REFERENDUM: NO CONSERVATORE E RIFORMATORE

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Terminata il 3 luglio 2006 Ordine dei Giornalisti Consiglio Nazionale Esame 88 a sessione “TESINA” Argomento di attualità nel settore della politica interna Michele Aglio 18 luglio 2006 Sottocommissione REFERENDUM: NO CONSERVATORE E RIFORMATORE Le colpe di Berlusconi. La fine della Lega Nord. La questione settentrionale.

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Le colpe di Berlusconi. La fine della Lega Nord. La questione settentrionale.

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Terminata il 3 luglio 2006

Ordine dei Giornalisti

Consiglio Nazionale Esame 88a sessione

“TESINA” Argomento di attualità nel settore della politica interna

Michele Aglio 18 luglio 2006

Sottocommissione

REFERENDUM: NO CONSERVATORE E RIFORMATORE

Le colpe di Berlusconi. La fine della Lega Nord. La questione settentrionale.

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Tesina di Michele Aglio Esame 18 luglio 2006 - Sottocommissione

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Se il no di giugno alla riforma costituzionale del centro-destra sarà conservatore o riformatore, lo diranno il tempo e le eventuali modifiche alla Carta approvate dal Parlamento nell’attuale legislatura. L’Italia ha azzerato senza appello la riforma costituzionale targata Berlusconi-Bossi-Calderoli. Sono stati bocciati i modi in cui la riforma è stata scritta e i suoi contenuti. L’unico sì strappato al popolo del “sì” è stato la riduzione dei parlamentari con un rilancio - al ribasso - di Prodi. Il Presidente del Consiglio ha proposto 400 deputati invece dei 500 approvati nel novembre 2005; una boutade più che una necessità reale e indispensabile. Tutto il resto (bicameralismo imperfetto, elezione diretta dei senatori, premierato forte, devoluzione, cioè il 99% del contenuto della riforma), è stato rispedito al mittente. Significa che l’Unione non vuole le riforme? O non vuole queste riforme?

Una Costituzione di tutti non di quelli “della baita” “Massacro” e “pastrocchio” sono state le definizioni dei sostenitori del “no” alla Carta scritta in una baita di Lorenzago: una riforma nata male e finita peggio. I contenuti innovatori (discutibilmente innovativi o migliorativi) sono passati in secondo piano. Non c’è stata nessuna discussione in Parlamento fra maggioranza e opposizione. E fin qui, ci sarebbe poco da eccepire se i due schieramenti si ignorano reciprocamente o i rappresentanti del popolo non riescono a raggiungere un accordo (le quattro Bicamerali). Il dibattito è mancato

anche all’interno del centro-destra con i diktat di Berlusconi ai suoi per salvare l’alleanza con la Lega Nord, indispensabile per affrontare le politiche. Si sa com’è andata: Berlusconi sconfitto, Bossi disintegrato, Follini (Udc) che dice “no”, 18 Regioni su 20 che dicono “no”. È pur vero che il fine giustifica i mezzi, ma il troppo stroppia. L’Italia ha bocciato il metodo Berlusconi ed ha affidato non solo all’Unione, bensì a tutto il Parlamento “per il no”, il delicato compito di salvaguardare la Costituzione (il “no” conservatore) e di ridare attualità allo spirito costituzionale (il “no” riformatore). Tutto questo può avvenire senza l’inciucio della quinta Bicamerale o di una assemblea Costituente, magari ristretta. Lo sforzo che la classe politica deve fare è imparare la lezione dei Padri costituenti: l’unità d’intenti, le “riforme condivise”. Il centrosinistra - che ha in mano il destino dell’Italia nei prossimi cinque anni - non solo deve tener conto di un paese “spaccato a metà”, ma anche evitare modifiche costituzionali a colpi di maggioranza. Ciò si configura ancora come “no” conservatore, che non vuol dire: “Va bene così, non si deve cambiare nulla”. Il bicameralismo perfetto non va bene. Mille parlamentari sono troppi. Il federalismo del 2001 deve essere messo in pratica. Come può allora il centro-sinistra rispondere alle richieste di riforme di un Nord (e Nord Est) produttivo e zavorrato dal debito pubblico? L’Unione governa la stragrande maggioranza delle piccole amministrazioni siano esse regionali e comunali, anche nei territori del profondo Nord del “sì”. Quando, però, entra in gioco il governo del Paese vince per uno 0,1%. Sicuramente ci sono problemi più urgenti da risolvere, soprattutto economici ed internazionali, ma il nuovo patto costituzionale deve essere riproposto proprio per rilanciare lo spirito costituzionale promosso dal “no” al referendum, un “no” riformatore.

