RELAZIONE INERENTE LA LEZIONE DI DIRITTO PENALE · valevoli indistintamente per qualsivoglia tipo...

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1 DIRITTO PENALE - CORSO DI PRIMO LIVELLO - AVV. FLORIA CARUCCI INTRODUZIONE La normativa del diritto penale sostanziale vigente è contenuta sia nel codice penale sia in alcune leggi speciali che disciplinano singole materie la cui regolamentazione non è contenuta nel codice penale. Il codice penale è suddiviso in una parte generale (nella quale sono disciplinati i principi appunto generali, in quanto tali valevoli indistintamente per qualsivoglia tipo di reato) ed una parte speciale nella quale trovano, invece, puntuale regolamentazione le singole ipotesi di reato previste dal vigente ordinamento penale sostanziale. Nella parte generale, il codice penale prevede e disciplina preliminarmente la fondamentale distinzione tra: 1. l’elemento oggettivo del reato, vale a dire l’insieme di tutti i fatti materiali che devono concorrere insieme perché possa dirsi realizzata la fattispecie materiale tipica di reato; 2. l’elemento soggettivo del reato, che attiene invece allo stato psicologico nel quale versava il soggetto al momento di commettere un fatto previsto dalla legge come reato. Le questioni relative ai principi generali di diritto penale comportano, inoltre, l’esame della disciplina: a) delle circostanze del reato, b) del delitto tentato, c) del concorso oggettivo e soggettivo nel reato. Infine, per doverosa completezza dell’argomento trattato, sarà quindi necessario esaminare la posizione e le questioni sia sostanziali sia procedurali relative alla persona offesa dal reato, unitamente agli strumenti di tutela e garanzia alla stessa riconosciuti dall’ordinamento penal-processuale vigente. Ritenuto, inoltre, che sulle caratteristiche generali della responsabilità penale dell’amministratore condominiale non si rilevano particolari differenze rispetto alla ordinaria disciplina codicistica di parte speciale genericamente dettata dal legislatore, l’esame dei reati comuni dell’amministratore riguarderà, per evidenti ragioni di opportunità, non tutte le ipotesi di delitti e contravvenzioni regolate dalla normativa vigente ma soltanto quelle

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DIRITTO PENALE - CORSO DI PRIMO LIVELLO -

AVV. FLORIA CARUCCI

INTRODUZIONE

La normativa del diritto penale sostanziale vigente è contenuta

sia nel codice penale sia in alcune leggi speciali che disciplinano singole materie la cui regolamentazione non è contenuta nel codice penale.

Il codice penale è suddiviso in una parte generale (nella quale sono disciplinati i principi – appunto – generali, in quanto tali

valevoli indistintamente per qualsivoglia tipo di reato) ed una parte speciale nella quale trovano, invece, puntuale regolamentazione le singole ipotesi di reato previste dal vigente ordinamento penale

sostanziale. Nella parte generale, il codice penale prevede e disciplina –

preliminarmente – la fondamentale distinzione tra: 1. l’elemento oggettivo del reato, vale a dire l’insieme di

tutti i fatti materiali che devono concorrere insieme

perché possa dirsi realizzata la fattispecie materiale tipica di reato;

2. l’elemento soggettivo del reato, che attiene – invece –

allo stato psicologico nel quale versava il soggetto al momento di commettere un fatto previsto dalla legge

come reato. Le questioni relative ai principi generali di diritto penale

comportano, inoltre, l’esame della disciplina:

a) delle circostanze del reato, b) del delitto tentato,

c) del concorso oggettivo e soggettivo nel reato. Infine, per doverosa completezza dell’argomento trattato, sarà

– quindi – necessario esaminare la posizione e le questioni sia

sostanziali sia procedurali relative alla persona offesa dal reato, unitamente agli strumenti di tutela e garanzia alla stessa riconosciuti dall’ordinamento penal-processuale vigente.

Ritenuto, inoltre, che sulle caratteristiche generali della responsabilità penale dell’amministratore condominiale non si

rilevano particolari differenze rispetto alla ordinaria disciplina codicistica di parte speciale genericamente dettata dal legislatore, l’esame dei reati comuni dell’amministratore riguarderà, per

evidenti ragioni di opportunità, non tutte le ipotesi di delitti e contravvenzioni regolate dalla normativa vigente ma soltanto quelle

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ritenute, a sommesso parere di chi scrive, maggiormente attinenti la specifica attività professionale.

PARTE I

1. I PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO PENALE ITALIANO

Come già anticipato, i principi fondamentali dell’ordinamento penale italiano sono contenuti sia nel codice penale sia in alcune leggi speciali di diritto penale che regolano particolari ipotesi di

reato. Corollario necessario ai principi che informano l’ordinamento penale sostanziale vigente – sia di parte generale sia di parte speciale – sono, poi, le disposizioni contenute nel codice di

procedura penale, che regola e stabilisce le modalità di svolgimento del procedimento e del processo nel sistema penale nazionale.

La figura dell’amministratore di condominio non rappresenta, per l’ordinamento penale sostanziale italiano, un soggetto destinatario di particolari norme ovvero di specifica disciplina, non

rilevandosi alcuna differenza rispetto alla normativa di parte speciale dettata dal legislatore in via generale e risultando –

conseguentemente – applicabili alla menzionata figura professionale le disposizioni ordinarie attualmente vigenti, indistintamente riferibili a qualunque soggetto presente sul

territorio nazionale, salvo la previsione di alcuni reati specificamente attribuiti allo stesso da leggi speciali.

IL SOGGETTO ATTIVO DEL REATO Alla luce di quanto sopra sinteticamente esposto, pare

opportuno precisare come nell’attuale sistema penale venga distintamente prevista e regolata la figura:

1. del soggetto attivo del reato (il reo);

2. della persona offesa dal reato (la vittima). E’ chiaro che l’amministratore di condominio, tanto nella sua

vita privata e personale quanto nell’esercizio della sua professione, può indistintamente assumere, come qualunque altra persona, l’una o l’altra veste.

Il soggetto attivo o autore dell’illecito penale è colui che pone in essere un fatto previsto dalla legge come reato, tanto che si tratti di

una persona fisica sia che si tratti di una persona giuridica, intendendosi per reato quel “comportamento umano che, a giudizio del legislatore, contrasta coi fini dello Stato ed esige come sanzione una pena”1.

Assunto, infatti, come condivisibile il concetto secondo il quale

il reato è violazione di un comando imposto dallo Stato, non risulta essere concepibile un reato che non sia commesso da colui che

1 F. ANTOLISEI, “Manuale di diritto penale. Parte generale. Milano, Giuffrè Ed., 1991, pag. 152

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viene indicato come soggetto attivo del reato e che il codice frequentemente individua come “reo”.

L’ELEMENTO OGGETTIVO DEL REATO: a) LA CONDOTTA

Affinché possa dirsi realizzata un’azione intesa dalla legge

come reato, è necessario che risultino soddisfatti alcuni requisiti previsti dalla legislazione ai fini della realizzazione della fattispecie

tipica di reato. Come già anticipato, tali requisiti sono rappresentati.

1. dall’elemento oggettivo del reato, inteso come

l’insieme di tutti quegli aspetti esterni e “materiali” del fatto illecito;

2. dall’elemento soggettivo del reato, attinente,

invece, alla sfera psichica del soggetto agente. Mancando anche uno soltanto di questi elementi, il reato non

può dirsi “perfetto” e, dunque, realizzato ovvero consumato. L’elemento materiale del reato, a sua volta, viene poi

suddiviso in diversi elementi la cui completa e totale ricorrenza

appare necessaria ai fini della sussistenza del reato sotto l’aspetto tipicamente oggettivo.

Tali elementi sono, come già anticipato: 1. la condotta, 2. l’evento,

3. il nesso causale tra la condotta e l’evento di reato. Il primo e fondamentale requisito dell’illecito penale, analizzato

sotto l’aspetto squisitamente oggettivo, è la condotta che può

consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione. Sono reati di azione quelli che si concretizzano in una serie

consequenziale di atti contestualmente collegati tra loro, posti in essere al fine di raggiungere un certo fine consapevole (come, a titolo di mero esempio, il delitto di furto, previsto, regolato e punito

all’art. 624 c.p.) mentre – invece – sono reati di omissione o reati omissivi quelli che si pongono in essere con una condotta omissiva (come, ad esempio, il delitto di omissione di soccorso,

disciplinato all’art. 593 c.p.) ovvero – ancora – i reati a condotta mista nei quali ricorrono sia un’azione sia un’omissione (come, ad

esempio, il reato di insolvenza fraudolenta regolato dall’art. 641 c.p.).

Chiaramente, non tutte le condotte omissive sono considerate

come giuridicamente rilevanti ai fini penali, venendo – invece – in considerazione soltanto quelle omissioni che consistono nel

mancato compimento di un’azione giuridicamente dovuta perché prescritta dall’ordinamento vigente.

In assenza di prescrizione giuridica impositiva della condotta

poi in concreto omessa può, infatti, parlarsi di mera connivenza che, sebbene biasimabile sotto l’aspetto civico e sociale, non rileva ai fini della sussistenza del reato.

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Non ogni forma di connivenza o di passiva assistenza rappresenta, infatti, per la legge penale una forma di azione

omissiva punibile, consistendo i reati omissivi esclusivamente nel mancato compimento di un’azione possibile che il soggetto aveva il dovere giuridico di compiere. Proprio la doverosità converte l’inerzia

in omissione. 1.2.1. segue: b) L’EVENTO

Altro elemento necessario ed indefettibile ai fini della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato è il c.d. evento, vale a

dire il “risultato dell’azione o dell’omissione”, penalmente rilevante soltanto nell’ipotesi in cui dalla condotta materiale posta in essere dal soggetto agente derivi, come conseguenza, un evento

costituente offesa o violazione dell’interesse giuridico protetto dalla norma penale che si assume essere stata violata con il proprio

comportamento. 1.2.2. segue: c) IL NESSO DI CAUSALITA’

Ultimo e fondamentale requisito necessario ai fini della sussistenza del reato sotto l’aspetto oggettivo è il nesso di

causalità, vale a dire quel necessario collegamento che deve

immancabilmente sussistere tra il comportamento del soggetto agente e l’evento di reato verificatosi.

L’art. 40 c.p. stabilisce, infatti, “che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza della sua azione o omissione”.

Tale principio assume, poi, ulteriore fondamentale importanza

ove si assuma che l’art. 27, primo comma Cost. sancisce che “La responsabilità penale è personale”, così escludendo – innanzitutto –

che possa mai sussistere una responsabilità penale per fatto altrui e innalzando a principio costituzionale la sussistenza della sola responsabilità penale per fatto proprio, che postula in primo luogo

il nesso di causalità tra la condotta e l’evento di reato. Attualmente, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono

orientate nel ritenere che l’azione è causa dell’evento quando, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, l’evento è conseguenza certa o altamente probabile dell’azione (cd.

teoria scientifica). Il rapporto di causalità è – dunque – escluso, con conseguente

venir meno anche della responsabilità penale, da alcune specifiche cause di esclusione della colpevolezza che sono il caso fortuito e la forza maggiore.

L’art. 45 c.p. prevede espressamente, infatti, che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore”,

così lasciando intendere mediante l’utilizzo dell’espressione “commettere” l’esistenza e ricorrenza di un nesso causale tra la

condotta e l’evento di reato.

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Concettualmente, il caso fortuito e la forza maggiore stanno ad indicare un insieme di avvenimenti obiettivamente ritenuti

conseguenza non probabile o addirittura non possibile di quel tipo di condotta umana. Il caso fortuito abbraccia tutti quei fattori causali, non solo sopravvenuti ma anche preesistenti o

concomitanti, che hanno reso eccezionalmente possibile il verificarsi di un evento che si presenta come conseguenza del tutto improbabile secondo la migliore scienza ed esperienza.

La forza maggiore si identifica, invece, in tutte quelle forze naturali esterne al soggetto che lo determinano, pur esse

scientificamente improbabili (esempio tipico è l’uccisione di un passante da parte di un operaio precipitato da un’impalcatura per una improvvisa tromba d’aria).

In entrambi i casi si verifica, dunque, una esclusione del rapporto di causalità tra condotta ed evento con conseguente esclusione anche della colpevolezza, quale riflesso soggettivo del

fatto che l’agente non poteva prevedere come probabile ciò che tale non era neppure per la migliore scienza ed esperienza.

Il nesso di causalità assume aspetti particolari e specifici in relazione alle ipotesi di reato omissivo, espressamente statuendo sul punto l’art. 40 c.p. che “Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, ritenuto che, per poter equiparare il “non impedire” al “cagionare”, l’ordinamento

penale italiano prevede la necessaria sussistenza in capo al soggetto dell’obbligo di impedire l’evento, c.d. obbligo di garanzia.

Per obbligo di garanzia deve intendersi l’obbligo giuridico – gravante su determinate e specifiche categorie, preliminarmente individuate, di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri

giuridici – di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei legittimi titolari di adeguatamente

proteggerli.

IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ DEL DIRITTO PENALE

ITALIANO: L’OGGETTO GIURIDICO E L’OFFESA L’ordinamento penale italiano si fonda, tra l’altro, sul c.d.

principio di offensività, secondo il quale non può sussistere alcuna

condotta penalmente rilevante se non risulta offeso – o, quanto meno pregiudicato – il bene giuridico protetto dalla norma

asseritamente violata, vale a dire l’interesse giuridico che il legislatore mirava a tutelare mediante la proibizione di un determinato comportamento e che può consistere sia in un bene

costituzionalmente rilevante sia in beni ricavabili dal contemporaneo contesto socio-culturale e costituzionalmente

compatibili.

L’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO

Come più volte sottolineato nel corso del presente elaborato, ai fini della sussistenza di un reato, è necessario che ricorrano tutti

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gli elementi previsti dalla legge ai fini della configurabilità dell’elemento oggettivo del reato, senza poter prescindere – però –

dall’accertamento circa la sussistenza anche dell’elemento soggettivo o psicologico del reato medesimo.

L’art. 42, primo comma c.p. stabilisce, infatti, che “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”, come a

volere sottolineare che la condotta umana, prima ancora che dolosa o colposa, deve essere innanzitutto cosciente e rientrare – quindi – nella sfera di volontà del soggetto agente così da

differenziarsi sia dagli accadimenti naturali sia dalle inerzie meramente meccaniche.

La responsabilità penale presuppone, dunque, la coscienza e la volontà della condotta e tale principio non ammette eccezione alcuna nel nostro ordinamento non potendo sussistere né dolo né

colpa senza la coscienza e la volontà del comportamento, intendendosi per tali tutte le condotte attribuibili alla volontà del soggetto agente, che prendono origine da un impulso cosciente, o

anche dall’inerzia del volere, ma che con uno sforzo della volontà avrebbero potuto essere impedite.

1.4.1. IL DOLO.

Dal combinato disposto degli artt. 42 e 43 c.p. appare

possibile dedurre ed affermare come il dolo rappresenti l’aspetto originario, primario e fondamentale dell’elemento soggettivo del

reato, stabilendo l’art. 42, secondo comma c.p. che “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge” fornendo – poi – al successivo art. 43, primo comma c.p. una importante definizione

secondo la quale “Il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto è

dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.

Pare, innanzitutto, importante evidenziare come l’art. 43 c.p. faccia riferimento, non già al reato, ma al delitto così da porre una

netta distinzione in ordine all’elemento psicologico tra delitti e contravvenzioni.

L’ordinamento penale vigente, infatti, distingue i reati in

delitti e contravvenzioni che si differenziano tra loro per disciplina, in ordine alle pene da applicare – sia principali sia accessorie – in ordine all’elemento psicologico, all’applicabilità

dell’istituto del tentativo, della dichiarazione di abitualità e professionalità a delinquere, per la prescrizione, l’oblazione ecc.

Il dolo consiste, dunque, nella rappresentazione da parte del soggetto agente della fattispecie materiale tipica di reato – vale a dire del fatto previsto dalla legge penale come reato – e nella

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contestuale volontà di porre in essere proprio quella condotta vietata dalla norma così da perseguire l’evento che la legge mira ad

evitare per tutelare il bene giuridico protetto dall’ordinamento. Il dolo esige, dunque, che tanto la condotta quanto l’evento

siano voluti, consistendo – come già chiarito – nella

rappresentazione del fatto e nella volontà dell’evento ovvero accettazione del rischio della causazione dell’evento.

Il dolo si distingue, innanzitutto, in:

a) dolo intenzionale o diretto, che si ha quando la volontà ha direttamente di mira l’evento tipico ed è diretta alla

realizzazione del medesimo; b) dolo eventuale o indiretto, che si ha quando la volontà

non si dirige direttamente verso l’evento, ma l’agente lo

accetta come conseguenza eventuale, “accessoria” alla propria condotta.

Appare evidente come l’evento di reato possa dirsi accettato in

entrambe le ipotesi ma, mentre nel dolo diretto il soggetto agente si rappresenta e vuole proprio l’evento materiale tipico di reato, nel

dolo eventuale il soggetto attivo si rappresenta la probabilità che l’evento di reato possa realizzarsi e, nel dubbio, accetta comunque tale eventualità, ovvero accetta il rischio2, e si determina ad agire.

Un’altra importante distinzione in ordine al concetto di dolo è costituita dalla differenza tra dolo generico e dolo specifico:

a) il dolo generico è proprio della maggior parte dei reati e consiste nella semplice coscienza e volontà del fatto materiale, essendo indifferente ai fini della sussistenza del

reato il fine per il quale si agisce; b) il dolo specifico, invece, sussiste nell’ipotesi in cui sia la

stessa legge ad esigere, oltre alla coscienza e volontà della condotta, anche che il soggetto agisca al fine di perseguire e raggiungere un fine determinato e specifico che è,

appunto, previsto come elemento soggettivo costitutivo della fattispecie legale.

1.4.2. LA COLPA La colpa rappresenta, rispetto al dolo, una forma più lieve di

colpevolezza, definita – secondo il disposto normativo contenuto all’art. 43 c.p. – nei seguenti termini: “Il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Gli elementi caratterizzanti la colpa sono, quindi:

1. la assoluta mancanza di volontà del fatto materiale tipico di reato;

2 F. MANTOVANI, Diritto Penale, CEDAM, Milano, 2001, pag. 325

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2. l’inosservanza di regole di condotte dirette a prevenire danni ai beni giuridici;

3. la attribuibilità di tale inosservanza all’agente, dovendo avere egli la capacità di adeguarsi a tali regole e potendosi, pertanto, esigerne da lui la osservanza.

La colpa, penalmente rilevante ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, consiste – quindi – nella assoluta mancanza di volontà in capo al soggetto agente del fatto materiale

tipico di reato che comunque viene a realizzarsi, però, a causa di una condotta imperita, negligente o imprudente in capo al soggetto

attivo ovvero, ancora, per mancata osservanza – in capo allo stesso – di leggi, regolamenti, ordini e discipline.

La colpa viene generalmente distinta tra:

a) colpa incosciente, quando l’evento non è voluto e neanche previsto dall’agente;

b) colpa cosciente, che si ha – invece – quando l’evento, pur

non essendo voluto, è tuttavia previsto dall’agente come conseguenza concretamente possibile dell’inosservanza

della regola cautelare. Come nel dolo eventuale, anche nella colpa cosciente il soggetto si rappresenta la possibilità del verificarsi dell’evento. Ma, mentre nel primo

caso egli permane nella convinzione o anche soltanto nel dubbio che l’evento possa verificarsi – e, ciononostante,

agisce accettando il rischio – nella colpa cosciente il soggetto ha il preciso convincimento che l’evento di reato non si verificherà avendone escluso la realizzazione.

L’imprudenza è propriamente l’avventatezza, l’insufficiente ponderazione.

La negligenza esprime, invece, un atteggiamento psichico

alquanto diverso: si tratta della trascuratezza, della mancanza o deficienza di attenzione oppure di sollecitudine.

Per quanto concerne l’imperizia è generalmente riconosciuto che, per potersi parlare di responsabilità colposa, non basta la semplice deficienza di abilità professionale: occorre una

insufficiente preparazione o una inettitudine di cui l’agente, pur essendo consapevole, non abbia voluto tener conto.

La colpa, al pari del dolo, è un atteggiamento antidoveroso e, quindi, riprovevole della volontà, poiché il soggetto – che aveva la possibilità e il dovere di essere cauto ed attento – ha, invece, agito

con leggerezza. Proprio siffatto modo di comportarsi giustifica la punizione del reato colposo.

Un’altra importante distinzione in ordine al concetto di colpa è

quella che pone l’accento sulle fonti delle regole cautelari indicando come:

a) colpa generica, quella legata alla mancata osservanza di regole di condotta non scritte, quali sono – appunto – le regole sociali di diligenza (che prescrivono di tenere una

determinata condotta positiva), di prudenza (che vietano

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certe azioni o modalità di esse) e di perizia (che prescrivono l’osservanza di particolari regole tecniche per

lo svolgimento di determinate attività); b) colpa specifica, quella legata all’inosservanza di regole di

condotte scritte, vale a dire cristallizzate in leggi, penali o

extrapenali, in regolamenti (vale a dire in atti amministrativi normativi generali), in discipline (atti normativi, diversi dai suddetti ed emanati dalla autorità

pubblica o privata), in ordini (contenenti regole individuali poste dall’autorità pubblica o privata).

Altra importante distinzione può essere costituita dalla differenza posta tra:

a) colpa comune, che riguarda le attività pericolose non

giuridicamente autorizzate; b) colpa speciale (o professionale: medica, sportiva,

stradale, ecc,), che riguarda attività rischiose ma

giuridicamente autorizzate perché socialmente utili, se ed in quanto mantenute nei limiti segnati da regole cautelari

(le c.d. leges artis) scritte o non scritte, che prescrivono non l’astensione dall’attività ma l’esercizio della stessa in

presenza di determinati presupposti o secondo certe modalità, allo scopo di prevenire non il “rischio consentito”, perché insito nella stessa attività autorizzata,

ma un ulteriore rischio non più consentito (il c.d. “aumento del rischio” o “superamento del rischio consentito”).

1.4.3. LA PRETERINTENZIONE

L’art. 43 c.p. sembra prevedere tra il dolo e la colpa una terza forma di colpevolezza c.d. “oltre l’intenzione”: la preterintenzione.

La menzionata disposizione normativa sancisce, infatti, che “Il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di

quello voluto dall’agente”. La struttura del delitto preterintenzionale consiste nella

rappresentazione e volontà in capo al soggetto di un evento di reato meno grave rispetto a quello che poi – in concreto – viene a

realizzarsi nella realtà dei fatti, il cui evento non è voluto dall’agente neanche a titolo di dolo eventuale ma che è pur sempre conseguenza della condotta posta in essere dal soggetto agente.

La preterizione può, quindi, essere considerata come dolo misto a colpa generica e in concreto, nel quale il dolo si riferisce alla condotta prevista e voluta dal soggetto agente e la colpa

attiene, invece, all’evento di reato più grave che in concreto si realizza.

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1.4.4. L’ELEMENTO PSICOLOGICO DELLE CONTRAVVENZIONI

L’ordinamento penale vigente ha riservato all’elemento psicologico della contravvenzione una particolare disciplina, stabilendo l’art. 42, quarto comma c.p. che “Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”, precisando – ancora –

all’ultimo comma del successivo art. 43 c.p. come “La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per

queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un qualunque effetto giuridico”.

Pare, innanzitutto, doveroso sottolineare come ai fini della configurabilità del reato contravvenzionale, la legge vigente preveda

quale elemento soggettivo del reato la sussistenza del dolo o della colpa, potendo indifferentemente esserci il dolo o la colpa, ma essendo pur sempre necessaria quantomeno la colpa.

Nelle contravvenzioni, così come nei delitti, l’accertamento circa la ricorribilità del dolo o della colpa assume una particolare rilevanza in ordine a molteplici questioni, prima fra tutte il tipo e la

quantificazione dell’eventuale pena da infliggere in concreto al responsabile del reato.

Ai sensi dell’art. 133 c.p., infatti, il giudice deve tenero conto della intensità del dolo e del grado della colpa e le contravvenzioni dolose debbono necessariamente essere punite più gravemente di

quelle colpose. Peraltro, l’accertamento del dolo o della colpa è essenziale per

la stessa punibilità del fatto rispetto a quelle ipotesi di

contravvenzioni che, per la loro intrinseca natura o per la tecnica di formulazione legislativa, possono essere soltanto dolose oppure

soltanto colpose.

LE CIRCOSTANZE DEL REATO

Il reato può assumere aspetti particolari che, se pur non essenziali alla sua esistenza e sussistenza, danno luogo a delle

conseguenze giuridicamente rilevanti e diverse. Le circostanze sono, infatti, elementi accidentali ed accessori

al reato, in quanto tali non necessari ai fini della configurabilità

dell’ipotesi criminosa ma incidenti sulla sua gravità ed idonei a rilevare quali indicatori della capacità a delinquere del soggetto, comportando – di conseguenza – una modificazione quantitativa o

qualitativa della pena, trasformando un reato semplice in un reato circostanziato, sia esso aggravato sia esso attenuato.

La concreta applicazione delle circostanze del reato assume aspetti di particolare ed imprescindibile importanza in ordine, soprattutto, alla rilevanza edittale della pena e – conseguentemente

– al periodo necessario per la prescrizione del reato, alle condizioni

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di procedibilità, alla competenza e, infine, in merito alla possibile applicabilità o meno delle misure cautelari personali e dell’arresto.

Le circostanze del reato si distinguono in: a) circostanze comuni e circostanze speciali, a seconda

che siano previste per un numero indeterminato di reati,

cioè per tutti i reati con cui non siano incompatibili, oppure per uno o più reati determinati;

b) circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, a

seconda che comportino un inasprimento ovvero una attenuazione della pena prevista per il reato semplice;

c) circostanze ad efficacia comune e circostanze ad efficacia speciale, a seconda che la legge stabilisca la variazione della pena in misura frazionaria fino ad un

terzo della pena semplice oppure stabilisca una pena di specie diversa (come ad esempio in tema di omicidio l’art. 577 c.p.) o ne determini la misura in modo indipendente

da quella ordinaria del reato, cioè entro una nuova cornice edittale o in modo frazionario superiore ad un

terzo; Le circostanze aggravanti comuni sono disciplinate all’art.

