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La psicologa nella scuola Regalami una Fiaba La scuola incontra i genitori Per scoprire insieme il magico potere educativo delle fiabe Paola Gioffredi Arianna Sala Scuola dell’Infanzia Sr. M. A. Sorre

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La psicologa nella scuola

Regalami una Fiaba

La scuola incontra i genitori

Per scoprire insieme il magico potere educativo delle fiabe

Paola Gioffredi

Arianna Sala

Scuola dell’Infanzia Sr. M. A. Sorre

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Cari genitori,

La fiaba è il tema proposto quest’anno nei tre incontri scuola-famiglia. Abbiamo pensato che riprendere contatto con la fiaba, con questo mondo magico popolato da principi, principesse, fate, streghe, orchi, potesse servire e far bene non solo ai bambini, ma anche agli adulti.

Nel mondo degli adulti, il “significato” e “l’importanza” delle fiabe è spesso frainteso o sottovalutato; gli adulti pensano che le fiabe siano utili solo ai bambini.

La fiaba svolge sicuramente un’azione importantissima nel mondo dei bambini; la descrizione dei personaggi e delle loro azioni è come un sottile filo d’Arianna che li accompagna nella comprensione di quello che gli accade dentro, e giorno dopo giorno, può contribuire a favorire la loro crescita armonica, in tutti i suoi aspetti: emotivo, affettivo, cognitivo, linguistico, sociale, ecc.

Tuttavia, la fiabe possono essere utili anche agli adulti, perché raccontano di difficoltà che sembrano insormontabili, ma che alla fine il protagonista riesce a superare trovando una soluzione per tornare ad una vita serena:”...e vissero felici e contenti.”

E’ un invito quindi all’ottimismo, a credere che anche nei momenti più bui non si deve perdere la speranza che esista sempre e comunque una svolta inaspettata.

Il ciclo di incontri si è concluso con un workshop, durante il quale i genitori partecipanti hanno inventato due fiabe, che sono state stampate e distribuite ai bambini.

Il Presidente

Elisabetta Ferrario

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Arianna Sala

“FIABA, TRA INCANTAMENTO E REALTA’” La fiaba, ancora tanto apprezzata dai bambini “moderni”,

come strumento di contatto con il mondo interiore del piccolo e di supporto per il suo sviluppo cognitivo,

affettivo/relazionale e morale.

PREMESSE STORICHE Raccontarsi fa parte dell’uomo. Da sempre, infatti, egli tramanda le sue vicissitudini, le sue imprese, le sue forti emozioni, le sue speranze, le sue credenze attraverso il raccontare che, di volta in volta, diventa mito, leggenda, fiaba o favola. Un tempo i racconti dell’uomo erano affidati alla voce e alla memoria: le trame passavano di bocca in bocca, talora arricchendosi, talora limandosi, talora impregnandosi di quella saggezza popolare che le rendeva “vere” anche se fantastiche. Gli anziani trasmettevano ai giovani tutta la loro esperienza di padri e di nonni ed insieme ad un bagaglio di informazioni tecniche trasmettevano anche quel complesso culturale fatto di credenze religiose, di pratiche rituali, di interpretazioni del mondo che era stato elaborato lentamente nei secoli precedenti. Le fiabe vennero raccolte dalla viva voce dei narratori popolari e trascritte a partire dal Seicento. Il primo fu lo scrittore G. B. Basile (1575-1632), con una bellissima raccolta di cinquanta fiabe in dialetto napoletano, ma fu soprattutto nell’Ottocento che in vari Paesi europei furono trascritte le antiche fiabe della tradizione. Infatti per trovare una trascrizione veramente fedele al linguaggio e alla tradizione popolare, bisogna aspettare “Le fiabe del focolare”, dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, raccolte appunto all’inizio dell’Ottocento. Le fonti della loro più celebre raccolta di Fiabe per bambini e famiglie furono amici e conoscenti e soprattutto una anziana signora povera ed analfabeta.

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Essi erano convinti che, attraverso le fiabe, avrebbero fatto conoscere e amare la cultura e le tradizioni del loro Paese a tutti, non solo ai bambini. In seguito durante il Romanticismo le fiabe furono valorizzate come espressione di poesia ingenua e se ne cominciò la raccolta sistematica. L’esempio dei Grimm fu seguito in Russia da Aleksandr Afanasev ( 1826-1871 ); fin da ragazzo cominciò a riscrivere le fiabe e le leggende popolari che i contadini raccontavano di sera intorno al fuoco durante i lunghi e freddi inverni russi. Nel 1855 pubblicò il primo volume delle sue fiabe, a cui ne fece seguire altri sette. Italo Calvino (1923-1985), uno dei più famosi scrittori italiani del Novecento, nel 1956 pubblicò in Italia la più ricca raccolta di “Fiabe Italiane”, tratte dal patrimonio favolistico di tutte le regioni. Egli non riscrisse storie narrate a voce, ma trascrisse in lingua italiana racconti in dialetto tratti da libri di varie regioni d’Italia, in modo che potessero essere compresi da tutti. Differentemente i “veri” autori di fiabe, invece, hanno elaborato storie e trame inventate da loro stessi; un grande autore classico è il danese Hans Christian Andersen (1805-1875), autore famoso per i suoi racconti, tra cui ricordiamo “La piccola fiammiferaia” e “Il brutto anatroccolo”. Le fiabe quindi sono state immortalate nei libri dopo che generazioni di adulti le hanno narrate a bambini e ad altri adulti, modificando e sostituendo i particolari in base al gusto, alle necessità proprie, degli ascoltatori e alla cultura di base in cui si inserivano; esse sono il prodotto, quindi, di un continuo scambio empatico tra chi narra e chi ascolta. Ciò ha connotato il racconto di una maggiore ambiguità o, meglio, di quell’insaturità che ha poi permesso l’adattamento delle tematiche fantastiche alle situazioni di vita di ciascuna cultura e ai loro mutamenti. Accanto, a questo “divenire”, adattarsi, mutare delle storie, possiamo però individuare tra di esse, in particolare tra le fiabe (anche se provenienti da popolazioni geograficamente lontane), delle sorprendenti analogie che provano un “sentire comune del genere umano”. E’ esperienza di ognuno di noi la possibilità di identificarsi con i personaggi delle storie, anche se lontani, anche se immaginari. In quest’ottica, la fiaba, la favola, la storia rappresentano proprio “quell’ immaginario collettivo” che ognuno può sentire come proprio.

