - che ognuno ha dentro così com’è e non può dismettere – a fare autocritica non a parole ma nei comportamenti? La natura, il tempo, il Dna che ha firmato il capo e che per la minoranza di cui sopra si evolve in continuazione, daranno una mano? La tecnologia che con le nuove conoscenze acquisite sta confezionando altri mondi, non alternativi ma di fatto concorrenti di quello in cui ha spadroneggiato con esiti non esaltanti, potrà contribuire a fargli fare il passo decisivo, che lo porti a specchiarsi meno nel fuori ed a trovare appagamento nell’universo in cui è immerso, del quale è stato fin qui un’espressione monca? E’ tutta roba, questa, da declinare al futuro.

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_________________Quarta parte___________________

Oltre il tracciato

Scuole di pensiero al futuro

Mondi, tempo, coscienza e …

… la Grande Madre

La vita tra un paio di ripartenze

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Scuole di pensiero al futuro

Per il futurologo Ray Kurzweil tra circa vent’anni avremo le conoscenze e le tecnologie per riprogrammare i nostri corpi, bloccare i processi di invecchiamento e vivere per sempre o quasi. Fin qui un annuncio tra i tanti ormai, da credere o non credere in toto o in parte, anche se il piatto forte viene dalla condizione posta dal nostro al verificarsi di quanto sopra. ”Potrebbe fungere da rallentatore” – sono parole sue – “la paura di aprire la mente a tale possibilità”. Come dire, per arrivare all’immortalità occorre un atto di fede! Una battuta, un modo come un altro per shoccare il lettore o un’affermazione con uno spicciolo di verità? In questa sede si propende per la terza ipotesi, che non esclude ma integra la seconda, spesso indispensabile per farsi leggere. Ad avvalorarla, entro certi limiti, la previsione non solo sua per la quale nei prossimi decenni i nanobots diverranno i tuttofare del quotidiano: se ne disporrà non soltanto per i personali check up ma ad esempio per immettere nel circolo sanguigno contromisure atte a contrastare attacchi virali e l’insorgere di malattie. E arriverà anche il giorno in cui integreranno il lavoro delle cellule del sangue con effetti spettacolari sul piano della pura fisicità. “Si potrà”, è sempre Kurzweil a anticiparlo, “sprintare in bici per ore e ore tirando di rado il fiato, nuotare a lungo sott’acqua come fanno le balene, scrivere un libro in

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cinque minuti, praticare incessantemente il sesso ….”. Questa del sesso incessante se la poteva risparmiare essendo notorio che qualche pausa acuisce il desiderio; ma è appena una sfumatura di critica rispetto a quella a seguire, indirizzata non soltanto a lui ma agli scrittori specializzatisi nel campo. Essi di norma partono dalle novità aventi una forte eco sul presente; cosa che viene anche naturale perché è decisamente più agevole stare sull’onda. Poi però succede che fanno correre i pensieri fino a ritrovarsi sulla dirittura dell’obiettivo ritenuto finale per l’umana specie, vale a dire del giorno non si sa quanto distante in cui proiettarsi avanti al vissuto per conoscere il proprio futuro oltre l’orizzonte degli eventi e provvedere di conseguenza per raggiungere l’eternità. Dimenticano o fanno finta di dimenticarsi che è finto quell’oltre e, semmai non lo fosse, porterebbe ad uno schianto suicida per la fine del tempo e della dimensione in cui si esiste. E fortuna vuole che sia così perché la qualità principe degli umani, nel pacco d’anni dell’esistenza fissata per ciascuno, è di sfidare continuamente quel che verrà, dunque il limite per antonomasia; e poco importa se a porcelo davanti siano di volta in volta biologia, natura, forze che la regolano o concatenazione di sopravvenienti evenienze. Senza contare che conoscere il futuro farebbe svanire d’incanto perché ininfluente, ingombrante, indesiderato e alla fin fine inutile il tempo frappostosi a mezzo, che è invece stimolante saltare immaginando di ritrovarsi con

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la navicella dell’io a galleggiare in ciò che ancora non è, pronti a padroneggiarne le varianti rispetto all’esistente. In fondo uno per uno ma a conti fatti tutti assieme è questo che si vuole con più forza: saltare a pié pari l’asfittico reale per sbarcare in anticipo la dove il vero già è e non ha mancato di mandare segnali. Nei nostri giorni il segnale si traduce nella premonizione diffusa come forse mai nella nostra non lunga storia di una scadenza, un bivio epocale in arrivo (la singolarità dei fisici) oltre il quale si assisterà a un cambio radicale nella valutazione di cosa sia meritevole e appagante nel rapporto con se stessi, gli altri, la vita nel suo svolgersi. Che si sia davvero, nel giro di stagioni, in predicato di iniziare un cammino del tutto nuovo rispetto a quello sinora seguito? Un mutamento profondo del nostro modo di essere e di operare è pronosticato dagli stessi futurologi, che però si scontrano tra loro, in corso di previsione, sul ruolo che avrà la tecnologia: protagonista o comprimaria? Per una cordata, la tecnologia prenderebbe la mano al suo artefice per costruirsi un futuro da cui saremmo di fatto estromessi, perché a prevalere ed a restare padrona assoluta del campo sarebbe l’intelligenza artificiale, con tanto di nuovo timbro. I robot ne costituirebbero le avanguardie: macchine auto referenti in grado di eseguire lavori sulla base di schemi programmati senza i rischi che si hanno ad affidarli ad umani e dunque con costi ed esiti certi in partenza. Si tratterebbe in sostanza di una fase intermedia, di un temporaneo condominio tra gli umani prossimo venturi

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e pompieri robot, macchine robot nel traffico congestionato delle metropoli, robot camerieri, robot giardinieri, robot operatori ecologici, robot baristi e nei punti vendita. Il tutto in megacity con bus a guida automatica circolanti grazie a segnali magnetici disseminati sulle corsie loro assegnate, marciapiedi traenti energia dal passaggio dei pedoni, acquedotti e strutture interrate raggiunte con video camere e sonar per interventi pilotati. Avatar city va anche più là e i promoter della apocalisse da intelligenza artificiale ne pressano i traguardi. Per Vernor Vinge, informatico e apprezzato autore di romanzi di fantascienza, “.. entro trent’anni avremo le tecnologie per creare intelligenze super umane; dopodiché l’era umana volgerà al suo termine”. Alexander Chislenko - matematico, esperto di computer e saggista di successo - entra altrettanto deciso sul tema sostenendo “la capacità delle future macchine pensanti di condividere in tempo reale conoscenze e esperienze con ogni macchina di pari caratteristiche”. Questo, a suo dire, farà da traino all’evoluzione dell’intelligenza permettendo “il passaggio a strutture altamente interconnesse”. Migliori delle nostre? Quando mai è la replica della cordata concorrente, forte di una premessa - che è in sostanza una pregiudiziale – per la quale la vita, nella sua essenza, non potrà mai uscire dal seminato. E ciò non per impedimenti morali ma per il semplice fatto che i gangli cerebrali di ogni vivente sono in simbiosi con l’universo pulsante dal quale tutto prenderebbe forma. Non potrebbe mai esserci dunque un pensiero artificiale capace di connettersi alla rete o quel che sia, avendo la

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vita biologica e la stessa intelligenza umana una sorta di colleganza esclusiva con essa. Banalizzando magari troppo si può concludere che, nel primo caso, la tecnologia dopo un po’ prenderebbe la mano al suo inventore per costruirsi un futuro che non ci riguarderebbe più e amen; nel secondo, l’intelligenza – livello top di un software che precede spazio, materia e tempo – non sarà mai succube della tecnologia che resterà pertanto una sua risorsa. Viene naturale sposare la tesi per la quale non finiremo impallinati da piastrine di silicio. Una rassicurazione in più la da, a nostro modesto avviso, una cliccata sulla serpentina del Dna. Solo ad osservarla si intuisce infatti che tutto non solo vi nasce ma ne discende e non sono possibili framezzi: lì ci sono inizio, percorso e fine non del tempo come tale ma del tempo vitale che la stessa serpentina, con varianti al milionesimo di millimetro, costantemente riattiva. C’è allora da chiedersi: con ragioni tanto forti a favore di una delle tesi, perché la contesa ancora regge, almeno a livello editoriale? La risposta è, appunto, che si sta sull’onda e si disegna il futuro in base a ciò che al presente fa sognare a occhi aperti, emoziona o spaventa. E’ successo a fine ‘700, quando le copertine delle riviste d’epoca erano dedicate al via vai di mongolfiere sui cieli tersi di qualche decina d’anni dopo; o nel primo decennio del ‘900 in cui un numero ben maggiore di pubblicazioni si crogiolava sull’andirivieni di dirigibili e vaporiere che di lì a poco tempo avrebbero imperversato su cielo e mare.

