Renzo Baldo - Le Lezioni americane · monocromia intere e vaste zone, qualche goccia vitalizzante....

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Renzo Baldo Interventi su BresciaOggi 1978-1979

Transcript of Renzo Baldo - Le Lezioni americane · monocromia intere e vaste zone, qualche goccia vitalizzante....

Renzo Baldo

Interventi su BresciaOggi

1978-1979

Quest'opera di Renzo Baldo è concessa sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione: Non commerciale - Non opere derivate

INDICE

1978 .................................................................................................................... 5

Mein Kampf ..................................................................................................... 6

Le realtà che stanno dietro l’angolo ................................................................ 7

Stato di guerra ................................................................................................. 9

La vera risposta ............................................................................................. 10

Il cavallo di Frisia ........................................................................................... 11

Quando cadono le teste ................................................................................. 13

Emergenza e garanzie .................................................................................... 14

Vogliono disarmarci ...................................................................................... 16

Tutti condannabili ......................................................................................... 17

Angoscia ed energia ....................................................................................... 19

La vicenda di Moro e il prossimo futuro della democrazia italiana ............. 20

Con ferocia e disprezzo ................................................................................. 23

Rifiuto del nichilismo .................................................................................... 25

Guardare alle radici ....................................................................................... 26

Il “salotto” non va d’accordo con l’attesa di un dibattito ............................. 28

Partiti e società civile .................................................................................... 29

Un preoccupante dossier ............................................................................... 31

Da Ventotene a capo dello Stato ................................................................... 32

Paolo VI ......................................................................................................... 33

Il Papa non è un demiurgo ............................................................................ 35

Una dolorante ricerca del “compagno uomo” ............................................... 37

Anche Pedini comincia dal tetto ................................................................... 39

Solo il tempo di farsi amare ........................................................................... 41

Tutto ciò che fa spettacolo ............................................................................ 42

P. Pasolini voce del nostro tempo ................................................................. 43

Un bresciano nella Mittel-Europa ................................................................ 44

La disillusa saggezza del superuomo capovolto ........................................... 46

Una testimonianza da non dimenticare ....................................................... 49

Si apre l’anno del Sinodo ............................................................................... 51

Un’idea “moderata” della libertà di stampa ................................................. 53

RENZO BALDO

A cinque anni dal “golpe” .............................................................................. 55

Finale d’anno 1978-1979 ............................................................................... 56

1979 ................................................................................................................... 57

La “storia” di un carteggio ............................................................................. 59

Il vescovo Morstabilini guarda alla carta stampata ...................................... 61

Bréchechechèx coàx coàx (1) ......................................................................... 63

Non a caso ..................................................................................................... 65

Ipoteche e proprietà ...................................................................................... 67

Aggregazione DC e “impegno” cattolico ....................................................... 68

Il tira e molla del Concordato ....................................................................... 70

Il marchingegno e gli uomini ........................................................................ 72

Piazza Fontana: giustizia, ma senza chiarezza ............................................. 74

Due serate con Goethe ................................................................................... 76

Disagio e riscatto ........................................................................................... 78

Ventotto Maggio ............................................................................................ 81

I dilemmi dell’Europa ................................................................................... 82

Europa tecnocratica o Europa democratica? ............................................... 85

L’“olocausto” in Italia .................................................................................... 90

Il pesante groviglio delle responsabilità ....................................................... 92

La penetrante semplicità di uno scrittore “appartato” ................................. 95

Una partita a poker verso la tragedia ............................................................ 97

Le “funeste” giornate dell’Ottobre 1929 ....................................................... 99

Hubbard ....................................................................................................... 102

IV Novembre ............................................................................................... 103

Non fidarsi troppo del neopopulismo ......................................................... 104

Vuoto patinato e vesti dimesse .................................................................... 105

Una virile memoria della Resistenza .......................................................... 106

Il darwinismo sociale ................................................................................... 107

Una storia orribile non ancora finita .......................................................... 109

Mondo cattolico e corsa agli armamenti ...................................................... 111

Una spirale pericolosa .................................................................................. 114

Anche a Brescia un po’ d’Europa ................................................................. 116

Dal seminario al Cremlino ........................................................................... 118

Indice dei nomi .............................................................................................. 121

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1978

RENZO BALDO

Mein Kampf

Il comunicato-documento, con il quale le Br hanno rivendicato e spiegato l’ultima loro impresa omicida, si distingue dai precedenti. Invece dei soliti slogan, un ampio e articolato discorso, che prende le mosse dal problema delle carceri per toccare, in un quadro unitario, più vasti temi, che coinvolgono lo Stato e le istituzioni. È una vera e propria dichiarazione di guerra, fondata su una lucida analisi ideologica. Gli ideologi delle Br hanno fatto, questa volta, il massimo sforzo per presentare in tutta regola le loro carte. Né si può dire, obiettivamente, che manchino di argomentazioni e non sappiano coordinare un discorso sorretto da una logica rigorosa.

Ma è proprio in questo momento ideologicamente impegnativo che si scopre meglio il nodo che li confina inesorabilmente nella cornice di astratta e orgogliosa disperazione, che ha sempre caratterizzato le Br e i movimenti similari. Nelle carte gettate sul tavolo si legge con tutta chiarezza l’assenza della carta fondamentale, l’assenza di quell’“asso” vincente, che, solo, può garantire significato e credibilità all’istanza rivoluzionaria: il legame con le masse, la capacità di sviluppare un discorso e di promuovere un’azione che non siano chiuse nella solitudine individualistica di un’avanguardia che presuntuosamente si incarica di gestire la storia, nel più totale disprezzo delle configurazioni concrete della realtà, nel più assoluto rifiuto di commisurarsi con essa, se non nei termini di uno scontro frontale cieco, privo di qualunque luce dialettica.

Gli ideologi delle Br sembrano non avvertire che il loro discorso nasce da una dimensione culturale e politica dettata da quel “catastrofismo” apocalittico che non solo è estraneo ad una autentica coscienza di classe, ma che è tipico, e già paurosamente sperimentato, delle “avanguardie” che pretendono di gestire le masse senza collegamenti reali con esse.

Senza probabilmente rendersene conto, le Br. mentre si arrogano questa gestione, si lasciano gestire da una logica e da un substrato ideologico inconscio, che le avvicina di più al Mein Kampf che a Marx.

16 Febbraio 1978

BresciaOggi 1978

Le realtà che stanno dietro l’angolo

Si proiettava “Marcia trionfale” di Bellocchio. le forze dell’ordine applicano alla lettera la legge e impediscono l’entrata a una trentina di giovani al disotto dei 18 anni.

Basta dare un’occhiata al programma previsto dal Cineforum di Vobarno per capire che gli organizzatori sono stati mossi da seri intendimenti culturali. Certo, lo sappiamo: la norma di legge prevede, per la frequentazione degli spettacoli gestiti dai cineclub, l’età di 18 anni. Ma, guarda caso, della norma ci si ricorda quando si tratta di un film che tocca tematiche, diciamo così, non gradite a chi è arroccato nel difesa ad oltranza dei modi più arretrati di concepire la società, l cultura, i centri di potere. In questi casi, dare una risposta soltanto formale (“la legge non lo consente”) è come sfondare una porta aperta, è nascondersi dietro il classico dito, che non riesce a nascondere nulla. Dietro al dito ci sono alcune realtà, sulle quali è bene non chiudere gli occhi.

C’è, ad esempio, il costante riproporsi della sorda ostilità ad ogni iniziativa culturale che smuova la morta gora della provincia. In questi ultimi anni gli enti locali sono riusciti a far cadere, nel grigiore diffuso che domina con la sua pesante monocromia intere e vaste zone, qualche goccia vitalizzante. Subito all’intorno si sono messe in agitazione le forze, che da sempre sono impegnate a costruire siepi e a mantenere paludi. Le biblioteche comunali, che dovrebbero costituire un punto di riferimento per l’animazione culturale della provincia, subiscono costantemente questo impatto, che tende cloroformizzarle e a ridurle a inerti presenze, a larve inconsistenti e improduttive. Se una larva dà qualche segno di vitalità, bisogna subito scoraggiarla, ridurla al “buon senso”, in altre parole, ridurla in uno stato permanente di inutilità. Le biblioteche comunali, insomma, possono anche fare da fiore all’occhiello, ma si guardino bene dal diventare strumenti reali di informazione e di dibattito.

E c’è, anche, il problema dei giovani. Di quei giovani che, sull’onda del ‘68, sono stati dichiarati maggiorenni all’età di 18 anni. Una conquista, non c’è dubbio. Ma il problema della formazione e della aggregazione dei giovani, il problema della loro introduzione ad intendere le strutture, le forme, i contenuti della realtà non può avere, evidentemente, risposte meramente formalizzatrici.

Nemmeno il più arretrato tra i pedagogisti più codini sarebbe disposto a sostenere che la formazione dei giovani, il loro contatto con le realtà locali, il contatto con quel minimo di cultura che si esprime nell’ambiente nel quale vivono, debba iniziare allo scoccare del 18° anno. Con questi metodi, oltretutto in piena contraddizione con il fiume di lai che quotidianamente vengono versati sulla condizione giovanile, su questi giovani che bisogna recuperare, che bisogna educare, che bisogna aiutare a entrare consapevolmente nella società civile etc. etc., si instaura il più squallido dei programmi da loro proporre: qui dentro non entrate, o minorenni, andate altrove, andate sui rampanti motori che allietano le nostre serate e le nostre domeniche, andate nelle discoteche e nelle balere, nei locali dove si proietta al 98% il fior fiore del

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pattume cinematografico (date un rapido sguardo ai programmi, se non ci credete), andate insomma dove volete, ma non qui, dove si fa qualche tentativo per pensare, per capire qualcosa, discutere, incontrarsi a livelli un po’ meno piattamente disutili, perché non avere diciotto anni. Il legislatore, infatti, ha previsto tutto: anche l’età in cui è lecito incontrarsi per pensare, capire qualcosa, etc.

Di questo passo non c’è tanto il rischio che il tutore della legge entri nei recinti della famiglia (pare che siano sacri), ma certamente in tutti i recinti che non siano strettamente “privati”. Perché, per esempio, non entrare nelle scuole, con tutti gli strumenti consentiti dalla legge, per farne uscire i minori di 18 anni, quando vi si legga o spieghi qualcosa che puzzi di scarso rispetto per i “valori”, così come i codini tradizionalmente li intendono? (Ahimè, se i codini, oltreché andare qualche volta al cinema, prendessero anche l’abitudine di leggere, chissà che sorprese avrebbero e, di conseguenza, ci darebbero!) Che sarebbe, non c’è dubbio, un risultato interessante nella lunga via verso la “riforma” della scuola.

10 Febbraio 1978

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Stato di guerra

Poiché non esistono, ormai, termini e fraseologie minimamente adeguati ad esprimere le sensazioni di sgomento nelle quali siamo immersi, ci limiteremo a dire, freddamente, che quanto è avvenuto stamane a Roma può perfino non sorprendere.

Abbiamo avuto più volte l’occasione di sottolineare che il terrorismo, ormai da tempo, non conosce limiti ed ostacoli, che la sua escalation è implacabile. Segno evidente di una potenza organizzativa, che non poteva, e tanto meno può oggi, essere spiegata col riferimento al fanatismo ideologico o alla disperazione di alcuni gruppi e, quindi, col risalire da essi, appoggiandosi a generiche spiegazioni sociologiche, ad alcuni strati sociali e ad alcune forze capaci di armare fisicamente lo scontento, l’irritazione o l’odio.

Rapire in pieno centro della capitale un uomo di prestigio e dell’autorevolezza morale e politica di Aldo Moro, eliminare la scorta che lo proteggeva, significa che il terrorismo è, con tutta evidenza, il frutto di una potentissima volontà di disgregazione e di distruzione, che si prefigge, con mezzi e addentellati dei più vari livelli, di distruggere questo Stato, lo Stato repubblicano e democratico e la sua Costituzione.

Alle spalle degli esecutori e dei mandanti sta un cervello lucidamente e cinicamente deciso a fare del Paese un terreno di guerra civile, un luogo dove non sia più possibile confrontarsi con i mezzi del civile dibattito, sul fondamento delle istituzioni e della volontà popolare, ma soltanto scontrarsi ferocemente o ritirarsi impauriti e sgomenti da ogni volontà o tentativo di partecipazione alla vita pubblica.

Dove sta questo cervello? Imprevidenza, confusione, leggerezza hanno permesso, ormai da anni, che protezioni, omertà e peggio si stendessero come un velo a rendere sempre più difficile questa identificazione. Una cosa è certa, che quel cervello, quella “mano invisibile” gestisce tutto un groviglio nel quale si mescolano volontà reazionaria di sovvertimento, velleità rivoluzionarie, appoggi internazionali, intrecci con la mafia e la malavita.

Il risultato è un processo, che sembra inarrestabile. Per renderlo “resistibile”, per impedire che il Paese piombi in una situazione simile a quella nella quale già tragicamente si dibattono altri Paesi, occorre una chiara volontà politica, la quale sola sa far trovare i mezzi per raggiungere i fini. Lo “stato di guerra” di cui ha parlato stamane un autorevole esponente del nostro mondo politico va gestito con chiarezza e ragionata energia. Alla classe politica spetta condurre autorevolmente questa “guerra” e salvare le istituzioni dello Stato.

16 Marzo 1978

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La vera risposta

Il “vertice” raggiunto dal terrorismo riconferma alcune certezze, che è bene sottolineare.

La centrale che muove questa aggressiva criminalità ha un piano preciso: destabilizzare il Paese La scelta di Aldo Moro, un uomo di grande prestigio politico, che da anni, e di nuovo in questi ultimi tempi, ha saputo, con misurata saggezza, percepire il reale movimento delle cose e fare, per così dire, da architrave per un progetto di larga unità democratica, lo testimonia in modo drammatico. E lo testimonia la scelta del momento: il giorno, nel quale il nuovo governo, pur con tutti i suoi limiti, si presentava al Parlamento.

Un’atroce offesa alle istituzioni, una precisa aggressione ad un corso politico.Questa centrale dispone di una forza organizzativa gigantesca. Risulta ridicolo

pensare che si tratti di piccoli gruppi di disperati o di fanatici. La classe politica italiana deve fare i conti con questa realtà. Ignorarla vuol dire condannarsi all’autodistruzione. Tenerlo presente significa togliersi dalla testa che si possano salvare le istituzioni soltanto con qualche appesantimento repressivo.

Alla giusta energia nel perseguire esecutori e mandanti devono accompagnarsi decise scelte, che permettano di raccogliere intorno alle istituzioni il consenso delle forze politiche e sociali, che nella democrazia crescono, e che la democrazia sono disposte a difendere, se in essa non vedano soltanto un gioco di potenti o una calcolata dosatura di sottili equilibri, ma la risposta reale ai loro bisogni, quale si raggiunge rimuovendo le matrici della violenza che si annida nel tessuto del vivere quotidiano.

Le masse popolari ieri sono scese nelle piazze. Attenzione a non chiedere ad esse soltanto partecipazioni rituali. Sarebbero risospinte nella qualunquistica indifferenza o nella diffidenza: l’anticamera delle peggiori soluzioni. Proprio quello che Aldo Moro ha sempre cercato di evitare.

17 Marzo 1978

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Il cavallo di Frisia

È diventata consuetudine, da quando - e sono purtroppo molti anni – si sono intensificati gli episodi del terrorismo, il chiedere che si passi finalmente dalle parole ai fatti.

È una giusta richiesta. Essa non esclude l’importanza delle proteste, delle manifestazioni di sdegno, delle espressioni di solidarietà, ma pretende che si faccia tutto il necessario perché cessi l’efferato e rovinoso stillicidio della violenza e della sopraffazione erette a scelta politica.

Giusta richiesta. Ma le divergenze incominciano e si infittiscono quando si tratti di stabilire: “quali fatti”.

Incalza, subito, in queste occasioni drammatiche, l’ondata degli “sbrigativi”: pena di morte, pugno di ferro, leggi eccezionali, legge marziale, militari al governo, abbasso i delinquenti, ammazziamoli tutti, e via di questo passo, dalle forme più canagliesche del reazionario convinto e impenitente, a quelle più tonte e patetiche degli ingenui, a quelle più raffinate del politico e dell’esperto di giure, che procedono consapevoli e astuti verso l’annegamento progressivo della democrazia.

Va richiamata fermamente l’attenzione su altri ordini di fatti, che si vorrebbero invece davvero veder prendere corpo in modo serio.

I servizi segreti: che ruolo giocano? Sono inefficienti o dobbiamo continuare a pensare che sono malfidi? Che reali capacità di controllo hanno su di essi i vertici politici?

L’“antiterrorismo” e tutti gli apparati che vi sono connessi: che tipo di efficienza hanno realizzato? Quali direttive hanno?

La classe politica: quale credibilità intende raggiungere ora che il governo è stato varato in una sorta di necessario silenzio provocato dal tragico episodio di Roma?

Queste sono alcune domande – altre se ne potrebbero aggiungere – intorno alle quali si vorrebbe vedere realizzarsi dei fatti.

Nel frattempo, il fatto che finora risulta più tangibile e positivo è stata la mobilitazione di massa. che si è verificata in tutto il Paese. Non si è trattato, come qualcuno forse ha immaginato, di una messinscena senza altro significato che quello di creare un po’ di coreografia senza seguito. Gli operai, gli studenti, le donne, i cittadini, che sono scesi nelle piazze, che hanno dimostrato senza indugi la volontà di difendere la democrazia, che hanno capito che il rapimento di Aldo Moro non toccava soltanto la classe politica, o la Dc, ma le istituzioni e quindi la vita di tutti noi, sono stati un indice di forza politica, un fatto veramente significativo e concreto. La calma, il controllo dei nervi, che qualcuno giustamente ha chiesto, e che tutti dobbiamo perseguire, sono possibili soltanto se si ricorda che questo fatto c’è stato, se si sa, come effettivamente è certo, che esso c’è, ma che altri fatti – seri, adeguati, non rozzamente impulsivi, e non raffinatamente involuti – seguiranno. Il simbolo della democrazia non è il cavallo di Frisia. La psicosi da stato d’assedio non giova a nessuno, se non ai nemici della democrazia. Essa va dispersa con la ferma

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dimostrazione della volontà e capacità di fare tutto ciò che è necessario, un tutto i cui confini e le cui determinazioni spettano a coloro che la democrazia intendono salvare a tutti i costi.

18 Marzo 1978

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Quando cadono le teste

L’immagine del potere, che si difende eliminando fisicamente l’oppositore, appartiene ad una tradizione così radicata da apparire, alla coscienza comune, fenomeno “naturale”. Su di esso si sono costruite giustificazioni, spiegazioni, teorie varie, che si raccolgono sostanzialmente nella convinzione che ogni “mezzo” va giudicato per i suoi “fini”. Identificata la bontà dei fini, la coscienza morale è invitata a non dar fastidi e a lasciar libero corso alla durezza della necessità. In caso contrario si rischierebbe il piagnisteo del moralismo astratto e inconcludente.

Ma è davvero dettata da astratta moralità la stretta al cuore che ci prende quando vediamo che quella tradizione non accenna a finire? O non è, piuttosto, il segno di una amarezza politica profonda, che nasce dalla attesa, ancora troppo insoddisfatta, che l’umanità esca dalla gestione di una sua presunta, immutabile “natura” per decidersi ad una diversa gestione di sé?

Dalla notizia che in Cina sono stati condannati a morte dei “controrivoluzionari” si proietta un’ombra opaca, che ci investe anche se proviene da così remota lontananza, anche se cinta dalla scarsità e imprecisione delle informazioni. Il vecchio Mao ci aveva avvertito che non serve far cadere le teste. I suoi successori sembrano invece imbevuti di realpolitik, e hanno forse bisogno di “dare degli esempi”. Questa scelta rattrista. È un pauroso rallentamento sulla via per creare uomini nuovi, un’immagine nuova del potere.

27 Febbraio 1978

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Emergenza e garanzie

Sui provvedimenti, che, per prevenire e combattere le azioni terroristiche che funestano il Paese, - provvedimenti decisi dal Consiglio dei Ministri e che in Parlamento dovranno convertirsi in legge - si può largamente consentire che, dettati da una situazione indubbiamente di emergenza, possono essere interpretati (oltrechè, ovviamente, come una ricerca di mezzi tecnicamente adeguati a raggiungere il fine che ci si propone) sia come una risposta psicologica a larghi strati di opinione pubblica, giustamente sgomenta e offesa, ma sia anche come una mediazione intesa a rassicurare e al tempo stesso a contenere la spinta di certo ultramoderatismo – quale sotto la pressione degli eventi può affiorare anche in uomini e zone politiche che fino ad oggi potevano sembrarne lontani – che ad alta voce ha chiesto ed è disposta a chiedere ben altro.

La discussione se detti provvedimenti siano o no nell’ambito della Costituzione, se, cioè, debbano o no considerarsi “eccezionali” - discussione importante sotto certi profili – può anche essere considerata marginale rispetto al problema, politico e pragmatico, della gestione di essi, delle conseguenze reali che essi possono determinare, nonché della loro efficacia.

La gestione spetta ad un governo, che poggia su un consenso di larga maggioranza. A queste forze politiche, a tutte, spetta la responsabilità di verificare che le misure adottate siano adoperate esclusivamente per combattere il terrorismo. È noto che è purtroppo molto facile, quando, per una situazione di emergenza, si abbassa il livello della legalità, dirottare le norme e le misure nate dall’impoverimento delle “garanzie”, verso il perseguimento di risultati di tutt’altra natura da quelli dichiarati. In questo deprecabile caso, lo stato democratico e la sua Costituzione subirebbero un pericoloso “imbarbarimento” e, per intenderci, potremmo ritrovarci ad essere cittadini di uno Stato pre-89.

Questo veramente costituirebbe, anziché una vittoria sulle Br, proprio una larga concessione ai fini che esse sicuramente si propongono, e cioè di mettere a nudo la inattendibilità della ipotesi che lo Stato, questo nostro Stato, possa essere pensato come capace di sviluppo democratico, di reale progresso, di risposte persuasive.

In altre parole, dobbiamo avere uno Stato autorevole, non autoritario. E l’autorevolezza dello Stato si dimostra non soltanto vincendo militarmente le Br, ma garantendo la democrazia in tutte le sue forme e in tutti i suoi sviluppi potenziali.

Non si dica che questi sono discorsi da astratti innamorati della democrazia, che non sanno guardare in faccia la realtà e rendersi conto della particolare natura del momento che stiamo attraversando. Se una zona d’ombra e una sensazione di amarezza si proiettano su queste scelte di misure d’emergenza, che pur appaiono necessarie, esse sono dovute, se non altro, alla constatazione che, nel momento nel quale lo Stato chiede ai cittadini di accettare queste restrizioni col rischio che esse comportano, ancora non si sono delineati, nell’immagine di questo Stato, quei tratti di credibilità che esso da tempo avrebbe dovuto darci.

Non si può isolare, noi crediamo, l’attuale virulento manifestarsi della tracotanza sanguinaria delle Br, dai 10 anni di terrorismo che l’hanno preceduta, dai tentativi di sovvertimento che anche prima di questo decennio si sono manifestati, e proprio

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dall’interno dello Stato stesso; e neppure dalla mancata risoluzione di problemi di grande rilievo come quello del rapporto tra corpi separati, servizi segreti e istituzioni democratiche. Su tutto ciò si aspettano ancora risposte. E non si tratta di risposte accademiche e formali, ma sostanziali, anche ai fini di combattere le Br. E a questo proposito citiamo, a titolo d’esempio molto significativo, la ancora mancata sindacalizzazione della polizia, che non è solo un problema di riconoscimento di giusti diritti, ma di efficienza e di garanzia per lo stato democratico.

C’è dunque da chiedere, e da augurarsi, che la classe politica operi, perché l’isolamento delle Br e di tute le forme del terrorismo sia conseguito raccogliendo le masse popolari, il Paese tutto, intorno non ad uno Stato qualsivoglia, e magari pericolosamente disposto a scivolamenti involutivi, ma intorno ad uno Stato che riveli la sua autenticità democratica nel dare risposta, mentre persegue il terrorismo, a molti degli altri problemi che lo travagliano.

24 Marzo 1978

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Vogliono disarmarci

È evidente, anche dalla lettura di quest’ultimo comunicato delle Br, che il loro sforzo di assumere un volto ideologicamente convincente raggiunge costantemente un unico risultato: quello di isolarsi arrogantemente in un atteggiamento da giudici indiscussi e indiscutibili.

In altre parole: le Br hanno infantilmente scoperto che ci sono dei problemi (imperialismo, le multinazionali e via dicendo) e hanno stabilito che solo loro sanno come si fa a risolverli. Chi non accetta la loro linea è lurido traditore, etc. etc

Alle masse popolari, che con le loro organizzazioni politiche e sindacali stanno compiendo una gramsciana marcia di avvicinamento alle casematte. del potere per realizzare una trasformazione di cui esse siano storicamente e concretamente protagoniste, le Br contrappongono una sorta di rozzo (e irresponsabile) avanguardismo, dietro al quale, in realtà, si legge ben altro, ne siano esse consapevoli o no, e cioè la spinta a creare una generale dissoluzione del tessuto civile.

Si sa cosa accade in questi casi, quando il progetto sciaguratamente si realizzi. Basti pensare a come ne stanno soffrendo, per esempio, i paesi dell’America

Latina I giganteschi problemi nei quali ci dibattiamo, e non soltanto in Italia, non si risolvono processando Aldo Moro e nessun altro, e tanto meno ammazzando e sparando con uno stillicidio di perversa inutilità o di calcolata improntitudine antidemocratica e antipopolare.

Salvaguardare il tessuto civile è la prima e imprescindibile condizione per fare qualcosa di serio e di responsabile. Chi opera in senso contrario, può nascondersi dietro tutti i linguaggi che preferisce, appiattarsi sui terreni che più gli tornino opportuni, raccattare argomenti e fare analisi, senza per questo per nulla mutare l’obiettiva negatività delle sue scelte.

26 Marzo 1978

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Tutti condannabili

Nel corso di questi lunghi, penosi giorni, nessuno, nel quale pulsasse un minimo di coscienza civile, ha potuto sottrarsi alla impellente necessità di misurarsi con una vicenda, come quella del rapimento di Aldo Moro, che non è soltanto tragicamente inquietante, ma si è rivelata drammaticamente carica di complessi risvolti. A tutti i livelli, e la stampa ne ha consentito una diffusa informazione, si sono registrati interventi, che, da quelli più secchi e sbrigativi, a quelli più meditati e penetranti, hanno aperto un panorama, che ha offerto, in positivo, il segno di una partecipazione intensa e capillare ad una vicenda, che riguardava il destino di un uomo e, attraverso di esso, l’intera vita del Paese.

Per quanto questa riflessione possa sembrare ovvia, quel panorama si pone, nel suo insieme, come testimonianza di un paese civile, che nell’affronto subito ad opera delle Br ha visto chiaramente una perversa immagine di corrompimento e di degradazione del suo tessuto primario, che passa attraverso le istituzioni e la Costituzione che le regge.

Affermare di voler colpire, con metodi che vorrebbero essere “rivoluzionari” e che si sono rivelati puramente criminali, Aldo Moro, e attraverso la sua figura di leader il partito della Dc, è un paravento provocatorio e infame. Ammesso, non importa se per assurdo o per paradosso o per persuasa convinzione, che ad Aldo Moro e al suo partito si possano attribuire delle “responsabilità”, la scelta delle Br di sottrarsi - totalmente e cinicamente – a qualunque forma di confronto reale, per ritirarsi nella tenebra imperscrutabile di un’arroganza sanguinaria, testimonia sicuramente che la loro azione, al di là delle analisi di cui i loro comunicati pletoricamente sovrabbondano, persegue un solo fine: lo scardinamento del tessuto civile. Altro che rivoluzione proletaria!

E lo testimonia ampiamente quest’ultimo comunicato. Dopo aver calato sul Paese un sopraffattorio stillicidio di violenza e di sangue, dopo aver massacrato senza processo i cinque uomini della scorta, l’annuncio della “condanna a morte” di Moro è il nuovo inconfutabile segno che le Br una sola cosa perseguono: trascinare il Paese in una situazione da “squadroni della morte”.

Ci siamo augurati che Aldo Moro venisse restituito vivo, non soltanto perché ci ripugna il delitto, e ci è odiosa e inaccettabile ogni “condanna a morte”, ci risulta priva di senso e ignominiosa una simile idea mafiosa della giustizia, ma anche perché speravamo che, pur nella brutalità e nel fanatismo, che le muove, le Br conservassero un minimo, chiamiamolo così, di buon senso, un minimo di politicità.

Se questa condanna a morte sarà sciaguratamente eseguita, avremo, noi crediamo, la prova che le Br sono dirette da una mente lucidamente perversa. Già la loro potenza organizzativa ce lo fa pensare. Ma questo eventuale finale tragico, assurdo fino all’inverosimile, si porrà - e ancora ci auguriamo che non avvenga – come un sigillo inconfondibile.

La “condanna a morte” di Moro è una condanna per tutti. La logica delle Br è una logica da fantascienza tragica, nella quale il vivere e il morire non dipendono più da

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razionali, consapevoli, partecipate e soppesabili umane e collettive valutazioni, ma da una mente oscura e tenebrosa, che si accampa ad arbitro, a persecutore, a giudice. Pensare che un simile mostro abbia un minimo di credibilità, è veramente inconcepibile. Ambigua e velenosa la linfa che lo nutre, sospetto il terreno che lo regge, contorti e aggrovigliati i fili che gli si dipanano intorno. Quanto meno un mostro a cui altri mostri facilitano la strada.

16 Aprile 1978

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Angoscia ed energia

Sebbene fosse purtroppo ampiamente prevedibile - nonostante qualche tenue spiraglio di speranza apertosi l’altro ieri - che la vicenda Moro precipitasse verso un finale tragico, la giornata di ieri è stata per il paese segnata da un sussulto traumatico. A parte l’angoscia che sul piano umano provoca il presumibile incontro con un omicidio perpetrato con così sprezzante ferocia, è apparso chiaro che l’assassinio di Moro non può non provocare scosse nel tessuto del Paese. È, con estrema evidenza, il fine che le Br si sono proposte.

Dietro la maschera senza volto dei terroristi sta questo disegno, che mira al tempo stesso a immobilizzare il processo di trasformazione che può essere ipotizzato come il risultato conseguibile da un governo nato sull’attuale maggioranza e a creare uno stato generale e profondo di emozione, sconcerto, che convogli le energie verso un solo problema, quello della difesa interna.

Contro questo disegno le forze politiche sono chiamate a dar prova di saper tenere in pugno la situazione, che è una situazione di ordine pubblico, ma di un ordine pubblico da salvaguardare con la continuità della vita politica e istituzionale. Ciò è possibile realizzare se si avverta che il problema di fondo è, oggi, quello della “centralità democratica”, quello di mantenere i partiti in rapporti che consentano l’attuazione di questa prospettiva.

Non è senza significato che in questa linea i sia mosso il Cc del Pci. La repentina chiusura dei suoi lavori, provocata dalle drammatiche notizie sopraggiunte, ha forse impedito un più ampio svolgimento di alcuni temi, che dovranno essere affrontati sicuramente nel dibattuto politico dei prossimi giorni. Su questi temi il Pci ha aperto un processo di riflessione – in continuità, del resto, col dibattito al suo interno in corso da qualche tempo – i cui risvolti non riguardano soltanto quel partito, ma investono tutto il paese. A cominciare dalla Dc, il partito che gli eventi di questi giorni hanno sottoposto a una dura prova. Non esitiamo a dire che l’energia e la lucidità con la quale saprà sopportarla e dalla quale saprà uscire saranno elementi determinanti per il prossimo futuro del Paese.

19 Aprile 1978

BresciaOggi 1978 19

Un drammatico 25 Aprile

La vicenda di Moro e il prossimo futuro della democrazia italiana

Chi ha combattuto contro il nazifascismo e nel corso degli anni successivi non ha cessato di rimeditare sul significato della Resistenza, per riproporne, nella concretezza dei fatti, la forza coesiva e la capacità di rivelarsi una linfa vitale, di cui permeare la vita del Paese, ha sempre provato un sottile disagio quando si è trovato nella opportunità o nella necessità di pubblicamente partecipare al ricordo e alla celebrazione. Raramente il significato profondo si una data appare, come nel caso del 25 aprile, così antagonistico alla effusione verbale, alla ufficialità celebrativa.

Ma quest’anno il disagio si accentua e si trasforma sicuramente in inquietudine drammatica. Si ricorda, oggi, la “nascita della libertà”, in un momento nel quale uno degli uomini più eminenti di questa Repubblica nata dalla Resistenza è stretto in una assurda e feroce prigionia, che da un momento all’altro può trasformarsi in un lutto irreparabile o in una restituzione alla vita, nell’uno e nell’atro caso accendendo tensioni tali da ripercuotersi sull’intero quadro della nazione, con conseguenze che dovranno essere tenute d’occhio con molta attenzione e con molta energia, proprio se si vorrà che la “libertà” conquistata dalla Resistenza non subisca pesanti involuzioni. Ricordare il 25 aprile significa oggi, dunque, inevitabilmente, rapportarlo a questo argomento, che in questi giorni ci incombe addosso, verificare il senso e la portata di quel grande evento, che segnò la storia italiana in modo decisivo e galvanizzante, commisurandolo, nella situazione attuale, con l’ombra minacciosa che la tragica vicenda del rapimento di Aldo Moro proietta sul Paese.

La minaccia è, certamente, nell’accamparsi arrogante, criminale, da incubo, di organizzazioni occulte e misteriose, che, indicando come proprie, a livello verbale, aspirazioni e speranze di trasformazioni, che vasti settori di masse popolari hanno sempre sentito come il fondamento della propria presenza sulla scena della storia di oggi, mirano a creare scompensi e confusioni, a determinare, in sostanza, quel rischio di arretramento e di involuzione, che sicuramente si determina quando orgogliose, fanatiche e infide minoranze pretendono di sostituirsi alla coscienza collettiva, al processo di maturazione reale delle masse, ributtandole in una condizione di minorità e di estraniazione

Ma la minaccia è anche quando, nel rivelarsi della profondità del guasto, che ha permesso che simili fenomeni si siano prodotti con tanta virulenza e tracotante sicurezza, si dia di essi un’immagine deformata per eccesso di semplificazione. È difficile sostenere che il fenomeno Br sia nato soltanto perché qualche ideologo fanatico è riuscito a costruire intorno a sé – non si capisce ancora bene, oltretutto, con quali appoggi e connivenze – un apparato militare cinicamente aggressivo. Tale coagulazione è stata resa possibile da alcuni dati della realtà, che si è determinata nell’Italia degli anni ultimamente trascorsi, dati che sono, appunto, il segno drammatico della lentezza e contraddittorietà con la quale lo spirito della Resistenza si è fatto strada nel Paese.