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Anche se al giorno d’oggi fatichiamo a riconoscerlo, le trame, le emozioni, le vicissitudini narrate nelle fiabe sono fatti che, in qualche modo riguardano ognuno di noi ed esse si perpetuano nelle storie quotidiane del “nostro duemila”. Questa fatica deriva dal fatto che, se fino al XVII secolo la fabulazione era considerata una nobile attività anche per adulti, in seguito, con lo sviluppo esasperato del razionalismo, l’immaginario è stato relegato ai margini della vita intellettuale. In realtà le fiabe hanno, anche al giorno d’oggi, un grande potere ed esercitano importanti funzioni sia per gli adulti, ma sopratutto sono fondamentali nel processo evolutivo dei piccoli. Chi si occupa di fiabaterapia, per esempio, afferma che le fiabe possono insegnarci a vivere meglio e ad affrontare problemi di ordine emotivo. La fiabaterapia è una branca della psicologia che sfrutta il potere della fantasia e dei simboli per aiutare i pazienti a riprendere il contatto con desideri e aspirazioni troppo a lungo ignorati. Così, tramite la fiaba (la forma che ci è più familiare, quella alla quale siamo abituati fin da piccoli) la persona riesce a far emergere conflitti e disagi elaborando meglio le sue esperienze perché viene attivata la parte più emotiva del suo cervello: l'emisfero destro. Non possiamo dunque considerare genericamente la letteratura per l’infanzia, e nello specifico la fiaba, come un sotto-genere o una forma minore di creazione letteraria, ma piuttosto essa è una forma espressiva capace di fondere lingua e immagine, il segno scritto e il disegnato e di rivolgersi così al lettore nella sua unità psico-sensoriale. In sintesi, dunque, possiamo affermare che l’esperienza delle prime letture è fondamentale per lo sviluppo e la formazione cognitiva, affettiva/relazionale e morale del bambino.

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LE FIABE, LE EMOZIONI E I PROCESSI INTERIORI All’interno delle fiabe circolano un gran numero di emozioni anche di tipo negativo: dolorose, ciniche e aggressive. I genitori preoccupati si domandano spesso: “Non faranno male al bambino? Non si perderà anche lui nel bosco?” “le favole non possono generare nei bambini paure che li rendono ancora più inquieti?”. Si deve rispondere: “sì e no!”. Certamente le favole racchiudono anche paura e timori come “frutti delle tenebre”; se chi narra li accentua troppo o addirittura li sfrutta, tanto che nell'evolversi della vicenda le ombre non si rischiarano del tutto, lascia indietro un problema non risolto. Ma questo non è molto diverso da quello che accade quando si minaccia il bambino piccolo con lo spauracchio dell'uomo cattivo o dell'uomo nero che lo verrà a prendere se non si comporta bene. I genitori intimoriti da questo tipo di emozioni nel raccontare le fiabe ai loro piccoli omettono gli aspetti negativi delle fiabe. I genitori che fanno ciò sono spinti dal desiderio di presentare al proprio bambino solo racconti positivi che ritengono più consoni alla personalità del figlio, ma ben presto i bambini si rendono conto di non vivere in una realtà “tutta rose e fiori”, apprendendo velocemente che bisogna essere ben attrezzati per destreggiarsi tra le difficoltà che la vita pone davanti. A ciò va aggiunto che i bambini sono spesso attraversati da sentimenti aggressivi e distruttivi, del tutto fisiologici nel loro processo di evoluzione e crescita. I bambini però non sanno che questi loro sentimenti sono “normali” e la conoscenza di modelli esclusivamente positivi non fa che aumentare in loro sentimenti di colpa. Purtroppo, anche alcuni pedagogisti affermano che nelle fiabe vi sono crudeltà che non andrebbero raccontate ai bambini e dunque respingono le fiabe perché applicano a questa letteratura metri di giudizio che sono del tutto inadeguati. Se si prendono queste storie come descrizione fedele della realtà le fiabe possono risultare spesso immorali, crudeli, sadiche. Ma se vengono invece interpretate come simboli di accadimenti o problemi psicologici appartenenti più alle realtà interna del nostro essere piuttosto che esterna queste storie sono perfettamente veritiere.

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Per di più nelle fiabe, alla fine è sempre il male che viene sconfitto: la strega viene bruciata, la regina cattiva deve ballare con le scarpe roventi, la pancia del lupo viene riempita di sassi e così via. Se però si guardano più da vicino queste e altre immagini crudeli, ci si accorge che è sempre "una maschera del male" ad essere bruciata e distrutta. Sono figure del male, creature e maschere delle tenebre che vengono vinte e annientate. Trascinarle nel realistico sarebbe un completo fraintendimento della favola, devono rimanere immagini nella sequenza delle immagini, in tal caso la distruzione del male non spaventa, è anzi un momento liberatorio per il bambino che spesso, anche esteriormente, gioisce quando il male viene castigato. Tali esperienze rafforzano il carattere morale.

La fiaba stessa, con i suoi segnali molto forti di entrata ed uscita, (c’era una volta, e vissero tutti felici e contenti) si colloca come dentro ad una parentesi che garantisce al bambino la certezza che i fatti non sono reali e avvengono in un posto e in un tempo molto lontani da lui. Non a caso il tempo in cui sono ambientate le fiabe è sempre indeterminato, al di là delle formule iniziali; gli ambienti tipici sono favolosi castelli o casupole di povera gente, tenebrose foreste, paesi lontani, piccoli borghi con strade e botteghe, ma in ogni caso sempre nelle fiabe i luoghi sono indefiniti, descritti con espressioni generiche. Ma, più ancora di tali segnali, è rassicurante la presenza dell’adulto che accompagna il bambino nell’intreccio fiabesco, garantendo la possibilità di inoltrarsi in esso senza perdersi in terrificanti emozioni. Per fortuna c’è l’adulto lì, a leggergli la fiaba, a testimoniare, con la sua presenza che la fiaba finirà con il rassicurante “e vissero felici e contenti” e il mondo continuerà ad essergli amico. E allora, guai a cambiare una parola alla solita fiaba, pronunciare la formula magica con un’intonazione diversa! Tutto deve essere sotto controllo, nel più rassicurante dei rituali altrimenti il bambino se ne lamenta. E’ anche vero che ci sono, anche fra le classiche fiabe dei Grimm alcuni esempi che fanno venire i brividi, come la “Storia di uno che se ne andò in cerca della paura”. Queste probabilmente non sono da raccontare ad un bambino piccolo, ma forse andrebbe bene per ragazzi o ragazze di 11-12 anni, che hanno sufficiente senso dell'umorismo per ascoltare qualche

