Redazione e Amministrazione Volume 38 149-150 - sip.it · PEDIaTrIa DELLO SVILuPPO E DEL...

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Volume 38 149-150 Gennaio-Giugno 2008 Direzione Generoso Andria, Napoli Gianni Bona, Novara Antonio Cao, Cagliari Liviana Da Dalt, Padova Alberto Martini, Genova Pierpaolo Mastroiacovo, Roma Luigi Daniele Notarangelo, Boston Fabio Sereni, Milano Luigi Titomanlio, Napoli Alberto Villani, Roma Redattore Capo Marina Macchiaiolo, Roma Comitato di Redazione Salvatore Auricchio, Napoli Stelvio Becchetti, Genova Sergio Bernasconi, Parma Enrico Bertini, Roma Andrea Biondi, Monza Sabrina P. Buonuomo, Roma Alessandro Calisti, Roma Mauro Calvani, Roma Virgilio Carnielli, Ancona Gaetano Chirico, Brescia Antonio Correra, Napoli Maurizio de Martino, Firenze Pasquale Di Pietro, Genova Alberto Edefonti, Milano Alberto Fois, Siena Renzo Galanello, Cagliari Carlo Gelmetti, Milano Achille Iolascon, Napoli Giuseppe Maggiore, Pisa Paola Marchisio, Milano Bruno Marino, Roma Eugenio Mercuri, Roma Paolo Paolucci, Modena Franca Rusconi, Firenze Michele Salata, Padova Fabian R. Schumacher, Brescia Alfred Tenore, Udine Redazione e Amministrazione Pacini Editore S.p.A. Via Gherardesca, 1 56121 Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 [email protected] Stampa Industrie Grafiche Pacini, Pisa Invio gratuito per i Soci SIP. Abbonamenti Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi del- l’abbonamento annuo sono i seguenti: Italia € 53,00; estero € 67,00; istituzionale € 53,00; specializ- zandi € 30,00; fascicolo singolo € 27,00 Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Prospettive in Pediatria, Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa – Tel. 050 313011 – Fax 050 3130300 – E-mail: abbo- [email protected] I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle di- sposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appo- sitamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’artico- lo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professiona- le, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, E-mail: [email protected] e sito web: www.aidro.org. © Copyright 2008 by Pacini Editore S.p.A. Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini Finito di stampare nel mese di Ottobre 2008 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A., Pisa. Ulteriori informazioni sui prodotti oggetto di pubblicità reperibili su: www.prospettiveinpediatria.it

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Volume 38149-150

Gennaio-Giugno 2008

DirezioneGeneroso Andria, NapoliGianni Bona, NovaraAntonio Cao, CagliariLiviana Da Dalt, PadovaAlberto Martini, GenovaPierpaolo Mastroiacovo, RomaLuigi Daniele Notarangelo, BostonFabio Sereni, MilanoLuigi Titomanlio, NapoliAlberto Villani, Roma

Redattore CapoMarina Macchiaiolo, Roma

Comitato di RedazioneSalvatore Auricchio, NapoliStelvio Becchetti, GenovaSergio Bernasconi, ParmaEnrico Bertini, RomaAndrea Biondi, MonzaSabrina P. Buonuomo, RomaAlessandro Calisti, RomaMauro Calvani, RomaVirgilio Carnielli, AnconaGaetano Chirico, BresciaAntonio Correra, NapoliMaurizio de Martino, FirenzePasquale Di Pietro, GenovaAlberto Edefonti, MilanoAlberto Fois, SienaRenzo Galanello, CagliariCarlo Gelmetti, MilanoAchille Iolascon, NapoliGiuseppe Maggiore, PisaPaola Marchisio, MilanoBruno Marino, RomaEugenio Mercuri, RomaPaolo Paolucci, ModenaFranca Rusconi, FirenzeMichele Salata, PadovaFabian R. Schumacher, BresciaAlfred Tenore, Udine

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AbbonamentiProspettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi del-l’abbonamento annuo sono i seguenti:Italia € 53,00; estero € 67,00; istituzionale € 53,00; specializ-zandi € 30,00; fascicolo singolo € 27,00Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Prospettive in Pediatria, Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa – Tel. 050 313011 – Fax 050 3130300 – E-mail: [email protected] dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle di-sposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appo-sitamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblicazione. Ai sensi dell’artico-lo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa.

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© Copyright 2008 by Pacini Editore S.p.A.

Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2008 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A., Pisa.

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INDICE numero 149-150 Gennaio - Giugno 2008EditorialePasquale Di Pietro, Pierpaolo Mastroiacovo, Fabio Sereni .......................................................................................................................... 1

Dove eravamo e dove siamo: riflessioni ed emozioniFabio Sereni, Franco Panizon, Rino Vullo ..................................................................................................................................................... 2

Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovativeGeneroso Andria, Giancarlo Parenti ............................................................................................................................................................. 8

La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive futureCarmen Gianfrani, Salvatore Auricchio ...................................................................................................................................................... 18

Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perchéSergio Bernasconi, Cecilia Volta ................................................................................................................................................................ 27

Le β-thalassemieAntonio Cao ............................................................................................................................................................................................... 36

Trauma cranico minoreLiviana Da Dalt, Barbara Andreola ............................................................................................................................................................. 46

L’artrite idiopatica giovanileAlberto Martini ........................................................................................................................................................................................... 52

Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzionePierpaolo Mastroiacovo ............................................................................................................................................................................. 59

Vecchie e nuove immunodeficienzeAlessandro Plebani, Luigi Daniele Notarangelo ......................................................................................................................................... 73

Malattia renale cronica e insufficienza renaleSara Testa, Alberto Edefonti, Fabio Sereni ................................................................................................................................................. 81

Paralisi cerebrali infantiliLuigi Titomanlio, Ennio Del Giudice ............................................................................................................................................................ 89

Dove va la PediatriaArmido Rubino ........................................................................................................................................................................................... 96

Nel prossimo numero 151 Luglio - Settembre 2008OrTOPEDIa (a cura di S. Becchetti)

La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasivitàS. Becchetti, F. Becchetti

Le rachialgie in età pediatrica F. Becchetti

PEDIaTrIa DELLO SVILuPPO E DEL COMPOrTaMENTO (a cura di E. Del Giudice)

Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice

Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante risonanza Magnetica funzionaleG.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Calamoneri, F. Di Salle

MaLaTTIE METabOLIChE (a cura di G. Andria)

Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico: nuove patologie, nuovi geni/malattia e novità nel campo della diagnosi e della terapia D. Melis, F. Deodato, R. Parini, C. Dionisi-Vici

Screening allargato neonatale per le malattie metabolicheP. Rinaldo, S. Tortorelli

Terapia genica nelle malattie metaboliche N. Brunetti-Pierri

FrONTIErE (a cura di A. Cao, L.D. Notarangelo, A. Iolascon)

alterata regolazione della via di trasduzione del segnale raS-MaPK come meccanismo unificante delle sindromi di Noonan, Leopard, Costello e cardiofaciocutanea: le sindromi neurocardiofaciocutaneeG. Zampino, M. Tartaglia

LINEE GuIDa SIP (a cura di R. Longhi)

Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta. Linea guida SIP-SIMEuP-SINP 2007

INFOrMaZIONI SIP (a cura del Presidente)

FOCuS Su: (a cura di P. Mastroiacovo)

acido folico nella prevenzione delle malformazioni congenite I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo

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Editoriale

Per più di 37 anni Prospettive in Pediatria è stata una rivista di aggiornamento diretta da un gruppo di amici animati dal solo desiderio di fare e diffondere cultura pediatrica. Il sostegno, da parte dei pediatri italiani non è mai mancato, tanto che è sempre riuscita a sostenersi finanziariamente attraverso gli abbonamenti.Con questo numero Prospettive in Pediatria diventa “Organo Ufficiale della Società Italiana di Pediatria” e sarà quindi distribuito gratuitamente a tutti i Soci. La sua principale missione continuerà ad essere l’aggiornamento culturale del pediatra nelle varie sub-specialità pediatriche; favorire il trasferimento delle conoscenze dalle sub-specialità alla Pediatria tutta: ospedaliera, di famiglia e di comunità. Ma sarà anche un mezzo di comunicazione della SIP attraverso il quale diffondere documentazione, approvata dal Direttivo, di interesse culturale e assistenzia-le, come ad esempio linee guida e schemi terapeutici e/o diagnostici, notizie di eventi culturali particolarmente rilevanti, ecc. Così come sarà un ulteriore strumento di collegamento con le Società Affiliate e le Sezioni Regionali.Questo editoriale è firmato, molto inusualmente, da tre persone (Pasquale Di Pietro, Presidente della SIP, da Pierpaolo Mastroiacovo, Coor-dinatore Operativo della Direzione della Rivista, e da Fabio Sereni, uno dei fondatori della Rivista che ha da sempre contribuito a dirigerla) in rappresentanza di un’ampia, coesa ed efficiente Direzione (anche questo un fatto inusuale), che ha garantito nel passato e garantirà nel futuro un metodo di lavoro: scegliere in modo documentato la qualità migliore da offrire al lettore. Facendo tesoro delle esperienze passate e tenendo presenti le esigenze future siamo fortemente convinti della bontà di questa nuova avventura editoriale, che ha trovato il Comitato Direttivo della SIP, la Direzione tutta di Prospettive e l’Editore Pacini, non solo assolutamente concordi, ma anche entusiasti nell’affrontare il nuovo corso.Inoltre, il passaggio di Prospettive in Pediatria alla SIP arricchisce e completa il settore editoriale della Società rendendolo di altissimo livello e che comprende: l’Italian Journal of Pediatrics, rivista scientifica on-line in inglese che raccoglierà i contributi originali dei pediatri italiani (e perché no, anche di quelli stranieri) e avrà quindi una “target” allargato e internazionale; Area Pediatrica, specificatamente destinata all’aggiornamento in Pediatria generalistica; Pediatria Notizie, newsletter di informazione sulle attività della SIP; la Collana Monografica della SIP, impegnata nella edizione di volumi su argomenti di interesse pediatrico; e il Sito Internet, in continua crescita ed evoluzione.In questo panorama l’obiettivo di Prospettive in Pediatria è quello di cambiare nella continuità e riuscire a coinvolgere i nuovi e vecchi lettori. Forse non sarà “tutto per tutti”, ma ogni Socio SIP dovrà trovare in ogni numero della Rivista uno o più contributi di interesse e di stimolo. La Direzione e la Redazione di Prospettive, che hanno svolto in questi anni un eccellente lavoro, saranno ulteriormente rafforzate con l’inse-rimento di Gianni Bona e di Alberto Villani (nel Comitato Direttivo) e di Pasquale Di Pietro e Antonio Correra (nel Comitato di Redazione) ma, soprattutto, desideriamo una reale interazione con i lettori, in particolare con i Direttivi delle Società Affiliate, e poter contare su contributi e suggerimenti che rendano Prospettive in Pediatria una rivista sempre più letta, completa e funzionale.È un obiettivo ambizioso – ne siamo consapevoli - ma riteniamo che sia necessario porselo, per il progresso culturale della Pediatria italiana. Cercheremo, con impegno e dedizione, di raggiungerlo.

Pasquale Di Pietro Pierpaolo Mastroiacovo Fabio Sereni Presidente Società Italiana di Pediatria Direttore Prospettive in Pediatria Fondatore di Prospettive in Pediatria

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 1

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Dove eravamo e dove siamo: riflessioni ed emozioni

... di Fabio Sereni

Centocinquanta (numeri della Rivista) diviso quattro è eguale a trentasette virgola cinque. Sono quindi più di 37 anni che Prospettive in Pediatria viene regolarmente pubblicata, ogni tre mesi, ed è letta da un significativo numero di pediatri italiani. Ha avuto tre editori diversi, ma ha saputo mantenere sempre le sue principali caratteristiche, che sono rigore culturale e informazione tempestiva e aggiornata dei progressi più significativi delle conoscenze me-diche pediatriche.Il nostro attuale benemerito editore, Pacini di Pisa, ci ha incoraggiato a festeggiare il traguar-do dei 150 numeri con un’edizione speciale di Prospettive. Gli siamo grati.Pierpaolo Mastroiacovo e il Comitato Editoriale mi hanno chiesto di aprire questo numero con un “amarcord” personale. Non so cosa sperassero che scrivessi, ma ho subito accettato, non solo per ovvi motivi sentimentali, ma anche come dovere di testimonianza e di gratitudine per i tanti amici che molto più di me hanno contribuito con il loro sapere a far sì che Prospettive abbia acquisito un ruolo, credo non effimero e non irrilevante, nell’evoluzione culturale della Pediatria italiana degli ultimi anni.Ho scritto tutto quello che mi saltava in mente. Il risultato, a rileggermi, è stato che forse ho accentuato, se possibile, quello che è sempre stato uno dei miei maggiori difetti, e cioè l’impulsività. Non pretendo quindi certo di avere interpretato il pensiero degli altri illustri amici co-fondatori che hanno partecipato sin dall’inizio a questa avventura. Chiedo scusa se non tutti saranno d’accordo su alcune delle considerazioni, ma Franco Panizon e Calogero Vullo, che con me sono stati i primi direttori, con i loro appunti che seguono questa nota potranno correggere eventuali mie “distorsioni”.Nell’autunno del 1970 un mio amico, industriale farmaceutico di larghe vedute culturali 1, invitò a cena, al ristorante “Giannino” di Milano, un piccolo numero di pediatri “quarantenni” di belle speranze (per lo meno carrieristiche) per proporre loro di fondare una nuova rivista, che l’industria da lui diretta avrebbe non solo sostenuto finanziariamente, ma anche curato dal punto di vista editoriale e della diffusione, affidandone la responsabilità a Gianni Bordoli, persona che si rivelò di importanza fondamentale per il successo dell’iniziativa.Ovviamente tra di noi (Franco Panizon, Rino Vullo, Giovanni Bucci, Gennaro Sansone, Paolo Durand, Sergio Nordio e altri) ne avevamo discusso in precedenza, e non arrivammo quindi a quella riunione conviviale del tutto sprovveduti, ma ben sapevamo ciò che volevamo.Eravamo molto concordi su un punto. Se una rivista si doveva fare, se l’industriale farma-ceutico ci avesse dato adeguate garanzie, la rivista doveva essere di aggiornamento e non di contributi originali.E questo per due ragioni fondamentali. La più importante è che, forse con un poco di presun-zione, volevamo inaugurare una nuova stagione di seria e avanzata informazione culturale per i pediatri italiani. Eravamo sostanzialmente critici sulla tipologia dell’editoria pediatrica di quei tempi. Si pubblicavano allora numerosissimi periodici pediatrici. Ne ho perso il conto, ma a Padova come a Bologna, a Napoli come in Sicilia, a Genova e Torino Istituti e Cliniche univer-sitarie avevano il loro giornale. Giornali che pubblicavano di certo anche cose buone, ma che in linea di massima accettavano i manoscritti con una certa larghezza, senza programmazione di lungo e largo respiro e, soprattutto, senza una significativa revisione editoriale. Erano gli

1 Ambrogio detto Gino Secondi, con il quale già allora condividevo la passione per l’equitazione e i cavalli.

Fabio Sereni è nato a Roma il 16 Dicembre 1927. Research Fellow, Cornell Medical School di New York (1953-1954); Direttore Clinica Pedia-trica II, Milano (1957-2003); Consi-gliere e poi Assessore alla Sanità Re-gione Lombardia (1992-1994). È stato Presidente dell’Associazione Culturale Pediatri, Società Italiana di Nefrologia Pediatrica, European Society for Pe-diatric Research, European Society for Developmental Pharmacology. È stato uno dei fondatori, il principale anima-tore, il garante della qualità e della continuità di Prospettive in Pediatria (ndr). Autore di più di 200 articoli nel campo della biochimica, farmacologia e nefrologia pediatrica. Attualmente Professore Emerito dell’Università di Milano, Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Mariani, riversa la sua esperienza e passione per la Pediatria (ndr) nell’assistenza ai bambini con nefrouropatie in America Centrale. Si occupa appena può di storia della Pediatria, nel cui campo ha pubblicato un libro “d’autore” (ndr). Sposato, con due figli e due nipoti. Si interessa di libri antichi e cavalli.

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 2-7

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F. Sereni, F. Panizon, R. Vullo

anni in cui per un giovane pediatra il progresso della carriera (uni-versitaria o ospedaliera) passava per una strettoia obbligata, che era rappresentata dalla docenza. E la docenza si otteneva sì per meriti culturali e assistenziali, ma era anche pesantemente condizionata dall’avere pubblicato un numero sufficientemente grande di articoli. Oltre alla qualità era necessaria la quantità. La seconda ragione per cui decidemmo di proporre una rivista di aggiornamento, e non di contributi originali, è che giudicavamo la nostra pediatria non ancora abbastanza produttiva da poter sostenere, quantitativamente e quali-tativamente un periodico medico che pubblicasse ricerche italiane.Stabilimmo anche di chiedere al nostro sponsor-proprietario impe-gni precisi, come basi di partenza per il nostro impegno nella nuo-va avventura editoriale. Chiedemmo, ovviamente, piena libertà dei temi da trattare, ma anche che non fosse contemplata la stampa di pagine pubblicitarie (neppure dell’industria farmaceutica che ci sosteneva) e infine che per il primo anno la Rivista fosse inviata gratuitamente ai pediatri italiani, e che gli abbonamenti iniziassero quindi, di fatto, dal secondo anno di pubblicazione.La riunione conviviale andò molto bene 2. Stabilimmo di contattare anche coloro che non avevano potuto partecipare al pranzo, ma che giudicavamo importante che partecipassero all’avventura editoriale (Salvatore Auricchio, Roberto Burgio, Gianni Mastella e altri) e ci dem-mo la scadenza di iniziare in tempi brevi. Il primo numero uscì nella primavera dell’anno seguente (1971). La Figura 1 riproduce il fronte-spizio e la pagina che riporta il Comitato Editoriale del primo numero.Così è nata Prospettive. Ma ben presto la Rivista assunse anche una valenza politica, nel senso che il Comitato Editoriale, che era un gruppo singolarmente unito da vincoli ideali e di amicizia personale, non si accontentava solo di trasmettere cultura asettica, ma aveva la pretesa di incidere sulla politica sanitaria e sulla eticità della con-dotta professionale.Non fu quindi certo casuale la scelta del tema della prima Tavola Ro-tonda che Prospettive organizzò a Saint Vincent, e cioè “Riforma sa-nitaria e pediatria”. Erano i tempi dell’inizio della grande discussione sulle modalità con le quali doveva essere istituito e regolamentato il

Servizio Sanitario Nazionale, superando l’epoca delle mutue, e che avrebbe, dopo ben sette anni, portato all’approvazione in Parlamen-to della Legge 833/78. Riporto una pagina del primo numero di Pro-spettive con le fotografie e le qualifiche dei partecipanti alla Tavola Rotonda (Fig. 2). Il professor Ettore De Toni, allora presidente della Società Italiana di Pediatria, non poté intervenire, ma inviò una lunga e argomentata introduzione. Tra i partecipanti mi piace segnalare la presenza di Giovanni Berlinguer, già allora molto attivo in politica sa-nitaria, come quelle di Piero Fornara e di Alberto Mario Cavallotti, tra i più impegnati e autorevoli primari ospedalieri dell’epoca.A questa Tavola Rotonda ne seguirono moltissime altre, molte su temi che ancora oggi sono attuali. La seconda fu intitolata “Alimenti speciali per l’infanzia”, in cui si trattò del delicato rapporto con l’industria; la ter-za “Prospettive future e implicazioni etico-legali della diagnosi prenatale di malattie congenite”, con ovvie implicazioni alla liceità dell’interruzione volontaria della gravidanza; la quarta “La sperimentazione clinica in pe-diatria”, con tutta la sua problematicità bioetica; la quinta “La medicina preventiva pediatrica in Europa” (in effetti questa Tavola Rotonda non fu direttamente organizzata da noi ma da Sergio Nordio nell’ambito di un convegno triestino di pediatria sociale); la sesta “La città e il bambino”, con un confronto con urbanisti e politici; la settima “L’insegnamento post-universitario delle discipline di interesse pediatrico”; l’ottava “Il di-segno del bambino e la sua malattia”; la nona “La madre lavoratrice”; la decima “L’esperienza ospedaliera nella vita del bambino”.Insomma, nel corso degli anni Settanta, forse anche senza aperta-mente volerlo e senza che tutti gli amici fossero d’accordo, Prospet-tive in Pediatria si trasformò gradualmente in un gruppo di pressione di pediatri per una nuova Pediatria italiana, operando non solo nei confronti della Società Italiana di Pediatria ma anche interloquendo con la società e le autorità sanitarie.A questo proposito ci fu per tutti noi un momento, nel 1974, e cioè tre anni dopo la creazione di Prospettive, che è stato senza dubbio, se visto obiettivamente a posteriori, un punto di svolta, anche se fu vissuto inizialmente come un’iniziativa puramente culturale, assolu-tamente non politica.

2 Solo Giovanni Bucci si lamentò senza fondamento per porzioni di cibo da lui giudicate non abbastanza generose …

Figura 1.

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Dove eravamo e dove siamo: riflessioni ed emozioni

Fu quando, avendo superato le perplessità sopra accennate, deci-demmo di dare vita a una rivista di contributi originali, e fondammo la Rivista Italiana di Pediatria 3. Ci tassammo (100.000 lire ognuno, non tanto poco). Eravamo tutti non solo ambiziosi ma anche pre-suntuosi e pensavamo fosse possibile garantire la serietà scientifi-ca del nuovo giornale solo se lo avessimo posseduto e controllato. Giuridicamente era necessario creare un’Associazione che potesse esserne la proprietaria, e così fu creata l’Associazione Culturale Pe-diatri (ACP) (Fig. 3). Primo Direttore del nuovo periodico fu uno dei più giovani (e brillanti) del nostro gruppo, e cioè Armido Rubino.La Rivista Italiana di Pediatria fu ceduta anni dopo per una lira sim-bolica alla Società Italiana di Pediatria, ma l’ACP restò, crebbe e si sviluppò indipendentemente da Prospettive, e giocò quel ben distin-to ruolo politico e culturale che, nel bene o nel male (io dico, soprat-tutto nel bene), tutti oggi devono riconoscerle. Ma per alcuni anni (io direi fino al 1979) il gruppo di Prospettive e l’ACP perseguirono, in assoluta armonia, obiettivi pediatrici comuni e nell’ambito pediatrico italiano erano considerate una sola cosa!Nel 1979 decidemmo di candidare quel grande galantuomo che era Paolo Nicola alla presidenza della Società Italiana di Pediatria. Eravamo fiduciosi che si ripetesse la felice esperienza precedente, allorché, nel 1976, Roberto Burgio fu il nostro candidato vincente. Ma Paolo Nicola, e tutti noi, fummo sconfitti. Il sogno era finito. Dovemmo ammettere di essere in minoranza, che la nostra visione rigorosa di politica culturale non riscuoteva l’approvazione della maggioranza dei pediatri italiani. Eravamo considerati teste calde, utopisti, troppo radicali.

Dopo questo spiacevole fondamentale episodio iniziò la seconda vita di Prospettive.Furono lunghi anni obiettivamente difficili. Nel 1988 l’industria farma-ceutica che ci aveva a lungo sostenuto, attraversando un delicato pe-riodo gestionale, decise, col nostro pieno accordo, di cedere la testata a una piccola ma molto seria casa editrice (denominata CIS, Centro Informazione Sanitaria, diretta e posseduta dal professor Antonio Bren-na), cui va a mio parere il merito di avere mantenuto ogni impegno e di avere conservato il rigore editoriale che ci ha sempre caratterizzati.E avvenne quello che a me sembra sia stato un mezzo miracolo. Il gruppo unito di Prospettive non si dissolse, pur avendo perso ogni “po-tere” politico pediatrico. Non morì l’entusiasmo, continuammo a crede-re che fare avanzata formazione culturale fosse cosa degna, anche se alle volte dal punto di vista editoriale-finanziario non redditizia.E quando anche il nostro secondo editore considerò la sua dispo-nibilità esaurita, iniziò la risalita, che in prima battuta ha avuto due principali protagonisti: l’editore Pacini e Pierpaolo Mastroiacovo.Pierfrancesco Pacini non ha esitato a rilevare la testata, pur nella

Figura 2.

Figura 3.

3 Che quindi deve essere considerata con filiazione di “Prospettive”. L’attuale “Italian Journal of Pediatrics” ne è il nipote.

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F. Sereni, F. Panizon, R. Vullo

sicura consapevolezza di non compiere un “affare”, ma per motivi esclusivamente di prestigio editoriale-culturale e di sostegno a un gruppo di amici.Per Pierpaolo Mastroiacovo devo fare un discorso a parte, anche a costo di uscire dal tema che mi è stato assegnato. Desidero cioè tes-serne pubblicamente gli elogi. Sono convinto che senza di lui mai e poi mai ce l’avremmo fatta. Ha dimostrato come si possa mantenere unito un gruppo di amici su un progetto culturale anche quando non sia né direttamente, né indirettamente connesso con gli interessi specifici di ricerca, professionali e accademici di ognuno di essi. Solo per il piacere di fare e diffondere cultura. Mettendo per giunta a disposizione della Direzione e della Redazione di Prospettive le sue strutture di lavoro, per fare regolarmente funzionare l’attività editoriale. Caso unico.

E siamo giunti ai tempi nostri, al termine di questo lungo, un po’ noioso, ma credo istruttivo racconto. Ma, mentre mi accingevo a consegnare questo manoscritto alla Redazione, è capitato qualco-sa che rischia di convertire questa cronistoria in una favola a lieto fine. La testata di Prospettive in Pediatria, che per quasi quarant’an-ni ha vissuto, orgogliosamente, una sua vita indipendente, passa di proprietà alla Società Italiana di Pediatria. È, dobbiamo confessarlo, quanto io con altri amici abbiamo sempre desiderato.Così come trent’anni fa, nel 1977, donando la Rivista Italiana di Pe-diatria alla SIP abbiamo inteso metterci al servizio della Pediatria Ufficiale, così oggi torniamo alla “casa madre”. Ringrazio per questa importante decisione il presidente Pasquale Di Pietro e il Consiglio Direttivo della SIP, con la speranza che Prospettive renda ancora una volta un utile servizio alla Pediatria italiana.

... di Franco Panizon

Amarcord … No … anmarcord minga … Non mi ricordo più quasi niente.È passato tanto tempo; tanto … 1970 … Non esiste.Ed erano passati, allora, poco più di vent’anni dalla fine della guerra; e ne sono passati, oggi, quasi quaranta, da allora. Dunque, se immaginiamo questo tratto, dalla guerra ad oggi come il percorso di una regata, eravamo alla prima boa, a un terzo del percorso; un percorso che per la maggior parte di noi è stato più o meno il percorso della vita professionale.L’Italia stava ancora uscendo, precipitosamente, e con moto ancora uniformemente accele-rato, da una specie di oltretomba fatto di povertà, di ignoranza, di isolamento culturale. Stava uscendo, ma non era ancora uscita.Io, allora, in quei giorni della nascita di Prospettive in Pediatria, avevo poco più di quarant’an-ni, ed ero appena approdato a Trieste, che è anche la città dove ero nato, dopo aver girato mezza Italia, sempre nel carrozzone universitario, da assistente volontario, a Padova, poi straordinario e poi incaricato a Sassari, poi di ruolo, poi aiuto a Ferrara e poi Pavia, poi pro-fessore incaricato, ancora a Padova, poi direttore (sempre incaricato) di Clinica. Allora usava così. Si mettevano i mobili in un vagone ferroviario, si affittava un appartamento, si cambiava città, si cambiavano i compagni di lavoro; si scambiava con loro quel poco che si sapeva. Era anche quello un modo per sprovincializzarsi.In quella Pediatria, si cambiava anche mestiere dentro al mestiere. Io, nelle Cliniche in cui ho girato, ho fatto il radiologo, l’elettrocardiografista, l’elettroencefalografista, il laboratorista, l’infettivologo, l’ematologo, il neonatologo, l’oncologo, l’allergologo.In quella Pediatria italiana un po’ scalcinata, confusa, ignorante, ma comunque in cammino e in fermento, nasce, naturalmente, l’idea di una rivista. Come al tempo del Risorgimento Italia-no, dei carbonari, dei mazziniani, dei garibaldini, o del Partito Operaio, o dell’anarchismo. Una rivista come una bandiera, come un punto di riferimento. Una rivista nuova, che nasca dalle cose che stanno nascendo e che faccia nascere nuove cose. Una rivista fatta per essere letta (fino ad allora le riviste erano fatte solo per essere scritte, per permettere agli ardimentosi in carriera di accumulare abbastanza lavori per aspirare alla Libera Docenza), per insegnare e per imparare insegnando.La rivista, questa, Prospettive in Pediatria, prende corpo a Milano, in Clinica Pediatrica, dalle parti di Fabio Sereni, pensata da Fabio Sereni, e sostenuta da una piccola Ditta farmaceutica che se ne assume le spese (NB: la Ditta accetta di non fare pubblicità su quella Rivista!!!). Quattro numeri all’anno, con una grafica splendida e innovativa, semi-monografici, con con-tributi stranieri (perché c’era qualcuno tra noi, i non provinciali tra i provinciali, che avevano perfino lavorato “fuori”, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Francia, e avevano lega-mi internazionali, fatti di lavoro in comune, di amicizia e di stima). Io non sono uno di questi pediatri d’avanguardia, che sono stati fuori e che hanno amici fuori. In compenso, ho amici dentro, fatti nel mio girovagare. Ed eccomi nella Rivista, in un gruppo composito di ospedalie-ri, associati, giovani cattedratici; con un desiderio di auto-analisi, di analisi critica dello stato dell’arte, del costume, della prassi; desiderosi di avere una voce, e nello stesso tempo anche di cambiare il panorama attorno a sé; e anche di cambiare se stessi, di rinnovare la cultura, per se stessi e per tutti gli altri, per tutti i pediatri, per tutti i bambini.

Franco Panizon è nato a Trieste il 23 Aprile 1925. Tappe della carriera ac-cademica dal 1950 al 1969: Padova, Sassari, Ferrara, Pavia. Direttore Clini-ca Pediatrica di Trieste (1969-2000). Attualmente Professore Emerito del-l’Università di Trieste. Co-direttore di Prospettive in Pediatria dalla fonda-zione al 1982. Fondatore di Medico e Bambino, Direttore 1982-2006. Si autodefinisce “pediatra generalista”, anche se ha pubblicato circa 250 pubblicazioni e di una decina di libri, soprattutto in ematologia e immuno-patologia.Per decenni (e lo è ancora) riferimento culturale e guida per una generazione di pediatri italiani “generalisti” (ndr). Sposato con tre figli. Ama disegnare e dipingere con caratteristiche qualitati-ve professionali (ndr).