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Nessun dubbio che sarebbe settario voler vedere trent’anni di storia della repubblica soltanto sotto il segno del negativo. Ma tutto ciò che si è configurato come sbocco positivo e ha presentato inequivocabili segni di crescita e di maturazione democratica ha subito l’impatto con alcune pesanti e fosche ombre, che hanno sciaguratamente consentito che fermentasse l’humus, che ha generato il fenomeno inquietante del terrorismo. Non chiuderemo gli occhi sul fatto che l’estremismo, in tutte le sue forme, ha ricevuto indubbie sollecitazioni dal fatto che la Repubblica è sembrata troppo spesso permeata di corruzione piuttosto che di libertà, affidata piuttosto a rovinosi metodi clientelari che alla dinamica di un paese retto da istituzioni civilmente responsabili, pervicacemente indulgente o addirittura corresponsabile nel confronti di piani reazionari.

Si tratta di errori, di carenze, di scelte la cui responsabilità grava su tutti, anche se sicuramente più su qualcuno che su altri. Nel lancinante travaglio che le vicende di questi giorni hanno determinato all’interno dei partiti, nelle loro dirigenze e nelle loro basi, nonché nelle aree di pubblica opinione, che d esse sono vicine, si sta assistendo, acanto ad una larga capacità di mantenere coraggiosamente la unità del quadro democratico, anche ad alcune analisi e, forse, ad alcuni risentimenti ed esigenze di chiarimenti, che, opportune e giuste come strumento di confronto, vanno ricondotte con decisione a perdere ogni eventuale connotato di disgregazione o di frattura, per assumere il peso positivo di strumenti atti a stimolare, a mantenere, a consolidare la compattezza delle forze democratiche, che possono e intendono combattere contro ogni forma di involuzione e di disfacimento.

Chi ha avuto l’occasione di partecipare a incontri, a riunioni, dibattiti, che in questi giorni hanno avuto luogo ai più vari livelli, avrà avuto modo di constatare la diffusa presenza, talora sottile, talora tumultuosa, di atteggiamenti umorali, che forse la stampa ancora non ha registrato, se non in modo marginale. Si tratta di atteggiamenti che nascono da una pericolosa tendenza a demonizzare, a cercare di individuare la radice del male nell’avversario o nel diverso, da un lato nel partito di maggioranza, isolato nell’accusa di trentennale malgoverno, di connivenze e di arroganza tali da aver determinato sfiducia nello Stato e nelle istituzioni, dall’altro nella sinistra storica, e in particolare nel Pci, che non avrebbe adeguatamente depurato o rifiutato la propria radice ideologica dagli elementi che il terrorismo ha fatto propri per giustificare la propria criminale aggressività. Si tratta di discorsi pericolosamente astratti e antistorici.

Il tessuto ideologico della sinistra è passato attraverso decenni di responsabile commisurazione con la concretezza della storia, che ha avuto il suo punto di partenza proprio nell’unità antifascista, che ha conquistato la meta del 25 aprile e le Costituzione che ne è stata l’espressione. Da quel punto di partenza è nato un processo di straordinaria rilevanza storica, che è oggi in pieno svolgimento, che consente una ipotesi di trasformazione fondata sul confronto democratico, e che è proprio, con tutta evidenza, l’oggetto vero e finale della aggressione terroristica.

D’altra parte le responsabilità di malgoverno del partito di maggioranza, che non vanno certo sottaciute, non solo non debbono indurre ad una arbitraria identificazione di un partito con la società e con lo Stato (un conto è lo Stato, in conto la sua gestione), ma debbono costituire un punto di riferimento come terreno sul

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quale compiere il necessario processo di critica e di autocritica, nel quale tutti debbono, per quel che a ciascuno compete, essere coinvolti.

Il 25 aprile di quest’anno può e deve essere un’occasione per riflettere su questi temi. La criminale azione delle Br deve servire al paese per riproporre con forza il processo di avanzamento democratico, al quale tute le forze sono chiamate, con una responsabilità, che nei prossimi tempi immediati sarà sicuramente messa di fronte a prove non facili.

25 Aprile 1978

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Con ferocia e disprezzo

Il delitto è stato consumato. Va subito detto che l’orrore che lo accompagna, al di là delle giuste parole di esecrazione, che oggi tutti pronunceranno, si annoda profondamente con la sgomentante sensazione di essere di fronte ad una scelta paradossalmente allucinante.

Le Br, nei primi comunicati, hanno affermato che il rapimento di Aldo Moro era stato effettuato per far conoscere a tutti, col processo a uno dei massimi responsabili di trent’anni di politica italiana, le malefatte, i retroscena, gli anfratti segreti del “potere”. Poi hanno annunciato che nulla di nuovo sarebbe emerso che la classe operaia già non sapesse. Poi hanno girato le carte sull’ipotesi dello scambio. Nel frattempo hanno insistito nel dire che quel che contava era la guerriglia per destabilizzare lo Stato imperialista.

Questa guerriglia le Br hanno continuato a portare avanti in queste settimane, coll’evidente sforzo di dimostrarsi irriducibili e implacabili, ma anche – e soprattutto – di aggregare intorno a sé strati, per quanto ridotti, di opinione pubblica, settori di emarginazione, di scontentezza e irritazione sociale, con l’evidente fine di assumere il volto di portatori di una bandiera credibile. E non è detto che, in qualche misura, purtroppo, questo volto sia apparso a qualcuno veramente credibile. Ma una cosa ora è certa: che questo cadavere, gettato con ferocia e disprezzo sulle spalle del Paese, delle forze politiche e della democrazia italiana, configura con estrema precisione il tessuto vero sul quale si intessono le trame delle Br.

Diciamolo senza infingimenti: Moro restituito libero non era soltanto una scelta di umanità, ma una scelta, a suo modo, per quanto come atto terminale di una vicenda aberrante e mostruosa, centrata in un segno politico “leggibile”, vorremmo perfino dire, tentando di metterci dal punto di vista che le Br conclamano, comprensibile. Un Aldo Moro restituito a libertà significava certamente un ginepraio inquietante per tutto l’arco politico italiano, dentro e fuori la Dc. C’erano molte cose da spiegare e da chiarire, c’era, diciamo così, un uomo da gestire tra ovvie ed evidenti difficoltà. No, le Br hanno preferito farne un cadavere, impedendogli di parlare, hanno preferito assumerlo al rango di una vittima da trasformare in un’immagine eroica e simbolica. Il piano di destabilizzazione perseguito dalle Br ha infilato così una strada non meno gravida di enormi preoccupazioni e difficoltà per tutto il quadro politica italiano, ma sotto un segno che profondamente e totalmente fa prevalere un colore di tenebra, nel quale la potente articolazione organizzativa e la sprezzante “sicurezza” delle Br assumono un’ambiguità intollerabile. Su questa “ambiguità” occorre interrogarsi, forze politiche e opinione pubblica, in una misura molto più decisa di quello che sino ad oggi sua accaduto di fare. Chi sono le Br? Che cosa permette loro di operare con tanta tracotante sicurezza? Chi e che cosa ne determina, non diciamo il rifiuto di ascoltare gli appelli del pontefice e dell’Onu, ma l’indifferenza di fronte ad un arco politico e morale, nel quale, lo diciamo a titolo di esempio, sono entrati uomini come Arafat?

Davanti al cadavere di Aldo Moro dobbiamo porci queste domande, perché anche su di esso non scenda il sipario del silenzio - magari in mezzo all’immenso clamore,

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che accompagnerà la sua morte - non si stenda il medesimo velo di impenetrabilità, nel quale si sono avvolte altre morti ed altre stragi, alle quali le Br lo hanno voluto accomunare.

9 Maggio 1978

BresciaOggi 1978 24

Rifiuto del nichilismo

Esiste, nel groviglio delle coscienze, una tragica disponibilità a pensare la morte come strumento di affermazione, di lotta e di potenza

Pochi giorni dopo la strage di Brescia su un muro in piena vista per chi entrava in Roma dalla via Flaminia campeggiava a caratteri cubitali la scritta: “Otto morti in piazza della Loggia sono troppo pochi”. E, in una città del Veneto, quest’altra scritta: “Riunitevi pure nelle vostre manifestazioni. Vi uccideremo centomila alla volta”. Qualche giorno dopo il rapimento di Aldo Moro su un muro di Milano si leggeva: “Uno, dieci, centomila Moro”.

L’aberrazione morale e l’arretratezza politica delle Br è tutta qui, in questo aver ferocemente accettato questa logica distorta, che vuol leggere nell’annientamento fisico dell’uomo il segno e la premessa della propria vittoria. Ed è invece il segno della propria sconfitta “storica”.

Si dovrà allora dire che il compianto e lo sdegno per l’assassinio di Moro devono far capo a questa convinzione, che occorre collaborare energicamente a questa “sconfitta”, costruendo tutti gli argini necessari, perché non si lasci spazio a questa visione nichilista rovinosamente e cupamente disumana, e politicamente aberrante.

Le piazze che ieri in tutta Italia si sono riempite a testimoniare l’isolamento assoluto delle Br ne sono la premessa. Questa testimonianza ci garantisce il fallimento del progetto delle Br di fomentare una sorta di nuovo qualunquismo, ingenerato dalla persuasione che la politica implica scelte sanguinarie, che esigue minoranze che si incaricano di gestirla con cinica arroganza, in una battaglia destinata a respingere le masse popolari in una posizione di spettatrici passive

Nei prossimi giorni saremo chiamati a misurare, pur nella tensione provocata dalla violenza brutale degli avvenimenti, la capacità di risposta del quadro politico italiano a questa testimonianza di massa. A misurare, cioè, la sua capacità di tenuta democratica e il suo collocarsi come espressione della volontà popolare di difendere e potenziare le istituzioni, che il Paese liberamente si è dato, e nelle quali sempre più intende essere presente e operante..

10 Maggio 1978

BresciaOggi 1978 25

Guardare alle radici

Cifre alla mano, la Dc ha avuto un bel successo; il PCI ha tenuto bene rispetto alle precedenti amministrative (in certi luoghi la sua presenza nei consigli comunali è cresciuta), ma ha subito un calo sensibile rispetto alle politiche del ‘76; il Psi ha mantenuto efficacemente la sua presenza e fortemente recuperato rispetto al ‘76; i partiti minori segnano qualche progresso.

Riflessioni sui risultati. La prima, ovvia, sottolineata da più parti anche nei commenti a caldo che abbiamo sentito nelle interviste televisive, è sul peso che a livello emotivo hanno sicuramente giocato gli avvenimenti di queste settimane, e in particolare degli ultimi giorni.

Si apre, qui, un ventaglio di possibili interventi interpretativi, che possono essere giostrati in vario modo, come sempre in queste occasioni. Si può, per esempio, pensare che la Dc, sotto il tiro delle Br, appaia, a vari settori dell’elettorato, non soltanto come un partito da premiare col consenso, che si ritiene giusto testimoniare a chi è perseguitato e offeso, ma come il partito, che garantisce, con la sua solida presenza quantitativa, l'ordine e la sicurezza del vivere civile. Se si tiene presente che la cosiddetta “nuova Dc” della gestione Zaccagnini continua ad esercitare, specie sui giovani, un richiamo di fiducia e di speranza, la somma di questi fattori spiega ampiamente il successo del partito di maggioranza.

Nella prospettiva di questo tipo di riflessioni si potrebbe anche aggiungere l’azzardo di una ipotesi, e cioè che questi risultati, se pur in modo non rilevante, potrebbero rispondere, tra gli oscuri fini che le Br si ripromettono, anche a questo calcolo, di spingere l'elettorato moderato a coagularsi intorno al partito di maggioranza relativa, per creare una situazione, nella quale venga meno la possibilità di quell’incontro Dc-Sinistra storica, che da qualche tempo è al centro del travaglio politico italiano. Ammesso che questo fosse e sia il progetto Br, esso sembra destinato a fallire almeno per due motivi: l’elettorato Pci non si sposta verso sinistra; i partiti dell’arco costituzionale - e con particolare decisione quelli maggiormente responsabili delle attuali scelte politiche – sembrano mantenere, sia per il modo con cui sono andati alle elezioni, sia per i primi commenti che hanno fatto ai risultati, quella misura di equilibrio e di saggezza, che impedisce il deterioramento del quadro politico. A questo equilibrio e a questa saggezza è probabilmente affidata la vita del Paese nel prossimo e immediato futuro.

Continuando nella riflessione. Il 20 giugno è stato largamente interpretato, unitamente al precedente referendum, come segno di crescita e di maturazione politica. Il riflusso “moderato” di queste elezioni, per quanto parziali, dovrà richiamare l’attenzione della sinistra su alcuni problemi di fondo, che non si possono ignorare e lasciare ai margini. Gli spostamenti provocati da situazioni fortemente cariche di emotività sono anche il segno di una tendenza all’oscillazione e al mutamento non provocati da valutazioni strettamente politiche o da sofferte situazioni sociali, ma da una stratificata e inveterata disponibilità a richiami offerti dalla contingente immediatezza, e comunque di natura non facilmente prevedibile. Esiste, insomma, quello che nel vecchio linguaggio politico sette-ottocentesco si

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chiamava “la palude”. È meglio non far finta che non ci sia. E guardare sempre alle radici di quello che accade.

16 maggio 1978

BresciaOggi 1978 27

All’ AAB: “stampa e lavoro intellettuale”

Il “salotto” non va d’accordo con l’attesa di un dibattito

Pubblico folto l’altra sera nella sala dell’AAB per la tavola rotonda su “La stampa e il lavoro intellettuale”, organizzato dalla rivista Controcultura Pubblico già in partenza un po’ deluso per l’assenza di alcuni relatori, in particolare, crediamo, di. Umberto Eco, nome da tempo sulla cresta dell’onda, il cui prestigio provoca comprensibile attesa

Ma non esitiamo ad accennare ad una ulteriore delusione, provocata dall’andamento del dibattito. Motivo? Certamente la scarsa attenzione ad individuare con esattezza l’argomento. Una tavola rotonda non è un salotto dove la conversazione si può intrecciare con una proliferazione di spunti e di suggerimenti tra il narcisistico (sia detto senza offesa) e l’enciclopedistico. Una tavola rotonda, almeno per noi provinciali, è un luogo dove si cerca di fare qualche chiarezza su alcuni (pochi) temi, concentrati intorno ad un argomento rigorosamente individuato.

Senza questa individuazione, si usa dire, qui a Brescia - un po’ grossamente,se si vuole – si va per viole. E di violette e fiorellini vari si è cosparsa la serata, con qualche aiuto da parte di interventi dalla sala, che si sono, nientemeno, polarizzati sul problema di cosa sia “verità”, che pareva di assistere al finale del pirandelliano Così è se vi pare. E dobbiamo amichevolmente rimproverare a Spinella, che sembrava un po’ distaccato o frastornato, di non essersi servito un po’ più decisamente della cultura di cui è ben nutrito per tagliar corto su certe regressioni paraesistenziali che - segno dei tempi? – ripullulano tra i frequentatori delle serate culturali (intellettuali di sinistra?)

Così come avremmo gradito, dopo che era stata sfondata la porta aperta che il lavoro giornalistico è un lavoro “intellettuale” (anche quando si fa cronaca, nera o bianca che sia, d’accordo) e sottolineato che l’intellettuale-giornalista deve mettersi al servizio del lettore per “fargli capire la realtà”, si chiarisse in che modo è possibile la simbiosi tra il lavoro (intellettuale) giornalistico e il lavoro intellettuale in atto nel paese, nelle più varie sedi. Questo incontro, difficilissimo per vari motivi, (il corporativismo e, magari, la pigrizia dei giornalisti, l’indifferenza altezzosa e – non ultimo – il “costo” degli intellettuali, la grettezza e la chiusura pregiudiziale delle proprietà e il loro rifrangersi sulle direzioni, l’inframmettenza del potere politico etc) è il vero nodo della questione. Nel mare delle cose dette l’altra sera, con i volonterosi e spesso appassionati interventi, oltreché di Spinella, di Medai (del Corriere della Sera) e di Ronfani (de Il Giorno) molti spunti sono affiorati, ma è mancata la concentrazione focale. E il problema è rimasto nel vago.

11 Giugno 1978

BresciaOggi 1978 28

Partiti e società civile

È noto che le consultazioni elettorali, nonostante la obiettività del dato aritmetico, si prestano a letture interpretative della più varia natura. Anche in questo recentissimo capitolo della nostra vita elettorale chi scorrerà, stamane, i giornali, ne troverà una variegata antologia. La Tv, ieri sera, ne ha già dato un assaggio e le agenzie stampa ne hanno inviato alle redazioni un ampio florilegio, nel quale si va dai toni e commenti più sobri e pacati ai ritmi di danza più sfrenati, secondo i temperamenti e gli umori, le abitudini personali a leggere e a vedere, le opportunità politiche e le tensioni ideologiche.

D’altro lato, in questa occasione la ridda delle valutazioni contrastanti, quale sicuramente mette a disagio il cittadino, che si sforzi di avere una chiave di lettura la più distaccata e obiettiva possibile, è favorita dalla dimensione abbastanza confusa che questi referendum hanno assunto, sia per la loro intrinseca natura, che più volte abbiamo sottolineato, sia per la situazione politica nella quale essi sono caduti.

Legge Reale per l’ordine pubblico. Chi ha fatto propaganda per il “si”, cioè per l’abrogazione, ha fatto prevalentemente leva sui diritti civili, che essa in certo modo poteva mettere a repentaglio, non senza però che contro di essa agissero anche le spinte di chi ne sottolineava la presunta inadeguatezza e l’avrebbe voluta più dura e quindi più lesiva nei confronti dei diritti civili, nonché addirittura di chi la considerava inaccettabile perché adoperabile anche in chiave antifascista. Non si può non rilevare la contraddittorietà di queste spinte, che ha costituito, si voglia o no, la radice profonda della confusa natura di questo referendum. Chi ha fatto propaganda per il “no” ne affermava invece sostanzialmente la necessità sia per la situazione difficile che il Paese attraversa sui problemi dell’ordine pubblico sia per l’opportunità di mantenere intorno ad essa un certo quadro politico, considerato capace di offrire fondamentali garanzie per la vita del paese.

Non c’è dubbio che la percentuale dei “sì”, cioè di richiesta di abrogazione, che è uscita dalla consultazione elettorale, nonostante la contraddittorietà delle spinte che internamente vi agivano, ha confermato, per il suo non alto livello aritmetico, questo quadro, ma, al tempo stesso, per la sua non irrilevanza, suona come un richiamo a non trascurare le esigenze di salvaguardia sui diritti civili, che quel pronunciamento ha sostanzialmente assunto.

Legge sul finanziamento dei partiti. È fin troppo facile rilevare il rischio qualunquist8co che la richiesta abrogazionistica ha comportato. Intere zone soprattutto dell’Italia meridionale e alcune grandi città sono state implacabili nel rifiuto, e hanno contribuito in modo assai rilevante ad alzare il dato percentuale della richiesta di abrogazione.

Vi sono confluite certamente motivazioni contraddittorie o almeno profondamente dissimili: aspirazione ad una forma diversa di finanziamento; esigenza di moralizzazione (sull’onda del ricordo degli scandali gravissimi, che hanno caratterizzato la vita di qualche partito); antipatia per quella che certa destra tra conservatrice e criptofascista ama chiamare la “partitocrazia”. La percentuale raggiunta dai “si” deve comunque suonare come un campanello d’allarme:

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avvertimento ai partiti per un controllo severo della propria vita amministrativa e finanziaria, ma anche presa di coscienza della difficoltà del rapporto tra partiti e società civile. Il confuso fermento di insofferenza e di fastidio, che colpisce indifferenziatamente sia i partiti che più si sono macchiati di corruzione che quelli più corretti e limpidi nella loro gestione, costituisce un fondo magmatico che può aprirsi a non gradevoli sorprese. Nascondersi dietro il dito machiavellico, che può far immaginare di poter condurre. questo magma ai propri fini, può essere così impolitico e irrealistico da ottenere esattamente il contrario di quel che qualche astratta buona volontà si propone.

13 Giugno 1978

BresciaOggi 1978 30

Un preoccupante dossier

Di tutte le valutazioni, che si possono intrecciare sul macroscopico evento di un presidente della Repubblica costretto a dare le dimissioni, una ve n’è che non vorremmo sentire neppure per vaghi accenni e cioè che anche questa vicenda porta acqua al mulino della cosiddetta destabilizzazione, con l’implicita deplorazione che si siano usati strumenti di denuncia, il cui impiego sembra comportare il rischio di dare degli scossoni al Paese e alle istituzioni.

Come per tutti i comuni cittadini, anche per il Presidente della Repubblica vale certamente il principio civile che “reo” è colui di cui si sono accertati processualmente i fondamenti delle accuse che lo hanno investito. Ma ciò non toglie che quando il ventaglio delle indicazioni assume non i connotati del pettegolezzo, bensì la corposa consistenza di un preoccupante dossier, sia da considerarsi civilmente utile e meritoria l’azione intrapresa per fare emergere i fatti.

È forse umanamente comprensibile che Leone, nel suo messaggio-commiato di ieri sera, abbia garantito la sua “onestà” e dichiarato di essere vittima di una oscura manovra, affidata a metodi, che, egli ha detto, se si generalizzassero ci porterebbero alla rovina. Ma non è per niente accettabile che questa logica e le valutazioni che ne possono conseguire sia da altri accettata

Non si deve tacere che la vicenda Moro e la incombente criminalità delle Br e affini sta facendo correre al Paese il rischio, quello sì grave e reale, che ci si distragga dal tener bene sott’occhio i vasti inquinamenti di “indegnità”, che hanno macchiato e intorbidato la vita della nazione in troppi suoi settori. Se quanto è stato addebitato a Leone sarà provato ci troviamo di fronte non alla casuale e marginale colpevolezza di una persona, ma ad un modello tipico di “occupazione” dei gangli dello Stato come territorio da sfruttare o da manomettere.

L’indebolimento delle istituzioni, lo screditamento della repubblica democratica nascono da qui, da questa consuetudine, da questa pratica sciaguratamente diffusa. I clientelismi, il sottogoverno, l’aggregazione di gruppi di guastatori della cosa pubblica sono il male principe, che ci ha travagliato, sono la fonte di questo confuso, agitato, promiscuo neoqualunquismo che è l’ombra che si proietta sull’oggi e sul prossimo domani della nostra società civile.

E non si dica che questo è moralismo, per magari ripararsi dietro l’inconcludente genericità della affermazione che è il “sistema” che è sbagliato; una genericità con la quale si stende una patina monocroma e indifferenziata, dove nulla si distingue e nulla si accerta. In ogni “sistema” dignità e indegnità, pulizia e sporcizia, correttezza e sregolatezza, interesse privato e capacità di intendere le ragioni dell’interesse collettivo scendono in campo a battaglia. Non ci importa nemmeno molto di sapere se e quali forze politiche, in maggiore o minor misura, apertamente o occultamente hanno spinto le cose verso questa soluzione. Ci importa di sapere che questa soluzione è stata possibile, che dalla battaglia non ci si è turati indietro o non è stato possibile tirarsi indietro. Ciò può far bene sperare.

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16 Giugno 1978

Da Ventotene a capo dello Stato

Sandro Pertini, raccontano le cronache, rimase sorpreso – quasi immalinconito – quando alcuni giovani gli dissero, durante un colloquio, che solo parlando con lui avevano trovato risposte serie ed adeguate alle loro domande. Davvero – ebbe certamente a pensare – ci si trova così soli e in pochi quando si è “seri?”

Riteniamo di no. Se pur accade spesso di aver l’impressione che i filtri che larghi settori e ingranaggi della società civile oppongono al trionfo della “serietà” siano molto consistenti, fino a largamente provocare, con la loro invadenza, scetticismo e scoraggiamento.

Ma accade anche, qualche volta (quante? non è qui il momento di domandarselo) che una persona degna vada al posto giusto. Tra gli infiniti fili e le molte tagliole, di cui si ordisce la società civile e politica, ne scatta qualcuno, che dà all’intero. tessuto un tocco stimolante, carico di positività.

Tutta la “storia”, che sta a monte di quello scatto, diventa, a questo punto, di secondario rilievo. La lasciamo volentieri ai politologi, agli esperti di corridoi e anticamere, ai sottili e attenti analizzatori degli strati geologici, che sono sottesi al fiorire vitale della realtà, a quel termine ultimo che si pone decisamente come risultato tangibile e non illusorio. Non che quelle analisi non contino e non abbiano il loro interesse.Ma guai a fermarsi solo a quelle. Perderemmo l’occasione di distendere con qualche fiducia l’animo, contratto da mille angustie, a godersi il risultato raggiunto.

Non siamo così ingenui da pensare che domani o dopodomani il volto d’Italia cambi, perché Pertini è al Quirinale. Ma forse siamo in molti a provare. questa sensazione di piacere e di speranza, a vederlo là, proprio in quel posto. Sandro Pertini, medaglia d’oro della Resistenza, un uomo - ed è questo che più conta – che degli spiriti più degni e altamente civili della Resistenza è sempre stato strenuo e integerrimo difensore. Da Ventotene al Quirinale. C’è di che rallegrarsi.

9 Luglio 1978

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Paolo VIUomo e pontefice di sofferte mediazioni

Il destino di un pontefice è di giungere al momento della morte già, per così dire, ampiamente “definito” nel giudizio dei suoi contemporanei. La sua figura si staglia nelle menti già con alcuni tratti costruiti in modo netto nella costante partecipazione ai suoi gesti, alle sue parole, alle sue azioni sia da parte delle masse che a lui guardavano con filiale affetto e con la forza delle proprie schiette intuizioni sia da parte di quegli studiosi e biografi, che hanno avviato la loro indagine sull’uomo salito a così alta responsabilità.

Nella definizione della personalità di Paolo VI, ieri così repentinamente scomparso, l’opinione più diffusa si raccoglie attorno alla convinzione che nella difficilissima eredità giovannea, chiamato ad affrontare e dominare lo scontro tra vecchio e nuovo, gli sia accaduto di far leva sulla propria personalissima arte di “diplomatico”, un’arte nella quale momenti luminosi e sicuri si cono alternati a incertezze e perfino contraddizioni.

Un pontefice, dunque, costretto a mediare costantemente tra esigenze opposte, sostenuto nel suo impegno da una intima disponibilità ad intendere, a valutare, a soppesare, a calibrare, e in questa drammatica tensione pronto a portare il fardello non facile, spesso doloroso, che la durezza e la complessità dei tempi gli imponevano.

Un fardello, che è la risultante stessa della situazione storica che stiamo vivendo, quant’altre mai carica di attese ma anche sovraccarica di nembi tragici.

Qualche volta papa Montini è sembrato scialbo, perplesso, “amletico”. È un volto che certamente ha rivelato. Eppure sempre, indomabile e ammirevole, una volontà di recupero, una decisa energia a non rinunciare alle mete, che la sua ricca e moderna formazione, unita ad una acuta e sofferta sensibilità, gli additavano.

Sicuramente la lettura degli atteggiamenti, delle decisioni, degli interventi ad ogni livello, che hanno costellato la sua biografia di pontefice si presta a destare qualche perplessità in chi, magari un po’ astrattamente, avrebbe voluto vedere un compatto arco ideale segnarne il pontificato. Ma lascia certamente meravigliati la scoperta, che costantemente affiora dalla lettura di quella biografia, dell’abbondanza continuamente riproposta di segni altamente positivi, di indicazioni energiche e luminose.

L’impressione generale che se ne ricava è che se papa Montini è stato uomo d’“angoscia” e di “solitudine”, come alcuni suoi biografi hanno sottolineato, in concomitanza con questa dimensione di personale sofferenza egli non abbia mai rinunciato ad essere uomo capace di additare speranze collettive. Lo ricordiamo quando all’Onu con accento accorato additò nell’urto bellicoso provocato dalle cupidigie di potere e di ricchezza la fonte del male, che travaglia il nostro tempo; quando con la Populorum progressio seppe indicare la giustizia come elemento minimo e imprescindibile della carità. Paolo VI è stato forse incline a meditare su certo pessimismo cristiano, che persuade a cercare le radici del male fuori della storia, ma vi ha reagito con una costante attenzione alla concretezza, con una

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fortissima disposizione a vivere e a sentire le dimensioni della realtà. In questo difficile equilibrio si è elevata e nutrita la sua personalità di uomo e di pontefice.

7 Agosto 1978

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Il Papa non è un demiurgo

Chi guarda con vigile occhio critico al pontificato di Paolo VI può trovare materia per definirne l’operato come una continua successione di scelte, che, tradotte in uno schema grafico, potrebbero corrispondere ad una linea sinuosa dove l’alto e il basso si alternano ininterrottamente.

Questa caratteristica ha fatto parlare spesso di incertezza, di angoscia, di “diplomazia” che si impone alla nettezza delle scelte ideali. Può sembrare marginale, ma a molti non è sfuggita la singolarità, ad esempio, della contemporanea proposta di beatificazione di Giovanni XXIII e di Pio XII, la celebrazione di personalità antagonistiche come quella di Celestino V e di Bonifacio VIII. Una sorta di volontà protesa a conciliare gli opposti, intesi come realtà da accostarsi ecletticamente e un poco meccanicamente.

L’arte di conciliare gli opposti e di trascenderli in una nuova realtà, che al tempo stessi li inveri e li superi, è un’arte difficile. E a Paolo VI è toccato di reggere la Chiesa in un momento nel quale sia all’interno di essa che nella dimensione storica, che stiamo vivendo, la tensione tra gli opposti ha raggiunto gradi drammatici di difficile conciliabilità e di ancor più difficile superamento.

Non va dunque superficialmente attribuita al suo “carattere” l’oscillazione, che è avvertibile nel suo operato, ma alla oggettiva difficoltà della collocazione storica, nella quale egli si è trovato. In altre parole: guardiamoci dall’immaginare un pontefice come un demiurgo che plasma la realtà a suo piacimento. È un’immagine, che nemmeno in un’orbita di riflessione legata alla cultura religiosa tradizionale si potrebbe facilmente accettare. Badiamo che non ne rimanga vittima, come talvolta accade, chi fa professione di cultura rigorosamente “laica”.

Questa tentazione, anche se un po’ attenuata dall’occasione celebrativa offerta dalla morte, è pur trasparsa in questi giorni nelle pagine di molti giornali, là dove, nello sforzo di emarginare il facile osanna delle apologie a buon mercato, ci si è sforzati di formulare valutazioni un poco più approfondite e misurate col calibro della coscienza storica e critica.

Ma è una tentazione da respingere, per riconoscere, invece, che la figura di Paolo VI rimane emblematica di un travaglio che tutta la vivente realtà dell’odierno cattolicesimo sta attraversando. Quella realtà cattolica, che deve fare i conti, da un lato, con la sua tradizione di spiritualismo moralistico, pronto alla critica “verbale” nei confronti del “mondo” e, dall’altro, con la sua sostanziale identificazione con quel “mondo”, del quale fa parte, intus ed in cute, per interessi, per dimensioni di potere, per sottofondi ideologici consci e subconsci.

È impensabile che un cattolico “serio” non possa oggi sentire questo dramma. Degli atri, quelli che hanno scambiato l’etica cristiana con l’etica del consumismo, che sentono la comunità ecclesiale come un luogo dove coltivare i miti piccolo-medi e grandi borghesi, che confondono il messaggio evangelico con la pedagogia dei mass-media, non fa conto qui di parlare. Ma di Paolo VI questo sicuramente possiamo dire, che era un “cattolico” serio. E su questo suo volto perennemente carico di invincibile angoscia abbiamo letto non tanto i segni di un “carattere”, quanto la proiezione di una realtà storica, personalmente e dolorosamente sofferta. E nelle sue scelte, anche

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in quelle che più ci hanno lasciato perplessi, il segni che le ricollegava a un disegno di rinnovamento e di autentica crescita umana, ad una consapevolezza di fondo, che ha trovato le sue risultanti più vive ed intense in alcuni momenti, che rimarranno punto di riferimento per i suoi successori e per tutti coloro che intendano muoversi “positivamente” nella storia del nostro tempo. Alludiamo soprattutto ad un documento insigne, la Populorum progressio, che stranamente – ma non poi tanto – quasi più nessuno ama citare. Un documento, nel quale, come in un vertice lucidissimo, Paolo VI ha toccato con fermezza il suo più alto grado di consapevolezza storica e religiosa, al servizio dell’uomo, anzi degli “uomini” tutti.

Non dimentichiamolo, che alla radice del male che ci perseguita sta proprio l’assenza di quel tutti. Un appello non “verbale”, non moralistico, ma concretamente circostanziato, tale da obbligare, cattolici e non cattolici, a fare i conti e con la propria coscienza e con le strutture della realtà nella quale viviamo.

È certo vero, come è stato detto, che la “creatività” di Paolo VI non ha sempre volato così alta e vigorosa. Ma forse è nella luce di quell’alto volo che va letto anche tutto il resto. Le persone colte direbbero: lettura per antifrasi. Il che, più modestamente e terra terra, significa, che le perplessità, i cedimenti, le contraddizioni non vanno viste solo per se stesse, ma come segno della dolorante e travagliata difficoltà a fare i conti con la gigantesca proliferazione e durezza della realtà.

8 Agosto 1978

BresciaOggi 1978 36

La scomparsa di Ignazio Silone

Una dolorante ricerca del “compagno uomo”Protagonista di primo piano nei quadri del comunismo italiano degli anni ‘20, il

rifiuto dello stalinismo lo sospinse verso un’esperienza letteraria soprattutto attenta al mondo contadino del Sud, nel quadro di una tematica cristiano-socialista

Accade facilmente, ad uno scrittore, soprattutto quando la sua opera rivela, aperti o sottintesi, degli spessori ideologici che possano coinvolgere unilateralmente e passionalmente il lettore, di essere sottoposte a chiavi interpretative, che ne deformano il significato e, magari facilitando la crescita, intorno a lui, di vaste – ma superficiali – zone di simpatia e di consenso, ne umiliano la figura collocandolo in una prospettiva così genericamente “simbolica” da farle perdere ogni apprezzabile rilievo.