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volta racconti che facciano rabbrividire e inoltre a quell'età si amano le sensazioni forti e l'avventura. Il racconto delle fiabe esige da chi le narra un senso di responsabilità verso il bambino: deve sentire che per mezzo della sua parola esercita un'azione che penetra profondamente attraverso porte spalancate nell'anima dei più piccoli. Non va inoltre trascurata la capacità della fiaba di presentare le emozioni negative in modo “sufficientemente protetto”. Infatti, le fiabe hanno una modalità di presentare le emozioni e gli stati interni già di per se stesse in un modo che protegge i bambini da un’esposizione a qualcosa di troppo “grande” per loro. Le fiabe descrivono gli intimi stati della mente per mezzo di immagini e di azioni. Dato che un bambino riconosce l’infelicità e il dolore quando una persona sta piangendo, la fiaba non ha bisogno di dilungarsi sull’infelicità del personaggio. Quando la madre di Cenerentola muore, non ci viene detto che la fanciulla si disperò o si sentì sola, ma semplicemente che “ogni giorno si recò alla tomba di sua madre e pianse”. Nelle fiabe dunque i processi interiori sono tradotti in immagini visive. Quando l’eroe si trova di fronte a difficili problemi interiori che sembrano essere senza soluzione non viene descritta la sua condizione psicologica, ma viene piuttosto descritto come “perso in un bosco fitto ed impenetrabile, nell’incapacità di trovare il sentiero per uscirne senza alcune speranza di farcela”. Per chiunque abbia ascoltato la narrazione di alcune fiabe l’immagine e la sensazione di essere perso nel bosco sono indimenticabili. Dunque, considerato che il pensiero del bambino molto piccolo è ancora immaturo e irreversibile la fiaba fornisce un contenitore provvisorio dove possono venire immaginati, pensati e coordinati in una successione spazio-temporale dei pensieri, riguardanti vissuti psicologici interiori, in altro modo impensabili.

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PERCHE’ I BAMBINI DI OGNI TEMPO AMANO COSI’ TANTO LE FIABE? Credo che i bambini di nessun periodo storico siano mai stati consapevoli del fatto che le fiabe e le favole parlassero proprio di “cose loro”. Nemmeno oggi i bambini hanno raggiunto questa consapevolezza, certo è che i loro volti sono ancora caratterizzati da “espressioni rapite” quando stanno ad ascoltare la narrazione di una fiaba. Vediamo quali sono le caratteristiche di questo genere letterario che lo rendono così attraente agli occhi dei piccoli: Semplicità strutturale e di contenuto:

- il mondo diviso in buoni e cattivi - l’abitudine a risolvere i problemi.

Una prima ragione può essere ritrovata nella semplicità strutturale e di contenuto caratteristica di questa forma letteraria. Le trame presentano un basso grado di complessità e i personaggi sono stereotipati e sia nelle azioni che nelle intenzioni domina una netta distinzione fra il bene e il male. Tale chiarezza e relativa prevedibilità del testo consente al bambino una piena comprensione della vicenda, che non gli sarebbe permessa da una maggiore profondità psicologica della narrazione. E’ per questo che la fiaba piace tanto al bambino. Nelle fiabe il mondo è ancora diviso in buoni e cattivi, in bianco e nero. Nelle fiabe, sì, che si capisce bene come “girano” le cose! Per il bambino impegnato a realizzare che nella realtà esistono anche i mezzi toni, i grigi, è davvero rassicurante tuffarsi in uno scenario diviso in due! Nelle fiabe, inoltre, l’apparenza non ha nessuna importanza rispetto all’essenza, alla sostanza. La gentilezza, la bontà e la generosità sono sempre ripagate bene, mentre la scortesia e la malvagità vengono punite; l’amicizia, la fedeltà e l’onestà sono sacre e rappresentano la strada per raggiungere la meta. Dunque entrare in contatto con un mondo nel quale i buoni trionfano e i cattivi vengono sconfitti e puniti, risulta essere estremamente rassicurante per il bambino.

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Inoltre si sa che nelle fiabe le cose vanno sempre a finir bene e il lieto fine comunica ai piccoli ascoltatori fiducia e sicurezza in se stessi e nel mondo. Nella fiaba però, nonostante il lieto fine, non va sempre tutto bene dall’inizio alla fine, anzi è tipico delle fiabe presentare una situazione felice che funge da introduzione, ma che poi è seguita dal dramma in cui presto si troverà immerso il protagonista. Il valore della fiaba risiede proprio in questo: nella sua capacità di presentare, in termini immaginari e quindi facilmente comprensibili dal bambino, una situazione drammatica, un grave conflitto, una possibile tragedia e di indicarne la via d’uscita. La fiaba dunque presenta il problema e la soluzione del problema. Le tematiche fondamentali dello sviluppo infantile Un secondo aspetto che rende la fiaba affascinante agli occhi del bambino è la sua capacità di affrontare alcune tematiche fondamentali dello sviluppo infantile, problemi esistenziali difficili da affrontare in altro modo: la rivalità fraterna, il progressivo distacco dai genitori, l'accrescimento delle proprie capacità,…. Il “c’era una volta” iniziale conduce il bambino in un “altrove” che, proprio perché lontano dalle sue esperienze, può liberare in lui (identificato con i personaggi), quegli impulsi, quelle spinte aggressive, quei desideri di trasgressione e di onnipotenza che nella vita quotidiana sono censurati dal principio di realtà, dalle regole di convivenza democratica e dagli stessi processi di crescita. Ecco allora che il bambino, immerso nel racconto, può essere il coraggioso protagonista (i protagonisti, si sa, sono tutti coraggiosi), ma può essere un po’ anche il cattivo, e un po’ anche la fata buona. Nella fiaba, infatti, il bambino può affrontare, “proiettandosi” nei personaggi fantastici, i propri impulsi aggressivi e le proprie paure: l’orco divoratore, la strega misteriosa, il drago sputa fuoco e il terribile lupo diventeranno i nemici interni ed esterni da cui difendersi, ma anche armi con cui attaccare e attraverso cui veicolare la sua aggressività. Immedesimandosi nel racconto fantastico, può far fronte alla sua voglia (e al tempo stesso paura) di crescere, superando, assieme al suo eroe, ogni