61 c.p. e sono: 1. “L’avere agito per motivi abietti o futili”, intendendo

per motivo abietto quello turpe, spregevole, che rivela nel

soggetto agente un tale grado di perversità da suscitare, secondo il comune sentimento, un senso di ripugnanza. Si tratta di una aggravante comune soggettiva;

2. “L’avere commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il profitto o il prezzo ovvero

l’impunità di un altro reato”, che rappresentano le tre

ipotesi di connessione teleologica o consequenziale dei

reati. Per la sussistenza di tale aggravante, anch’essa soggettiva, è sufficiente che il soggetto agente commetta il reato per uno dei fini indicati dalla norma, anche se non

pone in essere il reato-fine o non consegue lo scopo prefissatosi;

3. “L’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento”. Tale circostanza aggravante

comune rappresenta un’altra ipotesi di circostanza

soggettiva che trova applicazione – però – ai soli delitti e non già alle contravvenzioni e che riguarda la c.d. colpa cosciente – le cui caratteristiche sono già stata sopra meglio affrontate3;

3 Sul punto, Cassazione Penale, sentenza del 08.03.1968, in Giust. Pen., 1968, II, 722; Cassazione Penale, sentenza del

17.11.1970, ivi, 1970, II, 893; Cassazione Penale, sentenza 21.01.1981, ivi, 1981, II, 634; Cassazione Penale, sentenza

del 06.03.1984, in Riv. Pen., 1985, 1074.

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4. “L’avere adoperato sevizie, o l’avere agito con crudeltà verso le persone”, intendendo per sevizia

l’inflizione di una sofferenza atroce di natura fisica e per crudeltà la inflizione di un patimento morale che rivela la assoluta mancanza di umanità. Si tratta, ancora una

volta, di una circostanza soggettiva; 5. “L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o

di persona tali da ostacolare la pubblica o la privata

difesa”, generalmente considerata come una circostanza

oggettiva, tenuto conto del fatto che basta che il soggetto

abbia tratto obiettivamente vantaggio dalla particolare situazione anche senza conoscerla ma purché conoscibile;

6. “L’avere il colpevole commesso il reato durante il

tempo in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un

precedente reato”. Si tratta di una circostanza

soggettiva, concernente le condizioni o qualità personali

del colpevole, la cui ratio va individuata nella maggiore ribellione posta in essere dall’agente all’ordine precostituito;

7. “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti

determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità”, rilevando come trattati di una

circostanza oggettiva applicabile – peraltro – soltanto ad alcuni tipi di delitti e giammai a contravvenzioni;

8. “L’avere aggravato o tentato di aggravare le

conseguenze del delitto commesso”. Tale circostanza,

di natura soggettiva, ricorre quanto l’agente, con una

condotta posteriore alla consumazione del delitto ne aggrava o cerca di aggravarne gli effetti dannosi”;

9. “L’avere commesso il fatto con abuso dei poteri o con

violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, ovvero alla

qualità di ministro di un culto”. Tale circostanza, di

natura soggettiva, richiede il possesso in capo all’agente di specifiche qualifiche oltre all’abuso dei poteri o la

violazione dei doveri; 10. “L’avere commesso il fatto contro un Pubblico

Ufficiale o una persona incaricata di un pubblico

servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato,

ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa delle funzioni o del servizio”. Questa circostanza di natura oggettiva

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appresta una tutela rafforzata a taluni soggetti in considerazione dello specifico ruolo svolto;

11. “L’avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazione domestiche, ovvero con abuso di relazione di ufficio, di prestazione d’opera, di

coabitazione o di ospitalità”. Aggravante di natura

soggettiva, tale circostanza concerne casi non rientranti nell’ipotesi di cui all’art. 61, n. 9 c.p. Benché il più delle

volte possa ravvisarsi anche un abuso di fiducia, il rapporto fiduciario non è però necessario e non si deve, di

conseguenza, provarne l’esistenza. L’abuso di autorità (intesa in senso privatistico poiché diversamente ricorrerebbe la circostanza di cui al n. 9) si ha quando

l’agente approfitta di una situazione giuridica di preminenza rispetto al soggetto passivo per commettere il reato. La relazione domestica si ha tra gli appartenenti ad

un unico nucleo famigliare, anche se non legati da vincoli di parentela e non vi è coabitazione (come ad esempio la

collaboratrice domestica). Si ha relazione di coabitazione allorché più persone fruiscano dello stesso spazio abitativo con una certa continuità. Si ha relazione di

ospitalità allorché vi è una convivenza, anche momentanea ed occasionale del soggetto agente con altri

soggetti da cui è ricevuto e nel cui domicilio può, anche temporaneamente o di fatto, lecitamente trattenersi. La relazione di ufficio sussiste, invece, nel caso in cui

soggetti diversi svolgano un ufficio pubblico o privato nello stesso luogo. La relazione di prestazione d’opera consiste nei rapporti che sorgono dalla prestazione

attuale di un lavoro o servizio di qualsiasi genere. Le circostanze attenuanti comuni, di cui alcune aventi

carattere spiccatamente speculare rispetto alle circostanze aggravanti comuni, sono regolate dall’art. 62 c.p. e sono:

1. “L’avere agito per motivi di particolare valore morale

o sociale”. Ai fini della applicabilità di tale circostanza

soggettiva sembra opportuno chiarire come valore morale

si intenda il motivo meritevole di particolare approvazione secondo la coscienza etica umana. Diversamente, per valore sociale quello che è valutato favorevolmente

secondo le concezioni e le finalità della comunità sociale organizzata;

2. “L’avere reagito in stato d’ira, determinato da un

fatto ingiusto altrui”. Tale circostanza soggettiva viene

generalmente indicata come “provocazione”, consistente in

uno stato d’ira che determina, per sua natura, un reato di impeto avulso da ogni premeditazione o antecedente programmazione;

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3. “L’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratti di riunioni o

assembramenti vietati dalla legge o dalla Autorità e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale, o professionale, o delinquente per

tendenza”. Si tratta, anche in questo caso, di una

circostanza di natura soggettiva che trova la sua giustificazione nella minore resistenza psichica che si

determina nell’agente per l’influenza nel suo animo di fattori esterni contagianti, rappresentati dallo stato di

eccitamento della folla tumultuante; 4. “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che

comunque, offendono il patrimonio, cagionato alla

persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinai da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire o l’avere

comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di

speciale tenuità”. Si tratta di una circostanza oggettiva

applicabile esclusivamente ad alcuni specifici tipi di delitti e giammai alle contravvenzioni;

5. “L’essere concorso a determinare l’evento insieme con l’azione o l’omissione del colpevole il fatto doloso

delle persona offesa”. Si tratta di una circostanza

oggettiva riferibile ad ipotesi di reato nelle quali la condotta posta in essere dalla persona offesa ovvero il

consenso dalla stessa prestato rappresentano un elemento costitutivo del reato stesso;

6. “L’avere, prima del giudizio, riparato intermente al

danno, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi

prima del giudizio e fuori dal caso preveduto dall’ultimo capoverso dell’art. 56 c.p. adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o

attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”. Tale circostanza oggettiva rappresenta un tipico

istituto di diritto c.d. premiale. Le circostanze attenuanti generiche sono regolate all’art. 62

bis c.p. a norma del quale “Il Giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’art. 62 c.p. può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell’applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate al precedente arti. 62 c.p.

Ai fini dell’applicazione del primo comma no si tiene conto dei criteri di cui all’art. 133, primo comma, n. 3) e secondo comma, nei casi previsti dall’art. 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti

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dall’art. 407, secondo comma, lettera a), del codice di procedura penale, nel caso in cui siano puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni”.

Si tratta di circostanze in senso tecnico a tutti gli effetti (diminuzioni subedittali della pena, bilanciamento, estensibilità ai

concorrenti, computo ai fini della prescrizione) e della più ampia ipotesi di circostanza indefinita, essendo le circostanze attenuanti

generiche comuni ed applicabili indistintamente a tutti i reati.

IL DELITTO TENTATO

L’istituto giuridico del delitto tentato è previsto e regolato all’art. 56 c.p. a norma del quale “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.

Il colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi.

Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.

Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”.

Ritenuto che il reato penalmente rilevante consta, ad ogni buon conto, di una condotta umana, sembra possibile poter

suddivere questa condotta in un iter che, passando attraverso fasi diverse e progressive, giunge fino al perfezionamento della condotta materiale tipica di reato.

Il tentativo punibile e, quindi, penalmente rilevante è soltanto quello consistente nell’attivarsi al fine di commettere un reato,

senza però riuscire in tale proposito criminoso per cause impeditive assolutamente estranee, indipendenti ed esterne alla volontà dell’agente.

Come ogni altra ipotesi di reato, il delitto tentato è costituito da un elemento oggettivo e da un elemento soggettivo.

Per quanto attiene l’elemento soggettivo, il delitto tentato è di tipo doloso non soltanto perché il concetto stesso di “tentare” è del tutto incompatibile con l’ipotesi del delitto colposo, ma anche sulla

scorta del principio contenuto all’art. 42, secondo comma c.p., mancando nell’ordinamento vigente una espressa previsione di

delitto colposo tentato. Sotto il profilo oggettivo, il delitto tentato è costituito da:

a) un elemento negativo, consistente nel mancato

compimento della azione o nel non verificarsi dell’evento. Indicando alternativamente queste due ipotesi, il legislatore ha voluto significare che si ha delitto tentato

sia nel caso in cui il soggetto abbia posto in essere l’intera condotta che avrebbe potuto produrre l’evento sia nel

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caso in abbia soltanto iniziato, ossia realizzato solo in parte, ma non portato a termine, l’attività diretta –

secondo il suo concreto piano criminoso – a commettere il delitto. Tale mancata perfezione del delitto deve essere imputabile

a fattori impeditivi estranei alla condotta, vale a dire a cause esterne, diverse ed estranee al mutato proposito dell’agente o all’erronea convinzione di avere già

perfezionato il reato. Il tentativo si perfeziona non appena compiuto quel minimum necessario e sufficiente di atti

idonei ed univoci e si consuma nel momento in cui viene meno la possibilità del compimento dell’azione o del verificarsi dell’evento (e, quindi, anche della desistenza e

del recesso); b) un elemento positivo, consistente nel duplice requisito

della idoneità degli atti e della univoca direzione degli stessi. La idoneità degli atti è il requisito primo per la pericolosità del tentativo, intendendo per tali gli atti che si

presentano adeguati alla realizzazione del delitto perfetto, in quanto potenzialmente idonei a causarne o favorirne la

verificazione. La univocità degli atti è, poi, l’ulteriore requisito limitativo avente la funzione di assicurare il concreto pericolo di

realizzazione del delitto e, quindi, di riportare il tentativo punibile entro limiti ragionevoli, intendendo per “univocità di direzione degli atti” la loro attitudine a fondare un giudizio probabilistico sulla realizzazione del delitto perfetto e, quindi, anche sulla verosimile intenzione

dell’agente di portare a termine il proprio proposito criminoso.

Tali elementi devono, comprensibilmente, essere valutati con un giudizio ex ante, ponendosi cioè al momento in cui il soggetto agente ha iniziato la propria condotta, valutando tutte le

circostanze realmente esistenti nel singolo caso concreto.

L’UNITA’ E LA PLURALITA’ DI REATI Si ha concorso di reati quando un individuo vìola più volte la

legge penale e, conseguentemente, viene chiamato a rispondere

contemporaneamente di più reati. Il concorso di reati può essere sia un concorso formale sia un

concorso materiale.

Nel caso di concorso materiale, l’agente pone in essere più reati con una pluralità di azioni o di omissioni. Il concorso

materiale può, peraltro, essere omogeneo – se viene violata più volte la medesima norma penale – ovvero eterogeneo – se vengono violate norme diverse.

In ordine al criterio scelto dal legislatore per l’applicazione della sanzione da irrogare in concreto in caso di concorso materiale

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di reati, è previsto il c.d. cumulo materiale temperato, consistente nel cumulo materiale delle pene al quale, però, sono apportati

temperamenti consistenti nell’impossibilità di superare un limite massimo di pena preventivamente fissato.

Diversamente, nell’ipotesi di concorso formale (sia esso

omogeneo sia eterogeneo), il soggetto realizza una pluralità di reati (dolosi, colposi o dolosi e colposi) con una sola azione od omissione

che, da un punto di vista sanzionatorio, viene regolata dal principio del c.d. cumulo giuridico stante la previsione di cui all’art. 81, primo comma c.p. a norma del quale “E’ punito con la pena che

dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione”.

Diverso è, invece, il concetto di reato continuato, previsto e disciplinato all’art. 81, secondo e terzo comma c.p. secondo il quale “Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa norma o di diverse disposizioni di legge.

Nei casi preveduti da questo articolo, la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti”, così considerando le distinte violazioni di legge come

un unico reato. Tre sono, dunque, i requisiti del reato continuato:

1. il medesimo disegno criminoso, che rappresenta il coefficiente psicologico capace di unire episodi criminosi distinti e che sostanzia l’elemento di distinzione tra il

reato continuato ed il concorso di reati. Affinché possa ragionevolmente parlarsi di medesimo disegno criminoso è necessaria e sufficiente la iniziale

programmazione e deliberazione di compiere una pluralità di reati in vista del conseguimento di un unico fine

prefissato sufficientemente specifico 2. più violazioni di legge, che possono consistere sia in più

violazioni della medesima norma sia di disposizioni di

legge diverse. La eventuale eterogeneità delle norme violate, infatti, non inficia in modo alcuno la richiesta

identità del disegno criminoso, sempre che le ripetute violazioni si presentino – comunque – come mezzi utilizzati al fine del raggiungimento dell’obiettivo ultimo

alla cui realizzazione il soggetto mira.; 3. pluralità di azioni o omissioni.

IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO La realizzazione di un reato può avvenire ad opera di una sola

persona ovvero di più persone, nel quale ultimo caso ricorre quella che viene generalmente indicata come compartecipazione al reato o

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compartecipazione criminosa, designata dal nostro codice penale come concorso di persone nel reato.

Il concorso di persone nel reato è disciplinato dall’art. 110 c.p. il quale statuisce che “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”.

Il sistema penale attualmente vigente ha adottato il principio

della pari responsabilità dei concorrenti in ordine alla causazione del reato (art. 110 c.p.) ammettendo – però – al tempo stesso la possibilità di una concreta graduazione sia attraverso il

riconoscimento di specifiche aggravanti ed attenuanti, sia in virtù del principio contenuto all’art. 133 c.p. che riconosce al Giudice il

potere di commisurare la pena in ragione della particolare condizione di ogni singolo concorrente.

Nel nostro sistema penale gli elementi indispensabili per

l’esistenza del concorso criminoso sono: 1. la pluralità di persone. Affinché possa parlarsi di

concorso di persone nel reato è, chiaramente, necessario

che alla realizzazione della fattispecie materiale tipica di reato concorrano più persone di quelle astrattamente

previste dalla legge come necessarie per la sussistenza del particolare reato. Appare essere, dunque, una logica deduzione affermare che nei reati monosoggettivi

saranno necessarie e sufficienti almeno due persone. Nei reati plurisoggettivi (nei quali la presenza di più persone

rientra già nella tipicità del reato stesso) il concorso di persone risulta essere ipotizzabile mediante l’apporto di condotte atipiche rispetto alla fattispecie plurisoggettiva

di reato; 2. la realizzazione di un reato. Ritenuto che l’art. 110 c.p.

fa riferimento al concorso di persone nel reato, appare

evidente come il secondo elemento costitutivo del concorso di persone sia rappresentato proprio dall’aver

posto in essere un fatto materiale di reato, consumato o tentato. L’espresso riferimento alla nozione di reato consente ragionevolmente di escludere che possa darsi

luogo a concorso ex art. 110 c.p. nel caso in cui due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non sia commesso, neanche nella forma del

tentativo punibile ex art. 56 c.p.. Alle medesime conclusioni deve, peraltro, giungersi nell’ipostesi in cui

taluno istighi altri a commettere un reato, sia nel caso in cui l’istigazione non sia accolta, sia nel caso in cui l’istigazione venga accettata ma il reato non sia

commesso, poiché la mera istigazione ed il semplice accordo sono – per l’ordinamento italiano – qualcosa

meno del tentativo punibile ex art. 56 c.p. che

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rappresenta – già – il punto di partenza minimo affinché possa parlarsi di responsabilità penalmente rilevante;

3. l’apporto o contributo causale dei concorrenti alla causazione del fatto. Si ha partecipazione quando l’agente, nella fase ideativa, preparatoria od esecutiva del

reato abbia apportato un contributo (materiale o morale) necessario ed indispensabile ai fine della realizzazione del reato, ovvero abbia partecipato con un contributo

agevolatore (morale o materiale) idoneo a facilitare la realizzazione del reato, rendendo più probabile o anche

solo più facile o grave la realizzazione del reato; 4. la volontà di cooperare alla commissione del reato,

che rappresenta l’aspetto psicologico del concorso di

persone nel reato. Secondo il nostro codice è configurabile sia un’ipotesi di concorso doloso nel reato doloso sia un concorso colposo nel reato colposo.

PARTE II

2. IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO Per soggetto passivo del reato si indente la persona offesa

dalla condotta materiale tipica di reato posta in essere dal soggetto agente, il titolare del bene giuridico protetto dalla norma e

asseritamente violato dal reato, vale a dire la c.d. vittima del reato la cui figura giuridica è regolata agli artt. 120 e ss. c.p. a norma del quale “Ogni persona offesa da un reato, per cui non debba procedersi d’ufficio o dietro richiesta o istanza, ha diritto di querela”.

L’accertamento e l’esatta individuazione della persona offesa

dal reato non risulta essere sempre operazione di facile espletamento, considerato che – molto spesso – la condotta criminosa reca contemporaneamente, almeno in astratto, danno a

più persone. Per procedere a tale accertamento, è necessario verificare –

innanzitutto – quale sia l’interesse giuridico tutelato dalla norma penale violata e chi ne sia il legittimo titolare.

Accertato ed individuato tale interesse si individua –

conseguentemente – in modo indefettibile anche la persona offesa dal reato, titolare dell’interesse giuridico violato, considerato che importanti esponenti della dottrina italiana hanno ritenuto di poter

definire il soggetto passivo del reato come quel soggetto “titolare dell’interesse la cui offesa costituisce l’essenza del reato”4.

Non può, conseguentemente, essere considerata come persona offesa dal reato chiunque subisca eventualmente un danno dal

reato, essendo tale soltanto ed esclusivamente il titolare del bene

4 F. ANTOLISEI, Op. cit., pag. 165

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costituente oggetto giuridico del reato e, quindi, colui che subisce l’offesa essenziale e necessaria per la sussistenza del reato.

Persona offesa dal reato può essere sia una individuo sia un ente giuridico, così come può anche darsi il caso che più siano contemporaneamente le persone offese dal reato.

Dalla persona offesa dal reato va, però, puntualmente distinto il c.d. danneggiato, intendendosi per tale colui che – pur non

essendo il titolare del bene giuridico protetto dalla norma e leso dal

reato – ha, comunque, dovuto sopportare dei danni risarcibili in ragione della condotta criminosa posta in essere dal reo,

legittimato a richiedere la restituzione ed il risarcimento. La Giurisprudenza della Suprema Corte ha, peraltro, chiarito

come “La persona offesa dal reato alla quale spetta il diritto di querela ai sensi dell’art. 120 c.p. è il titolare dell’interesse direttamente protetto dalla norma penale, la lesione o esposizione a pericolo del quale costituisce l’essenza del reato, e non anche il titolare di interessi che solo in via eventuale sono pregiudicati dall’azione delittuosa. Quindi, la nozione di persona offesa non coincide con quella di danneggiato perché la prima riguarda un elemento che appartiene alla struttura del reato, mentre la seconda riflette le conseguenze privatistiche dell’illecito penale. Solo la persona offesa è titolare del diritto di querela, mentre il danneggiato è legittimato ad esercitare l’azione civile nel processo penale”5.

2.1. LE CONDIZIONI DI PROCEDIBILITA’. LA LEGITTIMAZIONE

A PRESENTARE DENUNCIA – QUERELA L’attività della persona offesa può rilevare dopo la

consumazione del reato ai fini della perseguibilità e della concreta

punibilità del fatto, come nei non pochi casi di reati perseguibili a querela o istanza di parte.

L’ordinamento penale processuale vigente, infatti, distingue

tra reati procedibili di ufficio e reati procedibili a querela della persona offesa, in ragione del bene giuridico protetto dalla norma e

dell’interesse specifico dello Stato alla persecuzione penale della particolare condotta, rimettendo – così – la procedibilità del reato alla esclusiva volontà della persona offesa.

La querela rappresenta, quindi, “un atto processuale di natura negoziale, con la quale il soggetto privato, titolare del relativo diritto, indica, con dichiarazione unilaterale di volontà, il fatto per il quale chiede che l’organo pubblico di giustizia inizi l’azione penale”6.

La normativa vigente non prevede alcuna specifica formalità in

ordine al contenuto della querela, limitandosi a stabilire all’art. 336 c.p.p. che “La querela è proposta mediante dichiarazione nella quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, si

5 Cassazione Penale, 20.02.1987, Occhipinti, CP, 88, 852; GP, 88, III, 227.

6 Cassazione Penale, 17.01.1983, Werner, CP 84, 558; GP 84, III, 100.

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manifesta la volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato”.

Nonostante sia opinione largamente diffusa quella secondo la quale – ai fini della procedibilità – la querela debba contenere la c.d. “istanza di punizione”, la Cassazione, negli ultimi anni, ha

chiarito in modo pressoché uniforme come “la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiede formule particolari e può essere riconosciuta dal Giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione; ne consegue che tale volontà può essere riconosciuta anche nell’atto con il quale

la persona offesa si costituisce parte civile”7 ovvero nel fatto stesso di recarsi presso gli Uffici dell’Autorità Giudiziaria al fine di

presentare querela. La querela deve essere presentata personalmente dalla

persona offesa o dal suo legale rappresentante o, ancora, da un

suo procuratore speciale entro e non oltre il termine di tre mesi dalla notizia del reato; è sufficiente che venga formalizzata anche

da uno soltanto dei soggetti passivi e si estende a tutti i partecipanti al reato anche se presentata contro uno soltanto di questi.

La querela non è esercitabile se vi è stata rinuncia espressa o tacita, vale a dire un comportamento del soggetto passivo incompatibile con la volontà di presentare querela.

Con la remissione di querela, vale a dire con la rinuncia alla stessa in un momento successivo alla sua presentazione, il

soggetto passivo pone in essere una causa di estinzione del reato. Pare opportuno, allora, chiarire a chi sia attribuita la

legittimazione a presentare denuncia – querela nell’ipotesi in cui

persona offesa dal reato sia il condominio generalmente e complessivamente considerato.

La Giurisprudenza pare univocamente orientata nel ritenere che – nell’ipotesi in cui persona offesa sia un ente di mera gestione privo di personalità giuridica, come è appunto il condominio – “il

diritto di querela deve essere esercitato a mezzo di rappresentante specialmente autorizzato dallo Statuto o da tutti insieme i condomini, componenti dell’ente collettivo. Quando lo Statuto non preveda un rappresentante speciale, il rappresentante ordinario dell’ente non ha veste di querelarsi per l’ente stesso e deve essere munito della procura speciale di tutti i componenti dell’ente medesimo”8.

In tema di legittimazione a proporre querela, infatti, per la

proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un condominio di edifici, occorre la preventiva manifestazione di volontà da parte dei condomini, volta a conferire all’Amministratore

7 Cassazione Penale, sentenza 19.10.2001, Cosenza, CP 03, 386

8 Cassazione Penale, sentenza 16.10.1950, Silvestri, GP 51, II, 274.

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l’incarico di perseguire penalmente un soggetto in ordine ad un fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune9.

Parimenti, però, ogni singolo condomino ha diritto di presentare querela in ordine a reati commessi in danno del condominio10.

Recentemente, la Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi circa la legittimazione dell’Amministratore di condominio a presentare querela in ordine a reati in danno del

condominio. La Cassazione ha sul punto chiarito come “(…) Il condominio di

edifici non è un soggetto giuridico dotato di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti (Cass. Civile, Sez. II,

sentenza 29.08.1997, n. 8257; Cass. Civile, II, sentenza 27.01.1997, n. 826; Cass. Civile, Sez. II, sentenza 12.03.1994, n. 2393), bensì uno strumento di gestione collegiale di interessi comuni dei condomini, che non è suscettibile, in quanto tale, di essere portatore di propri autonomi interessi direttamente protetti dall’ordinamento penale, la cui violazione, prescindendo dalle diverse formalità eventualmente imposte dalla natura ordinaria o straordinaria dell’atto, possa consentire una legittimazione all’esercizio del diritto di querela dell’amministratore che lo rappresenta.

Un tale esercizio da parte dell’amministratore non è ipotizzabile, inoltre, in relazione alla lesione degli interessi individuali, anche se collettivi dei partecipanti, dal momento che l’amministratore esplica, come mandatario dei condomini, soltanto le funzioni esecutive, amministrative, di gestione e di tutela dei beni e servizi a lui attribuite dalla legge, dal regolamento di condominio o dall’assemblea, a norma degli artt. 1130 e 1131, comma primo c.c., ed esclusivamente nell’ambito di queste ha la rappresentanza degli stessi e può agire in giudizio.

Non può, infatti, ricomprendersi la querela tra gli atti di gestione dei beni o di conservazione dei diritti inerenti alla parti comuni

dell’edificio, anche se avente ad oggetto un fatto lesivo del patrimonio condominiale, costituendo la stessa un presupposto della validità del promovimento dell’azione penale e non un mezzo di cautela processuale o sostanziale, ed il competere il relativo diritto in via strettamente personale alla persona offesa dal reato esclude anche che, in assenza dello speciale mandato, previsto dagli artt. 122 e 336 c.p.p., lo stesso possa essere esercitato da un soggetto diverso dal suo titolare.

Corretta, pertanto, appare la decisione del Giudice che ha negato, in assenza di una unanime manifestazione di volontà dei condomini che si procedesse penalmente in ordine al fatto contestato all’imputato e di un corrispondente unanime specifico incarico

9 Cassazione Penale, sentenza 29.11.2000, Panichella, CP 02, 1719.

10 Cassazione Penale, sentenza 9 giugno 1958, Cecchi, GP 59, II, 140.

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conferito all’Amministratore, l’esistenza e la legittimazione del rappresentante del condominio alla presentazione della querela (cfr.