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Non deve quindi sorprendere più di tanto ritrovarsi oggi in piena querelle robotica. Il futuro dal buco della serratura potremmo averlo visto - con le sue grandi luci e le sue fitte ombre - una ventina di anni fa, quando ci fu l’integrazione dei transistor nei chip ma non era cosa mettere in copertina tali “schegge” o meglio i cervelli in miniatura che da lì in avanti hanno permesso a pc, cellulari, satelliti ma anche a citofoni, lavatrici e lavastoviglie funzioni “intelligenti”. I chip fanno pure qualcos’altro: raccolgono informazioni e le movimentano al fine di registrarne le convergenze. Avviene con la ditta che invia l’informazione stipendio di un dipendente alla banca perché questa provveda alla erogazione dell’importo; o quando quest’ultima informa il supermarket che il possessore del bancomat, esibito per pagare la spesa, può portarla a casa trattandosi di lui e non di qualche altro. Ora se è vero che a rendere operativa la carta è l’identità del soggetto di riferimento, è altrettanto indiscutibile che e s sa finisca per ribattezzarlo attraverso un codice manipolabile, replicabile, privo di corporeità. Questo fa si che il mercato non sia più solo un luogo di compravendite in cui scambiare oggetti con informazioni ma rappresenti un momento fondamentale della vita di ciascuno ridotta in codice. Il possessore della nominata tesserina finisce infatti per essere un contenitore di news che vanno ben oltre i tetti di prelievo, facendone in pratica un prodotto trasparente tra prodotti del pari trasparenti, confezionati ad uso di scambio.

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Per cui, fatte salve le buone intenzioni di partenza, si sta andando incontro al rischio di diventare pura e semplice merce, cosa più perniciosa della supposta concorrenza della intelligenza artificiale. Per rendersene conto basta confrontare la situazione attuale con quella dei primordi della civiltà industriale, magistralmente filmata in Tempi moderni. In quello spezzone di storia del cinema i lavoratori sono rappresentati come addendi di ingranaggi di macchine. Lo sono ancora? No, si dirà. Non c’è lo “schiavo” della catena di montaggio, la dimensione è diversa, la qualità è diversa, la tecnica è diversa. Però, sistemi di produzioni a parte, l’incensato binomio tecnologia/informatica nasconde (male) un rovescio che più spersonalizzante non si può. Le informazioni date e ricevute finiscono già (figuriamoci tra decenni, con software ben più sofisticati) per gravare sull’identità di ciascuno come e più degli ingranaggi al limite della umana sopportazione del tempo che fu. Oltretutto alla macchina l’identità corporea ha voluto e saputo ribellarsi, quando essa provava ad esagerare in pretese mentre il punto già oggi è: come potrà la carta rifiutarsi di continuare ad essere un codice o contrattare un limite alle possibilità di prelevarne informazioni? Ovvio che non potrà rifiutarsi per cui al megastore ci si continuerà a sentire più io che mai avendo in apparenza a disposizione di tutto e di più ma l’autentica regina di quello e di ogni altro mercato sarà sempre più la carta portata in un taschino dal prodotto trasparente abilitato a metterla in funzione.

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Un contributo fondamentale alla “operazione schiacciamento” dell’individuo alle logiche e agli interessi di mercato verrà dalla prodotto principe del chip: il telefonino. L’assiduo compagno della quotidianità avrà presto una identità personalizzabile dall’utente, darà suggerimenti, comporrà numeri di telefono, ricorderà le scadenze. Trascorsi un po’ d’anni diverrà un assistente globale in grado di dialogare e di esprimere opinioni sviluppate in completa autonomia e all’impronta. Al suo proprietario rimarrà i n i z ia lmente la facoltà di spegnerlo, della quale gli esperti del ramo sono convinti si avvarrà molto di rado, per la semplice ragione che lo sentirà sempre più parte inscindibile del proprio essere. Arriverà poi il giorno in cui il suo gestore non sarà in condizione di farlo, avendolo in corpo. Un microchip, introdotto per via sanguigna nel cervello, gli regalerà il sapere, le opportunità ma pure i condizionamenti della rete informatica, lo spirito globale del tempo. Come se ne uscirà lo dirà un futuro decisamente più lontano. Il prossimo, comunque, non finisce lì. Tra qualche lustro una parte decisamente minoritaria dell’umanità sarà miracolata dai prodigi tecnologici in arrivo, in grado di garantire una giovinezza quasi senza tramonto e qualità dell’esistenza mai vista prima. Tant’è che, specie nelle classi alte, è iniziata una lotta sordida contro il tempo. L’’obiettivo è resistere, resistere e ancora resistere fino al giorno in cui vedere finalmente abrogate dalla scienza le leggi che portano alla progressiva decadenza del corpo e delle sue funzioni vitali dopo il troppo breve incanto

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della giovinezza. Un atteggiamento, questo, giustificato dai dati in salita sulle aspettative di vita. Non si può quindi dar torto, il linea logica, ai milioni su milioni di uomini e donne che si sentono in corsa per congrui balzi in avanti in termini di benessere, longevità, salute e bellezza. Pertanto, anche a non veder concretizzato il sogno nella sua interezza, un numero importante di nati con la camicia (perché specialisti e tecnologie d’avanguardia costeranno e nessuno, neppure domani, farà niente per niente) vivrà in un modo incomparabilmente migliore dell’attuale, già peraltro eccellente per loro rispetto al vasto e disagiato contorno. Che succederà però ai “senza camicia” alla nascita e pure dopo? La domanda potrà apparire peregrina ma attenzione. Tra vent’anni il pianeta avrà in carico oltre 7 miliardi di umani e non ci vuole molto a capire che il fantastico avvenire di cui sopra si tradurrà in realtà per una fetta veramente esigua di tale carico, non essendosi mai visto un “mercato delle meraviglie” a prezzi stracciati. Potranno infatti essere a esagerare qualche centinaio di milioni i fortunati abilitati a vivere in una dimensione privilegiata grazie ad applicazioni e presidi di cui fruire in funzione della capienza delle loro tasche. E tutti gli altri, i “senza camicia”? Considerato che per loro aspirare a tanto sarebbe come sperare di centrare un bersaglio a 300 metri di distanza senza l’ausilio di un puntatore laser, non potranno fare altro che mettersi in fila con i miliardi di senza terra, senza lavoro, senza

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pane, senza prospettiva in attesa della svolta a 360 gradi che ribalti il tavolo con quello che ha sopra. Succederà? L’epilogo, traumatico, è nelle cose essendo troppe e troppo stridenti le disuguaglianze, crescente il discredito di assetti istituzionali orfani delle masse di una volta, inceppato in modo irrimediabile lo sviluppo con le vecchie regole. La speranza (e ci ripetiamo) è che non sia un epilogo punto e basta ma una vera svolta, accelerata dalla tecnologia e da un salto qualitativo della razza umana, che porti a fondare una società in cui domini il concorso e non il conflitto. Decollerebbe da lì il nuovo tempo in cui l’umanità, per le caratteristiche stesse degli orizzonti emergenti, non avrebbe bisogno di tornare a segmentarsi nelle classi prosperate dalla spartizione in modi non equanimi di risorse ormai in via di esaurimento su di un pianeta a rischio di impatti dal cielo, nuovi diluvi e rischi costanti di conflitti e pandemie; un nuovo tempo che ridisegni i valori di mercato e le gerarchie sulla base della loro utilità intrinseca e della capacità di stare al passo con le nuove conoscenze. Potrà accadere? Già immaginarlo è decisamente folle ma senza questa follia il mistero che ci governa cesserà di farlo non da dove ci si illude che finisca il tempo ma da molto più vicino.

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Mondi, tempo, coscienza e …..