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Dove eravamo e dove siamo: riflessioni ed emozioni

Non credo di deformare le cose, anche se resta vero quello che ho det-to al principio, e cioè che non ricordo, e che quindi, almeno un poco, ricostruisco. Non ricordo le cose, i fatti, la sequenza degli avvenimenti, la loro collocazione precisa nel tempo. Mi sono dimenticato perfino di essere stato, e non per pochi anni, uno dei tre direttori della Rivista nella quale tutte queste voglie e questi bisogni si sono concretizzati, coagu-lati. Mi ricordo l’allegria, l’entusiasmo di quell’imparare/insegnare; le trasferte a Saint Vincent, dove si tenevano i primi Congressi/Corso, il

Casino, la Valle, i castelli, la polenta. L’impegno e il sapore di nuovo delle Tavole Rotonde, una per ogni numero, quattro incontri all’anno, sulla sperimentazione in pediatria (indimenticabile il confronto tra Garattini, neo-illuminista, e Maccacaro, neo-giacobino), sulla presenza dei geni-tori (fino ad allora esclusi dal reparto!!!) al letto del malato; sull’organiz-zazione e sulla distribuzione territoriale dell’ospedale (Fornara e il sogno di un reparto ogni 100.000 abitanti, allora molto più ragionevole che oggi) e altri e altri che non posso più ricordare. … Amarcord minga …

... di Rino Vullo

Fabio Sereni ha ripercorso, in maniera esauriente e magistrale, le tappe della vita e della cre-scita di Prospettive in Pediatria: come è nata, quale è stata la sua filosofia, come si è evoluta. Franco Panizon – con un intervento anticonvenzionale, secondo le sue abitudini, dicendo di non ricordare il passato – ha, in realtà, riportato in vita gli stati d’animo che hanno fatto della nascita e della crescita di Prospettive un episodio molto importante della nostra vita di medici e docenti. Credo, quindi, di dover limitare il mio intervento a poche righe.Ciò che desidero sottolineare si riferisce a due aspetti della storia di Prospettive che, a mio parere, non sono stati sufficientemente messi in luce.Il primo di essi è rappresentato dalla posizione di Fabio Sereni nella vicenda di Prospettive. Fabio Sereni ha avuto un ruolo propositivo e organizzativo fondamentale nella nascita e nella conduzione della Rivista. Questo può essere affermato senza toglier nulla ai meriti di tutti gli altri che hanno collaborato alla Rivista perché, come ho già detto, il ruolo di Fabio è stato centrale. Senza Fabio, Prospettive non sarebbe nata e, se fosse nata, non sarebbe cresciuta e noi non saremmo oggi nella condizione di festeggiare l’uscita del centocinquantesimo fasci-colo. Grazie a Fabio, quindi, per quanto ha fatto e per averci dato la possibilità di partecipare alla straordinaria avventura professionale ed umana che è risultata essere la partecipazione a Prospettive.Un altro aspetto che, forse, non risulta sufficientemente messo in evidenza dai contributi di Fabio e di Franco è che Prospettive è stata una rivoluzione. È stato rivoluzionario fondare una nuova rivista senza includere tra i direttori nessun cattedratico, invitare a far parte del comitato di redazione solo coloro che godevano di stima consolidata per la loro cultura e la loro disponibilità senza tenere conto dei titoli accademici, affidare la veste tipografica a un esperto del ramo (la rivista deve essere bella oltre che colta, dicevamo), svolgere il program-ma di Tavole Rotonde ricordato da Fabio e invitare a parteciparvi, se lo si considera oppor-tuno, esperti la cui sola presenza era ritenuta motivo di scandalo nell’establishment (come, ad esempio, Piero Fornara e Giovanni Berlinguer, a causa del loro colore politico), eliminare la propaganda, infine introdurre il sistema dei revisori che è stato applicato senza eccezioni a partire dal primo fascicolo. A questo proposito ricordo che, quando è stato il momento di preparare il primo fascicolo, è stato deciso di chiedere l’articolo di presentazione della Rivista la professor Ettore Rossi di Berna, una delle massime autorità in campo pediatrico nazionale e certamente il pediatra che nel nostro Paese godeva della maggiore popolarità. Pensavamo che una sua presentazione sarebbe stata un biglietto da visita in grado di tranquillizzare coloro che temevano che la Rivista sarebbe stata governata da un manipolo di comunisti. Il professor Rossi accettò l’invito, l’articolo promesso arrivò in redazione con puntualità svizzera e fu accolto con grande entusiasmo. L’entusiasmo si trasformò in delusione quando la lettura dell’articolo mise in evidenza che esso non corrispondeva alle nostre aspettative e aveva bisogno di alcune importanti correzioni. Che fare in una simile situazione? Era possibile che noi ci permettessimo di chiedere al professor Rossi – che molti di noi conoscevano di persona e stimavano per le sue doti professionali ed umane – di modificare l’articolo che egli aveva cortesemente accettato di scrivere su nostra richiesta? Se ciò non era possibile, potevamo pubblicare l’articolo così com’era, venendo meno alla regola che ci eravamo data di sotto-porre a revisione critica tutti gli articoli, indipendentemente dalla persona che li aveva scritti? Alla fine, fu deciso di fare la mossa che sembrava più corretta: Fabio telefonò al professor Rossi e gli espose la situazione. Il professor Rossi, da quel grande uomo che era, capì il nostro imbarazzo e ci autorizzò a introdurre le modifiche che ritenevamo più opportune. L’articolo fu aggiustato e il risultato dell’operazione fu ottimo, come può constatare chiunque voglia prendersi il gusto di rileggerlo.

Calogero Vullo è nato a Crotone il 24 Marzo 1927. Ricercatore al Wal-ter Reed Army Institute of Research (1958-1959). Tappe accademiche a Sassari e Ferrara. Ha diretto per molti anni il Centro della Microcitemia, Fer-rara. Primario Ospedaliero: Cesena (1962-1972) e Ferrara (1972-1997). Co-direttore di Prospettive in Pediatria dalla fondazione al 1996. È stato so-prattutto un ematologo pediatra. Vin-citore del “George P. Englezos Award”, Thalassemia International Federation, per i successi ottenuti nella cura e prevenzione della Talassemia. Fonda-tore e primo Presidente della Società Italiana di Adolescentologia. Profes-sore a contratto di Bioetica all’Istituto di Filosofia dell’Università di Ferrara. Sposato con due figli. Ha un solo hob-by: il dovere (ndr).

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F. Sereni, F. Panizon, R. Vullo

Qualcuno può domandarsi se Prospettive risultò veramente essere tanto diversa dalle altre riviste pediatriche già in circolazione. La mia esperienza personale può dare un’idea di come funzionavano le re-dazioni in passato: alla fine degli anni ’50 ero assistente nella Clinica pediatrica di Ferrara diretta dal professor Schwarz Tiene. Una mattina il Direttore mi chiese di andare nel suo studio, una volta terminate le incombenze di reparto. La direzione di una importante rivista pedia-trica, disse il professor Schwartz, mi ha chiesto il nome di un pediatra da inserire nel comitato editoriale: io ho proposto il suo nome. Natu-ralmente accettai la sua designazione, pensando che il mio ruolo di componente del comitato di redazione della rivista mi avrebbe per-messo di incontrare pediatri molto noti, che diversamente non avrei avuto la possibilità di conoscere, e di proporre l’introduzione di modi-fiche che avrebbero permesso di avvicinare la rivista agli standards internazionali. In attesa di essere convocato a partecipare ai lavori della redazione, iniziai a leggere la rivista, della quale ero diventato redattore, con particolare attenzione. La lettera di convocazione non arrivò mai, ma in compenso ebbi modo di rilevare la pubblicazione di un articolo sul favismo che ignorava la letteratura fondamentale,

come dimostrato dal fatto che l’Autore, o gli Autori, sostenevano che il favismo era una malattia a patogenesi allergica, cioè avvaloravano una tesi ormai superata. Scrissi una lettera alla redazione spiegando che, purtroppo per l’Autore dell’articolo, la patogenesi allergica non poteva più essere accreditata dopo che Autori nord-americani aveva-no dimostrato che la crisi emolitica da indigestione di fave è dovuta ad un difetto di attività della G6PD eritrocitaria che viene trasmesso come un fattore legato al sesso. Non mi giunse alcuna lettera di ri-sposta e io feci l’unica cosa che potevo fare, cioè presentare le mie dimissioni per evitare di essere ritenuto corresponsabile della pubbli-cazione di articoli che non meritavano di essere accettati. Certamen-te non bisogna generalizzare, ma la mia esperienza lascia pensare che nel nostro Paese le riviste pediatriche allora in circolazione non fossero gestite in maniera appropriata.Sono trascorsi quasi quarant’anni da quando la Rivista è stata fon-data, e alcuni amici che hanno fatto parte del comitato di redazione non sono più con noi. Credo che dobbiamo approfittare della pub-blicazione degli articoli commemorativi per ringraziarli per la loro collaborazione e per la loro amicizia.

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Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative

Generoso Andria, Giancarlo ParentiDipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli

RiassuntoLe malattie da accumulo lisosomiale (LSD) sono causate da difetti genetici che causano deficit di spe-cifiche idrolasi, proteine attivatrici, recettori o alterazioni nel trafficking intracellulare.Al momento sono note una cinquantina di LSD, che, come gruppo, hanno una frequenza stimabile in 1/5-6000 nati vivi. Nella maggior parte dei casi le LSD sono caratterizzate da un decorso progressivo, gravemente disabilitante o letale, che provoca handicap severo nei pazienti e comporta un carico so-ciale significativo. Tuttavia, i quadri clinici delle LSD sono anche caratterizzati da una estrema variabilità con coinvolgimento multisistemico di tessuti, organi e apparati. Nel corso degli ultimi anni è stata rivolta una rinnovata attenzione ai meccanismi implicati nella patogenesi delle LSD: oltre le conseguenze del-l’accumulo del substrato, si sta scoprendo il ruolo di processi infiammatori mediati da citochine, altera-zioni dell’autofagia, attivazione dell’apoptosi e una funzione biologica diretta dei metaboliti accumulati. Fino a poco meno di 20 anni fa l’unica terapia delle malattie lisosomiali proponibile era una terapia di supporto, mirata a combattere le complicanze (neurologiche, ortopediche, nutrizionali, respiratorie) delle LSD. Oggi stanno diventando disponibili approcci terapeutici che riescono ad aumentare i livelli dell’attività enzimatica geneticamente carente (trapianti di cellule staminali, terapia enzimatica sosti-tutiva, riduzione della sintesi del substrato, stimolazione dell’attività residua con molecole chaperones) con efficacia documentata anche sulla qualità della vita del paziente. La terapia genica somatica rap-presenta la vera speranza per una cura efficace, una volta che sarà possibile trasferire a trial clinici le “prove di principio” ottenute in laboratorio. È prevedibile che la disponibilità di terapie efficaci comporti l’allargamento degli screening neonatali di massa anche alle LSD, consentendo la diagnosi di individui asintomatici con storia familiare negativa e l’avvio precoce allo specifico trattamento.

SummaryLysosomal storage disorders (LSD) are due to genetic defects leading to the deficiency of specific hy-drolases, activating proteins, receptors or abnormalities of the intracellular trafficking.More than 50 LSD are presently known. As a group they have a frequency of approximately 1/5-6000 live born. In most cases LSD show a progressive and severe course with a heavy social burden. However, clinical presentations can be extremely variable with a multisystemic involvement. Over the last years new insights have been obtained in the pathogenesis of LSD: besides the consequences of substrate storage, new research lines are investigating the role of cytokine-mediated inflammation, autophagy, apoptosis and a direct biological action of the stored metabolites. Until 20 years ago, only symptomatic treatments were available to patients with LSD. More recently new therapeutic approaches have been developed to correct the enzymatic genetic defect (hematopoietic stem cells transplantation, enzyme replacement therapy, substrate reduction therapy, enzyme enhancement therapy with pharmacological chaperones) and also improve patients’ quality of life. Gene therapy is the ultimate hope, but proofs of principle so far obtained are still to be transferred to clinical trials. As efficacious treatments are be-coming available, in the near future mass screening programs in newborn will diagnose asymptomatic patients with negative family history and allow early start of the specific treatment.

Generoso Andria è nato a Giffoni Valle Piana (SA) il 20 Luglio 1943. È Profes-sore ordinario di Pediatria e Direttore del Dipartimento Clinico di Pediatria, Università Federico II di Napoli. È Presidente della Società Italiana Ma-lattie Genetiche Pediatriche e Disabi-lità Congenite (SIMGePeD). Il campo principale dei suoi interessi scientifici è rappresentato dalle malattie gene-tiche e metaboliche, per alcune delle quali ha contribuito con la descrizione di nuove entità nosografiche e la de-finizione delle caratteristiche cliniche, biochimiche e molecolari. Autore di oltre 250 pubblicazioni scientifiche in gran parte su riviste internazionali. Ha sempre lavorato a tempo pieno nel-l’università, in cui continua a credere, nonostante i problemi. Ha, tra i primi, promosso attività didattiche innovati-ve per gli specializzandi in Pediatria. È sposato e ha tre figli e due nipoti.Tra i numerosi interessi non scientifici: fumetti e giochi di parole (l’anagram-ma del suo nome e cognome è “adoro insegnare”).

Un po’ di storia: da dove siamo partiti

La cronologia delle malattie da accumulo lisosomiale classicheLa storia delle malattie da accumulo lisosomiale (Lysosomal Storage Diseases, LSD) è ormai lunga, dal momento che si è sviluppata nel-l’arco di più di un secolo, a partire dalla fine dell’Ottocento. L’evolu-

zione delle conoscenze nel campo delle LSD è andata di pari passo con il progresso della medicina moderna ed in questo senso queste malattie possono essere considerate un perfetto modello dell’avvi-cendarsi di nuove acquisizioni, con la progressiva introduzione di nuove tecnologie diagnostiche e terapeutiche che, soprattutto negli ultimi 10-15 anni, ha subito un’impressionante accelerazione.La storia delle LSD è iniziata, come in numerosi altri campi della medicina, con l’acuta osservazione di clinici che hanno descrit-

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 8-17

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Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative

to le caratteristiche di singoli pazienti e scoperto le prime enti-tà nosologiche molti anni prima che si conoscessero le loro basi biochimiche e molecolari. Ancora oggi molte di queste malattie sono note con il nome del medico o dei medici che, più o meno contemporaneamente, hanno affidato alla letteratura le prime de-scrizioni cliniche.Il caso della malattia di Gaucher è paradigmatico di questo lungo percorso. Nel 1882 Philippe Gaucher descrisse una donna con sple-nomegalia e osservò anche la presenza nella sua milza di cellule insolite, che in seguito divennero note come “cellule di Gaucher” (Beutler et al., 2001). Nei successivi cinquant’anni furono osservati ulteriori segni e sintomi, fino a che nel 1934 la sostanza accumulata nei visceri fu identificata come glucosilceramide, definendo in tal modo la principale caratteristica della malattia di Gaucher, cioè una patologia da accumulo di uno specifico materiale in cellule e tessuti. Tutto questo rappresentava già una significativa acquisizione nelle conoscenze di questa malattia, ma quello che più sorprende è che tutto ciò avveniva ancor prima che i lisosomi, gli organelli subcel-lulari protagonisti della fisiopatologia di queste malattie, venissero identificati.Finalmente, negli anni ’50 e ’60 Brady et al. mostrarono che l’ac-cumulo di glucosilceramide era causato dal deficit dell’attività di un enzima che esplica la sua funzione nei lisosomi, la glucocerebrosi-dasi/β-glucosidasi (Brady, 1997).Una volta scoperto l’enzima deficitario cominciò a svilupparsi il concetto della terapia enzimatica sostituiva, in cui l’enzima carente può essere sostituito dalla supplementazione di un enzima attivo. Tuttavia la realizzazione di questo approccio dovette attendere an-cora qualche decennio, cioè fino a quando furono identificate le basi biochimiche del traffico (e quindi dell’uptake) degli enzimi lisoso-miali, furono scoperte le basi molecolari della malattia di Gaucher e diventarono disponibili tecnologie per la preparazione su larga sca-la di enzimi ricombinanti. La terapia enzimatica sostitutiva è stata commercializzata agli inizi degli anni ’90 ed è oggi adoperata per il trattamento di più di 5.000 pazienti in tutto il mondo.Lo sviluppo e l’estensione di questi approcci terapeutici ad altre ma-lattie ha modificato sostanzialmente l’atteggiamento del medico di fronte a pazienti con LSD. La prognosi delle LSD solo pochi anni fa era nella maggior parte dei casi grave, con un’aspettativa di so-pravvivenza breve, oltre che con una qualità di vita molto povera. Il medico che formulava una diagnosi di LSD poteva solo offrire alla famiglia e al paziente una terapia sintomatica, per attenuare le con-seguenze della malattia, con la prospettiva di prolungare un’esisten-za dominata da sofferenze e disagio anche sociale. Ora per alcune di queste malattie sono disponibili una o più opzioni terapeutiche.I progressi delle conoscenze sulle LSD, soprattutto per quanto ri-guarda le basi biochimiche e molecolari, hanno anche contribuito a fornire strumenti per una consulenza genetica sempre più precisa, a cominciare da una valutazione dei rischi di ricorrenza nelle gravi-danze successive alla nascita del primo figlio affetto, fino ad offrire alla coppia a rischio la scelta di una diagnosi prenatale. Tuttavia, no-nostante i grandi progressi, alcuni aspetti della LSD restano ancora parzialmente oscuri, in particolare per quanto riguarda i meccanismi attraverso cui l’accumulo nei lisosomi causa il danno cellulare e tes-sutale.

I lisosomiI lisosomi sono organelli subcellulari, limitati da membrana, che contengono enzimi idrolitici utilizzati per la degradazione di macro-molecole. Nei lisosomi sono contenuti oltre una cinquantina di enzi-mi idrolitici, che comprendono proteasi, nucleasi, glicosidasi, lipasi,

fosforilasi, fosfatasi e solfatasi. Tutti questi enzimi sono idrolasi, che richiedono un ambiente acido per svolgere in maniera ottimale la loro attività (Futerman e van Meer, 2004).In generale si è portati a schematizzare la struttura delle cellule ed a considerare i vari compartimenti come qualcosa di statico e isolato dal resto della cellula. I lisosomi sono invece un ottimo esempio di come i diversi compartimenti cellulari costituiscano sistemi molto dinamici che interagiscono, attraverso la fusione, con una serie di altri organelli.Le proteine e gli altri substrati vengono portati ai lisosomi attra-verso numerose vie, che comprendono l’endocitosi e l’autofagia, quest’ultima utilizzata dalla cellula per il riciclo di componenti in-vecchiate, quali parti del citoplasma, mitocondri, ecc. Gli enzimi lisosomiali, una volta sintetizzati nel reticolo endoplasmico, sono trasportati verso i lisosomi attraverso un complesso itinerario che comprende l’apparato di Golgi, il network trans-Golgi, e i late en-dosomes, che maturando danno infine origine ai lisosomi (Fig. 1) (Gosh et al., 2003).

Figura 1. Gli enzimi lisosomiali sono sintetizzati nel reticolo endoplasmico e sono trasportati attraverso l’apparato di Golgi al network trans-Golgi. In que-sto si formano delle vescicole che trasportano le proteine al late en-dosome, il quale, maturando, dà origine al lisosoma, che rappresenta la destinazione finale dell’enzima ed il sito dove gli enzimi esplicano la loro azione.Le proteine e gli altri substrati vengono portati ai lisosomi attraverso numerose vie, che comprendono l’endocitosi e l’autofagia, una via uti-lizzata dalla cellula per eliminare componenti obsoleti (per il riciclo di componenti invecchiate, quali parti del citoplasma, mitocondri, ecc.).Gli enzimi vengono riconosciuti in maniera specifica per essere etichet-tati e diretti ai lisosomi. Ciò avviene grazie alla presenza di un marcatore unico che è il mannosio-6-fosfato (M6P), che viene aggiunto in maniera specifica agli oligosaccaridi N-linked di questi enzimi solubili, nel mo-mento in cui attraversano il lume del cis-Golgi. Due enzimi agiscono in maniera sequenziale per catalizzare l’aggiunta del M6P alle idrolasi lisosomiali. Gli enzimi lisosomiali che posseggono il marcatore M6P si legano al recettore del M6P (MPR) dell’apparato di Golgi, sono impac-chettati in vescicole rivestite di clatrina e trasportati ai late endosome, o direttamente o attraverso gli early endosome. Il recettore M6P viene quindi riciclato prima nel Golgi e poi nella membrana plasmatica. È da sottolineare un punto importante e cioè che alcuni degli enzimi neo-sintetizzati non si legano al recettore M6P, ma vengono secreti. Questi enzimi possono essere catturati dal recettore M6P posto sulla membra-na plasmatica delle cellule vicine ed entrare in queste cellule.

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G. Andria, G. Parenti

In questo itinerario gli enzimi vengono riconosciuti e guidati in ma-niera specifica grazie alla presenza di un marcatore unico che è il mannosio-6-fosfato (M6P), che si lega al recettore del M6P (MPR), e li trasporta ai lisosomi. Il M6P viene aggiunto in maniera specifica agli oligosaccaridi N-linked di questi enzimi solubili, nel momento in cui attraversano il lume del cis-Golgi. È da sottolineare che parte del MPR è presente sulla membrana plasmatica delle cellule dove è in grado di captare e internalizzare eventuali enzimi lisosomiali in circolo, endogeni o esogeni.

Le malattie da accumulo lisosomialeCome si vede, molte tappe sono necessarie per ottenere una sintesi e una maturazione corretta degli enzimi lisosomiali. Le LSD sono appunto causate da difetti genetici che interessano la sintesi o la maturazione delle idrolasi lisosomiali. Per questo motivo una malat-tia lisosomiale può essere dovuta al difetto di una specifica idrolasi,

a deficit di proteine attivatrici o di recettori o ad alterazioni nel traf-ficking.Il deficit di uno specifico enzima lisosomiale, causato da uno qualun-que dei meccanismi su indicati, porta a un accumulo intracellulare di una varietà di substrati cellulari non degradati, che comprendono, per esempio, sfingolipidi, glicosaminoglicani e glicogeno. Al momen-to sono note una cinquantina di malattie lisosomiali d’accumulo, che, come gruppo, hanno una frequenza stimabile in 1/5-6.000 nati vivi, ma sono rare o molto rare se considerate singolarmente (Meikle et al., 1999).

Approccio clinico-metabolico: i segni e i sintomi comuniNella maggior parte dei casi le LSD sono caratterizzate da un de-corso progressivo, gravemente disabilitante o letale, che provoca handicap severo nei pazienti e comporta un carico sociale significa-tivo. Inoltre, molte di queste malattie colpiscono bambini nella prima decade di vita.Tuttavia, i quadri clinici delle LSD sono anche caratterizzati da una estrema variabilità. Un primo aspetto da sottolineare è la variabilità dell’età di esordio della sintomatologia e la rapidità del decorso clinico. La maggioranza delle LSD possono infatti esordire a età diverse e si di-stinguono forme infantili, giovanili e adulte. Le forme più severe, quelle infantili, di solito si presentano con un coinvolgimento acuto del siste-ma nervoso e i pazienti muoiono nei primi anni di vita. All’altro estremo, nelle forme adulte, i sintomi si sviluppano più lentamente e la disabilità ha spesso origine da sintomi periferici. Le forme giovanili rappresenta-no una situazione intermedia tra le forme infantili e quelle adulte.Anche le manifestazioni cliniche ed il coinvolgimento di tessuti, or-gani e apparati sono diversi. La variabilità può osservarsi tra i diversi difetti genetici o anche nell’ambito della stessa malattia. In Tabella I sono elencati alcuni dei segni e sintomi più comuni nelle varie LSD.I segni neurologici possono comprendere convulsioni, regressio-ne mentale e psicomotoria e disfunzioni varie del sistema nervoso centrale. Tra i sintomi periferici sono da citare la splenomegalia, il danno cardiaco e renale, anomalie della formazione ossea, atrofia dei muscoli e compromissione oculare. Parecchie malattie sono ca-ratterizzate da un coinvolgimento preminente del sistema nervoso e un’alterazione molto minore degli altri organi e apparati (per esem-pio la malattia di Sanfilippo), mentre altre sono dominate da disfun-zione di organi e apparati diversi dal sistema nervoso (per esempio la malattia di Fabry).Che cosa determina questa ampia variabilità di manifestazioni cli-niche?In generale ogni LSD ha un quadro tipico, sia sul piano clinico che patologico, che probabilmente è in qualche modo correlato con la natura del substrato che si accumula e col tipo di cellule in cui si verifica questo accumulo. Per esempio, tutte le forme di malattia di Pompe (o glicogenosi tipo II) sono caratterizzate dall’ipotonia, come conseguenza dell’importante ruolo che il glicogeno svolge nella fun-zione muscolare (Hirschhorn e Reuser, 2001). Molte delle sfingolipi-dosi sono caratterizzate da interessamento cerebrale, che potrebbe essere atteso sulla base degli alti livelli di glicosfingolipidi trovati nel cervello. Tuttavia, solo in una piccola frazione di pazienti con ma-lattia di Gaucher, che pure è una sfingolipidosi, si ritrovano sintomi neurologici e non è chiaro perché esistano tipi di questa malattia con e senza coinvolgimento neurologico.In aggiunta alle differenze legate alla biosintesi ed al turn-over dei diversi substrati nei differenti tessuti, la variabilità clinica può essere causata da fattori genetici. Le LSD sono normalmente di tipo monogenico, ma, per la maggior parte di esse, sono descritte numerose mutazioni dello stesso gene in pazienti diversi. Queste

Tabella I. Segni clinici comunemente presenti nelle malattie da accumulo lisoso-miale (in parentesi esempi di malattie in cui sono presenti segni/sintomi meno frequenti).

Facies

facies grossolana gargoil-simile

“faccia da bambola” (Gangliosidosi GM2)

Apparato osteo-articolare

displasia scheletrica con o senza bassa statura

limitazione dei movimenti articolari

Rene

ascite neonatale o idrope fetale non immune

insufficienza renale (M. di Fabry)

Cuore

cardiomiopatia con ipotonia (M. di Pompe, M. di Danon)

Organi ipocondriaci

epato (spleno) megalia

colestasi (M. di Niemann-Pick tipo C)

Cute

irsutismo

angiokeratoma corporis diffusum (M. di Fabry)

Sangue

linfociti vacuolati

Occhio

macchia rosso ciliegia

opacità corneale

oftalmoplegia verticale sopranucleare

Sistema nervoso

ritardo mentale, degenerazione neurologica progressiva

neuropatia periferica

leucodistrofia (alla TAC) (M. di Krabbe, leuodistrofia metacromatica)

convulsioni

mioclonie

atassia

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Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative

Tabella II. Classificazione delle malattie da accumulo lisosomiale (da Futerman e van Meer, 2004, mod.).

Malattia (M.) Enzima/Proteina carente Principale materiale da accumulo

Sfingolipidosi

M. Fabry α-galattosidasi A Globotriaosilceramide e sostanze di grupposanguigno B

Lipogranulomatosi di Farber Ceramidasi Ceramide

M. Gaucher β-glucosidasi Glucosilceramide

M. Gaucher(deficit di attivatore della saposina-C)

Attivatore della saposina-C Glucosilceramide

Leucodistrofia a cellule Globoidi(M. Krabbe)

Galattocerebroside β-galattosidasi Galattosilceramide

Leucodistrofia metacromatica Arilsolfatasi A Glicolipidi solfati

Leucodistrofia metacromatica(deficit di attivatore della saposina-B)

Attivatore della saposina-B Glicolipidi solfati e ganglioside GM1

M. Niemann-Pick A e B Sfingomielinasi Sfingomielina

Deficit di attivatore degli sfingolipidi Attivatore degli sfingolipidi Glicolipidi

Gangliosidosi GM1 β-Galattosidasi Ganglioside GM1

Gangliosidosi GM2 (M. Tay–Sachs) β-Esosaminidasi A Ganglioside GM2 e glicolipidi correlati

Gangliosidosi GM2 (M. Sandhoff) β-Esosaminidasi A and B Ganglioside GM2 e glicolipidi correlati

Gangliosidosi GM2(deficit di attivatore del GM2)

Proteina attivatrice del GM2 Ganglioside GM2 e glicolipidi correlati

Mucopolisaccaridosi (MPS)

MPS I (M. Hurler, Scheie, H /S) α-Iduronidasi Dermatan solfato ed eparan solfato

MPS II (M. Hunter) Iduronato-2-solfatasi Dermatan solfato ed eparan solfato

MPS IIIA (M. Sanfilippo) Eparan N-solfatasi (sulfamidasi) Eparan solfato

MPS IIIB (M. Sanfilippo) N-Acetil-α-glucosaminidasi Eparan solfato

MPS IIIC (M. Sanfilippo) Acetil-CoA: α-glucosamideN-acetiltransferasi

Eparan solfato

MPS IIID (M. Sanfilippo) N-Acetilglucosamina-6-solfatasi Eparan solfato

MPS IV A (M. Morquio A) N-Acetilgalattosamina-6-solfato-solfatasi

Cheratan solfato, condroitin-6-solfato

MPS IV B (M. Morquio B) β-Galattosidasi Cheratan solfato

MPS VI (M. Maroteaux–Lamy) N-Acetilgalattosamina-4-solfatasi(arilsolfatasi B)

Dermatan solfato

MPS VII (M. Sly) β-Glicuronidasi Eparan solfato, dermatan solfatochondroitin-4- e -6-solfato

MPS IX Ialuronidasi Ialuronano

Oligosaccaridosi and glicoproteinosi

Aspartilglucosaminuria Aspartilglucosaminidasi Aspartilglucosamina

Fucosidosi α-Fucosidasi Fucosidi and glicolipidi

α-Mannosidosi α-Mannosidasi Oligosaccaridi contenenti mannosio

β-Mannosidosi β-Mannosidasi Man(β1→4)GlcNAc

M. Pompe (glicogenosi tipo II) α-Glucosidasi Glicogeno

Sialidosi Sialidasi Sialiloligosaccaridi e sialilglicopeptidi

M. Schindler α-N-Acetilgalattosaminidasi Glicoconiugati contenentiα-N-acetilgalattosaminil

(continua)

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G. Andria, G. Parenti

mutazioni comprendono mutazioni missenso, nonsenso e di spli-cing, delezioni parziali e inserzioni. Alcune mutazioni portano alla completa carenza dell’attività enzimatica, mentre altre provocano una ridotta attività. Il livello di attività residua correla in alcuni casi con la gravità del fenotipo. Tuttavia le eccezioni sono numerose e per la maggior parte delle LSD non è stata trovata una correlazione ovvia tra genotipo e fenotipo: perciò non è possibile formulare di solito una chiara predizione del decorso clinico della malattia sulla base dell’analisi mutazionale. In molte malattie sono tipiche gravi alterazioni neuropatologiche, che portano a morte in età precoce, mentre in altre malattie i sintomi sono soprattutto limitati ai tessuti periferici. Addirittura alcuni individui possono essere asintomatici, pur essendo portatori di mutazione responsabile di forma severa in altri soggetti. Questa variabilità fenotipica delle malattie mono-geniche, anche in presenza delle stesse mutazioni, è un’osserva-zione non rara ed è spiegata, per esempio, con l’intervento di geni modificatori, ma anche di fattori ambientali: in questo senso le malattie ereditarie monogeniche devono essere sempre più consi-derate malattie “multifattoriali”.Va comunque sottolineato che la mancata correlazione genotipo-fenotipo delle LSD in larga parte dipende anche dalle scarse infor-mazioni circa le vie biochimiche e cellulari che risultano alterate a valle del difetto enzimatico e dell’accumulo del substrato nei lisosomi. Solo di recente, come si dirà in seguito, si sta prestando particolare attenzione al ruolo dei meccanismi patologici seconda-ri, innescati dall’accumulo intra-lisosomiale (Futerman e van Meer, 2004).Nel 1974 C. de Duve, lo scopritore dei lisosomi, nella sua Nobel lec-ture dichiarò: “The misterious chapter of the pathology of congeni-tal lysosomal enzyme deficiencies has been largely elucidated”. Si vedrà in seguito che l’affermazione era stata troppo ottimistica (de Duve, 1975).