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sorta di ostacolo. Egli può allora vivere in un mondo fantastico avventure appassionanti e terribili che simbolizzano i suoi conflitti interiori. Da un lato dunque le fiabe sono piene di bambini: bambini abbandonati da soli nel bosco, bambini che devono far fronte a matrigne crudeli, bambini non amati, bambini non voluti, sperduti. I bambini della fiabe sono bambini che disobbediscono sempre ai divieti: aprono tutte le porte che dovevano restare chiuse, lasciano tutte le vie su cui avrebbero dovuto camminare, vanno dove non sarebbero dovuti andare. Le fiabe parlano quindi ai bambini di tutte le problematiche con cui quotidianamente hanno a che fare. L’abbandono, il disamore, la solitudine, la disobbedienza, la paura,…. Ciò che è importante è che in queste situazioni i bambini vincono: le fiabe costituiscono per loro la voce della speranza. Dall’altro lato nelle fiabe non ci sono solo i bambini: ci sono anche i ragazzi, i giovani, gli adulti e gli anziani. Dunque attraverso le vicende dei protagonisti le fiabe preannunciano le tappe future dell’esistenza, con le difficoltà che si potranno presentare e le eventuali modalità con cui superarle. In questo senso le fiabe possono intendersi come un “corso completo di formazione alla vita”. Non è un caso infatti che i bambini amino particolarmente una certa fiaba in un determinato periodo e vogliano sentire solo quella, la ascoltano, riascoltano e non si stancano mai di sentirsela raccontare. Le altre fiabe in quel periodo non li interessano, in quel momento quella è la loro fiaba, è quella che parla del problema che al momento li riguarda. Il linguaggio ed il pensiero simbolico Un terzo aspetto è il fatto che il linguaggio delle fiabe è molto simile al pensiero del bambino cioè un pensiero magico, apparentemente illogico agli occhi degli adulti, dove gli eventi si piegano più alla logica del desiderio, che al principio di realtà: il linguaggio simbolico. La mente adulta e razionale si è occupata e tuttora si occupa di spiegarsi come avvengono i fenomeni, ma si è via via allontanata dalla ricerca dei perché che assume sempre un vago sentore di domanda religiosa o filosofica.

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La mente del bambino, invece, che non è ancora in grado di pensare nei termini razionali a cui noi generalmente ci riferiamo, ha un estremo bisogno di interrogarsi sul perché delle cose proprio per mettere ordine al mondo sconosciuto a cui si affaccia, per comprenderne lo scopo, il fine. Non è un caso che si dice proprio che i bambini attraversano la fase dei “perché”. “Mamma perché il fuoco brucia?” “Perché è caldo” “E perché è caldo?” “Perché il legno si consuma e produce energia?” “E perché produce energia?” Si potrebbe proseguire all’infinito, ma generalmente l’adulto si irrita, i bambini non trovano risposte alle loro domande, interviene la rassegnazione e cambia il corso dell’esplorazione e così l’energia per il bambino diventa “un omino verde che mangia il legno e sputa fuoco”. Questo per dire che gli adulti pensano di dare informazioni complete ed esaurienti quando spiegano in termini razionali un fenomeno al bambino, ma spesso per il piccolo queste risultano essere parole vuote, di cui non riesce a coglierne il significato se non trasformandole e connotandole con un valore magico. La fiaba invece parla sempre dei perché avvengono determinati fatti: “Cappuccetto Rosso prese il cestino preparato dalla mamma e si avviò nel bosco perché doveva portare il cibo alla sua nonna malata” oppure “il principe andò in fondo al mare per cercare l’anello di diamanti per poter così sposare la bella principessa”. La mente razionale dell’adulto si chiede come possa una bambina piccola attraversare da sola un bosco o come il principe possa, senza bombole, raggiungere la profondità del mare, mentre il pensiero di cui è “attrezzato” il bambino non lo porta a farsi queste domande, è soddisfatto dalla spiegazione dei perché.

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UNA STORIA…CENTO STORIE: IL FRUTTO DI UN INCONTRO Il bambino e l’adulto che racconta la fiaba fanno, per così dire, una loro storia; ed è proprio qui il bello delle fiabe. La stessa fiaba assume significati e sfumature diverse per ogni bambino, diventando una fiaba nuova, ma, più ancora, ogni fiaba diventa una piccola storia tra quei due che ogni sera se la raccontano. Lo stato d’animo di chi narra, la sua disponibilità, l’intonazione della sua voce, le emozioni che nascono lì in quel momento avranno ogni volta sfumature diverse e, probabilmente, è quella la vera storia del momento. Abbiamo già accennato, infatti, che le fiabe tradizionali sono il risultato di storie raccontate innumerevoli volte da adulti diversi a ogni tipo di bambini e adulti e ciascun narratore, nel corso del tempo, soppresse e aggiunse degli elementi per arricchirla di significati per se stesso e per gli ascoltatori, che di norma conosceva bene. Nel parlare ad un bimbo dunque il narratore adulto dovrebbe reagire in base a quanto desume dalle reazione del piccolo ascoltatore e modificare la traccia della storia in base agli interrogativi posti dal bambino, dalle espressioni di piacere o di paura del piccolo. La narrazione fedele alla carta stampata infatti la priva di gran parte del suo valore: la narrazione per ottenere la sua massima efficacia deve essere un “fatto interpersonale”, plasmato da coloro che vi prendono parte. Oltre quindi ad assumere quel carattere di universalità, di appartenenza ad un sentire comune (elementi base dell’empatia, della comprensione, dell’uscita dall’egocentrismo), la fiaba, passando per la coppia formata da colui che narra e da colui che ascolta, assume, per così dire, quel “marchio di fabbrica” che la rende “propria di quella coppia” ed “unica”. Ed è proprio perché fiabe, favole, storie, possono rinnovarsi e acquistare infiniti significati all’interno delle relazioni che esse possono esplicare quell’effetto liberatorio da più parti riconosciuto e, possiamo aggiungere, formativo del pensiero. Perché possa comunicare appieno i suoi messaggi, i suoi significati simbolici e interpersonali una fiaba dovrebbe essere raccontata anziché letta.