Lontanissimo da qui, in una galassia tale e quale alla Via Lattea, c’è una stella tale e quale al Sole attorno al quale orbita un pianeta tale e quale alla Terra. Lì vive uno identico a me che sta facendo, nel momento in cui scrivo queste note, la medesima cosa. Sono proprio io qui e là senza tema di smentite. Vale solo per il sottoscritto quest’apparente assurdità? Neanche per idea: vale per tutti. Succede perché il nostro universo è un’immensa bolla oltre la quale se ne allineano infinite altre, specchiate o quasi, ciascuna con orizzonti che impediscono di vedere la successiva. Prodotte nei medesimi tempi e modi dalla inflazione, l’espansione immediatamente seguita al Big Bang, tali bolle vivono la medesima fisica ma, in ragione delle condizioni iniziali anche solo un po’ differenti, le galassie al loro interno divergono tra loro in termini evolutivi. Considerato però che il numero di varianti in cui la materia si dispone è necessariamente finito, non può non esistere nel medesimo spazio/tempo una bolla del tutto identica alla nostra, con una umanità che è l’esatto doppione di quella con cui si coabita. Non basta. In altre bolle si potrà essere un poco o tanto diversi, avere quindi vite in parallelo non coincidenti con quella qui vissuta. In sogno spesso accade: siamo noi stessi ma in posti sconosciuti; oppure conosciamo e realizziamo cose mai prima sperimentate. Come mai?

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La spiegazione potrebbe essere che il cervello si collega chissà come a tali doppi superando nell’unità di tempo uno seguito da dieci miliardi di miliardi di zeri/metri, cioè la distanza fisica calcolata da Max Tegmark, fisico del Mit (Usa), che mi separa dall’altro io, al quale mi sento di mandare un saluto in pagina. La premessa è servita per chiedermi e chiedere: possibile che, a fronte di una realtà più fantastica di ogni fantasia e della grandezza del mistero su cui tutti si galleggia, si debba essere meschini al punto da rapportarsi tra noi e con l’habitat che ci ospita come ci rapportiamo? Ancora. Una civiltà nata non si sa come, cresciuta tra disuguali e morente anche per i disastri provocati del pensiero unico - che non è corso in avanti sull’ala delle conoscenze acquisite ma ci ha speculato sopra – non è forse ragionevole ricostruirla puntando su di esse e non facendosi fuorviare da altro? E il fuori, questo benedetto fuori, perché non guardarlo e provare a viverci per come lo hanno raccontato Albert Einstein, Max Plank, David Bohm, Henry Bergson, Louis De Broglie, Karl Pribram, F.A.Wolf? E prima di loro i mandala, Leonardo da Vinci e Joshua l’ebreo, chiamato nei nostri lidi familiarmente Gesù? Obiezione scontata: che ne facciamo di tanta teoria? Qui servono nuove opportunità, nuovi orizzonti. Sacrosanto. Ma dove trovare le une e gli altri nella realtà oramai asfittica che ci circonda? Quelle teorie gettano luce su vastità che non stanno lì e sinora non abbiamo neppure lontanamente percepito. E’ tempo di farlo se si vuole avere un futuro degno di questo nome e dell’intelligenza

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data. Agostino, che per questo avrebbero dovuto fare santo due volte, ha lasciato l’impronta della sua intelligenza in questo messaggio all’umanità a venire: “Io so cosa è il tempo ma se me lo chiedi non lo so più”. Con parole meno fulminanti, la conoscenza è data sin dall’inizio e lo scopo primo e ultimo dell’uomo, il suo fine incarnato, è di arrivare a svelarla grado a grado non per capire cosa sia il tempo e tutto il resto ma cosa non è tempo e resto rispetto al suo pensiero. Anche Einstein parla del tempo legandolo allo spazio. Al doppione simultaneo di ogni io vivente qui, con alter ego in pianeti copia abissalmente lontani, somma esistenze in avanti e indietro con lo stesso evento che le riguardi e in arrivo in un determinato spazio/tempo, già in atto in un secondo, trascorso in un terzo. Ne viene per logica che vita e futuro sarebbero libri già scritti (con quello che ne consegue in termini di libero arbitrio) e solo il creatore ne conoscerebbe lo sviluppo, se il tempo non scorresse esclusivamente in avanti. In caso contrario (il grande fisico il veleno soleva metterlo in coda) neanche il buon Dio potrebbe darci un’occhiata. Sempre sui misteri del tempo, c’è chi azzarda l’ipotesi che stia accelerando, portando a riprova le innovazioni tecnologiche succedutesi nel decorso secolo. Si è partiti con radio, auto, aereo, telefono; poi è stata la volta di televisione, jet e primi pc; quindi di telefonini prima e seconda edizione, navette spaziali, satelliti per comunicazioni e opportunità informatiche. Risultato: è sotto gli occhi la rivoluzione permanente della vita di

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tutti i giorni. Ora l’interazione informatica/bio/nanotecnologie, dopo aver consentito la mappatura del genoma, sta aprendo a nuove utility di cui al momento è impossibile pesare con la necessaria precisione l’impatto sull’immediato futuro, per cui si lavora (spesso oltre misura) di fantasia. E’ ovvio che il susseguirsi all’inizio nel giro di millenni, poi di secoli e da ultimo di mesi di cambiamenti radicali, dettati da nuove conoscenze e straordinarie scoperte scientifiche, renda sempre meno realistico difendere lo statu quo in termini politici, economici, sociali, culturali e con essi vetuste pratiche del vivere. A voler dare un’immagine della velocità del cambiamento derivata dal progresso tecnologico, viene quella classica del moto ondoso prossimo a riva che progressivamente accorcia l’intervallo tra le sue creste prima di infrangersi sulla battigia. Sta per succedere qualcosa di simile non alla quarta dimensione ma a noi? Si potrebbe anche omettere l’interrogativo perché la sensazione (arciripetuta) è proprio questa: che debba verificarsi qualcosa di epocale nel modo di stare assieme agli altri e di convivere con quello che si è. Cosa si è? Siamo fatti di materia, è indiscutibile, e si vive in una dimensione del tempo e dello spazio ma il constatarlo non spiega quello che si è; anche perché se il tempo è combinato da non credere, lo spazio non è da meno. La comunicazione tra fotoni, anche a distanze enormi, evidenzia l’assenza di propagazione di segnale per il

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motivo molto semplice che non c’è – al loro livello - propagazione. Se ne trae la convinzione che ogni particella conosca all’istante il comportamento delle compagne in quanto è parte di una indistinta interezza (undivided wholeness), espressione volutamente ambivalente, banalizzabile in un reticolo preesistente alla realtà. Sarà davvero così? Il doppione di ciascuno – presentato in apertura - può esistere solo in virtù di tale reticolo. Una delle tante prove indirette in tal senso la diede sempre Albert Einstein, coadiuvato nella circostanza dal fisico Lucas Podolsky, nel corso di un esperimento che ebbe a protagoniste due particelle muoventisi in direzioni diverse alla velocità della luce. Durante la sperimentazione si alterò volutamente la direzione di una delle due ma, eseguita la variazione, l’altra la cambiò a sua volta. Come poteva quest’ultima saperlo? E come fa il Dna intatto a doppia elica a riconoscere similarità in altri filamenti di Dna a nano distanze? Il riconoscimento avviene senza contatto fisico e in assenza di proteine o di segnali chimici. Sembrerebbe esistere, tra di essi, una sorta di telepatia. Lo pensa il fisico e filosofo David Bohm che teorizza un creato collimante alla grande con l’universo quantistico e le sue travolgenti implicazioni: - una totalità indivisa, il tutto è uno di antica memoria, in cui la pietra non è separata né separabile dalla foglia o dall’uomo che la guarda;

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- un livello energetico, preesistente al mondo fisico, organizzato come una rete bipolare pulsante dal quale originano oggetti e apparenze (pietra, foglia, uomo), come accadrebbe pressappoco in un ologramma. In tale presunto ordine ogni molecola, secondo Bohm, “sa quello che faranno le altre in contemporanea e a distanze magari macroscopiche”. Dunque un creato con una trama continua in cui la materia tenderebbe a strutturarsi in modo vitale, dalle forme più semplici a quelle complesse, attraverso una evoluzione graduale ma ininterrotta. Non dovrebbero perciò esserci limiti all’evoluzione medesima; una tesi, questa, sulla quale si è sintonizzato Henry Bergson, un protagonista della fisica contemporanea. E’ sua questa frase, che getta luce sul mondo in cui incamminarsi: “L’universo è una macchina che, a dargli tempo, produce dei”. Non può essere un caso che molti altri fisici teorici siano su tale linea di pensiero. Louis De Broglie, vincitore del Nobel per la scoperta delle onde di materia, si dichiara convinto che la struttura dell’universo materiale abbia molto in comune con le leggi che governano il lavorio della mente; e Roger Penrose, in “Shadows of the mind”, individua nel cervello “un’imponente entità quantica”. Come lavorerebbe? Il neurofisiologo Karl Pribram lo esemplifica così (si fa per dire): “I cervelli costituiscono matematicamente la realtà interpretando frequenze che sono proiezioni provenienti da un ordine di esistenza più profondo, al di là dello spazio e del tempo”.