Criteri di classificazione delle malattie da accumulo lisosomialeDopo la prima descrizione dei lisosomi da parte di De Duve come “sac-chetti suicidi”, cioè organelli subcellulari limitate da membrana e con-tenenti enzimi digestivi con pH ottimale acido, più recentemente studi di proteomica hanno identificato nuove proteine solubili lisosomiali, incluse quelle con attività idrolasica e proteine integrali di membrana. Al momento attuale si stima che ci siano circa 50-60 idrolasi solubili e almeno 7 proteine integrali della membrana dei lisosomi. In linea di principio qualunque mutazione dei geni che codificano per una di que-ste proteine può causare una LSD (Futerman e van Meer, 2004).Finora sono stati proposti vari criteri per la classificazione delle LSD. La classificazione tradizionale (Tab. II) è quella basta sul tipo di me-tabolita che si accumula. In alternativa è stata utilizzata una clas-sificazione basata sul deficit enzimatico oppure ancora una clas-sificazione basata sulla diversa funzione delle proteine deficitarie. In realtà nessuna classificazione è esente da critiche e da possibili inaccuratezze.La classificazione può essere, come si è detto, basata sul tipo di substrato che si accumula. Per esempio nelle mucopolisaccaridosi si accumulano mucopolisaccaridi (più correttamente denominati gli-cosaminoglicani), a causa dell’alterata funzione di uno degli enzimi lisosomiali, che comprendono esoglicosidasi, solfatasi e una tran-sferasi non idrolitica e sono necessari alla degradazione sequenziale dei glicosaminoglicani. Nelle sfingolipidosi si accumulano sfingolipi-di non metabolizzati, in conseguenza del difetto di uno degli enzimi (o proteine attivatrici) specifici. Nelle oligosaccaridosi si accumulano oligosaccaridi.Tuttavia, in alcuni casi, quando più di una classe di macromole-cole può fungere da substrato in conseguenza di un determinan-te comune, il deficit di un singolo enzima può provocare l’accu-mulo di substrati differenti. Per esempio, la gangliosidosi GM1 e la malattia di Morquio tipo B sono entrambe causate da difetti

Lipidosi

M. Wolman e M. da accumulodi esteri del colesterolo

Lipasi acida Esteri del colesterolo e trigliceridi

Malattie causate da difetti di proteine integrali di membrana

Cistinosi Cistinosina Cistina

M. Danon LAMP2 materiale citoplasmatico e glicogeno

M. da accumulo di acido sialicoinfantile (ISSD) e M. Salla

Sialina Acido sialico

Mucoplipidosi (ML) IV Mucolipina-1 Lipidi e mucopolisaccaridi acidi

M. Niemann–Pick C (NPC) NPC1 e NPC2 Colesterolo e sfingolipidi

Altre

Galattosialidosi Catepsina A Sialiloligosaccaridi

I Cell Disease e Pseudo-HurlerPolydystrophy (ML II andML III, rispettivamente)

UDP-N-acetilglucosamina: enzimalisosomiale N-acetilglucosaminil-1-fosfotransferasi

Oligosaccaridi, mucopolisaccaridie lipidi

Deficit multiplo di solfatasi FGE (“Cα-formylglycine-generating enzyme”) Solfatidi

Ceroido lipofuscinosi neuronali CLN1 (proteina palmitoiltioesterasi-1) Tioesteri lipidati

NCL1 (M. Batten)

NCL2 (M. Batten) CLN2 (tripeptidil amino peptidasi-1) Subunità c di ATP sintasi mitocondriale

NCL3 (M. Batten) Trasportatore di arginina Subunità c di ATP sintasi mitocondriale

Picnodisostosi Catepsina K Proteine ossee e fibrille di collagene

(segue Tab. II)

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Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative

nell’attività della β-galattosidasi, ma la sostanza accumulata è il ganglioside GM1 o il cheratan-solfato, rispettivamente, e le caratteristiche cliniche e biochimiche di ciascuna malattia sono diverse (Callahan, 1999).Un’altra classificazione è basata sul criterio dell’individuazione del-l’enzima o proteina difettosa, piuttosto che sulla natura del substrato o dei substrati che si accumulano. Questa classificazione ha portato in qualche caso a una caratterizzazione sbagliata di alcune malattie, per le quali il substrato accumulato era stato identificato alcuni anni prima della scoperta del difetto enzimatico. Per esempio si è visto col tempo che le mucolipidosi II e III (forme alleliche di diversa gra-vità, anche note come I-cell disease e Pseudo-Hurler polydystrophy, rispettivamente) sono causate da difetti del trasporto di enzimi liso-somiali attraverso il sistema M6P, piuttosto che dal difetto di idrolasi lisosomiali (Kornfeld et al., 2001). Analogamente furono inizialmente caratterizzate tre forme di malattia di Niemann-Pick, tutte conside-rate disordini da accumulo di sfingomieline e presumibilmente do-vute allo stesso difetto enzimatico, mentre è ora ben noto che solo le malattie di Niemann Pick tipo A e B sono causate da un difetto di sfingomielinasi, mentre la malattia di Niemann Pick tipo C è dovuta alla difettosa attività di un trasportatore putativo del colesterolo, la proteina NPC1, oppure da difetti della proteina solubile lisosomiale NPC2, che lega il colesterolo.Un’altra possibile classificazione, basata sulla funzione della protei-na lisosomiale difettosa potrebbe essere la seguente (in parentesi sono indicati esempi di malattie nella specifica categoria):

• deficit di singole attività enzimatiche (LSD classiche);• deficit di attivatori di enzimi lisosomiali (malattia di Gaucher da

deficit di saposina-C);• deficit del trasporto o di proteine di membrana (malattie di Salla,

cistinosi);• deficit del trafficking di enzimi lisosomiali (mucolipidosi II e III);• deficit di modificazioni post-translazionali di enzimi lisosomiali

(deficit multiplo di solfatasi);• deficit di sistemi di protezione di enzimi lisosomiali (galattosiali-

dosi);• deficit ancora non noti di altre funzioni lisosomiali: - attività enzimatiche; - acidificazione lisosomiale; - meccanismi di trasporto; - proteine adattatrici e di rivestimento; - recettori.

È possibile che in futuro vengano identificate nuove malattie lisoso-miali, legate al deficit di proteine localizzate in questi organelli, ma che finora non sono state associate a patologia umana.

Modelli particolari di malattie lisosomialiCome già detto, la maggior parte delle malattie lisosomiali ha alla sua base un difetto enzimatico che comporta l’accumulo del sub-strato. Esistono, tuttavia, due esempi di LSD con basi molecolari inattese, che rappresentano quindi una novità nel panorama di que-sto gruppo di malattie. Il primo esempio è costituito dal deficit multi-plo di solfatasi descritto per la prima volta alla metà degli anni ’60. Si tratta di uno delle LSD più rare con una frequenza di 1 su 1,4 milioni di nati. In questa malattia si assiste a una ridotta attività di tutti i 17 membri della famiglia dei geni che codificano per solfatasi, alcune delle quali, peraltro, non sono localizzate nei lisosomi. La carenza delle attività solfatasiche nei pazienti MSD porta all’accumulo di lipi-di solfati e carboidrati, che ha come conseguenza un fenotipo clinico in cui risultano combinate le caratteristiche di almeno sei malattie

dovute a deficit di singole solfatasi: leucodistrofia metacromatica, ittiosi legata all’X, sindrome di Maroteaux-Lamy, sindrome di Hunter, sindrome di Sanfilippo A e sindrome di Morquio A.Solo recentemente sono state riconosciute le basi molecolari della malattia e si è riusciti a spiegare il perché della simultanea carenza di tante attività enzimatiche in una singola malattia ad ereditarietà monogenica. È stato dimostrato che essa è dovuta al difetto di un gene chiamato Sulfatase Modifying Factor 1 (SUMF1) che codifica per l’enzima che genera la conversione post-translazionale di uno specifico residuo di cisteina, che si trova nel sito catalitico di tutte le solfatasi, in un residuo di Cα- formilglicina (Cosma et al., 2003; Dierks et al., 2003).Gli studi che hanno portato all’identificazione del difetto di base del deficit multiplo di solfatasi hanno fornito i presupposti per possibi-li applicazioni cliniche della scoperta. La co-espressione di SUMF1 con cDNA di solfatasi provoca un impressionante aumento dell’at-tività enzimatica, indicando che SUMF1 è da un lato un fattore es-senziale e dall’altro un fattore limitante per le solfatasi. Questi dati hanno perciò importanza per la produzione industriale di maggiori quantità di solfatasi umane ricombinanti da utilizzare per la terapia enzimatica sostitutiva per i singoli deficit di solfatasi lisosomiali.Un secondo modello particolare di malattia lisosomiale è la galattosia-lidosi, che è pure associata con il difetto di attività di più di un enzima, cioè la β-galattosidasi e la sialidasi. È stato scoperto, proprio dallo studio di questa malattia, che esiste un complesso multienzimatico, di cui è parte la catepsina A, una serina-carbossipeptidasi (d’Azzo et al., 2001). Durante la sua biosintesi la catepsina A dimerizza e si associa con i precursori della β-galattosidasi e della sialidasi. Que-st’associazione, essenziale per proteggere queste glicosidasi da una rapida proteolisi intralisosomiale è anche richiesta per il loro corretto processamento proteolitico intracellulare. Quando il complesso mul-tienzimatico si forma in maniera alterata, la β-galattosidasi e la siali-dasi vengono rapidamente degradate e si verificano le conseguenze della loro carenza combinata, in base alla quale fu coniato per la prima volta il nome “galattosialidosi” (Zhou et al., 1996).Un altro esempio intrigante è rappresentato dalle ceroidolipofusci-nosi, che rappresentano il gruppo più comune di malattie neurode-generative progressive dei bambini, con un’incidenza di 1/12.500 nati vivi (Hofmann et al., 2001). Per le ceroidolipofuscinosi sono stati identificati difetti in almeno otto geni, che codificano per proteine con funzioni diverse, di tipo enzimatico, ma anche per proteine in-tegrali di membrana o proteine solubili glicosilate. Non è noto come mutazioni in uno di questi otto diversi geni possano provocare una patologia simile e l’accumulo di sostanze simili nei lisosomi (Cooper, 2003; Jolly et al., 2002).Oltre alle proteine di membrana coinvolte nelle ceroidolipofuscinosi, i lisosomi contengono proteine integrali di membrana con funzioni note, la maggior parte delle quali sono trasportatori che esportano metaboliti solubili fuori dei lisosomi. Due di queste proteine sono state implicate in malattie lisosomiali, cioè la sialina e la cistinosina (Eskelinen et al., 2003; Mancini et al., 2000), responsabili, rispettiva-mente, la prima della malattia da accumulo di acido sialico e della malattia di Salla e la seconda della cistinosi, un difetto di trasporto della cistina (Verheijen et al., 1999; Town et al., 1998). Un’altra pro-teina di trasporto, la NPC1, è coinvolta direttamente o indirettamen-te nel trasporto del colesterolo ed è carente, come già detto, nella malattia di Niemann-Pick tipo C (Simons et al., 2000). Infine è nota una malattia collegata a mutazioni in una proteina della membrana lisosomiale (LAMP-2) cioè la malattia di Danon, che ha un fenotipo cardiaco molto simile alla forma infantile di glicogenosi tipo II (Nishi-no et al., 2000).

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G. Andria, G. Parenti

Esistono poi numerosi altri difetti di proteine lisosomiali, che potreb-bero essere causa di LSD. Per esempio alcune forme di sfingolipidosi sono causate da mutazioni di proteine attivatrici, che sono richieste per il catabolismo degli sfingolipidi, o di precursori di proteine atti-vatrici, come la prosaposina.Anche le mucolipidosi II e III, originariamente così chiamate in base all’accumulo intralisosomiale di vari substrati, sono conseguenza del difettoso trasporto di enzimi lisosomiali per mutazione del gene che codifica per l’enzima che catalizza la prima tappa, nell’apparato di Golgi, della formazione del M6P, il marcatore di riconoscimento che indirizza la maggior parte delle idrolasi ai lisosomi. In queste malattie gli enzimi lisosomiali sono secreti fuori dalle cellule, invece di essere avviati verso l’apparato di Golgi, per cui le cellule risultano carenti di enzimi lisosomiali. Il fatto che non tutte le cellule, però, siano deficienti in queste idrolasi ha fatto supporre che esistano vie metaboliche indipendenti dal M6P (Kornfeld e Sly 2001; Dittmer et al., 1999).

A che punto siamo arrivati

Nuove conoscenze sulla patogenesiNel corso degli ultimi anni è stata rivolta una rinnovata attenzione ai meccanismi implicati nella patogenesi delle LSD. Infatti, nonostante ormai da decenni siano state riconosciute le basi biochimiche e mo-lecolari di pressoché tutte queste malattie, la sequenza degli eventi che portano al danno cellulare e tessutale, e quindi alle manifesta-zioni cliniche delle malattie, resta ancora in gran parte oscura.L’accumulo di substrato nei lisosomi dovuto al deficit di una idrolasi lisosomiale è sicuramente il primun movens. Tuttavia, la visione tra-dizionale dell’accumulo intracellulare come unico fattore patogene-tico del danno cellulare è verosimilmente superata dalle più recenti acquisizioni.Durante gli ultimi anni si sono ottenute prove sperimentali che do-cumentano come l’accumulo intralisosomiale inneschi una serie di risposte strutturali e biochimiche che mediano l’inizio e la progres-sione di malattia. A tale riguardo, già è stato riconosciuto il ruolo di una varietà di fattori, tra cui l’infiammazione, un danno della pa-thway dell’autofagia, l’innesco di meccanismi pro-apoptotici e una funzione biochimica diretta del materiale accumulato (d’Azzo, 2003, Wu et al., 2005; Ko et al., 2005, Settembre et al., 2008).Un ruolo di processi infiammatori mediati da citochine è stato rico-nosciuto nelle LSD, sia come fattore patogenetico delle manifesta-zioni a carico dell’apparato osteoarticolare, sia a livello neurologico. A tale proposito sono stati pubblicati diversi studi (Simonaro et al., 2001). Tra questi va ricordato il contributo di gruppi italiani che han-no approfondito questo aspetto. Villani et al. (2007) hanno dimostra-to un ruolo di citochine, neurotrofine, e stress ossidativo nel coinvol-gimento cerebrale in un modello murino di mucopolisaccaridosi IIIB. Settembre et al. (2008), nel modello di deficit multiplo di solfatasi già citato, hanno dimostrato un aumento generalizzato (fegato, rene, polmone) di marcatori di attivazione dei macrofagi (MOMA-2) e di citochine, proprio nelle zone dove è maggiore l’accumulo tissutale di metaboliti (mucopolisaccaridi), suggerendo così una relazione di-retta tra accumulo e attivazione di processi infiammatori.L’identificazione di questi meccanismi patogenetici ha anche una ri-levanza clinica immediata. Ad esempio la quantizzazione dei media-tori dell’infiammazione potrebbe essere utilizzata come marcatore di attività di malattia, come suggerito da Di Natale et al. (2008) per il TNF-α nella mucopolisaccaridosi VI.Un ruolo di alterazioni dell’autofagia nella patogenesi delle LSD è

stato segnalato negli anni più recenti. L’autofagia è un meccanismo catabolico fisiologico mediante il quale proteine e organelli intracel-lulari (come i mitocondri) sono sequestrati da vescicole caratterizza-te da una doppia membrana (autofagosomi o vescicole autofagiche) e avviati alla degradazione nei lisosomi dopo fusione di queste ve-scicole con gli stessi lisosomi.Nei modelli murini di alcune LSD sono state descritte anomalie del-la pathway dell’autofagia: tra queste la malattia di Niemann-Pick tipo C, la malattia di Pompe (glicogenosi II) e, ancora una volta il deficit multiplo di solfatasi. Nella malattia di Niemann-Pick tipo C la pathway dell’autofagia sembra abnormemente attivata a causa di livelli aumentati di beclin-1 (Pacheco et al., 2007). Nel modello di malattia di Pompe è stata osservata un’espansione del compar-timento autofagico in cellule muscolari tipo II (Fukuda et al., 2006). Infine, nel modello murino di deficit multiplo di solfatasi è stato ipo-tizzato un difetto della fusione dei vacuoli autofagici con i lisosomi (Settembre et al., 2008).Le anomalie dell’autofagia osservate nelle LSD possono essere ri-levanti per la comprensione della fisiopatologia di queste malattie. È stato infatti suggerito che, come conseguenza delle alterazioni dell’autofagia, si verifichi un accumulo di proteine tossiche e di mi-tocondri non funzionali, tale da attivare l’apoptosi e quindi il danno tessutale.L’attivazione dell’apoptosi è, infatti, un altro dei meccanismi impli-cati nel danno cellulare e rappresenta probabilmente l’evento finale a cui portano alcuni dei meccanismi in precedenza descritti (infiam-mazione, anomalie dell’autofagia).L’apoptosi è un forma di morte cellulare programmata, ben distinta rispetto alla necrosi cellulare, risultante da un stress acuto o da un trauma cellulare e ben regolato da precisi meccanismi molecolari. È stato suggerito che alterazioni dell’omeostasi citoplasmatica dovute all’accumulo di specifici substrati (ad esempio gangliosidi) portino all’attivazione di una cascata di eventi che innescano la morte cel-lulare mediata da apoptosi. Una recente review sull’argomento è quella di d’Azzo et al. (2006).È stato osservato, inoltre, in diversi modelli animali di malattia da accumulo, che alcuni metaboliti accumulati possono avere una funzione biologica diretta. Un esempio è il ruolo di gangliosidi e sfingolipidi nel provocare una dendritogenesi anomala in modelli di malattia di Tay-Sachs, Sandhoff e Niemann-Pick tipo A, di mu-copolisaccaridosi I e VI, di mannosidosi e di gangliosidosi GM1, cau-sando quindi un’alterata funzione del sistema nervoso centrale. Diversi studi sono stati pubblicati in letteratura a tale proposito (Chiulli et al., 2007).Una comprensione precisa degli eventi che conducono a danni dei tessuti e del loro effetto sui differenti compartimenti delle cellu-le e sulle loro funzioni, è di particolare interesse, anche perché può avere implicazioni per l’efficacia dei trattamenti attualmente disponibili e può permettere l’identificazione di nuovi target tera-peutici.

Nuovi approcci terapeutici efficaciLe innovazioni che hanno avuto maggiore rilevanza clinica nel cam-po delle LSD sono state legate all’introduzione di approcci terapeuti-ci. Fino a poco meno di 20 anni fa l’unica terapia delle malattie liso-somiali proponibile era una terapia di supporto, mirata a combattere le complicanze (neurologiche, ortopediche, nutrizionali, respiratorie) delle LSD. Al contrario non era disponibile alcun approccio mirato alla correzione del difetto di base della malattia.La situazione ha iniziato a modificarsi con l’introduzione del tra-pianto di cellule staminali ematopoietiche che, in specifici casi e in

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Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative

accordo con precise Linee Guida, ha dimostrato una discreta effica-cia in pazienti con mucopolisaccaridosi I e VI (Orchard et al., 2007), alcuni casi di leucodistrofia di Krabbe (Escolar et al., 2005) e nelle forme ad esordio tardivo di leucodistrofia metacromatica (Sevin et al., 2007) sebbene non tutti i tessuti dell’organismo del ricevente possano beneficiare di tale procedura.L’incremento delle conoscenze sulla fisiopatologia del trafficking in-tracellulare di enzimi lisosomiali ha aperto la strada all’introduzione della terapia enzimatica sostitutiva (Enzyme Replacement Therapy, ERT) (Grabowski et al., 2003). Il razionale di questo approccio è basato sul fatto che gli enzimi lisosomiali vengono indirizzati ai lisosomi, dove devono esplicare la loro funzione, mediante un sistema di ligandi (il mannosio 6-fosfato e il mannosio, esposti sulle catene oligosaccari-diche degli enzimi) e di recettori (i recettori del mannosio 6-fosfato e del mannosio). Grazie a questo meccanismo ed al fatto che i recettori sono presenti anche sulla membrana delle cellule (membrana pla-smatica) è ipotizzabile che un enzima dato dall’esterno, per infusione venosa, sia ricaptato dalle cellule e arrivi a destinazione nei lisosomi, dove è in grado di correggere il difetto enzimatico.La ERT fu sperimentata con successo per la malattia di Gaucher e ora sono migliaia i pazienti affetti da questa malattia che sono stati trattati con questo approccio (Pastores et al., 2004).Sulla scorta dei successi ottenuti per la malattia di Gaucher, lo stes-so approccio è stato esteso ad altre LSD. Ad oggi sono disponibili ERT per la malattia di Fabry, per le mucopolisaccaridosi I, II e VI, per la malattia di Pompe (Rohrbach e Clarke, 2007). Sono invece in cor-so di valutazione terapie basate sull’ERT per la malattia di Niemann-Pick tipo B, l’α-mannosidosi, la leucodistrofia metacromatica. In tutti i casi il farmaco è un enzima ricombinante (l’enzima deficitario nelle specifiche malattie) prodotto in laboratorio con tecniche di biologia molecolare. Purtroppo anche questo tipo di approccio non risolve pienamente tutti i problemi della cura delle LSD. Infatti, trattandosi di macromolecole proteiche, gli enzimi ricombinanti non attraversano la barriera emato-encefalica e quindi non sono efficaci nel curare le manifestazioni neurologiche, spesso presenti in pazienti con LSD.Tuttavia, l’armamentario terapeutico a disposizione dei medici im-pegnati nella cura dei pazienti con LSD si è ulteriormente arricchito con l’introduzione di terapie basate su piccole molecole. Il razionale per l’uso di questi farmaci può essere diverso.In un caso i farmaci sono inibitori della sintesi del substrato accu-mulato. In questo modo la terapia mira a ridurre il carico di substrato nelle cellule, ristabilendo un equilibrio tra la sintesi di quest’ultimo e la degradazione. Questo approccio è definito appunto riduzione della sintesi del substrato (Substrate Reduction Therapy, SRT) (Cox, 2005).Esiste però ancora un’altra possibilità, quella basata sull’uso di far-maci chaperone in grado di produrre uno stimolo dell’attività en-zimatica residua endogena (Enzyme Enhancement Therapy, EET) (Fan, 2003).Entrambi questi approcci sono ancora largamente sperimentali e sono stati utilizzati prevalentemente in modelli cellulari e animali di LSD. Per la SRT c’è però già una applicazione clinica, con discreti risultati, con l’uso del miglustat nella malattia di Gaucher (Cox et al., 2000). In questo caso l’uso del miglustat ha migliorato o stabilizzato i parametri ematologici (anemia, conta piastrinica), biochimici (livelli plasmatici di chitotriosidasi) e le dimensioni del fegato e della milza. Effetti positivi sono stati anche osservati sul coinvolgimento sche-letrico della malattia di Gaucher (Pastores et al., 2007). Nel campo delle EET c’è stata un’unica applicazione in un singolo paziente con variante cardiaca della malattia di Fabry, con effetti positivi sui pa-rametri di funzionalità cardiaca (Frustaci et al., 2001). Possibili ulte-riori applicazioni sono per le gangliosidosi GM1 e GM2 (Matsuda et al.,

2003) e per la malattia di Pompe. Quest’ultima malattia è il caso più recente di segnalazione di un possibile impiego della EET. In questo caso si è dimostrato che analoghi del substrato dell’α-glucosidasi, l’enzima carente nella malattia di Pompe, sono in grado di migliorare i livelli di enzima e di favorirne la stabilità ed il corretto trafficking verso i lisosomi (Parenti et al., 2007).Il vantaggio degli approcci basati sulle piccole molecole è legato alla migliore biodisponibilità (queste molecole possono attraversare la barriera emato-encefalica) ed al fatto che possono essere sommini-strate per via orale, evitando infusioni venose periodiche.

Che cosa ci riserva il futuro

Screening neonatali di massaGli studi sui modelli animali stanno dimostrando la possibilità di te-rapie per le LSD, efficaci almeno nel migliorare la qualità della vita. Proprio sulla base di queste considerazioni si stanno impostando programmi di screening neonatale per le LSD, al fine di identifica-re i neonati affetti precocemente, prima cioè dell’insorgenza di una patologia grave e irreversibile, pur con la riserva ancora aperta cir-ca la difficoltà di predire la gravità della malattia e prevedere gli effetti sulla prognosi a distanza di una precoce terapia. In Australia in particolare, nel gruppo diretto da John Hopwood, si stanno met-tendo a punto strategie per lo screening neonatale di massa delle LSD, basate su varie metodologie: quantificazione mediante saggi immunologici delle proteine enzimatiche, che nella maggior parte delle malattie risultano fortemente carenti; identificazione di livelli aumentati o diminuiti di marcatori o combinazioni di marcatori e dei loro reciproci rapporti (Meikle et al., 2006). Per una quindicina di malattie potenzialmente trattabili e con un’incidenza complessi-va in Australia di 1/10.000 neonati circa, risulterebbe tecnicamente possibile attuare un programma di screening neonatale di massa (Fletcher, 2006). Nei casi dubbi si potrebbe effettuare una conferma diagnostica successiva, dosando in maniera quantitativa l’attività enzimatica che appare deficiente sullo stesso cartoncino del test di Guthrie, cioè senza bisogno di richiamare il paziente.

Terapia genicaPer molte malattie, comprese le LSD, la terapia genica viene consi-derata la terapia risolutiva e realmente alternativa rispetto ai tratta-menti finora disponibili. Infatti l’obiettivo della terapia genica per le LSD è quello di modificare geneticamente le stesse cellule del pa-ziente, in vitro o in vivo, in maniera che siano in grado di esprimere costitutivamente alti livelli dell’enzima normale e possano diventare la sorgente dell’enzima nel paziente. Si rimanda per una più comple-ta revisione della materia a riviste sintetiche indicate in bibliografia (Beck, 2007; Biffi e Naldini, 2007; Ponder e Haskins, 2007; Hodges e Cheng, 2006).In questa sede si vuole soltanto sottolineare che sono stati spe-rimentati diversi metodi efficaci per il trasferimento di materiale genetico nelle cellule deficienti in cultura e la conseguente rico-stituzione dell’attività enzimatica carente. Tuttavia gli stessi me-todi applicati nell’uomo o nei modelli animali non hanno sempre fornito risultati consistenti, per motivi ancora in corso di studio. La disponibilità di modelli animali che riproducono il fenotipo delle LSD umane, associata all’uso di vettori virali sempre più efficienti e senza rischio significativo di effetti collaterali, fa sperare che la terapia genica somatica per questo gruppo di malattie così deva-stanti e complesse possa diventare il vero approccio terapeutico di successo nel futuro.

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G. Andria, G. Parenti

Ringraziamenti

In un articolo di revisione in cui si intrecciano, con i risultati scienti-fici, molti ricordi personali, è doveroso per gli Autori riconoscere vari debiti di gratitudine.Paolo Durand è stata senza dubbio la figura fondante di tutto il grup-po di italiani – pediatri (Gianni Coppa, Enrico Zammarchi), neurologi (Stefano Di Donato, Antonio Federico), biochimici (Guido Tettamanti, Bruno Berra) e genetisti (Giovanni Romeo) che hanno sviluppato la ricerca sulle malattie lisosomiali d’accumulo a partire dagli anni ’70 – e a lui va un ricordo commosso per quanto ha saputo insegnare. Rosanna Gatti e Carla Borrone e, successivamente, Mirella Filocamo e Maja Di Rocco hanno strettamente collaborato e proseguito l’opera di Durand. Nuovi centri si sono sviluppati grazie all’impegno di una nuova generazione di pediatri, come Bruno Bembi, Maurizio Scarpa, Rossella Parini, Alice Donati, Carlo Dionisi Vici, Marco Spada, Orazio

Gabrielli, particolarmente attivi oggi nel network nazionale sulle LSD. Un ringraziamento particolare per gli insegnamenti e le collaborazio-ni sviluppatesi in lunghi anni, dobbiamo a ricercatori di alta qualifi-cazione internazionale, come William S. Sly, Hans Galjaard, Arnold Reuser e Alessandra D’Azzo.Un grazie di cuore a Andrea Ballabio, Paola Di Natale, Pietro Stri-sciuglio, con i quali abbiamo condiviso e continuiamo a condividere, qui a Napoli, non solo una proficua collaborazione scientifica, ma soprattutto affetto e amicizia.Infine esprimiamo una riconoscenza sincera all’opera intelligente di tanti giovani, con cui per anni abbiamo lavorato fianco a fianco nelle attività cliniche e di ricerca e i sentimenti della più profonda gratitudine alle famiglie dei pazienti con malattie d’accumulo liso-somiale, che ci hanno dimostrato la loro fiducia, affidando i loro cari alle nostre cure.

Che cosa si sapeva prima• La prognosi delle LSD solo pochi anni fa era nella maggior parte dei casi grave, con un’aspettativa di sopravvivenza breve, oltre che con una qualità

di vita molto povera.• Il medico che formulava una diagnosi di LSD poteva solo offrire alla famiglia e al paziente una terapia sintomatica, per attenuare le conseguenze

della malattia e offrire una consulenza genetica, con l’opzione di una diagnosi prenatale dopo la nascita di un primo membro affetto nella famiglia.

Che cosa sappiamo adesso• Sono note le basi biochimiche e molecolari della quasi totalità delle LSD e questo consente una consulenza genetica più precisa.• Sono disponibili approcci terapeutici che riescono ad aumentare i livelli dell’attività enzimatica geneticamente carente (trapianti di cellule staminali,

ERT, SRT, EET) con efficacia documentata anche sulla qualità della vita del paziente.

Quali ricadute per la pratica clinica• Si aprono nuovi scenari per il futuro grazie allo sviluppo di terapie specifiche per un sempre maggior numero di condizioni, con gli approcci già oggi

sperimentati con successo.• La terapia genica somatica rappresenta la vera speranza per una cura efficace, una volta che sarà possibile trasferire a trial clinici le “prove di prin-

cipio” ottenute in laboratorio.• È prevedibile che la disponibilità di terapie efficaci comporti l’allargamento degli screening neonatali di massa anche alle LSD, consentendo la dia-

gnosi di individui asintomatici con storia familiare negativa e l’avvio precoce allo specifico trattamento.

Box di orientamento

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prof. Generoso Andria, Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”, via S. Pansini 5, 80131 Napoli • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future

Carmen Gianfrani* ***, Salvatore Auricchio** ***

* Istituto di Scienze dell’Alimentazione, CNR, Avellino; ** Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli; *** Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie Indotte da Alimenti, Università “Federico II”, Napoli

RiassuntoDal lontano 1950 anno in cui è stato individuato il glutine contenuto nel grano quale la causa scatenante la malattia celiaca, la ricerca ha fatto passi da gigante nella delucidazione dei complessi meccanismi cellulari e molecolari responsabili del danno della mucosa del piccolo intestino. È stato dimostrato che i peptidi del glutine e delle prolamine correlate di altri cereali tossici per il celiaco, resistenti alla digestione degli enzimi gastrointestinali, attivano le cellule del sistema immune intestina-le appartenenti sia alla branca adattava che innata; sono state identificate le sequenze aminoacidiche di molti peptidi tossici; il ruolo chiave svolto dall’enzima transglutaminasi tissutale, l’antigene verso cui il celiaco produce autoanticorpi, nel rendere i peptidi del glutine stimolatori dei linfociti T intestinali; infine del tutto recentemente, si è scoperto che il glutine è capace di esplicare un’azione lesiva sui tessuti comportandosi come un microrganismo patogeno.Nel presente articolo vengono illustrati i risultati salienti della ricerca scientifica di base sia mondiale che del nostro gruppo napoletano; inoltre vengono discussi i possibili riflessi che queste ricerche sulla patogenesi hanno sulla clinica e sulla terapia della celiachia.