Cassazione Penale, sentenza 16.10.1950, Silvestri)11”. Pare opportuno sottolineare come la Giurisprudenza della

Suprema Corte di Cassazione sia oramai univocamente orientata

nel ritenere che “In tema di legittimazione a proporre la querela, per la proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un condominio di edifici occorre la preventiva unanime manifestazione di volontà da parte dei condomini volta a conferire all’amministratore l'incarico di perseguire penalmente un soggetto in

ordine ad un fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune”12

2.2. LA LEGITTIMAZIONE ALLA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE IN GIUDIZIO

Alla persona offesa dal reato ovvero a colui che del reato ha sopportato il danno risarcibile (c.d. danneggiato) l’ordinamento processuale penale vigente riconosce il diritto di agire in giudizio

per il riconoscimento – a seguito dell’accertamento della responsabilità penale del soggetto attivo – del risarcimento di tutti i

danni patiti in ragione della condotta di reato contestata all’imputato.

Lo strumento attraverso il quale poter agire in sede penale per

formalizzare la propria richiesta di risarcimento danni è rappresentato dalla costituzione di parte civile, disciplinata agli artt. 74 e ss. c.p.p., che inserisce l’esercizio dell’azione civile

all’interno del processo penale. L’art. 185 c.p. stabilisce, infatti, che “Ogni reato obbliga alle

restituzioni a norma delle leggi civili. (artt. 2043-2059 c.c.). Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non

patrimoniale (art. 2059 c.c.) obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”.

In tema di parte civile, l’art. 74 c.p.p. dispone, innanzitutto, che “l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 c.p. può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”.

La legittimazione a costituirsi parte civile nel processo penale è riconosciuta – dunque – al “soggetto” offeso o danneggiato dal

reato. Di conseguenza, tale legittimazione compete non solo ad una persona fisica oppure ad un ente o associazione forniti di personalità giuridica ma, altresì, ad un soggetto non munito di tale

personalità quale un comitato o una associazione non riconosciuta. Inoltre, vengono indicati come soggetti legittimati

11

Cassazione Penale, Sez. II, 29.11.2000, Presidente dott. N. ZINGALE 12

Cassazione Penale, Sezione II, 05.01.2001, n. 6, Panichella.

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anche i “successori universali” ricomprendendo in tal modo nella previsione dell’art.74 c.p.p. la successione universale tra enti.

L’azione civile per il risarcimento del danno può essere esercitata esclusivamente nel processo penale e non già nel procedimento penale, così presupponendo necessariamente

l’intervenuto esercizio ai sensi degli artt. 405 ss. c.p.p. dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero.

L’art. 74 c.p.p. fa, infatti, riferimento al “processo penale” e

l’art. 79 c.p.p. prevede che la costituzione della parte civile possa avvenire per “l’udienza preliminare e, successivamente, fino a che

non siano stati compiuti gli adempimenti previsti dall’art. 484 c.p.p.” (vale a dire la costituzione delle parti in giudizio).

Tenuto conto del combinato disposto di cui agli artt. 185 c.p. e 74 e ss. c.p.p., si pone il problema se legittimato alla costituzione di parte civile sia soltanto colui che ha subito un danno diretto

dalla condotta del soggetto agente ovvero possa ritenersi compreso anche il danno indiretto e, conseguentemente, se ex art. 74 c.p.p. possa costituirsi parte civile solo colui che abbia subito un danno

diretto ovvero anche chi abbia subito un danno indiretto. La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul

punto, ha chiarito come l’ammissibilità della costituzione di parte civile sia subordinata al fatto che il danno risarcibile sia conseguenza diretta ed immediata del reato, con ciò – però – non

volendo affermare che il soggetto danneggiato dal reato coincide necessariamente con il soggetto titolare dell’interesse specifico

direttamente tutelato dalla norma violata. Tale coincidenza, infatti, rappresenta la regola, ma la Corte di

Cassazione ha –comunque – lasciato intendere che in talune

situazioni può risultare legittimato a costituirsi parte civile anche un danneggiato diverso dal soggetto passivo del reato, sempre che il danno da questi subito sia diretto ed immediato.

Va da sé che il danneggiato diverso dalla persona offesa dal reato dovrà essere titolare di una situazione soggettiva

giuridicamente protetta lesa dal comportamento criminoso contestato all’imputato.

Pur non rilevandosi specifiche pronunce giurisprudenziali sul

punto, pare corretto ritenere che l’Amministratore di condominio possa validamente rilasciare ad un difensore procura speciale ex artt.76 ss. c.p.p. ai fini della costituzione di parte civile in giudizio

penale soltanto se – a sua volta – preventivamente e specificamente autorizzato sul punto con delibera unanime dell’assemblea

condominiale, ritenuto che portatore dell’interesse giuridicamente protetto e leso dal reato è solo ed esclusivamente il condominio.

25

PARTE III

3.1. I REATI IN PARTICOLARE Come già anticipato, sulle caratteristiche generali della

responsabilità penale dell’amministratore condominiale non si

rilevano particolari differenze rispetto alla ordinaria e generale disciplina codicistica di parte speciale dettata dal legislatore per

qualsivoglia altra persona, potendo questi incorrere in responsabilità penale quando nell’esercizio delle sue funzioni (così come nello svolgimento della sue quotidiane e personali mansioni)

si trovi a commettere dei reati. Pare, innanzitutto, importante chiarire come ai fini della

sussistenza della responsabilità penale, la figura

dell’amministratore condominiale non necessiti di una formale nomina ovvero di un formale investimento di poteri, dovendo –

piuttosto – essere intesa in modo ampio così da ricomprendere anche tutti quei soggetti che, comunque, svolgono un’attività di amministrazione, come gli amministratori di fatto, il sostituto, il

curatore speciale, ecc.13. Appare ad ogni modo opportuno evidenziare come –

nell’esercizio della sua attività professionale – l’Amministratore possa incorrere più frequentemente in alcune determinate ipotesi di reato.

3.1.1. I REATI DI TIPO COMUNE: a) IL DELITTO DI

INGIURIA E DIFFAMAZIONE

Alla luce delle premesse appena esposte, occorre distinguere tra i reati di tipo comune che l’amministratore condominiale può

commettere da quelli più strettamente legati alle sua proprie funzioni.

I reati comuni sono previsti e regolati dalle vigenti norme

contenute nel codice penale, sicché nessuna particolarità di rilievo per gli amministratori si nota rispetto alla disciplina generale14.

Il primo gruppo di reati che vengono ad assumere rilievo sono quelli relativi all’onore ed al decoro delle persone: vale a dire, il delitto di ingiuria (regolato all’art. 594 c.p.) ed il delitto di

diffamazione (disciplinato dall’art. 595 c.p.). L’ordinamento penale vigente prevede e sanziona, infatti,

alcuni reati che offendono l’onore, il decoro e la reputazione delle

persone, intendendo per “onore” il complesso di tutte quelle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona e delle

altre qualità che concorrono a determinare il pregio dell’individuo nell’ambiente in cui vive.

13

Sul punto, particolare importanza ha rivestito la sentenza emessa dalla Cassazione Penale, 04.03.1969, n. 1562 14

A. DE RENZIS, A. FERRARI, A. NICOLETTI, R. REDIVO, “Trattato del Condominio”, Milano, CEDAM, 2004,

pag. 573

26

Diversamente, il “decoro” attiene alla dignità fisica, sociale ed intellettuale di una persona, con la conseguenza che il bene

giuridico protetto può, in questi casi, essere offeso non soltanto da frasi o espressioni direttamente e immediatamente ingiuriose, ma anche da espressioni che – per la loro volgarità – colpiscano

l’individuo nel sentimento della sua dignità fisica, anche se trascendenti la vera e propria ingiuria.

La “reputazione” è, invece, il senso della dignità personale nell’opinione degli altri, la stima diffusa nell’ambiente sociale, l’opinione che gli altri hanno del decoro e dell’onore di una

persona. Il codice penale vigente disciplina all’art. 594 c.p. il delitto di

ingiuria, sanzionando la condotta di “Chiunque offende l’onore ed il decoro di una persona presente”, parimenti punendo “chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni diretti alla persona offesa”, prevedendo un aumento di pena nell’ipotesi in cui “l’offesa consista nell’attribuire un fatto determinato” ovvero “sia commessa in presenza di più persone”.

Il successivo art. 595 c.p. disciplina, invece, il delitto di

diffamazione, sanzionando la condotta di “Chiunque – fuori dai casi indicati nell’art. 594 c.p. – comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”, prevedendo – anche in questo caso – un aumento di pena per l’ipotesi in cui “l’offesa consista nell’attribuire un fatto determinato” ovvero sia recata “con il mezzo della stampa o di qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico” o,

ancora, se “l’offesa è arrecata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una sua rappresentanza, o ad un’Autorità costituita in collegio”.

Appare evidente, dunque, come l’elemento discriminante tra le due diverse ipotesi di reato consista nella presenza o meno della

persona offesa, vale a dire di colui al quale sono, in concreto, indirizzate le offensive affermazioni, considerando – peraltro – come più grave l’ipotesi del delitto di diffamazione stante l’assenza

dell’interessato e – conseguentemente – l’impossibilità per lo stesso di potersi difendere, giustificare o, più semplicemente, rispondere

al biasimo che gli viene rivolto. Fatta eccezione per quelle espressioni incontestabilmente e

convenzionalmente considerate come “offesa”, sembra opportuno

evidenziare come – talvolta – il significato della manifestazione offensiva, per quanto collegato con le parole pronunciate o scritte

ovvero con i gesti effettuati, possa assumere un diverso valore e significato in relazione al contesto e alla persona alla quale è rivolta.

In questi casi, infatti, il senso dell’espressione utilizzata dipende fortemente sia dall’ambiente in cui il fatto si svolge sia

dall’opinione mediamente accolta dalla generalità delle persone in un determinato contesto storico-sociale.

27

A titolo meramente esemplificativo, indicare – ad esempio – un condomino come “moroso” nel corso di un’assemblea condominiale,

nella quale si esamina la situazione economica e si verifica la regolarità dei dovuti pagamenti, rappresenta un modo giuridicamente corretto e sintetico per indicare colui che non ha,

ancora, ottemperato ai richiesti versamenti. Utilizzare – però – la medesima espressione come epiteto o

appellativo per individuare ed additare malamente qualcuno, al di fuori dello specifico contesto in cui questo aspetto assume rilevanza e fuori dai casi in cui la situazione contributiva del

condomino stesso rappresenti un elemento di particolare interesse, potrebbe assumere i caratteri della condotta materiale tipica di reato sopra meglio descritta e punita agli artt. 594 e 595 c.p.

Questo a conferma del fatto che il valore offensivo di un’espressione riveste – in molti casi – carattere estremamente

relativo, variando notevolmente con i tempi, i luoghi e le circostanze in cui l’azione si sviluppa.

Anche la Suprema Corte di Cassazione, chiamata a

pronunciarsi sul punto, ha – infatti – chiarito che “In materia di ingiuria verbale occorre distinguere tra le espressioni di per sé obiettivamente lesive dell’onore e del decoro, tali cioè da offendere per il loro significato qualunque persona in quanto titolare di questi beni, e le espressioni che, non avendo di per sé tale carica ingiuriosa, possano acquistarla in relazione a particolari circostanze, come la personalità delle parti, i rapporti tra loro eventualmente intercorrenti, l’ambiente in cui il fatto si svolge, gli antecedenti del fatto stesso e così via”15.

Così, ad esempio, non è lecito dare del “ladro” ad un individuo

che abbia riportato una condanna per furto, né dire “sciancato” ad una persona che presenta un tale difetto fisico, poiché la verità

della qualifica o del fatto attribuito ad una persona non esclude, di per sé, il carattere offensivo dell’azione. Anche lo sciancato ed il ladro hanno, infatti, diritto di essere rispettati e di non subire

umiliazioni che non siano necessarie, potendo la verità del fatto escludere l’illegittimità della condotta solo nei casi espressamente

previsti e stabiliti dalla legge. Ritenuto, poi, che il condominio riveste per l’ordinamento

vigente natura di “ente – di fatto – di gestione”, sia pure privo di

personalità giuridica e privo di autonomia patrimoniale, esso stesso può – nel suo complesso e nella indeterminata generalità dei

suoi componenti – essere considerato, in quanto rappresentativo di un interesse collettivo unitario ed indivisibile in relazione alla finalità perseguita, quale persona offesa nel delitto sia di ingiuria

sia di diffamazione, non essendo – peraltro – preclusa la configurabilità di una concorrente offesa all’onore o al decoro delle

singole persone che del condominio fanno parte.

15

Cassazione, 17.03.1978, Dufferin, CED 139491; Cassazione, 29.03.1978, Vecchiet, ivi 139036.

28

La Cassazione ha, infatti, chiarito come “Possono assumere la veste di soggetti passivi dei delitti contro l’onore anche le persone giuridiche, le associazioni non riconosciute e gli enti di fatto”16 “e non è preclusa la configurabilità di una concorrente offesa all’onore e alla reputazione delle singole persone che dell’ente fanno parte”17.