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Nel caso una fiaba venisse letta, chi legge dovrebbe essere quantomeno coinvolto emotivamente sia dalla storia che dal bambino e provare un senso di empatia, di vicinanza per quanto la storia può significare per lui. La narrazione è comunque preferibile alla lettura perché permette maggiore flessibilità di cui abbiamo parlato poco sopra. Ovviamente questo prevede anche il rischio di cadere in alcuni tranelli. Per esempio, un genitore non in sintonia con il proprio figlio o troppo preso dalle sue vicende quotidiane può scegliere di narrare le fiabe sulla base dei propri bisogni piuttosto che di quelli del piccolo. C’è da dire che anche se questo dovesse succedere può sempre rappresentare una fonte di apprendimento per il bambino che può imparare cosa interessa, commuove o fa arrabbiare il suo genitore. L’attivo senso di partecipazione dell’adulto alla narrazione della storia reca un vitale contributo e un enorme arricchimento alla esperienza che ne fa il bambino. Ciò implica un’affermazione della sua personalità tramite una particolare esperienza condivisa con un altro essere umano che, benché adulto, può pienamente apprezzare i sentimenti e le relazioni del bambino. Il compito di leggere o narrare delle storie è indubbiamente più difficile per quei genitori ai quali a loro volta, da bambini, non sono state narrate delle storie e non hanno potuto beneficiare del piacere e dell’arricchimento della vita interiore che queste storie offrono a un piccolo. In ultimo, la storia raccontata anziché quella letta da un libro illustrato risulta molto più efficace sia per lo sviluppo della capacità d’ascolto e per lo sviluppo della fantasia e della creatività nel bambino. Pensiamo a quante caratteristiche si possono attribuire ad un personaggio, ad esempio, se non ci si deve attenere ad una immagine preconfezionata dalla carta stampata.

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IL DIALOGO DAL PUNTO DI VISTA FANTASTICO NELLA NOSTRA “ERA MODERNA” Studi antropologici affermano che il dialogo tra nonni e nipoti e tra genitori e figli rischia di morire del tutto, almeno dal punto di vista fantastico” e la responsabilità maggiore è da attribuirsi all’uso che nella nostra società si fa dei mezzi di comunicazione più tecnici, razionali e realistici (come la televisione, il computer,…). Questi mezzi, pur riconoscendone l’alto valore di sviluppo e di progresso che hanno apportato alla nostra società, se mal gestiti hanno al giorno d’oggi il potere di “ammutolire i grandi e assordare i bambini”, impoverendo le relazioni affettive e indebolendo l’etica di gruppo. Infatti sono i moderni “mezzi del raccontare” (tv, computer, film), insomma tutti gli strumenti della multimedialità, che hanno modificato il problema dell’intrattenimento infantile, diminuendo la comunicazione spontanea tra adulti e bambini. Grandi e piccoli utilizzano oggi la televisione e il computer allo stesso modo, come strumento di intrattenimento. Ma dobbiamo ricordare che i bambini non sono “adulti in miniatura” e che le realtà che adulti e bambini vivono sono profondamente diverse. I giovanissimi, dunque, vengono forzatamente immersi nella vita “adulta” e nella sua routine e fanno poco uso della fiaba. Eppure ogni volta che cinema e tv ne ripropongono l’ennesima elaborazione il successo è assicurato. Dunque il bambino denuncia ancora il suo bisogno di fiabe, ma a raccontargliele non è più la nonna o la mamma, ma un’assordante televisione che tra l’altro gli suggerisce già le immagini preconfezionate e che dunque, piuttosto che contribuire allo sviluppo delle capacità fantastiche e creative, le blocca stereotipandole e omologandole.

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Paola Gioffredi

“Le menti degli ascoltatori sono le tele su cui il narratore dipinge il suo racconto. Lo storytelling non è un processo passivo ma co-creativo” (B. McWilliams – Storyteller) DA INSEGNANTE A STORYTELLER La magia della narrazione è un rituale che si ripete ogni volta sia per il narratore sia per il suo piccolo-grande pubblico. Ogni narrazione è per me un’occasione di grande ricarica affettiva ed “energetica”. L’atmosfera che si instaura è come sospesa tra le prime sillabe del “c’era una volta” e l’immancabile chiusura del lieto fine: occhi spalancati, dito in bocca, altri con la testa appoggiata alla spalla di un compagno. In questi brevi momenti mi sembra di entrare in contatto con l’anima dei bambini, con la loro parte più profonda e delicata. In questi momenti il cerchio si chiude intorno alla storia e il gruppo si unisce in un’esperienza vissuta insieme. Ogni volta l’incanto si ripete ed è per me una grande gioia leggere nei loro occhi concentrazione, attesa, stupore, sollievo. Anni di storytelling utilizzato per costruire relazioni comunicative in lingua straniera (l’inglese), mi hanno incoraggiato a sviluppare questo strumento anche in altri ambiti. La narrazione si è dimostrata efficace non solo per presentare in modo fantasioso e accattivante nuovi contesti comunicativi (vocaboli, strutture linguistiche, tradizioni), ma anche un mezzo straordinario per creare relazioni profonde con i bambini e tra i bambini. Attraverso un uso consapevole della narrazione è possibile intessere un substrato di conoscenze, ragionamenti, emozioni, esperienze. Con il passare del tempo mi sono resa conto che ogni storia è uno straordinario punto di partenza che si fissa sulla mappa del percorso evolutivo di ogni bambino. Ogni storia apre la mente a nuove rotte, nuove