SummarySince the original description in the 1950 that wheat gluten is the agent that causes celiac disease, a significantly improvement has been done in the knowledge of molecular and cellular mechanisms lead-ing to the damage of small intestine. It has been observed that: 1. gluten peptides, escaping the proteolysis of gastrointestinal enzymes, reach the mucosal tissues and activate the cells of both the adaptive and innate immune systems; 2. the amino acidic sequences of a large panel of gluten immunogenic peptides are known; 3. tissue trans-glutaminase is the autoantigen in celiac disease and is a key factor in the pathogenesis since it favours the recognition of gluten peptides by CD4+ T lymphocytes; 4. gluten possess peculiar biological proper-ties that lead to the damage of intestinal epithelial cells and mimic the effect of infectious agents.In the present article, we review the most recent studies on the pathogenesis of celiac disease obtained by both International and Neapolitan research groups. Furthermore we discuss how these basic re-search findings could improve the diagnosis and the clinical management of celiac disease.

Salvatore Auricchio è nato a Napoli il 26 Febbraio 1934. Professore fuo-ri ruolo di Pediatria, Direttore della Scuola di Specializzazione in Pediatria e del Laboratorio Europeo per lo Stu-dio delle Malattie indotte da Alimenti dell’Università di Napoli “Federico II”. È stato Presidente della European Society for Pediatric Gastroenterolo-gy and Nutrition, che ha contribuito a fondare. È accademico della Deutsche Akademie der Naturforscher Leopoldi-na (Halle, Germania). Dottore in Medi-cina Honoris Causa dell’Università di Tampere (Finlandia). Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scienza e della Cultura.Ha vinto il premio Internazionale Ma-ria Vilma e Bianca Querci per Triennio 2003-2005 ed il Warren Price for Coeliac Disease per l’anno 2008. Autore di oltre 300 pubblicazioni scientifiche in maggioranza su riviste internazionali, soprattutto nel campo dei difetti di disaccaridasi e della ce-liachia. Sposato, quattro figli ed otto nipoti. Ama studiare e lavorare, legge-re e giocare a tennis.

Obiettivi e metodologia della ricerca bibliografica effettuataQuesta review si propone l’obiettivo di rivedere gli studi recenti sui meccanismi dell’azione lesiva delle gliadine sull’intestino del celia-co. Partendo da questi studi si tenterà di illustrare quali riflessi que-ste informazioni hanno sulle nostre conoscenze in clinica e terapia della malattia celiaca e quali potrebbero essere alcuni degli sviluppi della ricerca futura. Tutto ciò sulla base di:• revisione della letteratura degli ultimi 5 anni, condotta trami-

te medline utilizzando come motore di ricerca PubMed e le seguenti parole chiave: 1. celiac disease & cereal & T-cells; 2. gluten & prolyl endopeptidase; 3. celiac disease & rotavirus; 4. anti-tissue transglutaminase antibodies & celiac lesion; 5. celiac disease & oat;

• personale esperienza di ricerca del gruppo napoletano che ope-ra presso l’Università “Federico II” di Napoli, Dipartimento di Pe-

diatria e Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie Indotte da Alimenti e presso l’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR di Avellino.

Per un aggiornamento invece sulla clinica, diagnosi e prevenzione della malattia celiaca si rimanda alla lettura di una review recen-temente pubblicata su questa rivista (Limongelli, Greco, Troncone. Diagnosi e prevenzione della malattia celiaca. Prospettive in Pedia-tria 2006).

Glossario

Consensus QXPCombinazione di aminoacidi richiesta per la deamidazione delle glu-tamine (Q) in acido glutammico (E) ad opera della transglutaminasi tissutale di tipo 2 (tTG2).

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 18-26

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La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future

Binding motif di HLA-DQ2 e -DQ8Insieme degli aminoacidi che preferenzialmente si trovano nelle po-sizioni di ancoraggio del peptide alla tasca dell’HLA. Il binding motif del DQ2 prevede residui carichi negativamente in posizioni ancora P4, P6 e P7, mentre il DQ8 preferisce residui carichi negativamente nelle posizioni P1, P4 e P9.

EGF, EGFR e vescicole di endocitosiEGF è il fattore di crescita epiteliale e l’EGFR il suo recettore speci-fico. Il legame dell’EGF all’EGFR ne induce la dimerizzazione e l’at-tivazione della parte tirosino-kinasica citoplasmatica, che poi attiva varie vie di trasduzione del segnale a valle. Dopo il binding dell’EGF, il complesso EGF-EGFR è reclutato in vescicole ricoperte da clatri-na, internalizzato e trasportato negli early endosomi, per essere poi, attraverso il multivesicular body, riciclato alla superficie cellulare o trasportato ai lisosomi, dove è degradato ed inattivato: è questo il principale meccanismo di attenuazione del signaling dell’EGF. Il complesso ligando-recettore continua a segnalare all’interno delle cellule prima della inattivazione nei lisosomi.

Epitopo TSequenza aminoacidica di un peptide antigenico riconosciuto dal recettore di una cellula T (TCR).

Introduzione

Colpendo all’incirca 1 individuo su 100, la malattia celiaca è una delle forme più comuni di intolleranza alimentare, con sintomato-logia clinica molto variabile. La celiachia è la conseguenza di una disturbata interazione tra uomo ed alimento; infatti l’ingestione del glutine contenuto nel grano e delle prolamine di orzo e della segale, scatena in soggetti geneticamente predisposti un’alterata risposta immunitaria a livello del piccolo intestino, con infiammazione della mucosa intestinale, atrofia dei villi ed iperplasia delle cripte e con-seguenti disturbi nell’assorbimento dei nutrienti. La terapia consiste in una dieta priva delle proteine non tollerate che, se da un lato consente il ripristino della normale morfologia e funzionalità dell’in-testino, dall’altro non garantisce il recupero della tolleranza a questi cereali neppure dopo molti anni.Recentemente si è cominciato a capire perché, tra tante proteine ali-mentari solo quelle alcool solubili (prolamine) di alcuni cereali sono capaci di provocare, in soggetti geneticamente predisposti, quadri morbosi così vari e complessi, come nella celiachia. La domanda che la comunità scientifica da tempo si pone è quale sia la com-binazione esistente tra struttura relativamente semplice di queste proteine, ricche di due aminoacidi, glutamina e prolina, e la capacità dell’organismo umano, in particolare dei prodotti di alcuni suoi geni, di riconoscere proprietà peculiari di queste proteine, sì da fare della celiachia un esempio unico in patologia umana.Sia fattori genetici che ambientali sono coinvolti nello sviluppo della celiachia: infatti si tratta di una malattia poligenica, nella quale non è l’alterazione del singolo gene a provocare il quadro morboso, bensì l’associazione di diversi polimorfismi genetici comuni che, agendo insieme, provocano una peculiare risposta dell’organismo, in gran parte su base immunologica, ad una proteina alimentare di ampio consumo. È noto da tempo che i geni del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC o HLA) contribuiscono alla predisposizione genetica per la celiachia, in quanto la quasi totalità dei pazienti ri-sulta portatrice dei geni codificanti le molecole HLA DQ2 o DQ8. Altri geni coinvolti nell’insorgenza della malattia sono localizzati in altre

parti del genoma umano (5q31-33; 19p13; 2q33; 4q27) anche se non sono stati ancora identificati (Limongelli et al., 2006). Il fattore ambientale più importante è il glutine (o le gliadine e le glutenine, le principali proteine del glutine) e le altre prolamine dei cereali non tollerati: non vi è malattia in assenza di queste. Un altro fattore am-bientale è stato recentemente identificato nel rotavirus (Zanoni et al., 2006). Nel siero di tutti i soggetti celiaci studiati sono stati individuati anticorpi diretti verso la proteina VP-7 del rotavirus che cross-rea-giscono con l’enzima transglutaminasi (tTG2), l’autoantigene verso cui il celiaco produce anticorpi (noti anche come anticorpi anti-en-domisio, EMA) la cui importanza ai fini diagnostici è ben nota. Un importante studio prospettico americano eseguito su una coorte di 1.931 bambini ha evidenziato una stretta correlazione tra l’infezione da rotavirus e l’insorgenza della celiachia in soggetti geneticamente predisposti (Stene et al., 2006).È noto da tempo che la malattia celiaca è una patologia immuno-mediata. Nell’intestino di alcuni soggetti geneticamente predisposti albergano linfociti T CD4+ della branca adattativa della risposta im-mune che, in seguito al contatto con il glutine, reagiscono attivan-dosi e producendo citochine proinfiammatorie. Ora sappiamo molto di più rispetto a dieci anni fa sui meccanismi del danno intestinale, che consiste nell’infiammazione della mucosa e nel rimodellamento dei tessuti, con scomparsa dei villi e ipertrofia delle cripte; le recenti scoperte dell’enzima transglutaminasi quale antigene della risposta autoanticorpale, del suo ruolo nel rendere i peptidi della gliadina più immunogenici, fino alla recente scoperta del ruolo dei linfociti T CD8+ citotossici e della branca innata dell’immunità, hanno pro-fondamente modificato le conoscenze finora acquisite sulla tossicità del glutine. Inoltre, le tecniche di biologia cellulare e molecolare, di immunologia, di genomica e proteomica permettono oggi di studia-re, a livello sempre più sofisticato, l’interazione di questa importante proteina alimentare con il tessuto epiteliale ed il sistema immune dell’intestino.Ne emerge una nuova visione sugli alimenti, che non sono solo nu-trienti, ma sono anche capaci di indurre risposte complesse da parte dei tessuti, mimando talvolta l’azione di virus e batteri.

Idrolisi intraluminale del glutine: ruolo delle endopeptidasi

Il glutine, a differenza di altre proteine alimentari, è molto resisten-te alla digestione da parte degli enzimi gastro-intestinali, proprio per la sua ricchezza di prolina (Shan et al., 2000). Questa spiccata resistenza alla digestione proteolitica fa si che la mucosa dei villi venga a contatto con grossi peptidi del glutine, che dal punto di vista immunitario, sono cruciali per l’attivazione della reazione in-fiammatoria.Le prime evidenze della tossicità dei peptidi del glutine sono sta-te ottenute proprio presso i laboratori del Dipartimento di Pediatria di Napoli, utilizzando la tecnica della cultura d’organo di biopsie di celiaci in fase acuta di malattia e a dieta con glutine. La A-gliadi-na, una delle alfa-gliadine del glutine, veniva digerita con bromu-ro di cianogeno in 3 grossi polipeptidi (1-127, 128-246, 247-266). Di questi solo i frammenti N-terminale e centrale conservavano le proprietà tossiche dell’intera proteina sulla mucosa dopo 48 ore di cultura (De Ritis et al., 1988). Inoltre, dall’idrolisi enzimatica con chi-motripsina del frammento N-terminale 1-127 si ottenevano diversi corti peptidi; tra questi solo il peptide 31-55 danneggiava le cellule epiteliali quando messo a contatto con la mucosa celiaca (De Ritis et al., 1988), mentre il 56-68 non aveva alcun effetto sulla morfologia

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C. Gianfrani, S. Auricchio

della mucosa intestinale. Studi successivi sulla mucosa del celiaco in remissione hanno dimostrato che il 31-55 o parti di questo, quali il 31-43, erano in grado di danneggiare gli enterociti e di indurre l’espressione del DR nelle cripte e del CD25 nelle cellule mononu-cleate della lamina propria (Maiuri et al., 1995).Un importante studio di un gruppo di ricercatori della Stanford University ha dimostrato che dopo prolungata digestione della A-gliadina con enzimi gastrointestinali, tra cui pepsina, tripsina, ed endopeptidasi del brush border, si ottiene un grosso frammento peptidico di 33 aminoacidi (33-mer) mappante la regione 57-89 dell’estremità N-terminale della proteina (Shan et al., 2002). Questo peptide o parti di esso, ad esempio il 56-68, sono stati dimostrati indurre una forte risposta immunitaria da parte delle cellule T CD4+ nella maggioranza dei pazienti celiaci DQ2 positivi, come descritto ampiamente di seguito. La spiccata resistenza delle gliadine alla di-gestione proteolitica è stata confermata anche successivamente su gliadine ricombinanti (Mamone et al., 2007). È interessante che in questo studio oltre al 33-mer viene ritrovato non degradato anche il peptide tossico 31-55. Peptidi resistenti alla digestione proteolitica, che includeva la chimotripsina e le peptidasi del brush border, sono stati recentemente osservati anche nelle γ-gliadine. In particolare, è stato identificato un frammento di 26 aminocidi (26-mer) che ana-logamente al 33-mer, è idrolisi resistente e contiene diversi epitopi (peptide multiepitopico) in grado di stimolare una risposta CD4+ T-mediata nei pazienti celiaci (Shan et al., 2005). Inoltre, con l’ausilio dell’analisi computazionale (bioinformatica e disponibilità di banche dati di sequenze peptidiche), sono state identificati più di 60 peptidi diversi sia del glutine che delle prolamine dell’orzo e della segale (entrambe non tollerate dai celiaci) con caratteristiche strutturali si-mili ai peptidi 33-mer e 26-mer, confermando in tal modo la tossicità delle proteine esaminate anche su base teorica. Inoltre, a conferma di questa analisi predittiva, i ricercatori hanno messo a punto pro-teine mutanti delle α-gliadine mancanti del 33-mer con l’ausilio di tecniche di ingegneria genetica. I mutanti venivano completamen-te digeriti e perdevano la capacità di stimolare linee linfocitarie da intestino celiaco. Se ne deduce che questo approccio può essere utilizzato per l’identificazione di proteine di cereali mancanti delle regioni resistenti all’idrolisi e quindi potenzialmente tollerate dai ce-liaci. L’analisi computazionale ha evidenziato che alcune avenine (la tossicità dell’avena per i pazienti celiaci è ancora oggetto di discus-sione) non possedevano sequenze omologhe al 33-mer e 26-mer e venivano completamente digerite dagli enzimi proteolitici (Shan et al., 2005). Questi risultati apportano nuovi elementi a favore della non tossicità dell’avena per i pazienti celiaci.

Riflessi sulla clinicaLa scoperta della peculiare resistenza del glutine alla digestione en-zimatica ha aperto la strada alla ricerca di strategie terapeutiche miranti a diminuire il carico antigenico di glutine e basate sull’uti-lizzo di enzimi proteolitici o di microrganismi che li producono, o di macromolecole capaci sequestrare i peptidi del glutine non digeriti a livello intestinale.Di Cagno et al. hanno dimostrato che, attraverso la lievitazione di farine di grano con criscito a base di lattobacilli ricchi di proteasi, si otteneva la completa pre-digestione dei peptidi del glutine ricchi di prolina. Inol-tre, i pazienti celiaci alimentati con pani lievitati con il criscito a base di lattobacilli non presentavano alterazioni della permeabilità intestinale (Di Cagno et al., 2004). La degradazione dei peptidi tossici è stata suc-cessivamente confermata dall’assenza di reattività immunologica di linee T intestinali ottenute da intestino celiaco e stimolate con estratti proteici ottenute dai pani pre-digeriti (Rizzello et al., 2007).

Altri studi hanno invece dimostrato che è possibile digerire i peptidi lesivi per il celiaco mediante pre-trattamento del glutine o di alimen-ti finiti contenenti glutine con prolyl-endopeptidasi (PEP) di origine batterica (Pyle et al., 2005; Hausch et al., 2002); oppure direttamen-te a livello gastrico mediante somministrazione di capsule lipopro-teiche contenenti prolyl-endopeptidasi di origine batterica o vege-tale (Marti et al., 2005). Una delle limitazioni di questa terapia orale risiede sulla suscettibilità delle PEP alla degradazione ad opera della pepsina e del pH acido dello stomaco. Per aggirare questo ostacolo, è stata identificata una PEP fungina resistente a pH acido estratta dall’Aspergillus niger (Stepniak et al., 2006). Un recentissimo studio su un modello in vitro del tratto gastrointestinale ha evidenziato che la somministrazione orale delle PEP fungine, unitamente a prodotti da forno a base di farina di grano, induceva la totale degradazione dei peptidi del glutine già a livello gastrico (Mitea et al., 2007), sug-gerendo la notevole potenzialità della terapia orale con proteasi per la malattia celiaca.Un’altra possibile strategia per la riduzione del carico antigenico del glutine viene da uno studio in vitro nel quale si dimostra che oligo-meri del mannosio o di N-acetilglucosamina impediscono il danno della mucosa intestinale del celiaco coltivata in vitro che si verifica in seguito al contatto con i peptidi della gliadina. Quest’azione pro-tettiva viene spiegata probabilmente dalla peculiare proprietà degli oligomeri di legare, mascherandoli, i peptidi del glutine (Auricchio et al., 1990).

Risposta T adattativa CD4-mediataNel precedente paragrafo abbiamo visto che la gliadina contiene molti peptidi in grado di stimolare i linfociti T infiltranti la mucosa intestinale del celiaco. L’individuazione dei peptidi immunogenici è stata a lungo ostacolata dalla complessità strutturale del glutine (più di 40 proteine diverse anche se con elevata omologia di sequenza), e solo la disponibilità di sofisticati e costosi spettrometri di massa e la possibilità di clonare i linfociti isolati da biopsie intestinali di celiaci ha permesso la loro identificazione negli ultimi 10 anni (Lundin et al., 1993; Troncone et al., 1998; van de Wal et al., 1998). Peptidi in grado di attivare i linfociti T CD4+ dell’intestino di celiaci sono stati identificati sia nelle α-gliadine, che nelle γ-gliadine e recentemen-te anche nelle ω-gliadine (Camarca et al. risultati non pubblicati) e nelle glutenine. La grande maggioranza di questi peptidi sono presentati dalle molecole HLA-DQ2 e sono quindi attivi in pazienti celiaci DQ2 positivi (Lundin et al., 1993; Arenz-Hansen et al., 2002). Solo due peptidi sono stati descritti essere riconosciuti da pazienti DQ8 positivi e negativi per il DQ2 (Van De Wal et al., 1998; Vader et al., 2002) e, a tutt’oggi, non sono noti peptidi presentati da altre molecole dell’MHC: ciò spiega la stretta associazione genetica della malattia celiaca con l’HLA-DQ2 e -DQ8. Ciononostante, dall’analisi comparativa del binding motif delle molecole DQ2 e DQ8, che pre-vede peptidi carichi negativamente, e della struttura primaria delle proteine del glutine, molto povere di peptidi acidi, risultava inspie-gabile tale associazione; e questo fino alla scoperta del ruolo della tTG2 nella patogenesi della malattia celiaca. Questo enzima, molto diffuso ed attivo nella mucosa intestinale infiammata del celiaco, in condizioni di pH leggermente acido, può deamidare la glutamina in acido glutammico, carico negativamente. L’attività di deamidasi della tTG2 è altamente sito-specifica, in quanto vengono deamidate prevalentemente le glutamine (Q) in prossimità di una prolina (P), ed in particolare nella sequenza QXP, dove X è un aminoacido diverso da Q e P. L’introduzione di cariche negative in specifiche posizioni della proteina aumenta l’affinità di legame dei peptidi modificati con

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le molecole HLA-DQ2/DQ8. Test in vitro hanno dimostrato che i pep-tidi del glutine deamidati hanno elevata affinità di legame all’HLA e capacità di stimolatore i linfociti T circa 10 volte superiore ai peptidi non modificati. Tra i diversi peptidi della gliadina, che soddisfano le suddette condizioni, il 33-mer dell’estremità N-terminale dell’A-glia-dina è riconosciuto dalle cellule T della maggior parte dei pazienti celiaci studiati e pertanto è stato definito immunodominante. Inoltre, contenendo ben 6 copie di 3 epitopi diversi stimola potentemente i linfociti T a proliferare e a produrre γ-interferone (Shan et al., 2002). Recenti studi, alcuni anche nostri, hanno dimostrato che i peptidi immunostimolanti dell’α-gliadina DQ2-ristretti risiedono tutti nelle regione N-terminale e sono porzioni più corte del 33-mer. Maggiore variabilità è stata riscontrata nella sequenza aminoacidica dei pepti-di delle γ-gliadine ed attivi in un elevato numero di pazienti analizza-ti (Shan et al., 2005; Mamone et al., risultati non pubblicati; Camarca et al. risultati non pubblicati). Studi bioinformatici e di analisi di se-quenze in banche dati hanno dimostrato che solo poche prolamine contengono sequenze capaci di soddisfare sia i motivi strutturali specifici per la deamidazione ad opera della tTG che quelli di binding all’HLA, e sono quindi potenzialmente tossiche per i celiaci.Un effetto dose della molecole HLA-DQ2 è stato evidenziato da studi sia genetici che funzionali. Individui HLA-DQ2 omozigoti avrebbero un rischio di sviluppare la malattia celiaca circa 5 volte superiore rispetto a quello degli eterozigoti (Limongelli et al., 2006). In saggi funzionali, le linee T intestinali rispondono più vigorosamente quan-do i peptidi della gliadina vengono presentati da cellule presentanti l’antigene DQ2 omozigote (ad esempio DR3/3 positive) rispetto alle APC DQ2 eterozigote (ad esempio DR3/X, DR5/7) (Vader et al., 2003), probabilmente perché le prime esprimono più molecole DQ2 sulla superficie cellulare. Ne deriva un importante ed innovativo concetto: per ammalare di celiachia occorre che si verifichi una stimolazione antigenica molto elevata in soggetti DQ2 e DQ8 positivi, che può realizzarsi o per elevato carico di glutine o per una presentazione molto efficiente dei peptidi immunologicamente attivi. Vi è cioè una quantità soglia dello stimolo antigenico al di sotto della quale il ri-schio di ammalarsi, o di avere lesioni intestinali e manifestazioni cliniche severe, è basso anche in soggetti predisposti.

Riflessi sulla clinicaMolte sono le implicazioni cliniche, soprattutto ai fini terapeutici, dell’identificazione del repertorio completo dei peptidi del glutine in grado di stimolare una risposta T adattativa e del ruolo delle mole-cole HLA. Ne elenchiamo di seguito alcune:

• solo i soggetti DQ2 o DQ8 positivi si ammalano di celiachia (Li-mongelli et al., 2006);

• un’importante conseguenza del concetto di soglia risiede nella eventuale possibilità di prevenire la malattia celiaca in soggetti a rischio riducendo il carico antigenico. Attualmente la dieta priva di glutine resta, invece, l’unica efficace nella terapia della celiachia;

• sulla base di un analisi approfondita del genotipo DR e DQ, è oggi possibile, calcolare il rischio di ammalare dei parenti di pri-mo grado del celiaco. Per i neonati ad alto rischio (superiore al 20%) è partito ora uno studio prospettico e collaborativo euro-peo nel quale, per la prima volta, si tenta una prevenzione della malattia, introducendo quantità molto piccole di glutine al 4° e 5° mese di vita insieme al latte materno (studio europeo Preven-tCD; Limongelli et al., 2006). Studi precedenti, avevano infatti suggerito che l’allattamento al seno ritarda l’insorgenza della malattia (Auricchio et al., 1983; Ivarsson et al., 2002; Akobeng et al., 2006);

• la conoscenza della sequenza QXP necessaria per la deamida-zione dei peptidi da parte della tTG2 e dei binding motif al DQ2 e DQ8 apre la strada alla possibilità di trovare (o creare) grani, le cui gliadine non siano (o lo siano poco) riconosciute da cellule T del celiaco, e quindi utilizzabili per produrre pane e pasta da de-stinarsi agli individui intolleranti, o per prevenire la malattia nei soggetti a rischio. Se l’utilizzo di questi grani meno tossici do-vesse risultare efficace, sia come prodotto dietoterapeutico che nel diminuire l’incidenza della celiachia nei soggetti a rischio, si potrebbe pensare ad una loro coltivazione su larga scala per l’alimentazione umana;

• l’avena, appartenente alla sottofamiglia delle Aveneae, filoge-neticamente lontana dalle Triticeae (grano), contiene poche se-quenze potenzialmente tossiche e viene infatti tollerata da molti pazienti come dimostrato in alcuni studi sia su bambini che adulti (Janatuinen et al., 1995; Srinivasan et al., 1996). Sono tut-tavia necessari ulteriori studi sia in vitro che in vivo per stabilire la totale assenza di tossicità dell’avena per il celiaco;

• è possibile detossificate i peptidi della gliadina immunostimo-lanti (ad esempio il 56-68) transamidando le glutamine con li-sina e lisina metilata ad opera della tTG. I peptidi della gliadina transamidati perdono la capacità di stimolare i linfociti T CD4+ specifici ottenuti da intestino celiaco. Trattando poi direttamente le farine con una TG estratta da batteri (mTG) e lisina metilata si ottiene una gliadina priva della capacità di stimolare la rispo-sta T adattativa specifica (Gianfrani et al., 2007). Anche se studi precedenti avevano evidenziato il ruolo protettivo delle amine sul danno della mucosa del celiaco indotto dai peptidi del glutine (Auricchio et al., 1990), resta da chiarire se la transamidazione della gliadina con metil-lisina abbia effetto anche sulle altre pro-prietà lesive dei peptidi del glutine sull’intestino del celiaco, in particolare sull’attivazione dell’immunità innata (vedere appres-

Figura 1. Risposta T CD4+ adattativa alla gliadina nella mucosa intestinale del celiaco.I peptidi della gliadina dopo aver attraversato la barriera epiteliale sono deamidati dalla transglutaminasi tissutale (TG2) e processati dalle APC della lamina propria. Il complesso HLA-D2/DQ8- peptidi della gliadina sulla superficie delle APC interagisce con il TCR delle cellule T CD4+ di memoria della lamina propria, le quali rilasciano interferone-γ.

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so), prima che il trattamento delle farine con mTG possa essere utilizzato per la preparazione di farine di grano non tossiche per il celiaco;

• è in corso di sperimentazione un vaccino basato sulla sommi-nistrazione sottocutanea di un peptide multiplo (combo-peptide) costituito da il peptide 57-73 (un frammento del 33-mer) dell’A-gliadina e da un peptide omologo dell’ω-gliadina (Anderson et al., risultati non pubblicati).

Cellule T regolatorieIn condizioni normali, il sistema immune tollera gli antigeni alimen-tari. I meccanismi alla base della tolleranza orale agli alimenti sono complessi e coinvolgono anche l’attività di cellule T regolatorie ad attività soppressoria. Nella mucosa intestinale del celiaco sono presenti cellule T CD4+ regolatorie del tipo Tr1, che secernono in risposta alla gliadina IFN-γ, IL-10, TGF-β (no IL-4 e poca IL-2) e sop-primono la proliferazione di cloni T effettori (Gianfrani et al., 2006). Non vi è evidenza di tali cellule nell’intestino normale.Un’altra importante popolazione di cellule T regolatorie sono le CD4+CD25+Foxp3+, per le quali è stato dimostrato un ruolo cen-trale sia nell’autoimmunità che nelle patologie infiammatorie intesti-nali. Il numero delle cellule CD4+Foxp3+ è aumentato nella mucosa intestinale del celiaco, sia atrofica che in remissione (Mazzarella et al. risultati non pubblicati). Inoltre la densità di tali cellule aumenta notevolmente in seguito al challenge in vitro con gliadina della mu-cosa intestinale del celiaco in remissione. Nell’intestino del celiaco sembrerebbe, perciò, non esserci un difetto primario di regolazione, e le cellule T regolatorie, sia Tr1 che CD4+CD25+Foxp3+, vengono reclutate o si differenziano in loco, per controbilanciare la forte rea-zione immunitaria scatenata dalla gliadina.

Riflessi sulla clinicaLe cellule T regolatorie sono potenziali candidati per nuove tera-pie immunomodulanti della celiachia. La loro scoperta nell’intesti-no celiaco apre, infatti, nuovi scenari per la terapia farmacologica dell’intolleranza al glutine. Va studiata la possibilità di espandere e potenziare in vitro e in vivo l’attività delle cellule Tr1, per esempio attraverso somministrazione di IL-10 esogena. Un modo efficace per somministrare l’IL-10 a livello intestinale potrebbe essere l’utilizzo di un lattobacillo (lactococcus lactis) transfettato con il gene dell’IL-10 umana. Tale lattobacillo è stato somministrato in trials clinici in soggetti con malattia di Crohn’s, con risultati molto incoraggianti sia per la remissione delle lesioni intestinali che per la totale assenza di effetti collaterali (Braat et al., 2006).

Risposta T adattativa CD8-mediataLa stretta e ben documentata associazione della malattia celiaca con le molecole HLA di Classe II, che presentano gli antigeni alle cellule T CD4+, ha sempre fatto pensare che tali cellule fossero le uniche della branca immune adattativa ad avere un ruolo nella lesione celiaca. Occorre dire che una delle caratteristiche istologi-che della mucosa intestinale del celiaco è la notevole infiltrazione di cellule T CD8+, sia nell’epitelio che nella lamina propria in tutti i diversi stadi della lesione. Alcuni anni fa, ci siamo chiesti se ci fos-se qualche peptide della gliadina in grado di attivare direttamente queste cellule e quindi di legarsi alle molecole HLA di Classe I, che come è noto restringono la risposta immune CD8-mediata. Abbiamo dimostrato che la A-gliadina contiene un corto peptide

di 10 aminoacidi (A-gliadina 123-132) capace di legarsi alla mo-lecola HLA di Classe I A2 e in grado di attivare linfociti T CD8+ citotossici ottenuti da sangue periferico e da intestino di celiaci e di indurre, da parte di questi, la produzione di IFN-γ e la lisi di cellule bersaglio (Gianfrani et al., 2003). Questo peptide citotossico elicita in cultura d’organo di mucosa celiaca una forte reazione immunitaria sia a livello della lamina propria, con aumento delle cellule che esprimono marcatori di attivazione (CD25 e CD80), e di apoptosi (FASL), che a livello epiteliale, dove si osserva aumento dell’espressione del FAS e dell’apoptosi. Infine, le linee T CD8+ generate dalla mucosa intestinale celiaca rilasciano Granzyme-B ed inducono l’apoptosi di cellule epiteliali Caco2 (A2+) quando sti-molate con il peptide citotossico (Mazzarella et al., 2008).

Riflessi sulla clinicaI tentativi di realizzare un modello animale di enteropatia sono si-nora falliti. È probabile che, per rompere la tolleranza al glutine e creare un modello animale di celiachia, occorra attivare in modo sinergico sia la risposta adattativa mediata dai linfociti CD4+ che dai CD8+ citotossici, nonché la risposta innata, come vedremo di seguito. I topi doppi transgenici HLA-DQ2 (o DQ8) e HLA-A2 forni-scono un ottimo background genetico su cui effettuare tali studi, in quanto è possibile attivare una risposta adattativa verso i peptidi della gliadina che sono noti essere ristretti dall’HLA DQ2 (DQ8) e dall’HLA-A2.

Figura 2. Risposta T adattativa alla gliadina nella mucosa intestinale del celiaco: cellule T CD8+ e cellule Tr1 regolatorie.La gliadina contiene corti peptidi in grado di attivare le cellule T CD8+ citotossiche della lamina propria. Il peptide della A-gliadina 123-132 viene processato dalle cellule epiteliali e presentato nel contesto delle molecole HLA di Classe-I (A2) ai linfociti T CD8+. In seguito al ricono-scimento di questo peptide le cellule T CD8+ inducono l’apoptosi degli enterociti.Nella mucosa intestinale di celiaci ci sono anche linfociti T regolatori (Tr1) che, in seguito al contatto con la gliadina, producono IL-10 e TGF-ß ed inibiscono l’attivazione delle cellule T effettrici.