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La sua conclusione, “il cervello è un ologramma celato in un universo olografico, suggerisce analogie concettuali (sembra paradossale e invece ci sta) con il detto 83 del vangelo di Tommaso. Lì Joshua premette che “le immagini sono manifeste all’uomo, ma la luce in esse è nascosta nell’immagine della luce del Padre”. Ciò detto, regala ai suoi di allora e a noi oggi un commento che lascia di stucco: “Quando vedete la vostra somiglianza gioite. Ma quando vedrete immagini vostre che sono venute in essere prima di voi, che non muoiono e non sono rese manifeste, riuscirete a non esserne sopraffatti? Esisterebbe dunque per intuizioni recenti, passate anche teste antiche, non in qualche fantomatica immaterialità ma dentro e al tempo stesso intorno all’intera materia in evoluzione un ordine di esistenza più profondo la cui immagine di luce (ecco Joshua) compenetra ogni altra immagine senza vanificarne alcuna. Ci sarà ancora tanto da precisare ma va riconosciuto che il materialismo insegnato ai nostri ragazzi – io sono io, la pietra è pietra e dietro a questa e a me non c’è altro – è un’anticaglia concettuale da quando c‘è stata la rivelazione che a livello quantico la materia è un’onda non localizzabile, senza proprietà fisiche, atemporale e aspaziale. Lo è al punto che, per dare corpo e peso a tale entità sospesa, vengono chiamate in causa non più quantità ma qualità: intelligenza, dinamismo,consapevolezza, in una parola la coscienza. Per Max Plank, padre della meccanica quantistica, la

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materia è “un derivato della coscienza”; il fisico Bernard D’Espagnat riteneva impensabile un mondo composto da oggetti avulsi dalla coscienza; per il Nobel Erwin Schroedinger è la mente che ha materializzato il mondo “facendolo emergere dal campo unificato dove convergono i campi di forza” (interazione debole e forte, gravità, elettromagnetismo). E’ pertanto folta, oltre che autorevole, la “compagnia” convinta che a pervadere il creato non sia stato il supposto caos iniziale di una materia auto referente. Preesisterebbe al divenire quest’ordine armonico che - a volerlo per forza ridurre a qualcosa alla portata dei nostri sensi - è paragonabile ad un’alba senza fine né varianti dettate dal tempo. E’ stato Atman: l’essenza, la beatitudine dell’essere che non ne è consapevole in quanto focalizza ogni interesse sulla “superficie” della sua coscienza. Rappresenta il traguardo ultimo del Mandala, contenenti figurazioni e forme simboliche collettive - cerchio, punto, triangolo e quadrato – con cui si richiamano immagini ancestrali di armonia ed equilibrio, scavate nel profondo di ogni essere; un percorso iniziatico in virtù del quale l’essenza del vivente riesce a connettersi magicamente con l’energia che pervade l’universo. Tra i Mandala più famosi: l’Uomo Vitruviano, ripreso da Leonardo da Vinci, dove l’essere umano rappresenta l’anello di congiunzione con il trascendente, e il Fiore della Vita, dipinto non meno di 6000 anni fa (ma forse non era la prima volta) sul soffitto intarsiato di una delle piramidi di Abido in Egitto.

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Il campo si è popolato di eoni nella pienezza del divino degli gnostici; ha avuto per regina la Monade di Leibniz, né materia né spirito; si è stratificato nel continuum di ologrammi di David Bohm; ha fuso con F.A.Wolf “mente e materia, riflessi di un’unica fonte in uno specchio dagli infiniti riflessi”. E’ diventato alla fine cyber: archetipo di ogni essere, aggregato di informazioni unificate dalla coscienza che da significato alle informazioni medesime ben oltre la dimensione dell’io. Proprio per la vocazione – che tanto autorevolmente gli si riconosce – di inglobare ogni spazio mentale, da un po’ d’anni si preferisce definirlo coscienza collettiva: unitaria e insieme infinita, fisicamente inafferrabile come lo zero e il punto. Come dire che tutto torna, anzi non è mai andato, la verità ultima è anche la prima ed entrambe provengono e rimandano a una terra senza sentieri ma con spazi immensi e mirabili da perlustrare, ospiti permanenti di siffatta coscienza personale e collettiva. Con tutto questo in memoria, non si può non tornare a chiedersi perché in noi funzioni (troppo) il collegamento con l’area personale mentre il collettivo è pressoché bloccato dagli inizi della comune storia. L’unica risposta possibile è che allo stato non saremmo ancora in condizione o attrezzati o evoluti al punto da accedervi. Ma in futuro non potrà essere così. Personale e collettivo già s’incontrano nel web e quando dalle attuali chat si passerà ad organizzare fronti comuni sui temi più vari,

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beh a quello stadio bisognerà per forza rifondare la politica, il sociale, lo stesso assetto istituzionale. Quanto ci vorrà? Non il tempo che si immagina.

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…. la Grande Madre

Si tratta di teorie suggestive ma pur sempre teorie. Si è dato loro spazio in un excursus dedicato al futuro - che non ne vive ma le seleziona - perché aiutano non ad illuminarlo ma ad inquadrarlo e a sfrondare dalle aspettative in corso briciole dell’incrostato derivante da schemi e convenzioni del vivere che nulla avranno a che vedere con le esistenze future, per forza di cose sempre meno attratte da molte delle attuali malie del reale. Ne sarà infatti protagonista il chilo e 400 gr (circa) di neuroni, relative sinapsi e prolungamenti depositato in testa a ciascuno: una massa innervata nella quale si celano immaterialità ben più preziose degli abbagli di diademi e denari che le tengono banco tutt’attorno. Non è giustificabile questa non conoscenza ma certo non è facile andarle a scovare all’interno di una galassia pulsante che opera in rigorosa privacy su larghissima parte del suo agire e non da accesso alle capacità riposte in forzieri al momento inespugnabili. Si prendano ad esempio i neutrini: essi danno non solo l’idea ma pure la misura di capacità incognite e in pari tempo delle difficoltà oggettive anche a sospettare che esistano. Si ipotizza che operino in sciami, a livello subatomico e alla velocità della luce, sia nell’area cerebrale (per leggere un giornale), sia interfacciando le informazioni di cui sarebbero portatori in circuiti esterni senza perdita di energia e quindi non offrendo resistenza agli attriti.

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Ne consegue che dovrebbero “vedere”quanto si viene realizzando in un tempo a due dimensioni: il presente proiettato verso il futuro e il parallelo (più avanti) in cui andare a “leggere”, tra gli esiti possibili, quello che si materializzerà. La duplice “lettura”, legata rispettivamente a potenziale e dato, ora è negata ma non è accettabile razionalmente che il diniego sussista per l’eternità: si dovrà presto o tardi arrivare a carpirne i meccanismi di funzionamento e di conseguenza utilizzare una facoltà che, da sola, farebbe di ogni uomo normale un uomo super. Tutti super di qui a x anni? Noi ci considereremmo tali a incognita risolta; ma quei posteri saranno diversi - non tanto per il tempo trascorso quanto per i cambiamenti nel frattempo intervenuti - e per loro sarà la “normalità” del vedere. Oltretutto non saranno solo i neutrini a dominare il futuro dei figli d Adamo. Si è infatti scoperto da decenni (ma è una conoscenza da iniziati) che le connessioni cerebrali alla nascita sono molto più numerose di quelle che accompagnano l’età adulta. Il pruning - cioè lo sfoltimento/potatura – avviene nei primi mesi di vita. Perché? Anche qui non c’è risposta. Può tuttavia succedere, per motivi altrettanto ignoti, che l’operazione non si esegua a puntino per cui alcune delle connessioni da eliminare restino in funzione; nel qual caso il soggetto, crescendo, si accorge di percepire o di essere capace di fare cose impossibili o impensabili per i suoi simili. Questo vuoi perché l’extra coinvolge in linea