È sicuramente il caso di Silone, letto e propagandato in Italia o come portatore di un messaggio anticomunista o, più spesso, come una sorta di “convertito” approdato alle rive di un facile e tutto sommato banale spiritualismo, a metà tra vaghe aspirazioni mistico-religiose e l’amaro ripiegamento sui temi fin troppo consueti della “durezza” della vita.

Ne sono nati da un lato degli “amori”, delle celebrazioni abnormi e spropositate, dall’altro dei rifiuti secchi, dei duri silenzi. Chi – per fare degli esempi concreti – ha qualche esperienza di scuola sa che l’opera di Silone è stata in questi ultimi anni, soprattutto a partire dal ‘68, oggetto di un’operazione sistematica di lettura e di rilancio, quasi che nella sua esperienza e nella sua riflessione fosse possibile trovare un aggancio per costruire una sorta di contraltare, un bastione di saldi valori o, almeno, una proposta di lettura del mondo d’oggi e del suo travaglio entro contorni di una “mitezza” evangelica aperta al “sociale”. E, per contrario, chi vuol consultare testi, che hanno avuto, negli ultimi 10-15 anni, un notevole peso nella diffusione della cultura in Italia, troverà che Silone non è nemmeno citato.

Al di sopra di queste contraddizioni e, probabilmente, di questi equivoci, è forse possibile dire che sicuramente nell’opera di Silone si rispecchia una situazione tipica, che ne costituisce il significato più vetro e ne definisce al tempo stesso con nettezza i limiti.

Uomo di indubbia nobiltà e di viva e ricca umanità, lo scrittore Silone ha “sentito” alcuni drammatici temi di fondo della società italiana: la stratificazione della miseria, il fascismo come strumento di conservazione antipopolare e anticontadina; e, in un orizzonte più vasto, i limiti dello stalinismo, l'esigenza profonda di una “buona novella”, che si costruisse come incontro tra messaggio cristiano e aspirazioni socialiste.

Qui sta la radice della simpatia, che la sua opera ha destato. Ma, nello svolgimento di questi temi, è accaduto a Silone da un lato di attardarsi in reminiscenze letterarie, e di conseguenza in un linguaggio e in stilemi di stampo veristico-ottocentesco, dall’altro di ancorarsi nel privilegiamento di un impatto con la realtà volutamente e tenacemente spolpato di ogni “politicità”.

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Ne è uscito un quadro, che dà complessivamente l’impressione di personaggi e di vicende, che, nonostante la “verità” delle radici sociali da cui muovono e l’“autenticità” dei problemi che li travagliano, si dilatano e si disperdono in contorni vaghi, quasi astorici. La nobiltà dei sentimenti e la concretezza dei problemi cede il passo a una sensazione generale, implicita, spesso non detta, ma costantemente presente, di approssimazione, di inafferrabilità delle cose, di smarrimento. È il dramma dell’intellettuale laico-borghese (o, se si preferisce, di alcuni settori della cultura laico-borghese) preso nella morsa di una realtà, per il chiarimento della quale non ha strumenti adeguati. Socialismo e cristianesimo vi diventano immagini inconsapevolmente oniriche, conciliate in una aspirazione di sintesi, che ha i tratti della nobiltà dei sentimenti e lo snervamento della mancata soluzione ideologico-politica.

Non va naturalmente dato, a questa breve nota, a questo quasi estemporaneo tentativo di valutazione, il significato di un giudizio concluso e perentorio. Esso costituisce uno spunto di riflessione verso un ripensamento, che si liberi dalla cristallizzazione di opinioni preformate e si sforzi di essere esente dalla consueta genericità laudativa e celebratoria, che accompagna così spesso il momento della scomparsa di un uomo, cui i ritenga di dover tributare ammirazione. Silone era, del resto, uomo di così sicura e ricca umanità, animato, soprattutto, da così sincera tesa volontà di “verità”, che il primo serio omaggio che gli dobbiamo è quello di cercare di capirlo davvero, nei suoi pregi e nei suoi limiti.

24 Agosto 1978

BresciaOggi 1978 38

La recente proposta per la maturità

Anche Pedini comincia dal tettoScarsa la credibilità di un progetto di mutamento che non si leghi

contemporaneamente alla riforma della scuola superiore

Quando, nel ‘69, fu improvvisamente varata la riforma dell’esame di stato, fu facile osservare che, al di là della discutibilità o meno delle nuove procedure, al di là della stessa riconoscibilissima necessità di buttare a mare l’ormai inaccettabile modello gentiliano, lasciava assai perplessi il metodo di riparare la casa incominciando dal tetto.

Sono passati nove anni, il tetto così frettolosamente e approssimativamente rabberciato ha forse impedito che qualche temporale facesse crollare qualche muro e rovinasse gli intonaci, ma certo non ha molto contribuito a rinnovare le strutture che gli stavano sotto. Ed ecco ora il ministro Pedini all’improvviso con la sua novità: una proposta di riparazione del tetto, un progetto che modifica le procedure dell’esame di maturità. Quando Pedini fu assunto all’attuale responsabilità ministeriale, gli abbiamo augurato con tutta sincerità che al suo nome si riuscisse a legare la riforma della scuola, che da lunghi anni è attesa. Ahimè. Non vorremmo che passasse alla storia anche lui come un esperto in costruzioni, che consentono il deflusso delle acque pluviali.

Alla reazione negativa, che la sua proposta ha registrato in alcuni settori politici, pare che Pedini abbia risposto che è “dovere” del governo presentare il progetto. Quale “dovere”? Sommessamente ci pare che “dovere” del governo sia di proporsi di realizzare, finalmente, la riforma della scuola, non quello di mutare le procedure dell’esame di stato e, concomitantemente, quello di rendersi conto che ogni mutamento di tali procedure non ha letteralmente senso, se non si innerva su un mutamento organico e adeguato della scuola superiore nelle sue articolazioni, nei suoi programmi, nei suoi metodi. Tanto più se si fa mente al fatto, macroscopico, che il lavoro preparatorio, a livello di proposte, di progetti, di convegni, di congressi, a livello di commissioni e di sottocommissioni ha compiuto un iter, che, pur nella sua elefantiasi, presenta alcuni aspetti chiari, netti o comunque tali da esigere, per il suo coagulamento definitivo, esclusivamente quella che si suol chiamare la “volontà politica”.

Certo, questo coagulamento, questa capacità di giungere ad uno sbocco legislativo è il passo difficile da compiere. E non diremo che, nell’attuale situazione, nonostante la larga maggioranza di cui in parlamento il governo dispone, sia un risultato facile da raggiungere. Se non altro per una ragione ovvia, ma che spesso viene sottaciuta, e cioè che, al di là del volto esterno, che le maggioranze manifestano, esistono oggettive difficoltà a varare un progetto di riforma, che sia davvero capace di dare risposta alle esigenze contraddittorie, spesso disarticolate, che una società come la nostra esprime, nello scontro di culture, di interessi, di prospettive, che fa così fatica a diventare incontro.

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Ma non è un motivo sufficiente per mettersi a riparare il tetto, con un intervento da carpentieri, che si mettono a lavorare in proprio e non si premurano di dare un’occhiata ai muratori, etc. che stanno di sotto, e aspettano notizie dall’ingegnere capo, che non si fa vivo.

Proprio per questi motivi appare assai pertinente la obiezione, venuta dal Psi, ma che riteniamo largamente condivisa e condivisibile, che il progetto di riparazione appare del tutto senza contatto con i risultati raggiunti dalle commissioni parlamentari. Questa contraddizione va rivelata in tutta la sua gravità.. Essa è il sintomo oggettivo di una tendenza a mantenere – anche quando si potrebbe tranquillamente farne a meno – un dualismo tra parlamento e governo che, in una democrazia come la nostra, non può non apparire pericolosamente nocivo. Così ne viene fuori una democrazia alla Indro Montanelli, che non si stanca di tentar di persuadere i lettori del suo giornale e gli ascoltatori di Tele-Montecarlo, che in Italia le cose vanno male perché quando qualcuno vuol far qualcosa, ecco subito tutti a volersene occupare e perciò stesso trasformarsi in intralci alla buona volontà. Se, per esempio, viene presentato il piano Pandolfi, ecco i partiti, i sindacati affannarsi a dir la loro, prepararsi a snaturare il progetto

Ebbene: come, al di là della positività o meno del progetto Pandolfi, non si vede perché con la proposta che ne esce le forze politiche e sindacali non debbano misurarsi, così, con un ragionamento che solo apparentemente può sembrare rovesciato, non si vede perché, quando le forze politiche e culturali, gli organi giuridicamente e istituzionalmente capaci abbiano elaborato e approvato un discorso e una articolata serie di proposte, un ministro e il governo possano tranquillamente assumere decisioni di “stralcio”, che in realtà si possono facilmente configurare come precisa volontà di preparare condizionamenti irreversibili nei confronti della soluzione globale del problema. Il carpentiere costruisce il tetto, poi arrivano gli altri a costruire e a rinnovare i muri, sulla misura delle tegole e delle grondaie.

15 Settembre 1978

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Solo il tempo di farsi amare

All’orgia di retorica e alle fiumane di parole con le quali televisione e giornali hanno avvolto la morte di Paolo VI, il successivo Conclave e l’elezione di Luciani, si è contrapposto lo stile di semplicità e di pastorale bonomia del neoeletto.

La sua improvvisa scomparsa, dopo soli 33 giorni, è giunta a definire, in un ritratto ormai immutabile, questa immagine di schiettezza e di candore.

Quest’uomo, non curiale, non diplomatico, rimarrà nella memoria come il simbolo di un’autorità capace di cordialmente piegarsi all’incontro con la gente, di saper dare risposta misurata e non demagogica, equilibrata e non equivocamente strumentale al diffuso bisogno “popolare” di sentirsi rassicurati da una immagine, nella quale si legga schietta e affettuosa comprensione per gli uomini nella loro esistenza quotidiana, nella loro elementare esigenza di conforto e di sicurezza.

Un prelato ha commentato: “Ha avuto solo il tempo di farsi amare”. Un commento, certamente, esistenzialmente amaro e perfino pungente, ma anche, in risvolto, carico di una verità confortante: talvolta la morte sembra davvero giungere a dare vita ad un’immagine positiva certa e imperitura.

Luciani non ha fatto in tempo a compiere gli atti più solenni e impegnativi di un pontificato: encicliche, iniziative diplomatiche, messaggi; non ha fatto in tempo a sottoporsi alla corrosiva critica e agli scontri, che inevitabilmente questi impegni e queste scelte comportano; ha fatto invece in tempo a destare, in anni truci, in questi tempi da basso impero, una simpatia immediata, ingenua, se si vuole, per la sua sorridente benevolenza, e a porla in modo indelebile come un richiamo alle virtù della gentilezza e dell’amore. Che non è poca cosa.

3 Settembre 1978

BresciaOggi 1978 41

Tutto ciò che fa spettacolo

Faceva una certa impressione, nei Telegiornali di ieri sera, subito dopo alcune immagini di fanatizzazione di masse “sportive”, l’improvviso accostamento della folla di piazza San Pietro, che correva e vociava al segnale delle fumate, tanto più che i cronisti, l’uno all’insaputa dell’altro, usavano per entrambe le occasioni termini equipollenti, che facevano perno sul concetto di “spettacolo”, e per la partita Perugia-Firenze (che bello spettacolo!) e per l’attesa del nuovo pontefice (che proprio non si vorrebbe ridotta a spettacolo).

La sottolineatura dell’accostamento, che gli schermi hanno involontariamente determinato, non suoni irriverente. Ché, anzi, è dettata da ben altro stato d’animo.

La chiesa non vive fuori del tempo e anch’essa è costretta a pagare lo scotto che i tempi impongono. Difficile anche per essa sottrarsi alla spettacolarizzazione realizzata dai mass-media, alle suggestioni che essi esercitano ed alle tentazioni che il loro impiego suggerisce. Tanto più che quella berniniana piazza di S. Pietro sembra essere stata creata apposta per fare teatro, molto tempo prima che imperversassero i mass-media dell’epoca che Mc Luhan ha definito dei “mezzi elettrici”.

Ma l’augurio che, in questa attesa del nuovo pontefice, si può fare alla chiesa come gerarchia e alla chiesa come credenti, è che, terminate queste giornate, dolorosamente ripetitive, per l’improvvisa scomparsa di Luciani, si delinei una netta volontà di resistere a questo fenomeno, di emarginarlo il più possibile. Simile immagine di folle di credenti o di turisti travestiti da credenti non potrebbe giovare né alla Chiesa né alla società. tutta, ove credenti e non credenti hanno bisogno di combattere quella che (già che siamo in vena di citazioni sociologiche) il suddetto Mc Luhan ha chiamato “la disfunzione narcotizzante”.

Ottobre 1978

BresciaOggi 1978 42

Tre anni dopo

P. Pasolini voce del nostro tempo

Non abbiamo mai tralasciato occasione per sottolineare quanto ha perso la cultura italiana, l’intera vota civile della nazione, con la morte di P. P. Pasolini. Una perdita resa più dolorosa dal modo con il quale quella morte è avvenuta, dalle zone d’ombra che intorno le si sono distese, senza che ancora, dopo tre anni, si abbia il minimo sentore che “quel paese orribilmente sporco”, nel quale la tragedia è avvenuta, sia capace di portare un po’ di luce e di pulizia su di essa e su tutto l’orizzonte di intrighi, di mafia, di sopraffazioni, che le hanno fatto da contorno implacabile e vergognoso.

Dobbiamo ricordare l’anniversario della morte di P. P. Pasolini non soltanto come giusto omaggio ad un uomo di eccezionale altezza d’ingegno, ma come ad una delle voci, che più intensamente e più disperatamente ci hanno richiamato, lungo gli anni della sua lotta drammatica con la realtà nella quale viviamo, a guardare con occhio schietto alle cose, agli uomini, alle istituzioni, al tessuto tutto intero, nel quale il nostro vivere attuale è aggrovigliato, per capirlo, per vigorosamente rifiutare di accettare compromissioni e viltà, per lucidamente dichiarare l’esigenza di additarne il fango e sperarne una via d’uscita. Perché Pasolini, anche quando esprimeva disperazione, ci ha costantemente insegnato il coraggio e la speranza.

Pasolini è stato odiato, è stato oggetto di emarginazioni, di condanne e di rifiuto. In un paese pieno di vizi e di corruzione non poteva accadergli diversamente.

Nell’anniversario della sua scomparsa l’augurio che possiamo fare a noi e agli italiani tutti è che la sua voce continui a risuonare nelle nostre coscienze, che la lettura della sua opera sia ancora fonte di positive impazienze e di educazione civile non banalizzata in formule stantie, che la barbarie, che egli detestò, non abbia, come ulteriore prova del suo dilagare, il segno del silenzio e dell’oblio, calati proprio su di lui, che della parola seppe fare strumento così alto e civile.

4 Novembre 1978

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Il “Barbablù” di Togni alla Scala

Un bresciano nella Mittel-Europa

Con dispiacere dei nostri locali cultori della “brescianità”, e pur riconoscendo, con loro, che ogni autentica creazione artistica ha la sua radice in un “ambiente”, dobbiamo dire che il Blauibart del nostro concittadino Camillo Togni, eseguito sabato sera alla Scala, obbliga perentoriamente ad eliminare ogni concezione etnico-naturalistica del concetto di ambiente. L’“ambiente” di Togni è, semmai, la Mittel-Europa, elevata a categoria, rimeditata, scavata, sofferta in una dimensione, che, se in qualche modo vogliamo aggettivarla, diremo “cosmopolita”.

A Togni l’hic et nunc non interessa. Da questo punto di vista si può vedere in lui l’erede di una tradizione di artisti e di intellettuali, che concepiscono il travaglio creativo come una battaglia eroica per fare i conti con un linguaggio storicamente definito e coagulato (in questo caso: il linguaggio, che, per comodità un po’ riduttiva, chiameremo “scoenberghismo”) per ricavarne tutte le possibili capacità espressive, costringerlo a rivelarne tutte le implicite cellulari possibilità di costruzione e di comunicazione.

In questa sua intransigente, inflessibile tensione a piegare il materiale sonoro a una stupefacente ricchezza di risultati sta quella che si potrebbe definire la sua “inattualità”. Ma, come è noto, l’“inattuale” può avere il dono di una perentoria significanza.

Non è facile dire quale sia, esattamente, questa significatività. Certo è, però, che l’ascoltatore di Blaubart ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di vigorosamente compatto, di organicamente e quasi orgogliosamente conchiuso e definito.

Forse dietro a quel mondo sonoro, frutto di una maestria, che probabilmente non conosce che pochi confronti nel mondo musicale contemporaneo, sta una esistenziale carica di solitudine, stanno delle affinità elettive, che portano l’autore a diventare il protagonista di un incontro, ad alti livelli intellettuali, con quella storia della Mittel-Europa, che in Togni sembra essere il sottofondo costante, su cui si innesta il suo lavoro, un sottofondo articolato e complesso, assunto quasi a simbolo.

In altre parole: il dramma storico della Mittel-Europa - dramma di una cultura e di una intera società – dilatato ad esprimere tutto il mondo moderno, diventato, interamente, tragicamente carico di angoscia, ma al tempo stesso di inesprimibili attese: quale fu la Mittel-Europa dell’espressionismo, di Kafka, di Scoenberg.

I critici che hanno recensito Blaubart, pur nella disparità delle valutazioni, hanno costantemente usato termini come: cesello, eleganza, preziosità, stupore, arcano, magia.

Potrebbe essere utile chiave interpretativa. Il risultato cui Togni approda risulta però anche tale da farne (non paia eccessiva la aggettivazione) un grande “barocco” o, meglio, un grande “liberty”. Anche in questo non contraddicendo alla sua inattualità, sottolineandone anzi il significato di artista, che costruisce un suo spazio carico di una concentratissima potenzialità tecnico-espressiva, che parla un linguaggio

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conquistato con la duttile (staremmo quasi per dire: ascetica) sicurezza di chi si muove in un “regno”, che governa a suo piacimento, proiettando e placando la sua carica esistenziale in una fantasmagorica “cristallizzata” oggettiva ricchezza delle forme. In questo modo Barbablù, il mostro che abita nel nostro profondo, può anche essere esorcizzato.

Il pubblico della Scala ha applaudito con decorosa gentilezza, sulla quale emergeva qualche dissenso. Non si riusciva a capir bene cosa davvero pensasse di un’opera al tempo stesso così conturbante, così impegnativa e così significativa. Sarebbe interessante introdurre in questi luoghi sacri la consuetudine del dibattito a fine spettacolo. Ma è un’idea provinciale.

14 Novembre 1968

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“Il caso Svevo”

La disillusa saggezza del superuomo capovolto

Dopo che nel 1926 Italo Svevo era diventato il caso letterario dell’anno, molti viaggiatori vennero a Trieste appositamente per vedere e conoscere la città in cui erano stati ambientati i romanzi dello scrittore. D’altra parte essa rivestiva una fondamentale importanza nell’economia artistica della trilogia sveviana, come avviene del resto per molti altri scrittori triestini. Basti citare per tutti Umberto Saba.

La Trieste fine ottocento, con la sua vocazione commerciale ed imprenditoriale, i suoi affari, i suoi traffici, con la sua spregiudicata ed agguerrita borghesia e la vivace cultura mitteleuropea, con il suo eclettismo cosmopolita e l su doppia anima orientale e italiana, rappresentava certamente la peculiarità di un mondo con ben definite caratteristiche storiche e geografiche, ma nello stesso tempo rispecchiava più in generale le contraddizioni sociali, politiche, etniche, culturali e storiche di quella “macchina mondiale” produttivistica che era strutturata secondo le ferree leggi del profitto economico e il suo meccanismo nel suo lento processo di massificazione della società avrebbe gradualmente privato gli individui della libertà di sentirsi tali.

Svevo situa i suoi autobiografici personaggi in questo “milieu” che è insieme universale e tipicamente triestino. il motivo essenziale della sua letteratura è proprio la rappresentazione del rapporto che intercorre tra individuo e società, rapporto (o meglio scontro) che si rivela tanto più drammatico quanto più si dà per contata la sconfitta del primo.

Se la società prefigurata da Svevo è quella della media e piccola borghesi cittadina, dall’altra parte l’individuo che essa deve fare i conti è un personaggio che diventerà emblematico di molta letteratura del Novecento. Si tratta, per dirla con Svevo, dell’“inetto”, dell’antieroe, di un uomo insomma che, al pari di Oblomov protagonista del noto romanzo di Gonciarov, non ha imparato a vivere, non riesce ad inserirsi pienamente e definitivamente nel mondo verso cui tuttavia egli tende per istinto, incapace di seguire i binari preordinati dalla società, ma non per mancanza di volontà ovvero per un’eroica volontà di porsi anarchicamente contro di essa, quanto piuttosto per organica inettitudine appunto, per colpa di irrisoluzioni e indecisioni che gli impediscono di “prendere la vita e torcerle il collo”.

Tali personaggi vivono ovviamente ai margini del mondo della produttività. Non sono affaristi, non speculatori o trafficanti. Sono dei contemplativi, dei sognatori, dei poeti, sempre, come annota il Lunetta, degli “intellettuali mancati”. Non si creda tuttavia che Svevo riproponga al lettore una immagine trita di sventurato ottocentesco, appassionatamente infelice e melodrammaticamente intento a gesti retorici. Non c’è nulla di romanticheggiante nello scrittore triestino. I suoi eroi alla rovescia si muovono in un ambiente squallido e monotono, in quella che Montale ha felicemente definito “ l’epica della grigi causalità della nostra vita di tutti i giorni” e sono raffigurati senza falsi pietismi, senza indulgenti tristezze, ma con lo spietato, freddo realismo che l’autore ha imparato dai naturalisti francesi e che caratterizza soprattutto certe pagine di Una vita.

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Intorno a questo che crediamo essere il filo conduttore dell’opera di Svevo coagulano gli altri grandi temi della sua filosofia della vita, come la morte, la vecchiaia, la malattia, la salute. Cambia di volta in volta la prospettiva dell’analisi.

Nella prima delle tre opere il dissidio individuo-società è ancora tutto oggettivato nell’azione drammatica,, osservato dall’esterno, come da dietro una cinepresa, Le ambizioni sbagliate, le frustrazioni, gli amori, le velleità letterarie di Alfonso Nitti sono scrutate mentre convergono ineluttabilmente verso lo scacco finale.Lo stesso suicidio del giovane protagonista non è certo il riscatto di una vita vissuta all’insegna della superfluità e tanto meno una sorta di vendetta o di patetica rivincita contro la società Essa calpesta quasi senza avvedersene i figli che sono riluttanti a procedere. al passo. Significativamente il romanzo si chiude con una burocratica lettera della banca il cui lavorava il suicida dove afferma con somma indifferenza essere “del tutto ignote le cause“ del suo gesto insano. I drammi della coscienza non interessano gli olimpici costruttori delle “magnifiche sorti e progressive”, i quali la coscienza o hanno del tutto dimenticata o dai meandri dell’inconscio portata alla luce della razionalità, poco inclini, loro, gli uomini positivi, agli strazi crepuscolari degli inconcludenti

Con Senilità Svevo abbandona la tecnica del dramma frontale e cala la propria analisi all’interno della coscienza stessa. La malattia sociale di cui è vittima il protagonista tende a trasformarsi in patologia individuale ed egli pur avendo ormai una chiara percezione dei termini della lotta, preferisce colpevolizzare se stesso, ma in modo da lasciarsi aperta una via d’uscita, come se dicesse:”Il mio fallimento non dipende veramente da me, ma dal fatto che sono malato”.Viene eliminata inoltre la catastrofe finale. Il vinto non decide più di gettare in faccia alla società il proprio cadavere (che peraltro, come si è visto in Una vita non sortisce alcun effetto, non scuote per nulla la morta gora dell’indifferenza) ma si rifugia nella vecchiaia, come in un tempo di inevitabile rinuncia, dove l consapevolezza della proprio inutilità viene in un certo senso ammortizzata. La “senilità” è dunque contemplata come un traguardo vuoto e illusorio.

Da ultima viene La coscienza di Zeno, dove si perviene ad un sorta di autocoscienza totale anche per mezzo dell’acquisizione dei nuovi strumenti della psicanalisi con i quali indagare il pullulare dei moti irriflessi del subconscio e dove narratore e cosa narrata scivolano ambiguamente uno nell’altra con una operazione che i critici non hanno mancato di accostare al “monologo interiore” joyciano. Non solo, ma accanto alla psicanalisi (che Svevo maneggia con disinvolta sicurezza ma anche con una punta di scetticismo) appare l’ironia con cui dominare una materia divenuta improvvisamente non controllabile a causa dell’ambivalenza autobiografica. Intendo dire che spesso in quest’opera ci si chiede dove finisca il personaggio Zeno Cosini e dove inizi Itali Svevo oppure dove finisca il romanzo e dove inizi il diario, segno evidente che tali categorie sono scomparse davanti appunto ad un “io monologante” che non ha soluzione di continuità.

Con ironico distacco Zeno si interroga sui problemi di sempre, ma potrebbe essere Svevo a farlo È inutile – sembra dire – suicidarsi o trascinare a fatica la propria vita dentro allo sterile recinto della vecchiaia. Occorre saper guardare in faccia la realtà della propria vita. nella tragedia Svevo si muove ormai armato di una consapevole incapacità di stupirsi. Egli si salva mediante il comico con il quale procede alla cosiddetta “dissacrazione del tragico quotidiano” ovvero mediante la smagata

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indagine delle ragioni della sua psicologia, mentre al fondo di tutto resta la tenue luce di una disillusa saggezza.

Questi in sostanza alcuni momenti della filosofia di Svevo, che egli ebbe il coraggio di proporre in tempi che gli erano avversi. In un clima letterario dominato dall’imperversante “superominismo” nicciano e poi dannunziano, egli propose di capovolgere i termini, di parlare di quello che più tardi Musil avrebbe chiamato “l’uomo senza qualità”.

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Mille idee per la pace

Una testimonianza da non dimenticareLa mostra alla ex-Cavallerizza sulla Riviera di San Sabba

La Riviera non appartiene solo al passato. La risiera torna. Oggi noi vediamo ripetersi in forme altrettanto, se non più feroci, le crudeltà programmate dagli imperialismi e dai fascismi contemporanei. Assistiamo al rinnovarsi di brutali sopraffazioni organizzate al livello di Stati e di blocchi in Europa, in Asia, in Africa, nelle Americhe, contro i popoli considerati subalterni nelle grandi aree di potenza mondiali e in forme che ricalcano i modelli allucinanti del nazifascismo: dalle “gabbie di tigre” del Sud Vietnam, alle celle di tortura greche, spagnole, brasiliane, uraguayane, dai plotoni di esecuzione e dai campi di concentramento cileni al “Massenmord” (assassinio di massa) nei vari paesi africani ed asiatici.

Apprendiamo che vi può essere un uso “democratico” della tecnologia dello sterminio consona alla politica nazista, purché sia un parlamento democraticamente eletto a deciderlo e a stabilire che vi è “licenza di uccidere”, fino ad una data scadenza.

Vi è dunque una tendenza di continuità fra il passato e il presente, quale che sia il suo travestimento politico.

Al livello internazionale questa violenza trova ampio margine operativo nelle pieghe della “Realpolitik” dei grandi blocchi mondiali e nell’ideologia di un sistema e di un potere, che, come h detto padre Balducci, “ha paura di vedere franare la piramide pazientemente costruita”. Un sistema, che infierisce con selvaggia, hitleriana determinazione. Dall’epoca della distruzione di Guernica per opera dei bombardamenti tedeschi, dalla Spagna dei “grandi cimiteri sotto la luna” ad oggi“, la perversione ha compiuto un lungo cammino, ha scritto Le monde, denunciando i “delitti deliberati”. “Bisogna interrogarsi sul valore preciso di questi meccanismi liberali (…) traditi dalla logica di un sistema imperialistico (…) che permettono azioni abominevoli e delitti contro un piccolo popolo”. Ecco, qui scopriamo il vero significato delle “perversioni” (un termine così vago) e di certi principi “liberali” tradotti in chiave fascista e imperialista dal mondo “occidentale” a cui ci vantiamo di appartenere.

A livello interno il fascismo dalla “strategia della tensione” e delle stragi programmate, si innesta nella politica equivoca di potenti forze conservatrici e nelle trame di quel “governo invisibile”, collegato a centrali internazionali, che manipola freddamene gli ascari del terrorismo, forte della complicità e latitanza di una parte degli stessi organi dello Stato.

Ancora una volta la violenza squadristica, strumento di forze interne ed esterne, trova importanti punti di appoggio nei corpi dello Stato.

Per tutto questo diciamo che il “processo” non riguarda solo il passat0, Riguarda anche la “Risiera che torna”. In questo senso dire che la Resistenza deve continuare, non è la solita frase convenzionale, ma un impegno per noi stessi e verso quei giovani, che rifiutano l’integrazione di un sistema, che ripropone la strategia e i metodi della violenza di classe e della violenza imperialistica.

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Ed è un impegno verso i caduti italiani sloveni e croati, ebrei e non ebrei, uomini, donne e bambini, ostaggi e partigiani. perché, come ha detto un illustre giurista e antifascista, Piero Calamandrei, noi sentiamo che questi morti “sono entrati a far parte della nostra vita, come se morendo avessero arricchito il nostro spirito di una presenza silenziosa, vigile, con la quale ad ogni istante, nel segreto della nostra coscienza, dobbiamo tornare a fare i conti. Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che sono loro che giudicano noi: è la nostra vita che può dare un significato e una ragione rasserenatrice e consolante alla loro morte; e dipende da noi farli vivere o farli morire per sempre”.

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Un avvenimento della Chiesa bresciana, che investe la società civile

Si apre l’anno del SinodoLa comunità ecclesiale di fronte ai modi e alle forme con cui recepire il messaggio

del Conc. Vaticano II – Gli obiettivi e le difficoltà illustrati in una conferenza stampa del vescovo Morstabilini.

Al suono della parola “sinodo” probabilmente l’orecchio “laico” avverte una sensazione di distacco e di indifferenza. Una parola, che desta immagini di realtà conchiuse in un cerchio rigidamente delimitato da competenze specifiche. Forse immagini di tonache radunate ad arare terreni preclusi agli interessi o alla curiosità del “mondo”.

Proviamo a scorrere l’indice del testo pubblicato a cura della diocesi bresciana subito dopo l’ultimo sinodo, quello del 1952 (vescovo monsignor Tredici): “de clericis”, “de locis et temporibus sacris”… e via dicendo.

Già questo impiego della lingua latina, che vede la sua “universalità” irrigidita nella dimensione del linguaggio giuridico-canonico, può dare la sensazione della inattingibilità, dell’orto ben serrato tra muri invalicabili, addirittura, applicandovi una logica “laicista”, da ghetto sopravvissuto in una realtà storica ed umana indifferente o diversa. Sicché la notizia di un nuovo sinodo, che la chiesa bresciana si accinge a radunare per la fine dell’anno prossimo, preceduto da un “anno sinodale” di preparazione, che avrà la sua inaugurazione proprio oggi, potrebbe anche sembrare di scarsa pertinenza per un giornale come il nostro, pronunciatamente “laico”.

Ma andiamo un po’ a vedere le cose più da vicino. Conferenza stampa ieri mattina, in Curia, La direttrice di fondo che investe l’organizzazione del nuovo sinodo, al di là delle terminologie e al di là delle indicazioni stesse dei contenuti (che si riassumono sostanzialmente intorno a tre punti: l’istruzione religiosa, specie degli adulti; i sacramenti; comunione e comunità), appare subito, dalla accurata esposizione di Mons. Morstabilini, sorretto da una preoccupazione, che chiameremo “postconciliare).

È ben noto che il problema, in certo senso decisivo, per la Chiesa dei nostri giorni. è quello del modo e delle forme con le quali recepire la ricchezza del messaggio, che il Vaticano II ha impetuosamente riversato sulla realtà ecclesiale. Non va tenuto nascosto che qui si appunta l’attenzione e l’interesse di coloro, che con consapevolezza e responsabilità operano all’interno della chiesa, ma anche di coloro che, esprimiamoci pure così, la tengono d’occhio, per verificarne i movimenti e i risultati in relazione alle attese che il Concilio ha aperto. Certo, come ha detto Morstabilini in risposta all’intervento di uno dei convenuti alla conferenza stampa. Lo scopo del Sinodo è eminentemente “ecclesiale”, non si propone fini, come dire?, di “ricomposizione del mondo cattolico” in prospettive d’altro tipo.

Ma non v’è dubbio che una iniziativa, che si annuncia sorretta dalla intenzione di interpretare etimologicamente il termine “sinodo” come un “camminare insieme”, in una dimensione socio-culturale come la nostra, dove la tradizione e la spiritualità cattolica sono così fortemente radicate, non può non ripercuotersi su tutta la realtà

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circostante, in bene o in male, nel manifestarsi nelle sue capacità si stimolo o nei suoi limiti, nella sua attitudine ad “aprirsi” anziché a “chiudersi”. È rovinoso, e astorico, vagheggiare integrismi, che identifichino società ecclesiale e società civile. Ma è altrettanto pernicioso – e astorico – immaginare ancora innalzamenti di siepi e forme mentali da antagonismi ghettizzanti.

Camminare insieme”. In che direzione? Con che fini? Abbiamo colto, nelle parole del vescovo della nostra città, due punti, che ci sembrano particolarmente interessanti nella prospettiva che abbiamo cercato di mettere a fuoco.

La difficoltà di fondo - ha detto Morstabilini – con la quale sicuramente si scontrerà il lavoro di questo anno sinodale, sarà quella dell’ottenere un “cambiamento di mentalità”, nel senso di un superamento dell’individualismo verso una più marcata percezione del senso comunitario.

A costo di sentirci dire che stiamo un po’ forzando il senso delle parole con una interpretazione un po’ laicizzante, sottolineiamo la nostra convinzione, che questo superamento e la connessa crescita comunitaria, qualora si verifichi con autenticità nella dimensione ecclesiale e religiosa, coinvolge anche la sfera del sociale, implica risultati politivi, che investono la società civile tutta.