Le colpe di Berlusconi

Il “no” alla riforma semi-presidenzialista della Cdl è stato netto, travolgente. La colpa di tutto questo è ancora una volta soprattutto di Berlusconi (foto a destra). Non pago di aver perso le politiche di aprile, ha trasformato le amministrative di maggio in un referendum sul governo appena insediato: cosa contraria all'abc della politica e della comunicazione

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comprensibile. Infine, nello smarrimento più totale, ha stravolto il dibattito sul referendum di giugno in un “sì a me e contro Prodi”, senza nemmeno “scendere in campo” come aveva fatto nei mesi precedenti. Persino i suoi elettori (in Sicilia, a Milano, nel Nord...) gli hanno voltato le spalle. Il leader di Forza Italia è stato sconfitto dall'elettorato centrista (un'area moderata in cui la stabilità è più importante del sentimento di partito) che non ha collaborato con la sua strategia antagonista e ha preferito disertare le urne. Non ha perduto perché il centrosinistra ha votato contro di lui. Ha perduto perché una parte consistente del centrodestra lo ha abbandonato. Il sì alla Costituzione “della baita” avrebbe potuto rappresentare una forzatura, una spinta alle riforme, che costringesse il centro-sinistra a mettere mano alla Costituzione ed approvare modifiche equilibrate, riformando l’ordinamento repubblicano nell'esigenza di autonomia del Nord (la Questione Settentrionale). In Lombardia ha vinto il sì (2,4 milioni di voti, 55%) contro il no (2,0 milioni, 45%), ma non nella Milano morattiana. In Veneto, non a Venezia, ha vinto il sì con le stesse percentuali, così come in alcune province piemontesi, ma non a Torino. In Friuli-Venezia Giulia il no ha prevalso di pochissimo; nelle altre Regioni a statuto speciale alla grande: in Sardegna oltre il 70%. In tutte le altre Regioni, gli elettori del “no” hanno dato la loro bocciatura a Berlusconi-Calderoli, mentre gli elettori fedeli del centro-destra hanno ignorato i seggi, dimostrando quanto il loro senso di appartenenza sia direttamente proporzionale alla rappresentatività dei propri leader. La Casa delle Libertà dovrebbe cambiare politica: continuare a essere opposizione, ma finirla con le barricate. Sul tavolo del governo vi sono tre temi importanti: i conti pubblici da risanare, la politica internazionale da consolidare, le riforme costituzionali da concordare. La Cdl dimostrerebbe di essere una forza nazionale credibile e responsabile, eviterebbe che le sue riforme vengano interamente cancellate dal governo di centrosinistra e farebbe emergere le posizioni massimaliste della sinistra antagonista, ricominciando così la rimonta.

La Lega “degli impresentabili” è finita?

Che la Lega Nord sia in declino, è sotto gli occhi di tutti. Sta bene, quanto la maschera paralitica del suo leader Umberto Bossi (foto a destra). Il colpo alla devolution è arrivato col referendum. Il “no” - anche al Nord, seppur con distinguo - ha dimostrato (ma ce n'era ancora bisogno?) che le idee e i programmi (qualunque essi siano) hanno bisogno di facce: Calderoli (foto

sottostamte) docet, la punta dell'iceberg di una massa di piccoli dirigenti ignoranti e buzzurri. Ci vuole una minima coerenza per riuscire nelle imprese, che significa cocciutaggine: le parolacce, gli slogan celoduristi, l'opposizione a Roma. Ci vuole, talvolta, l'incoerenza

opportunistica di scegliere il male minore: Berlusconi, ad esempio, che nel 2000 era il “papa nero”, il “mafioso di Arcore”, il “padrone di Roma ladrona”, e nel 2001 diventò il “garante del Nord” o qualcosa del genere. Era forte... la Lega, ma era tutto fumo e niente arrosto. Dov'è finita la Lega Nord del 1996 (federalista) che otteneva il 10,1% su scala nazionale? Dov'è la Lega rivoluzionaria del 1997? La Questione Settentrionale e Italiana si poteva risolvere con due Stati distinti? Mancavano due cose: il sostegno del popolo e la forza dei leader.