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diretta i sensi, vuoi perché si rivela in modo inaspettato al verificarsi di determinate situazioni. Nel primo caso si è in presenza di synesthesia pura (da syn/insieme e aisthesis/percezione); fenomeno per il quale ad esempio il sinesteta vede i suoni, sente i colori e trae sapori dalle parole. Nel secondo si va oltre. Alcuni tra quelli nei cui confronti la “potatura” è stata parziale conservano il ricordo integro di quanto loro accade nella quotidianità, anche ad anni di distanza; altri sono in grado di memorizzare lunghe serie di nomi e numeri telefonici; altri ancora gareggiano col computer in velocità di calcolo di numeri a più cifre, elevati a potenza. Strabiliante? Lo è di per sé la materia grigia di cui, come accennato, non si conosce gran parte delle potenzialità post “potatura”, figurarsi di quelle originarie. Non sapevamo una decina d’anni addietro, a proposito di dotazioni innate, che il cordone ombelicale contenesse una scorta di staminali tuttofare, in grado di ripristinare (quando si sarà fatta sufficiente pratica) la funzionalità di organi fuori uso con l’età o per malattie sopravvenute. Di quest’ultimo corredo fino a ieri ci si liberava subito dopo il parto mentre adesso le mamme avvedute lo fanno congelare. Il problema è che – a fronte di un corredo riconosciuto – ci potrebbe essere una serie (sconosciuta) di potenzialità che restano inespresse perché determinate connessioni cerebrali, vai a capire per quale motivo, si ritengono in eccesso e perciò vengono eliminate in modo automatico:

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arriva l’ordine e non ci sono santi, salvo errori fortuiti di esecuzione. Cosa viene sfoltito oltre a suoni, colori e sapori, capacità mnemoniche e di calcolo? Che fantastica conquista per la scienza, per ogni singolo individuo e per la società tutta intera - non più divisa in Stati succubi del Pil - sarà neutralizzare quest’ordine! E pure capire, ad esempio, la ragione per la quale certe sensazioni arrivino (piaceri, arrabbiature, piani) mentre altre no: gesti automatici, frequenza del battito cardiaco, digestione; e soprattutto cosa scatti a far si che, da una somma di impulsi, si passi a percezioni non traducibili in quantità, costituendo esse qualità del vivere. Verrebbe voglia a questo punto di proporre un ipotetico scambio ad una giovane mamma dei nostri giorni: un bel diamante contro la possibilità per il bambino che sta tenendo in braccio di conoscere e padroneggiare di lì a qualche tempo le lingue più parlate senza particolare sforzo – data anche la sua età - e a costo zero. Cosa sceglierebbe la mamma è facilmente intuibile; questo a conferma del fatto che le qualità, a noi ignote, custodite nel cervello non sono solo tanta roba ma sono inconfrontabili con ciò che viene da fuori, per quanto appetibile sia. La speranza di poter un giorno disporre della capacità cerebrali sopite viene anche dal sapere che ci si presenta al mondo equipaggiati di tutto punto. Il neonato infatti non solo ha il corredo delle staminali ma dispone anche di un congenito software per dare ordine, comprendere e alla fine padroneggiare i suoni che gli piovono addosso

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sotto forma di parole, scandite con insistenza da chi gli passa accanto, convinto che siano i movimenti labiali la chiave per l’apprendimento del linguaggio. Non è così né c’è allo stato una razionale spiegazione della capacità generativa del linguaggio medesimo, cioè di riuscire a confezionare e esternare una serie infinita di frasi mai sentite prima con un numero limitato di espressioni di base. In ultima analisi anche ipotizzare che si padroneggino di qui a qualche decennio soltanto i software cerebrali legati a neutrini, capacità di memoria/calcolo, apprendimento del linguaggio, diventa un esercizio retorico domandarsi se l’io sarà costretto a mutare i rapporti in essere relativi al guardarsi dentro e al rapportarsi col fuori. Semmai sarebbe da chiedersi se il rapporto sussisterà ancora ad avere la prova provata che il cervello regala ad ognuno di noi una permanente illusione del vero e quindi della realtà. Persino lo stesso io, per certuni, sarebbe un permanente atto creativo cerebrale, finalizzato ad illudere lui (e noi tutti) di fare il pensato e il voluto. Pensieri troppo d’avanguardia? Obiezione accettabile al pari della replica per la quale vogliono dare un taglio netto al cogito ergo sum di cartesiana memoria, con il pensare implicante l’esistenza di un soggetto auto cognitivo e di riflesso di una coscienza distinta dalla materia organica. Guardando ancora più avanti viene incontro la mente alveare, di cui ogni vivente sarebbe parte inscindibile. Star Trek ne ha dato una rappresentazione efficacissima nell’episodio in cui umani bionicamente potenziati sono

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- tutti assieme - collegati a una mente tesa ad assimilare qualunque specie intelligente nel suo collettivo. Anche questa mirabile composizione è non solo sperabile ma logicamente ammissibile che avvenga in un futuro più o meno lontano e con la nostra specie ancora in campo, magari a confrontarsi con genie più ricche di passato e conoscenze. A quello stadio dell’evoluzione la coscienza sa rà come i l Velo di Maya, una copertura impiegata per interagire con le simulazioni di altre menti. Sollevando quel Velo si avrà la controprova dell’antica illuminazione per la quale si è tutt’uno con il cosmo e con l’intelligenza oltre il percepibile. Viene istintivo a noi umani dare un’immagine e un peso a questa intelligenza globale, indicata come rete nel precedente capitolo. A cosa in effetti potrebbe assomigliare in termini visivi non è però così importante, per cui non sposta granché chiamarla in altro modo. . Lo scatto in avanti viene dal supporre che – sia rete o altro - generi una nota standard che permea il creato e cadenza ogni evoluzione. Il volo in un futuribile così ricco di passato – e questo ha provato a darne l’idea – serviva per riconoscere il dovuto alla Grande Madre dei nostri pensieri, dei nostri sogni, delle aspirazioni e delle negazioni tratte dal personale sentire. Sembra già tanto tale dovuto e invece è quasi niente rispetto all’infinito altro che garantisce interagendo in simultanea con il molo di attracco e di ripartenza della

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vita non solo in questo nostro spazio/tempo, da cui è certo che un giorno usciremo in cerca di nuovi approdi; ma per adesso e qualche tempo ancora nemmeno se ne parlerà: continueremo a starvi ben attaccati anche se sempre più diversi da come si è.

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La vita tra un paio di ripartenze

Non è da escludere a priori che il futuro – diciamo tra un paio di ripartenze – possa essere sulla falsariga di quello che succede nel nostro tempo in una piccola area degli States dove abitano e si distinguono i freegans da free – libero e wegan – vegetariano. Essi si ritengono apostoli di un messaggio incardinato in un paio di parole d’ordine: la prima è non sprecare, posto che a troppi manca il necessario; la seconda, con buona pace di Warhol, è baratta. Quasi tutti lavorano, hanno un tetto, sovente un cortile e talvolta un pezzo di terra più una serie (comune) di fisse con un unico filo conduttore: saper vivere senza saccheggiare le risorse naturali. Ma non incidono essendo quattro gatti: 400 mila anime nella strapiena costa occidentale; il che significa pesare una piuma all’asta dei l i v e l l i consumistici. E guai ad essere tanti di più perché i fatturati di svariati articoli nell’area interessata avrebbero un autentico tracollo. Per dire, non comperano un paio di scarpe se quelle che hanno indosso non sono al limite; idem per vestiario, alimentari e annessi. I pochi analisti sprecatisi con qualche scarna riga al loro riguardo hanno posto l’accento sull’evidente voglia di regressione che emerge da siffatti comportamenti. Non per difenderli a tutti i costi, anche se in fondo fanno simpatia, ma tutto si sentono meno che di retroguardia, semmai più avanti e in ogni caso appagati di abitare in

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case spartane, con le luci accese se veramente serve, il telefono quasi al bando, televisori usciti da fabbriche che non ci sono più, al massimo un’auto anch’essa datata e ospite fissa del box. Per spostarsi ne i d i n to r n i inforcano vecchie bici o prendono il bus e ne sottolineano la ragione (ovvia): non si debbono spendere soldi per cose di cui non si ha un effettivo ed urgente bisogno. A quanti li accusano di non tenere in conto le necessità del paese - che ha fame di crescita dei volumi prodotti e consumati per garantire i redditi delle famiglie e i servizi pubblici essenziali - replicano con una noncuranza al limite dell’indifferenza che i problemi non vengono dal non saziare quella perenne fame ma dall’insieme di una società costruita sulla continua rincorsa all’eccesso in ogni campo; una logica, questa,che ritengono non sia da imitare perché devia dalla ricerca del senso autentico della vita. Si può in coscienza dar loro torto? No, anche se sul piano comportamentale rappresentano un puntino di un quadro in cui la fine annunciata non solo in queste righe della civiltà che guida tuttora i nostri passi, i nostri pensieri e le nostre azioni sulla Terra provoca in tanti un’ansia in più del ragionevole, legata alla convinzione che eventi di una negatività epocale – sul piano dell’economia, delle relazioni sociali, degli squilibri ambientali – franeranno in devastante successione fino a rendere impossibile qualsiasi possibilità di ripresa. C’è da augurarsi che si sbaglino di grosso e che siano le condizioni date, responsabili del tracollo in divenire, a