Per questo, o anche per questo, l’aprirsi di un Sinodo in simile prospettiva ci riguarda tutti. I fini che il Sinodo si propone – sempre secondo l’esposizione di Morstabilini – si accorpano intorno a tre esigenze: fare emergere i punti più importanti contenuti nei documenti (relazione e lettere) espressi nei sette anni (71-78) delle visite pastorali; accentuare e diffondere la convinzione, che tutti i membri della chiesa hanno al suo interno una funzione (missione) differenziata, ma convergente; studiare il problema missionario.

Ebbene, su quest’ultimo punto il vescovo ha insistito nel sottolineare una prospettiva, che dà posto soprattutto all’incontro con quelli che si sogliono definire “lontani”, coloro che sono non-credenti, ai margini della Chiesa. Come? Nell’auspicio che Morstabilini ha esplicitamente pronunciato d’un sinodo che sappia “fare qualcosa “ in questa direzione, riteniamo di aver letto l’eco della carica di novità che il Concilio ha espresso nei confronti di questo problema, una novità “storica”, che implica la volontà di “camminare insieme”.

23 Novembre 1978

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G.Selva alla Cooperativa cattolico-democratica

Un’idea “moderata” della libertà di stampaUn “principe” dei mass-media parla al suo pubblico dei problemi

dell’informazione

Abbiamo ascoltato, ieri pomeriggio – in occasione della presentazione alla Cooperativa Cattolica di cultura di una antologia di “Radiobelva” edizione Rusconi –Gustavo Selva che, si voglia o no, è, almeno nei termini quantitativi del gradimento d’ascolto, uno dei “principi” del giornalismo italiano.

La parola pacata e suadente, il tratto da signore distinto. l’astuzia sottile dell’appoggiarsi costantemente ai “valori” (libertà, giustizia, doveri civili), astuzia che pur riteniamo non disgiunta, nel personaggio, da una sincera convinzione All’intorno, il “consenso”:ci si riconosce in lui, che E poteva aggiungere che sarebbe ben strana guaio se abbandona il GR2 per farsi deputato europeo a Strasburgo, irritazione e deplorazione per le difficoltà di ricezione provocate dalle radio private (nero sospetto: che sia una congiura anti-Selva? Il quale Selva, con molto buon senso, ha affermato di non crederci. E poteva aggiungere che sarebbe ben strana cosa, visto che il 95 per cento almeno delle radio private è allineato ideologicamente e culturalmente col GR2).

Di questo clima consensuale Selva, certamente, Ma non senza costantemente dare luoghi della cultura moderata, che sembra avere come sua costante, magari inconscia, quella direttrice che si suol chiamare “fabbrica del consenso”. Sono luoghi dove con tutta sincerità si recita il rituale dello stato d’assedio (all’intorno c’è il male…) dove si fa costante appello al “coraggio”, in termini accorati si parla di “strategia della menzogna” che impera nel Paese e si fa appello all’importanza di “saper rompere la cappa del conformismo”. Ma non senza costantemente dare l’impressione che conformisti e menzogneri siano gli altri”. La fonte del male non è mai detto dove esattamente stia, gli “altri “ sono additati genericamente, con una sorta di sottinteso e non pronunciato ammiccamento, quasi a dire: lo sappiamo bene noi chi sono e dove sono!

Gustavo Selva, cui non difetta il buon senso e il senso della misura, dichiara di rifiutare la parte dell’eroe coraggioso ( in realtà un po’ contraddicendosi, visto che nelle prefazione del libro Roberto Gervasio – un altro quasi principe – parla con convinzione di “coraggio), ma non esita a dare di sé l’immagine del difensore di un giornalismo che sappia dire la verità.

Quale verità? Quella, evidentemente, che, filtrata dalla sua capacità e serietà professionale, ha il suo supporto nel substrato ideologico di Gustavo Selva. Quel substrato, appunto, che fa di lui un punto di riferimento per quella diffusa fascia di opinione, che ha bisogno di sentirsi garantita in alcune sue esigenze di fondo. Come Sella sinteticamente ha detto: sicurezza, giustizia, libertà. Che cono, legittime e sacrosante esigenze. ma che possono essere pensate in modi diversi.

Nella ampia relazione tenuta la sera al Franciscanum (ed è un peccato che ci manchi il tempo e lo spazio per darne una valutazione circostanziata) Gustavo Selva

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ha chiaramente fatto capire che la sua idea su quei “valori” (anche se non lo dice esplicitamente: e questa è la sua “non verità”) è tutta riconducibile nell’alveo di una società “liberale” di vecchia maniera. Idea rispettabile. Ma è bene sapere che quella è la “sua” idea, e che lì intorno egli fa da forza propulsiva per la ricomposizione di cui sopra. Testimonianza decisiva: la libertà di stampa, secondo Selva, ha la sua radice primaria nella “autosufficienza economica” dell’ impresa: la stampa assistita dallo Stato rischia l’appiattimento e la perdita della libertà. È la vecchia idea della stampa “indipendente”, per la quale rimane sempre aperto il problema di capire da chi dipenda (ma, a proposito: il GR2 non è “assistito”?). E gli esempi della “morte” del francese Combat e dell’inglese Time non sono, ci pare, segni di trionfo della libertà, come Selva sembra credere.

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In Cile

A cinque anni dal “golpe”

In questi giorni, il Cile è tutto imbandierato: il 18 settembre si celebra l’anniversario dell’indipendenza. Ma – fosca combinazione – sono anche i giorni del quinto anniversario del colpo di stato di Pinochet.

Bandiere al vento, dunque, anche per questo felice evento.: una democrazia distrutta con inaudita ferocia, sangue e morte rovesciati sul paese con un cinismo, che forse non ha avuto eguali, nella pur cinica e funesta storia delle sopraffazioni e della violenza, che regnano nell’America latina, uno dei teatri del mondo. dove il gretto egoismo di squallidi gruppi di potere locali celebra i suoi matrimoni con le tentacolari interferenze dei grandi centri di potere internazionali. Cinque anni, durante i quali la dittatura ha messo in opera una repressione perseguita con quotidiana implacabilità. Questo, infatti, è il destino delle dittature: per sopravvivere non possono rinunciare alla spietatezza coltivata giorno per giorno come metodo di governo.

Il mondo intero deplora, denuncia, condanna. E sta a vedere che cosa mai accadrà, se qualcosa potrà mutare, in meglio. Il meglio, lo sappiamo, si chiama “democratizzazione”. Quando? Come? Siamo di fronte ad uno degli aspetti più tipici della attuale lotta nel mondo per la libertà e la democrazia. Quando le forze popolari stanno percorrendo la strada verso una autentica crescita di libertà e di democrazia, c’è chi si incarica di intervenire, brutalmente. Nel frattempo iniziano le deplorazioni, un po’ vaghe, un po’ timide, qualche volta perfino sincere, per le offese ai diritti civili; si chiede l’avvio verso la democratizzazione… Si chiede al dittatore di porre in atto le condizioni perché si instauri in qualche misura un processo – “limitato” si intende, onestamente moderato – che permetta di recuperare, in faccia al mondo e alle coscienze offese, un po’ di civiltà.

Ma il dittatore, ahimè, non può. Non può contraddirsi, non può mollare. E tiene duro.

Questa è l’attuale situazione di Pinochet. Che stringe i freni, accentra il potere, come è inevitabilmente nella logica della dittatura. Teme, ovviamente, che gli scappino di mano le briglie. C’è sempre qualche marxista che può approfittarne! Qualche “prete” importuno, che gli metta i bastoni tra le ruote. E quelle donne “pazze” (così le ha definite il generale), che si radunano a manifestare per avere notizia degli “scomparsi”?. E quegli operai che chiedono le libertà sindacali? Meglio tener duro. Tanto più che, nel frattempo, si vede che cosa può succedere in Nicaragua. E si vede, anche, ultima notizia interessante, che i paladini dei diritti civili sono – lo dicono proprio oggi le cronache –decisamente dalla parte dello Scià.

Senza tener conto del fatto, oltre tutto, che il Dipartimento di Stato – questo lo sappiamo – chiede il ripristino. dei diritti civili. Ma qualche altro, per esempio le Companies, che cosa chiede a Pinochet? (e questo non lo sappiamo, o possiamo soltanto presumerlo).

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Finale d’anno 1978-1979

Gli esperti in consuntivi e in preventivi, dagli astrologi ai politologi, quando si avvicina il giorno di S. Silvestro fanno il vaglio dell’anno trascorso e lanciano occhiate di previsione sull’anno che arriva. Quella particolare categoria di suntologi e futurologi che opera sulla carta stampata non è da meno, e si sbizzarrisce, in questi giorni, sui quotidiani e sui settimanali, a ravvivare la memoria degli eventi, che hanno segnato i dodici mesi durante i quali il globo terrestre ha fatto il suo bravo giro intorno al sole (rivoluzione) e si domandano quali danze, liete o tristi (involuzioni e rivoluzioni), si intrecceranno nei prossimi mesi.

Non possiamo sottrarci alla consuetudine, e mettendo modestamente nel mirino quell’angolo di vita terrestre che si chiama Brescia (e che più ci compete) proviamo anche noi a fare un consuntivo e a tracciare una ipotesi di attesa di futuro. E trasformando il discorso da un po’ faceto ad abbastanza serio, domandiamoci se possiamo individuare qualcosa che ci sembri aver caratterizzato il ‘78 e che ci faccia pronunciare un augurio per il ‘79.

Anche Brescia è dentro quel vasto contesto, che è consuetudine chiamare “crisi”: crisi mondiale (non c’è dubbio) e crisi, soprattutto - e con connotati per molti aspetti drammatici – nazionale. Brescia non è un’isola perduta in remote lontananze di sogno. Quel contesto, ovviamente, la segna. Ma, riteniamo, con qualche suo tratto, che le è più proprio e caratterizzante. Una città, ci sembra, che non è stata morsa nel profondo dalla crisi, che ha tenuto, nonostante gli scossoni, talora violenti, di varia natura, scossoni che spesso erano ondate di riflusso, che provenivano dagli anni precedenti.

Ha tenuto, ci pare, come capacità, serietà e volontà di “lavorare” e, insieme, come sforzo a far produrre positivamente quel quadro politico di unità che è, oggi, - esprimiamo una nostra convinzione - il grande tema, su cui si gioca tutta la vita della nazione. Una unità da non intendersi come astratto e corrivo unanimismo, ma come presenza concreta e reale, nei nodi determinanti, o come avvicinamento ad essi, di tutte le forze sociali, anche e soprattutto di quelle emergenti, da sempre finora tagliate fuori dai momenti decisionali della vita del paese, e che un fattivo processo ha portato innanzi a far contare dialetticamente la loro presenza.

Questo processo, che è in atto nel paese, ha avuto a Brescia una primarietà e una tenuta particolarmente incisivi. Il che non significa che il processo sia compiuto.! E che i risultati siano sempre soddisfacenti! Anzi, siamo ancora ben lontani da questo risultato. Perfino nei programmi ufficialmente sottoscritti ci sarebbe molto da dire, in negativo, per lentezze o inadempienze o carenze. E il negativo che pullula e che fermenta in recessi e in stratificazioni antiche e durissime da smuovere, non è certo tale da far alzare cori di entusiasmo!

Ma non è tanto questa analitica individuazione, che importa qui in questa nota di fine d’anno. Il molto che rimane da fare – questa è una facile previsione – acuirà neo ‘79 i contrasti e le tensioni, ma pur qualcosa nel corso del ‘78 si è determinato: il “clima” ha sostanzialmente retto. È responsabilità di tutti non corromperlo,

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rimuovere le remore, far diventare trainanti i supporti, che permettono il collegamento tra società civile e società politica. Il governo della città, la capacità di aggregazione e di sviluppo che compete alla sfera politica hanno, nonostante qualche segno di allentamento, dato sostanzialmente segni di volontà e di capacità di evitare pesanti scollature.

Non ci nascondiamo che mancano i fermenti e i tentativi di ricomposizione “moderata”, che, anche quando non dicono, si sa a cosa mirano: tornare indietro, ricomporre la gestione del potere nei termini più tradizionali, bloccare il processo che è in corso. Certo, questa iattura, nella sua globalità, non dipende da Brescia: ben altre forze ed eventi sono determinanti. Ma ognuno, nel suo piccolo, in quel lavoro di formiche brulicanti ciascuna nel suo nido e nelle zolle circostanti, ha il suo compito e la sua responsabilità.

Ricordiamo il dibattito pubblicamente aperto per iniziativa. dell’amministrazione comunale alla fine del ‘77. Non tutto è stato persuasivo e nel dibattito e nelle vicende successive del ‘78. Ma è pur stato un elemento di richiamo e, se si vuole, di simbolo, in funzione della chiamata alla responsabilizzazione a tutti i livelli (magistratura, forze dell’ordine, ecc.) Se si sono potuti celebrare a Brescia processi delicati e cruciali su qualcosa che ha ferito in profondità la società civile, lo si deve anche a questa responsabilizzazione, per ombre che parzialmente vi si possano intravedere. Non tutto è filato liscio come l’olio. Uno di quei processi è ancora n corso. e il 79 dirà a cosa esso realmente approderà. Ma non dimentichiamo che a quel processo si riconnette anche il problema del volto democratico della città.

Di questo volto attendiamo, nel ‘79, che si accentuino i contorni e si sviluppi la sostanza. Questo è l’augurio che facciamo alla città, e con essa, per quel che loro compete, a tutte quelle forze che ne hanno il compito e la responsabilità. Un augurio di fattiva “solidarietà”, sull’asse di quegli obiettivi, che le masse popolari perseguono in questo momento della loro storia.

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Alla Cooperativa Cattolica di Cultura

La “storia” di un carteggioIl vescovo Carlo Manziana presentando le “Lettere ad un giovane amico” di G. B.

Montini rievoca un quadro della vita cattolica bresciana

Ritti e stipati ad ascoltare il vescovo Carlo Manziana, nostro concittadino assurto a reggitore di diocesi, e quasi nella fisica impossibilità di poterlo intravvedere, dietro la fitta siepe delle schiene dei numerosi convenuti nella ristretta saletta della Cooperativa Cattolica di Cultura, nella necessità quindi di affidarci esclusivamente al suono della sua voce, ci riusciva più facile capire perché, per coloro che a Brescia l’hanno conosciuto e frequentato, egli rimanga per sempre “padre” Manziana.

E non tanto per motivi di affettuosa stima, quanto soprattutto perché nel taglio che egli ha dato alla sua esposizione, pacata e nondimeno appassionata, era leggibile lo spaccato di interi decenni vissuti nella nostra e sua città, la stratificazione della lunga e molteplice esperienza accumulatasi in anni per lui, come per tutti noi, complessi e difficili, con il peso delle loro contraddizioni accanto alle tensioni e agli slanci ideali.

“Padre” Manziana ha ripercorso, sul filo commosso delle memorie, questo lungo arco di vita cittadina. Le “lettere” di G. B. Montini ad Andrea Trebeschi, pubblicate dalla editrice Queriniana, e per le quali era stato invitato a prendere la parola per una pubblica presentazione, ne sono state l’occasione.

Un’occasione certamente non fortuita. Scomparso Paolo VI, anche la pubblicazione di un suo esiguo gruppo di lettere giovanili, non tutte egualmente significative, ma pur sorrette unitariamente da una loro palese capacità di rispondere ad una visione organica e chiara di un cristianesimo vissuto, filtrato e riproposto con pensosa originalità da taluni settori del tessuto cattolico della nostra città, fa ben capire che quella somma di vicende e di esperienze, divenuta ormai “storica”, costituisce un polo di riferimento netto e irrinunciabile per il cattolicesimo bresciano.

Il discorso di padre Manziana era tutto tramato sul filo delle memorie, con forte accentuazione di dati personali e familiari, ma, se non andiamo errati, acquistava il suo significato più vero, anche se non esplicitato, in questa prospettiva. Se così non fosse, la parola di Carlo Manziana sarebbe potuta sembrare dettata da una aristocratica – se pur comprensibile - delimitazione di un “territorio” cattolico conchiuso nel giro di alcune famiglie, un terreno quasi oggetto di celebrazione affettuosamente agiografica. Con un risultato, magari, simile a quello ottenuto dalla amministrazioni cittadine quando costellano le vie urbane di nomi affidati alla indifferenza di chi vi abita o vi transita.

In realtà quei nomi, quegli episodi, spesso di cronaca spicciola, anche se sempre animata da umani temi di dolore e di fede, di speranze e di azione, erano collocati su un fondale che li trascende: la fiducia, la certezza che quelle cronache hanno lasciato solchi e hanno costruito realtà compatte, sulle quali i cattolici – non solo bresciani – sono chiamati a confrontarsi.

Paolo VI – sembrava volesse dire padre Manziana – non è nato per caso a Brescia. E G: B: Momtini, che muore dopo essere stato assunto alla cattedra di Pietro, lasciando al mondo l’immagine di un pontefice tormentato e interiormente severo,

ha, in certo qual modo, una sua proiezione in Andrea Trebeschi, che la Resistenza conduce a morire in un campo di concentramento tedesco. I due amici, intensamente uniti dall’azione, dalla meditazione, dalla fede, percorrono due strade, che hanno entrambe la loro radice in quel cattolicesimo, di cui Manziana ha tracciato i contorni con mano delicatamente affettuosa, ma ferma nella individuazione del nucleo, diciamo così, originario, che la caratterizza.

Manziana ama confermare il suo legame con Maritain. Gli è bastata una citazione: “Le grandi amicizie”. Non un De amicitia laico-umanistico, o forse anche quello, ma, soprattutto, un’amicizia costruita in funzione dell’ inverarsi dell’anima cristiana. Ed ha anche citato una singolare “profezia” di padre Semeria: “Da Brescia uscirà un cardinale o forse anche qualcosa di più”. Eccolo qui, il tema di una Brescia cattolica, che si pone come “exemplum”, come punto di riferimento. Parrà orgoglio o candore di amore per il loco natio. Ma è, in realtà, salda operazione condotta sul fondamento della convinzione che alcune generazioni (o alcune famiglie? o alcune persone?) hanno creato, appunto, un nucleo (una concrezione, per usare il linguaggio dei naturalisti), un punto di riferimento, che va mantenuto, sviluppato, proposto.

Noi, da osservatori, distaccati ma non indifferenti, potremmo dire, con tutta verosimiglianza, che quel nucleo resta, per ora, a Brescia e altrove, solo un nucleo (dobbiamo dire di pochi “toccati dalla grazia”?) e, con sincerità, al tempo stesso augurarci ch’esso si sviluppi, coinvolgendo anche quei più vasti strati di “cattolici”, che, diciamolo pure così, sono coinvolti in altre cure.

17 Gennaio 1979

Il tradizionale incontro con i giornalisti

Il vescovo Morstabilini guarda alla carta stampata

Fra tanti detrattori, i giornalisti hanno anche un protettore, San Francesco di Sales. È consuetudine della diocesi ricordarlo in occasione del 24 gennaio – giorno nel quale il santo figura nel calendario liturgico – con un invito del vescovo agli operatori della stampa per un cordiale incontro.

Sottolineiamo il “cordiale”, perché nell’incontro di ieri Mons. Morstabilini, che, come episcopo, è designato dal mondo cattolico a “guardar sopra”, insomma a tener d’occhio la realtà per soppesarla nella luce della “fede” della comunità religiosa cui presiede, con molto garbo e molta finezza ha, per così dire, spogliato il suo intervento di ogni pretesa parvenza di “giudizio”. Una episcopia non soltanto “paterna”, ma costellata di interrogativi, punteggiata di costanti sottolineature della propria disponibilità a soppesare, ad intendere, a mutar opinione. Un esperto di analisi del linguaggio avrebbe annotato con interesse l’asse linguistico connotato da “non so”, “ non riesco ben a capire”, “ è un’impressione”, “su questo punto non sono competente“, “avete il diritto di dissentire”, “non so se ragioni giusto”, “la mia interpretazione porta sempre un po’ di passionalità”.

Non ce la sentiremmo di attribuire questa scelta di linguaggio soltanto al temperamento personale o ad un prevalere della virtù dell’umiltà e tanto meno ad un consunto esercizio diplomatico. Preferiamo attribuirla ad una scelta consapevole, di natura civile: piccola ma importante goccia nel mare tempestoso di una realtà odierna, dove le persone più responsabili avvertono la fondamentalità del dubbio, del dialogo, del reciproco interrogarsi.

In alcuni degli interventi nel corso del vivace dibattito, che è seguito alla esposizione di Morstabilini, si è letta una certa comprensibile perplessità nei confronti del quadro tracciato dal vescovo, un quadro che è apparso piuttosto in “negativo”, quasi una “tirata d’orecchie” ai giornalisti, perché avvertano i limiti di tante consuetudini, che regnano sovrane sulla carta stampata dei giornali.

Ed è certo giusta l’osservazione arguta di uno degli intervenuti, che i giornalisti hanno a che fare con gli uomini, e non con lo spirito santo, visto che questo opera misteriosamente.

Può darsi che sbagliamo, ma nel discorso di Morstabilini il quadro in “negativo” potrebbe, come giornalisti, anche urtarci, se si fosse accompagnato con una proposta di “modello” fondata su una ipotesi di “verità” e di “programmazione della verità”. Morstabilini lo ha accuratamente evitato. Il “quadro” era semplicemente un suggerimento di temi atti a “problematizzare”, a destare una volontà di riflessione. Come tale non pretendeva di configurarsi né come una predica né come un’analisi sociologico-scientifica, ma solo come una pacata e sommessa voce dialogante. A ognuno il compito di ricavarne le indicazioni che eventualmente lo tocchino.

Appendice: quando a Brescia, in ambienti cattolici, si parla di stampa, il discorso si sposta sempre su “cultura-cattolica” e “stampa cattolica”. Per evitare confusioni, sarebbe il caso di delimitare con più rigore: parlare dei “mezzi di comunicazione

sociale” e delle responsabilità che essi comportano è una cosa, parlare di “stampa cattolica” e dei suoi problemi (e cioè, in sostanza, di come la stampa cattolica intende affrontare quelle responsabilità) è altra cosa.

25 Gennaio 1979

Bréchechechèx coàx coàx (1) Non si allarmi, il lettore, per questo titolo, che non è né ostrogoto, né arabo, né

polinesiano, né esquimese. Né da età della pietra né dell’uomo di Neanderthal (delle cui emissioni vocali non esistono bobine registrate). Si tratta, semplicemente, di un gioco onomatopeico del grande Aristofane, che alle rane era affezionato, forse per averle ascoltate nelle calde sere d’estate alzare il loro verso dagli stagni dell’Attica, a poca distanza dal Partenone, dimora di dei. E faceva di tutto per metterle in scena

Brechechechexcoaxcoax: è proprio un canto di rane, intonato dai batraci dell’Acheronte, in vena di lirica corale. (Cose d’altri tempi! Chi ne è curioso può informarsene leggendo Le rane, commedia di Aristofane, in qualche buona traduzione).

Anche Brescia, modestamente, ha sempre avuto le sue rane. I cronisti (sempre per i curiosi: vedi a pag. 234 di “Storia, tradizione e arte nelle vie di Brescia “ di Luigi Fé d’Ostiani) testimoniano che dalle parti dell’attuale via Trieste, nel tratto che andava verso i bastioni (suppergiù tra le attuali Piazza Tebaldo Brusato e piazza Arnaldo) c’era un bel appezzamento triangolare con acque stagnanti; dove le rane cantavano, notte e giorno: “Cantarane” appunto, con dizione popolaresca, rimasta per secoli appiccicata alla zona (ma era un toponimo frequente; lo si ritrova anche in altre località: le rane erano di casa, nelle nostre vecchie città.)

Ma nel 1681 non c’erano già più. Narrano – sempre i cronisti – che il triangolo in questione fu in quell’anno destinato, dalla munifica Municipalità, al “gioco del pallone” (che si presume avesse bisogno di terra asciutta (forse l’ex governatore Bruno Boni, munifico costruttore di stadi, non sa di aver avuto così illustri precedenti)

Non c’eran più le rane, dunque, nel fatidico triangolo. Ma le rane – queste nobili bestie canore – hanno continuato a cantare. E cantano ancora. Se non dagli stagni, certamente da mille altri luoghi, dagli atri muscosi e dai fori cadenti, e, se non proprio dai solchi e dalle aspre officine stridenti, sicuramente da salotti e scrittoi suadenti.

Perché – non dimentichiamocelo – nel variegato panorama zoomorfo, che da millenni ci ha abituati a vedere negli animali immagini e comportamenti umani, le rane coprono sì un luogo non proprio eroico (colpa di quella mala lingua di Esopo: le rane gracidanti sul re travicello e poi fuggiasche davanti alla biscia, che se le pappa voracemente); né propriamente di alta intellettualità (sempre Esopo antibratacico: rane che si gonfiano per diventare grosse come buoi e scoppiano – ben gli sta; cui si aggiunge, nei secoli, il contributo di altre male lingue, sempre fieramente antibatraciche, fino all’acre dispepsia del conte Giacomo, che si ostina a vederle imbelli, sconfitte, in fuga e perfino vilmente disponibili a farsi aiutare da certi pessimi arnesi, che mal ne incoglie a tutti quanti), ma in realtà – per chi sappia ben capirle – la loro vera natura, ingiustamente messa in ombra dai malevoli, è quella di saper cantare: sempre, ostinatamente, comecchessia, comunque vadano le cose e il mondo.

“Cantare” dunque. Trionfo della volontà canora, Il Parnaso trasferito nelle nostre città, nelle nostre paludi. E se il grande Folengo nel suo poema poteva vedere le Muse nei campi della Padania intente a impastar gnocchi, non si vede perché si debba ad

esse rifiutare di sguazzare nelle nostre acque, vie, piazze, crocicchi, circoli, club, salotti; gorgheggiare tra le pareti domestiche e i torchi dei tipografi; intonar canti, rime, ritmi, emettere e trasmettere messaggi.

Abbiamo quindi capito tutti perché questo inserto si chiama “Cantarane”. Sarà certamente un po’ noioso, perché le rane sono noiose; un po’ professorale, perché le rane salgono facilmente in cattedra; un po’ “culto”, perché le rane frequentano le bilblioteche; un po’ campanilistico, perché le rane raramente spaziano su orizzonti larghi e profondi; insomma, un po’ tanto da farsi perdonare. Ma forse un modo per conoscerci. E chissà che dalla palude non fioriscano anche luminose ninfee e alzi il volo qualche cigno.

29 Gennaio 1979

(1) editoriale per l’uscita di in inserto, durato pochi numeri

Non a caso

Un cronista, a Palermo, viene ucciso. È quasi certo che sul terreno patologicamente insidioso della Sicilia la mafia non gli abbia perdonato di tentar di cercare qualche verità. Un sindacalista, a Genova, viene falciato da una raffica: è certo che è stato stroncato, perché non aveva esitato a opporsi alla violenza e alle sue forme organizzate. Il giudice Alessandrini, a Milano, viene fisicamente eliminato, per punirlo del lungo esercizio di anni dedicati ad aprire spiragli sul buio tenebroso che ci circonda.

Tre delitti, che si susseguono in modo impressionante, a testimoniare che oggi la violenza organizzata non spara più sul mucchio, ma sceglie con feroce oculatezza. Tre delitti certamente diversi. e diversamente motivabili, ma con un denominatore comune: essi sono il frutto di una situazione patologica, che incancrenisce il paese, che, in un intrico non certo casuale, ha dato spazi amplissimi a forze, che il Paese democratico proprio non lo vogliono.

Se democrazia significa riuscire a creare una realtà pubblica, che sia come il proverbiale “palazzo di vetro”, dove a tutti sia possibile intervenire, vedere e capire tutto, non c’è dubbio che questi delitti, proprio in questo loro denominatore comune, rivelano: il “palazzo” deve rimanere buio, impenetrabile; una diversa gestione della “realtà” deve essere considerata impraticabile.

In questo progetto di sanguinaria volontà sopraffattrice si intrecciano, ai livelli più diversi,,procedure mafiose, strategie della tensione, volontà di destabilizzazione, che, anche se può essere forse vera l’ipotesi che abbiano radici propulsive diverse, su un punto certamente si incontrano: impedire che in Italia si respiri aria limpida, alias impedire che i processi di democratizzazione reale continuino.

Dobbiamo dunque riconfermarci nell’opinione che non siamo di fronte a volontà “rivoluzionarie”, ma a manifestazioni perverse di volontà di potenza, nel senso già cupamente reazionario, che questa espressione può assumere

A questo punto il discorso, se non si vuole accettare l’alone di sgomento e di deprimente fatalismo, che questi fatti possono determinare, deve riportarsi all’indietro, verso il perno della questione. Lo aveva già detto molto bene proprio Alessandrini, in una intervista pochi giorni or sono rilasciata all’“Avanti”: “non basta fare professioni di fede costituzionale per fare funzionare le istituzioni. Occorre ben altro”.

Che la morte di Alessandrini sia stata decisa proprio nel giorno in cui veniva al dunque la crisi di governo, sarà un caso, ma ci ricorda che il rapimento Moro si è effettuato in un giorno per molti aspetti analogo a questo Sarà un caso, ripetiamo. Ma certamente non è un caso che, sulla crisi che travaglia il paese, questi lutti cadano sempre in modo da assumere significati simbolici Chi non vuole soluzioni “limpide”, sulla crisi rovescia sopra sangue e morte...

Non dobbiamo dunque domandare che alle astratte affermazioni di sdegno, di dolore, di amore per le istituzioni, per la Costituzione, per la Repubblica, sottentri una volontà operativa politica che si tramuti, come è suo compito e funzione, in ferma limpidezza di decisioni, capace di investire di sé tutto il paese? un paese dove

sindacalisti e magistrati vengono ammazzati, e i Freda e i Ventura scappano tranquilli.

30 Gennaio 1979

Ipoteche e proprietà

Sembra, dunque, che Giovanni Paolo II si stia assestando sulla “Rerum novarum” “ Sulla proprietà privata – egli ha detto in quell’America latina, dove la proprietà governa con brutale sovranità - grava un’ipoteca sociale”, il che, se non abbiamo mal capito, significa che, chi possiede la proprietà deve usarla “bene”, cioè ricordarsi dei poveri, leggere sul loro volto il volto di Cristo, salvaguardare la loro dignità di uomini, etc. etc.

Sappiamo che questa secolare tradizione della chiesa a porsi come difesa degli umili e degli oppressi non è stata e non è storicamente disutile. Ma la domanda, oggi, proprio per ragioni storiche, è questa: chi stabilisce il criterio dell’“uso buono? Quali sono le condizioni concrete in cui si materializza la dignità dell’uomo? Non possono oggi, storicamente, gli umili rivendicare per sé una decisa partecipazione a queste decisioni?

Nella “Populorum progressio”, per fare un esempio di grande respiro, la risposta a questa domanda aveva avuto ben altro avvio.

Certamente Giovanni Paolo II sa meglio di noi queste cose e sa quindi perfettamente qual è il supporto teologico, ma anche politico e sociale (non esistono teologie prive di segno politico e sociale) di questa scelta. Quelle masse osannanti che abbiamo visto sugli schermi televisivi, quegli indios commossi e festanti per la presenza paterna, consolatrice e rassicurante di un pontefice, che scende fra loro a garantire che la Chiesa non si dimentica di loro, lo sanno, invece, un po’ meno E questo può dare una stretta al cuore. Non solo pensando ai secoli di spaventosa violenza subita dai “poveri” dell’America latina, ma anche al suo perdurare, sotto nuove forme, e non meno feroci, presso quasi tutti gli attuali regimi di quelle nazioni, i quali sapranno bene definite i confini entro i quali interpretare la “ipoteca sociale”, che grava sulla proprietà privata, che essi sanno difendere con tanto perverso accanimento.

31 Gennaio 1979

Il convegno della rivista “Appunti”

Aggregazione DC e “impegno” cattolicoIncontro e dibattito sul tema “Stato e forze sociali”. Le relazioni sono affidate ad

Ardigò, Barucci, De Rita. La presenza bresciana.

Trent’anni di potere – spesso esercitato non per servire lo stato, ma per “utilizzarlo” - quali problemi hanno messo in atto nel mondo cattolico, e,in particolare, all’interno del partito, che, forte di una incontrastata maggioranza, se ne è servito per governare in forme e in modi, che hanno destato ampie riserve anche presso osservatori abbastanza distaccati e imparziali, non sollecitati, cioè, da una spinta critica di opposizione?

Difficile dare una risposta esaustiva. Più facile formulare qualche impressione. L’impressione, per esempio, che taluni settori di quel mondo, cattolico e democristiano, non abbiano rinunciato all’ipotesi di una continuità nell’esercizio del potere fondata sul machiavellismo un po’ cinico di chi, disponendo di giganteschi strumenti, non ultimo quello di un elettorato tutto sommato sempre abbastanza manovrabile e recuperabile, non rinuncia a gestirseli mettendo ai margini, come secondarie o addirittura scomode, le più impellenti e gravi responsabilità etico-politiche alle quali uno stato moderno dovrebbe mettere di fronte.

E, di conseguenza, l’impressione che si perseguano forme di aggregazione che consentano, comunque, quella continuità, in nome, magari, del “realismo” politico.

Ma in questo quadro, che può destare diffidenza e irritazione nei “nemici” e oppositori, e perplessità negli amici o quasi amici,, sarebbe obiettivamente ingiusto non voler vedere qualche sintomo di segno diverso. Uno di questi sintomi - forse, per molti aspetti - il più interessante, è dato, ci sembra, dall’aggregazione programmatica che si è costituita intorno alla rivista “Appunti di cultura e di politica”.

Una rivista mensile, nata a Roma nel Maggio dell’anno scorso. Proprio nel momento tragico del rapimento e della uccisione di Aldo Moro. Per iniziativa di quella Lega Democratica, che si rifà ad illustri precedenti della storia politica dei cattolici italiani, e che nella rivista ha costruito uno strumento di discussione e di analisi, che certamente costituisce, pur nel breve susseguirsi dei numeri finora comparsi, uno dei punti più vivi e concreti del dibattito politico-culturale degli ultimi mesi in Italia.

La rivista si organizza intorno al punto fermo della non attualità, anzi della pericolosità, della “diaspora” dei cattolici, cioè del loro disperdersi nei partiti. Questa convinzione, se pur accompagnata dalla affermazione che questo potrebbe anche essere uno scopo da raggiungere in tempi successivi (il che fa cadere il rischio di un presupposto ideologico integrista), può certo, se ritagliata e isolata dalla complessità dei temi concreti, che la rivista affronta, destare il sospetto di una operazione politica deteriore, sia pur mascherata di corriva strumentalizzazione aggregatrice. Il che, per quanto ci consta, è stato anche detto da qualche parte e sottolineato con preoccupazione.