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AutoanticorpiGli anticorpi anti-tTG2 IgA, anche noti come anticorpi anti-endomi-sio (EMA), hanno un importante valore diagnostico nella malattia celiaca (per un approfondimento vedere la review Limongelli et al., 2006). Depositi di anticorpi IgA anti-tTG2 sono presenti nella mucosa di soggetti a rischio genetico di celiachia ma con sierolo-gia negativa. I depositi mucosali di questi autoanticorpi potrebbero essere il segno istologico di una forma latente di celiachia e quindi predittivi di un probabile sviluppo verso la celiachia conclamata (Salmi et al., 2006). Rimane ancora da chiarire il ruolo giocato da questi anticorpi nel causare il danno della mucosa celiaca. Le IgA purificate dal siero di celiaci inibiscono la differenziazione di cellule epiteliali T84 quando queste cellule vengono fatte crescere su uno strato di fibroblasti IMR-90 o in presenza di TGFβ; simile effetto si otteneva con un anticorpo monoclonale diretto verso la tTG2. Rappresentando le colture T84-IMR90 un modello in vitro dell’asse cripto-villo, questo studio suggerisce che gli anticorpi anti-tTG2 interferiscono sul normale cross-talk tra cellule epiteliali e fibroblasti nell’intestino (Halttunen et al., 1999). Del tutto recen-temente è stato dimostrata la capacità di questi autoanticorpi di causare il riarrangiamento della actina in linee di cellule epiteliali e di indurre la proliferazione di enterociti in biopsie di intestino celiaco coltivate in vitro, documentandosi così un loro ruolo diretto nel rimodellamento della mucosa intestinale del celiaco (Barone et al., 2007b).

Risposta innataÈ oramai chiaro che la celiachia non è solo una malattia dell’im-munità adattativa e dell’autoimmunità, ma anche dell’immunità innata. Ci sono infatti peptidi della gliadina, per esempio il 31-43, che danneggiano la mucosa del celiaco ma non sono riconosciu-ti da cellule T. Questi peptidi sono capaci di agire sulla mucosa del celiaco come danger signal, analogamente a quanto si veri-fica nei tessuti in risposta ad agenti infettivi. Già agli inizi degli anni ’80 era stato osservato, infatti, che la gliadina è in grado di provocare alterazioni morfologiche di linee cellulari tumorali, di tessuti in sviluppo e della mucosa intestinale del celiaco. In parti-colare, il digesto peptico-triptico di gliadina (PT-gliadina) provoca l’agglutinazione delle cellule di mieloma K562 (Auricchio et al., 1984), ed inibisce la normale differenziazione delle cellule epi-teliali dell’intestino fetale di ratto, fenomeni che non si verificano con le prolamine estratte dai cereali non tossici, quali mais e riso (Auricchio et al., 1982). Inoltre, come riportato precedentemente, profonde alterazioni strutturali e segni di risposta immune sono riscontrati anche nella mucosa atrofica del celiaco incubata in vitro con i peptidi della A-gliadina (De Ritis et al., 1988) e nella mucosa in remissione coltivata con il 31-43 (Maiuri et al., 1995). Queste prime osservazioni hanno trovato conferma in studi suc-cessivi in vivo: danni della mucosa del piccolo intestino di celiaci in remissione venivano osservati dopo somministrazione per via orale del peptide 31-43 (Marsh et al., 1995) e del 31-49 (Stur-gess et al., 1994). Solo negli ultimi 3 anni, grazie ad approfondite analisi immunoistochimiche eseguite sia sulla mucosa del celiaco atrofico che in remissione, dopo challenge in vitro con peptidi della gliadina, si è andato via via definendo l’importante ruolo dell’immunità innata nella celiachia. In seguito alla stimolazione con il 31-43 si ha la rapida attivazione di molti marcatori della im-munità innata, tra cui la ciclossigenasi COX2, il CD83 (marcatore di maturazione delle cellule dendritiche) e il CD25, nonché l’atti-

vazione della P38 MAP chinasi e l’apoptosi delle cellule epiteliali (Maiuri et al., 2003). Inoltre, è stato osservato che il mediatore chiave di questa rapida risposta immune è l’IL-15, un fattore di crescita cruciale per i linfociti sia della branca innata che adat-tativa. Prodotta dall’enterocita del celiaco in seguito al contatto con il peptide 31-43, l’IL-15 induce l’espressione autocrina del MICA e dell’HLA-E sugli enterociti, e del NKG2D/CD94 sui linfociti CD8+ citotossici intraepiteliali. L’interazione tra il MICA e l’NKG2D e tra HLA-E e il CD94 trasforma i linfociti T CD8+ intraepiteliali in natural killer, con conseguente rapida lisi delle cellule epiteliali. È importante sottolineare che questi fenomeni sono indipendenti dall’attivazione del TCR e non ristretti da molecole HLA (Hue et al., 2004; Meresse et al., 2004).

Riflessi sulla clinicaLa recente dimostrazione che la gliadina attiva sia una risposta im-mune adattativa che innata suggerisce fortemente l’ipotesi che la celiachia conclamata si sviluppi solo se si verificano ambedue i pro-cessi (Jabri e Sollid, 2006) e che vi possano essere intolleranze al glutine “parziali” che vedono coinvolte solo una delle due branche e con espressione clinica diversa dalla celiachia classica. D’altra parte gli studi sulla utilizzabilità dei cereali nella dieta del celiaco debbono considerare non solo la presenza dei peptidi immunogeni ma anche quella dei peptidi tossici.Si apre pertanto un nuovo ed interessante scenario della clinica del-l’intolleranza al glutine:

• intolleranza al glutine completa (= celiachia) se sono coinvolti entrambi i pathway dell’immunità adattativa ed innata;

• intolleranza al glutine che coinvolge solo il ramo dell’immunità in-nata e che si manifesta anche in soggetti DQ2 e DQ8 negativi;

• utilizzo nella dieta del celiaco (o nella prevenzione della malattia) di grani e cereali non (o poco) tossici (privi o poveri sia dei pep-tidi immunogenici adattativi che innati).

Quali le basi molecolari dell’attivazione dell’immunità innata

Non è noto quali siano le basi molecolari del danno da 31-43 del-l’enterocita del celiaco e della iperproduzione di IL-15, che sembra essere un punto centrale nella risposta precoce al glutine dell’inte-stino del celiaco.Proprio studiando questo problema ci siamo imbattuti in una nuova proprietà di alcuni peptidi della gliadina ed in particolare del 31-43 (Barone et al., 2007a): questo peptide è un fattore di crescita per varie linee cellulari e per l’enterocita del celiaco, con una azione EGF simile, in quanto attiva i recettori a tirosina-chinasi, e tra que-sti, in primo luogo, il recettore per l’EGF. Il peptide infatti ritarda la inattivazione intracellulare dello EGFR, interferendo con la sua endocitosi.L’EGFR attivato induce vari effetti metabolici e soprattutto aumento della proliferazione degli enterociti con rimodellamento della muco-sa intestinale: la persistente proliferazione cellulare indurrebbe la ipertrofia delle cripte ed inibirebbe la maturazione e la differenzia-zione degli enterociti, con perdita della normale struttura dei villi. Inoltre il 31-43 e la conseguente attivazione dello EGFR porta ad aumento di IL-15.Resta da spiegare la maggiore suscettibilità del celiaco a queste attività biologiche di alcuni peptidi della gliadina, in particolare del peptide 31-43. La nostra ipotesi di lavoro è che nel celiaco esista un

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Figura 3. Ruolo della risposta innata nel danno della mucosa intestinale del celiaco.La gliadina attraverso il 31-43 (o 31-49) attiva le cellule dell’immunità innata, sia a livello dell’epitelio che della lamina propria. In seguito al con-tatto con il 31-43, gli enterociti producono IL-15 ed esprimono il MICA e HLA-E sulla superficie cellulare; allo stesso tempo, i linfociti intraepiteliali (IEL) esprimono il CD94 e l’NKG2D. In seguito all’interazione tra NKG2D-MICA e CD94-HLA-E, i IEL si attivano e provocano la lisi delle cellule epiteliali bersaglio. Il 31-43 attiva le cellule dendritiche della lamina propria e ne induce la maturazione (espressione del CD83 e Cox2); inoltre, si comporta come fattore di crescita delle cellule epiteliali (EGF like), in quanto attiva il recettore dell’EGF (EGFR) e ritarda il trafficking delle vescicole di endocitosi.

difetto di base, non ancora identificato, della endocitosi (o di qualche altra correlata via metabolica), che rende le cellule del celiaco più sensibile all’azione del 31-43.E per concludere, tre considerazioni di ordine generale.

• Oggi si incomincia a capire perché, di tante proteine alimentari, solo le prolamine di alcuni cereali sono capaci di provocare la celiachia in soggetti geneticamente predisposti. Come abbiamo visto infatti le prolamine pur essendo di struttura aminoacidi-ca relativamente semplice, fatta in gran parte da glutamina e prolina contengono peptidi diversi che danneggiano l’intestino del soggetto geneticamente predisposto con meccanismi mol-teplici, mimando talvolta l’azione di batteri e virus. Restano da individuare i polimorfismi genetici in causa e da validare i vari meccanismi di danno.

• Da un punto di vista più generale, è particolarmente interessante che una proteina alimentare di ampio consumo, come il glutine, sia capace di interagire attraverso i suoi peptidi (per esempio 31-43) con il metabolismo intestinale (Bernardo et al., 2007)

andando ad interferire con una via metabolica molto importan-te, quale quella della endocitosi, che regola molteplici, funzioni cellulari e la proliferazione stessa delle cellule. Gli alimenti non sono solo nutrienti: possono indurre anche risposte complesse da parte dei tessuti.

• Negli anni ’60, quando prima in Europa e poi in America, si sviluppò la gastroenterologia pediatrica, l’enterocita veniva studiato come unità digestiva-assorbitiva dei nutrienti e le in-tolleranze alimentari su base genetica che venivano individua-te erano dovute a difetti congeniti o acquisiti di questa funzione (basti pensare ai difetti di disaccaridasi, di enterochinasi e ai difetti del trasporto di monosaccaridi ed aminoacidi). Le ricer-che odierne sulla celiachia dimostrano che la cellula epiteliale intestinale viene studiata anche come sensore del contenuto intestinale, come cellula immunocompetente, e come un insie-me di sistemi molto complessi di regolazione, che le tecniche di biologia cellulare e molecolare di immunologia, di genomica e proteomica permettono oggi di indagare a livello sempre più sofisticato.

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La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future

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Cosa sapevamo negli anni ’70La celiachia è un’intolleranza permanente al glutine del grano e alle analoghe prolamine dell’orzo e della segale. Queste proteine provocano nel celiaco un’enteropatia, caratterizzata da infiammazione della mucosa intestinale, atrofia dei villi ed iperplasia delle cripte e conseguenti disturbi nell’assorbi-mento di nutrienti.

Cosa sappiamo oggiConosciamo il repertorio dei peptidi del glutine in grado di stimolare una risposta T CD4+ adattativa ed il ruolo giocato, in questo processo, dalle mole-cole HLA. Ne è derivata la possibilità di calcolare il rischio di ammalare nei soggetti predisposti. Sappiamo: che fanno parte della risposta T adattativa al glutine del celiaco anche cellule T CD4+ regolatorie e cellule T CD8 citotossiche; che la malattia celiaca è una malattia autoimmune, diagnosticabile per l’aumento nel siero degli anticorpi anti-tTG2; sappiamo che la celiachia è anche una malattia dell’immunità innata e che peptidi delle gliadine, non riconosciuti da cellule T, mimano alcuni effetti, sui tessuti, di batteri e di virus. Sappiamo che è possibile digerire con enzimi proteolitici batterici o vegetali i peptidi lesivi per il celiaco.

Cosa ci aspettiamoChe in un prossimo futuro sia possibile concedere un pasto con glutine ad un celiaco senza danneggiarlo, digerendo con enzimi proteolitici gli epitopi tossici; prevenire la celiachia in soggetti a rischio; utilizzare per l’alimentazione umana grani meno tossici o farine di grano trattate in modo tale da renderle meno tossiche; restituire con vaccini o tramite espansione di cellule specifiche T regolatorie, la tolleranza al glutine al celiaco; realizzare un modello animale di celiachia; individuare forme incomplete di intolleranza al glutine, coinvolgenti solo la branca adattativa o quella innata della risposta immune.

Box di orientamento

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C. Gianfrani, S. Auricchio

prof. Salvatore Auricchio, Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”, via S. Pansini 5, 80131 Napoli • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché

Sergio Bernasconi, Cecilia VoltaClinica Pediatrica, Dipartimento dell’Età Evolutiva, Università di Parma

Introduzione e metodologieCon questa revisione si desidera fornire un aggiornamento sul-le attuali conoscenze relative all’utilizzo della terapia con Growth Hormone (GH) in età evolutiva, sulla base dei dati presenti in let-teratura.Le fonti bibliografiche sono state ricavate da Medline (attraverso il motore di ricerca Pubmed), e dalla Cochrane Library, utilizzando parole chiave attinenti alle specifiche patologie trattabili con GH e prendendo come punto di riferimento le Consensus Guidelines più recentemente pubblicate.

Cenni storiciNell’uso terapeutico del GH si possono riconoscere alcuni periodi ben distinguibili: i primi tentativi pionieristici sono stati effettua-ti con forme estrattive da ipofisi bovine, ma tale utilizzazione è stata rapidamente abbandonata, poiché fu possibile chiarire che l’effetto biologico dell’ormone è specie-specifico. Successi-vamente la standardizzazione di un processo estrattivo da ipofisi di cadavere permise l’utilizzazione di GH umano, dalla fine degli

anni ’60 sino al 1985, per lo più in pazienti ipopituitarici. I risulta-ti ottenuti in quel periodo non si possono considerare ottimali per vari motivi: scarsa disponibilità del farmaco, con conseguente uso di dosi poi rivelatesi basse, somministrazioni non quotidiane e/o con schemi intermittenti, variabile biodisponibilità dei vari preparati e/o dei lotti dello stesso preparato. Grumbach et al. (1998) hanno riportato altezze finali di pazienti con deficit ipo-fisario multiplo, trattati con ormone estrattivo nel 1973, pari a circa -2,4 Deviazioni Standard (DS).Per questi motivi, ma soprattutto per la dimostrazione che alcu-ni metodi estrattivi non erano in grado di assicurare la non tra-smissibilità di prioni, responsabili di insorgenza della malattia di Creutzfeldt-Jakob (soprattutto in Francia vi fu una vera e propria epidemia), vennero accelerate le ricerche sulla possibilità di ot-tenere l’ormone con la tecnica del DNA ricombinante (rGH) e tale ormone venne immesso sul mercato nel 1985. I risultati in seguito riportati si riferiscono quindi ad oltre un ventennio di esperienza con tale preparazione.

RiassuntoLe indicazioni attualmente riconosciute per la terapia con Growth Hormone in età pediatrica non sono univoche in tutti i paesi. Nella maggior parte dei casi lo si utilizza nei pazienti affetti da deficit di Growth Hormone, sindrome di Turner, insufficienza renale cronica, sindrome di Prader-Willi, mentre meno uni-forme è l’utilizzazione in caso di bambini nati piccoli per l’età gestazionale o con bassa statura idiopa-tica (short normal). Ancor più limitato è l’impiego dell’ormone nell’acondroplasia.Vari studi sono stati inoltre intrapresi per comprendere l’utilità di tale trattamento in differenti condi-zioni di patologia quali, per esempio, le malattie infiammatorie croniche intestinali, l’artrite reumatoi-de giovanile, la fibrosi cistica. Scopo di questo lavoro è fornire una revisione critica, sulla base dalla letteratura più recente e di una personale esperienza, delle nostre attuali conoscenze nei principali settori.

SummaryThe recommendations presently acknowledged for the use of Growth Hormone therapy in children vary from country to country.In most cases growth hormone is used in the management of patients affected by Growth Hormone Deficiency, Turner Syndrome, Chronic Renal Failure, and Prader-Willi Syndrome.Its use is less frequently recommended in Small for Gestational Age and Idiopathic Short Stature (“short normal”), and even more limited in children affected by achondroplasia.Moreover numerous studies have been carried out in the attempt to comprehend the efficacy of this treatment in various other conditions, such as Inflammatory Bowel Diseases, Juvenile Rheumatoid Arthritis, and Cystic Fibrosis.The aim of this paper is to provide a critical review of the present knowledge on the use of this treatment in different fields, based both on the latest findings in literature and on our personal experience.

Sergio Bernasconi è nato a Brescia il 12 Novembre 1943. Si è formato come pediatra alla scuola di Parma (Prof. Giovannelli) e come endocrino-logo a quella di Zurigo (Prof. Prader). Attualmente è Professore Ordinario e Direttore della Clinica Pediatrica e del Dipartimento dell’Età Evolutiva dell’Università di Parma. È stato Pre-sidente della Società Italiana di Endo-crinologia e Diabetologia Pediatrica e membro del Council dell’European Society for Pediatric Endocrinology. Con i suoi collaboratori ha pubblicato libri, capitoli di libri e oltre 250 lavori peer reviewed soprattutto nel settore dell’endocrinologia pediatrica e della genetica clinica. Recentemente è sta-to nominato Editor in Chief dell’Italian Journal of Pediatrics. Sposato con due figli ama i viaggi soprattutto in Asia ed Africa ed è un bibliofilo onnivoro.

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 27-35

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S. Bernasconi, C. Volta

Indicazioni terapeutiche approvate in almeno una nazione

Deficit di GH (GHD)Gli obiettivi che ci si pone con l’utilizzazione del GH sono molteplici, ma quello fondamentale è il raggiungimento di una statura definitiva all’interno del range di normalità e quanto più possibile in linea con il target genetico.La terapia con GH permette il raggiungimento di un’altezza finale compresa tra -1,4 e -0,7 DS (Tab. I).Le dosi terapeutiche più utilizzate sono comprese tra 0,17 e 0,35 mg/kg/sett (Juul et al., 2002); la somministrazione giornaliera è sicu-ramente più efficace rispetto alla suddivisione in tre dosi settimanali usata in passato, per la maggiore aderenza alla fisiologica secrezio-ne del GH e per la migliore biodisponibilità in termini di maggiore Area sotto la curva (AUC) e Concentrazione massima (Cmax) del far-maco. Le somministrazioni serali favoriscono il raggiungimento del fisiologico picco di GH durante la notte; nell’uso parenterale, la via di somministrazione più efficace è quella sottocutanea, che permette un raggiungimento del picco a distanza di 4-6 ore dall’iniezione.I risultati migliori in termine di statura finale si ottengono quando la terapia è iniziata precocemente (entro il 5° anno di vita) (Bernasconi et al., 2000) e continuata ininterrottamente fino al completamento dell’accrescimento; altri fattori che incidono, positivamente o nega-tivamente, sull’altezza finale sono sintetizzati nella Tabella II.Ancora discusso è lo schema terapeutico da utilizzare durante il pe-

riodo dello sviluppo puberale. La maggior parte degli Autori mantie-ne la stessa dose terapeutica utilizzata in prepubertà, adeguandola al modificarsi del peso o della superficie corporea e/o ai valori di Insulin Growth Factor-1 (IGF-1).Altri AA, invece, propongono di aumentare le dosi di GH (fino a 2,4 mg/kg/sett) allo scopo di mimare quanto avviene fisiologicamente durante la fase di massima crescita puberale.Discusso è anche il tempo di induzione della pubertà (con estro-pro-gestinici, gonadotropine o testosterone, in base al sesso) nei pazienti con deficit ipofisari multipli, anche se l’orientamento di base è quello di indurla il più tardi possibile (per esempio, 13 anni di età ossea nel maschio).Oltre che in termini di statura finale l’efficacia terapeutica del GH viene valutata su numerosi altri parametri (qualità della vita, com-posizione corporea, assetto lipidico, forza e capacità muscolare, di-mensioni e funzionalità cardiaca, ecc.) che non è possibile analizza-re in dettaglio in questa sede e per cui si rimanda ai lavori specifici.Un accenno particolare meritano però i parametri “picco di massa ossea” (PBM) e normale struttura ossea finale. È infatti noto che i pazienti GHD lasciati senza appropriato trattamento sviluppano un’osteopenia (Drake et al., 2003) che migliora con la terapia so-stitutiva. Il raggiungimento del PBM e della normalità della struttura ossea dovrebbe essere pertanto un obiettivo primario e ciò potrebbe comportare la continuazione della terapia con GH, se necessario, oltre il raggiungimento dell’altezza definitiva.Una continuazione della terapia dopo il raggiungimento della statura

Tabella I. Altezza finale dei pazienti con GHD, trattati con GH.

Autore Anno N. pazienti Età media inizioterapia (anni)

Dose media rhGH(mg/kg/sett)

Altezza finale(score della DS)

(SDS)

Guadagno staturale(SDS)

Werter 2003 293 8.6 0,15-0,16 -1,0 ± 1,1 M-1,4 ± 1,2 F

+ 2,0

Mauras 2000 92 n.d. Standard: 0,3Elevata: 0,7

-1,4 ± 1,1-1,2 ± 1,1

Cutfield 1999 369 9,8 0,16 -1,5

Blenthen 1997 121 11,3 0,4 -0,7 ± 1,3 M-0,7 ± 1,1 F

Werter GA, et al. JPEM 2003; Mauras N, et al. JCEM 2000; Cutfield W, et al. Acta Ped 1999; Blenthen SL, et al. JCEM 1997. M = maschi; F = femmine

Tabella II. Fattori influenti sulla terapia con GH.

Favoriscono l’efficacia Incidono sulla mancata risposta alla terapia

Età inferiore a 5 anni alla diagnosi Scarsa compliance del paziente

Dose di GH Preparazioni o conservazione del GH improprie

Peso alla nascita Tecnica iniettiva errata

Eziologia del GHD Contemporanea somministrazione di glucocorticoidi

Ipotiroidismo latente

Nutrizione inadeguata

Malattie intercorrenti

Anticorpi neutralizzanti il GH

Pregressa irradiazione spinale

Fattori psicosociali

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Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché

finale deve poi essere discussa più in generale, perché negli ultimi anni è stato chiaramente dimostrato che il deficit di GH può deter-minare un interessamento negativo di vari organi ed apparati nel paziente adulto, dimostratisi reversibili con la terapia.Esula dagli scopi di questo lavoro approfondire questo aspetto; ci limiteremo a sottolineare che le attuali linee guida suggeriscono una rivalutazione della secrezione del GH per vedere se, con la crescita e il raggiungimento dell’età adulta, l’ipofisi abbia raggiunto una nor-male riserva di GH. Tale situazione si può verificare più facilmente in soggetti con un deficit parziale e ipofisi morfologicamente normale.Se il deficit viene confermato, esistono attualmente diverse strategie d’azione (Savage et al., 2004):

• continuare a tutti la terapia dopo una breve sospensione;• continuare la terapia solo in quei pazienti che presentano mag-

giori svantaggi, in termini di qualità di vita, dopo la sospensione del trattamento;

• continuare la terapia per alcuni anni dopo il completamento del-la crescita per facilitare lo sviluppo del PBM per poi sospendere il trattamento ed eventualmente rivalutare in seguito lo status del paziente.

Il monitoraggio eseguito negli anni, a livello mondiale, su migliaia di pazienti, ci permette di affermare che la terapia è sostanzialmente sicura anche se la possibilità di alcuni effetti secondari va attenta-mente monitorata.È noto, per esempio, che tale terapia può evidenziare un sottostante ipotiroidismo misconosciuto o indurre insulino-resistenza, facilitan-do, in soggetti predisposti, l’evoluzione verso un diabete mellito di tipo 2 (Drake et al., 2001).In particolare devono poi essere attentamente seguiti i pazienti che abbiano subito un precedente trattamento per neoplasia cerebrale, anche se in questi soggetti non è stato dimostrato un maggiore ri-schio di recidiva o di “secondo tumore” in conseguenza della terapia con GH.Sempre nell’ambito del teorico rischio oncogeno vari AA suggerisco-no di monitorare i livelli di IGF-1 e di mantenerli nel range di norma-lità, in quanto nella popolazione adulta è stata osservata una corre-lazione positiva tra livelli persistentemente elevati di IGF-1 e cancro della mammella, della prostata e del colon (Ong et al., 2005).Molti altri possibili effetti collaterali, che inizialmente erano stati ipo-tizzati come correlati alla terapia, hanno in effetti una prevalenza nella popolazione dei pazienti trattati non dissimile da quella rilevata nella popolazione generale. Ne sono esempi l’epifisiolisi della testa femorale, le apnee nel sonno, le leucemie acute.

Sono stati inoltre descritti casi di ginecomastia, osteocondrite giova-nile, edema e sindrome del tunnel carpale, per quanto non sia stata chiarita la relazione causale di questi ultimi con il GHD.Infine una segnalazione a parte meritano la scoliosi, di cui non viene segnalata un’aumentata incidenza nei pazienti in terapia con GH, ma un’eventuale più rapida progressione (Clayton et al., 2000) e lo pseudotumor cerebri, una forma di ipertensione endocranica beni-gna da edema cerebrale legato all’effetto sodio-ritentivo e di fluidi da parte del GH; tale forma è reversibile con l’interruzione della te-rapia e non ricompare necessariamente, qualora la terapia venga ripresa dopo un congruo intervallo di tempo.

Sindrome di TurnerLa Sindrome di Turner (ST), descritta da Henry Turner nel 1938, si manifesta approssimativamente in 1 su 2.500 neonate e compren-de, oltre alla bassa statura, uno spettro variabile di anomalie fisiche e funzionali causate dalla parziale o completa inattivazione del cro-mosoma X.Contribuiscono a determinare la bassa statura il ritardo di crescita intrauterino (peso e lunghezza alla nascita di circa 1 DS al di sotto della media delle neonate sane), la riduzione della velocità di cresci-ta durante l’infanzia ed il mancato spurt puberale.L’altezza media finale delle pazienti italiane non trattate è di 142,7 cm (Bernasconi et al., 1994).Il meccanismo alla base del difetto di crescita in questa sindrome non è ancora chiaro. Secondo alcuni AA la secrezione di GH non sembra essere alterata in queste pazienti, mentre altri hanno evi-denziato, come noi, alterazioni minori dell’asse GH-IGF-1-IGFBP-3 (Ghizzoni et al., 1990) che non permettono comunque di considerare queste pazienti come GHD.Il deficit di crescita sembra infatti essere soprattutto riferibile al-l’aploinsufficienza di una copia del gene SHOX localizzato nella re-gione pseudoautosomale del braccio corto del cromosoma X (Rao et al., 1997), anche se altri geni possono avere un’influenza. Ciò è dimostrato, per esempio, dalla relazione esistente tra altezza delle pazienti e loro target genetico, che presuppone l’azione di geni non collegati al cromosoma X.Tra i numerosi studi pubblicati negli ultimi anni, una recente review della Cochrane ne ha selezionato quattro (Tab. III), soprattutto in base alla metodologia utilizzata: confronto tra pazienti trattati e non trattati (o trattati con placebo), scelti in modo randomizzato (Cave et al., 2003).Complessivamente le pazienti trattate con GH hanno mostrato un guadagno staturale di 5-8 cm per un periodo di trattamento della

Tabella III. Principali studi sull’impiego del GH nelle Sindrome di Turner.

Autore N. di pazienti

Durata terapia(anni)

Dose GHmg/kg/sett

Risultati

Rosenfeld1998

70 2 0,37 Miglioramento statura finale, con solo GH o con GH in associazione con oxandrolone

Chernausek2000

60 6 0,37 Miglioramento statura finale

Quigley2002

99 5,5 0,27 o 0,36 Miglioramento dose-dipendente della statura finale

Stephure2005

61 11,7 0,3 Miglioramento della statura finale (pari a 7,2 cm)

Rosenfeld, et al. J Pediatrics 1998; Chernausek, et al. JCEM 2000; Quiegley, et al. JCEM 2002; Stephure, JCEM 2005.

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durata di 5,5-7,6 anni e ciò permette di affermare che attualmente una statura finale di 150 cm è un traguardo raggiungibile per la maggioranza delle pazienti.Da tali studi emerge, inoltre, che il guadagno staturale risulta essere positivamente influenzato da variabili quali la precoce età di inizio della terapia, la durata del trattamento fino alla saldatura epifisa-ria ed il dosaggio dell’ormone GH. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto in Tabella III sono riportati gli schemi terapeutici utilizzati dai vari AA. La dose di 0,375 mg/kg/sett. è anche quella raccomandata dalla American Association of Clinical Endocrinologists, risulta esse-re circa il doppio rispetto a quella utilizzata nelle condizioni di GHD ed ha essenzialmente l’obiettivo di portare il GH a livelli sovra-fisio-logici per contrastare l’eventuale insensibilità all’ormone.Ciò comporta una particolare attenzione sui possibili effetti secon-dari indesiderati che possono essere, in parte, dose-dipendenti (vedi capitolo GHD) soprattutto perché le pazienti con ST sono già di per sé stesse predisposte ad un maggior rischio di diabete mellito. Non sembra invece necessario abbinare al GH uno steroide di sintesi ad azione anabolica quale l’oxandrolone, se non in casi selezionati.Infine, anche se non vi è un accordo definitivo, vi è una tendenza a non ritardare eccessivamente l’induzione della pubertà (con estro-progestinici), spesso necessaria in queste pazienti affette da insuffi-cienza ovarica, soprattutto per motivi psico-sociali.Nella nostra pratica iniziamo l’induzione tra i 12 e i 13 anni di età ossea.

Insufficienza renale cronica (IRC)Il deficit accrescitivo è una caratteristica molto frequente nei bam-bini con insufficienza renale cronica (IRC), specie nei suoi stadi più avanzati, quelli cioè in cui l’indicazione alla dialisi o al trapianto di reni è assoluta o molto prossima. Infatti, in uno studio, l’altezza fina-le media in pazienti che hanno iniziato la dialisi prima dei 15 anni di età, risultava essere inferiore a 2 DS rispetto al valore medio della popolazione adulta.Per questo motivo la terapia con GH è utilizzata in questi pazienti da oltre 10 anni e i risultati di questi studi sono stati analizzati in una recente review della Cochrane Library (Vimalachandra et al., 2006) e da una Consensus Conference (Mahan et al., 2006).In sintesi il GH si è dimostrato in grado, in tutti gli studi, di ridurre il deficit accrescitivo incrementando la SDS dell’altezza specie nel pri-mo anno di terapia e nei pazienti più giovani, aumentando la velocità di crescita e non modificando la velocità di maturazione ossea.I dati relativi all’altezza finale sono ancora scarsi, ma è stato riporta-to un incremento medio di 5-6 cm circa nei pazienti trattati rispetto ai non trattati. Inoltre, sono limitati i dati relativi alla mineralizzazione ossea e all’aumento del peso corporeo, che comunque paiono mi-gliorati.La dose consigliata, pari a 0,25 mg/kg/sett., si è dimostrata superio-re in termini di efficacia alla dose inizialmente utilizzata di 0,12 mg/kg/sett. Resta aperta la questione della durata della terapia (fino al termine della crescita di recupero o fino alla saldatura delle epifisi?) e della necessità o meno di aumentare la dose in corso di pubertà.Per quanto riguarda gli effetti collaterali non sono riportate differen-ze significative nell’incidenza di effetti legati al rGH nei pazienti trat-tati e non trattati; in particolare la terapia non sembra incidere sul deterioramento della funzione renale, né sulla percentuale di rigetto nei soggetti trapiantati.Attualmente il rGH è approvato per la terapia dell’IRC negli USA, in Europa, in Giappone e in Australia; nella pratica, tuttavia, la percen-tuale di bambini con IRC è ancora molto bassa in tutto il mondo occidentale, anche se una maggior diffusione di questo trattamento

sarebbe auspicabile soprattutto per migliorare la qualità della vita di questi pazienti.