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franare liberando forze e orizzonti per una ripartenza col turbo, anche perché fin qui ci siamo sprecati. La creazione si sarebbe fatta un autentico autogol infatti se l’entità racchiusa nella testa di ciascuno si fosse evoluta nel corso di miliardi di anni per sparire dalla circolazione avendo dimostrato meno che nulla di ciò che effettivamente vale. Ancora peggio: dovendo confessare a se stessa di essersi ridotta per millenni in un umiliante stato di soggezione nei confronti dei lingotti d’oro, delle carature dei diamanti, dei giacimenti di petrolio, gas o carbone il cui possesso ha premiato e premia e la cui mancanza ha penalizzato e penalizza soggetti che tale entità se la sono portata e se la portano dietro in identico modo. Avverto l’obiezione: non saremmo quelli che siamo se dall’inizio non avessimo ancorato il comune cammino all’avere e quindi in primo luogo alla proprietà dei beni ed al valore ad essi attribuito. Sicuro che no, ma di che si canta vittoria? Persino l’aria sentenzia che non è un bel vivere e che è tempo di cambiare rotta senza più guardarsi dietro. Quanto alla direzione, è evidente che a dettare la linea non saranno i simpatici freegans, con le loro buonissime ragioni di principio; tanto meno – sul versante opposto – la darà l’idea di farsi spazzar via dalla tecnologia. Messi i paletti, le speranze si concentrano sulle masse che interagiscono nel web dando forma e contenuti ad una autentica società globale dove il virtuale impera: un di più che consente ad ognuno di esprimersi e di farsi coinvolgere con l’intero mondo che si porta dentro, senza

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essere più costretto ad omissis. E’ una autentica rivoluzione, è più che mai in atto e avrà una portata mai vista nella storia umana perché cambia veramente tutto nei rapporti personali e sociali. Vediamo perché. Nello scranno informatico le presenze crescono a ritmi esponenziali, diventano moltitudini che si contano una ad una e assieme fanno scudo, cuneo, tendenza pesando in sempre maggior misura su decisioni dalle quali erano sistematicamente escluse fino all’altro ieri. Soprattutto, i soggetti che ne sono partecipi hanno poco di quelli di prima, avendo cancellato persino il ricordo di quando venivano trattati da numeri, con l’essere umano resuscitato per il solo momento in cui rilasciava deleghe in bianco ai poteri riconosciuti nei rispettivi e ora assai malridotti recinti. E’ previsione facile che le emergenti platee – dopo aver invaso la scena per dialogarvi a tutto campo - neanche si sogneranno di appiattirsi di nuovo negli schemi di un vivere che incanalava il loro futuro su sentieri stretti e ultra accidentati perché restassero in soggezione. Ora, nella galassia del virtuale non si sentono più piccoli, indifesi, ma un’onda d’urto tanto più temibile quanto più coesa. Pare di intravedere qui l’anima del cambiamento al quale si accompagna la tecnologia, che sforna a getto continuo le sue magie. Di sicuro però essa esagera in quantità e molte delle sue proposte – sollecitate dal pensiero unico tuttora in esercizio, malgrado le fondamenta traballanti - non supereranno l’esame del futuro.

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Parrebbe ad esempio non destinata ad andare a buca la cosiddetta cella a combustibile, in cui gas naturale o idrogeno puro si combinano con l’ossigeno per ricavarne elettricità, calore e acqua. Appesa a pareti di normali appartamenti genererebbe (ma a che costi!) un chilowatt di potenza sufficiente per luce, tv e frigo disperdendo un 15% dell’energia iniziale contro il 70% che se ne va con i cavi dell’alta tensione. Anche il nucleare non tenga botta, nonostante i suoi ostinati fautori le stiano provando proprio tutte. Da ultimo hanno presentato una alternativa alle centrali nucleari dal destino segnato: mini reattori che - una volta interrati a 30 metri di profondità – sarebbero in grado di produrre 50 megawatt; una potenza sufficiente per i bisogni energetici di una cittadina di 30 mila abitanti. Ma è pressoché certo che il loro nucleo a neutroni i posteri non se lo ritroveranno con i 500 immensi crateri svuotati da barre, vasche e annessi altamente contaminanti degli impianti ora in funzione. La sfida decisiva per l’energia pulita e illimitata dovrebbe infatti essere vinta a breve e non ci vuole molto a predire che, da lì in poi, il pianeta cambierebbe faccia in una col modo di viverci dentro. Se due idee che copiano dal passato non faranno futuro, il simbolo stesso del Novecento – le quattroruote - che posto vi avrà? Nelle promozioni sugli schermi televisivi, per stimolarne l’acquisto le catapultano sui muri da dove rimbalzano intatte, le fanno sfilare superbe e solitarie su asfalti che fiancheggiano deserti o suggestive rive marine senza lo

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sgarbo di un ombrellone, le infangano su sterrati, le strapazzano su sentieri scoscesi, le fanno uscire vincenti da scontri con mostri d’acciaio. Con quali risultati? Proporne immagini al limite per dimostrarne le qualità, in un mercato potenzialmente ricettivo, in teoria dovrebbe servire allo scopo; ma come può essere ancora ricettivo un mercato in cui hanno regnato per quasi cent’anni senza evolversi sostanzialmente di un niente? Nel serbatoio hanno derivati del petrolio, la potenza prodotta all’80% serve per vincere l’attrito con la strada, la posizione innaturale della guida provoca con il tempo guai fisici ai quali è difficile porre rimedio, l’ingombro è spropositato rispetto al servizio che renderebbero se il numero stratosferico non ne avesse annullato da tempo gli iniziali vantaggi. Certo, ci sono paesi in cui ancora le sue datate lusinghe attraggono masse fino a ieri confinate nel terzo e quarto mondo; ma quanto potrà durare? Può sembrare incredibile, e magari lo è, ma le macchine – attenzione, tutte le macchine immesse sui mercati negli ultimi anni – mostrano di avvertirla la fine prossima della loro epopea. Ne avete guardato i “musi”? Calano progressivamente verso terra anno dopo anno. E’ una soluzione tecnica per offrire meno resistenza all’aria, pontificano i costruttori. Ma quale minore resistenza, sono depresse. E le scocche? Non sono armonizzate al resto ma corpi estranei, quasi volessero prendere le distanze da motore, cambio, ruote e annessi: mortificarli.

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Se a queste povere macchine, passate da regine di grandi vie di comunicazione nuove di zecca a cassoni e cassette in mesta fila su strade intasate,venisse la premonizione del destino che le aspetta, guarderebbero con un misto di ammirazione e di mestizia il ragazzo che con il suo skate board sbuca da uno dei tanti posteggi in cui sono in temporanea sosta. Perché il futuro, e insieme il loro atto di morte , è in quella tavoletta che gambe giovani e ben allenate spostano con straordinaria perizia. Il modello di skate in produzione fra un paio di decenni e anche meno dovrebbe infatti consentire alle sue ruotine di rotolare a velocità variabili in rapporto alla potenza indotta dal magnetismo. La tavoletta avrà al suo centro una lunga asta dotata di almeno tre pulsanti (partenza/ arresto/emergenza) e chi ci starà sopra, ad ogni età, terrà i piedi ben saldi su orme incavate nel pianale mentre un piccolo “copricapo” conterrà il necessario per decodificare le onde cerebrali e trasmettere alle ruotine in discorso i relativi comandi di guida per districarsi nel traffico … pedonale. Arrivati a casa, lo si riporrà senza apparente fatica, pesando qualche chilo, in un angolo della cantina, del cortile o sul balconcino. Dei garage si sarà perso il ricordo. Infine nei libri di storia (ma ci saranno ancora i libri?) della metà del corrente secolo si leggerà che le automobili hanno fatto registrare una vita più breve delle diligenze, per non parlare del confronto con i carri egizi, rimasti invariati per oltre tremila anni. Il tempo renderà del resto sempre meno omaggio alle tappe trascorse del progredire.