Ma se si vuol capire il senso operativo del gruppo che anima la rivista, bisogna decidersi a saltar oltre questo dilemma, e cercar di capire la sostanza e il peso del discorso e della proposta, che animano questo accorpamento politico-culturale che sulla rivista si esprime.

Una rapida scorsa ai temi affrontati e al taglio che ad essi vien dato (pur senza escludere qualche dubbio, qualche parziale interrogativo sui singoli contributi) può persuadere il lettore attento (e magari guardingo) che la rivista esprime un travaglio

di riflessione, che si raccoglie intorno a due poli: serietà e concretezza dell’indagine e del dibattito; costante tensione a una profonda rieducazione (ci si permetta di esprimerci così) del mondo cattolico e democristiano alla problematica dello stato moderno democratico. Una operazione, dunque, che non è solo “culturale”, ma “politica”, Parafrasando una battuta di Pietro Scoppola, che è uno degli animatori più lucidamente consapevoli della rivista: superare il dualismo, che vede così facilmente da una parte il trinceramento nell’ethos (magari sotto la veste di attenzione al sociale o di impegno all’analisi e all’apporto culturale) e dall’altra la gestione del potere nelle sue forme più anguste (e magari predicatorie).

Si tratta di un compito difficile e complesso. E il riuscire o il fallire nel tentativo di portarlo a termine può avere conseguenze, che non riguardano soltanto i catfolici e i democristiani.

La rivista “Appunti” si stampa ora a Brescia. ed è, questo, con tutta probabilità, un fatto che ci riguarda non soltanto come dato di cronaca, ma come sintomo di qualcosa che si muove nella nostra realtà locale.

9 Febbraio 1979

Tra Chiesa e Stato sembra imminente la revisione del “matrimonio”, che in questi giorni ha celebrato le “nozze d’oro”.

Il tira e molla del ConcordatoPer la prima volta nella storia d’Italia un accordo internazionale è stato

ampiamente discusso nel Parlamento e nel Paese. Si ha però l’impressione che su alcuni punti chiave si mantengano delle reticenze e delle ambiguità

Della revisione del Concordato si parla da dodici anni. Non ci stracceremo le vesti per questo. Per discutibile e magari deplorevole che sia, meglio un ritardo che va a buon fine piuttosto che una vergognosa rapidità come quella che permise il “trionfo “ di Mussolini del 1929, con una generale calata di braghe dello stato. Sì, la pace reciproca è una bella cosa, ma bisogna anche fare attenzione a che prezzo la si paga. Niente guerre o guerriglie, ma niente arretramenti o cedimenti sul piani civile. Non lo è, lo sappiamo, ma dovrebbe essere universale convincimento che privilegi e disuguaglianze offendono che ne viene emarginato, corrompono coloro che ne ottengono il godimento, degradano il tessuto della società civile, inaspriscono le tensioni politiche. E il Concordato dl ‘29, in fatto di privilegi e di diseguaglianze aveva la mano pesante.

Chi sperava, comunque, che il 50° del Concordato coincidesse con la sua abrogazione o revisione è rimasto certamente deluso, ed è stata facile l’ironia dei radicali che in una loro manifestazione a Roma hanno distribuito confetti colorati in oro per festeggiare le fauste e durature nozze tra chiesa e stato. Un’ironia che ha le sue radici, soprattutto, nella richiesta abrogazionista, richiesta che, come è noto, non viene solo da parte radicale. Alcuni settori repubblicani, liberali, socialisti, socialdemocratici nonché alcuni gruppi cattolici ( per es. moltissime comunità di base ) se pur con diverse motivazioni puntano sulla richiesta di abrogazione, parlando di “decesso storico” del Concordato, di cadavere da rimuovere.

BresciaOggi ha dedicato, negli ultimi due anni, largo spazio al dibattito sul Concordato, dando libero accesso alle più varie e articolate posizioni ed analisi. Non è quindi il caso, in questa occasione da calendario, di tornare, nemmeno succintamente, sull’argomento, ci limiteremo ad osservare che, allo stato attuale delle cose, le soluzione abrogazionista, con il suo slancio ideale (da nobile “utopia” come ebbe a definirla Lelio Basso in un suo intervento, come sempre, di altissima carica etica) e con i suoi rischi di “guerriglia” (come recentemente ha sottolineato Ruggero Orfei in un’intervista rilasciata a “Repubblica”) appare risultato per nulla prevedibile.

Resta realisticamente da vedere quale sia, in base all’iter finora percorso dal processo verso la revisione, come si configuri ormai la questione dopo la presentazione della cosiddetta terza bozza,e tenendo presente che, da alcune voci e indiscrezioni registrate da alcuni giornali, sarebbe in campo una quarte bozza con nuove formulazioni su alcuni punti più delicati e contestati della bozza.

Quali sono questi punti? Essi si riducono sostanzialmente a tre.L’insegnamento religioso. Si scontrano qui due linee. Una (più rigorosamente

laica) chiede sia facoltativo.: ciò comporta che l’insegnamento sua istituito quando ce

ne sua la richiesta. L’altra, al contrario, vuole mantenere l’istituto dell’“esonero”, nulla innovando, quindi, rispetto alle norme del ‘29. L’articolo 9 desta, su questo punto, parecchie perplessità. Tra l’altro: l’equiparazione di trattamento delle scuole confessionali con le scuole gestite da enti territoriali sembra portare, in definitiva, ad aggirare l’ostacolo del divieto costituzionale di finanziamenti statali alle scuole private. E ancora: cosa significa che la religione è “materia ordinaria”? Che i programmi, come previsto dalle norme del ‘29, sono stabiliti dallo Stato in accordo con l’autorità ecclesiastica?

E in tal caso: dove va a finire la “libertà” religiosa? Quale sarà la situazione degli insegnanti elementari, che lo stato abilita all’insegnamento della religione? Dovranno ancora farsi sostituire dall’incaricato ecclesiastico? A tutti questi problemi si dà soluzione, ci sembra, soltanto introducendo la “facoltatività” dell’insegnamento.

Gli enti ecclesiastici. Di fatto la disciplina di questi enti appare dalla terza bozza, stralciata e rinviata. Una commissione mista dovrà regolare questa materia. Appare chiaro che da parte vaticana si tende a rinviarne la definizione (i rigidi interventi di Wojtyla sulla 382 ne sono un sintomo). In pratica la Santa Sede sembra orientata a ottenere il riconoscimento anche degli enti che svolgono attività economiche, mantenendo i finanziamenti dello Stato, ma rimanendo al di fuori del controllo dell’amministrazione statale. Va, in proposito, tenuto presente che nel gennaio dell’80 scade la proroga alla “legge sulle congrue” con la quale vengono finanziati dallo stato gli enti ecclesiastici e di culto ( un fondo che si aggira sui 40 miliardi). Per quella data cesserà l’elargizione dei fondi ed entrerà in vigore la revisione dei redditi catastali, fermi al 1921, degli altri 10 mila enti. La Santa Sede ha perciò tutto l’interesse a definire rapidamente la legislazione su questi enti, prima che il fisco me riesca ad accertare l’entità patrimoniale.

Le nullità matrimoniali. Nella terza bozza (art.8) vi è una versione peggiorativa. rispetto ai testi precedenti: l’accertamento del rispetto dei principi processuali è riservato, anziché alla corte d’appello, al tribunale della Segnatura apostolica. Inoltre non compare più la disposizione che prevedeva la possibilità di riesame nel merito della causa in presenza di motivi previsti dalla legislazione italiana per il riesame nel merito delle sentenze straniere.

La cultura a Brescia

Il marchingegno e gli uominiDivagazioni su una “notizia”. Il pericolo di prenderla un po’ troppo sul serio

Mi stupisce un po’ la serietà con la quale si è reagito ad una “classifica” comparsa su un settimanale, dove Brescia figura, tra le città dell’Italia settentrionale, all’ultimo posto per quanto riguarda la vita culturale. Non so come si possano prendere sul serio le indagini statistiche, che pretendono di ricavare dei giudizi dalla elaborazione di una somma di dati meramente quantitativi. Sicché, quando mi è capitato sott’occhio quel quadro classificatorio, non ho avvertito alcuna scossa. Un po’, al più, di curiosità per quel bel gioco di complicate manovre di impasto, di smistamento e di triturazione, che permette di inghiottire dati e sputare giudizi “obiettivi”.

Mi si dirà che, comunque, la cosa fa notizia. D’accordo, e allora ha ragione Tino Bino quando, in proposito, afferma che può essere un’occasione per costringerci al dibattito, e introdurre alcuni spunti di analisi e di valutazione, come per altra via ha fatto Guido Stella sul “Giornale di Brescia”, Può darsi che altri intervengano e il dibattito continui in modo concreto, ma mi si consenta, qui, di esprimere alcune opinioni, anche se potranno sembrare riduttive per un verso (rispetto alla complessità del problema, e, spero solo apparentemente, addirittura svianti rispetto alla “sostanza” della notizia, almeno come, da quel che sento, è stata recepita.

Confesso che mi trovo a disagio, davanti a quella “notizia” e che mi vien voglia di sbrigarmene un po’ drasticamente e un po’ scherzosamente. Magari ricordando un gustoso elzeviro di Guido Piovene, di molti anni or sono, che, parlando di cultura, immaginava, davanti al tribunale per l’ingresso in Paradiso, schiere di intellettuali, di – come si direbbe oggi - operatori culturali, respinti con ignominia e precipitati giù all’inferno, come emeriti pasticcioni o turlupinatori e peggio, mentre alcune massaie venivano accolte col dovuto riguardo a godere del premio celeste, visto che avevano inventato una buon minestra. E mi ricordo anche il Lucullo brechtiano, che in una situazione consimile sta per essere benevolmente accolto nella luce eterna per aver portato in Occidente l’albero del ciliegio, ma poi viene risospinto nell’ombra tenebrosa dell’oblio per troppo altre dannose intraprese. Perché, insomma, mi ha sempre fatto impressione l’affermazione di quel “non ricordo più chi” del ‘500, che osò dire che l’inventore del formaggio è più importante di Aristotele.

Il che in definitiva significa, per dirla con seriosità, che la vita culturale non solo non la si misura in termini di presenze fisiche, con criteri quantitativi di biglietti venduti al botteghino del teatro e consimili dati, ma nemmeno in termini di presenze “spirituali”,: l’esecuzione di un brano musicale o la mostra di un pittore o la pubblicazione di un libro.

A me, quella misurazione della cultura dà tanto sospetto, e non tanto per la questione di cui sopra, dell’elaboratore-marchingegno, quanto soprattutto per il criterio, che, mi pare, presiede a quella raccolta di dati, un criterio che si fonda su un concetto di cultura, il quale, nemmeno chiaramente e consapevolmente determinato, risponde inconsciamente ad un’idea salottiera e “mondana” di essa.

Mi va bene che i bresciani o i milanesi o i comaschi vadano ai concerti, a teatro, alle conferenze, eccetera. E mi va ancor meglio che producano libri. riviste e tutto il resto, che solitamente pensiamo come segno e strumento di cultura. Ma non occorre aver letto Adorno per capire che il “consumo” e la “produzione” non sono di per sé dati indicativi, e che solo un ingenuo illuminismo o uno spiritualismo da quattro soldi possono illudersi che in essi sia dato leggere il livello culturale raggiunto da una società o comunità che dir si voglia. E già che siamo in vena di citazioni, voglio ricordare quel personaggio di un romanzo (chiaramente autobiografico) di Joseph Roth, che rientrando a Vienna (una delle “capitali” della cultura europea) avverte lo squallore della sua città e rimpiange la forza, la autenticità umana del villaggio della Siberia dove la guerra e la prigionia l’avevano condotto.

Che è come dire, insomma, che se vogliamo fare discorsi in termini accademici sui “segni” esterni e in termini quantitativi sugli “strumenti” istituzionalizzati o meno della cosiddetta organizzazione della cultura e sulla diffusione del loro impiego, lì si può anche fare: ci armiamo di buona volontà, e cominciamo a conteggiare e a discutere. Ma se vogliamo tentar di definire il livello “reale” della città in base ad un concetto un po’ più serio della cultura (cultura – humanitas, cioè livello umano concretamente e solidamente raggiunto) beh… allora il discorso si fa diverso, e un po’ più difficile.

Molto più difficile, perché non si tratta di verificare se i bresciani – o chiunque altro –“coltivino lo spirito”, magari leggendo qualche libro in più o in meno o frequentando qualche sala con maggiore o minore frequenza, ma di verificare quanto e come sulla loro convivenza tutto ciò si rifranga ad “umanizzarla”. Discorso, ovviamente, che esige l’abbandono perentorio del concetto di cultura che è sotteso a quella indagine statistica, che sembra aver fatto (ingiustamente) tanto scalpore.

Chi si avvia per questa strada avverte immediatamente quanto è buffo stare a guardare se siamo al primo o all’ultimo posto delle classifiche stabilite dagli elaboratori elettronici. E non gli importerà neanche tanto di sapere quali dati siano stati gettati nell’elaboratore e quali criteri di scelta vi abbiano presieduto, visto e considerato che quei criteri appartengono, essi sì, ad una particolare specie di sottocultura, che potrebbe definirsi dell’umanesimo consumista. Un umanesimo che è poi, in ultima analisi, un non-umanesimo, frutto di una perversione, dai connotati storici ben visibili, che investe Brescia come ogni altra città, piccola o grande che sia, indipendentemente dal numero delle frequenze e dei biglietti venduti, o perfino indipendentemente dallo sviluppo, o meno, degli strumenti offerti dalle istituzioni, pubbliche o private che siano: il che, ovviamente, non significa screditare o misconoscere quanto è stato fatto e si continua a fare da parte di gruppi volonterosi e con l’intervento, che ci auguriamo sempre più organico, capillare e stimolante, delle istituzioni pubbliche. Significa, invece, tenerci avvertiti che la presenza dei cosiddetti dati culturali va misurata soprattutto in funzione della loro capacità di spingere verso un mutamento della “qualità della vita”, individualmente e collettivamente intesa. Quanto questo sia, oggi, possibile, non è facile dirlo o prevederlo. Ma è in questa direzione che occorre puntare, per difficile che sia.

18 Febbraio 1979

Piazza Fontana: giustizia, ma senza chiarezza

A Catanzaro si sono chiusi i battenti. Giustizia è fatta, con la latitanza - aggravata dalla vergogna della loro incredibile fuga, che ha accresciuto i fondatissimi sospetti di connivenza a ben alti livelli – di due dei principali responsabili. Giustizia è fatta, con una sentenza che, se pur per certi aspetti persuasiva, apre però larghi varchi di discutibilità.

In materia così intricata e scottante è facile che non tutto riesca, all’atto finale, risolto in una chiave di oggettiva chiarezza. Ma non v’è dubbio che i punti deboli siano di estrema evidenza. Essi si riassumono sostanzialmente in questo: 1) contraddittorietà della condanna di Valpreda (pare che non abbia fatto nulla, ma è colpevole di associazione a delinquere, e per di più condannato con la stessa pena e don la stessa formula usate per Merlino, che con piena evidenza era entrato nella “associazione” come infiltrato provocatore); 2) la condanna di Maletti e La Bruna, cioè del Sid, implica altre responsabilità, di cui si tace.

Su questi punti e sul significato complessivo della sentenza il lettore può trovare nella nostra terza pagina di oggi una rassegna delle reazioni della stampa. Come sempre, le opinioni nascono anche da tessuti ideologici, espliciti o sottintesi. Ma, nell’affiorare delle opinioni, a chi sappia leggere con attenzione, sono riscontrabili anche i dati “obiettivi”, che il corso del processo e la sentenza conclusiva hanno fatto emergere.

Questi dati, al di là dell’accertamento delle responsabilità delle singole persone coinvolte nel processo, portano sicuramente a fissare alcune certezze di fondo, che una buona parte dell’opinione pubblica ha recepito già da tempo, ma che oggi appare con ancor più marcata evidenza con l’apporto di questa sentenza e per quello che dice e per quello che non dice.

1) Le bombe di piazza Fontana sono fasciste.2) Il Sid, cioè un apparato dello Stato, vi è stato coinvolto con un ruolo,

che non è stato bene determinato, ma che sicuramente è stato, quantomeno, di complicità.

3) Legittime suspicioni si affacciano nei confronti di persone o settori dell’apparato statale.(questure, carabinieri, corpo politico).

Se la violenza omicida ed eversiva, così intricatamente combinata, si fosse chiusa con piazza Fontana, dopo dieci anni, per quanti dubbi la sentenza susciti e lacune che riveli, si potrebbe perfino condividere la tesi, affacciata da qualcuno, che, finalmente, una pietra, in qualche modo, è stata calata sulla vicenda, e lasciamola pure lì. Ma le cose stanno ben diversamente. Nei dieci anni che ci sono voluti per arrivare a questa sentenza l’eversione e le complicità sono continuate, hanno creato episodi sanguinosi, confermata la sensazione che le mani occulte non recedono dal loro sforzo. L’inquinamento c’è ancora, e pesante.

Il problema, ovviamente, è politico. Le complicità, le carenze, i ritardi, gli occultamenti, le manovre eversive trovano spazi aperti e varchi comodi là dove il potere politico non ha la volontà o la forza di compiere il suo dovere di disinquinamento. In questi giorni di crisi governativa, discorso da tenere ben presente, al di là delle alchimie e dei gretti patriottismi.

25 Febbraio 1979

Inizia questa sera il film che Gianni Amico ha ricavato da “Le affinità elettive”

Due serate con Goethe

Il grande pubblico conosce poco il Goethe della piena e avanzata maturità. Il secondo Faust, per esempio, e Le affinità elettive. Il regista che ha deciso di trasporre in TV questo celebre, poco letto e spesso mal compreso romanzo, ha compiuto una scelta coraggiosa e in un certo senso meritoria, se riuscirà, attraverso il piccolo schermo, a riproporre un’opera, che è sicuramente tra le più affascinanti e sottilmente complesse di Goethe.

A prima vista un “romanzaccio”, con tutti gli ingredienti del romanzo romantico, e con una finale perfino sconcertante nella sua platealità. Ma in realtà opera di inquietante profondità.

Una copia di coniugi ospita nel proprio castello una nipote della moglie e un amico del marito. Si accendono sentimenti e passioni in un intrecciarsi che appare frutto di affinità simili a quelle che attraggono, con disgregazioni e associazioni, gli elementi chimici. Anche gli uomini fanno parte della natura, ne subiscono la ineluttabile “necessità”, subiscono attrazioni e disgregazioni.

Ma l’uomo è anche “moralità”, comunque essa si spieghi e si dispieghi ( convenzione, convinzione, legge interiore, scelta sociale e altro ancora). Nella natura le affinità creano vita, armonia, autenticità; nell’uomo scontri, tensioni, inquietudini, dolore.

Nelle sue “tragedie” (Egmont, Tasso, etc.) Goethe ha sempre ricomposto l’urto degli opposti e dei contrari in una prospettiva ideale, che si impone al di sopra del contrasto, del dolore, della morte.

Questa è l’unica sua opera veramente “tragica”, dominata da una tristezza profonda, come di chi si trova di fronte ad un contrasto senza soluzione. Per usare un’espressione di Goethe: chi legge questo romanzo senti aprirsi una ferita che non si richiude. E non deve trarre in inganno il finale “cristiano”, che, in realtà, sotto l’armamentario romantico adoperato da Goethe, conferisce anch’esso al romanzo alcunché di spettrale e di funerario.

Ma Affinità elettive non è soltanto il romanzo tragico di passioni “impossibili”. Goethe sapeva bene che amori e passioni non sono astrattamente e genericamente “universali”, ma si collocano nel tempo. I protagonisti di Affinità elettive appartengono alla piccola aristocrazia terriera del primo Ottocento, vivono nel castello, luogo tipico di una dimensione “culturale”, che le grandi trasformazioni storico-sociali a cavallo tra i due secoli hanno condannato alla emarginazione e al disfacimento. I personaggi del romanzo vivono anche questo dramma e cercano di resistervi, dandosi da fare in tanti modi: ma sterilmente. Ricchezza e intensità di sentimenti, da un lato, nobiltà ed energia di intendimenti, dall’altro, sono frustranti. Il romanzo goethiano coglie con straordinaria, penetrante poesia queste frustrazioni, innalzando una commossa e lucida epigrafe tombale ad un’epoca e proiettando verso il futuro una inquieta problematica. Sarà interessante vedere quanto e come lo sceneggiato televisivo sia riuscito a cogliere la composita atmosfera di quest’opera.

25 Febbraio 1979

Disagio e riscattoUn affascinante capitolo della cultura del nostro tempo

Proviamo ad immaginare, a ricostruire mentalmente il clima intellettuale, nel quale respirava chi, neanche un centinaio di anni fa, si occupava di storia. Era un clima di salda certezza, dominato dalla convinzione che, lavorando sodo, si poteva costruire la conoscenza della millenaria vicenda degli uomini Rovistando archivi, vagliando documenti, organizzando il materiale con solerte e “scientifica” diligenza appariva possibile offrire al lettore il ventaglio immenso, ma percorribile, della storia, spalancargli con sicurezza la prospettiva sui secoli e sugli evi, garantirgli insomma che la gigantesca mole del passato è regno concesso all’avida curiosità degli uomini assetati della conoscenza dei “fatti”.

Per dirla con le parole di Lord Acton, lo storico inglese, che forse più di ogni altro. rappresentò con commossa fiducia questa convinzione: “Grazie ad una accorta divisione dl lavoro dovremmo essere in grado…di far entrare nelle case di ogni lettore le più recenti scoperte documentarie e le conclusioni più meditate, a cui sono giunti gli studiosi di ogni paese”. Un vero e proprio “lascito” della scienza del sec. XIX” a disposizione di tutti, o quanto meno di tutti coloro che, desiderosi di sapere come sono andate le cose, fossero disponibili a leggere la ricostruzione della storia operata dal diligente lavoro degli storici.

E con ciò la ricerca storica si dava anche una giustificazione “pedagogica”, si poneva come strumento per una diffusione generalizzata delle conoscenze degli specialisti, allontanava il rischio di essere considerata un aristocratico “inutile” lavoro di una esigua schiera di dotti accampati sulle loro polverose carte…

Su questa ingenuità è passata la bufera disintegrante della crisi di certezze, che, se ha investito tutte le scienze, non ha certamente risparmiato il terreno della ricerca storica e, di conseguenza, l’immagine stessa della “storia” come prodotto disponibile per il lettore, pur sempre desideroso, nonostante tutto, di sapere “come sono andate le cose”.

La crisi – proviamo a dirlo schematicamente – è nata quando ci si è accorti che il “fatto” è perennemente soggetto “all’interpretazione”, che si può, quindi, scriver storia, presentare i fatti in modi diversi e molteplici, che, addirittura, ogni presentazione del fatto passa attraverso il filtro, spesso sottilmente implicito, ma non per questo meno prepotente, della “contemporaneità” di ogni ricostruzione storica. Un sapere, dunque, inesorabilmente toccato dalla “soggettività”. E allora dove sta la verità storica? Come uscir fuori da questa sorta di implacabile pirandellismo che incombe sulla storia, che sembra negarle ogni possibilità di verità?

La rifondazione della cultura storica su basi non precarie, costituisce una della grandi avventure del sec. XX. Leggiamo una eco di questo affascinante capitolo della cultura moderna in un passo tratto da un romanzo di Hermann Hesse: “Studiare storia, caro mio, non è uno scherzo, non è un gioco senza responsabilità. Lo studio della storia presuppone che si sappia come esso tenda a qualcosa di impossibile eppure necessario, nonchè importante. Studiare storia significa abbandonarsi al caos,

ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno. È un compito molto serio, e forse tragico”.

Caos e ordine: i due poli intorno ai quali ruota la condizione umana, in una dialettica in perenne movimento. Soltanto la percezione di questa dialettica permette la “fondazione” e la “rifondazione” della verità. Così come Fébre, uno dei fondatori dei celeberrimi Annales, lo ha compendiato in una espressione di lapidaria e appassionata efficacia: “Essere storici significa non rassegnarsi mai”.

La storia, dunque, come perenne riproporsi della esigenza di affrontare la realtà, nel binomio passato-presente che la costituisce.

L’iter di questa ricomposizione, di questa riconquista del significato della storia non è stato né semplice né lineare. Si tratta di un percorso aggrovigliato, complesso, che si è mosso talora su strade maestre, e talvolta ha subito le difficoltà di intricati sentieri e l’inciampo di vicoli ciechi, superati con affanno e non senza qualche contraddizione. Ricostruirne l’orizzonte complessivo non è cosa facile Ci si è provato con perizia ed entusiasmo Paolo Corsini, in un libretto, quasi tascabile, pubblicato dalle edizioni Accademia: 280 pagine brevi e dense, nelle quali una vicenda culturale di tanta ampiezza è riuscita a sintetizzarsi in una serie di scorci, che hanno il pregio della lucidità espositiva, raggiunta anche attraverso un felice equilibrio tra il momento informativo e la complessa esigenza di valutazione e di scavo concettuale

Per un’intrapresa di questo genere, che implica la riduzione. in uno spessore quantitativamente ridotto di uno spazio culturale vastissimo, si poteva scegliere il metodo della “mappa”, percorrendo con diligente scrupolo di accertamento le “zone” di cui cronologicamente, geograficamente, ideologicamente, etc. quel terreno si costituisce. L’autore ha preferito un metodo diverso, più rischioso, ma certamente più stimolante e produttivo e cioè la concretezza della problematica, nei suoi momenti incontro-scontro, di affinamento, di mutamento di prospettive, di risposta alle domande, che il dibattito sulla storia e la storiografia ha posto alle generazioni del nostro secolo.

E qui, elemento fondamentale per l’apprezzamento del saggio di Corsini, eccoci di fronte alla scoperta, che affiora ad ogni pagina, che quel dibattito, quella problematica, non sono stati un esercizio accademico, se pur di alto livello intellettuale, ma una dimensione “sovrastrutturale”, nel senso più pienamente marxiano. del termine, sotto alla quale fermentava l’intera realtà del secolo. Il “disagio” della storiografia è stato l’espressione del disagio di un’epoca; nelle sue appassionate battaglie, nel suo bisogni di chiarimento, nelle sue conquiste, si legge, in un’operosa e dialettica specularità, il travaglio di un’epoca.

Si osserverà, leggendo questo libro, che il metodo scelto non esime certamente l’autore dall’individuare i limiti, le contraddizioni, le sfasature, che affiorano in quel dibattito e nelle più varie zone di quella cultura. Eppure raramente è dato leggere un libro, che affronta temi così controversi e spazi culturali così spesso antinomici, costruirsi con tanta pacata capacità di intendere il “senso” di ciascuna tessera del mosaico. Oggi questo atteggiamento suol ricondursi al concetto di “pluralismo”, inteso come capacità di cogliere la totalità dei fenomeni, capacità sorretta dalla volontà di sgombrare il terreno da schemi ideologicamente pregiudiziali, pur mantenendo la saldezza del proprio tessuto di idee. L’impressione che se ne ricava, in verità, è anche qualcosa di più: l’avventura della cultura storiografica del nostro

secolo vi appare infatti come la risultante di un processo che si è realizzato, come si diceva una volta, per “concordia discors”, come frutto di “culture”, che si intrecciano in articolata ricchezza, come segno di una civiltà, che sa riflettere su se stessa e proiettarsi positivamente in avanti. Non ultimo motivo per conferire al saggio di P.Corsini un significato di pregnante attualità.

4 Marzo 1979

Ventotto Maggio

Ogni data, lo sappiamo, è sottoposta alla corrosione del tempo e ogni ricordo tende ad attenuarsi La memoria è labile e i sentimenti, d’altra parte, costano fatica, logorano l’anima. Che belli, quei tempi futuri, nei quali l’ottundimento generalizzato avrà costruito uomini che vivano senza ricordi e senza passioni!

Fra tante ipotesi, questa è la più agghiacciante, perché la più probabile, se non ci si sta attenti: il piccolo cabotaggio dell’aspirazione piccolo-borghese a non pensare, giunto ad una pianificazione massiva, capillare, annullatrice. La storia scorrerà come un olio tranquillo, senza sussulti e senza trasalimenti. Uno splendido termitaio, dove le date non diranno più nulla, anzi dove non ci saranno più date, con le loro angosce e le loro speranze, con la loro valenza esaltante o tragica.

Non ci saranno più i 28 Maggio, con il loro alone sanguinoso e la loro vergogna civile. Nessuno si vergognerà più. Come già forse ad alcuni sta già accadendo. Perché in questo 28 Maggio di cinque anni dopo, che ancora si muove al di qua di quel crinale, che ci divide dal deprecabile totale appiattimento che qualcuno così volentieri costruirebbe, i sintomi dell’indifferenza, le sindromi dell’alzata di spalle, il sorrisetto del cinismo non mancano. E non ci si vergogna, per esempio, di tentar di far credere che su quello che è accaduto in piazza delle Loggia nel Maggio del 1974 si possa stendere il velo della dimenticanza, magari in nome del garantismo democratico. Quasi che la democrazia vada difesa con astratte petizioni di principio.

Accade, a questo 28 maggio di cinque anni dopo, di cadere in un momento di campagna elettorale, dove ognuno, come è ovvio, cerca di tirar l’acqua al suo mulino. Ma ci sono mulini, che macinano ancora il grano dell’arroganza e convogliano un’acqua torbida destinata a mantenere paludi, perfino al di là delle individuali intenzioni e della personale buona fede di chi vi è convogliato. Vorremmo che il ricordo di questa data, la riflessione che essa comporta, inducessero tutti a chiedere e a volere chiarezza, a non dimenticare che il massacro di piazza della Loggia, come quelli di piazza Fontana e dell’Italicus, e, con inquietante continuità, la violenza feroce del terrorismo. non sono nati soltanto da usi perversi delle ideologie, ma, soprattutto, e molto a monte, dal massacro della vita civile, perseguito o tollerato con esasperante continuità, fino a fare dell’intero paese, per molti aspetti, una grande succursale per l’esercizio di volontà mafiose.

Attendiamo, dalla sentenza che fra non molti giorni dovrebbe essere pronunciata nei confronti dei responsabili-esecutori dell’eccidio di piazza della Loggia, giustizia, una giustizia dettata da piena coerenza giuridica e da piena responsabilità democratica e antifascista, se è vero che non si salva la democrazia e la Repubblica nata dalla Resistenza senza rifiutare e condannare il fascismo. Ma, sia ben chiaro. la condanna per le stragi, che in questi anni hanno ferito la vita civile del paese, non passa soltanto attraverso le sentenze dei tribunali.

28 Maggio 1979

I dilemmi dell’Europa

Quando, nel 178,in Francia, si riunirono gli “Stati generali”, cioè un’assemblea regolarmente convocata con elettori ed eletti, e con precisi compiti istituzionali, nessuno immaginava quello che in breve sarebbe avvenuto, e cioè la “rivoluzione”, che ebbe il suo primo atto nella decisione di quella assemblea di dichiararsi “nazionale”, e “costituente”, Avvenne proprio nel giugno 1789.

La concomitanza delle date ci stimola l’immaginazione. Che cosa accadrebbe se gli eletti di oggi 10 giugno 1979 trovassero il loro abate Sieyès capace di proporre e di attuare la trasformazione del Parlamento di Strasburgo in una assemblea Costituente, che reclamasse per sé, quale rappresentante della “volontà generale”, il “governo” dell’Europa?

Stiamo tranquilli, è solo un’immaginazione, anzi una “boutade”. Allo stato di fatti, non esiste il soggetto storico capace di farsi portatore della rivoluzione. Alle spalle di Sieyès ci stava una borghesia omogenea, consapevole, protesa alla conquista del potere. Alle spalle dei Parlamenti di Strasburgo ci sta una borghesia, che il potere ce l’ha già, e lo esercita attraverso stati nazionali che sono rigorosamente sotto il suo controllo. Un diverso soggetto storico omogeneo e carico di potenzialità “rivoluzionarie” non è intravvedibile.

Da questo punto di vista, le elezioni di oggi potrebbero essere guardate con molto pessimismo.

La legittimazione democratica conseguita attraverso una vastissima consultazione popolare potrebbe rivelarsi una inquietante copertura di una realtà senza sbocchi e senza mutamenti

Potremmo veder nascere un’Europa, che, nella crescita del suo potenziale economico e nella acquisizione di un sempre maggior peso nel sistema internazionale, trascuri completamente i drammatici problemi di fondo che ci travagliano: la proposta di un diverso modello di sviluppo; la garanzia di una reale crescita democratica; il superamento delle contraddizione in cui si dibatte il mercato del lavoro con le sue sacche di disoccupazione e di sotto-occupazione, con le sue economie sommerse e le sue tragiche emarginazioni; il rapporto piratesco col Terzo mondo; e via dicendo.

Viene in mente, in proposito, il pessimismo del socialista Lelio Basso, che pochi giorni prima della sua scomparsa ebbe a dichiarare: “Io credo che via via la costruzione europea andrà avanti avremo sempre meno democrazia. La burocrazia, la tecnocrazia, l’eurocrazia, si impadroniranno progressivamente degli ingranaggi del potere e saranno esse a dirigere l’intera vita politica” E ancora:” Verrà eletto il Parlamento a suffragio universale, ma i poteri del Parlamento europeo non cambieranno. Esso continua ad avere le attribuzioni che aveva, cioè niente. Il potere resta nelle mani del Consiglio dei ministri e della Commissione”. Un Parlamento, insomma, paravento, peggio, un Parlamento di mosche cocchiere, che svolazzano attorno al cavallo-Europa, che prosegue imperterrito per la sua strada, guidato dal suo auriga, che sa bene dove andare e come tirare la briglia.

Tanto pessimismo è giustificato? E, ammesso che sia giustificato, implica scoramento e rinuncia? O addirittura consente antieuropeismo, rifiuto di partecipare alle elezioni in corso, indifferenza o ostilità nei confronti dei processi, che, a elezioni avvenute, si determineranno dentro e fuori il Parlamento?