Ne deriva che, esprimere valutazioni offensive, qualificazioni degradanti o considerazioni ingiuriose nei confronti del condominio

complessivamente considerato, con espressioni del tipo “E’ un’accolta di filibustieri” potrebbe assumere i caratteri del reato di

ingiuria o diffamazione. Peraltro, in sede giurisprudenziale si è discusso soprattutto

dell’avviso di convocazione dell’assemblea del condominio redatto

dall’Amministratore, il cui contenuto deve essere pubblicizzato mediante affissione nell’atrio dell’edificio condominiale. In relazione

a tale fattispecie è stato deciso che l’avviso, contenente all’ordine del giorno la comunicazione che un condomino era stato denunciato dall’Amministratore e quindi iscritto nel registro degli

indagati ex art. 335 c.p.p., costituisce comunicazione a più persone e integra il delitto di diffamazione, in quanto anche

persone estranee al condominio possono venire a conoscenza della qualità di indiziato di reato in capo ad un condomino18.

3.1.2. Segue: b) IL DELITTO DI VIOLAZIONE DI DOMICILIO

Il delitto di violazione di domicilio è sanzionato all’art. 614 c.p.

a norma del quale “Chiunque si introduce nell’abitazione altrui, o in altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero si introduce clandestinamente o con inganno, è punito con la reclusione fino a tre anni.

Alla stessa pena soggiace chi si trattiene in detti luoghi contro l’espressa volontà di chi ha diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con l’inganno.

Il delitto è punibile a querela della persona offesa. La pena è da uno a cinque anni, e si procede d’ufficio, se il fatto

è commesso con violenza sulle cose o alle persone, ovvero se il colpevole è palesemente armato”.

Il delitto si consuma nella prima forma, con l’introdursi nel

luogo di privata dimora contro la volontà del titolare del diritto di escluderlo oppure in modo clandestino o con l’inganno; nella

seconda forma, il delitto può considerarsi come consumato allorché il soggetto, già presente all’interno di uno dei luoghi specificamente indicati dalla norma, ivi si trattenga contro la

volontà del titolare del diritto di escluderlo o allontanarlo ovvero in uno degli altri modi suddetti penalmente sanzionati.

16

Cassazione, 11.03.1980, Novi, CPMA 81, 746; GP 80, II, 593. 17

Cassazione, 24.11.1988, Scalfari, CP 89, 593. 18

Cassazione penale, 08.06.1973, n. 4562.

29

L’elemento psicologico del reato in esame consiste nel dolo generico, vale a dire nella semplice coscienza e volontà di

introdursi o trattenersi all’interno della altrui dimora in modo clandestino o con l’inganno ovvero, ancora, con la consapevolezza del dissenso del soggetto passivo titolare del menzionato, e

protetto, diritto di esclusione. Per quanto specificamente attiene l’attività professionale

dell’Amministratore di condominio, pare opportuno evidenziare

come all’Amministratore non sia consentito di introdursi o trattenersi nell’appartamento di un condomino, contro la volontà di

costui, ad esempio con l’obiettivo di verificarne la superficie radiante.

In questo caso, infatti, la condotta dell’Amministratore non

potrebbe ritenersi scriminata dall’adempimento di un dovere, così come previsto e disciplinato dall’art. 51 c.p., neanche nell’ipotesi in cui avesse agito, ad esempio, in esecuzione di un incarico

formalmente ricevuto dall’assemblea condominiale. Di fronte all’atteggiamento di resistenza del condomino che

non permette l’ingresso nel suo appartamento, infatti, l’Amministratore non può porre in essere una condotta di imposizione, dovendo – piuttosto – desistere e rivolgersi al Giudice.

3. Segue: c) IL DELITTO DI APPROPRIAZIONE INDEBITA

L’art. 646 c.p. disciplina il delitto di appropriazione indebita stabilendo che “Chiunque per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino ad €1.032.

Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata.

Si procede d’ufficio, se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate al n. 11 dell’art. 61 c.p”.

Tale disposizione normativa completa la fattispecie criminosa del furto, previsto e punito agli artt. 624 e ss. c.p.: entrambe le

norme, infatti, tutelano le cose mobili altrui. Mentre, però, il delitto di furto implica nell’autore del reato la

mancanza del preventivo possesso della cosa oggetto di sottrazione,

consistendo il reato nel fatto di procurarselo indebitamente, l’appropriazione indebita presuppone – invece – che l’agente sia già in possesso delle cose medesime.

Presupposto indefettibile per la configurabilità della fattispecie criminosa in esame è, quindi, il possesso a qualsiasi titolo da parte

del soggetto agente del denaro o di altra cosa mobile altrui. Secondo la maggioritaria Giurisprudenza, espressa nel corso degli anni dalla Suprema Corte di Cassazione, la nozione di possesso cui

fa riferimento l’art. 646 c.p. trova soddisfazione nella mera attribuzione al soggetto della qualità di possessore e, quindi, nella

30

concessa facoltà da parte del proprietario di disporre della cosa fuori dalla sua sfera di sorveglianza19.

Si è anche precisato come, ai fini della configurabilità del reato in esame, il soggetto agente debba essere venuto in possesso del denaro altrui o della cosa mobile altrui in modo legittimo, vale a

dire senza sottrazione, frode o violenza, pur essendo assolutamente ininfluente ai fini della ricorribilità della responsabilità penale la qualificazione civilistica del rapporto dal quale il possesso ha,

originariamente, tratto origine. Sembra superfluo sottolineare come l’appropriazione consista

non solo nel fare atti di disposizione sulla cosa uti dominus, vale a dire come se si trattasse di cosa di proprietà, ma si manifesti anche con il dare alla cosa una destinazione incompatibile con il

titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso, ovvero mediante rifiuto ingiustificato della restituzione.

Appropriarsi di una cosa altrui – ai fini della sussistenza del reato in esame – significa, dunque, comportarsi verso l’oggetto posseduto come se fosse proprio.

Il delitto si consuma nel momento in cui avviene l’appropriazione del denaro o della cosa mobile altrui, non

occorrendo anche che l’agente abbia effettivamente conseguito un profitto. Ritenuto, poi, che l’omessa o ritardata restituzione della cosa, non accompagnata da un concreto atto di disposizione della

stessa, non integra gli estremi dell’appropriazione, porta ad escludere la possibile configurabilità dell’ipotesi del tentativo di reato punibile ai sensi dell’art. 56 c.p.

L’elemento soggettivo del reato in esame consiste in un dolo specifico dovendo il soggetto agire al fine di trarre un ingiusto

profitto. Può chiaramente accadere che l’Amministratore si appropri di

somme di denaro o di altri beni di spettanza del condominio ovvero

ricevuti dal condominio per l’espletamento di attività o pagamenti da effettuare favore dell’ente e, proprio in ragione della specifica attività professionale svolta, sono sorte in Giurisprudenza

questioni circa la configurabiltà dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 11 c.p..

Il riconoscimento di tale aggravante ha grande rilievo, in quanto il delitto di appropriazione indebita aggravata è reato perseguibile d’ufficio, diversamente dall’ipotesi di reato che

semplice che è, invece, perseguibile soltanto a querela della persona offesa dal reato.

La prospettata questione non ha avuto in Giurisprudenza una univoca soluzione poiché in alcune pronunce è stato sostenuto che l’aggravante in parola ricorre quando il soggetto attivo del reato ha

19

Cassazione Penale, sentenza 17.06.1988, n. 7079.

31

violato la fiducia in lui riposta, il che può avvenire in presenza di un mandato20.

In altre decisioni è stato invece affermato che l’aggravante in questione presuppone la formazione tra le parti di uno stabile rapporto di natura lavorativa che non si può identificare con il

semplice mandato21. Con riguardo, però, alla specifica figura dell’Amministratore la

Cassazione ha chiarito espressamente la configurabiltà

dell’appropriazione indebita aggravata nel caso di mancata resa del conto e di mancata restituzione del denaro di proprietà dei

condomini22. La Suprema Corte, infatti, con orientamento pressoché

uniforme ha, infatti, stabilito che la circostanza di cui all’art. 61, n.

11 è “sempre ricorrente nell’ambito di rapporti giuridici che comportino l’obbligo di un facere e vi sia tra le parti un rapporto di fiducia che agevoli la commissione del fatto, a nulla rilevando la sussistenza o meno di un vincolo di subordinazione e dipendenza (per tutte Cass., Sez. II, ud. 20 maggio 1988, 181.994). Situazione fiduciaria ancor più pregnante nel caso di specie proprio per essere l’amministratore soggetto "interno" al condominio”23.

3.1.4. Segue: d) IL DELITTO DI OMICIDIO COLPOSO ED IL

DELITTO DI LESIONI COLPOSE

In danno dell’Amministratore possono, altresì, prospettarsi i delitti di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e di lesioni colpose (art.

590 c.p.) come diretta conseguenza della omissione delle necessarie misure di sicurezza (ad esempio degli impianti elettrici condominiali), nonché della mancata effettuazione di lavori urgenti

relativi alle parti comuni condominiali (come ad esempio caduta di un cornicione pericolante, distacco di intonaci, ecc.).

L’art. 589 c.p., stabilisce, infatti, che “Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

(…) Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni dodici”.

Gli elementi oggettivi costitutivi della fattispecie materiale tipica dell’omicidio colposo sono gli stessi dell’omicidio doloso, con

l’unica differenza che nell’ipotesi prevista dall’art. 589 c.p. l’agente non solo non vuole la morte della vittima, ma neanche l’evento lesivo da cui deriva la morte. L’omicidio colposo sussiste, pertanto,

in tutti quei casi in l’agente compie per negligenza, imperizia,

20

Cassazione Penale, sentenza 31.05.1974, n. 3866; Cassazione Penale 02.02.1972, n. 630. 21

Cassazione Penale, sentenza 17.03.1971, n. 978. 22

Cassazione Penale, sentenza 13.07.1966. 23

Cassazione Penale, Sez. II, 20.09.1999, n. 11264, Vitanza.

32

imprudenza ovvero per violazione o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline, un atto da cui deriva – poi – la

morte di una persona. In tema di omicidio colposo assume una particolare rilevanza

il problema della causalità omissiva, ritenuto che nei reati omissivi

– per accertare o meno la sussistenza del necessario nesso di causalità tra condotta ed evento – non si può far riferimento ad un accertamento positivo di fatto, dovendo – piuttosto – fondarsi

l’accertamento su un giudizio ipotetico, ricostruendo – sulla base della migliore tecnica, scienza, conoscenza ed esperienza del

momento storico – cosa sarebbe successo laddove, invece, fosse stata compiuta l’azione doverosa, in concreto omessa.

Tale accertamento, generalmente indicato come giudizio

controfattuale, porta a ritenere sussistente la responsabilità per omissione e, dunque, il nesso di causalità tra l’evento e la mancata attivazione del soggetto che era tenuto a attivarsi, quando l’azione,

correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di successo nell’evitare l’evento di reato.

Il successivo art. 590 c.p., in tema di lesioni colpose, dispone che “Chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino ad € 309.

Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da € 123 a € 619 ; se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da € 309 ad € 1.239.

(…) Nel caso di lesione di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave della violazione commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque”.

Secondo le disposizioni normative vigenti le lesioni sono: - lievissime, se ne deriva una malattia di durata non

superiore a venti giorni; - lievi, se la durata della malattia patita dalla vittima ha

una durata compresa tra venti e quaranta giorni; - gravi, se dal fatto deriva una malattia che metta in

pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o

incapacità ad attendere alle ordinari occupazioni per un tempo superiore a quaranta giorni o – ancora – se ne consegue l’indebolimento permanente di un senso o di un

arto; - gravissime, se dal fatto deriva una malattia certamente o

probabilmente insanabile; la perdita di un senso; la perdita di un arto, una mutilazione che lo renda inservibile, la perdita dell’uso di un organo o della

capacità di procreare ovvero una permanente e grave difficoltà della favella; la deformazione ovvero lo sfregio

permanente del viso.

33

Il delitto di lesioni colpose è un delitto a consumazione istantanea con evento di danno che si consuma con il verificarsi

della lesione, benché gli effetti siano eventualmente permanenti. Le lesioni colpose – a prescindere dalla gravità delle stesse –

sono sempre perseguibili a querela della persona offesa, fatta

eccezione per le ipotesi di lesioni riportate a seguito della violazione delle disposizioni sulla circolazione stradale, sulla prevenzione degli infortuni sul posto di lavoro o che abbia determinato una

malattia professionale. In entrambi i casi l’elemento soggettivo è la colpa e non è

ipotizzabile il tentativo punibile ex art. 56 c.p. stante l’incompatibilità con l’elemento psicologico e la mancata espressa previsione di delitti colposi tentati.

3.1.5. Segue: e) I DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA

Il titolo VII del Libro II del codice penale è intitolato “Dei delitti contro la fede pubblica”. Tale titolo è, a sua volta, diviso in quattro capi:

- Capo I: Della falsità in monete, in carte di pubblico credito e in valori di bollo;

- Capo II: Della falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento;

- Capo III: Della falsità in atti;

- Capo IV: Della falsità personale. I reati che, in particolare, possono interessare la figura

professionale dell’Amministratore del condominio sono quelli disciplinati al Capo III in ordine alla falsità degli atti, tenendo – comunque – presente che il bene giuridico generalmente tutelato

nel Titolo del codice penale relativo ai delitti di falso è la fede pubblica, intesa come la fiducia che l’ordinamento ripone in determinati oggetti o simboli, sulla cui genuinità o autenticità deve

potersi fare affidamento al fine di rendere certo o sollecito lo svolgimento del traffico economico e giuridico.