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Succederà più o meno lo stesso al cemento armato, una conquista in sé che ne ha però fatte combinare di cotte e di crude: basta guardarsi attorno. Ma se anche per questo materiale il tempo sta scadendo, cosa lo sostituirà? Nel futuro del comparto ci sarebbe lo zampino della nanoricerca che si è inventata i nanotubi al carbonio, i cui atomi - disposti in formazioni esagonali – sono arrotolati su se stessi a formare cilindri. La forza inarrivabile dei legami del minerale principe dell’universo e la particolare conformazione che gli viene data lo rendono 140 volte più resistente dell’acciaio, pur avendo un peso inferiore di un sesto. Per le copertine è quindi una vera e propria manna raffigurare grattacieli e ponti, rispettivamente di molti chilometri di altezza o estensione, realizzati con i nanotubi. Sarà effettivamente così o i posteri non si sogneranno di realizzare tali macro strutture su di un pianeta che non sopporta quelle esistenti? La risposta in questa sede è scontata, per cui è il caso di bypassarla. Semmai c’ è da augurarsi qualcosa di meno spettacolare ma ben più incidente sulla vita dei nostri pronipoti: l’utilizzo di questi nuovi materiali o di altri con pari prestazioni per rifare dalle fondamenta ciò che si è costruito negli ultimi cento anni, specie nelle periferie cittadine: una edilizia residenziale non solo inguardabile ma che necessita di continui rattoppi, mentre la qualità della vita all’interno di tali casermoni è quella che è: forni d’estate e gelati d’inverno – come si è già notato - con pareti che sembrano di carta velina e strutture

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portanti che non tengono sisma di intensità superiore al 4o grado della scala Richter. Abbatterli e tirar su al loro posto strutture abitative degne di questo nome darebbe all’edilizia e non solo straordinarie possibilità di rilancio. D’altra parte se le città – come pontificano i pensatori al futuro di mestiere - diverranno “intelligenti”, saranno cioè in grado di autogestire una serie programmata di servizi grazie a speciali sensori collocati pure nelle civili abitazioni, ce ne vuole di fantasia a credere che palazzi combinati come gli attuali, per giunta fra decine d’anni, possano trasformarsi al punto da diventare “intelligenti”. Riepilogando: macchine out e al loro posto skate board guidati dal pensiero; case che hanno rappresentato il punto di arrivo di tanti onesti lavoratori, della nostra e della generazione che seguirà, di cui sbarazzarsi di qui a un po’ per far posto alle nuove, imparagonabili per sicurezza e comfort. A domandarsi cosa resterà di quello che c’è, ne viene una risposta esaltante: quasi niente! Per due ragioni di fondo. Sulla prima si è battuto e ribattuto: la fine di questa civiltà è segnata e non sarà certamente indolore. Siamo al suo epilogo per le ragioni note: un crescente spreco di capacità, forze fisiche e risorse impegnate, a latere di un progredire che ne ha sofferto e ne soffre visibilmente, al fine di gran lunga prevalente di trarne vantaggi individuali, di clan, di leadership, di territorio, di paese.

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E’ andata relativamente bene a fasce di privilegiati con le più varie insegne, comprese le sovrane che, sull’orlo del fallimento, puntano oggi al bottino del nuovo Eldorado – le grandi riserve di minerali e preziosi di Luna e Marte – nella speranza di ripartire alla grande, ovviamente sullo stesso schema. I Cesari formato ridotto ora alla guida di giganteschi condomini gravati da irrecuperabili deficit di gestione non hanno evidentemente ancora compreso che i tempi di quell’ulteriore arraffa-arraffa, se mai si verificherà, vanno ben oltre i loro mandati e il cerino in mano alla fine se lo ritroveranno tutti, come è giusto che sia. La seconda ragione sta nel fatto che paradossalmente sarà proprio la tecnologia ad accelerare il tracollo con lo sbaraccamento degli attuali apparati dei servizi pubblici, da cui deriveranno conseguenze gravissime in primo luogo per un mare di gente che si ritroverà senza lavoro e prospettive degne di questo nome. Ovvio che non si baderà a mezzi per mantenere lo statu quo, ma a fuggevoli recuperi seguiranno ricadute pesanti sui fattori traenti – credito, imprese, lavoro – con riflessi sempre più intollerabili sulla qualità del vivere di gente abituata in precedenza a condizioni ben diverse. Non occorre perciò l’occhio magico per capire che, nel momento in cui il vortice regressivo avrà preso sufficiente slancio, la sua forza disgregante si materializzerà in durissimi conflitti sociali. Pertanto se gli scongiuri ci hanno sinora salvato da una apocalisse di fuoco e cenere - causata da uno o più sassi galattici, la plebaglia degli astrofisici, o da grappoli di

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ogive nucleari da far piovere in testa a chi capita – a ridurre l’intera umanità al lumicino sarà la plebaglia di contraddizioni, disuguaglianze, smodati predomini che ne hanno appesantito e infine interrotto il cammino verso obiettivi all’altezza delle dotazioni avute. Per fortuna a quello stadio - per il convergere di concause in attesa di verificarsi da svariati millenni - è non soltanto sperabile ma realisticamente pensabile che accada quello che a prima vista sembrerebbe un autentico miracolo e invece miracolo non sarà: quella stessa umanità, uscita spoglia da prove traumatiche, inizierà a correre senza ripensamenti verso un futuro assetto di cui non ha predisposto niente ma che sa e vuole in armonia con il sapere che verrà acquisendo per viverci dentro nell’unico modo coerente: in modo totale. Ciò significa che la smetterà di illudersi di poter imbucare nella realtà in cui vive l’accelerazione di conoscenze nei più vari campi di uno scibile che si mostra deciso a saltarla. In altre parole, gli orizzonti che si aprono al pensare, esplorare, sperimentare in universi virtuali paralleli a quello in cui i sensi l’hanno fatta da padroni porterà a ridimensionare di netto interessi legati alla dimensione reale, del resto non più esclusiva. Se ne ricava che un virtuale in galoppante crescendo dovrebbe prima condizionare e a seguire mettere il reale in un tranquillo cantuccio assieme a preziosità, paletti per i distinguo e quant’altro. Installando un’applicazione AR (Realtà Aumentata) su uno smartphone dotato di una bussola e di un ricevitore

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GPS (per rilevare posizione e orientamento) e puntandolo su di uno “strato” del web, si ottiene già oggi un mix di reale e virtuale. Se, per fare un esempio banale, si digiterà la parola Roma si otterrà una AR della città con il dettaglio di tutti i siti archeologici, i centri commerciali, i luoghi di ritrovo e così via senza la possibilità di separare la visione del reale nudo e crudo dai dati aggiunti se non con uno specifico comando. Ma lo si farà raramente, perché nella realtà assistita ci si troverà a perfetto agio. Vuoi mettere poi avere a disposizione tasti virtuali sul palmo della mano per fare vere telefonate o inviare e mail, trasformare in schermo interattivo qualsiasi superficie, studiare la storia della Terra e approfondire le nozioni di medicina attraverso filmati in tre dimensioni sulla vita quotidiana dei dinosauri 100 milioni di anni fa o sul funzionamento dal vivo dei principali organi del corpo umano. Senza contare che l’apprendimento migliora dalle tre alle quattro volte se le informazioni che pervengono al cervello ne stimolino in contemporanea diverse parti. Non è poi così lontano il ponte ologrammi di Star Trek. Indossando future lenti speciali, un paio di battiti di palpebre e si sarà connessi con la riunione alla quale si è avuto il permesso di accedere in diretta, che rimanderà immagini a tre dimensioni dei presenti. La biografia della loro vita scorrerà sotto insieme alla traduzione in tempo reale di quanto vengono dicendo, se in lingua diversa da quella dell’osservante. Del pari, collegandosi in streaming per la presentazione di

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un prodotto, in luogo delle attuali schermate apparirà olograficamente il prodotto medesimo, con ogni dettaglio in evidenza senza l’ausilio di un puntatore laser. In quello stesso futuro sarà pratica quotidiana interagire con immagini virtuali senza toccarle direttamente. Nei nostri giorni se ne ha un anticipo nel Sesto senso del Massachussets Institute of Technology: un’interfaccia AR che proietta immagini su una superficie e, seguendo i movimenti di punti colorati sui polpastrelli dell’operatore, interagisce con le medesime. Suoni e sensazioni tattili sono in arrivo. A quel punto si tratterà ancora di Realtà Aumentata o semplicemente di realtà? I computer – questa è un’assoluta certezza - saranno nei muri, nei mobili, nei corpi di ogni vivente e il lavoro di un’azienda, di un singolo ufficio, di un professionista, di un privato qualsiasi verrà memorizzato in rete e salvato su un server in the cloud. Noi alziamo gli occhi al cielo per avere un po’ di riguardo ma siamo scarsamente corrisposti mentre loro, i posteri, di qui a poco si vedranno garantiti al 100%. Non finiranno lì le gratificazioni che attendono l’umanità dopo l’inevitabile, rovinoso fall out. Il profetico “Siate visionari” di Steve Jobs a suo modo le prefigura, facendo da culla alla speranza che i figli dei nostri figli avranno ben altro: potranno andare in ogni luogo viaggiando in bolle antigravità; disporre di fonti di energia pulita in quantità illimitata; potenziare in modo esponenziale le capacità cerebrali con innesti di software, testare in permanenza gli organi vitali per