L’occasione delle elezioni ha stimolato, in questi ultimi mesi, una diffusa pubblicistica. Essa rivela sostanzialmente tre gruppi, portatori di tre atteggiamenti. C’è il gruppo che intinge la penna nella retorica europeista, che si esalta all’idea dell’unità, e non chiede più che tanto: l’unità gli va bene, purchessia, si chiami Carlo Magno o Adenauer, Mazzini o Monet, Briand o De Gasperi, Carlo V o Schumann, tutti bravi e buoni, perché volevano l’Europa unita. L’unico, che, finora, in questa sagra europeistica, non gode di buona stampa, è Hitler, eurounitario a suo modo anche lui. Ma lasciamo correre, se pur non è trascurabile il peso che questa pubblicistica esercita sulla “non formazione” dell’opinione pubblica.

C’è poi il gruppo degli esperti, che ti spiegano come funziona l’Europa comunitaria, ti danno le statistiche, ti offrono lo schema complessivo dei meccanismi, che attualmente la reggono, ti descrivono il quadro economico, monetario ecc.: utile lettura.

Ma assai più scarsa è la pubblicistica disponibile a entrare col bisturi nella complessità dei problemi europei, in modo tale da far lampeggiare qualche risposta, qualche ipotesi, sul piani che sopra abbiamo accennato, che non è di poco conto. I mercati, va bene: ma la contrattazione operaia? Le merci, va bene: ma la condizione di quella particolarissima merce che è la forza-lavoro? La rappresentatività “popolare”, ottima cosa: ma il controllo delle scelte governative, perché non assumano l’esclusiva veste di scelte tecnocratiche ed emarginino qualunque ipotesi di un diverso rapporto tra Stato e masse (quello che alcuni amano chiamare “la terza via”)? Stabilità e sicurezza dell’Europa: ma con quale modello politico, presente e futuro? Con quali garanzie che la democrazia formale non si trasformi in una rigida gabbia dove imperi, magari in modo larvato, un’irriducibile autoritarismo?

Su questi ed altri problemi, che vi sono connessi, si ha l’impressione che si intervenga spesso con una formula, che rischia di apparire mitica: il pluralismo. La presenza pluralistica delle forze in campo dovrebbe di per sé garantire, se pur con processi lunghi, le mediazioni e le spinte necessarie perché l’Europa comunitaria trovi la sua strada di “civiltà”.

È lecito, pensiamo, esprimere qualche scetticismo su questa mitica fiducia. Alle forze che pluralisticamente si incontrano o si scontrano nell'ambito della tematica comunitaria spetta (a quelle, s’intende, che hanno schietta coscienza democratica) compiere, come si usa dire, un salto di qualità, e trovare una linea di conduzione, che si faccia carico della gravità del problema. nella sua globalità, diciamo pure rimediare al “ritardo” con cui, a livello di opinione pubblica, di partiti, di sindacati, ci si è finora mossi.

È possibile questa presa di coscienza? È possibile una costruzione politica dell’Europa, che non si limiti ad essere un aggregato di Stati, più o meno “confederata”, ma sorda di fronte ai pericoli paventati e così lucidamente additati da Lelio Basso?

Tra le pochissime pubblicazioni che hanno affrontato il problema segnaliamo l’ultimo numero di Problemi del socialismo, la rivista che esce a cura dell’editore

Franco Angeli. Il fascicolo è intitolato a “L’Europa tra integrazione economica e egemonia politica”. L’arco dei contributi, di cui si costituisce il contenuto del fascicolo, pur nella varietà dei temi, che vanno dal terreni politico a quello giuridico, economico, sindacale, fa perno intorno ad un concetto guida, che così potremmo sommariamente enunciare: l’attuale orientamento delle socialdemocrazie europee e il ritardo con il quale le sinistre in genere si trovano di fronte al problema Europa – sia per quanto riguarda il terreno ideologico che la organizzazione sull’orizzonte sopranazionale – lasciano aperte poche speranze, per l’immediato futuro, che Europa sia “altro” da quello che attualmente è. Unico dato positivo certo, con molto margine di probabilità, la garanzia che l’Europa unitaria può dare nei confronti dei vecchi fascismi, che appaiono sempre più tagliati fuori dal gioco. Per il resto c’è tutto da inventare e da incominciare. Il “liberismo”, che le grandi forze tecnocratiche si apprestano a rilanciare, col rifiuto di ogni programmazione, per lasciare tutto lo spazio aperto all’intervento capitalistico dell’integrazione multinazionale, scaricherà addosso agli stati nazionali il problema delle mediazioni politico-sociali con i ceti colpiti da questa tradizionalissima linea operativa. In tale situazione la sostanziale “ghettizzazione”, che i partiti comunisti possono subire nell’arco del Parlamento, e il ritardo del movimento sindacale europeo nei confronti della macchina-Europa, caricano di sempre più pressante responsabilità quei frammenti “cristiani”, forse ancora sensibili a questi problemi, quei settori laico-radicali, forse non alieni dal rifletterci sopra, soprattutto le forze socialiste, che la spinta moderata tende ad assorbire in funzione di “argine” contro ogni reale mutamento. Sarà forse illusorio sperarlo, ma è l’unica strada per evitare che l’istituto parlamentare diventi una mera sede di registrazione notarile.

Giugno 1979

Intervista a Enzo Collotti

Europa tecnocratica o Europa democratica?Scelte elettorali e “conduzione” reale. Il problema del modello di sviluppo. La

tendenziale egemonia tedesca e il rapporto con gli USA. Il ruolo dei sindacati

Enzo Collotti è uno dei più autorevoli esperti della “realtà europea”, un’esperienza che si appoggia in modo particolare ad uno studio sistematico ed analitico della “realtà tedesca”. Da questo angolo prospettico nei suoi interventi l‘esame dei problemi comunitari assume un rilievo e una concretezza che vanno ben al di là delle genericità, generose magari, ma un po’ parolaie, che purtroppo spesso caratterizzano i discorsi sull’Europa. in particolare ci sembra di grande rilievo, nel lavoro e nella riflessione di Enzo Collotti, l’aggancio da un lato con la collocazione dell’Europa nel contesto del mondo “occidentale”, nella globalità delle sue articolazioni, dall’altro col problema del ruolo del movimento operaio e sindacale nei confronti di una tematica che investe, subito al di là di queste elezioni, il nostro immediato futuro in tutta la sua pienezza, economica e civile

Si può incominciare da una domanda, che forse può anche avere il pregio di togliere subito di mezzo trionfalismi europeistici. Rispetto alle precedenti procedure, questa prima consultazione elettorale popolare e democratica avrà realmente delle conseguenze, quali che siano, sulla comunità europea, sarà in grado di avere una sua incidenza modificatrice delle attuali realtà e creatrice di sviluppi, oppure rischia di porsi come una semplice “copertura” formale su una realtà già predeterminata?

Io credo che si debba guardare alle elezioni del parlamento europeo senza nascondersi i limiti che queste elezioni avranno, limiti inerenti ai poteri del parlamento europeo, e quindi ritengo che in linea di massima il fatto più positivo potrebbe essere quello di evidenziare determinate tendenze a livello internazionale contro il processo, al quale stiamo attendendo da qualche tempo, di inversione di tendenza rispetto agli sviluppi aperti dal 1968 a livello europeo. Se si manifestassero queste tendenze, le elezioni del parlamento europeo sarebbero certamente un fatto positivo. Se si tratta solo di dare una legittimazione popolare ai modi attuali di esistere del parlamento europeo, dato che i poteri non verranno modificati dal fatto elettorale, penso che allora si debbano ridimensionare rigorosamente i termini e i limiti del dibattito.

Le previsioni, che sono state pubblicate in questi giorni sui giornali, parlano di un abbastanza sensibile spostamento verso l’area moderata e conservatrice. Questo può far già presumere che non si supereranno i limiti e le caratteristiche, che sono state proprie del parlamento europeo così come finora si è configurato? Cioè non si modificheranno forme e sostanza della “conduzione” dell’Europa comunitaria?

Se riusciranno confermati gli esiti dei sondaggi, in linea di massima credo sia esatto (dopo il successo dei conservatori inglesi, l’insuccesso della unione delle sinistre in Francia, gli stessi spostamenti che si stanno verificando ai vertici della Rft,

il mantenersi della supremazia moderata in Spagna) non aspettarsi una modifica della gestione degli organi comunitari, anche perché sappiamo, in base all’esperienza, che la gestione attuale, di tipo tecnocratico, nella migliore delle ipotesi è legata proprio a questo tipo di maggioranze, che hanno governato i singoli paesi d’Europa negli ultimi dieci anni. Sappiamo benissimo che la commissione esecutiva non è altro che un’emanazione dei governi dei paesi comunitari, quindi, a meno che non vi sia una forte inversione di tendenza, con modifica anche di formule governative all’interno dei singoli paesi, non è prevedibile che le attuali elezioni possano modificare il tipo di gestione della comunità.

L’obiezione di fondo, che, in tutti questi anni di “sperimentazione” europea, è stata fatta da parte della sinistra europea, e in particolare della sinistra marxista, italiana e non italiana - anche se si è talvolta attenuata con l’accettazione dell’idea Europa e di un coinvolgimento nella sua attuazione – è appunto sempre stata questa, che siamo di fronte a un’Europa tecnocratica. Che cosa può comportare la presenza di una sinistra marxista o, comunque, di una sinistra consapevole dei limiti e dei rischi di un’Europa tecnocratica, all’interno di questo parlamento europeo, in vista di un’Europa diversamente orientata e cioè di un’Europa capace di farsi carico, oltreché dei problemi delle merci, del mercato, anche di altri problemi, che vanno, per succintamente esemplificare, dalla tutela e dallo sviluppo della democrazia ai rapporti con il terzo mondo, dai problemi del movimento operaio alla diffusione di una cultura, largamente intesa come crescita di un diverso modello di vita e di rapporti sociali?

Credo che per rispondere occorra avere la consapevolezza che quando si parla di sinistra, e anche di sinistra marxista, nel parlamento europeo questa sinistra sarà rappresentata da molti gruppi tutti diversi l’uno dall’altro. Non esiste, cioè, una sinistra omogenea. Basti pensare che non soltanto esiste la differenza, importante, tra comunisti e socialdemocratici, ma che né i partiti comunisti, da una parte, e né i socialdemocratici, dall’altra, rappresentano una entità omogenea.

Quindi è molto difficile che si riesca ad esprimere una posizione che sia anche solo genericamente di sinistra, ma unitaria, che metterebbe già in condizione di potere operare una determinata pressione. Il problema più grosso, per esempio, di fronte al quale si trovi il Pci, nel momento in cui ha fatto l’opzione europea, pare sia di riuscire a portare una ferma voce di opposizione all’interno del parlamento europeo, opposizione che non riguarda solo i problemi all’interno dell’Europa, ma, fondamentale, a parte i problemi del modello di sviluppo, il problema del rapporto col terzo mondo. Questo problema finora è stato gestito, con qualche variabile, alla maniera neocolonialista.

Questo è uno dei banchi di prova per dimostrare verso quale obiettivo marci l’Europa e soprattutto una verifica se una sinistra nel parlamento europeo è in grado di modificare il modello di sviluppo e attraverso questo modello anche il rapporto con i cosiddetti paesi in via di sviluppo.

Dunque non diciamo “il”, ma certamente uno dei problemi è quello del modello di sviluppo, problema connesso con quello dei rapporti che l’Europa dovrà instaurare con il terzo mondo. Qui allora il problema diventa, credo, questo: che tipo di

rapporto potrà o dovrà instaurare questa Europa con gli Usa, che sono l’epicentro del sistema capitalistico, che ha organizzato nei confronti del terzo mondo e nei confronti del modello di sviluppo una certa prospettiva, che è appunto di tipo neocolonialista? C’è la possibilità e la speranza che l’Europa possa porsi, nei confronti della direzione economico-politica che gli Usa hanno sistematicamente perseguito, come una forza capace di ottenere un modo diverso di sviluppare la vita economica e quindi anche il rapporto con il terzo mondo?

Io vedo la situazione in questi termini: già oggi c’è una sorta di relativa autonomia dell’Europa rispetto agli Usa, nel quadro, chiaramente, di una divisione dl lavoro del mondo capitalistico. Dall’inizio degli anni ‘60 non c’è dubbio che il relativo disimpegno degli Usa dall’Europa ha consentito un maggiore spazio, si è creata, però, in conseguenza di questo fatto, una situazione nuova, che complica il tipo di rapporto con gli Usa, e cioè quello che comunemente si dice l’autonomia del sub-imperialismo tedesco. Cioè: l’Europa, i conti con l’egemonia della Rft, cioè con la potenza più forte economicamente, politicamente e anche militarmente, li dovrà fare. Credo che soltanto attraverso il tipo di rapporti, che si potranno instaurare soprattutto tra l’Europa mediterranea e la Rft, passi sia il modello di sviluppo, nuovo, che si potrebbe realizzare, sia il tipo di rapporto nuovo, che si potrebbe realizzare con il terzo mondo.

Se non si riesce a risolvere questo problema e dovessimo recepire passivamente il modello di sviluppo attuale anche attraverso la gestione socialdemocratica, che non ha modificato nulla delle linee di fondo di questo modello, noi avremo una situazione nella quale l’Europa, sia pure con un margine di autonomia, sarebbe tutta automaticamente costretta a seguire le grandi linee tracciate dagli Usa.

Quindi il problema del modello di sviluppo non è, ovviamente, un puro problema di scelte economiche, ma a monte, un problema di volontà e di scelte politiche. Quindi si riconnette al problema dell'’attuale dimensione politica della Rft, al problema, che si affaccia in modo preoccupante, della cosiddetta germanizzazione dell’Europa.

Certo non è assolutamente soltanto un problema di modello di sviluppo in senso economico. Modello di sviluppo vuol dire orientamento complessivo, nuovo, della società, che coinvolge fattori sia politici che economici e sociali. E direi, anche molto importanti, in un momento di processo integrativo, fattori culturali, nel senso più ampio, nella misura in cui determinati comportamenti collettivi oggi fanno parte complessivamente della cultura europea. E allora, cosa significa questo discorso? Fare i conti con la Germania significa fare i conti con quel tipo di rapporto fra stato e società, che si è instaurato negli ultimi venti anni in Germania, che in un certo senso è stato addirittura razionalizzato dalla gestione socialdemocratica.

Nei confronti di questo problema è chiaro che non dobbiamo, da una parte, demonizzare la Germania, ma non possiamo neanche dimenticare il pericolo che questo tipo di modello, qualora fosse esportato, rappresenta. Da questo punto di vista ritengo che nei paesi dell’Europa mediterranea, compresa la Francia, il tipo di democrazia esistente, lo spazio riservato alla agibilità della società, dei soggetti sociali che operano nella società, nello spazio politico, è uno spazio assolutamente sconosciuto in Germania. Questa è la differenza fondamentale, su questa si misura la possibilità di stabilire un rapporto attivo con la Germania, nel senso che certamente

dobbiamo stare attenti a quello che accade in Germania, ma probabilmente un’Europa che non seguisse il modello tedesco servirebbe anche la causa della democrazia nella Rft.

Quindi il problema del modello di sviluppo non è, ovviamente, un puro problema di scelte economiche, ma, a monte, un problema di volontà e di scelte politiche. Quindi si riconnette al problema dell’attuale dimensione politica della Rft, al problema, che si affaccia in modo preoccupante, della cosiddetta germanizzazione dell’Europa.

Certo non è assolutamente soltanto un problema di modello di sviluppo in senso economico. Modello di sviluppo vuol dire orientamento complessivo, nuovo, della società, che coinvolge fattori sia politici che economici e sociali E direi, anche molto importanti, in un momento di processo integrativo, fattori culturali, nel senso più ampio, nella misura in cui determinati comportamenti collettivi oggi fanno parte complessivamente della cultura europea. E allora, cosa significa questo discorso? Fare i conti con la Germania significa fare i conti con quel tipo di rapporto fra stato e società. che si è instaurato negli ultimi vent’anni in Germania, che in un certo senso è stato addirittura razionalizzato dalla gestione social-democratica.

Nei confronti di questo problema è chiaro che non dobbiamo, da una parte, demonizzare la Germania, ma non possiamo neanche dimenticare il pericolo che questo tipo di modello, qualora fosse esportato, rappresenta. Da questo punto di vista ritengo che nei paese dell’Europa mediterranea, compresa la Francia, il tipo di democrazia esistente, lo spazio riservato alla agibilità della società, dei soggetti sociali che operano nella società, nello spazio politico, è uno spazio assolutamente sconosciuto in Germania. Questa è la differenza fondamentale, su questa si misurerà la possibilità di stabilire un rapporto attivo con la Germania, nel senso che certamente dobbiamo stare attenti a quello che accade in Germania, ma probabilmente un’Europa che non seguisse il modello tedesco servirebbe anche la causa della democrazia nella Rft.

Una domanda in un’altra direzione, su un aspetto che desta molta attenzione in chi è sensibile ai problemi dell’Europa dell‘ Est. C’è qualche possibilità che questa Europa che nasce da una consultazione democratica, e si assume il carico di responsabilità cui si è sopra accennato, possa iniziare un tipo di rapporto con l'Urss e con i paesi dell’Est, tale da fare i primi passi per una integrazione a più largo raggio o quanto meno per una positiva soluzione di alcuni problemi, come quello di una evoluzione democratica quale è auspicata dal “dissenso”?.

Non penso che come prospettiva immediata esistano le condizioni per andare ad una integrazione più generale. Ritengo però che sarebbe estremamente positivo, se la politica dell’Europa comunitaria nei confronti dell’Europa orientale non assumesse atteggiamenti di sfida. Sarebbe quindi importante lo sviluppo di rapporti economici, che già esistono, di rapporti culturali e in generale di rapporti negli ambiti più larghi e articolati possibile.

Al di là di questo tipo di influenza credo che sfide gladiatorie, una coltivazione artificiosa del dissenso non gioverebbe; giova invece levare la voce in favore di tutte le manifestazioni per una democratizzazione dell’Est, tenendo presente che solo la reale

crescita della democrazia nell’Europa occidentale può offrire l’esempio anche per una evoluzione dell’Est in senso democratico. Penso a una sorta di osmosi, di circolazione di forme di democrazia. L’epoca delle forme di cristallizzazione tipiche della guerra fredda è finita, anche se non è ancora incominciato un processo di circolazione delle forme di democrazia partecipativa, che potrebbero un giorno accomunare le democrazie occidentali con i paesi dell’Est.

La problematica “Europa”, è assai vasta, come abbiamo potuto verificare anche in questa breve intervista. Che cosa di particolarmente significativo lei segnalerebbe a conclusione e a completamento di quanto finora qui è stato detto?

Ribadirei che il metro per valutare quello che potrà essere l’evoluzione dell’Europa comunitaria sarà il tasso di democrazia che saremo capaci di trasferire in questa costruzione. Questo aspetto è fondamentale. Il che significa difendere la democrazia all’interno delle società nazionali, cercare di trasferirla al più alto livello nell’ambito comunitario.

Si aprirebbe, a questo punto, un problema di capitale importanza. Questa democrazia, la sua crescita a livello europeo, passa anche, e forse soprattutto, attraverso la capacità del movimento operaio e dei sindacati di assumersi in proprio la responsabilità di una presenza coordinatrice, stimolante, unitaria, a livello europeo.

È elemento decisivo. e va detto che qui, purtroppo, c’è un ritardo, un’assenza assai drammatica, ci sono enormi difficoltà del coordinamento, difficoltà dell’inserimento a livello decisionale dei sindacati. Facciamo un esempio: la ristrutturazione dell’industria siderurgica è stata risolta in modo diverso nei diversi paesi. Le sinistre e i sindacati devono affrontare una problematica enorme, studiare e risolvere la diversità delle situazioni, recuperare i ritardi. Una presenza poco più simbolica della sinistra gioverebbe assai poco sia all’Europa che alla democrazia.

Giugno 1969

Gli anni della persecuzione razziale

L’“olocausto” in ItaliaSi sta diffondendo una pubblicistica, che tende a negare l’accaduto. Il coraggio

civile di molti italiani non deve far dimenticare la violenza razzista instaurata dal regime fascista

Il film “Olocausto” con tutti i suoi difetti un merito l’ha avuto sicuramente, quello di proporre a livello di mass-media un argomento, che è bene non rimanga a giacere nell’ombra dell’oblio. l’infamia della persecuzione razziale condotta fin0 all’agghiacciante abominio. dei campi di sterminio non è cosa di poco conto, da lasciare a qualche cultore delle cose che furono, abbandonando le nuove generazioni alla scarna o nulla notizia su fatti, che hanno segnato con tanta virulenza la storia di anni così recenti.

E il merito, oggettivamente, al di là delle stesse intenzioni di chi ha realizzato il film, si accresce, se si pensa alla forza con la quale questo messaggio-polpettone ha richiamato l’attenzione su un dato di fatto, sul quale è bene riflettere, e cioè la frattura tra la ricerca storica e lo stato generale dell’informazione. Si può leggere con stupore dello “choc” – così dicono le cronache – che il film ha provocato presso il pubblico televisivo dei paesi dove ne è avvenuta la proiezione (forse più altrove che in Italia, confidando che non lo si debba all’insensibilità degli italiani, ma a una forse maggiore diffusione in Italia delle cognizioni, almeno più elementari, sull’argomento. Pare che, per esempio, in Germania, stando a certi dati e a taluni sondaggi, sia elevatissimo il numero di coloro che ritengono che di certe cose non si debba più parlare, e altrettanto elevato il numero delle persone sotto i 40 anni, che non ne sanno proprio nulla). Ma si tratta di uno stupore, che va rapidamente inquadrato e ridotto alla sua giusta misura, di indice prezioso e pressante della necessità di non cessare di porsi il problema di come far conoscere queste cose in modo serio e documentato, senza aspettare l’arrivo di filmati di discutibile conto.

Problema che tanto più si impone, se si osserva che la proiezione di “Olocausto” è stata accompagnata e seguita, dalla stampa, con il lodevole intento di aiutare l' informazione del lettore-spettatore, ma, in qualche occasione, con una, assai meno lodevole, confusione, che in taluni casi ha dato perfino l’impressione o di deplorevole ignoranza o di sottile strategia dell’occultamento e della mistificazione.

È, per esempio, il caso, sorprendente, di quegli interventi, - avvenuti con così distribuita sistematicità da ingenerare il sospetto di una manovra ben calcolata – dettati dalla preoccupazione di garantire il lettore italiano che quelle brutture le hanno fatte i tedeschi, ma che in Italia corresponsabilità non ce ne sono state.

Su un autorevole quotidiano di grande tiratura si poteva pochi giorni or sono leggere questa incredibile “affermazione”: “nessun italiano ha mai perseguitò un ebreo. Da noi il problema razziale non è mai esistito”. E, subito dopo, presa d’accatto questa improntitudine, su altri quotidiani si poteva leggere che “tutti gli italiani hanno aiutato gli ebrei, compreso Benito Mussolini”.

È senz’altro vero che in Italia un gran numero di persone ha aiutato gli ebrei.Si potrebbe istituire un album d’oro. del coraggio civile con il quale umili popolani, funzionari, preti hanno rischiato la vita (e alcuni perso la vita) per generosamente e istintivamente aiutare i perseguitati e braccati dalla ferocia razzista.

Ma ciò, semmai, testimonia storicamente la non identificazione del popolo italiano col fascismo. Ma non c’è alcun dubbio che la classe dirigente fascista, con lo squallido drappello dei suoi ideologi della razza e con l’apporto dell’obbedienza miseranda e fanatica dei suoi scherani, il razzismo l’ha teorizzato e praticato, prima discriminando – con una legislazione confusa e talora perfino ridicola, ma non per questo meno colpevolmente antiumana – poi collaborando al famigerato progetto nazista i “soluzione finale”.

Erano italiani i teorici e i pennivendoli, che tra il ‘38 e il ‘43 rovesciarono sul paese montagne di carta stampata per predicare il razzismo, italiani coloro che stesero e firmarono le leggi razziali, italiani, purtroppo, coloro che andavano a scovare, da soli o con le S.S., gli ebrei nascosti e italiani quei militi che li scortavano fino ad Auschwitz.

Triste capitolo, sul quale è colpevole stendere veli di menzogna o di deformazione, come quella – comparsa anch’essa recentemente – di far passare il libri di Renzo De Felice (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi) per una illustre testimonianza della tesi della sostanziale “innocenza” del fascismo nostrano nella questione ebraica. De Felice è uno storico “moderato” e il suo libro, ad alcuni recensori – specie nella prima edizione del. ‘61 – è apparso un poco troppo attento ad evitare che la verità emergesse nella sua violenza. Ma, a parte il fatto che la seconda edizione, del ‘72, si è arricchita di dati di estrema eloquenza, si provi a leggerlo sul serio, per vedere un po’ quanto da noi il problema non sia esistito!

Del resto è lo stesso De Felice, in un passo importante del suo libro, a chiarire che il razzismo era “in nuce” nel fascismo italiano fin dalle sue origini, indipendentemente dalle altalene di dichiarazioni che nel corso degli anni i responsabili della classe dirigente fascista, a cominciare da Mussolini, ebbero l’occasione di pronunciare. E, possiamo aggiungere, vi era “ in nuce “ non tanto per motivi di ordine teorico-politico, quanto per una ragione più profonda e drammatica, al tempo stesso ideologica e “inconscia” (nel senso freudiano del termine), e cioè che il fascismo ha bisogno, a causa del suo irrazionalismo di fondo, di avere quello che con linguaggio biblico si chiama il “capro espiatorio”, cioè di un oggetto su cui scaricare la coscienza collettiva, una figura da denigrare per poter riaffermare la proprio “bontà”. Per complesse ragioni storiche gli ebrei si prestavano ad essere questo oggetto.

Si legge, nei diari di Goebbles: “Se non ci fossero gli ebrei, bisognerebbe inventarli”. Anche il fascismo italiano li ha “inventati” e tanto più deplorevolmente se si pensa che, in Italia, rispetto ad altri paesi europei, quelle ragioni storiche erano di assai minor peso. Va rilevato, per fortuna, che non molti in Italia erano disponibili alla mistica del “capro espiatorio”. E ad accettare da passivi gregari l’ “invenzione” Ma gli “inventori” ci sono stati. Con tutto quel che è seguito di squallido e di tragico, Fingere che non sia accaduto, non è onesto.

26 Giugno 1979

Parlare del Vietnam

Il pesante groviglio delle responsabilità“Necessità” e “scelte”. Le incolpevoli masse umane. Arroganza e

ipocrisia della strumentalizzazione Se “parlare del Vietnam”, come ci ha ricordato l’assessore Amedeo Lombardi in

una nota che abbiamo ospitato venerdì scorso, ha potuto talvolta significare una fuga dai problemi concreti per evadere verso una tematica “lontana”, dalla quale ricavare un’astratta e generica gratificazione etico-ideologica, “non parlare del Vietnam” ha però anche potuto assumere il significato di miopia e di ingrettimento in chiuse dimensioni “locali”.

Ci si deve occupare delle cose “vicine” o di quello “lontane”? Questo interrogativo, con la sua rigida contrapposizione, va sostituito con la consapevolezza che il metro di giudizio non è quello dello spazio geografico, ma quello dell’effettiva forza di ripercussione delle cose, dovunque si verifichino, all’interno dell’orizzonte nel quale viviamo. In altre parole, il “vicino” e il “lontano” stanno tra loro in rapporti dialettici, che è compito della nostra sensibilità intuire e della nostra responsabilità gestire..Occuparsi del Vietnam o del dissenso nell’Est o della tragedia dell’America latina non implica dimenticarsi di leggere un bilancio comunale, e viceversa. Negli anni drammatici ed eroici della lotta contro l’imperialismo sopraffattore, parlare del Vietnam ha significato creare una delle più alte e salutari prese di coscienza che il mondo occidentale abbia mai avuto l’occasione di sperimentare. Perciò è stato bene “parlare del Vietnam”.

Ora del Vietnam si parla ancora, perché una nuova tragedia vi si sta svolgendo, con caratteristiche e con segni, almeno apparentemente, molto diversi, ma in grado anch’essi di ripercuotersi oltre lo spazio geografico dove si verificano, in grado di giungere fino a noi Come la stampa quasi quotidianamente registra, come perfino manifesti appesi sui muri testimoniano. E ha ragione Amedeo Lombardi di lamentarsi del “silenzio” che, pare, gli è stato imposto. Si tratta, infatti, di realtà drammaticamente complesse, sulle quali è disdicevole imporre interpretazioni sbrigativamente unilaterali, e per di più, come sta accadendo, assorbite sotto strumentali ideologizzazioni, talora anche un po’ ipocrite, sotto il velo dello sdegno umanitario.

Della tragedia che coinvolge in questo momento centinaia di migliaia di persone, Lombardi dà una sua interpretazione “risorgimentale”; che può essere, penso, così riassunta: è pietistico e antistorico sottolineare le sofferenze degli individui, quando si sa che questo è il prezzo che si deve pagare per il “progresso”, cioè per il consolidamento di una realtà nazionale conquistata a prezzo di tanti sacrifici e che non può essere lasciata andare alla deriva per evitare il pianto e i lutti di chi ne subisce la morsa “necessaria”. Esattamente, dice Lombardi, come è pietistico

presentare il cumulo di sofferenze del mondo contadino italiano sotto la morsa “necessaria” del capitalismo nazionale italiano post-risorgimentale quale risultato della malvagità di una classe politica, anziché come un doloroso, ma inevitabile processo, che ha fatto dell’Italia un paese industriale e moderno.

C’è, in questa tesi, qualcosa di apprezzabile, perché nel rifiuto delle interpretazioni pietistiche della storia siamo obbligati a guardare con occhio lucido ai meccanismi reali, che determinano gli avvenimenti, e quindi invitati. a non servirci dei fatti per rozzamente alzare i vessilli delle ideologie.

Ma c’è anche, mi pare, un limite, che è quello di immaginare la storia come un flusso fatale, “necessario”. Me ne guardo bene dal discutere qui se sul mondo contadino italiano si poteva intervenire in modo diverso (discussione già fatta con ben altra competenza e in ben altre e più opportune sedi che una pagina di giornale di provincia). Mi basta proporre la convinzione che la storia è fatta, sempre e simultaneamente, di catene di “necessità” e di “scelte”, sicché il problema è di chiedersi, di fronte ad una determinata situazione, quali sono gli anelli che pesano con la loro non rimovibile implacabilità e quale è la natura e la qualità delle scelte.

Abbiamo assistito, in questi giorni, sulla stampa italiana (salvo lodevoli eccezioni) e sui muri delle nostre città, a caroselli di slanci umanitari, tanto più sospetti e perfino impudichi, quanto più venivano da quelle fonti, che non hanno mai speso una parola quando nel Vietnam si moriva a milioni in anni prolungati di violenza colonialista, slanci accompagnati anche, manco a dirlo, da strumentalizzazioni, di cui non si sa bene se stupirti per la meschinità o per l’arroganza. Ne sono autori i medesimi personaggi o i medesimo ambienti che hanno taciuto o sono stati magari intimamente soddisfatti di fronte ad altri esodi e ad altre tragedie immani (l’esodo palestinese, l’esodo provocato dalla spartizione dell’India, gli eccidi del Congo, dell’Indonesia e via dicendo).

Tristi ed amare verità. Sventure e tragedie collettive, ciascuna delle quali e nemmeno tutte insieme, certamente, non possono essere adoperate per tacere di fronte a quella che in questi giorni è sofferta nei mari dell’Indocina. Ma tenendo ben presente che non si tratta di “processare” Hanoi, come qualcuno sta chiedendo, davanti a un ipotetico consesso di giusti(!), così come non si tratta nemmeno del contrario, e cioè di accettare la “fatalità” degli eventi.

Quali sono, invece, gli anelli implacabili della catena, che occorre tener presenti per capire quello che sta avvenendo? Fare il mestiere del politologo è sempre un po’ imbarazzante e perfino presuntuoso. Ma forse qualche volta è impossibile sottrarvisi. E allora proviamo a dire che, quegli anelli, nascono da un intreccio, nel quale sono abbastanza facilmente riconoscibili alcuni elementi. L’indifferenza (con tutta probabilità calcolata) con la quale il mondo occidentale (Usa e Cee in primo luogo) ha lasciato che il Vietnam si arrangiasse a risolvere una situazione economica difficilissima, provocata da anni di distruzione e di morte; l’aggravarsi di questa situazione in conseguenza della pressione cinese, arrivata fino ad un rovinoso intervento armato, che potrebbe anche ripetersi; la scelta compiuta del governo di Hanoi, di procedere alla nazionalizzazione dell’economia del sud spezzando duramente l’ossatura economica controllata da una borghesia mercantile, che ha visto crollare il sistema di vita a cui era abituata.

Sui primi due punti chi ne è responsabile se può e se crede si interroghi. A noi resta di constatare che queste sono state le “scelte”. Sul terzo punto Hanoi ha fato la sua “scelta”. Forse Ho-Chi-Minh, redivivo, la accuserebbe di precipitosità senza adeguata saggezza. Ma dell’intreccio che questo terzo punto ha con i due precedenti, e soprattutto col secondo (il

ceto del sud che controllava il mercato e la borsa nera è quasi tutto di origine cinese) è possibile sbrigarsi con “processi”?

Resta, purtroppo, la tragedia sofferta da incolpevoli masse umane, resta quello che A. Gluksmann ha definito il “partito delle vittime”. Che non sono, però, va ribadito, vittime della “fatalità”, ma di “scelte”, Se la pietà e la coscienza umanitaria ci spingono ad aiutarle, volontà di chiarezza deve indurre a non ignorare i fattori che hanno determinato gli anelli della catena. Solo così non ci presteremo al gretto gioco delle battaglie vietamente ideologiche, e potremo forse, oggi e nel futuro, fare in modo che la coscienza collettiva, il peso di una pubblica opinione non armata soltanto di pietà, obblighi i “potenti” a fare scelte umane e ragionevoli. Che sono possibili se si guardano in faccia le cose e si allontana la nube pestifera dell’ideologismo, quest’arma diabolica di chi non vuole né verità né pietà..