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prospettive, nuovi ragionamenti, svela emozioni, progetti, dimensioni lontane. Da qui la comprensione che il raccontare possa diventare una dimensione comunicativa privilegiata non solo per trasmettere al bambino nozioni di vario genere, ma anche per entrare in contatto con il suo mondo interiore, le sue emozioni, la sua intelligenza (intesa come insieme complesso di potenzialità e competenze squisitamente creative e personali). Durante gli anni di insegnamento a contatto con i bambini ho acquisito la consapevolezza di avere tra le mani un efficace strumento didattico e comunicativo, ma non solo. La narrazione, se impiegata come mezzo privilegiato per interagire con il bambino, si rivela strumento eccezionale per creare legami forti, tessere relazioni creative e importanti. Perché la narrazione, estrapolata dal momento magico e rituale dello story-time (momento potente, carico di forza simbolica, in cui lo storyteller presenta le sue narrazioni e trasporta l’ascoltatore nella magia del racconto), può diventare un occasione comunicativa quotidiana con la quale interagire con i nostri bambini. NON TI DICO, TI RACCONTO “I bambini di oggi sanno molto di più di quello che possono capire” ( David Elkind Phd – Psicologo dell’età evolutiva) Impartire istruzioni e regole a bambini piccoli è sempre stato un compito piuttosto difficile. La cosa straordinaria è che i bambini sono creature molto collaborative, sempre disponibili a farsi in quattro per compiacere l’adulto ed emularlo. Tuttavia spesso capita che proprio l’adulto non riesca a trovare il canale comunicativo giusto per trasmettere al bambino i propri intendimenti, progetti ed emozioni. Constatare che i bambini di oggi sono straordinariamente svegli e capaci di farsi assorbire da programmi televisivi e informatici complessi spesso ci inganna. Pensiamo che essi siano in grado di comprendere tutte le informazioni che ricevono. In realtà questo non è vero. I nostri bambini dagli O ai 10 anni affrontano quella strada che il genere umano ha faticosamente percorso in 65.000 anni di evoluzione. In un lasso

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straordinariamente breve di tempo passano dalle competenze dell’homo habilis (poco più di un animale), all’epoca dell’homo sapiens-sapiens, poi si evolvono straordinariamente scoprendo il linguaggio, la scrittura e ancora fino all’homo technologicus dei giorni nostri. Alcuni bambini di 4-5 anni sono in grado di utilizzare un PC (!) Per l’adulto è fondamentale essere consapevole di questo enorme percorso evolutivo, per non correre il rischio di anteporre i tempi, nell’ansia di dimostrare la bravura e la precocità del proprio bambino. Questo significa che prima di “digerire” la spiegazione scientifica del sistema solare, un bambino di 4-5 anni ha bisogno di entrare in contatto con le fiabe o i miti della creazione. Prima di disegnare la Gioconda deve essere in grado di impugnare una matita e tracciare un cerchio. Prima di capire la simbologia di un numero, deve manipolare centinaia di oggetti piccoli, medi e grandi, leggeri e pesanti, metterli in fila, raggrupparli per genere e sparpagliarli di nuovo. Prima di comprendere un’emozione deve averla sperimentata più di una volta, averla riconosciuta in sé e negli altri e aver trovato qualcuno che le abbia dato un nome. Prima di digitare sulla tastiera di un PC deve aver usato le proprie mani per costruire, rompere, disfare, tagliare, impastare, avvitare, svitare, grattare, sentire, instaurare relazioni fisiche e materiali con il mondo che lo circonda. Bisogna saper aspettare. Scorgere l’arrivo e la fine delle varie “epoche” evolutive senza fretta. In fondo, se ci pensiamo bene, civiltà diverse hanno raggiunto traguardi evolutivi in epoche diverse. Questo accade anche con i bambini. Comparare i traguardi evolutivi dei nostri figli con quelli degli altri è quanto di più ingiusto possiamo fare nei loro confronti. Dire a un bambino della scuola materna che lavarsi i denti fa bene perché così non si ammalano e quindi non bisogna andare dal dentista, è un messaggio razionale per lui difficile da comprendere. Inventarsi una storia (o trovare un libro illustrato che la racconti) in cui un dentino malato, attaccato da un esercito di ometti piccolissimi ma agguerriti e puzzolenti, viene salvato grazie alla scoperta di un arma imbattibile (lo spazzolino!) è una storia che sicuramente avrà maggiore impatto sulla sua dimensione immaginativa. Arricchire questa storia di stimoli sensoriali (le urla di

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dolore del dentino, quelle di battaglia degli ometti agguerriti, i loro morsi feroci per ferire il dentino, le loro mefitiche puzze…) darà al bambino dei riferimenti sensibili e noti per collocare questa storia nel proprio vissuto quotidiano. I percorsi mentali di un bambino sono diversi da quelli di un adulto. Nei bambini prevale il pensiero magico-simbolico, tipico di una certa epoca storica, nell’adulto il pensiero razionale. Il bambino si domanda “perché?”, l’adulto vuole sapere il “come”. Spesso i due canali non si incontrano. Ogniqualvolta si deve passare a un bambino un’informazione che noi adulti reputiamo importante è indispensabile pensare a come trasmetterla. Inventare una storia o cercarne una adatta si dimostra uno dei modi più efficaci per mettersi sulla loro lunghezza d’onda. Significa per noi adulti discendere lungo le “ere” della nostra evoluzione e tornare ad attingere dai nostri vissuti. Attenzione però a non abusare di questo potere della narrazione. L’eccessivo uso di riferimenti educativi e didascalici rischia di rovinare il gusto di una bella narrazione fine a se stessa, il piacere dello stare sul divano o nel lettone a contatto con mamma e papà per la pura gioia di sentirli vicini e di addormentarsi al suono della loro voce. Il magico potere dei simboli Quando il bambino è molto piccolo, non ancora in grado di comprendere perfettamente il linguaggio, né tanto meno una storia, può essere nutrito “narrativamente” dalla nostra vicinanza, dal nostro odore, dalla nostra voce che canta, recita filastrocche, culla prima del sonno. Tutte queste sensazioni sono molto forti per un infante e gli “raccontano l’accoglienza” e l’amore che lo circondano e lo rassicurano. La voce è la prima sensazione percepita dal feto, le capacità interpretative del suono, del tono e del ritmo della voce umana sono straordinarie in un neonato. Per questo è bene essere consapevoli di quanto la nostra voce, il nostro viso e il nostro corpo, siano in grado di raccontare al bambino piccolissimo. Presto imparerà a parlare e a cantare insieme a noi le