Sindrome di Prader-Willi (PWS)La PWS, descritta per la prima volta nel 1956 da Prader, Labhart e Willi, è una malattia genetica i cui segni e sintomi più significativi sono riassunti nella Tabella IV.La sindrome è dovuta ad una mancata espressione di geni paterni situati nel cromosoma 15q11-q13 (Tab. V).Nella maggior parte di questi pazienti è stato documentato un deficit dell’asse GH-IGF1 e ciò costituisce il razionale per l’utilizzazione di tale terapia.Vari studi hanno dimostrato che il trattamento con rGH:influenza positivamente la composizione corporea aumentando la percentuale di massa magra e diminuendo quella di massa grassa;ha effetti benefici sul comportamento, sulla attività fisica e sulla fun-zionalità respiratoria.L’efficacia della terapia sulla statura sembra dimostrata, anche se la casistica non è particolarmente numerosa, dai dati recentemente pubblicati da Angulo et al. (2007) che hanno potuto valutare l’altezza finale in un gruppo di 21 pazienti trattati da un’età di circa 8 anni, paragonandola a quella spontaneamente raggiunta da 39 pazienti.I risultati più significativi sono riassunti nella Tabella VI.Negli ultimi anni si è aperta un’ampia discussione sugli eventuali effetti secondari indesiderati che la terapia con rGH può compor-tare nei pazienti con PWS che, già in base allo loro storia naturale, sono a maggior rischio di sviluppare varie complicanze (diabete mellito e in genere le complicanze riconducibili alla grave obesi-tà). Sulla base delle evidenze attualmente disponibili, in gran parte tratte da banche dati internazionali (Craig et al., 2006), si può af-fermare che:• la percentuale degli effetti secondari minori non è dissimile da

quella osservata nei pazienti GHD (vedi capitolo precedente);

Tabella IV. Segni e sintomi caratterizzanti la sindrome di Prader-Willi.

Ipotonia neonatale e del lattante

Ritardo nello sviluppo

Deficit mentale

Anomalie comportamentali

Obesità ad inizio precoce

Iperfagia

Scarsa massa magra

Ipogonadismo (deficit ipotalamico di gonadotropine)

Scoliosi

Facies caratteristica (faccia stretta, occhi a mandorla, labbro superiore sottile)

Bassa statura (~ 2 DS al di sotto della media della popolazione normale)

Tabella V. Meccanismi genetici responsabili della sindrome.

Delezione paterna di 15q11-q13 70% dei pazienti

Disomia uniparentale materna 22%

Errori di imprinting 2-5%

Translocazione cromosomica paterna < 1%

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Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché

• l’evento secondario maggiormente riferito è la scoliosi, ma la percentuale dei pazienti con PWS che presenta tale anomalia strutturale durante la terapia è inferiore a quanto segnalato nei pazienti di pari età non trattati;

• la percentuale di pazienti che sviluppa diabete di tipo 2 durante il trattamento è nettamente inferiore rispetto alla prevalenza se-gnalata nei pazienti adulti non trattati;

• non vi sono sufficienti evidenze che confermino una stretta cor-relazione tra terapia con rGH e morti improvvise segnalate in alcuni casi di PWS in terapia.

Comunque, tutti i pazienti, in particolare quelli con una storia di russamento e/o di apnee notturne e di disturbi respiratori e, più in generale, di ipoventilazione, dovrebbero eseguire un’accurata va-lutazione sia dal punto di vista broncopneumologico (inclusa una polisonnografia), sia otorinolaringoiatrico (ipertrofia adenoidea e tonsillare), prima di iniziare la terapia stessa.

Small for gestational age (SGA)L’essere nati SGA, cioè con un peso e/o un lunghezza alla nascita in-feriore ad almeno due DS rispetto alla media per l’età gestazionale, rappresenta una frequente causa di bassa statura.La maggior parte di questi neonati va incontro ad uno spontaneo recupero accrescitivo durante i primi 2-3 anni di vita, mentre un 10-15% di essi mantiene un deficit staturale durante l’età evolutiva che permane anche in età adulta.In quest’ultimo sottogruppo numerosi studi hanno dimostrato l’effi-cacia della terapia con rGH.Le dosi comunemente utilizzate sono maggiori rispetto a quelle usa-te nel GHD e possono variare da 2,45 a 4,9 mg/kg/sett; il guadagno medio in altezza dopo 3 anni di terapia con tali dosaggi varia da 1,2 a 2,0 DS. Dopo la normalizzazione iniziale, la maggior parte di questo guadagno si mantiene fino al raggiungimento della statura adulta.Attualmente si consiglia di utilizzare dosaggi elevati nei primi anni di terapia, per poi passare a dosaggi inferiori nella fase di manteni-

mento, in quanto è stato dimostrato che l’effetto terapeutico del rGH a lungo termine è meno dose-dipendente (Clayton et al., 2007).I risultati migliori, in termini di promozione di risposta accrescitiva e di raggiungimento dell’altezza finale, sono ottenuti quando la tera-pia viene intrapresa almeno due anni prima dell’inizio dello sviluppo puberale, preferibilmente verso i 4-6 anni di età.L’interruzione è raccomandata quando la velocità di crescita risulta inferiore a 2 cm/anno, dopo lo spurt puberale, o l’età ossea è supe-riore o uguale a 14 anni nelle femmine e a 16 anni nei maschi. Bam-bini con deficit di crescita marcato rispetto al proprio target familiare mostrano una migliore risposta al trattamento.Nessuna differenza di risposta alla terapia è stata riscontrata tra nati SGA con o senza GHD; tuttavia è stato dimostrato che tra i non-GHD, quei soggetti con picchi di GH notturni molto elevati, presentano una risposta peggiore, suggerendo una possibile resistenza al GH o alle IGF-1 (Ong et al., 2005).Una comune variante genetica del recettore del GH (GHR) sembra inoltre responsabile di variazioni della sensibilità alla terapia con GH ricombinante, determinandone il grado di risposta. In particolare, bambini SGA portatori di una delezione dell’intero esone 3 del gene del GHR mostrano un’accelerazione della crescita, indotta dalla tera-pia, circa 2 volte superiore rispetto a quelli con l’isoforma completa (Tauber et al., 2007).La bassa statura non è il solo problema che interessa i nati SGA; questa condizione è spesso associata a scarsa capacità cognitiva soprattutto nella matematica e nella comprensione di testi scritti, a maggiori disturbi emozionali e di comportamento, nonché ad un disturbo di deficit dell’attenzione e ad iperattività. La terapia con rGH sembra migliorare il QI di questi bambini (van Pareren et al., 2004).In base a tutti i dati sopraelencati sia la FDA (Food and Drug Admi-nistration) sia l’EMEA (European Agency for the Evaluation of Medi-cinal Products) hanno elaborato indicazioni ufficiali alla terapia con rGH nei nati SGA con bassa statura pur con qualche dissonanza (Tab. VII). In Italia, in base all’ultima nota AIFA tale indicazione è recepita, ma non ancora ammessa alla rimborsabilità del farmaco.

Tabella VI. Caratteristiche dei pazienti e del gruppo controllo dopo aver raggiunto la statura finale.

Caratteristica Pazienti trattati Gruppo controllo p

Altezza iniziale (media ± SDS) -1,9 ± 1.6 -1,9 ± 1,3 n.s.

Altezza finale (media ± SDS) -0,3 ± 1,1 -3,1 ± 1,0 < 0,0001

Altezza finale nelle femmine (cm) 158 ± 4,0 144 ± 6,0 0,004

Altezza finale nei maschi (cm) 171 ± 8,0 154 ± 9,0 0,0003

BMI (media ± SDS) 1,7 ± 1,6 4,1 ± 1,0 < 0,0001

Dose rGH (media ± SD) 0,25 ± 0,06 mg/kg/sett

Tabella VII. Impiego di GH in bambini SGA con bassa statura.

Indicazioni FDA (2001) Indicazioni EMEA (2003)

Età inizio terapia 2 4

Altezza SDS inizio terapia (DS) Non determinata - 2,5 DS

Velocità di crescita prima della terapia Mancata normalizzazione < 0 DS per età

Riferimento al target genetico (TG) Non determinato Altezza SDS >1 DS inferiore al TG

Dose GH (mg/kg/sett) 4,90 2,45

da Clayton PE et al., JCEM 2007, mod.

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S. Bernasconi, C. Volta

Anche nel caso degli SGA, come per le altre categorie di bassa sta-tura ammesse al trattamento, gli effetti collaterali della terapia non sono risultati significativi.Particolare attenzione è stata posta sulla possibile insorgenza di in-sulino-resistenza ed iperinsulinemia, in quanto i bambini nati SGA presentano un maggior rischio di sviluppare spontaneamente una sindrome metabolica, anche se tale rischio sembra essere maggiore tra i nati SGA che vanno incontro a spontaneo recupero della cresci-ta, e quindi non candidati alla terapia con rGH.Durante il trattamento, questi bambini, pur mostrando normali livelli di glucosio a digiuno e di HbA1c, possono sviluppare iperinsuline-mia e insulino-resistenza, sebbene tali modifiche sembrino essere in gran parte reversibili dopo l’interruzione del trattamento. Per tali motivi, si raccomanda una routinaria valutazione dei livelli di gluco-sio e di insulina a digiuno e postprandiali, in particolare in soggetti con altri fattori di rischio per diabete tipo 2, come la storia familiare, l’appartenenza ad una particolare etnia, l’obesità (Ong et al., 2005).I bambini SGA possono presentare più frequentemente dei nati pro-porzionati per l’età gestazionale pubertà precoce, adrenarca ed età ossea avanzata, tutti fattori che influenzano negativamente la pro-gnosi finale di crescita.È stato ipotizzato che la rapida progressione degli stadi puberali pos-sa dipendere dagli elevati livelli di insulina presenti in questi sogget-ti, ma ulteriori studi saranno necessari per chiarirne la patogenesi.Tali osservazioni avevano destato preoccupazioni sulla possibilità che la terapia con rGH potesse promuovere un’anticipazione dello sviluppo puberale, ma è stato dimostrato che essa non ha nessuna influenza sull’età di inizio e sulla progressione degli stadi puberali ed inoltre nessuna differenza significativa è stata riscontrata per quel che riguarda la durata della pubertà e il guadagno staturale. Infine i livelli di deidroepiandrosterone-solfato (DHEA-S) e l’incidenza di adrenarca in bambine nate SGA sono risultati del tutto comparabili a quelli della popolazione generale e, dopo un anno di terapia con rGH, i livelli di DHEA-S presentano un aumento del tutto equiparabile a quello di soggetti non trattati.

Bassa statura idiopatica/short normalL’indicazione più recente all’uso del rGH negli USA è rappresentata dai cosiddetti short normal definiti in base ad alcuni criteri di mi-nima: taglia normale alla nascita in rapporto all’età gestazionale, normali proporzioni corporee, assenza di deficit ormonali, assenza di malattie croniche organiche o psichiatriche o di gravi alterazioni emotivo-psicologiche, normale nutrizione, velocità di crescita bas-so-normale.Si è calcolato che negli Stati Uniti oltre 410.000 bambini possano rientrare in tali criteri e che per ogni 100 bambini trattati per GHD ve ne possono essere 500 trattabili perché short normal.Ovviamente, al di là di ogni considerazione medica o etica, la stessa ampiezza numerica di questo fenomeno ha attivato una profonda discussione tra fautori e contrari a questa terapia.Coloro che sostengono l’utilità della terapia sottolineano come essa sia in grado di modificare positivamente la statura finale e come ciò possa determinare, soprattutto nei pazienti con grave deficit statu-rale iniziale, un miglioramento anche delle condizioni psicologiche.Inoltre la categoria degli short normal è estremamente eterogenea e l’approfondirsi delle nostre conoscenze fisiopatologiche ci dimostra che in essa possono rientrare forme di patologia fino a poco tempo fa misconosciute. Circa il 25% dei bambini short normal presenta infatti un deficit primitivo di IGF-1 in presenza di una normale secre-zione di GH, dovuto ad alterazioni della cascata di eventi post-recet-toriali e/o alla secrezione di forme varianti di GH.

Una percentuale del 2,4% degli short normal potrebbe avere una mutazione del gene SHOX (Rappold et al., 2002) come si ritrova nella sindrome di Leri-Weill di cui anche il nostro gruppo ha studiato vari nuclei familiari (Falcinelli et al., 2002).D’altra parte esistono argomentazioni che invitano ad essere molto cauti nell’impiego del GH nelle categorie di pazienti non GHD.Si sottolinea il concetto che non esistono studi a lungo termine che garantiscano l’innocuità di questa terapia in una popolazione così ampia.Il collegamento tra bassa statura e capacità di adattamento psico-sociale non è evidenziato in molte ricerche e soprattutto non è di-mostrato che in questi soggetti un guadagno di 4-7 cm nella statura finale comporti un vantaggio funzionale. Anche il rischio di frustra-zione che può insorgere in pazienti trattati per anni e che non hanno raggiunto una statura considerata soddisfacente non deve essere dimenticato (Allen, 2004).L’uso del rGH nelle basse stature potrebbe inoltre dare un ulteriore spinta al fenomeno definito dagli AA anglosassoni come heightism, la valorizzazione cioè di per se stessa della statura sul piano so-ciale. È una tendenza gia evidente nell’esperienza generale e tutti noi conosciamo la pressione esercitata da varie famiglie per una terapia che migliori la bassa statura, considerata di per sé essere un aspetto negativo e socialmente controproducente. Tra l’altro ciò contrasta con vari studi epidemiologici che indicano una più elevata morbilità cardiovascolare negli individui di alta statura (Samaras et al., 2003).Non vanno dimenticate le problematiche di politica sanitaria e più in generale economica riconducibili ad un prodotto ancora costoso.In sintesi, le nostre conoscenze non ci permettono di dare una ri-sposta conclusiva ai tanti problemi che abbiamo rapidamente sot-tolineato. Pensiamo che vi sia la necessità da un lato di migliorare i nostri strumenti diagnostici, prognostici e di follow-up e dall’altro di ampliare la discussione al di fuori del campo strettamente speciali-stico, in modo anche da fornire alla famiglia un’informazione che sia ampia, corretta e approfondita.In altri termini, saremmo estremamente cauti e selettivi nel con-sigliare una terapia farmacologica al di là delle situazioni di reale deficit di GH e terremmo comunque presente che alcuni elementi clinico-auxologici possono aiutarci nella selezione dei pazienti. In particolare, sembrano meglio rispondere alla terapia quei bambini di bassa statura con una velocità di crescita pre-terapia bassa, un ritardo nella maturazione ossea, un più basso livello di IGF-1, una dimensione ridotta ipofisaria alla RNM e con una maggiore velocità di crescita nei primi 6-12 mesi di terapia.

Acondroplasia (ACH)L’acondroplasia è una displasia scheletrica dovuta a mutazioni pun-tiformi a carico del dominio transmembrana del gene del recettore 3 del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR3).L’ACH è caratterizzata da nanismo disarmonico, macrocefalia con fronte prominente ed ipoplasia emifaciale. L’altezza media finale, nella popolazione caucasica, si colloca tra 112 e 136 cm (femmine) e tra 118 e 145 cm (maschi), valori che corrispondono a 6-7 DS al di sotto della media.La correzione chirurgica degli arti è sempre stata il gold standard per incrementare l’altezza e migliorare le proporzioni corporee, ma tale procedura è invasiva, può richiedere prolungate ospedalizzazio-ni e una ferma motivazione da parte del paziente ed inoltre, nono-stante i progressi tecnici compiuti negli ultimi anni, non è scevra da complicanze anche gravi, quali infezioni post-chirurgiche, fratture o deviazioni dell’asse delle ossa.

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Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché

Per questo motivo si è deciso di sperimentare in questi pazienti una terapia con rGH che è accettata dal sistema sanitario nazionale giapponese. Le dosi utilizzate variano da 0,231 a 0,469 mg/kg/sett. L’esperienza clinica fin qui raccolta è scarsa, ma in base ai pochi studi reperibili, sembra che la terapia sia in grado di aumentare la velocità di crescita e soprattutto l’altezza definitiva (1,2-2,0 DS), mentre non vi sarebbero modificazioni sostanziali nelle proporzioni corporee (Hertel et al., 2005).Non vengono segnalati effetti indesiderati significativi a parte, in alcuni pazienti, un’accentuazione del varismo che necessita di suc-cessiva correzione chirurgica.In conclusione i dati attualmente a nostra disposizione sono incorag-gianti ma insufficienti a proporre tale terapia al di fuori di ben precisi protocolli sperimentali.

Utilizzazione sperimentale del rGH

In letteratura si ritrovano numerosi studi in cui la terapia con rGH viene usata in modo sperimentale per aumentare la velocità di crescita e la statura finale in varie sindromi genetiche (per esempio la Noonan o più recentemente il nanismo MuLiBrEy – muscle-liver-brain-eye) oppure per sfruttare l’azione anabolica dell’ormone (per esempio le ustioni o gli stati gravemente catabolici in analogia all’indicazione nei pazienti AIDS adulti con grave forma denutritiva). Una revisione critica di tali risultati esula dalle finalità che ci siamo poste in questa rassegna. Ci limiteremo ad analizzare alcuni dati sulle forme infiammatorie croni-che di cui ci siamo, in tempi recenti, direttamente interessati.

Malattie infiammatorie cronicheNel corso di alcune patologie croniche, quali Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, Artrite Reumatoide Giovanile e Fibrosi Cistica, spesso si realizzano gravi forme di ritardo accrescitivo staturo-pon-derale e di sviluppo puberale.L’etiopatogenesi di tale ritardo è sicuramente polifattoriale: mal-nutrizione, terapie farmacologiche interferenti, interessamento di

organi ed apparati che agiscono direttamente sulla statura quale scheletro ed articolazioni, ecc. Un ruolo importante viene comunque svolto dalla flogosi cronica, mediata da citochine pro-infiammatorie (in particolare le interleuchine 1 e 6), che, a loro volta, possono eser-citare, come dimostrato da nostri studi in vivo e in vitro, un’azione modulatoria sull’asse IGF1-IGFBP3 (Street et al., 2006).La conoscenza di questi meccanismi può fornire quindi l’indicazione per l’attuazione di una terapia con rGH in alcune delle patologie in-fiammatorie croniche più comuni.I risultati attualmente presenti in letteratura (Tab. VIII) sono comunque ancora sperimentali, di tipo preliminare, non generalizzabili, ottenuti su casistiche non particolarmente numerose e non sempre univoci; inoltre negli studi presi in esame viene principalmente considerato, come indice di successo terapeutico, il parametro della velocità di crescita, mentre non esistono dati sicuri sulla statura finale; infine non risulta sempre chiaro quali effetti si possano realizzare sull’an-damento della malattia a breve ed a lungo termine.Nelle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, ed in particolare nel Morbo di Crohn, i risultati in termini di incremento della velocità di crescita in corso di terapia con rGH sono discordanti.Migliori i risultati ottenuti nell’Artrite Reumatoide Giovanile in cui il trattamento ha portato a significativi incrementi della velocità di crescita, con concomitante aumento dei livelli sierici di IGF-1 ed IGFBP-3 e possibili effetti positivi anche in termini di composizione corporea e metabolismo osseo.Infine gli studi effettuati su pazienti con Fibrosi Cistica, hanno dimo-strato effetti positivi della terapia sia in termini di parametri auxolo-gici (peso, altezza, BMI), sia per quanto concerne alcuni parametri clinici, come ad esempio la funzionalità respiratoria.

Uso del rGH in combinazione con altri farmaci e prospettive futureLa terapia con rGH ha ormai superato i 20 anni ma le sue possibilità di impiego non sembrano esaurite. Esistono già oggi in Letteratu-ra vari studi, che attendono di essere confermati, su casistiche più

Tabella VIII. Risultati degli ultimi studi in merito a terapia con GH in patologie croniche.

Studi Numerocomplessivodi pazienti

Range di duratadel trattamento

con GH

Range di dosaggiomg/kg/sett.

MICI(3)

17 bambini 1-2 anni 0,35 Per 2 dei 3 studi:# velocità di crescita# IGF1 ed IGFBP3# massa magraAvanzamento dell’età osseaPer 1 studio: nessuna evidenza di # della velocità di crescita

ARG(5)

96 bambini 6 mesi-6,7 anni 0,25-0,46 Miglioramento della densità ossea# velocità di crescita# livelli plasmatici di IGF-1 e IGFBP-3

FC(3)

13 adolescenti124 bambini

prepuberi

1-2 anni 0,30 # del peso, altezza, velocità di crescita in altezza e in peso,massa muscolare, contenuto minerale delle ossa# dei valori assoluti di funzione respiratoria e i del numerodi ricoveri.i TNF-α e del catabolismo proteicoNormalizzazione della comparsa della pubertà con adeguataprogressione degli stadi puberali

MICI = malattie infiammatorie croniche intestinali: Henker. Eur J Pediatr 1996; Mauras et al. Metabolism 2002; Calenda et al. Inflamm Bowel Dis 2005.ARG = artrite reumatoide giovanile: Bechtold et al. JCEM 2004, 2005, 2007; Saha et al. J Reumatology 2004; Simon et al. JCEM 2007.FC = fibrosi cistica: Hardin et al. Clin Endocrinology 2005; Clin Endocrinol Metab 2006; Vanderwell et al. Pediatr Endocrinol Metab 2006.

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S. Bernasconi, C. Volta

ampie o con l’impiego di gruppi di controllo randomizzati, in cui il rGH è usato in combinazione con altri farmaci. Ne è un esempio la proposta associazione di GnRH analoghi e GH (Volta et al., 2006) in bambine con pubertà precoce e bassa velocità di crescita in terapia con il solo analogo in cui il guadagno staturale può arrivare, secondo alcuni AA, anche a 9 cm (Toumba et al., 2007).Questa terapia combinata è in fase di sperimentazione anche in alcune sottopopolazioni di sindromi surreno-genitali, in particolare quelle a diagnosi tardiva, nelle basse stature idiopatiche e in alcune sottopopolazioni di GHD.È poi molto probabile che si assista in futuro ad un allargamento dell’impiego del rGH a nuove indicazioni, molte delle quali già attual-mente in fase di studio sperimentale, come accennato nel capitolo precedente.Anche rimanendo nell’ambito delle attuali indicazioni, numerose ri-cerche sono in corso per ottimizzare la risposta terapeutica. È infatti esperienza comune che in ogni popolazione di pazienti si nota una notevole eterogeneità di risposta alla terapia in termini di crescita, che la farmacogenomica ha iniziato a studiare allo scopo di indivi-dualizzare sempre più lo schema terapeutico (Clayton, 2007).

Vi è inoltre da considerare che, in termini staturali, una buona o una mediocre risposta la si giudica in base all’altezza finale raggiunta. Ciò presuppone una terapia prolungata per anni che, in una certa percentuale di pazienti, può rivelarsi pressoché inutile. Per questo motivo sono stati proposti vari modelli matematici di predizione della risposta finale sulla base di dati pre-terapia e di parametri clinico-auxo-laboratoristici monitorati nel primo anno di terapia (Ranke et al., 2007).Infine continua la ricerca sia di forme alternative di somministrazio-ne dell’ormone, in particolare con l’uso di formulazioni long-acting (Kemp et al., 2004) allo scopo, da un lato, di migliorare la complian-ce dei pazienti e dall’altro di avvicinarsi ad una fluttuazione ematica dei livelli la più vicina possibile a quella fisiologica.

RingraziamentiSi ringraziano i colleghi Silvia Cesari, Giulia Cremonini, Marilena Garrubba, Lisa Melandri, Maddalena Petraroli, Rosa Vitale e Matteo Zanzucchi per il prezioso aiuto fornito nella ricerca bibliografica e nell’editing del lavoro.

Cosa sapevamo negli anni ’70• Indicazioni: GHD.• Dosi nei GHD: incostanti e in base alla disponibilità del farmaco.• Modalità di somministrazione: intramuscolo 3 volte/sett.• Tipo di GH: GH estrattivo.• Altezza finale nei GHD: pochi dati ed eterogenei.• Quando iniziare la terapia: secondo disponibilità del farmaco.

Cosa sappiamo oggi• Indicazioni: GHD, Sindrome di Turner, Small for Gestational Age, Short normal, Sindrome Prader Willi, Insufficienza renale cronica.• Dosi nei GHD: 0,17-0,35 mg/kg/sett• Modalità di somministrazione: sottocutanea 6-7 volte/sett.• Tipo di GH: GH ricombinante umano.• Altezza finale nei GHD: -1,5/-0,7 DS.• Quando iniziare la terapia: precocemente (4-5 anni?).

Problemi aperti e prospettive future• Nuove indicazioni.• Quando sospendere la terapia.• Modelli matematici di previsione della risposta terapeutica a lungo termine.• Associazione con altri farmaci.• Ottimizzazione della terapia su base individuale.• Nuove preparazioni farmacologiche (differenti vie di somministrazione, long acting).

Box di orientamento

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prof. Sergio Bernasconi, Clinica Pediatrica, Dipartimento dell’Età Evolutiva, Università di Parma, via Gramsci 14, 43100 Parma • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Le β-thalassemie

Antonio CaoIstituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Cagliari

Modalità della revisioneSono stati considerati gli articoli e le review principali pubblicati ne-gli ultimi cinque anni

IntroduzioneLe β-thalassemie hanno attratto il mio interesse di medico e di ricerca-tore all’inizio degli anni ’70, quando tornai nella mia città natale, Caglia-ri, dopo un lungo soggiorno nell’Italia Continentale. In quel momento compresi infatti che le β-thalassemie in Sardegna costituivano un im-portante problema di salute pubblica per la loro frequenza (1 neonato malato ogni 250 nati vivi ed 1 portatore sano ogni 8 persone) e per il loro impatto sul sistema sanitario e sulla popolazione come è illustrato nella Figura 1 che rappresenta una corsia della Clinica pediatrica di Cagliari ove venivano allora assistiti i pazienti con thalassemia.In questi ultimi 30 anni si sono verificati progressi notevoli nelle nostre conoscenze sulle basi molecolari e sulla patogenesi delle β-thalassemie nonché notevoli avanzamenti nella terapia e nella prevenzione.

Distribuzione geograficaLe β-thalassemie sono una tra le più frequenti malattie mendeliane monogeniche nel mondo. Particolare elevata frequenza si riscontra

in tutte le regioni a pregressa o attuale endemia malarica (per van-taggio dell’eterozigote vis a vis l’infezione da Plasmodium falcipa-rum). Tuttavia le correnti migratorie hanno portato le β-thalassemie in ogni parte del mondo.

ClinicaLe β-thalassemie sono dovute a riduzione (β+) o assenza (β°) di produzione delle catene β dell’emoglobina (tetramero composto da due catene globiniche β e due catene globiniche α). Delle β-thalas-semie, si distinguono tre quadri clinici ed ematologici di gravità cre-scente: il portatore sano, clinicamente asintomatico risultante dallo stato eterozigote per la β-thalassemia; la thalassemia intermedia, un’anemia microcitica di gravità variabile, molto eterogenea geneti-camente, definita clinicamente dalla non necessità di trasfusioni per la sopravvivenza, ed infine la thalassemia major, una grave anemia incompatibile con la vita in assenza di trasfusioni regolari (Tab. I).La gravità clinica delle β-thalassemie è legata all’entità dello sbilan-ciamento tra la sintesi delle catene α-globiniche e delle catene non α-globiniche (comprendenti oltre le β catene, le catene γ proprie dell’Hb fetale; α2γ2). In conseguenza della riduzione/assenza del-le catene β, le catene α, non assemblate in tetrameri, precipitano danneggiando con meccanismo ossidativo la membrana cellulare e provocando così eritropoiesi inefficace (rassegna sintetica in Rund

RiassuntoIn questi ultimi 30 anni si sono verificati progressi consistenti nella conoscenza e nel trattamento delle β-thalassemie. A partire dagli anni ’70 si sono potute definire le sue basi molecolari, chiarire almeno in parte la correlazioni genotipo-fenotipo, e identificare geni modificatori del fenotipo. Sotto il profilo terapeutico si sono ottimizzati i programmi trasfusionali e la terapia ferrochelante con Desferrioxamina che hanno con-dotto ad un consistente aumento della sopravvivenza. Sono stati scoperti due chelanti orali il Deferiprone e il Deferasirox. Il Deferiprone è risultato più efficace della Desferrioxamina nel prevenire l’accumulo di ferro nel miocardio. Il trapianto di cellule emopoietiche staminali allogeniche da donatore familiare HLA compatibile ha portato in casi selezionati alla guarigione della β-thalassemia. Gli studi sulla attivazione della produzione di HbF sono risultati deludenti. La terapia genica con vettori lentivirali in modelli murini ha portato a risultati interessanti e promettenti. La consultazione genetica associata alla diagnosi prenatale ha determinato nei paesi sviluppati una consistente riduzione della incidenza della β-thalassemia.

SummaryIn the last 30 years a marked progress has been made in the genetics, molecular pathology, counselling and clinical management of the β-thalassemias. In the early seventy, the molecular pathology of the β-thalassemias has been defined and a marked progress has been realised in the field of phenotype-genotype correlations and in discovery of modifying genes. Regular transfusional program associated with iron chelation by Desferrioxamina led to a consistent increase in life expectancy. Two orally ef-fective iron chelators L1 and Deferasirox has been discovered and L1 resulted more efficacious than Desferrioxamina in preventing cardiac iron accumulation. In patients without complications stem cell transplantation from HLA identical siblings led to cure in a consistent percentage. Studies aimed to boost the HbF produced disappointing results. In murine models, consistent progress have been made in gene therapy with lentiviral vectors. Genetics counselling associated with prenatal diagnosis led in developed countries, in which β-thalassemia is common to a dramatic decrease of its incidence.

Antonio Cao, nato a Cagliari il 4 Mag-gio 1929. È stato Direttore di una del-le Cliniche Pediatriche di Cagliari dal 1976 al 1999 e dell’Istituto CNR di Neurogenetica e Neurofarmacologia della stessa città dal 1992 al 2007. Attualmente Professore Emerito di Pe-diatria all’Università di Cagliari. Autore di circa 400 lavori scientifici pubbli-cati su riviste internazionali. Ha avu-to numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali tra cui: Allan Award, Marta Philipson Award e Premio Ma-ria Vilma e Bianca Querci. Co-direttore di Prospettive in Pediatria dal 1984 e corresponsabile della relativa rubrica Frontiere in Biologia fin dalla sua crea-zione.I suoi principali contributi scientifici riguardano l’Ematologia specie le Ta-lassemie e la Genetica delle Malattie Monogeniche e Complesse. È sposa-to ed ha tre figli e sei nipoti. Ama la musica classica, il cinema e pratica l’atletica leggera.