16 Luglio 1979

La scomparsa di Marino Moretti

La penetrante semplicità di uno scrittore “appartato”Un’attenzione costante agli uomini e alle cose, per attingerne umilmente

l’articolata ricchezza

Nei tempi in cui si poteva attribuire agli dei la lunghezza o la brevità della vita (quando si poteva sospettare che muor giovane chi ad essi è caro e insieme pensare che una lunga e serena vita è un “premio” per i buoni) si sarebbe detto che Marino Moretti, dopo un’esistenza laboriosamente appartata e pacatamente creativa, si è meritato questo “premio” di spegnersi ultranovantenne. Già nel 1932, Alfredo Panzini, nella relazione nella quale tentava di fargli avere il premio Accademia– Corriere della sera intitolato a Mussolini, ne additava la “vita onorata, semplice, indipendente”. Se spogliamo questa definizione di quel tanto di perbenismo piccolo-borghese, di cui il buon Panzini inconsciamente la rivestiva unitamente al generoso tentativo di far passare la candidatura di uno scrittore notoriamente non favorevole al regime – aveva anche firmato il manifesto crociano degli intellettuali antifascisti – possiamo anche accettarla, proiettandola ad assumere un significato diverso, e assai più rilevante: Marino Moretti come esempio tipico di scrittore, che rifiuta l’immagine (così consueta nel panorama italiano dei primi decenni del secolo) del letterato irretito nel ciarpame della retorica e nel disordine di confusi ideologismi, per mirare diritto al cuore della realtà.

Si è parlato molto del crepuscolarismo di M. Moretti, e non c’è alunno di scuola superiore, che non sappia citarlo nella fatidica (e manualistica) triade, che lo fa protagonista con Gozzano e Corazzini di questa “dimensione”. Ed è sostanzialmente esatto, pur che si avverta che già nel tessuto delle celebri “Poesie scritte col lapis” si avverte una attenzione alle cose, una volontà di scoprire la realtà, che ne fa uno scrittore non passivamente abbandonato ad una disfatta compiacenza del “crepuscolo,, ad un’esangue immersione in una generica zona d’ombra, ma un ricercatore di uomini, di concrete esistenze. Dietro a questo attento scrutamento sta una compatta serietà di intenti, una consapevole organizzazione di una “visione del mondo” (non sembri eccessiva questa definizione), che ha le sue radici in una sorta di cristianesimo laico, che, quasi totalmente depurato delle suggestioni tra il torbido e il misticheggiante del “maestro” Pascoli, ben nutrito di “repubblicanesimo” romagnolo, gli consente di superare le tenere ambiguità e gli estetismi trionfanti nel clima letterario, dove nella sua giovinezza si era educato, per attingere una scansione “narrativa”, che non accetta compromessi e va lucidamente al sodo delle cose.

Un mondo di umili e di piccole cose brulica nell’opera di Marino Moretti , ma quasi sempre, a guardar bene, senza concessioni a convenzionali trasfigurazioni liricheggianti o a facili mitizzazioni. I personaggi e gli ambienti morettiani hanno quasi costantemente qualcosa di asciutto e di penetrante, che è il segno di una tensione a evitare le manierate e generiche disinvolture dello spicciolo verismo regionalistico per approdare ad una rappresentazione, nella quale si legga sempre

l’impegno a tradurre in forme adeguate la complessità etica, di costume, di coscienza, di cui quei personaggi e quegli ambienti sono carichi.

Complessità, abbiamo detto. Sotto l’apparente “semplicità”, Marino Moretti è in realtà scrittore capace di scoprire la articolata e spesso drammatica ricchezza degli “umili”. Quando gli furono conferiti premi di grande prestigio (per esempio quello dell’Accademia dei Lincei nel 1952) a qualcuno parve una sorta di festa in famiglia, quando con benevolo sorriso si fanno omaggi ai nonni, a riconoscimento della loro casalinga bontà. La “casalinghità” di Marino Moretti ha ben diversa struttura, e forse non ce se ne è ancora bene accorti.

7 Luglio 1979

40 anni fa, 1 Settembre: Hitler entra in Polonia

Una partita a poker verso la tragediaAgosto 1939: cinismo e insipienza preparano l’abisso per l’Europa. Come ci appare

quarant’anni dopo, il clima nel quale si iniziò la seconda guerra mondiale

Quel che più colpisce, a riandare alle cronache dell’Agosto 1939 – alle cronache di giornate che prepararono un cataclisma storico di tragiche proporzioni, in imbestiamento dell’umano quale forse non ha confronti – è la totale assenza di “passioni”, che si esprimano quale risultato di collettiva partecipazione agli eventi, che in qualche modo esplicitamente indichino sofferenza o calore di rifiuto o di consenso. Tutto avviene al di sopra delle teste di tutti. Il confronto con quel che avvenne nel 1914-15 è sintomatico. In quella vigilia di eventi, anch’essi destinati a rovesciare lutti e rovine sull’Europa, neutralisti e interventisti scendono nelle piazze, sui giornali si intrecciano polemiche e discussioni, partiti e sindacati sono in agitazione, la masse sono coinvolte, prospettive e ideali si confrontano, magari verbosamente, spesso anche rivelando il loro carattere mistificatorio, la loro “sovrastruttura” ingenua o rozza o astutamente calcolata, ma pur si scontrano, si agitano, danno una sensazione di vitalità, di impegno, di assunzione di responsabilità.

Ci sono alcune splendide pagine di quel commosso e intenso libro di Stefan Zweig, “ Il mondo di ieri” che oggi forse quasi più nessuno conosce, ma che merita di essere ricordato e letto, che lo testimoniano con uno stupore ammirativo e dolente. Ma non per questo Zweig si uccise all’inizio della seconda guerra mondiale, quando vide la “sua patria spirituale, “l’Europa”, travolta in un’orgia di ferro e di fuoco, in un clima di generale ottusità o di cinica e tracotante disumanizzante irresponsabilità.

Nel ventennio tra le due guerre è avvenuto qualcosa di irreparabile, che ha risospinto popoli e nazioni all’indietro, verso una condizione di “sudditanza”, di passiva accettazione, di fatalismo condito di ridicole impennate di luoghi comuni intinti nel vocabolario della propaganda.

Paure, angoscia, sgomento, per chi li prova, vengono sofferti a livello personale o, al più, di confidenza con pochi amici. Per chi non li prova, il sole di Riccione o della Costa azzurra sembra offrirsi come simbolo consolatorio. ferragosto è stracolmo di gitanti. Le balere sono zeppe, anche quando inizia qualche prova di oscuramento, In Itallia si canta “Birimbo-Birambo” “Reginella campagnola”, grandi successi dell’estate ‘39. Sui giornali compare qualche fotografia con persone che circolano col volto ricoperto da maschere antigas (il gas sarà poi, beffardamente, l’unico orrore che la guerra risparmierà all’Europa). Ma sembra un gioco da carnevale. Di carnevale, di “clima storico” fatto di parate, di sfilate e di divise d’ogni sorta, ce n’è stato talmente tanto, che quelle maschere non sembrano aggiungere nulla di nuovo.

E non si creda che questo quadro si adatti soltanto ai paesi retti dalle dittature. Diari e testimonianze registrano, con singolare coincidenza di toni e uniformità di annotazioni, a Parigi come a Berlino, sul Mediterraneo come sul mare del Nord, questo indicibile miscuglio di cupa attesa e di diffusa estraneità. L’Europa sembra

brulicare di milioni di uomini sostanzialmente conformati su un cliché, che proprio in quegli anni, non a caso dunque, iniziava a comparire nella letteratura che poi prenderà il nome di esistenzialista. Uomini “stranieri”: buoni, cattivi, intelligenti, idioti, spaventati o fanatici, acclamanti o silenziosi, tutti egualmente “stranieri”, sostanzialmente estraniati dalla possibilità di contare qualcosa, travolti dagli avvenimenti, dominati dalla provvisorietà e al tempo stesso, con un contraddittorio risvolto piccolo- borghese, fiduciosamente appeso al filo di qualche oscura certezza garantita dal destino. In Italia il destino si chiama Mussolini, che come uomo della Provvidenza poteva garantire, a seconda delle occasioni, la pace, l’impero, la gloria, il mare nostrum e via dicendo; in Germania vestiva i panni di Hitler, che con la Blitz-Krieg avrebbe garantito l’egemonia tedesca sul continente per le future glorie della razza ariana; in Inghilterra prendeva il nome di impero dei mari, in Francia si materializzava nella corposità della linea Maginot.

Panorama generale: dappertutto, esclusa la Polonia, che ha addosso l’incubo di Danzica e del “corridoio”, il sentimento più diffuso è quello del “stiamo un po’ a vedere cosa accadrà”, corretto dalla preponderante convinzione che la guerra difficilmente ci sarà.

Il primo a non crederci è Hitler, persuaso profondamente, soprattutto dopo il patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto, che l’Inghilterra non si muoverà e che la Francia manderà giù anche il rospo polacco, dopo le pillole indigeste della Renania, dell’Austria, dei Sudeti, della Cecoslovacchia.

È il gioco degli equivoci e dei “bluffes”, giocato su pochi tavoli della diplomazia e degli Stati Maggiori. Tra cinismo e insipienza. La classe politica francese dà uno spettacolo di leggerezza, di inettitudine e di confusione da far accapponare la pelle, a leggerne i fasti, anche oggi a distanza di quarant’anni. Il generale Gamelin, per parte sua, se ne infischia delle “Panzerdivisionen” e dichiara la sua certezza, in caso di guerra, di una rapida vittoria per merito delle fanterie francesi. L’ambasciatore polacco Lukaciewicz assicura che il primo giorno di guerra l’esercito del paese occuperà l’intera Prussia Orientale. Il ministro francese degli esteri Bonnet, nell’imminenza dell’attacco tedesco alla Polonia, corre a Londra per incontrarsi col suo collega Lord Halifax. È sera, è già andato a letto, con l’ordine di non svegliarlo. Domattina? Non si può, ha un appuntamento col dentista. Le cronache spicciole sono spesso pungenti e cattive: rischiano di creare aneddotiche superficiali e fuorvianti. Ma qualche volta sono terribilmente significative e simboliche.

31 Agosto 1979

Il grande crollo

Le “funeste” giornate dell’Ottobre 1929la drammatica vicenda che cinquant’anni or sono da Wall Street investì

tutta l’area capitalistica. Rievocarla oggi, mentre nere nubi si addensano e sembrano riproporre l’immagine paurosa della “crisi”, può essere

istruttivo.

Nel Marzo del 1929 si insediò alla Casa Bianca Herbert Hoover. Era un ottimista, anzi, dicono di lui i manuali di storia, il più tipico rappresentante dell’ottimismo americano. Quell’ottimismo che negli anni ‘20 (gli anni ruggenti) si etra consolidato sotto gli effetti della nuova stabilizzazione del sistema capitalistico che aveva spostato il suo epicentro negli Usa.. Una stabilizzazione che aveva rinfocolato le speranze anzi la certezza che il sistema produttivo capitalistico avesse in sé, per dono divino, la forza interna per l’aggiustamento automatico dei suoi meccanismi.

Ancora nel maggio del 1930, quando il numero dei disoccupati cresceva paurosamente e lo sfacelo stava assumendo proporzioni terribili, Hoover continuava a recitare la sua parte: “Il peggio è passato, ci riprenderemo rapidamente”. Dopo il predecessore Calvin Coolidge, che apparve a tutti come un inetto, Hoover poteva anche passare per un eroe dello spirito americano di intraprendenza e di coraggio davanti alle situazioni drammatiche. Era invece un irresponsabile, succube portavoce degli interessi finanziari di taluni gruppi di Wall Street.

Gli avvenimenti che erano culminati nelle famose giornate dell’ottobre 1929, tra il giovedì “nero” 24 e il martedì “funesto” 29 – quando la borsa di New York era entrata in un pauroso collasso che, ripercossosi sull’intero paese, stava dilagando sul mondo intero – avevano bisogno di ben altra cura che il facile ottimismo hooveniano.

Se ne incaricherà Delano Roosvelt, e alle sue spalle, destinato a diventare il pilastro del moderno capitalismo (anche quando alcuni settori di esso sembrano contestarlo e rifiutarlo) il suo consigliere e teorico J. M. Keynes.

Ma cos’era accaduto nell’ottobre 1929? E che cosa aveva provocato quel terribile collasso? Come si erano potute creare nel paese guida dl capitalismo, nel pieno della sua espansione economica, le condizioni che lo devastarono con prezzi umani così tragici?

Ancora oggi i grandi esperti dei segreti meccanismi del mondo economico non sono del tutto d’accordo nell’ individuazione delle cosiddette “cause”

Galbraith non ha mai receduto dalla sua convinzione che il grande crollo sia stato prevalentemente determinato dalla folle corsa speculativa finanziaria e borsistica. Anche recentissimamente egli ha concluso un sua rievocazione della selvaggia vicenda dell’ottobre ’29, sottolineando che il rischio, tutt’altro che improbabile, che un simile evento si ripeta, dipende dalla “contagiosa pazzia che prende la gente quand’essa intravede la possibilità di arricchirsi”.

Altri hanno richiamato l’attenzione sui problemi della sovrapproduzione (magazzini che si riempiono con scorte invendute, con tutte le conseguenze catena

che si determinano in tale congiuntura ); sul rapporto tra prezzi e salari ( i salari bassi impediscono il consumo, i salari alti riducono il margine di profitto e di investimento: come risolvere il busillis?); altri ancora sui cosiddetti scompensi del mercato interno ( negli Usa ‘28-’29 la caduta dei prezzi dei prodotti agricoli determinò una reazione a catena che dal mondo della produzione agricola si riversò sulle banche e su altri settori della vita economica); sulla scarsa avvedutezza nella scelta dei settori di investimento; sulla pericolosità dell’iniziativa imprenditoriale da parte delle banche private. E altro ancora; che non è il caso qui di elencare,

A noi, massa di dilettanti curiosi e vogliosi di capirne qualcosa ( curiosità e voglia non malsane, visto che le crisi le pagano soprattutto le masse: a Rockfeller, ebbe a dire nel ‘29 un tale in vena di realismo, qualche dollaro in tasca gli deve essere rimasto).

Può restare la sensazione che con tutta probabilità il grande crollo sia stato determinato da uno sciagurato concorso a ventaglio di una serie di fattori, che nella loro concomitanza hanno provocato l’esplosione (sensazione “gratificante”, come tutte le spiegazioni eclettiche).

Resta invece il problema: si trattava ( e si tratta ) di materia magmatico vulcanica di imprevedibile esplosività o di materia “umana” umanamente trattabile e razionalmente manipolabile? Keynes, che se ne assunse la cura, era evidentemente di questa seconda opinione.

Quali gli ingredienti per cura? detto assai schematicamente: iniziativa imprenditoriale dello Stato, controllo della “mano pubblica” sull’attività produttiva e sui meccanismi finanziari, politica degli alti salari (appoggiata ad una “democratizzazione” del paese, in primo luogo col potenziamento del ruolo dei sindacati).

Da questo quadro teorico e dalla sua applicazione è scaturita la storia recente del capitalismo dal New Deal ai nostri giorni. Le contraddizioni, le distorsioni, i rifiuti che nei suoi confronti si sono manifestati non ne hanno smentito la sostanziale condizionante primarietà, della quale si è colorito il nostro tempo, almeno nell’area occidentale (che è poi un’area di 4/5 del globo, perché investe, con la sua potenza, anche il cosiddetto Terzo mondo).

Questo quadro ha “salvato” il capitalismo, arricchendolo di insospettate potenzialità. E spesso la “sinistra” (cioè l’ipotesi di una diversa organizzazione della società moderna ) è arrivata in ritardo a capirne l’enorme forza propulsiva.

Possiamo dire che ha “salvato” il mondo? Cioè gli uomini nella articolata e drammatica complessità dei loro rapporti (rapporti di lavoro, rapporti tra le nazioni ecc.)?

Possiamo rispondere sicuramente di no. E non perché, come è stato osservato, oggi, quasi paradossalmente, alcune ricette keynesiane sembrano aver bisogno di essere rovesciate e corrette. Ma perché la cura prescritta, in modo così efficace e storicamente determinante, dal grande medico Keynes trascurava alcuni dati di fondo che, se ne pensi quel che si vuole, non possono trovare soluzione nell’ambito dl sistema capitalistico: la congenita subalternità dei salariati, l’implacabile corsa all’accaparramento delle materie prime e dei mercati, l’esigenza “necessaria” di pescare la forza lavoro in sacche di sotto-occupazione e di disoccupazione.

Sì, ha ragione Galbraith di temere che l “smania di ricchezza” possa provocare altri momenti terribili come la crisi del ‘29, E hanno anche ragione qui “progressisti” che nell’attuale assetto raggiunto dal mondo capitalistico ritengono possibile sperare in un prevalere della “ragione” che si manifesti in una capacità “sovranazionale” di programmazione e di intervento. Ma non è abbastanza. Perché la “ragione” operi con ragionevole speranza di successo occorre qualcos’altro, che il sistema capitalistico non può garantire, perché gli è contraddittorio: scelte a misura d’uomo, e non a misura di profitto.

Il keynesismo, cioè il neocapitalismo, su questo punto poco o nulla può. Il che dà ancora a molti la convinzione che sia una realtà “naturale”(il magma vulcano, appunto), dalla quale è inconcludentemente utopico cercare di uscire. E questa convinzione è la matrice della vera crisi del nostro tempo.

L’altra crisi, quella dello sciagurato ripetersi di un collasso simile a quello dl ‘29 non è immagine confortevole, e Dio ce ne scampi. Ma questa paura non dovrebbe far perdere di vista il problema che sta sotto e al di là della grande cura Keynesiana.

Ottobre 1979

Hubbard

L’acculturazione conseguita dal flusso sempre crescente delle comunicazioni di massa secondo recenti ricerche sociologiche e statistiche appare segnata da un “impoverimento relativo”, che investe vasti strati d popolazione. Il che, detto in altre parole, significa che si fa sempre più marcato il distacco fra i pochi che dispongono di alti mezzi di informazione e i tanti che non hanno questo privilegio.

Non è problema di poco conto. Ma vi facciamo qui riferimento soltanto per rimarcare, a proposito del caso Hubbard, di cui in questi giorni parlano lo cronache, che non c’è molto da stupirsi, se anche nella scuola può passare, e perfino ottenere consensi, una proposta di aggiornamento che si fonda su un substrato culturale di un impressionante semplicismo, (per non dire di peggio: come può verificare chi voglia prendersi il gusto di leggersi i testi firmati e divulgati dal signor Hubbard).

Anche la scuola soffre di “impoverimento relativo“ e l’appiattimento, la confusione, la inadeguatezza possono investirla anche tramite metodi e proposte, che hanno tutte le caratteristiche, e la forza, dei mass-media, neoliberisticamente intesi e messi in atto.

Resta da domandarsi se questa “preziosa” libertà, questo pluralismo inteso come totale legittimità di “esserci” – da difendere ad oltranza per evitare la caccia alle streghe – debba o possa essere norma accettabile, oltre che nel magmatico mondo dei mass-media, anche in un istituto come la scuola..Forse un po’ arcaicamente, siamo abituati a pensarla come luogo, diceva Dewey, “depurato”, dove, cioè, si immaginano possibili e necessari dei filtri.

Quali filtri? Quelli che fino a non molto tempo fa si riteneva potessero essere applicati sul fondamento del livello culturale, qualitativamente inteso, in atto in una determinata situazione storica. È ancora possibile applicarli oggi? Pare di no. E non a caso siamo in tempi di generalizzata spinta neoliberistica.

7 Novembre 1979

IV Novembre

A proposito di pluralismi: anche il IV Novembre, ormai, è pluralista. E non è che ci piangiamo sopra. meglio fermenti pluralistici, anche se magari un po’ confusionari, che fanatiche asserzioni di verità sclerotiche.

Abbiamo dedicato, due anni fa, al IV novembre, una pagina tagliata in due, “dicotomica”: da una parte Scalarini (la guerra come orrore, sopraffazione, mistificazione e violenza), dall’altra Beltrame, il popolare illustratore della Domenica del Corriere (la guerra come sventolio di bandiere, gesti sublimi da proscenio, “noi sapremo coi validi petti i più duri cimenti affrontar”, come suonava una canzone ginnico-nazionalistica, che risale a prima della prima guerra mondiale.

Non erano, le due parti a fronte, un estro giocoso, e nemmeno una intenzione polemica, ma una proposta di riflessione. Chi ha presenziato, in questo recente IV Novembre, alle tradizionali cerimonie, avrà verificato che i beltramiani sono ancora numerosi, che gli scalariani, sempre un po’ in difficoltà, devono ricorrere a una sorta di ripiegamento tattico, che si traduce nella affermazione e speranza che le ragioni della pace trionfino sempre sulle ragioni della guerra.

Il che suona: belli quei carri armati, affascinanti quelle bocche da fuoco, purchè ci garantiscano che servono per la pace, e che ci trotterellino intorno, incuriositi ed allegri, i bambinetti, quando, come ormai per simpatica consuetudine accade ogni IV Novembre, i cortili delle caserme si aprono alla gente, che vi entra come in un parco giochi.

In verità quel parco giochi fa un po’ paura; è l’indice di una situazione mondiale, l’epifenomeno, l’epidermide di un tessuto dagli strati abissalmente sgomentanti. Là dietro c‘è il mare immenso di un apparato militare che dà capogiro. E questo, il IV Novembre, potrebbe essere un argomento di informazione e di discussione. Invece, stranamente, questa data finisce coll’essere collocata tra i cuscini di un arcaico trionfalismo e i vapori rosati e idillici della speranza che gli uomini siano tutti di buona volontà e ci garantiscano la pace.

7 Novembre 1979

Non fidarsi troppo del neopopulismo

Raccontano le cronache che quando Caterina la Grande decise di verificare de visu i risultati della sua autocrazia “illuminata” programmando un vasto giro nelle regioni della “sua” Russia, le burocrazie si diedero un gran daffare per far spazzare la strada centrale dei villaggi, ricevere la carrozza imperiale tra ali festanti di belle ragazze e allegri giovanotti convenientemente rimpannucciati, ben occultato, nei vicoli retrostanti, tutto ciò che, uomini e cose, poteva mettere a repentaglio la gaudiosa confezione cortigianesca.

C’è anche un quadro (di non ricordo più chi), che ha immortalato la scena e ha perfino permesso ad alcuni testi scolastici, con la sua riproduzione, di didatticizzare l’episodio. Ma le burocrazie, che non leggono le cronache e tanto meno sfogliano i libri scolastici, e non possono quindi trarre dalla storia alcun ammaestramento, si ripetono nei secoli, imperterrite. Diffondono così anche la sensazione che non bisogna meravigliarsi di niente, perché tutto è destinato a ripetersi, senza mutamento. E così narrano, le cronache, umorosi consimili episodi degli anni mussoliniani, delle piante posticce che dovevano fare di Palermo, che riceveva il presidente Gronchi, una verde città alberata, e via raccontando. E potranno, sempre le cronache, riferire di questi giorni, in occasione della “Giornata del ferroviere” a Roma, dello stanziamento di quasi un miliardo per ripulire facciate e binari, occultare brutture e far fare all’invitatissimo Wojtyla un bel giretto su quelle carrozze, che si chiamano treni. Sarà stata una bella festa, ma, a parte il miliardo e la discutibilità di questo costume, che chiameremo del paravento, il Papa, sia detto con tutto il rispetto, nonché con la speranza di comprensione che i paraventi meritano, lo vedremmo volentieri salire su un treno operaio a Lambrate o cercarsi il posto in seconda classe sui treni normali (non sull’Arlecchino), quando l’immagine delle acciughe in barile è l’unica che riesce ad occuparci la mente. L’episodio, certamente, appare irrilevante, se confrontato con la drammatica presenza di ciò che giorno dopo giorno ci grava addosso. E si potrebbe anche dire, a nostra confutazione, che un’immagine simbolica di speranza, intorno alla quale si aggregano ormai, da un anno a questa parte, attese, che hanno fatto di Wojtyla, come ormai si usa dire, un leader mondiale, merita sì un miliardo, e anche l’“Arlecchino”. Ma forse è bene non esserne del tutto sicuri. Siamo in un momento nel quale il vuoto di leadership mondiale sembra offrire a questo pontefice l’occasione di fare della Chiesa la portatrice di un messaggio di larghissimo significato universale (la pace, la dignità della persona, la libertà da ogni oppressione), nel quale, se pur genericamente, si possono ritrovare credenti e non credenti. Sarebbe spiacevole che questo messaggio subito si annacquasse, tra spettacolari suggestioni, in un modello di mediocre neopopulismo, dove l’aggregazione diventi festaiola e il coinvolgimento delle masse si riduca ad una tradizionale, anche se più sofisticata, gestione delle folle.

13 Novembre 1979

Vuoto patinato e vesti dimesse

I potenti amano la carta patinata, quei bei fogli lucidi, dove gli esperti di grafica danno prova della loro maestria facendo emergere, dal lucore delle pagine, le loro accurate scelte tipografiche, i caratteri pieni di solida forza visiva, i titoli e i titoletti accuratamente disposti a suggerire immagini di gloria o, quanto meno, di indiscussa presenza “storica”, le illustrazioni convenientemente trascelte a corredare i testi per sottolinearne ed enfatizzarne la significanza. Le biblioteche, le redazioni dei giornali ne ricevono a josa. Quasi sempre finiscono nei cestini degli scarti o, solennemente, tra la polvere delle scaffalature, dove, per dirla con Guido Gozzano, il rifiuto secolare dorme. E che pena, o sollazzo, per chi poi vi mette le mani, dover quasi sempre riconfermare la prima impressione, che chiameremo del vuoto patinato!

Proprio per questo segnaliamo con soddisfazione l’iniziativa dell’amministrazione comunale cittadina di diffondere, in veste tipograficamernte dimessa, senza pretese e inutile lusso, i dibattiti al Consiglio comunale.

Sfogliamo e leggiamo. Per persuaderci che si tratta di una iniziativa da far conoscere: uno strumento per costruire un ponte tra il cittadino e la sala conciliare, quella sala, che, per quanto i giornali si sforzino di parlarne, non facilmente esce, nelle opinioni della gente, nella immagine paririnana di luogo sostanzialmente oscuro e impenetrabile, dove “il destin dei popoli si cova”.

Si può ricavarne un suggerimento: leggerlo e ragionarci sopra, sulle orme di quanto suggeriva don Milani nella sua celebre Lettera a una professoressa (ma è ancora celebre? o non per caso caduta nel dimenticatoio?) per disaccademizzare la scuola. Certo, non è tutto oro colato. E ognuno, secondo i suoi umori, vi troverà anche scorie di varia natura. Ma è un fatto che l’educazione civica può trovare concreto supporto nella informazione su ciò che i nostri amministratori dicono, e sui problemi che devono affrontare. E questa può esserne un’occasione.

Questo suggerimento, certo, sa molto di pedagogismo. E come tale può prestare il fianco a qualche censura mordicchiante. Ma provate a fare un rapido sondaggio su un campione, comunque scelto, largo o ristretto, poniamo di studenti di scuola superiore, per verificare quanti hanno almeno una idea approssimativa di cosa bolle in pentola nella gestione della loro città. Risultato probabile: quasi zero. La “disfunzione narcotizzante” di cui parla Mc Luhan è in atto, anzi pesa sempre di più, e investe più di ogni altro l’orizzonte della concreta, anche se apparentemente banale, realtà nella quale quotidianamente viviamo.

Sì, guardiamoci bene dal ridurre la realtà al “grigiore” dell’impegno amministrativo. Ma il fatto è che anche lì, in quel “grigiore” un po’ noioso e un po’ snervante, stanno le radici del vivere civile, e forse non è azzardato ritenere che l’agglomerato, che blocca la comprensione della realtà, determina disagi, inquietudini, distorsioni, prostrazioni esistenziali possa essere aggredito anche partendo da questa piattaforma, che solo apparentemente è minimale.26 Novembre 1979

Le poesie di Dante Strona

Una virile memoria della Resistenza

“Qui la poesia non è fine a se stessa, né tanto meno è per il suo autore, è poesia non per sé, ma per altri. Essa fu composta dallo Stona non per vivi, ma per i morti, perché sono i morti i personaggi primi di queste poesie, per essi furono composte, come atto di riconoscenza”. Così scrive Ermenegildo Bertola presentando Una stagione nel tempo, una raccolta di poesie di Dante Strona, testé pubblicate dall’ Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Vercelli.

Cinquantaseienne, biellese, dirigente sindacale fin dal 1945, Dante Strona ha vissuto nella Resistenza un momento centrale della sua vita, Combattente nelle file della XXII Divisione Garibaldi, “Nedo”, lo Strona (Dumas, come partigiano) si occupa attivamente di ricerche storiche sulla lotta di liberazione. E a quella lotta ha dedicato il suo primo libro di liriche (Come oro antico) ora rifuso nella nuova e più ampia raccolta.

Ai morti, ma anche ai vivi, è dedicato questo libro. L’epigrafe lo indica con chiarezza: “Compagno/scegli l’agrifoglio rosso / di bacche e di spine: /questo è tempo di dolore e di speranza./ È il tempo dei vivi che non vogliono morire”. E nella Premessa il poeta formula come principale augurio al suo libro di poter dire qualcosa ai giovani.

Il nucleo più folto delle poesie verte sull’esperienza vissuta, dunque alla Resistenza nel Vercellese e nel Novarese. Ma ci pare utile offrire qui, come esempio, una lirica dedicata alla lotta dei soldati russi nella Valle Trompia, di cui si occupò nel 1977 anche un libro di Marino Ruzzenenti (La 122a brigata Garibaldi e le Resistenza nella valle Trompia, Brescia, Nuova Ricerca).

Nel panorama della poesia nata dalla e sulla Resistenza o versi di Strona si collocano con un loro accento particolare, fatto di una sommessa voce interiore, che sembra cercare un incontro con le memorie e, al tempo stesso, un incontro con il lettore, per percorrere con lui una sorta di viaggio soffertamente meditativo.

Al centro di questa meditazione si dilata una vena di struggimento, di accorata mestizia. La durezza della lotta, la ferocia disumana della repressione nazifascista, la morte, le fucilazioni, le torture, il fosco balenare degli incendi gravano come un calvario, riproposto in immagini di stupefatto e dolorante “silenzio”. Non un grido, nella poesia di Strona, di rifiuto e nemmeno di sdegno, ma una virile memoria dello strazio e del dolore: una laica Via Crucis, proposta nella moltitudine delle sue “stazioni”, erette come bassorilievi spogli di ogni retorica monumentalità, essenziali come pietre raccolte dal greto e stagliate con tratti scabri ed incisivi. Nella sobrietà della pietra, nella mestizia immobile e solenne dei ricordi una venatura costante di attesa e di promessa, “a spiare il respiro dell’uomo” che attende con speranza “ una stagione nuova”.

Un interessato equivoco

Il darwinismo sociale

Il nesso Darwin-Malthus va tenuto particolarmente sott’occhio. L’aveva subito individuato Marx, che in una lettera ad Engels del 18 giugno 1862 scriveva: “Mi diverto con Darwin, al quale ho dato di nuovo un’occhiata, quando dice d’applicare la teoria del Malthus anche alle piante e agli animali, come se il succo del signor Malthus non consistesse proprio nel fatto che essa non viene applicata alle piante e agli animali, ma invece – con geometrica progressione – soltanto agli uomini, in contrasto con le piante e gli animali È notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società. inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, le “invenzioni” e la malthusiana lotta per l’esistenza. È il “bellum omnium contra omnes” di Hobbes, e fa ricordare Hegel quando raffigura la società borghese quale “regno animale ideale” mentre in Darwin il regni animale è raffigurato quale società borghese”.

In realtà Darwin si servì del principio malthusiano nella lotta per l’esistenza non, si badi bene, per giustificare ed enunciare principi validi nell’ambito della società umana, ma per trovare spiegazione al mondo disumano e spietato dei fenomeni naturali. Ma poiché anche l’uomo è “natura” era facile il passo al cosiddetto “darwinismo sociale”, cioè a teorie che spiegano i fatti umani in termini brutali di lotta per l’esistenza. Invano Thomas Huxley aveva già avvertito che non c’era alcuna ragione per intendere il termine lotta in senso “gladiatorio”. Così precisa il problema un eminente studioso, il Dobzhansky: “La parola “lotta“ nella frase “lotta per la vita” era per Darwin una metafora; non indicava necessariamente contesa, guerra, spargimento di sangue. Gli animali e le piante “lottano” per evitare i pericoli del freddo, del caldo torrido, dell’essiccamento, dell’annegamento, dei venti turbinosi, ecc. Ma non congelano, bruciano o annegano altri individui della loro e d’altra specie.”

Ma l’interpretazione gladiatoria era troppo comoda, perché non venisse adoperata da parte di chi aveva tutti i vantaggi a giustificare la propria violenza e il proprio potere come risultato della selezione naturale, e quindi come una necessità. Ecco cosa ne pensava John Rockfeller, della celebre dinastia di banchieri e uomini di finanza: “L’incremento di una grande azienda è soltanto un caso di sopravvivenza del più adatto… Non è che l’esplicazione di una legge di natura, una legge di Dio”.

Il darwinismo applicato in questo modo rozzo e acritico alla società umana non si limitò a celebrare l’individualismo del laissez faire. La lotta non si svolge solo fra gli individui, ma anche fra le classi sociali, le nazioni, gli stati, le razze. Il darwinismo, così deformato, divenne la moneta corrente dei nazionalismi, degli imperialismi sempre pronti a trovare giustificazioni che consentano di “selezionare”. Purtroppo una delle ragioni della popolarità di Darwin e della diffusione delle sue teorie fu proprio questa, che furono applicate dogmaticamente ad una realtà, l’uomo, così enormemente complessa, che per essere capita ha bisogno di ben altro che di simile volgare semplicismo.

Veramente singolare è che prima di Darwin non si facesse che parlare di “armonia”: armonie prestabilite, l’armonia del creato e via dicendo e il concetto di armonia serviva per indurre gli uomini ad accettare una società gerarchica, dove tutto era armonicamente prestabilito, fisso, immutabile, e quindi in definitiva atto a mantenere il potere a chi l’aveva. Quando le teorie di Darwin furono accettate, si vide dappertutto “lotta” e il concetto di “lotta “ servì allo stesso scopo a cui aveva servito il concetto di armonia, e cioè a giustificare la violenza dell’uomo sull’uomo al fine di stabilire o mantenere il proprio potere di classe di nazione o di razza.

Darwin aveva scoperto le leggi dell’evoluzione biologica, non quelle che governano le società umane. Per i darwinisti sociali prosperità e potenza equivalgono a idoneità biologica e a “laissez faire” economico: la concorrenza e la rivalità più spinta equivalevano a selezione naturale. Essi dimenticavano proprio la cosa più importante, e cioè il nesso tra la componente biologica e la componente, che, in largo senso, si suol oggi definire “culturale”, cioè la componente che si è venuta rivelando quando l’uomo nella sua evoluzione è passato dalla inconsapevolezza alla consapevolezza, dalla animalità in senso stretto all’umanità.