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mantenerne l’integrità. L’uomo di un futuro non distante dai traguardi che la scienza si pone non è detto non possa persino imitare i mitici dei, gustando le specialità preferite in piccole quantità un paio di volte la settimana e ricorrendo, per sostenersi al meglio, a sostituti proteici e vitaminici perfettamente assimilabili; ciò che permetterà almeno di raddoppiare nel tempo la funzionalità degli organi che presiedono alla digestione e di prolungare l’efficienza del resto. Per vestirsi basterà scegliere le proposte di centinaia di siti specializzati su modelli di tutti i tipi, avveniristici o d’epoca, indicando colori e materiali (rigorosamente di laboratorio, con protezione caldo/freddo, leggerissimi) prima di inviare on line i relativi riferimenti con foto, non necessariamente in costume adamitico, dalle quali il ricevente ricaverà le misure per la confezione. Peraltro dopo un po’ anche queste fantastiche opzioni, per noi da non credere, perderanno interesse perché ognuno i vestiti se li farà da sé. Sul piano collettivo il rivolgimento sarà conseguente al cambio di rotta imposto dalla insostenibilità dei costi degli assetti istituzionali odierni destinati a provocare, paese dopo paese, reazioni a catena fino a raschiare il fondo. Cosa non ci sarà a fine discesa? Intanto niente banche, con buona pace dei Medici che certo non pensavano sarebbero durate tanto, e un’amministrazione pubblica ridotta all’osso rispetto al presente. Basteranno infatti poche decine di migliaia di addetti per garantire servizi

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incomparabili con gli odierni a decine di milioni di utenti. Le università faranno a meno dei Rettori Magnifici, di un esercito di cattedratici e delle grandi aule nelle quali si esibiscono, sostituite da postazioni in cui esperti dei vari rami terranno lezioni seguite on line dagli interessati, abbiano 20 o 70 anni. Contestuale l’uscita di scena dei titolifici, che peraltro hanno perso da tempo credibilità per l’evolversi continuo delle conoscenze che li ha resi prima anacronistici e poi addirittura senza senso. Una rivoluzione copernicana non potrà non interessare la sanità dove il taglio di sprechi, burocrazia, personale, strutture obsolete fa paura solo a pensare di doverlo realizzare in tempi non biblici. Le risorse per mantenerla anche radicalmente rivista, ma non smontata, infatti non ci sono da noi, in Europa e nell’intero Occidente; e più si va avanti meno ce ne saranno anche nel resto del pianeta. In Italia, dove la situazione è particolarmente pesante, si potrebbe approfittare della diffusione delle farmacie per trasformarle in presidi sanitari di base comprendenti: un medico supportato da un robomedico programmato per rispondere ad oltre il 90% delle domande poste; un farmacista; un mini pronto soccorso con diagnostica. Scaffali e cassettiere nulla osta che rimangano finché si avvertirà il bisogno di scegliere tra molte proposte di medicinali con lo stesso principio attivo, diverso prezzo ed effetti, nella stragrande maggioranza dei casi, non curativi ma sintomatici.

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Va da sé che il nodo gordiano sia rappresentato dalle grandi strutture ospedaliere e dalle cliniche private che fanno loro corona, dove continua la gara per dilapidare pubblico denaro. Con una rete di centri dotati delle più moderne tecnologie, tra loro collegati in presenza delle stesse specializzazioni, si risparmieranno un sacco di soldi. Non ora ma quando si saranno sfoltiti i quadri di un sacco di gente senza meriti né particolari colpe e di altrettanta che di sole colpe ne ha d’avanzo. Un cenno meritano le professioni che andranno per la maggiore. In ordine decrescente: bioinformatici, esperti di robotica, fisici, matematici, ingegneri, agricoltori, giardinieri, addetti all’ordine pubblico. Per contro le professioni meno appetibili saranno quelle di medico, avvocato, commercialista, consulente del lavoro. Spariranno infine notai e politici di professione: abrogati! In campo sociale, le esistenze sezionate in stagioni - con tempi standard di impegno comune – apparterranno ai ricordi sgradevoli di un passato che si sentirà remoto per il salto di mentalità nel frattempo intervenuto più che per gli anni effettivamente trascorsi. La formazione sarà infatti permanente mentre il lavoro, vissuto come apporto individuale a esiti da condividere – avrà perso definitivamente il connotato di dipendente, ultima e neanche troppo larvata forma di schiavitù che ci portiamo appresso. Non si andrà in quiescenza sia perché il degrado fisico non sarà più così marcato in funzione degli anni, sia

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perché le capacità intellettive, stimolate dal continuum di conoscenze, determineranno obiettivi, nei più diversi campi, costantemente in avanzo per esistenze di durata mediamente quasi doppia rispetto all’attuale. Conterà sempre meno pure lo s tacco ieri /domani sia per l’accelerazione progressiva del cambiamento che interesserà tecnologie, assetti, modi di vivere, sia perché l’immaginazione, regina del vissuto, tenderà ad accomunarli a un presente senza confini. Se le novità nella società rinata dal tonfo della civiltà che conosciamo toccheranno in misura rilevantissima ogni aspetto della vita reale delle persone, non è immaginabile quale sarà l’evoluzione dei mondi visionari, dove le fughe in avanti saranno la norma. Nel quotidiano a tu per tu con conoscenze e applicazioni, che andranno costantemente al di là della dimensione in cui si respira, perderà in sostanza progressivamente peso il contesto reale e le sue conseguenti primazie, l’avere su tutte, mentre l’amato corpo verrà relegato a bagaglio appresso tenuto senza eccessiva fatica in condizioni ottimali. Dal quadro appena schizzato a noi, che quei livelli del progredire non potremo goderli, viene la conferma alla ipotesi che ha campeggiato in queste note: non è la materia di cui siamo fatti, senza sentircene compresi, all’origine di guai e disuguaglianze vissuti e da vivere ma lo iato tra la pozzanghera della fisicità e dei suoi irrazionali impulsi e l’oceano della mente che non si nega alcun traguardo. Per avventurarsi in tale oceano non servono stimoli

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esterni, avendoli ognuno pregnanti, sconfinati e tali da regalare e regalarsi personalissime creazioni ed emozioni. Ed è in sé consolante pensare che la prossimo ventura sarà una quotidianità visionaria, r e sa possibile da una scelta del vivere legata sempre meno a corpi da appagare e curare per esserne a discrezione limitatamente serviti. L’azzardo, o se si vuole ancora il sogno, è che gli uomini di domani, affrancati dal delirio apocalittico di Giovanni, usciti indenni dal primo mondo dei Maya e ad un passo dalla scadenza posta da Isaac Newton (che non azzeccherà la previsione), cerchino in se stessi, in cui tutto è racchiuso, la ragione e il compenso dell’ esistere. Non ci sarebbe, a quel livello, necessità alcuna di padri di copertura di alcun tipo e c’è da scommettere che si vivrebbe liberi e dunque felici come può darsi si sia stati in quel leggendario Primo Tempo, se per esso si intende culla e apice insieme della vita umana.

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Sommario Anteprima 1

Non ci siamo per caso 7

L’era felice 11

Il sogno infranto: Atlantide 14

Il diluvio universale: lo spartiacque 18

Il Primo Tempo 23

I “fuori quadro” 30

Presi dal mazzo 33

Megaliti 44

“C’erano sulla Terra i giganti …” 48

Nazca e la città degli dei 51

Cosa c’è in fondo al mare? 54

La Grande Piramide e le altre 58

Conoscenze senza tempo 65

Si è perso l’orizzonte 71

Ascesa e declino del consumismo 79

Pilastri in crisi: produzioni alimentari 89

Pilastri in crisi: l’ambiente 95

Pilastri in crisi: l’energia 99

Mercato globale e debiti sovrani 106

C’era una volta la società scolarizzata 115

Senza ismi 121

Con Gesù e Buddha 124

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Disuguaglianze allo specchio 126

L’apocalisse: bufale e rischi latenti 131

Ufo: le evidenze 138

Glifi in un campo di grano 143

Un Dna in mutazione 149

Una pesante autocritica 155

Scuole di pensiero al futuro 161

Mondi, tempo, coscienza e … 171

…. La Grande Madre 181

La vita tra un paio di ripartenze 188