Di fondamentale importanza ai fini della corretta definizione dei reati contro la fede pubblica è la distinzione tra:

1. falso materiale, consistente nella contraffazione

dell’oggetto, del documento, ecc. che ricorre – quindi – quando il documento non è genuino;

2. falso ideologico, consistente nella alterazione volontaria del contenuto ad esempio di atto nella consapevolezza della non veridicità di quanto in esso riportato, che ricorre

quando il documento non è veritiero. Ai fini della punibilità dei delitti di falso assumono – poi –

particolare rilevanza i concetti di:

a) falso grossolano, consistente nel falso macroscopicamente rilevabile e, quindi, non idoneo a

trarre in inganno persona alcuna;

34

b) falso innocuo, che – se pure non grossolano – non risulta essere in concreto idoneo a ledere la genuinità o la

veridicità del documento; c) falso inutile, consistente nella falsificazione di un

documento già di per sé giuridicamente inesistente.

Prima di trattare le fattispecie di reato previste dal Capo III del Titolo VII, poste a tutela della fede pubblica documentale, intesa come fiducia e sicurezza che la legge attribuisce a determinati

documenti, è necessario delineare la nozione di documento. A tal proposito, si precisa che non tutti i documenti sono

tutelati dalla norma penale, ritenuto che le norme in esame tutelano solo gli atti pubblici e le scritture private.

Ai fini della tutela penalistica, quindi, documento è ogni

scrittura riportata sopra un mezzo idoneo, dovuta ad autore determinato, atto a suffragare una pretesa giuridica o a provare un

fatto giuridicamente rilevante. I requisiti del documento sono la forma scritta, l’espressione di

un pensiero, la riconoscibilità del suo autore o della provenienza,

la pretesa giuridica ovvero il fatto giuridicamente rilevante. Per l’ordinamento vigente, sono atti pubblici ai fini penali:

1. tutti gli atti pubblici che sono tali anche per il diritto civile (cfr. artt. 2699, 2700 c.c.);

2. tutti gli atti interni dei pubblici uffici, quando hanno

attitudine ad assumere carattere probatorio e rilevanza esterna ai fini della documentazione di fatti inerenti l’attività spiegata e la regolarità delle operazioni

amministrative dell’ufficio pubblico cui i loro autori sono addetti;

3. tutti gli atti in cui si concreta la corrispondenza ufficiale degli organi della pubblica amministrazione;

4. tutti gli atti redatti dai pubblici impiegati incaricati di un

pubblico servizio nell’esercizio delle loro attribuzioni. La categoria delle scritture private ha, chiaramente, carattere

residuale: sono scritture private, infatti, tutti i documenti che non

presentano le caratteristiche dell’atto pubblico. La nozione di scrittura privata, tuttavia, non deve essere

ristretta alla sola categoria degli atti che contengono una dichiarazione di volontà, dovendosi – piuttosto – estendere a tutte quelle scritture formate dal privato per assolvere una funzione

probatoria di situazioni dalle quali possono derivare effetti giuridicamente rilevanti.

Come noto, nel condominio si pone l’esigenza sia di documentare, ai fini della gestione amministrativa, i rapporti interni tra i condomini sia quelli esterni tra il condominio ed i terzi

estranei. Tale necessità trova la sua giustificazione nella necessità di

porre i condomini nella condizione di controllare puntualmente

l’attività dell’Amministratore e assicurare la continuità della

35

gestione, consentendo all’Amministratore subentrante di conoscere quanto compiuto nel periodo precedente dal suo predecessore.

Il codice civile non prevede alcuna specifica ed organica disciplina relativa ai criteri che l’Amministratore deve seguire nella gestione, né stabilisce quali registri o documenti questi sia tenuto

a formare o conservare, potendo – di conseguenza – le norme regolamentari dettare una disciplina particolareggiata indicando quali registri debbano essere tenuti e come debba essere redatta la

contabilità. Dalla normativa del codice civile si deduce che

l’Amministratore è obbligato a tenere due soli registri: il primo si riferisce alla trascrizione delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini (art. 1136 c.c.), il secondo concerne l’annotazione del

regolamento di condominio nonché della nomina e cessazione, per qualsiasi causa, dell’Amministratore (artt. 1129 e 1138).

Quanto al registro ex art. 1136 c.c. va osservato che

l’Amministratore è tenuto ad effettuare la trascrizione delle delibere assembleari e, ove tale registro manchi, l’Amministratore stesso

deve istituirlo, venendo meno in caso contrario al suo dovere di diligenza fissato all’art. 1710 c.c.

L’art. 485 c.p. punisce “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma, in tutto o in parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera, e poi ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso”, considerando come alterazioni anche le aggiunte falsamente apposte a una

scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata. Poiché il fatto materiale di reato consiste nella contraffazione o

nell’alterazione, escludendo, quindi, la genuinità e non la veridicità

del documento, è evidente che il reato in esame è una ipotesi di falso materiale.

L’uso necessario a consumare il reato si ha quando la

scrittura privata falsa viene concretamente utilizzata, essendo necessario – di conseguenza – che il documento venga destinato in

concreto a produrre effetti nell’ambito di un particolare rapporto giuridico.

L’elemento psicologico del reato consiste in un dolo specifico,

dovendo il soggetto agente non soltanto volere la falsificazione, con la consapevolezza di offendere gli interessi protetti, ma deve avere anche l’intenzione di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di

recare ad altri un danno mediante l’utilizzo dei quel documento. L’art. 489 c.p. punisce “Chiunque, senza essere concorso nella

falsità, fa uso di un atto falso”. Tra gli atti compresi nella previsione legislativa rientrano

anche i fogli firmati in bianco da altri riempiti e non per ordine di chi ne fa uso, nonché gli atti pubblici e privati da altri falsificati.

La condotta materiale tipica di reato consiste nell’uso

volontario dell’atto, consumandosi il reato con l’uso senza che

36

occorra altresì il verificarsi di evento alcuno, come per esempio il danno a terzi.

In ordine all’elemento psicologico del reato, occorre distinguere alcune ipotesi:

- se l’atto falso utilizzato è un atto pubblico, basta il dolo

generico, vale a dire la semplice coscienza e volontà dell’uso con la consapevolezza della falsità in atto;

- se l’atto falso è una scrittura privata, occorre il dolo

specifico, cioè il fine di procurare, con l’uso del documento, a sé o ad altri un vantaggio o di cagionare ad

altri un danno. L’art. 490 c.p., infine, punisce il reato di soppressione,

distruzione o occultamento di atti veri, punendo “Chiunque, in tutto o in parte, distrugge, sopprime od occulta un atto pubblico o una scrittura privata veri”.

L’antigiuridicità del fatto è esclusa soltanto quando l’agente aveva la piena disponibilità giuridica del documento e non aveva alcun obbligo di restituirlo o esibirlo.

Il delitto si consuma con la distruzione, soppressione od occultamento; non è richiesto che in concreto vi sia stato un

danno, essendo sufficiente ai fini della configurabilità dell’ipotesi delittuosa il semplice potenziale nocumento24.

Ritenuta la descrizione della condotta materiale tipica di reato,

sembra corretto ipotizzare l’applicazione della disciplina del tentativo ex art. 56 c.p.

In ordine, poi, all’elemento psicologico del reato si tratta di un dolo specifico dovendo l’agente commettere il reato al fine di eliminare un mezzo di prova.

3.1.6. Segue: f) IL DELITTO DI VIOLENZA PRIVATA

L’art. 610 c.p. prevede e disciplina il delitto di violenza privata sancendo che “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe taluno a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”, stabilendo – poi – un aumento di pena per l’ipotesi in cui ricorra alcuna delle circostanze previste all’art. 339

c.p. ovvero il reato sia commesso mediante l’uso di armi, da persona travisata, da più persone riunite, con scritto anonimo o in

modo simbolico ovvero usando la forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte.

Il delitto in esame rappresenta un’ipotesi di reato sussidiario,

nel senso che un determinato fatto sarà punibile a titolo di violenza privata solo se non specificamente previsto come elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato. Così, ad

esempio, se la violenza è diretta ad ottenere un ingiusto profitto

24

Cassazione Penale, sentenza 24.06.1980.

37

con altrui danno ricorre il delitto di estorsione e non già quello di violenza privata25.

L’elemento materiale nel reato in esame consiste, dunque, in una violenza o minaccia che abbia l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare ovvero omettere una determinata cosa, senza alcuna

giustificazione giuridica. Il delitto si consuma nel momento in cui la volontà della

persona offesa risulti essere stata coartata e quest’ultima sia

rimasta – di fatto – costretta a fare, tollerare o omettere una cosa voluta dal soggetto agente.

Alla luce delle caratteristiche giuridiche che contraddistinguono l’istituto del tentativo punibile ex art. 56 c.p., pare possibile ritenere che sia ipotizzabile rispetto al reato di

violenza privata l’ipotesi del delitto tentato, ritenuto trattarsi di un reato di danno a carattere commissivo rispetto al quale non può

escludersi l’eventualità che, malgrado la violenza o la minaccia posta in essere dal soggetto agente, il costringimento non si sia verificato.

Per quanto riguarda, infine, l’elemento psicologico del reato sembra superfluo sottolineare come si tratti di dolo generico,

rilevando non già il fine per il quale il soggetto agisce ma la sola consapevolezza di agire nonostante il dissenso della persona offesa.

Pur se non direttamente afferente l’attività professionale

dell’Amministratore di condominio, pare opportuno richiamare per doverosa completezza espositiva una recente sentenza della Corte di Cassazione riportante l’uniforme orientamento giurisprudenziale

in ordine all’incivile utilizzo dei parcheggi condominiali. In particolare, la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte

di Cassazione con sentenza del 20.04.2006, n. 16571 ha chiarito come il parcheggio irregolare in area condominiale possa integrare il delitto di violenza privata.

Nel caso particolare, l’imputato si era introdotto con la propria vettura in altrui area condominiale ed aveva parcheggiato il mezzo in modo tale da impedire l’uscita sulla pubblica via alle auto dei

condomini, rifiutandosi di spostarsi una volta invitato da un condomino che doveva uscire. Il giudice di prime cure riconosciuta

la sussistenza della responsabilità penale dell’imputato lo aveva condannato per violenza privata, punita all’art. 610 c.p.

Ad avviso della Suprema Corte “nel reato di violenza privata (articolo 610 Cp), il requisito della violenza, ai fini della configurabilità del delitto, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione l’offeso, il quale sia, pertanto, costretto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà; nella specie, la sentenza ha descritto un fatto di voluta intenzione dell’imputato di mantenere il proprio veicolo – già parcheggiato irregolarmente in un’area

25

Così, Cassazione Penale, sentenza 05.11.1997, n. 9958.

38

condominiale alla quale non aveva diritto di accedere (“condominio a lui estraneo”) – in modo tale da impedire alla persona offesa di transitare con il proprio veicolo per uscire sulla pubblica via, rifiutando reiteratamente di liberare l’accesso, pretendendo “con evidente protervia ed arroganza” che la persona offesa attendesse secondo proprie necessità (la “discesa” della sorella), e tanto basta per integrare la violenza quale normativamente prevista”26.

Il delitto di violenza privata si perfeziona, quindi, in tutti i suoi elementi costitutivi nel momento in cui il soggetto, invitato a liberare il passaggio, si rifiuti di farlo: il delitto in esame, infatti,

presenta sotto il profilo soggettivo un quid pluris essendo la condotta diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere

qualcosa, con evento di danno costituito dall'essersi l'altrui volontà estrinsecata in un comportamento coartante27.

3.1.7. Segue: g) IL DELITTO DI MINACCIA

L’art. 612 c.p. stabilisce che “Chiunque minaccia ad altri un danno ingiusto è punito a querela della persona offesa con la multa fino ad € 51. Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell’art. 339, la pena è della reclusione fino ad un anno e si procede d’ufficio”.

Come la violenza privata, anche la minaccia rappresenta

un’ipotesi di reato generico e sussidiario che ricorre come figura autonoma solo quando il fatto della minaccia non sia

espressamente previsto come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di altro reato.

La fondamentale differenza tra il delitto di minaccia e quello di

violenza privata è rappresentato dal fatto che nell’ipotesi di reato disciplinata all’art. 612 c.p. la minaccia è fine a se stessa, diversamente da quanto previsto all’art. 610 c.p. ove la minaccia è,

invece, finalizzata a costringere il soggetto passivo a fare, tollerare od omettere qualcosa.

L’elemento oggettivo del reato in esame consiste nel prospettare ad altri un danno ingiusto il cui verificarsi dipende esclusivamente dalla volontà del soggetto agente28.

La minaccia deve, chiaramente, essere idonea a turbare la tranquillità della persona, la cui contestuale presenza – però – non

è necessaria ai fini della sussistenza del reato, ritenuto che appare sufficiente che questi venga, comunque, a conoscenza della minaccia indirizzatagli, a condizione – però – che la comunicazione

del terzo sia stata attuata per specifica volontà dell’agente. Il delitto si consuma non appena la persona offesa ha

percezione della minaccia ricevuta, con la conseguenza che

assolutamente problematica appare la configurabilità dell’ipotesi

26

Corte di Cassazione, Sez. V, 20 aprile-16 maggio 2006, n. 16571, (Presidente Foscarini – Relatore Marini). 27

Nota di Giuseppe Buffoni in www.Altalex.it del 18.05.2006. 28

Cassazione Penale, sentenza 11.06.1999, n. 7571.