21 Novembre 1979

Una storia orribile non ancora finitaTerminata con la testimonianza di Camilla Cederna sul ‘69 la trasmissione “Come

eravamo”

Si è chiusa, ier l’altro, sul secondo canale Tv, la serie di trasmissioni intitolata “Come eravamo”. Una vivace sequenza di recuperi della memoria, aiutata da testimonianze, brani di filmati, ricordi e confronti variamente intrecciati, che ha permesso di guardare agli anni Cinquanta-Sessanta con la malinconia e il sorriso, la mordacità e lo stupore, con cui si sfogliano i vecchi album di fotografie.

Me è stato davvero un “come eravamo”? A giudicare almeno dall’ultima puntata, dedicata al ‘69, verrebbe fatto di pensare che con sottile e pedagogica astuzia il curatore della rubrica abbia voluto sottintendere che il titolo vero sarebbe dovuto essere “come siamo”. Quegli anni, infatti, ci condizionano con una pesantezza che sarebbe stolto ignorare. Comportamenti, gesti ed azioni degli uomini si dimenticano presto; lodevole, quindi, ed utile lo sforzo di recuperarli alla memoria; ma mai forse come in questa tappa finale, dedicata al funesto ‘69, si è potuto avvertire quanto ogni autentico ripensamento del passato si ponga come bruciante presente.

Il curatore e moderatore della rubrica ha questa volta quasi del tutto rinunciato ai possibili divertissements, che altre volte avevano colorito il dialogo, inframmezzando al serio il faceto, al drammatico il comico. La domanda finale di prammatica: “un anno da rimpiangere o no?” rivolta all’interlocutore in obbedienza allo schema precostituito è apparsa, di conseguenza, un po’ sfasata, ed è stata formulata, in effetti, con un certo imbarazzo, come se l’ottimo e simpatico Cattedra si vergognasse del rituale. L’interlocutore, Camilla Cederna, l’ha, del resto, ribaltata subito con una perentoria risposta: un anno spaventoso, una svolta spaventosa, in una storia orribile che non è ancora finita.

Camilla Cederna, ovvero un raro esempio di giornalismo alla ricerca della verità. Il presentatore ha insistito nel presentarla come “testimone”, Ma una giornalista che, unica, mentre la stampa italiana aveva trovato il mostro da sbattere in pagina, ebbe il coraggio di scrivere che le bombe di piazza Fontana erano fasciste, e che dietro di esse ci stavano fili manovrati dall’interno stesso dell’apparato statale, è stata qualcosa di più di una “testimone”, e stata una “protagonista”.

Là, sul teleschermo, dove siamo abituati a vedere così frequentemente – in interviste, in sceneggiati di varia natura – il trionfo dell’arte dell’annacquamento, Camilla Cederna, chiara, esplicita, al momento giusto anche tagliente, appare un personaggio inconsueto. La Rai-Tv, che pur non manca, lodevolmente, di qualche iniziativa solida e vivificante, talvolta perfino coraggiosa, pratica, abbastanza sistematicamente, il giornalismo dell’allegra battuta, del dialogo scoppiettante, del dire e non dire imbastito di piroette e di fuochi d’artificio. Forse è un gioco necessario, per non alienarsi vasti strati di ascoltatori, per non incappare in qualche guaio censorio. In questa scelta, del resto, sulla stessa linea di buona parte del giornalismo della carta stampata, che dovendo barcamenarsi tra ostacoli, diffidenze, rischi di ogni genere, ha creato, in questi anni, uno stile singolarmente uniforme di

giocolieri, che si rimbalzano palline colorate o, addirittura, “aerei nienti”, per dirla con Shakespeare, proprio come nel celebre finale di “Blow up“ di Antonioni, dove i giocatori in campo ritmano i gesti di una illusoria partita, con spettatori che girano il capo a seguire il volo di un oggetto inesistente.

Per Camilla Cederna l’oggetto c’è, perseguito e definito con nettezza. Pacata, serena, umanissima nei ricordi e nelle annotazioni sulle persone che furono “vittime”: la moglie e le bambine di Pinelli, la nonna di Valpreda e la straordinaria zia Rachele, umili e alti personaggi di una tragedia piena di sangue e di fangose vergogne; netta e sicura nella definizione dei “potenti”: il questore Guida, un “classico della bugia”; molti testimoni di Catanzaro che “dovevano sedere tra gli imputati”.

Si è avuta a questo punto l’impressione che il buon Cattedra cercasse di sviare il discorso. Forse si ricordava che circa diecimila lettori della rivista a cui egli lavorava nel famigerato ‘69 avevano disdetto l’abbonamento per un intervento di P. P. Pasolini, che diceva la verità su un caso di cronaca nera, che era in realtà carico di risvolti politici.

24 Novembre 1979

Contro la “Violenza numero uno”

Mondo cattolico e corsa agli armamentiSi sta delineando un vasto movimento “operativo” contro la spaventosa

sopraffazione della produzione bellica. Il sinodo bresciano recepirà questo fenomeno? La posizione della chiesa woytiliana

Quando, dopo il 1945, cominciò a profilarsi, con la cosiddetta “guerra fredda”, l’equilibrio del terrore, la possibilità dell’impiego delle armi nucleari apparve, nei suoi esiti catastrofici, come la minaccia cui occorreva sottrarre l’umanità. E in relazione ad essa si diffuse, se pur non quanto sarebbe stato necessario, la convinzione che occorreva rivedere tutte le teorie sulla guerra, compresa la teoria della “guerra giusta”. Il risultato fu che la generale presa di coscienza della assurdità di un eventuale conflitto nucleare fece passare in secondo piano il problema della armi convenzionali. Come dire: non scaricateci addosso le armi nucleari!; Se proprio vi aggrada, ammazziamoci con armi tradizionali.

Questo atteggiamento si sta rivelando, oggi, profondamente erroneo Mentre, infatti, non si è riusciti che in modo insignificante a contenere l’armamento nucleare, le cosiddette armi tradizionali hanno raggiunto un livello di sofisticato e terrificante sviluppo, tale da garantirci un disastro di gigantesche proporzioni nel caso di una guerra generalizzata, anche senza bisogno di ricorrere alle armi nucleari.

L’attuale questione degli euromissili ripropone il problema. Appare evidente, infatti, che la richiesta di collocare in Europa i Pershing e i Cruise non solo rivela la tendenza a cercare l’equilibrio “al rialzo”, anziché al ribasso, ma taglia fuori ogni possibilità di portare innanzi il discorso, fondamentale, della diminuzione degli armamenti, di “qualunque armamento”.

La spesa annuale per gli armamenti è di 500.000 miliardi, più il 45% della ricerca scientifica utilizzata a scopi bellici. Ma non è solo questione di citare dati, universalmente noti, sulla incredibile distruzione di ricchezza cui non diciamo la corsa agli armamenti, ma il semplice aggiornamento di essi dà luogo, in un mondo dove si muore di fame e dove una buona metà della popolazione vive in condizioni ambientali intollerabili. È sufficiente e pregiudiziale, anche, sottolineare che nulla può garantire che in un conflitto inizialmente condotto con armi convenzionali una delle parti in causa non trovi. la giustificazione, per quanto folle, di ricorrere, in caso di difficoltà, alle armi nucleari. Sicché i due problemi sono profondamente legati, e solo in una logica ciecamente aberrante distinguibili.

La coscienza popolare e di massa lo ha sempre avvertito, e non soltanto gli “ingenui” intellettuali pacifisti alla Cassola. Va detto che questa consapevolezza non ha mai trovato i canali adatti per diventare forza di pressione irresistibile. Proprio per questo appare di grande interesse ciò che si sta verificando da qualche mese in campo cattolico. Su questo problema, scrive Angelo Cavagna, del centro dehoniano di Bologna e redattore di “Settimana del clero”, i cattolici “in passato non andavano molto oltre le parole, oggi cominciano ad essere più concreti”. L’allusione è al

sorprendente (e confortante) dilagare, nel mondo cattolico, di una massiccia presa di posizione non soltanto antimissili, ma tout-court antiarmamenti e antimilitarista.

Chi voglia informarsene legga gli ultimi numeri dell’agenzia di informazioni stampa “Adista”, che sta dandone la documentazione. Movimenti, associazioni, singole persone, laici ed ecclesiastici, si stanno ritrovando su una piattaforma ideologica ed operativa di incalzante energia. Citiamo, fra le associazioni e i movimenti di più larga notorietà: Acli, Azione cattolica, Comunione e liberazione, Mani tese; tra i nomi più significativi: padre Turoldo, mons. Riboldi, Mario Gozzini, Sergio Rostagno, R. La Valle. A differenza di quel che altre volte su altri problemi è accaduto, non si tratta di “dissenso” cattolico, ma di cattolici che battono strade maestre all’interno della “ecclesia” ufficiale, che scrivono su giornali diocesani. È difficile stabilire se si tratti di un movimento spontaneo che sta trovando convergenze e coagulazione o di una orchestrazione a largo raggio consapevolmente preordinata e condotta in avanti. Ma non ha nemmeno importanza saperlo. Il fatto esiste con macroscopica evidenza.

I giornali cattolici più legati a “responsabilità” e a preoccupazioni “politiche” – come L’Avvenire – lo registrano un po’ a denti stretti. La Dc, per ora, quasi completamente lo ignora. Non sappiamo fino a quando ci riuscirà, visto che sta subendo attacchi, sul tipo di quello formulato dal presidente delle Acli, Domenico Rosati, che sostanzialmente significano: ma non ci avete detto che siete un partito cristiano che esprime il mondo cattolico italiano? Come mai ci ignorate?

Non diciamo niente di scandaloso se ricordiamo che nel mondo cattolico l’ambiguità è speso stata di casa. Ma questi cattolici sembra abbiano imparato la lezione della storia e non siano disponibili a sotterfugi. Ricordo negli anni ‘50 un teologo che aveva trovato la sottile distinzione tra impiego strategico (da condannarsi) della bomba atomica e impiego tattico (possibile come “male minore”) Oggi lo subisserebbero.

Afferma testualmente mons. Riboldi: “La discussione che si fa oggi in Europa e nel mondo sugli euromissili non è assolutamente nella logica dei cristiani”. E padre Turoldo: “Non basta dire giù le armi. Si deve lottare perché le armi siano abolite. E Rosario Lembo (Mani tese): “gli armamenti sono oggi la violenza numero uno”. E il cislino Giovanni Momigli: “Già gli impegni finanziari in questa direzione costituiscono un’aggressione”. E incalza Angelo Cavagna: “L’unica posizione ragionevole e cristiana è la seguente: disarmo totale e unilaterale”. Si badi bene: unilaterale.

Il concilio Vaticano II ha esplicitamente condannato in assoluto la guerra atomica. Un documento della Santa Sede redatto nel ‘76 definisce la corsa agli armamenti “furto, follia, ingiustizia, errore”. È evidente che l’attuale movimento in corso tende a far superare il momento “verbale” della condanna, per impegnare in concreto forze politiche e sindacali su un terreno operativo. Alle definizioni in linea di principio questi cattolici sembrano decisi a far seguire scelte attive.

Che il fenomeno sia capillare lo dimostra anche il fatto che, se pur timidamente, qualche voce in questa direzione so è alzata anche nel recente sinodo bresciano. Sarà interessante vedere se essa prenderà corpo nel “Liber sinodalis”. Sarebbe un avvenimento di grande portata. Un “segno”, che potrebbe forse fare della chiesa la portatrice di valori universalmente proponibili ed accettabili al di là delle convinzioni

“confessionali”, a pronunciare nei confronti delle armi, dell’orrore con cui esse gravano sul mondo, un “no” così netto da disinnescare ogni consuetudine all’ambiguità e all’omertà. Si potrebbe, in questo caso, avere una prima verifica sulla natura di quel “materialismo” che alcuni osservatori attribuiscono a Wojtyla.

24 Dicembre 1979

Una spirale pericolosa

Nulla in contrario contro il detto “a estremi mali, estremi rimedi.” Purché siano rimedi. Qual è il metodo per giudicare se i recentissimi provvedimenti del governo Cossiga siano davvero dei rimedi? Si potrebbe rispondere: lascia tempo al tempo e poi giudicheremo, Quando, in forza di questo provvedimento, il terrorismo sarà estirpato, diremo che erano utili e buoni. Perché buono è ciò che distrugge il male, e non c’è dubbio che il terrorismo è un grande e odiosissimo male.

Sul filo di questa logica, il commento sarebbe già finito. E dovremmo solo apprestarci ad attendere, per vedere e giudicare, e magari anche compiacerci.

Ma le cose non sono così semplici. Questa logica assomiglia molto a quel professionismo medico-chirurgico, che, beffardamente parafrasando sulla terminologia medica, si compendia nel detto popolare: “l’operazione è clinicamente riuscita, ma il malato è morto”. il malato, in questo caso, è il paese. Un paese afflitto da gravi malattie, di cui il terrorismo costituisce l’epifenomeno, una drammatica e angosciante risultanza. Constatare che il terrorismo si muove con mezzi “militari” e contrapporgli provvedimenti “militari”, convincersi, come è evidente, che il terrorismo vuole distruggere la democrazia e combatterlo con scelte che possono incrinare la democrazia, in tutta la delicata trama delle sue istituzioni, è un rischio, sul quale forse è il caso di riflettere, anziché, come gran parte della stampa sta facendo, alzare grida di entusiasmo e formulare congratulazioni.

Si dirà: ma cos’altro si può fare? Ma a questo interrogativo non si possono dare risposte brutalmente semplificatorie. Se fossimo certi che il terrorismo è soltanto un fatto “militare”, una presenza aberrante e fanatica di piccoli gruppi senza retroterra, che una sfasatura mentale ha persuaso a giocare alla guerra, si potrebbe perfino crudamente e freddamente accettare di mettere in atto tutto quel che possa garantirne l’eliminazione, come si usa con i pidocchi. Ma i terroristi, per sfasati e fanatici che siano, se si vuole, perfino miserabili prezzolati, rappresentano purtroppo qualcosa. Ed è su questo qualcosa che bisogna portare l’attenzione, se non si vogliono ammazzare i pidocchi sfracellando il corpo sul quale si annidano.

Da questo punto di vista i recenti provvedimenti del governo non possono non destare una serie di perplessità.

In primo luogo essi sembrano dettati dall’esigenza di “far colpo”, di garantire l’opinione pubblica che il governo sa il fatto suo. E se il loro risultato fosse deludente? Come si rimedierebbe? Con nuovi provvedimenti. che incrementano la scelta “militare”, con più ampie deleghe ai generali? Ma non si corre così il pericolo di aiutare i terroristi nell’ottenere proprio quello a cui, pare, principalmente mirano, e cioè di provocare e accelerare la degenerazione della nostra democrazia verso forme sempre più repressive? In proposito dovrebbe allarmare il fatto che nei rapporti di Amnesty International l’Italia comincia ad apparire come un paese dove fondamentali garanzie stanno venendo meno. Con tutte le riserve che si possono formulare nei confronti di questo tipo di informazione, inevitabilmente un po’

generalizzante, resta il sospetto che davvero si stia andando verso la “argentinizzazione”.

In secondo luogo: da che mondo è mondo l’aumento delle pene non ha mai dissuaso i criminali dal compiere le loro imprese, li ha semmai inaspriti e galvanizzati nella loro volontà di intrapresa. È grave dimenticarsi di questa elementare verità.

In terzo luogo: il tessuto sociale, da cui è emerso il terrorismo, resta sempre quello, anzi tende ad aggravare i suoi sintomi di degradazione. Se non si accompagna la lotta al terrorismo, quale con costo così sanguinoso le forze dell’ordine devono condurre, con una prospettiva concreta di modifiche sostanziali, gli apparati della repressione, militare e giudiziaria, si troveranno di fatto sempre più come strumenti e corpi separati, anche nel caso, augurabile, che essi non divengano strumenti per l’affossamento della democrazia, che, anziché salvare le istituzioni, finiscano con l’essere adoperati per svuotarle e addirittura distruggerle.

Particolarmente inquietanti appaiono, in proposito, le decisioni concernenti il prolungamento del fermo di polizia, con tutti gli abusi, cui esso notoriamente può dar luogo, e il prolungamento della carcerazione. preventiva (ma non sarebbe meglio garantire una rapida istruzione dei processi?). E forse più ancora, la sottolineatura nella perseguibilità del rato di “propaganda sovversiva”: Si sa benissimo quanto è delicato il problema del crinale tra libertà di opinione e “istigazione”. Questa accentuazione, con alle spalle il codice Rocco, è difficile sapere entro quali limiti potrà essere contenuta.

Del terrorismo, nonostante tante analisi che ne sono state fatte, in verità non sappiamo molto. Ma sicuramente non è un’idra a cui basti schiacciare qualche testa per vederla giacere inanimata. Il terrorismo ha – questo è evidente – radici complesse, che si affondano nelle magagne e nelle orribili anfrattuosità di un terreno, che ha bisogno di bonifiche e di modifiche. Senza di esse la mala pianta continuerà, purtroppo a crescere.

Il problema, come, adattandosi al ruolo di Cassandra, occorre continuare a predicare, non è “militare” o giudiziario, ma politico e morale. Non lo possono risolvere i generali.

Dietro ai generali, in un paese democratico, deve esserci una classe politica, anzi un quadro politico, serio, consapevole, che non dia deleghe, che abbia il coraggio di andare alle radici del terrorismo, perché, occorre ribadirlo, finora troppo si è avita l’impressione che – come diceva il giudice Alessandrini – non certo a caso assassinato mentre cercava di far luce nella nebbia della omertà – sia ancora invincibile la tendenza a fermarsi davanti ai “santuari”. Può darsi che il terrorismo sia l’espressione di un “rivoluzionarismo” fanatico e disperato, ma sicuramente esso trova alimento dai grovigli di stampo mafioso e dalle inadempienze, frutto di cinismo e di colpevole leggerezza, che gravano drammaticamente sul paese.

14 Dicembre 1979

La tavola rotonda su Camillo Togni alla Pace

Anche a Brescia un po’ d’EuropaGli interventi di C. Restagno, L. Ferrero, M. F. Siciliano

Un centinaio, scarso, di persone è quanto si è raccolto l’altra sera su iniziativa de “Gli amici della pace” per una tavola rotonda dedicata a quel “monstrum” che è Camillo Togni “Monstrum”, in latino, significa cosa straordinaria, che desta stupore e ammirazione, che sovrasta la norma e la medietà. “Monstrum, intendiamoci, non è lui, Camillo, in carne e ossa, lì in sala a partecipare al dibattito, alto e un po’ dinoccolato, smagrito da un recente malessere, che ha fatto rinviare l’iniziativa dall’ottobre ad oggi; sorridente e cordiale, e al tempo stesso un po’ scostante, non si capisce mai bene se per timidezza e ritegno o per la sua origine “aristocratica” o per la sua esperienza di musicista e uomo di cultura filtrato attraverso la sofisticata ricchezza degli incontri di “avanguardia”, da Schoenberg ai cenacoli di Darmstadt, dall’espressionismo alle suggestioni delle ricerche e dei linguaggi postviennesi. “Monstrum” è il suo travaglio creativo, che si snoda da decenni, coi suoi risultati articolati e complessi, che costituiscono ormai un “corpus” di vaste proporzioni. con la sua collocazione di musicista europeo non soltanto, come si usa dire, di fama consolidata, ma, che è quel che più colpisce, valutato, ai livelli della critica più attenta e agguerrita, come una presenza di inconfrontabile assolutezza, come il costruttore di un universo musicale di una versatilità e di una solidità di fronte alle quali perfino grossi nomi dell’attuale Europa musicale rischiano di impallidire.

“Monstrum”, dunque. E quelle neanche cento persone compuntamente raccolte a capire il “messaggio” apparivano, nella loro poco variegata presenza, un po’ il simbolo della “solitudine” dell’artista “europeo”: Un po’ di signore giovanilmente attempate, qualche amico della sua generazione, tre o quattro preti della Pace, qualche curioso a la page, pochissimi giovani, poco altro: Insomma una città di oltre duecentomila abitanti, che ama qualche volta discutere della propria cultura – o della assenza di cultura – che in qualche modo si esprimeva, dava il consueto segno di sé.

A torto o a ragione? difficile saperlo. Comunque situazione certamente significativa, tanto più se si pensa – come è stato chiarito nella lucida e stimolante introduzione di Carmelo Restagno – che le radici della esperienza musicale di Togni stanno non tanto nella assimilazione di uno o più linguaggi (la dodecafonia, etc ) e nel loro impiego (tanti altri hanno compiuto questa operazione), ma nella adesione ad una civiltà, anzi nella totale identificazione con essa,: la civiltà “viennese”, sentita come la rivelazione più autentica, il cuore della nostra epoca, della nostra situazione storica. Una civiltà, che si è manifestata come drammatica consapevolezza della lacerazione, della demistificazione, della scoperta tragica del “vuoto”, della finis (la “finis Austriae” come metafora della fine totale di una civiltà.E questa consapevolezza o tormento o angoscia non è molto di casa, sostituita com’è non solo dai mass-media, ma, in molti “canali” artistici, da una allegra e spavalda indifferenza, vestita di false sicurezze, quella “artificiosa semplificazione della vita”, di cui parlava Della Piccola,

opportunamente citato l’altra sera, anche per ricordarci un musicista autenticamente significativo del nostro tempo.

A detta di Togni, che ha dato alcune sobrie indicazioni sul suo iter, l’impatto con Trakl nel 1946 e con l’espressionismo è stato per lui decisivo. L’impatto, cioè, con un poeta, nel quale la decadence, il disfacimento, la tragedia epocale hanno preso corpo (perfino nella tragedia della sua vita personale: Trakl morì, probabilmente suicida, nel 1914, in un ospedale di Cracovia, dove era stato ricoverato per lo choc ricevuto dall’incontro con gli orrori della guerra), congiuntamente ad una larvale attesa o speranza di redenzione (dove? forse nella morte o in Dio, che “serpeggia intorno alle mura”).

Il lavoro culturale e musicale di Togni si è “accompagnato” su questa esperienza storica, l’ha trasformata in un “assoluto”, da percorrere, riproporre, scavare, quasi una sorta di verità extratemporale, che si impone – in una irrisolta dialettica tra angoscia e speranza, tra privilegiata desolazione nella scoperta dell’irriducibile orrore della realtà e una non mai spenta ansia metafisica – perché la storia, il tempo sembrano non aprirsi ad alcuna soluzione possibile.

I brani musicali l’altra sera proposti all’ascolto hanno dato qualche indicazione. Troppo poco, però, per consentire un adeguato ingresso a una così complessa esperienza. E poco in verità ci ha detto Maria Francesca Siciliano, la regista del recente “Blaubart” scaligero, l’opera composta da Togni sull’unico testo teatrale lasciatoci da Trakl. Interessanti gli interventi del giovanissimo Lorenzo Ferrero (un suo lavoro che ha per soggetto la vita di Marylin Monroe sta per essere messo inscena all’opera di Roma), musicista di una generazione che appare alle prese con una situazione ormai radicalmente diversa, la caotica pluralità dei linguaggi.

20 Dicembre 1979.

Dal seminario al Cremlino

Il seminaristaNel seminario di Tiflis, Stalin si fece notare per una straordinaria capacità di

apprendere, per la memoria ferrea. Si ha anche notizia che lesse Gogol, Cekov, Hugo, libri popolari di economia e di biologia darwiniana. Il seminario era uno strano ambiente: un misto di disciplina durissima e di fermento politico nazionalistico georgiano, in cui entravano confusi elementi di liberalismo, di anarchismo e di socialismo. Stalin vi condusse praticamente una doppia vita: diligente alunno e membro di una organizzazione socialista clandestina, cui partecipava nelle ore di libera uscita. Furono anni importanti nella formazione di Stalin; forse non ha torto chi ha affermato che il marxismo “liturgico” dello Stato autoritario, la sua tendenza a trasformare in “religione chiesastica", a fare di Mosca una nuova “Mecca”, ebbe qui la sua codificazione.

Il burocrateTutti i biografi hanno osservato che il giovane Stalin aveva il gusto della

organizzazione e una passione “pedagogica” che lo portava a conoscere da vicino le “masse”. A Tiflis gran parte della sua attività consisté nel dirigere circoli di studi per lavoratori. A Baku riuscì per due anni a tenere insieme lavoratori diversi per razza, lingua, condizione economica (russi, armeni, tartari, persiani, tirchi) in un compatto organismo rivoluzionario. Si trovava a suo agio nella routine organizzativa più che nel dibattito politico. Le sue prime elezioni negli alti organismi del partito appaiono dettate più dall’esigenza di avere un buon “braccio” che una buona “testa”. Tra il ‘17 e il ‘22 la sua carriera si appoggia ad una serie di nomine burocratiche, che gli danno un enorme potere. Isaac Deutscher ha sostenuto che nel 1920 Stalin aveva già concentrato cariche che lo rendevano di fatto il vero “controllore” del potere. Membro del Politburo (con Lenin, Trotzki. Kamenev e Bucharin), quando divenne nel ‘22 segretario del partito e si trovo a coordinare anche la Commissione Centrale di Controllo il suo potere divenne enorme, e se ne servì per collocare suoi amici e seguaci in tutti i dipartimenti del governo. Nelle sue decisioni applicò sempre rigorosamente le norme e le disposizioni fissate dagli statuti e dai congressi.

L’autocrateLa durezza degli eventi (guerra civile, carestia, il profondo sconvolgimento del

paese sotto la pressione del movimento rivoluzionario) avevano indotto Lenin ad attenuare sempre più la “democrazia sovietica” con provvedimenti tendenzialmente autocratici, che furono interpretati come temporanei, dovuti all’emergenza. Lenin avvertì questo dramma. Non è dato sapere come l’avrebbe affrontato, se la malattia e la morte non l’avessero tolto di mezzo. Certo è che resta sintomatico il famoso passo del suo testamento in cui consigliava di togliere a Stalin la carica di segretario, che gli consentiva una eccessiva concentrazione di potere.

Stalin fu storicamente l'espressione di una scelta: la irreversibilità del processo verso l'autocrazia, sentita come una necessità per salvare la rivoluzione. Il fatto che coagulò questa scelta fu la conferma chiesta e ottenuta da Stalin, nel gennaio del 1924, della clausola del X congresso di condannare ogni opposizione come “frazionismo”, come “deviazione borghese dal leninismo”.

Lo sradicamento delle opposizioniPer realizzare l’autocrazia bisogna distruggere le opposizioni. Dal 1925 ai processi

del ‘36 - ‘38, all’assassinio di Trotzki nel ‘40, Stalin persegue questa linea con implacabile determinazione. L’immagine di Stalin “criminale” si appoggia alla storia terribile di questi anni. Ad uno ad uno i componenti della vecchia guardia rivoluzionaria cadono nella spaventosa rete di processi, di deportazioni, di condanne a morte che consentono l’ascesa “tirannica” di Stalin. Nel 1929 questa ascesa. è già compiuta con l’esilio di Trotzki e l’esautoramento di Bukharin, Kirov, Trotzki e di ogni altro che in qualche modo potesse fare da perno per la formazione di una qualunque opposizione anche larvata. Che cosa allora determinò, dai primi mesi del 1935, quel terribile salto di qualità, che condusse alla eliminazione fisica degli oppositori, presunti o reali? L’occasione fu data dall’assassinio, nel dicembre del 1934, di Kirov, personalità di grande prestigio membro del comunismo autocratico) approfittò dell’episodio per scatenare la repressione e all’altalena di repressione e Comitato Centrale, segretario del partito a Leningrado Circostanze e moventi dell’assassinio non furono mai ben chiariti. Taluno ha avanzato il sospetto che la polizia staliniana sia stata connivente nell’eliminazione di Kirov o,quanto meno, non sia intervenuta per impedirlo, pur sapendo del rischio che Kirov stava correndo Sta di fatto che Stalin, il quale interrogò personalmente l’attentatore (un comunista che, dichiarandosi seguace di Zinoviev, motivò esplicitamente il suo gesto come rifiuto di un concessioni “liberali” che aveva caratterizzato gli anni tra il ‘29 e il ‘34 si sostituì la totale estirpazione degli avversari.

La “seconda rivoluzione”L’immagine del “despota” si formò, in quegli anni, non soltanto per la fredda

violenza con la quale Stalin eliminò gli oppositori politici. A partire dal ‘28- 29 Stalin aveva iniziato la gigantesca impresa dell’industrializzazione del paese, il progetto comportava la collettivizzazione forzata delle campagne, la distruzione dei kulaki, la cosiddetta “seconda rivoluzione”. L’opposizione contadina fu piegata con terrificanti metodi militari, una vera e propria guerra civile. Questi metodi furono applicati implacabilmente anche durante i processi del ‘36-‘38, ai quali si accompagnarono deportazioni, fucilazioni, campi di concentramento per tutti coloro che in qualche modo sembrassero anche solo sospetti di qualche legame con gli oppositori politici. Una tragedia storica di allucinanti proporzioni.

Il progetto baffoneUna tragedia, certamente, ma è semplificatorio attribuirla, come spesso è accaduto

e accade, ad una perversa ambizione personale di potere che non esita di fronte anche alla più cinica criminalità. Stalin, se vogliamo usare una formula, è stato l’eroe sanguinoso di un progetto politicamente affascinante: l’applicazione di una

pianificazione totale che consentisse la conservazione e la nascita di un paese a economia non capitalistica. Solo così si spiega il suo mito, il fascino ch’egli esercitò sulle masse di oppressi del mondo intero. “Ha da ‘ vvenì” non è soltanto un’umorale espressione gergale. Stalin fu realmente “atteso”, fu punto di riferimento per chi, tra le follie crudeli del mondo capitalista o del mondo semi-feudale d’interi continenti, non era troppo disposto a deprecare le follie crudeli di chi stava creando un mondo che appariva (ma probabilmente anche era) una realtà nuova, “popolare”. I teorici della “forza” come matrice della storia, gli ammiratori del potere, i fiancheggiatori della violenza sono gli ultimi a dover lamentarsi della “criminalità” di Stalin. Quella criminalità, volenti o nolenti, ha creato una gigantesca trasformazione, ha inciso sulla storia in modo irrefrenabile, ha alzato un “modello”, piaccia o non piaccia. il problema, semmai, è un altro: di come si possa oggi, anche dalla lezione sgomentante ricevuta da Stalin e dallo stalinismo, creare “modelli” rifiutando e impedendo l’orrore della violenza; è il problema di chi, di quali forze storiche siano in grado di realizzare una società “libera e giusta.”, quale i maestri di Stalin avevano ipotizzato, quale l’allievo ritenne di poter realizzare, terribilmente contraddicendosi, certo anche sotto il peso di invincibili condizionamenti storici nel momento della scelta dei mezzi, che, come si sa, finiscono coll’intaccare e distorcere gli stessi fini

Dicembre 1979

Indice dei nomi

Acton Lord.............................................................78Adenauer................................................................83Alessandrini (giudice)...................................65, 115Amico G................................................................76Antonioni M........................................................110Arafat.....................................................................23Ardigò....................................................................68Aristofane..............................................................63Basso L......................................................70, 82, 83Bellocchio M...........................................................7Beltrame..............................................................103Bertola E..............................................................106Boni B....................................................................63Bonifacio VIII.......................................................35Briand A................................................................83Bucharin N...........................................................118Bukharin..............................................................119Calamandrei P.......................................................50Carlo Magno..........................................................83Carlo V..................................................................83Cassola C.............................................................111Cavagna A...................................................111, 112Cederna C....................................................109, 110Cekov A. .............................................................118Celestino V............................................................35Collotti E...............................................................85Coolidge C.............................................................99Corsini P..........................................................79, 80Darwin C.....................................................107, 108De Felice R............................................................91De Rita...................................................................68Dewey J...............................................................102Dobzhansky.........................................................107Eco U.....................................................................28Esopo.....................................................................63Fé d’Ostiani L........................................................63Ferrero L......................................................116, 117Freda......................................................................66Galbraith J.....................................................99, 101Giovanni Paolo II..................................................67Giovanni XXIII.....................................................35Gluksmann A.........................................................94Goebbles................................................................91Goethe....................................................................76Gogol...................................................................118Gozzini................................................................112

Guida (questore)..................................................110Halifax (Lord)........................................................98Hitler H......................................................83, 97, 98Ho-Chi-Minh.........................................................94Hobbes.................................................................107Hoover H...............................................................99Hubbard...............................................................102Hugo V................................................................118Huxley T..............................................................107Kamenev..............................................................118Keynes J. M...........................................................99Kirov....................................................................119La Bruna................................................................74La Valle L............................................................112Lembo R..............................................................112Lenin V................................................................118Lombardi A...........................................................92Luhan Mc.......................................................42, 105Lukaciewicz...........................................................98Malthus................................................................107Manziana Carlo...............................................59, 60Marx C.............................................................6, 107Mazzini G..............................................................83Medai.....................................................................28Merlino..................................................................74Molotov.................................................................98Monet.....................................................................83Montanelli I...........................................................40Moretti M.........................................................95, 96Moro A.. 9, 10, 11, 16, 17, 19, 20, 23, 25, 31, 65, 68Morstabilini (mons)...................................51, 52, 61Musil R..................................................................48Mussolini B...................................70, 90, 91, 95, 98Nitti A...................................................................47Orfei R...................................................................70Pandolfi..................................................................40Panzini A...............................................................95Paolo VI.........................................33, 35, 36, 41, 59Pasolini P. P...................................................43, 110Pertini S.................................................................32Pinelli...................................................................110Pinochet.................................................................55Pio XII...................................................................35Restagno C...........................................................116Ribbentrop.............................................................98Riboldi (mons.)....................................................112

121

Rockfeller J..................................................100, 107Ronfani..................................................................28Roosvelt D.............................................................99Rostagno S...........................................................112Saba U...................................................................46Scalarini...............................................................103Schoenberg..........................................................116Selva G............................................................53, 54Shakespeare.........................................................110Siciliano M. F..............................................116, 117Sieyès (abate).........................................................82Spinella..................................................................28Stalin............................................................118, 119Strona D...............................................................106Svevo I.......................................................46, 47, 48Togni C..................................................44, 116, 117Trebeschi A.....................................................59, 60Trotzki.........................................................118, 119Turoldo (padre)....................................................112Valpreda........................................................74, 110Ventura..................................................................66Zinoviev...............................................................119Zweig S..................................................................97

122