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 36-45

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Le β-thalassemie

e Rachmilewitz, 2005; Cao e Galanello, 2005; Higgs et al., 2001; Olivieri e Weatherall, 2001) (Fig. 2).Nelle Tabelle II e III vengono riportate le caratteristiche ematologiche ed i tipi di emoglobina presenti nelle diverse sindromi talassemicheDopo la diagnosi di β-thalassemia omozigote (Tabb. I, II e III) occor-re distinguere il bambino che presumibilmente svilupperà la forma grave trasfusione-dipendente di thalassemia major da quello che andrà incontro ad una forma attenuata (thalassemia intermedia). Questa distinzione è fondamentale perché solamente il bambino affetto da thalassemia major ha necessità di iniziare un regolare programma trasfusionale (rassegna sintetica in Olivieri e Weatherall, 2001; Cao e Galanello, 2005). In favore della diagnosi di thalassemia major stanno la presentazione precoce prima dei due anni di vita, con anemia grave (< 7 g/dl) e difetto di crescita. Un contributo utile può anche derivare dall’esame del genotipo (vedi oltre). In seguito alla diagnosi di thalassemia major viene iniziato un trattamento tra-sfusionale regolare continuativo, disegnato in modo tale da produrre valori di Hb minimi pre-trasfusionali di 95-105 g/l. Con questo trat-tamento, a condizione di stretta aderenza alla terapia ferro-chelante per evitare l’accumulo di ferro (in gran parte legato alle trasfusioni e minimamente all’iperassorbimento di ferro per l’eritropiesi ineffica-ce), l’accrescimento e lo sviluppo sono normali fino all’età di 10 anni Le complicazioni correlate a questo accumulo di ferro sono il difetto di crescita e di maturazione sessuale conseguenti a danno di diversi organi similmente a quanto si verifica nell’emocromatosi ereditaria (HFE). Gli organi più colpiti sono il cuore (miocardiopatia dilatativa), il fegato (fibrosi e cirrosi) e le ghiandole endocrine (diabete da difetto e resistenza all’insulina, ipotiroidismo, ipoparatiroidismo e ipogonadi-

smo ipogonadotropo). Studi recenti hanno analizzato i rapporti nella thalassemia tra l’attività eritropoietica, l’accumulo di ferro ed i livelli di epcidina, un ormone epatico che regola l’omeostasi del ferro ini-bendo l’assorbimento di ferro intestinale ed il riciclaggio del ferro dei macrofagi. In linea di massima la produzione di epcidina aumenta in presenza di accumulo di ferro ed è inibita dalla attività eritropoietica. Altri fattori controllanti la sua sintesi sono l’ipossia (effetto inibitore) e l’infiammazione (effetto attivatore). In accordo, nella thalassemia major la riduzione dell’attività eritropoietica e l’accumulo di ferro secondariamente alle trasfusioni determinano un aumento relativo dei livelli di epcidina che riduce l’assorbimento intestinale del ferro e la liberazione del ferro dai macrofagi (contribuendo così all’aumento della ferritina serica). Nella thalassemia intermedia, invece, prevale l’aumento della attività eritropoietica che determina difetto di epci-dina con relativo iperassorbimento di ferro e deplezione del ferro macrofagico (Fig. 3) (Rivella et al., 2007; Origa et al., 2007; Garden-ghi et al., 2007). Studi recenti indicherebbero che la inibizione della sintesi di epcidina potrebbe essere legata ad un aumento nel siero del Growth Differentiation Factor (GDF15), un membro della famiglia dei trasforming growth factors β (Babitt et al., 2006) iniziatori del-l’espansione eritroide.Altre complicanze sono costituite dall’ipersplenismo (per lo più secondariamente ad un programma trasfusionale difettoso), la cir-rosi (da accumulo di ferro ed epatite cronica), le trombosi venose (specie dopo splenectomia ed in soggetti non ben trasfusi, dovute ad anomalie della membrana eritrocitaria ed in minimo grado a

Figura 1. Ospedale di giornata della Clinica Pediatrica II di Cagliari dedicato all’assistenza ai Thalassemici negli anni ’70.

Tabella I.Fenotipo della β-thalassemia.

Categoria Genotipo Clinica

Portatore sano Eterozigote Asintomatico

Thalassemia intermedia Omozigote* Anemia microciticaSplenomegaliaNon necessita trasfusione

Thalassemia major Omozigote Anemia microciticaSplenomegaliaNecessita trasfusioni

* Talvolta eterozigote, come nella forma dominante e nel doppio eterozigote β-thalassemia/gene α-triplicato (vedi paragrafo su correlazione genotipo-fenotipo).

Figura 2. Lo sbilanciamento della sintesi globinica e la produzione delle cate-ne β-globiniche nelle diverse sindromi talassemiche.Appare evidente come la sintesi di β-globina diminuisce e lo sbilan-ciamento tra catene α e β-γ aumenta con la gravità della sindrome (portatore ➝ thalassemia intermedia ➝ thalassemia major).

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A. Cao

Tabella II.Indici ematologici nelle sindromi talassemiche.

Indici Normali Malati(Thalassemia major)

Portatori(Thalassemia minor)Maschi Femmine

(MCV fl) 89,1 ± 5,01 87,6 ± 5,5 50-70 <79

(MCH pg) 30,9 ± 1,9 30,2 ± 2,1 12-20 <27

(Hb g/dL) 15,9 ± 1,0 14,0 ± 0,9 <7 Maschi: 11,5-15,3Femmine: 9,1-14

Da Cao e Galanello, 2005.

Tabella III.Tipi di Hb nelle sindromi Talassemiche (dopo 12 mesi di età).

Tipo Hb Normali Malati Portatori

Omozigoti β°-thalassemici Omozigoti β+-thalassemici*

HbA 96%-98% 0 10%-30% 92%-95%

HbF < 1% 95%-98% 70%-90% 0,5%-4%

HbA2 < 3% Normale – Subnormale – Aumentata > 3,5%

* e eterozigoti composti β°/β+ Thalassemici

Figura 3. Diagramma schematico sul ruolo della emojuvelina (HJV) ed epcidina nel controllo del metabolismo del ferro.HJV interagisce con il ligando bone morphogenetic protein (BMP) e con i recettori BMP tipo I e tipo II (R-I, R-II) per generare un segnale complesso. I R-II aggiungono radicali PO4 agli R-I che a loro volta aggiungono PO4 a Smad 1, Smad 5 e Smad 8 attivandoli (R-Smad). R-Smad fosforilato forma un complesso col mediatore comune Smad 4 (Co-Smad). Il complesso Smad (R-Smad P- Co-Smad-P) trasloca nel nucleo ove aumenta la trascrizione di hepcidina. Nella β-thalassemia intermedia, l’espansione dei precursori eritroidi determina un aumento di GDF15, un membro della famiglia dei Transforming Growth-β (TGF-β) che antagonizza la via dei BMP, con conseguente repressione del-l’espressione di epcidina. Mutazioni di HJV ed epcidina producono forme di emocromatosi giovanile.

ipercoagulabilità per alti livelli di fattori procoagulanti e bassi li-velli di inibitori (rassegna sintetica in Eldor e Rachmilewitz, 2002), l’osteoporosi (di origine multifattoriale: ipogenitalismo, diabete,

ipotiroidismo, ipoparatiroidismo, ematopoiesi inefficace, difetto GH e IGF1) e l’ipertensione polmonare (probabilmente secondaria all’emolisi cronica) (rassegna sintetica in Rund e Rachmilewitz,

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Le β-thalassemie

2005; Cao e Galanello, 2005). Attualmente più raramente si osser-vano le infezioni secondarie a trasfusione quali l’infezione da HIV, le epatiti B e C le infezioni da CMV e da HTLV e la malaria. Del pari meno frequenti rispetto al passato le infezioni batteriche secon-darie alla splenectomia (Pneumococco, Haemophilus influentiae, batteri gram-negativi). Vengono segnalate infezioni da Stafilococ-co aureus correlate alla iniezione sottocutanea di Desferrioxamina. Occasionalmente, per la prolungata sopravvivenza viene descritto il carcinoma epatocellulare dovuto ad infezione virale cronica ed all’accumulo di ferro. Attualmente la sopravvivenza degli individui trattati appropriatamente con le trasfusioni e la terapia ferro-che-lante (vedi oltre) si estende oltre la 3° decade. La causa di morte principale (71%) è la miocardiopatia dilatativa secondaria all’emo-cromatosi trasfusionale (Borgna-Pignatti et al., 2006). L’entità del-l’accumulo di ferro, cruciale ai fini di monitorizzare la terapia fer-ro-chelante viene effettuata con la determinazione della ferritina (indice infedele poiché i suoi livelli plasmatici aumentano aspecifi-catamente per il danno epatico), la Risonanza Magnetica Nucleare (MRI) e la biosuscettometria magnetica (Squid). L’analisi ideale è la biopsia del fegato, che non è attualmente usata, poiché invasiva e poiché è stato dimostrato che in presenza di fibrosi epatica la distribuzione del ferro nel fegato e irregolare con conseguenti falsi positivi e negativi (Rassegna sintetica in Cao e Galanello, 2005).Il quadro clinico della thalassemia intermedia consiste in anemia di moderata gravità subittero, epato-splenomegalia, calcolosi biliare, ulcere malleolari, sviluppo di masse iperplastiche di midollo osseo (con relativi effetti compressivi ad esempio sul midollo spinale), comparsa di osteoporosi, tendenza trombotica (per la composizio-ne lipidica abnorme della membrana del globulo rosso) (rassegna sintetica in Borgna-Pignatti, 2007; Cao e Galanello 2005; Olivieri e Weatherall, 2001). Per definizione le trasfusioni non sono necessarie oppure lo sono solo occasionalmente. Le complicanze legate all’ac-cumulo di ferro sono simili a quelle della thalassemia major, ma si sviluppano più tardivamente.

Genetica molecolareLo studio molecolare delle β-thalassemie cominciò negli anni ’70. Io fui molto fortunato per trovarmi al posto giusto nel momento giusto per partecipare personalmente a questa meravigliosa avventura che condusse alla definizione molecolare di questo gruppo di malattie, a stabilire la loro eterogeneità genotipica, a chiarire, almeno in parte, le correlazioni tra genotipo e fenotipo, ed ad aprire la ricerca per una terapia genica definitiva (rassegna sintetica in Higgs et al., 2001). In quel periodo, infatti, i progressi della genetica molecolare consenti-rono al nostro gruppo di definire molecolarmente le β, α, δ-thalas-

semie in Sardegna ed in molte regioni Italiane (Rosatelli et al., 1992). Il gene β-globinico mappa nel braccio corto del cromosoma 11 (Fig. 4) assieme ad altri geni β-globinici simili, tra cui i geni Gγ e Aγ, che codificano per le catene γ dell’HbF ed il gene δ, che codifica per le catene δ-globiniche che assieme alle catene α formano la HbA2 (α2δ2), la specie di Hb che, con il suo aumento, consente la precisa identificazione del portatore di β-thalassemia. La trascrizione del gene β-globinico è regolata dal promotore situato nella posizione 5’ al gene che contiene sequenze fondamentali per questo processo: TATA, CAAT e CACCC box e da un elemento con funzione regolatrice ed enhancer localizzato 50kb a monte e denominato Locus Control Region (LCR). La trascrizione del gene dipende da diverse proteine (fattori trascrizionali) tra cui il più importante è il Fattore Eritroide Kruppel-Simile, denominato EKLF (nome derivato dai geni omeotici della Drosophila) che si lega alle sequenze CACCC specie prossima-li attivando la trascrizione del gene β-globinico. La disattivazione knockout del gene che codifica EKLF nel topo determina lo sviluppo di un quadro clinico β-thalassemico-simile (rassegna sintetica in Higgs et al., 2001; Cao e Galanello, 2005).Le β-thalassemie sono eterogenee molecolarmente risultando da più di 200 mutazioni diverse per lo più costituite da lesioni puntiformi e più di rado da grandi delezioni. Le lesioni puntiformi comprendono sin-gole sostituzioni nucleotidiche o delezioni/inserzioni di oligonucleotidi che esercitano effetti negativi sulla trascrizione, sulla traduzione del gene o sulla stabilità della proteina relativa. Nella Tabella IV riportia-mo le mutazioni β-thalassemiche lievi e silenti più frequenti in Italia. Nonostante l’elevata eterogeneità della β-thalassemia, in ogni regio-ne predominano per lo più un numero limitato di lesioni molecolari (da 3 a 5). In Sardegna, a causa dell’isolamento genetico millenario, è presente una mutazione prevalente (non senso CAG-TAG al codone 39) che è responsabile del 95% circa dei casi (Fig. 5 e Tab. IV). Più di rado le β-thalassemie sono dovute a delezione limitate intrageniche o a delezioni più estese che coinvolgono in modo variabile anche i geni δ, Gγ e Aγ (β-thalassemie complesse, comprendenti le δβ- e le γδβ-thalassemie). Eccezionalmente sono in giuoco le delezioni della LCR che silenziano, pur lasciandoli strutturalmente intatti, tutti i geni β-globinici. Le delezioni della LCR del gruppo dei geni β-globinici costituiscono il primo esempio di difetto funzionale di un gene per alterazione di sequenze lontane con funzione regolatrice. Esistono infine rarissime forme di β-thalassemia con gene β-globinico intatto, il cui meccanismo molecolare, non ancora definito, probabilmente risiede in un difetto di fattori trascrizionali. In due casi, il difetto di funzione del gene β è risultato associato allo xeroderma pigmentoso e alla tricotiodistrofia (a causa di una lesione molecolare del gene per il fattore generale di trascrizione TFIIH), o alla trombocitopenia (per lesione molecolare del fattore codificato dal cromosoma X, GATA 1

Figura 4. Rappresentazione schematica dei geni β-globinici e del locus control region (LCR) sul braccio corto del cromosomico 11.

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A. Cao

un fattore trascrizionale specifico della serie eritroide e piastrinica) (Viprakasit et al., 2001; Freson et al., 2001).In base all’effetto sulla produzione di RNA messaggero e relativa globina, le mutazioni si dividono in gravi, medie, silenti (Tab. IV).L’analisi mutazionale del gene β-globinico si basa sull’uso combina-to di tecniche per identificare sia le mutazioni puntiformi (metodo-logie di microarray PCR-basate) (Gemignani et al., 2002), che quelle delezionali (MPLA = multiple ligation-dependent probe amplifica-tion). La diagnosi molecolare della β-thalassemia è necessaria per identificare l’allele mutato nelle coppie a rischio ai fini della diagnosi prenatale ed è utile per differenziare le β-thalassemia major dalla forma intermedia attraverso la caratterizzazione della gravità del di-fetto (mutazioni silenti, lievi e gravi).

Correlazione genotipo-fenotipoLe correlazioni genotipo-fenotipo verranno analizzate sia negli omozigo-ti che negli eterozigoti (Tab. V) (vedi rassegne sintetiche: Cao et al., 1994; Rund e Rachmilewitz, 2005; Cao e Galanello, 2005). Negli omozigoti un fenotipo attenuato è determinato da ogni fattore ereditario capace di ri-

durre lo sbilanciamento tra la produzione di catene globiniche α e catene globiniche non α (β + γ), mentre negli eterozigoti un fenotipo intermedio è il risultato di un aggravamento del modesto sbilanciamento tra pro-duzione di catene globiniche α e non α tipico dell’eterozigote semplice. Nel caso degli omozigoti, il fattore più importante nel condizionare un fe-notipo intermedio (thalassemia intermedia) è la omozigosi o eterozigoti composta per mutazioni lievi o silenti. L’eterozigote composto per muta-zioni lievi/silenti e mutazioni gravi ha invece un fenotipo estremamente variabile. Un secondo fattore è la cotrasmissione con l’omozigosi per la β-thalassemia di α-thalassemia che riducendo le catene α-globiniche in eccesso, limita conseguentemente anche lo sbilanciamento α/β + γ, il maggior determinante della patogenesi. L’effetto della cotrasmissione della α-thalassemia è tuttavia così variabile, si da non consentire il suo uso ai fini prognostici. Il terzo fattore capace di migliorare il fenotipo è la cotrasmissione di determinanti genetici che causano una persistenza della sintesi della HbF Hereditary Persistence of Fetal Hb (HPFH) nella vita adulta in modo tale da compensare il difetto di HbA (α2β2). Questi fattori sono di diverso tipo:a) delezioni del promoter β e δβ-thalassemie per riduzione della

competizione tra il promoter del gene β e quello dei geni Gγ Aγ per il LCR;

b) cotrasmissione di mutazioni puntiformi riguardanti il promotore del gene Aγ o Gγ. La più frequente di queste mutazioni è una singola sostituzione C-T alla posizione -158 5’ rispetto al gene Gγ (Gγ-158 C→T). Questa mutazione è in linkage disequilibrium con le mutazioni del gene β-globinico, β IVS II-I (G → A), fra-meshift 8 (-AA) e frameshift 6 (-A). Questa associazione spiega il carattere lieve di queste mutazioni nonostante il fenotipo di β°-thalassemia;

c) cotrasmissione di HPFH eterocellulare (a differenza delle prece-denti che sono pancellulari) che mappano al di fuori del gruppo dei geni β-globinici in tre loci: Xq22.2-Xq22.3, 8q e 6q22.3, q23.3. Solo il gene (i) responsabile del tratto mappante in 6q sono stati probabilmente definiti: HBS1L (appartenente alla famiglia delle GTPasi) e cMyB, un gene che determina un blocco della diffe-renziazione eritroide terminale (un suo difetto provocherebbe un aumento della proporzione di progenitori eritroidi che entrano pre-cocemente in differenziazione terminale che hanno pertanto un programma attivo di produzione di HbF (Jiang et al., 2006; Thein et al., 2007). Di recente tramite uno studio di associazione genomica in soggetti sani abbiamo osservato una associazione significativa (< p1035) tra i livelli di HbF ed un polimorfismo C/T nell’introne del gene BCL11A, un fattore di trascrizione del tipo zinc-finger. L’al-lele C risulterebbe associato ad alti livelli di HbF. Abbiamo quindi genotipizzato per questo polimorfismo due gruppi di pazienti con β-talassemia (omozigoti per l’allele β°-39), uno affetto da forma

Figura 5. Distribuzione delle β-thalassemie in Italia.Ogni colore rappresenta una mutazione diversa.

Tabella IV.Mutazioni β-thalassemiche lievi e silenti più frequenti in Italia.

Sede mutazioni Lievi Silenti*

Trascrizionali del CACCC box prossimale -87 C>G -101 C>T -92 C>T

Del “sito consenso” per il processamentodel RNA messaggero

IVS1-6 T>C

Degli introni IVS2-844 C>G

Delle sequenze codificanti cd6-A**

* Si chiamano silenti perché l’eterozigote per queste mutazioni mostra indici ematologici e livelli di HbA2 normali ed è individuabile solamente per un lieve sbilanciamento della sintesi globinica (α/β+γ).** Mutazione β° lieve per linkage in cis con la mutazione –158 Gγ (vedi testo)

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Le β-thalassemie

grave (talassemia major) e l’altro con forma attenuata (talassemia intermedia) ed abbiamo trovato un significativo aumento dell’al-lele C nei pazienti con talassemia intermedia. BCL11A è pertanto un fattore modificatore in senso migliorativo del fenotipo della β-talassemia (Uda et al., 2008).

Diversi altri fattori genetici non globinici possono modificare il feno-tipo della β-thalassemia. Tra questi il più conosciuto è la mutazione che causa la sindrome di Gilbert: [(TA)7 anziché (TA)6 nel TATA box del promoter del gene codificante per la difosfoglucuronil-transferasi] (UGT1A) che, in combinazione con la thalassemia major o intermedia, o con il semplice stato di portatore, attraverso un difetto di glucuronil-coniugazione della bilirubina determina un aumento della frequenza e della gravità dell’ittero a bilirubina indiretta e della conseguente cole-litiasi (Galanello et al., 2001; Cao e Galanello, 2005). Meno definiti gli effetti modificatori della cotrasmissione del gene che codifica per la HFE e di geni coinvolti nel metabolismo dell’osso.I portatori di β-thalassemia anziché essere asintomatici possono mostrare il fenotipo della thalassemia intermedia nelle seguenti condizioni (rassegna sintetica in Rund e Rachmilewitz, 2005; Cao e Galanello, 2005):• eterozigoti per mutazioni che producono una globina altamente

instabile che precipita nella membrana del globulo rosso assie-me alle catene α prima di formare il tetrametro Hb;

• doppi eterozigoti per una tipica eterozigosi per β-thalassemia ed il gene α triplicato. Soggetti con questo genotipo associato a ridotta espressione del gene che codifica per una proteina stabi-lizzante le catene α-globiniche libere (α-hemoglobin stabilizing protein – AHSP) hanno un fenotipo più grave rispetto ai semplici doppi eterozigoti (Lai et al., 2006);

• eccezionalmente portatori di β-thalassemia possono mostrare il feno-tipo della thalassemia intermedia in seguito a inattivazione del gene β-globinico in trans per delezione somatica (Galanello et al., 2004).

Consultazione genetica

Le β-thalassemie vengono trasmesse come carattere recessivo au-tosomico. L’individuazione di un caso di thalassemia major o inter-

media induce ad eseguire la consultazione genetica della coppia e ad una estesa analisi familiare allo scopo di individuare i portatori sani del gene (Cao et al., 1997; Cao et al., 1998; Cao et al., 2002; Cao e Galanello 2002).Nella consultazione genetica vengono discusse le differenti opzioni possibili tra cui astenersi dalla procreazione, adozione, fecondazio-ne eterologa e diagnosi prenatale (Kan et al., 1975; Rosatelli et al., 1985) (attraverso analisi degli amniociti o dei villi coriali) o preim-pianto e preconcezionale (Kanawakis et al., 2002) (le ultime due non disponibili per legge in Italia).In popolazioni ad alto rischio come Sardegna, Sicilia, area del delta padano, sono operativi programmi di screening degli adulti in età prematrimoniale, in alcuni casi associati a screening degli adole-scenti. Questi programmi si sono rivelati estremamente efficaci, da un lato per disseminare le informazioni sulla β-thalassemia, indi-spensabili per una procreazione informata e dall’altro lato nel ridur-re, in gran parte, attraverso la diagnosi prenatale l’incidenza della malattia. In Sardegna ad esempio, l’incidenza dell’omozigote si è ridotta da 1:250 nati vivi ad 1:4.000 (Cao et al., 1997; Cao et al., 2002; Cao e Galanello 2002) (Fig. 6).Alternative, rispetto a quelle menzionate per l’identificazione del feto malato, come l’analisi degli eritroblasti fetali nel sangue materno e lo studio del DNA-RNA fetale nel plasma materno (Dhallan et al., 2007; Cheung et al., 1996) non sono ancora disponibili o sono asso-ciate a possibilità di errori.

Terapia

Terapia tradizionaleLa terapia trasfusionale, già citata, viene associata a terapia ferro-chelante. Nonostante lo sviluppo recente di diversi chelanti del ferro, somministrabili per via orale e pertanto più accettati dal paziente, il farmaco di scelta rimane la Desferrioxamina B (DFO), un chelante esadentato. La terapia con DFO viene per lo più iniziata dopo 10-12 trasfusioni tramite infusione sottocutanea (per 12 ore circa) con una pompa portatile. L’infusione viene effettuata ogni giorno per 5 giorni

Figura 6. Riduzione della incidenza di omozigoti per la β-thalassemia in Sar-degna.Sulle ordinate numero dei nati con β-thalassemia omozigote per anno.Previsti = numero dei nati con β-thalassemia omozigote previsti in base alla frequenza dei portatori;Osservati = valori realmente osservati.

Tabella V.Cause di β-thalassemia intermedia.

In omozigoti (o eterozigoti composti) per β-thalassemia

• Mutazioni lievi o silenti

• Cotrasmissione di α-thalassemia (delezione di uno o due geni α-globinici)

• Cotrasmissione di HPFH

– legate alla cluster β (pancellulare)

- legata alla mutazione per se (δβ-thalassemia)

- mutazioni del promoter Aγ, Gγ

– non legate alla cluster β (eterocellulare)

- crom 2

- crom 6

- crom 8

- crom X

In eterozigoti per β-thalassemia

• Mutazioni causa di Hb iperinstabile (forma dominante di β-thalassemia)

• Doppio eterozigote con gene ααα o αααα (in omozigosi o eterozigosi)

• Associata a delezione somatica in trans della cluster β-globinica

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alla settimana alla dose di 20-30 mg/kg che vengono portati a 40 mg dopo 5-6 anni ed a 50 mg quando l’accrescimento sia stato completato. Le dosi oltre che dall’età dipendono anche dall’accu-mulo di ferro come documentato dai livelli di ferritina serica. Se la terapia riesce a realizzare livelli di ferro nel fegato < 7 mg/g di peso secco si verifica una consistente riduzione sia della morbilità che della mortalità. Esperimenti di Fase Ib con DFO coniugato con amido aprono le possibilità di un eventuale somministrazione settimanale per la sua prolungata permanenza in circolo. Durante la terapia con DFO viene somministrato acido ascorbico (100-150 mg/d) che po-tenzia l’effetto della DFO. Effetti collaterali della DFO sono: sordità neurosensoriale, difetto di crescita, insufficienza renale, polmonite interstiziale ed aumento della suscettibilità a talune infezioni (Yer-sinia enterocolitis, Klebsiella pneumoniae ed Escherichia coli). Il maggior problema, tuttavia, è costituito dalla aderenza alla terapia. La terapia con DFO viene monitorizzata valutando i livelli di ferriti-na, l’accumulo di ferro negli organi, quantificato tramite risonanza magnetica nucleare (MRI) e/o biosuscettibilità magnetica. La MRI è stata introdotta recentemente e consente di misurare il sovraccarico di ferro sia nel fegato che nel cuore valutando il parametro T2* che misura l’effetto sui protoni dell’accumulo di ferro ed è strettamente correlato coi valori della frazione di eiezione del ventricolo sinistro. La biosuscettibilità magnetica permette di misurare solo il ferro epa-tico ed è disponibile in un limitato numero di centri. Dopo molte e protratte controversie internazionali è stato finalmente registrato almeno in Europa il Deferiprone (L1), un chelante, bidentato, som-ministrabile per via orale alla dose di 75-100 mg/kg/die. L’effetto di L1 sull’accumulo di ferro epatico è tuttavia variabile, ma per lo più di uguale entità a quello prodotto da DFO. L1 ha diversi e gravi effetti collaterali (neutropenia, agranulocitosi, artropatia e sintomi gastroin-testinali) che rendono necessario un monitoraggio continuativo e lo rendono farmaco di seconda scelta rispetto a DFO (Cohen et al., 2003). La possibilità proposta che L1 possa determinare/aggravare la fibrosi epatica è stata di recente esclusa (Wanless et al., 2002). Di recente è stata notata netta superiorità nella cardioprotezione (mi-glioramento reperto MRI e minor probabilità di sviluppare malattia cardiaca) di L1 rispetto a DFO (Borgna-Pignatti et al., 2006). Questi rilievi hanno portato ad introdurre schemi di terapia combinata con DFO e L1 (Wu et al., 2004; Neufeld, 2006). Nel complesso L1 appare un farmaco pressoché equivalente a DFO ma più efficace rispetto a DFO sull’accumulo di ferro cardiaco. Di recente è stato introdotto in clinica un altro chelante tridentato attivo per os e denominato Defe-rasirox (alla dose di 10-30 mg/kg/die) che ha mostrato ottima effi-cacia e buona tolleranza. Gli effetti collaterali modesti consistono in disordini gastrointestinali, rash cutanei e aumento della creatinina. Studi di fase IV e post-marketing consentiranno di stabilire il ruolo di questo nuovo chelante (rassegna sintetica in Maggio, 2007).Il trattamento delle complicanze cardiache e delle alterazioni en-docrinologiche, delle trombosi, e della ipertensione polmonare è sintomatico ma richiede una implementazione e ottimizzazione del-la terapia chelante e trasfusionale. Per l’osteoporosi è necessario inoltre stimolare l’attività fisica, somministrare calcio e vitamina D. I bifosfonati sembrerebbe diano buoni risultati.Nella thalassemia intermedia la terapia si fonda sulla splenectomia e sulla supplementazione con acido folico. Le eventuali masse di tessuto eritropoietico extramidollari vengono trattate con trasfusioni, intensiva radioterapia e/o idrossiurea (secondo gli schemi in uso per l’anemia falciforme) che determina un aumento dei livelli di HbF. Col tempo si sviluppa anche in tale forma accumulo di ferro. Quando la ferritina supera i 300 µg/L si inizia una terapia chelante individualiz-zata. Le complicanze (ulcere malleolari, trombosi venose, osteopo-

rosi, osteopenia, ipertensione polmonare, calcolosi biliare) vengono trattate in modo sintomatico (vedi per dettagli la recente rassegna di Borgna-Pignatti, 2007). I pazienti con thalassemia sia intermedia che major devono essere presi in carico e seguiti in modo appropria-to da centri specializzati nel settore (Tab. VI).

Trapianto di midollo osseoAl momento attuale l’unica terapia alternativa che consente di ot-tenere la guarigione è il trapianto di midollo osseo allogenico da donatore familiare HLA-compatibile. In bambini senza fattori di ri-schio (epatomegalia, fibrosi epatica, accumulo di ferro) la soprav-vivenza libera da malattia è maggiore del 90% (Gaziev e Lucarelli, 2003) (Fig. 7). La sopravvivenza si riduce al 60% in presenza di tutti e tre i fattori di rischio su menzionati. La mortalità è legata a infezioni con germi opportunisti e malattia acuta del trapianto contro l’ospite (GVH). La forma cronica di GVH è di gravità variabile e si verifica nel 5-8% dei casi. Il problema cruciale nel trapianto di midollo è la valutazione accurata assieme al paziente e ai fa-miliari dei pro e contro di questa terapia. Il trapianto di midollo da donatore HLA identico non familiare è stato eseguito in un numero limitato di individui. I risultati sembrerebbero discreti, certamente inferiori a quelli ottenuti con trapianto da familiare HLA identico, ma devono essere confermati su più larga scala (La Nasa et al., 2006). Critica è la ricerca della HLA compatibilità incluso il locus DPB1. Il trapianto di cellule staminali cordonali (che è associato a basso rischio di GVH) da donatore correlato eseguito in pochi casi ha dato buoni risultati. Un problema critico per gli adulti è il ridotto numero di cellule staminali.

Terapie alternative molecolariLe terapie alternative molecolari consistono nella riattivazione della produzione di HbF e nella terapia genica (vedi rassegna di Quek e Thein, 2007 e di Rund e Rachemiletz, 2005) (Fig. 8).

Tabella VI.Raccomandazioni per lo studio longitudinale dei pazienti con thalas-semia major.

Mensile

Esame clinico

Quadrimestrale

Ferritina serica

Semestrale

Funzione epatica

Annuale

Crescita

Pubertà

Esame audiologico

Esame oculistico

Apparato cardiovascolare

Organi endocrini

Ecografia epato-biliare

Determinazione α-fetoproteina

Densitometria ossea

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Le β-thalassemie

La riattivazione della produzione di HbF si da compensare il difetto di HbA con mezzi farmacologici è stata ed è tuttora oggetto di intensi studi. Tra i farmaci utilizzati ricordiamo, i butirrati, diversi composti ad essi analoghi e numerosi acidi grassi a catena corta che agiscono attraverso la inibizione della istone-deacetilasi specifica, mantenen-do così uno stato di acetilazione del promoter dei geni Gγ e Aγ ed in questo modo incrementando la produzione di catene γ. Un secondo gruppo di farmaci (azacitadina e decitabina) è rappresentato dagli inibitori della metiltransferasi specifica che determina ipometilazio-ne dei promotori dei geni codificanti le catene γ e quindi promuova la loro trascrizione. Il terzo gruppo (idrossicarbamide) (HU) è costi-tuito da farmaci che accelerano la differenziazione prematura dei precursori eritroidi che hanno attivo un programma di sintesi della HbF ed in tal modo determinano un aumento di questa Hb. Successi relativi con l’uso di HU sono stati ottenuti in pazienti con thalassemia intermedia che hanno il polimorfismo C→T in posizione -158 Gγ che facilita la produzione di HbF. Infine, sono stati fatti anche dei tenta-tivi con eritropoietina, inappropriatamente ridotta nei pazienti con thalassemia major, che stimola la proliferazione eritroide e riduce l’apoptosi. Queste terapie sperimentali non hanno mai determinato effetti sulla Hb tali da essere considerati per l’applicazione clinica.Gli studi di terapia genica sono iniziati dopo alcuni anni dal clonaggio del gene β-globinico. Sono stati fatti esperimenti di addizione genica (gene β- oppure γ-globinico) tramite transfezione di cellule staminali con vet-tori basati su retrovirus e su virus adeno-associati e tentativi di sostituire sempre in cellule staminali le sequenze del gene mutato con sequen-ze normali attraverso la ricombinazione omologa stimolata da specifici costrutti. I tentativi di addizione genica sono del tutto falliti a causa di transfezione di un numero modesto di cellule staminali e produzione di una insufficiente e transitoria quantità di catene β o γ-globiniche. Del pari l’uso della ricombinazione omologa si è rivelata inefficiente, a causa del numero scarso di cellule corrette. Di recente, tuttavia, in un modello murino di anemia falciforme è stato ottenuta in percentuale sufficien-

te la correzione del difetto delle cellule staminali con ricombinazione omologa. La successiva reinfusione delle cellule corrette nell’animale ha determinato un netto miglioramento dell’anemia (Chang et al., 2007).Risultati promettenti sono stati di recente ottenuti in modelli muri-ni di thalassemia major e intermedia con l’uso di vettori lentivirali (derivati dall’HIV che hanno il vantaggio di poter essere trasfettati in cellule non in mitosi), contenenti il gene β-globinico con tutte le sequenze con funzione regolatrice inclusa la LCR e talvolta anche sequenze cosiddette isolanti per evitare il silenziamento del gene da parte della eterocromatina fiancheggiante (Rivella et al., 2003). In questi esperimenti è stata realizzata una produzione di HbA in quantità pari a circa il 30%, che potrebbe essere sufficiente per tra-sformare una thalassemia major in intermedia. Studi preclinici con questi vettori sono in corso o stanno per essere programmati. Di recente un importante progresso nel campo delle cellule staminali è stato realizzato producendo una cellula pluripotente paziente e malattia specifica molto simile ad una cellula staminale embrionale transfettando via retrovirus geni codificanti per 4 fattori di trascri-zione Oct3/4, Sox2, c-Myc e Klf4, fibroblasti cutanei murini o umani (induced pluripotent stem = iPS) (Takahashi et al., 2007).Alcuni mesi fa il gruppo di Rudolf Jaenisch ha applicato queste conoscenze alla correzione cellulare-genica di un modello murino di anemia falciforme. L’esperimento può essere così sintetizzato: preparazione di cellule iPS dal topo malato; correzione del difetto tramite ricombinazione omologa con un costrutto contenente il gene selvaggio (ottenibile con relativa facilità in cellule staminali); produ-zione con appropriati fattori trascrizionali di cellule staminali emo-poietiche, trapianto di queste cellule nel topo malato e ottenimento della guarigione (Hanna et al., 2007).