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filastrocche e le ninne nanne. Presto sarà pronto ad accogliere narrazioni più complesse. J. Bruner, psicologo e studioso dell’età evolutiva, diceva che una delle prime narrazioni che spesso facciamo inconsapevolmente a un bambino di pochi mesi è il gioco del “cu-cu-settete!” L’adulto nasconde il volto dietro le mani: “cu-cu!” All’improvviso riappare esclamando: “settete!” Questa semplice sequenza di azioni contiene dei concetti fondamentali per la narrazione: il prima e il dopo, l’abbandono e il ricongiungimento. Per un bambino piccolissimo il tempo non ha un valore, quando il volto della mamma o di una persona cara scompare non c’è più per davvero! Ma se dopo pochi istanti, il volto riappare sorridente, il piccolo si sente rassicurato: la storia finisce bene, la mamma ritorna. Ritorna a ogni volta. Ritorna sempre. Se vogliamo rimanere nel parallelismo evolutivo del genere umano, l’età prescolare rappresenta l’era dei miti e delle fiabe. Nel mondo magico del bambino è insita la necessità di venire a patti in modo simbolico con una realtà spesso dura da digerire e comprendere (il fratellino nuovo, le discussioni tra mamma e papà, l’inizio della scuola dell’infanzia…). Le fiabe in questo ci aiutano molto. Le fiabe della tradizione occidentale (da non confondere con le favole, quelle di animali di Esopo e La Fontaine, quasi sempre a sfondo morale) sono strumenti narrativi di grande impatto sulla fantasia e sul mondo interiore del bambino. La simbologia della fiaba allude a temi fortissimi (l’attaccamento, l’abbandono, la paura, il nemico, l’aiuto, le risorse interiori, il viaggio, la soluzione di un problema, la fiducia, la speranza…). Questi temi sono percepiti in maniera molto intensa dalla parte più intima e recondita del bambino. Le fiabe, spesso terribili e paurose nel loro svolgimento, rispondono alle paure e ai bisogni inconsci di ogni bambino trasmettendo conoscenze e rassicurazione. Quando in una fiaba incontrano un orco o una strega entrano in contatto con la parte terribile del genere umano; quell’ombra temibile che

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certamente hanno già intravisto. Vengono a patti con l’immagine della propria mamma o del proprio papà quando sono arrabbiati: in quei momenti assomigliano in modo sconcertante a streghe e orchi. Nello stesso tempo, attraverso le vicende dei protagonisti delle fiabe, imparano a passare attraverso boschi tenebrosi e terribili asperità, imparano a sconfiggere orchi, lupi e streghe, imparano il valore dell’astuzia, della collaborazione e la magia delle risorse personali. Soprattutto, attraverso l’immancabile lieto fine, imparano il potere straordinario della speranza. La fiaba, racchiusa tra il “c’era una volta” e il “vissero tutti felici e contenti” è un format che il bambino riconosce. Sa che queste parole magiche gli consentono di entrare in un mondo fantastico, inverosimile, dove i personaggi si riconoscono subito: o sono buoni o sono cattivi. Nella fiaba non c’è mai ambiguità, per questo è molto rassicurante. I miti della tradizione di tutte le civiltà antiche come quella ebraica, egiziana, maya o indu, aiutano invece il bambino a trovare risposte straordinarie a temi intriganti come l’origine dell’universo, il ruolo delle forze della natura, il succedersi delle stagioni e temi più “filosofici” come il bene e il male, il ruolo degli uomini sulla terra, la vita e la morte. Il fatto che i bambini siano piccoli non significa che non siano in grado di porsi alcune domande. Spesso i loro “perché?” nascondono esigenze filosofiche e metafisiche. L’approccio fantastico del mito si sposa bene con il mondo “magico” del bambino, il mito esplicita e sottolinea aspetti della realtà nella quale è immerso, viene percepito come qualcosa di straordinario e nello stesso tempo intrigante. A un bambino in età prescolare non ha molto senso tentare di spiegare la nascita dell’universo attraverso la teoria scientifica del big bang. Si potrà però interessarlo all’argomento attraverso il mito ebraico della creazione o l’affascinante mito indù del sogno del dio Visnù… Questo non significa riempirgli la testa di menzogne, ma sensibilizzarlo verso quelle domande cruciali alle quali i miti hanno dato risposta in epoche in cui la scienza non era in grado di intervenire. Quando sarà più grande ed evoluto saprà trovare risposte più adeguate, personali o scientifiche.

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Man mano che i nostri cuccioli crescono, alle fiabe si aggiungono naturalmente altre storie, la loro, la nostra. Il nostro rapporto con loro si arricchisce anche del dono della nostra memoria: “mamma raccontami di quand’ero piccolo…” Quante volte ce lo sentiamo chiedere. La nostra memoria di loro è un dono speciale per la costruzione della propria immagine primitiva. Chi di noi si ricorderebbe della propria infanzia se degli adulti non si fossero fatti carico di questo dono? Per diventare adulti abbiamo bisogno di non smarrire il ricordo di noi bambini. Le storie personali nascono presto, sul fasciatoio, quando la mamma racconta al bimbo mentre gli sta mettendo il pigiamino che cosa hanno fatto insieme durante la giornata o quello che sarà il programma dell’indomani. Queste storie si arricchiscono di particolari fino al giorno in cui ci chiederanno di raccontar perché li abbiamo avuti, perché li abbiamo desiderati. Piccoli tempi carichi di emozione Per entrare in una comunicazione narrativa occorre tempo. Non tanto, ma di buona qualità. Di questo è bene essere consapevoli. Il dono del nostro tempo è uno dei più preziosi. Vale più di qualsiasi costoso gadget tecnologico. E’ tempo che semina, è tempo che nutre. E’ un tempo che deve essere cercato, voluto, rivendicato: non salta mai fuori da solo. Occorre spegnere la tele quando si è a tavola per incoraggiare narrazioni condivise. Occorre avere voglia di raccontare la propria giornata, anche quando non è stata propriamente esaltante. Occorre abbandonare il divano sul quale ci stavamo appisolando, sospendere la visione della partita o del film, per accompagnare i bambini a letto. Occorre rimandare le attività frenetiche che ci risucchiano per sederci in un angolo con una tazza di caffé per guardarsi negli occhi e cominciare a raccontare. Tempo per esserci. Cellulare spento, occhi, mente, cuore con i nostri figli, per alcuni minuti solo per loro.