La Lega era, è e sarà Bossi: inscindibili. Il capo-partito, fondatore, padre-padrone, fa e disfa a seconda dei tempi e degli umori, urlando e spergiurando. Combatté contro Roma-Polo e Roma-Ulivo, ricevendo le lusinghe sia di Berlusconi, sia di D'Alema, nonostante fosse un politico da bar (con tutto il rispetto per i bar, dove di solito si parla di calcio e di donne). È probabile che quando Bossi smetterà di fare politica, la Lega si dissolverà. Berlusconi si comprò la Lega in tribunale. Contro quelli che gli davano del mafioso, fece una battaglia giudiziaria... epocale. Bossi cedette e Berlusconi divenne il vero padrone della Lega Nord. Nel 2001, gli

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elettori leghisti erano meno della metà di quelli del 1996. Al quinto anno di governo, con un'immagine forse recuperata, Bossi si ammalò. Poi firmò l'alleanza coi siciliani e perse. Infine, conquistata la devolution in una baita, perse anche il referendum. L’ex direttore di Telepadania prevede che la Lega si sciolga entro dicembre in tre tronconi. Pur essendo un personaggio molto discutibile, Max Ferrari (a destra, nella

rissa con Rosy Mauro) è uno dei pochi invasati di secessionismo che ancora ci crede, che è ancora coerente col progetto rivoluzionario del fu leader Bossi. Max Ferrari non è da sottovalutare, pur essendo circondato da quattro gatti verdi. Con epurazioni, risse e vendette, finisce l'epoca del leghismo bossiano così come lo abbiamo conosciuto negli anni ruggenti dal 1983 al 2000. Sopravvissuti ad esso, sopravviveremo ad altri.

Un Lombardo-Veneto sul modello del Trentino?

Il referendum di giugno ha colorato di rosso (il “no”) quasi tutta l’Italia, eccetto Lombardia e Veneto, colorate di “sì” azzurro. Il vezzo delle bandiere, cui siamo abituati in tempi di maggioritario, bipolarismo e “scelte di campo”, ha fatto rinascere il regno austriaco pre-unitario. È risorto solo nelle riflessioni di alcuni esponenti politici (soprattutto della Cdl, ma non solo), che hanno ipotizzato una devolution limitata alle due Regioni. Addirittura hanno immaginato una macro-regione lombardo-veneta (ex articolo 132), salvo poi farne tabula rasa. L’hanno immaginata come la Catalogna (la Natzione catalunya) o come il Belgio di fiamminghi e valloni. Niente da fare, “meglio pensare al Trentino-Alto Adige”. Questa devolution longobardo-serenissima avrebbe dei vantaggi? Siccome si finisce sempre col parlare di soldi - anzi, è una questione di soldi - cosa succederebbe sul piano finanziario? Il Trentino

incassa il 90% di tutte le spese erariali (imposte sul reddito, Iva, imposte indirette) riscosse sul territorio e si finanzia - da solo - sanità, istruzione, assistenza, finanza locale, sport, servizi per il territorio, ecc. Se ciò avvenisse per Lombardia e Veneto, le due Regioni spenderebbero 21,5 miliardi di euro in più e ne incasserebbero - in più - 76,7, realizzando un surplus di ben 55,2 miliardi di euro (fonte Sole24Ore). Queste risorse verrebbero tolte allo Stato centrale, privato di oltre il 5% del Pil. Allora? Non è opportuno che il Lombardo-Veneto diventi come il Trentino, semmai che quest’ultimo diventi un po’ più “solidale” finanziariamente con l’Italia. È evidente come le sperequazioni italiane non esistano solo fra Nord e Sud. Lo dimostrano fenomeni di micro-secessionismo. Alcuni Comuni bellunesi, vicentini, veronesi e bresciani hanno più volte tentato la strada del referendum per secedere dalla rispettiva regione ed essere annessi al Trentino. Lamon (Belluno) ci è riuscito. Bagolino (Brescia) ci riprova. La questione settentrionale è anche questa. Il drenaggio di euro dal Nord a Sud è enorme, a fronte di una situazione infrastrutturale del Nord Italia che, per mancanza di risorse, sta davvero diventando preoccupante. È a rischio lo sviluppo economico (leggi anche “grandi opere”) del Settentrione a svantaggio di tutto il Paese. Il governo Prodi non può non tenerne conto. L’Unione deve affrontare la Questione Settentrionale con serietà e lucidità, prima che sia troppo tardi; prima che altri secessionismi spuntino all’orizzonte. Galli della Loggia ha scritto che “fino a quando l’istanza autonomistica sarà rappresentata dalla brutale trivialità ideologica e dalla patetica incultura del leghismo, è arcisicuro che il Lombardo-Veneto resterà nel mondo dei sogni. Bossi non lo sa: ma alla fin fine, proprio lui e la sua gente sono i migliori custodi di ciò che detestano”. Vero. Com’è vero che Bossi non è eterno.