39

del tentativo punibile ex art. 56 c.p. ritenuto che una volta che il soggetto passivo abbia avuto conoscenza della minaccia il reato è

già consumato e che – diversamente – non sussisterebbe reato alcuno.

L’elemento psicologico richiesto ai fini della sussistenza del

reato oggetto di esame è il dolo generico, vale a dire la semplice coscienza e volontà di minacciare ad altri un danno ingiusto.

In ordine, infine, alla condizione di procedibilità la legge

distingue a seconda che la minaccia sia semplice o aggravata, prevedendone la procedibilità a querela di parte nel primo caso e di

ufficio nel caso, considerando aggravata la minaccia eseguita da più persone, con armi, con scritto simbolico o anonimo o valendosi della forza intimidatrice delle associazioni segrete (esistenti o

supposte) ovvero con armi.

3.1.8. Segue: h) IL DELITTO DI ESTORSIONE

Ai sensi dell’art. 629 c.p. risponde del delitto di estorsione “Chiunque mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.

Oggetto specifico della tutela penale nel reato di estorsione è l’inviolabilità del patrimonio, associata all’interesse concernente la

libertà individuale contro fatti di coercizione, commessi al fine di costringere altri a fare o ad omettere qualche cosa per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno29.

Per l’esistenza del delitto di estorsione occorre, innanzitutto, una violenza o una minaccia che costringa la persona offesa ad un atto di disposizione patrimoniale – dovendo la vittima essere

costretta a compiere un atto positivo (come ad esempio pagare una somma di denaro) ovvero un atto negativo (come, ad esempio

rinunciare a recuperare un proprio credito) – dal quale derivi un ingiusto profitto a favore sia del soggetto agente sia di terzi allo stesso collegati.

Il delitto di estorsione si consuma nel momento in cui l’autore del reato riesce a conseguire il profitto con altrui danno, risultando

– peraltro – ipotizzabile anche il tentativo di estorsione per il caso in cui alla perpetrata violenza o la minaccia non faccia seguito l’evento di dazione o omissione desiderato dall’agente.

L’elemento psicologico nel delitto in esame è rappresentato dal dolo specifico dovendo il responsabile agire al fine determinato di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.

3.1.9. Segue: i) LA CONTRAVVENZIONE DI OMISSIONE DI LAVORI

IN EDIFICIO O COSTRUIZIONI CHE MINACCIANO ROVINA

L’art. 677, testualmente stabilisce che “Il proprietario di un edificio o di una costruzione che minacci rovina ovvero chi è per lui

29

Cassazione Penale, sentenza 11.07.1986, n. 7390.

40

obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della costruzione, il quale omette di provvedere ai lavori necessari per rimuovere il pericolo, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 154 a € 929.

La stessa sanzione si applica a chi, avendone l’obbligo, omette di rimuovere il pericolo cagionato dall’avvenuta rovina di un edificio o di una costruzione.

Se dai fatti preveduti dalle disposizioni precedenti deriva pericolo per le persone, la pena è dell’arresto fino a sei mesi o dell’ammenda non inferiore ad € 309”.

Come appare evidente, a seguito della depenalizzazione intervenuta con la Legge 25.06.1999, n. 205, è stata mantenuta, quale fattispecie penalmente rilevante, soltanto l’ipotesi contenuta

al terzo comma del citato articolo che punisce il proprietario o chi è obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio con la pena dell’arresto fino a sei mesi o dell’ammenda non inferiore ad € 309

se dall’omissione dei lavori deriva pericolo per le persone. La Giurisprudenza in applicazione di tale normativa ha

considerato come possibile soggetto attivo della contravvenzione anche l’Amministratore, il quale ha l’obbligo di rimuovere il pericolo derivante dalle parti comuni dell’edificio30.

Sul punto, infatti, la Cassazione ha più volte stabilito che “L’amministratore di un condominio può essere chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 677, terzo comma c.p. giacché le sue funzioni comportano la titolarità dei poteri attinenti alla conservazione delle cose e dei servizi comuni, fra i quali rientrano anche quello di attivarsi per la eliminazione di situazioni potenzialmente atte a causare la violazione del principio del neminem laedere”31

La responsabilità dell’Amministratore riguarda – chiaramente – i lavori necessari per la manutenzione ordinaria dell’edificio,

mentre per la straordinaria manutenzione l’obbligo dell’Amministratore si riferisce solo alle opere urgenti ed

improrogabili32. L’amministratore è, infatti, titolare per legge – salvo diverse

disposizioni statutarie o regolamentari – non soltanto del dovere di

erogazione delle spese attinenti alla manutenzione ordinaria e alla conservazione delle parti e servizi comuni dell'edificio, ai sensi dell'art. 1130 nn. 3 e 4 c. c., ma anche del potere di "ordinare lavori di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente" con l'obbligo di "riferirne nella prima assemblea dei condomini", ai sensi

dell'art. 1135 comma 2 c. c. ; di talché deve riconoscersi in capo allo stesso anche l'obbligo giuridico di attivarsi senza indugio per

30

Cassazione Penale, sentenza 04.05.1973, in Giust. Pen., 1973, II, 432; Cassazione Penale, 25.05.1965, Foro Nap.,

1966, 38; Cassazione Penale, 09.03.1959, Foro It., 1960, II, 63. 31

Tra le numerose altre, Cassazione Penale, Sez. I, 03.12.1996, n. 10385. 32

Cassazione Penale, 16.05.1960, Foro It., II, 108.

41

l'eliminazione delle situazioni potenzialmente idonee a cagionare la violazione della regola del neminem laedere33.

La stessa giurisprudenza ha escluso qualsiasi responsabilità del singolo condomino, sul quale non grava alcun obbligo giuridico di provvedere, a meno che per cause accidentali l’Amministratore

non possa adoperarsi con la necessaria urgenza per rimuovere il pericolo di rovina già manifestatosi e allora sul condomino sorge

un obbligo in via autonoma34. Il condomino, poi, è pienamente responsabile quando il

pericolo di rovina trae origine dalla parte dell’edificio di cui è

proprietario esclusivo35. Più recentemente la Suprema Corte di Cassazione ha fatto

applicazione dell’art. 677 c.p. affermando che tale norma sanziona

penalmente la condotta omissiva del proprietario di un edificio o di una costruzione che minacci rovina o di quella di chi è per lui

obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della costruzione, sicché, nella fattispecie riguardante un condominio con due soli condomini senza amministratore, l’obbligo grava sui

proprietari, obbligo che prima ancora che dall’art. 677 c.p. è – ad ogni buon conto – sanzionato anche dall’art. 2053 c.c.36.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, infatti, “L’obbligo giuridico del proprietario di rimuovere il pericolo derivante dalla minacciante rovina di parti comuni di un edificio e` del tutto indipendente dalla causa che ha determinato il pericolo, sicché è irrilevante l’origine del pericolo stesso e, tanto meno, la sua attribuibilità al caso fortuito o alla forza maggiore, quale addirittura un terremoto; nel caso si tratti di condominio, in assenza dell’amministratore, la gestione e la manutenzione della cosa comune spetta a ciascuno ed a tutti i condomini, secondo i principi che disciplinano la comunione”37 .

3.1.10. Segue: l) LA CONTRAVVENZIONE DI INOSSERVANZA DEI

PROVVEDIMENTI DELL’AUTORITA’

L’art. 650 c.p. punisce “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene, se il fatto non costituisce reato più grave”.

Tale reato, di natura contravvenzionale, è punito con l’arresto

fino a tre mesi o con la ammenda fino ad € 206.

33

Così, Cassazione Penale, Sez. I, 25.02.2003, n. 9027. Sul principio anche Cassazione Penale, sez. I, 04.03.1997,

Cancelliere; Cassazione Penale, 19 giugno 1996, Vitale; Cassazione Penale, sez. IV, 6 maggio 1983, Scarabelli, rv.

159977; Cassazione Penale, sez. VI, 22 aprile 1980, Lavagna, rv. 145901; Cassazione Penale, 4 maggio 1973, Parisi,

rv. 125614; Cassazione Penale, sez. IlI, 13 luglio 1962, La Marca, rv. 98901). 34

Cassazione Penale, sentenza 04.05.1973, in Giust. Pen., 1973, II, 432. 35

Cassazione Penale, sentenza 28.08.1972, n. 2745. 36

Cassazione Penale, Sez. II, sentenza 03.10.1986, n. 1000, Brizzi. 37

Tra le numerose altre, Cassazione Penale, Sez. I, 20.11.1996, n. 9866.

42

L’art. 650 c.p. secondo il prevalente orientamento rappresenta un’ipotesi di norma in bianco che pur non prevedendo – per

quanto di specifico interesse – la particolare figura dell’Amministratore ha avuto ampia applicazione nell’ambito condominiale, in quanto l’Autorità amministrativa ha il potere di

ordinare l’esecuzione di opere sulle parti comuni dell’edificio aventi le caratteristiche indicate da tale disposizione.

La condotta consiste nella mancata osservanza di un

provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragioni di giustizia, pubblica sicurezza, ordine pubblico o igiene, intendendo

per provvedimento qualsiasi atto che prescriva una determinato comportamento negativo o positivo con carattere di obbligatorietà.

Al riguardo la Giurisprudenza ha esaminato il caso di un

Amministratore il quale, non ottemperando ad un’ordinanza del Sindaco che ingiungeva di eseguire opere per eliminare rumori molesti provocati dall’impianto termico di un edificio, ometteva di

porre fine a tale situazione e motivava il comportamento negligente in base alla considerazione che l’assemblea dei condomini aveva

all’unanimità addebitato alla ditta che aveva installato l’impianto i rumori molesti.

La Suprema Corte di Cassazione riconosceva la responsabilità

penale dell’Amministratore per violazione dell’art. 650 c.p. poiché era suo dovere vigilare sulla regolarità di un servizio comune come

quello di riscaldamento e adottare le misure idonee per eliminare o diminuire i rumori molesti e non poteva ritenersi esonerato da tale incombenza limitandosi a darne comunicazione all’assemblea

condominiale38. In ordine alla violazione del disposto di cui all’art. 650 c.p. –

ritenuto che, trattandosi di contravvenzione, l’elemento psicologico

può consistere indifferentemente in dolo o colpa – l’elemento soggettivo è escluso soltanto quando il soggetto attivo non sia stato

messo nelle condizioni di conoscere le ragioni in base alle quali il provvedimento che lo riguarda è stato emesso.

Sembra importante chiarire come la Corte di Cassazione abbia

più volte sottolineato che “ai fini della sussistenza della contravvenzione di cui all'art. 650 c.p. è necessario che il provvedimento, emesso per ragioni di giustizia e di sicurezza, di ordine pubblico o di igiene, sia adottato nell'interesse della collettività e non di privati individui. Di modo che i provvedimenti del Giudice, che riguardano sempre un interesse particolare, non possono rientrare nella previsione dell'art. 650 c.p. che ha come oggetto specifico della tutela penale interessi di carattere generale, costituendo unica eccezione i casi in cui l’inosservanza del

38

Cassazione Penale, sentenza 06.12.1979; Cassazione Penale 15.03.1980.

43

provvedimento del Giudice sia espressamente prevista come reato da una specifica norma penale come nel caso dell’art. 388 c.p.”39.

Nel caso particolare esaminato dalla Suprema Corte, l’Amministratore di condominio era stato imputato per il reato ex art. 650 c.p. perché nella sua qualità di Amministratore non aveva

ottemperato al provvedimento di urgenza adottato per ragioni di giustizia ex art. 700 c.p.c. dal Giudice nel corso della causa civile

promossa da alcuni condomini, con il quale gli veniva imposto di eseguire i lavori ritenuti necessari dal consulente tecnico di ufficio per l'eliminazione delle infiltrazioni di acqua piovana attraverso il

tetto dello stabile da lui amministrato, che aveva causato danni alle pareti ed ai soffitti degli appartamenti sottostanti. Ad ulteriore conferma della insussistenza, nel caso particolare, del reato ex art.

650 c.p. la Suprema Corte di Cassazione specificava che “all'inottemperanza del provvedimento del Giudice, da qualsiasi ragione determinata, è conseguita l'esecuzione coattiva dei lavori, affidata dal Giudice al consulente tecnico di ufficio, anche per tale ragione, deve escludersi la sussistenza del reato previsto dall'art. 650 c. p.”.

Parimenti, va esclusa la responsabilità penale

dell’Amministratore di condominio in ordine al reato contravvenzionale punito all’art. 650 c.p. nel caso di “mancata osservanza dell’ordinanza sindacale che gli imponeva di effettuare lavori per l’eliminazione di infiltrazioni di acqua nell’appartamento di un solo condomino, apprestando a quest’ultimo l’ordinamento un diverso titolo di tutela da farsi valere nella competente civile” stante la assunzione dell’ordinanza per ragioni private e non legate all’interesse collettivo40.

39

Cassazione Penale, Sez. I, 02.04.2001, n. 12924. Sul principio anche Cassazione Penale, Sez. I, 04.12.1985 n. 3510,

Riannetti 40

Così, Cassazione penale, Sez. I, 29.12.2004, n. 49910.