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Narratori, “narr-attori” o narra-genitori? Ognuno di noi ha un’identità narrativa propria. Anche le persone più introverse e ruvide sono in grado di raccontare, a modo loro, una storia. L’importante è riconoscere la propria peculiarità narrativa e metterla a disposizione. Non importa essere narratori di professione, o addirittura “narr-attori”, capaci di fare voci, drammatizzare eventi, caratterizzare personaggi. Una narrazione onesta è una narrazione fatta con il cuore desiderando mettere in campo se stessi. Entrare con il bambino nella dimensione narrativa significa partire insieme a lui per un viaggio verso orizzonti lontani e fantastici in cui ci seguirà fiducioso fino all’immancabile arrivo. Quando raccontiamo, tutte le componenti della comunicazione non verbale concorrono a rendere questo momento significativo. Basta esserne consapevoli. Come si diceva, i bambini prima delle parole sono ottimi interpreti dei canali non verbali, quelli che riguardano la comunicazione corporea (la postura, l’atteggiamento, lo sguardo, l’espressione del volto) e la comunicazione para-verbale, relativa alla voce (il timbro, il tono, il ritmo, il volume). Diventare narratore vuol dire essere consapevole di mettere in campo tutte le proprie potenzialità comunicative. Ogni volta che un genitore si mette a raccontare, non trasmette al proprio figlio solo una storia, ma anche tutto un bagaglio di immagini, sensazioni, emozioni e affetto che rendono quella storia unica. Se raccontiamo una storia con la fretta di concludere per tornare a vedere il film o la partita, tutta la nostra narrazione sarà caratterizzata dall’impazienza. Se siamo rilassati, a nostro agio, desiderosi di condividere un momento speciale con il nostro bambino, queste sensazioni penetreranno inevitabilmente nel nostro racconto che diventerà dono, goduto e ricambiato. Mi sento di dire che un buon narratore è chiunque si presti al gioco della narrazione con la serena consapevolezza di chi vuole mettersi in gioco interamente, in modo “olistico” (corpo, mente, cuore e spirito).

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Quando ci predisponiamo a raccontare vale la pena fermarsi alcuni istanti per recuperare la nostra dimensione narrativa. Dove vogliamo condurre il bambino con il nostro racconto? Cosa vogliamo raccontare? Come? E poi partire. La voce del narratore è protagonista di ogni racconto. E’ il flauto del pifferaio magico che induce i bambini a seguirlo senza riserve. La prima cosa da fare per prendere dimestichezza con la nostra voce è renderci consapevoli del suo timbro, quel suono particolare che la rende unica, lo stesso che qualche volta ci capita di sentire da una registrazione e che ci fa immancabilmente inorridire. Ogni voce però, pur mantenendo quel timbro che la contraddistingue, può cambiare e assumere un tono emotivo in grado di trasmettere una scaletta differenziata di emozioni (spavento, preoccupazione, rabbia, serenità). Ogni voce può esprimersi forte, piano o sussurrando; può avere un ritmo, un fluire dolce, veloce, concitato. Una voce può anche tacere e creare pause narrative molto significative E allora divertiamoci a dosare la voce come in una ricetta: a variarne l’intensità per sottolineare momenti speciali: forte e imperiosa quando si tratta di eventi significativi, sussurrata quando si raccontano secreti e momenti delicati; lenta e ritmata per sottolineare passaggi cruciali, veloce e concitata per fuggire, insieme ai personaggi, da un pericolo imminente. La pausa, il momento di silenzio, è un particolare significativo almeno quanto l’intonazione. Essere capaci di fermarsi, attendere qualche secondo, creare un po’ di suspence, è come aggiungere un pizzico di sale alla nostra narrazione. La consapevolezza mentre si racconta serve anche per rimanere sintonizzati con il nostro “pubblico”, sia esso costituito da un solo bambino o da un gruppo numeroso. Essere presenti a se stessi nel momento della narrazione è mantenere il contatto con le reazioni di chi ascolta, con le sue competenze (è in grado di capire tutti i passaggi della storia, è opportuna una semplificazione?), con le sue emozioni (mi sembra spaventato, forse è meglio addolcire i toni; si distrae, occorre inserire un particolare che lo coinvolga…). Il mestiere di narratore dunque non è semplicemente quello del “parlatore”, dell’erogatore di linguaggio e significati, è anche, e

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soprattutto, quello di chi, narrando, riesce a mettersi in ascolto, di se stesso e delle proprie emozioni e di quelle del pubblico che lo segue fiducioso, come su un sentiero sconosciuto e pieno di avventure. Io credo che arrivare a questo livello di consapevolezza narrativa, sia uno dei traguardi più entusiasmanti per chiunque. E’ il momento in cui la narrazione diventa un’esperienza ricca e feconda, in cui si sente di dare moltissimo e di ricevere altrettanto in termini di trepidazione, emozione ed affettività. Così come la qualità del tempo, concorre a raccontare una storia anche un altro elemento fondamentale: lo spazio. Il setting narrativo, ossia il dove, è un fattore importante del “come raccontare”. Raccontare in mezzo alla confusione, con la radio accesa, gente che va e viene, seduti in un angolo scomodo, privo di luce è un setting poco consigliabile. Così come il tempo della narrazione deve essere amorevolmente cercato, anche lo spazio deve essere preparato per comunicare, raccontare direi, la cura e l’attenzione che dedichiamo a quel modo tutto particolare di stare con nostro bambino. Per cui se raccontiamo a casa è importante trovare un bel posto, confortevole, accogliente, tranquillo, un angolino tipo tana per stare alcuni minuti insieme al nostro bambino. Quando la narrazione comincia dobbiamo trovarci in una posizione comoda per noi e per i bambini, possiamo tenerceli in braccio o averli vicino sul divano, oppure, quando sono più grandi e magari leggiamo un libro, averli davanti. Il contatto corporeo è fondamentale e quando manca è importante che il narratore recuperi ogni tanto il contatto visivo, occhi negli occhi. L’uso dello sguardo nella narrazione è uno strumento importante perché recupera di volta in volta il bambino, lo prende per mano lungo il sentiero e mantiene il legame con la voce narrante. Per i narratori meno esperti conviene cominciare con una storia o una fiaba nota.

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Ricette per una fiaba Se tra le mura di casa è possibile avvalerci della lettura ad alta voce per sopperire ad eventuali carenze immaginative, in altre occasioni dobbiamo trovare il coraggio di sperimentare l’ebbrezza della narrazione pura, quella di cui tutti siamo inconsapevolmente capaci e che dobbiamo recuperare facendo appello alla nostra fantasia e creatività, andando alla ricerca della nostra “dimensione fanciulla”, dei ricordi del nostro io bambino. Questo procedimento di riattivazione delle memorie di quando si era bambini è certamente un esercizio molto interessante che ci riporterà ai nostri giochi, alle nostre passioni, alle storie che avevamo nella testa e ci piaceva ascoltare quando eravamo piccoli. Questo recupero delle nostre radici fanciulle ci avvicinerà alla realtà dei nostri figli che potranno incontrare a loro volta il loro genitore bambino.