Prospettive futureLe più importanti prospettive per il futuro riguardano i seguenti aspetti:a) definizione dei fattori che regolano la produzione di HbF e rela-

tiva possibilità di utilizzare queste conoscenze per la sua attiva-zione in via farmacologica;

b) miglioramento del trapianto di cellule staminali attraverso progressi

Figura 8. Differente approccio di terapia genica nella β-thalassemia.Transfezione di un gene β-normale in una cellula staminale emopoietica con integrazione a caso nel genoma; reinfusione della cellula corretta. Ricombinazione omologa tra un gene mutato normale ed il gene affetto in cellule staminali. Stimolazione della sintesi di Hb fetale con farmaci o fattori di trascrizione ad esempio EKLF ingenerizzato.

Figura 7. Stima della sopravvivenza di pazienti con thalassemia major tra-piantati da donatori familiari HLA identici (Kaplan-Meyer estimate).A: Sopravvivenza libera da malattia in 61 pazienti talassemici (età 1-15 anni) dopo trapianto di midollo da donatore familiare.B: Sopravvivenza libera da malattia in 39 pazienti talassemici (età 16-45 anni) dopo trapianto di midollo da donatore familiare.C: Sopravvivenza libera da malattia in 21 pazienti talassemici (età 2-35 anni) dopo trapianto di midollo da donatore non familiare.

A B

C

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A. Cao

Cosa sapevamo sulla β-thalassemia negli anni ’70• Presente solo nei paesi con o pregressa endemia malarica.• Esordio con quadro clinico caratteristico: anemia, epato-splenomegalia, modificazioni ossee.• Anemia di tipo microcitico con pattern Hb caratterizzato da assenza o ridotta HbA e presenza di HbF.• Causa: difettosa o assente sintesi delle catene β-globiniche.• Non esistenza di terapie efficaci. Le trasfusioni vengono effettuate solo in presenza di anemia grave.

Cosa sappiamo oggi sulle β-thalassemie• La migrazione ha disseminato la malattia in tutto il mondo.• I geni globinici sono stati clonati, la patologia molecolare è stata definita, si sono realizzati progressi nella correlazione genotipo-fenotipo, sono stati

individuati geni modificatori tra cui alcuni determinanti la produzione di HbF.• La terapia trasfusionale programmata associata alla terapia chelante con DFO ha determinato la scomparsa del quadro clinico tipico ed un prolun-

gamento della sopravvivenza.• Sono stati identificati chelanti orali del ferro (L1 e Deferasirox).• In casi selezionati il trapianto di midollo allogenico ha determinato la guarigione.• Si sono realizzati progressi nella terapia genica e cellulare con vettori lentivirali in modelli murini.

Cosa ci aspettiamo nei prossimi anni• Identificazione con lo studio di associazione genomico di nuovi tratti regolanti l’HbF.• Identificazione, tramite screening di librerie di farmaci, di prodotti stimolanti la produzione di HbF e relativa applicazione clinica.• Progressi nel trapianto di midollo con terapia non mieloablativa.• Scoperta di nuovi chelanti del ferro.• Applicazione clinica di terapia genica additiva con vettori lentivirali.• Sviluppo della terapia genica e cellulare basata su ricombinazione omologa o con trasformazione delle sequenze mutate del gene β-globinico in

sequenze normali tramite Zn-finger endonucleasi.

Box di orientamento

nella tipizzazione, nel controllo della GVH e della infezione da CMV;c) sviluppo ed applicazione clinica della terapia genica;d) introduzione in terapia di nuove molecole ferro-chelanti attive

per os.In riferimento alla attivazione di HbF gli studi di associazione ge-nomica (GWS) dovrebbero consentire di identificare nuovi geni che controllano la produzione di catene γ. La stimolazione di questi nuovi geni e di alcuni di quelli già conosciuti responsabili di HPFH etero-cellulare come HBS1L potranno portare a risultati migliori rispetto a quelli deludenti fino ad ora ottenuti con questo approccio.Per quanto riguarda il trapianto di cellule staminali, una prospettiva di un certo interesse è quella di ottenere una chimera di cellule staminali tra-piantate e di cellule selvagge attraverso una riduzione dell’intensità del-la terapia mieloablativa che sembrerebbe capace di rendere il paziente trasfusione-indipendente. La terapia genica, attraverso l’ottimizzazione dei costrutti lentivirali o tramite l’implementazione della ricombinazione

omologa potrebbe finalmente raggiungere l’applicazione clinica.Altri tentativi di terapia genica di un certo interesse si fondano sul silenziamento di geni α-globinici attraverso la RNA interferenza (pro-duzione di α-thalassemia che come è noto migliora il fenotipo della β-thalassemia), sulla repressione del gene β-globinico mutato endo-geno con mRNA antisenso o con la RNA interferenza associata alla introduzione di un gene normale con vettori lentivirali e sull’uso di Zn-finger endonucleasi che potrebbero correggere il difetto del gene mutato sfruttando i sistemi di riparazione del DNA. Un più modesto interesse hanno i tentativi di potenziare la produzione di AHSP e così ridurre l’eccesso di catene α-libere e lo sviluppo di agonisti della epci-dina per limitare l’accumulo di ferro nella thalassemia intermedia.Di grande rilevanza sociale è peraltro la possibilità che i moderni sistemi di diagnostica, prevenzione e terapia possano essere intro-dotti nei paesi in via di sviluppo nei quali la limitazione delle risorse economiche preclude al momento attuale tali possibilità.

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Le β-thalassemie

* Il lavoro che ha dimostrato la fattibilità della diagnosi prenatale di β-tha-lassemia tramite analisi di cellule fetali presenti nel sangue materno.Cohen AR, Galanello R, Piga A, et al. Safety and effectiveness of long-term thera-py with the oral iron chelator deferiprone. Blood 2003;102:1583-7.** Studio sulla efficacia e sugli effetti collaterali del Deferiprone.Dhallan R, Guo X, Emche S, et al. A non-invasive test for prenatal diagnosis based on fetal DNA present in maternal blood: a preliminary study. Lancet 2007;369:474-81.** Il lavoro che ha dimostrato la possibilità di fare diagnosi prenatale di β-tha-lassemia tramite l’analisi del RNA fetale presente nel sangue materno.Eldor A, Rachmilewitz EA. The hypercoagulable state in thalassemia. Blood 2002;99:36-43.* Rassegna sintetica sulle caratteristiche e sulle cause della ipercoagulabilità nella β-thalassemia.Freson K, Devriendt K, Matthijs G, et al. Platelet characteristics in patients with X-linked macrothrombocytopenia because of a novel GATA1 mutation. Blood 2001;98:85-92.* Descrizione del fenotipo β-thalassemico dovuto a mutazioni del fattore GATA-1.Galanello R, Perseu L, Perra C, et al. Somatic deletion of the normal beta-globin gene leading to thalassaemia intermedia in heterozygous beta-thalassaemic pa-tients. Br J Haematol 2004;127:604-6.* Descrizione di casi di thalassemia intermedia risultanti da delezione somatica della cluster-β-globinica in trans alle mutazioni β-thalassemicheGalanello R, Piras S, Barella S, et al. Cholelithiasis and Gilbert’s syndrome in homozygous beta-thalassaemia. Br J Haematol 2001;115:926-8.Dimostrazione che l’incidenza della colelitiasi nella thalassemia è correlata alla co-trasmissione della sindrome di Gilbert.Gardenghi S, Marongiu MF, Ramos P, et al. Ineffective erythropoiesis in beta-thalassemia is characterized by increased iron absorption mediated by down-regulation of hepcidin and up-regulation of ferroportin. Blood 2007;109:5027-35.* Dimostrazione che l’aumento dell’assorbimento di ferro secondario alla eritro-poiesi inefficace nella thalassemia intermedia è dovuto ad una inibizione della epcidina e ad una stimolazione della ferroportina.Gaziev J, Lucarelli G. Stem cell transplantation for hemoglobinopathies. Curr Opin Pediatr 2003;15:24-31.** Rassegna sintetica sul trapianto di cellule staminali nelle emoglobinopatie.Gemignani F, Perra C, Landi S, et al. Reliable detection of beta-thalassemia and G6PD mutations by a DNA microarray. Clin Chem 2002;48:2051-4.* Illustrazione del valore dei microarray per la diagnostica molecolare della β-thalassemia.Hanna J, Wernig M, Markoulaki S, et al. Treatment of sickle cell anemia mouse model with iPS cells generated from autologous skin. Science 2007; 318:1920-3. Higgs DR, Thein SL, Wood WG. The molecular pathology of the thalassaemias. In: Weatherall DJ, Clegg JB, eds. The Thalassaemia Syndromes. Oxford: Osney Mead 2001, p. 133-91.** Rassegna sintetica sulla patologia molecolare della β-thalassemia.Jiang J, Best S, Menzel S, et al. cMYB is involved in the regulation of fetal hemo-globin production in adults. Blood 2006;108:1077-83.Identificazione di un nuovo possibile gene (cMyb) implicato nella regolazione della produzione di HbF.Kan YW, Golbus MS, Trecartin R. Prenatal diagnosis of homozygous beta-thalas-saemia. Lancet 1975;2:790-1.Illustrazione del primo caso di diagnosi prenatale di β-thalassemia tramite analisi del sangue fetale.Kanavakis E, Traeger-Synodinos J. Preimplantation genetic diagnosis in clinical practice. J Med Genet 2002;39:6-11.Descrizione di una casistica di diagnosi preimpianto di β-thalassemia.La Nasa G, Argiolu F, Giardini C, et al. Unrelated bone marrow transplantation for

beta-thalassemia patients. The experience of the Italian Bone Marrow Transplant Group. Ann N Y Acad Sci 2005;1054:186-95.* Illustrazione di una casistica di β-thalassemia major trattata con trapianto di midollo da donatore HLA identico non familiare.Lai MI, Jiang J, Silver N, et al. Alpha-haemoglobin stabilising protein is a quan-titative trait gene that modifies the phenotype of beta-thalassaemia. Br J Hae-matol 2006;133:675-82.Descrizione dell’effetto modificatore del fenotipo β-thalassemico da parte della proteina stabilizzando le catene α-globiniche.Maggio A. Light and shadows in the iron chelation treatment of haematological diseases. Br J Haematol 2007;138:407-21.** Rassegna sintetica sui farmaci ferro-chelanti.Neufeld EJ. Oral chelators deferasirox and deferiprone for transfusional iron over-load in thalassemia major: new data, new questions. Blood 2006;107:3436-41.** Rassegna sintetica sui farmaci ferro-chelanti somministrabili per os.Olivieri N, Weatherall DJ. Clinical aspects of β-thalassemia. In: Steinberg MH, Forget BG, Higgs DR, Nagel RL, eds. Disorders of hemoglobin, genetics, patho-physiology, and clinical management. Cambridge University 2001, p. 277-341.** Rassegna sintetica sugli aspetti clinici della β-thalassemia.Origa R, Galanello R, Ganz T, et al. Liver iron concentrations and urinary hepcidin in beta-thalassemia. Haematologica 2007;92:583-8.* Illustrazione del ruolo nel controllo del ricambio di ferro della epcidina nella β-thalassemia.Quek L, Thein SL. Molecular therapies in beta-thalassaemia. Br J Haematol 2007;136:353-65.** Rassena critica sulle prospettive di terapia nella β-thalassemia.Rivella S, May C, Chadburn A, et al. A novel murine model of Cooley anemia and its rescue by lentiviral-mediated human beta-globin gene transfer. Blood 2003;101:2932-9.Descrizione degli effetti della terapia genica con vettori lentivirali in un modello murino di β-thalassemia.Rosatelli C, Falchi AM, Tuveri T, et al. Prenatal diagnosis of beta-thalassaemia with the synthetic-oligomer technique. Lancet 1985;1:241-3.* La prima casistica di diagnosi prenatale eseguita con amplificazione del DNA.Rosatelli MC, Dozy A, Faà V, et al. Molecular characterization of beta-thalassemia in the Sardinian population. Am J Hum Genet 1992;50:422-6.Genetica molecolare della β-thalassemia nella popolazione sarda.Rund D, Rachmilewitz E. Beta-thalassemia. N Engl J Med 2005;353:1135-46.** Rassegna sintetica sulla genetica molecolare, patogenesi, clinica e terapia della β-thalassemia.Takahashi K, Tanabe K, Ohnuki M, et al. Induction of pluripotent stem cells from adult human fibroblasts by defined factors. Cell 2007;131:861-72.** Scoperta della possibilità di trasformare un fibroblasto in cellula staminale tramite transfezione con 4 fattori di trascrizione.Thein SL, Menzel S, Peng X, et al. Intergenic variants of HBS1L-MYB are respon-sible for a major quantitative trait locus on chromosome 6q23 influencing fetal hemoglobin levels in adults. PNAS 2007;104:11346-51.Descrizione di varianti geniche in 6q23 influenzanti i livelli di Hb fetale.Uda M, Galanello R, Sanna S, et al. Genomic-wide association study shows BCL11A associated with persistent fetal hemoglobin and amelioration of the phenotype of β-thalassemia. PNAS 2008;125:1620-5.Viprakasit V, Gibbons RJ, Broughton BC, et al. Mutations in the general transcrip-tion factor TFIIH result in beta-thalassaemia in individuals with trichothiodystro-phy. Hum Mol Genet 2001;10:2797-802.* Descrizione di un caso di thalassemia associato a tricotiodistrofia e dovuto a mutazione del fattore di trascrizione generali TFIIII.Wanless IR, Sweeney G, Dhillon AP, et al. Lack of progressive hepatic fibrosis during long-term therapy with deferiprone in subjects with transfusion-depend-ent beta-thalassemia. Blood 2002;100:1566-9.Dimostrazione che il deferiprone non causa fibrosi epatica.

prof. Antonio Cao, Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), via Jenner s/n, 09121 Cagliari • Tel. +39 070 503341 • Fax +39 070 6095524 • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Trauma cranico minore

Liviana Da Dalt, Barbara AndreolaDipartimento di Pediatria, Università di Padova

Il trauma cranico continua ad essere un problema di salute impor-tante nell’età evolutiva e, nonostante le numerose strategie messe a punto per ridurne l’incidenza, esso tuttora costituisce una delle più comuni cause di accesso al Pronto Soccorso e la prima causa di morte e di disabilità dopo il primo anno di vita. Di fatto, nella maggior parte dei numerosi bambini che nella realtà del nostro Paese vengono portati all’osservazione dopo un trauma cranico (si stima 300.000 per anno), il trauma si risolve senza con-seguenze; è stato calcolato infatti che complessivamente solo 5 bambini ogni 1000 sviluppano una lesione intracranica, con valori più elevati (19,2/1000) nella fascia di età superiore a10 anni, in re-lazione alle dinamiche più severe degli eventi accidentali in questa fascia di età (Da Dalt et al., 2006).

Tale basso rischio di lesione è conseguenza del fatto che in oltre il 90% dei casi la presentazione clinica all’arrivo in Pronto Soccorso è quella di un trauma cranico minore. Tale definizione si applica ai bambini che, alla prima valutazione obiettiva, presentano: norma-le stato di coscienza, assenza di anomalie neurologiche o di segni neurologici focali, assenza di evidenti segni clinici di frattura della base o di frattura complicata della volta, e che possono aver pre-sentato o meno, nel periodo immediatamente successivo al trauma, perdita di coscienza o letargia transitorie, o vomito o cefalea o breve convulsione (AAP, 1999). Identificare rapidamente, tra questi molti bambini, quelli veramente a rischio di lesione costituisce la sfida più importante per il medico che accoglie il bambino in Pronto Soccorso; è questa la ragione per cui la gran parte della letteratura relativa al

RiassuntoIl trauma cranico è uno dei più comuni eventi accidentali dell’età pediatrica. La maggior parte dei bambini giungono all’osservazione con trauma cranico minore il cui quadro clinico per lo più si risolve spontaneamente, anche se una piccola percentuale di essi può sviluppare una lesione intracranica. Obiettivo della condotta medica è pertanto individuare rapidamente i bambini con lesione, razionaliz-zando il ricorso alla diagnostica per immagini nei bambini in cui tale rischio è molto basso. La letteratura relativa all’approccio al bambino con trauma cranico minore è molto controversa e non vi è accordo su quali siano i parametri clinici che, da soli o in associazione, meglio predicono la presenza di lesione, specialmente nei più piccoli.Per molti anni gli studi condotti a tale proposito sono stati retrospettivi, caratterizzati da piccole casi-stiche, ed hanno raggiunto risultati spesso discordanti. Più recentemente una metanalisi e una serie di studi prospettici caratterizzati da casistiche particolarmente numerose hanno concluso che nel bambino con trauma cranico minore presenza di frattura, perdita di coscienza, amnesia, GCS < 15, convulsione sono i principali predittori di lesione intracranica; controverso è invece ancora la predittività di sintomi molto comuni quali il vomito e la cefalea.Infine nella letteratura degli ultimi anni sta emergendo con sempre maggiore evidenza l’esigenza, nel-la gestione del trauma cranico, di avere a disposizione dei marcatori biochimici sierologici di danno cerebrale che affianchino e completino le informazioni fornite dalla valutazione clinica e dalle indagini neuroradiologiche. L’attenzione si è concentrata in particolar modo su tre mediatori: la proteina S-100B, la enolasi neurono-specifica e la proteina basica della mielina, pur con risultati non ancora conclusivi.

SummaryHead trauma occurs commonly in childhood. Most head injury in children is mild and not associated with brain injury or long-term sequelae. However, a small number of children who appear to be at low risk may have an intracranial injury. The goal of evaluation of children with mild head trauma is to identify those with traumatic brain injury (TBI) and prevent deterioration and secondary injury, while limiting unnecessary radiographic proce-dures. Imaging, usually with computed tomography (CT), is highly sensitive for identifying brain injury requiring acute intervention. However, clinical predictors for intracranial injury are often not specific, particularly in young children. Many studied have been performed to attempt identification of clinical features, such as symptoms or signs related to head injury, which might predict intracranial injury in children. For many years most were small, retrospective series with very controversial results. Recently, a meta-analysis and a series of large prospective studies produced increasing evidence that the presence of skull fracture, loss of consciousness, amnesia, GCS < 15, seizures are the main predictors of intracranial injury, whereas the predicting values of vomiting and headache is still controversial.More recently, researchers and clinicians have focused on specific markers of brain cell damage to improve the diagnosis and monitoring of neurological insults: serum S-100B protein, Neuron-Specific Enolase, Myelin-Basic Protein.

Liviana Da Dalt è nata a Vittorio Veneto (TV) il 23 Dicembre 1952. È Professore Associato di Pediatria del-l’Università di Padova e Responsabile dei Reparti Pronto Soccorso Pediatri-co – Pediatria d’Urgenza del Dipar-timento di Pediatria di Padova. Nello stesso Dipartimento copre il ruolo di Coordinatore delle Attività Didattiche. I suoi ambiti principali di interesse sono l’urgenza pediatrica e la for-mazione post-laurea. È Co-direttore di Prospettive in Pediatria dal 2005. È sposata, ha una figlia di 19 anni. Ama le buone letture, la musica e il cinema.

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 46-51

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Trauma cranico minore

trauma cranico minore è rivolta ad individuare i parametri clinici più predittivi di danno intracranico, nonché a capire l’utilità degli esami strumentali nel percorso decisionale.

Che cosa si sapeva

Negli anni ’70 l’attenzione della ricerca clinica era prevalentemente tesa a valutare il significato della presenza di frattura, e quindi il ruolo della radiografia del cranio nel predire una lesione intracrani-ca. Ne derivò una letteratura molto ricca di lavori ma molto contro-versa nei risultati; se da un lato infatti la presenza di frattura indica che una forza significativa è stata applicata alla volta cranica, e ciò aumenta la probabilità di lesione, di fatto molti Autori dimostraro-no come molte fratture non si associno a lesione e d’altro canto come lesioni intracraniche avvengano in assenza di frattura. Ci si è andati quindi progressivamente spostando da una situazione in cui la radiografia del cranio era esame routinario nell’approccio al bambino con trauma cranico minore ad una in cui a tale esame veniva riservato un ruolo molto limitato, privilegiando invece molto l’osservazione clinica.Alla fine degli anni ’70 la TAC cerebrale ha cambiato l’approccio al bambino con trauma cranico e tale esame è tuttora considerato il gold standard, in urgenza, per la diagnosi di lesione intracranica di natura traumatica. La TAC cerebrale non è però proponibile su larga scala considerati i costi ed i possibili effetti negativi legati all’esposizione radiante, a cui il bambino è più sensibile rispetto all’adulto (Brenner et al., 2002), nonché alla frequente necessità di sedazione. L’individuazione di predittori clinici di lesione, sulla base dei quali selezionare i bambini da sottoporre a TAC cerebrale, è diventata pertanto oggetto di numerosi studi, ma fino ai primi anni del nuovo millennio questi sono stati prevalentemente os-servazionali e retrospettivi, con risultati contrastanti e con scarse evidenze forti sulle quali basare precise raccomandazioni per la pratica clinica. Una revisione sul tema è stata oggetto di un nostro lavoro pubblicato in Prospettive in Pediatria nel 2003 (Da Dalt et al., 2003)

Modalità della revisione

Per il presente lavoro la ricerca bibliografica principale è stata con-dotta in banche dati di linee guida (SIGN, CMA infobase, National Guidelines Clearinghouse, New Zeland Guidelines Group), in data-base generici (Tripdatabase), in PubMed consultando la banca dati Medline. Le stringhe di ricerca utilizzate sono state: 1) “Craniocere-bral trauma” (MESH); 2) “Minor head trauma” (Text) OR “Mild Head trauma” (Text) OR “Minor Head injury” (Text) OR “Mild Head injury” (Text). Sono stati applicati limiti inerenti l’età della popolazione (all child: 0-18 years), la data di pubblicazione degli articoli (publication date from 2003 to 2008), la lingua (English language). Fra i “pu-blication types” si è riusciti ad individuare, molto di più rispetto al passato, lavori con buoni livelli di evidenza quali review sistema-tiche, metanalisi, trial randomizzati controllati, studi osservazionali prospettici con grandissima numerosità del campione studiato.Una ricerca aggiuntiva ha riguardato i marcatori biochimici di danno tissutale nel trauma cranico; la stringa di ricerca utilizzata è stata la seguente: “S-100B” OR “S-100b protein” OR “S100 beta” OR “NSE” OR “Neuron Specific Enolase” OR “Myelin Basic Protein, AND “Head Trauma” OR “Head Injury” OR “Craniocerebral Trauma”, selezionan-do i limiti sopra riportati. Gli articoli relativi all’età pediatrica sono essenzialmente risultato di studi osservazionali.

Le conoscenze degli ultimi anni

L’anno 2004 segna un momento importante nella storia della let-teratura relativa al trauma cranico. Per la prima volta infatti viene pubblicato un lavoro di metanalisi teso a valutare i predittori di lesio-ne intracranica a partire da una letteratura molto controversa, fatta di oltre 2000 studi di cui solo 16 includibili perché metodologica-mente corretti. Le conclusioni degli Autori sono che dei più comuni segni e sintomi che un bambino può presentare dopo un trauma, solo la perdita di coscienza, il Glasgow Coma Scale < 15, i segni neurologici focali, la frattura della volta sono predittori dello sviluppo di lesione, con una significatività ai limiti evidenziata anche per le convulsioni (Dunning et al., 2004). Nessuna associazione significa-tiva viene invece evidenziata tra lesione intracranica e presenza di cefalea o vomito, sintomi peraltro molto frequenti dopo un trauma cranico minore ma la cui predittività sullo sviluppo di lesione, per lo meno come sintomi isolati, rimane di fatto ancora controversa. E relativamente al vomito meritano menzione i lavori che dimostrano come tale sintomo sembri correlato non tanto alla presenza di lesio-ne quanto ad una predisposizione del bambino a vomitare, espressa come storia personale e familiare di disturbi ciclici (cinetosi, vomito ciclico, cefalea) (Da Dalt et al., 2007; Jan et al., 1997), Ancora, a partire dal 2003, è stata pubblicata una serie di lavori, tutti prospettici e con casistiche molto ampie (elemento questo fon-damentale per studiare un evento molto poco frequente come la lesione intracranica), volti a valutare la predittività sullo sviluppo di lesione non di singoli dati clinici ma di una combinazione di essi, al fine di mettere a punto strumenti di valutazione e decisionali il più possibile sensibili. Sfortunatamente questi studi sono tra di loro diffi-cilmente comparabili per i diversi criteri di inclusione e di essi alcuni includono anche bambini con trauma cranico maggiore. I risultati più significativi sono riassunti in Tabella I (Palchack et al., 2003; Oman et al., 2006; Dunning et al., 2006).Lo studio di Paltchack (Paltchack et al., 2003), è uno studio prospet-tico osservazionale, pubblicato pochi mesi prima della metanalisi di Dunning, che valuta 2043 bambini (età inferiore ai 18 anni) con trauma cranico minore, di cui 1271 sottoposti a TAC cerebrale, tutti seguiti con follow-up per escludere lesioni tardive, 98 con lesione intracranica. I predittori più forti risultano essere la depressione dello stato di coscienza, i segni neurologici focali, l’ematoma dello scalpo in bambini < 2 anni di età, la perdita di coscienza, le convulsioni; in minor misura la cefalea ed il vomito. La presenza di almeno uno di tali segni clinici identifica il 99% dei bambini con lesione intracrani-ca (95% CI 94%-100%) ed il 100% di quelli con lesione intracranica che richiede intervento (95% CI 97%-100%). La loro assenza, d’altro canto, permette invece di identificare i bambini a basso rischio.Il lavoro condotto da Oman (Oman et al., 2006) analizza una coorte di 1066 bambini di età inferiore ai 18 anni, di cui 309 della fascia 0-3 anni, ricavata da uno studio prospettico multicentrico osservazio-nale (National Emergency X-Radiography Utilization Study II: NEXUS II) che ha coinvolto 13.728 pazienti adulti con trauma cranico, tutti sottoposti a TAC cerebrale. Lo scopo degli Autori è di valutare, per l’età pediatrica, l’accuratezza di un “decision instrument” compo-sto da sette variabili: deficit neurologici, alterato livello di coscienza, comportamenti anomali, vomito persistente, segni di frattura com-plicata, ematoma dello scalpo, difetti della coagulazione. La sensibi-lità di tale strumento risulta ottimale, pari al 98.6% nella popolazione pediatrica generale, e ben al 100% nella fascia di età 0-3 anni; la specificità, ovviamente, risulta particolarmente bassa, rispettiva-mente pari al 15,1% ed al 5,3%. Lo studio multicentrico prospettico condotto da Dunning nel 2006,

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L. Da Dalt, B. Andreola

studio CHALICE, (Dunning et al., 2006),è il più ampio relativo alla sola popolazione pediatrica, con l’inclusione di ben 22.772 bambini visti in 10 diversi Pronto Soccorsi, di età 0-16 anni, 281 (1,2%) con anomalie alla TAC cerebrale, 137 sottoposti ad intervento chirurgico e 15 deceduti. Il modello predittivo è basato sulla presenza di alme-no uno fra i seguenti segni: perdita di coscienza, sonnolenza, vomito, convulsione, depressione dello stato di coscienza, segni neurologici, segni di frattura complessa, edema dello scalpo nel bambino < 1 anno, sospetto maltrattamento, dinamica di impatto ad alta energia. Tale modello presenta una sensibilità pari al 98% nel predire lesioni clinicamente significative, mentre la specificità risulta pari all’87%. Anche la Pediatria d’Urgenza italiana ha fornito un contributo su questo tema conducendo uno studio prospettico osservazionale multicentrico (Padova, Trieste, Udine, Modena, Firenze) che ha coin-volto 3806 bambini di età inferiore ai 14 anni, 22 (0,6%) con lesione intracranica (Da Dalt et al., 2006). I predittori di lesione intracranica sono risultati sostanzialmente in linea con la restante letteratura: depressione dello stato di coscienza, segni neurologici focali, segni di frattura cranica, perdita di coscienza, convulsioni. Dividendo però i bambini in 5 gruppi arbitrari, ma definiti sulla base delle più comuni presentazioni cliniche, è risultato che il rischio di lesione aumen-ta con l’intensificarsi della sintomatologia: tale rischio risulta pari all’1% se vi sono stati perdita di coscienza, sonnolenza, amnesia, cefalea molto intensa prolungata, al 3% se vi sono segni di frattura, al 20% se vi sono segni neurologici focali, alterazione persistente dello stato di coscienza, segni di frattura della base. Nessuna lesione è stata però evidenziata nei bambini che presentavano come unico sintomo il vomito o la cefalea, ma anche un’istantanea perdita di coscienza (spesso più assimilabile ad un fatto sincopale che a un vero disturbo neurologico) o una brevissima convulsione.Ciò in linea con altri due studi recenti nei quali la predittività sullo sviluppo di lesione intracranica di una perdita di coscienza breve e di convulsioni immediate viene molto ridimensionata (Palchak et al., 2004; Holmes et al., 2004), a dimostrazione di quanto complessa sia ancora la letteratura su questo tema.Come già detto, il confronto dei diversi lavori risulta difficoltoso per i diversi parametri clinici considerati e per i diversi criteri di inclu-

sione dei pazienti utilizzati, alcuni comprendenti anche bambini con traumi severi. Inoltre, come gli stessi ed altri Autori dichiarano, tutti questi modelli necessitano ancora di validazione (Schnadower et al., 2008). Ciononostante, da un tentativo di sintesi dei dati disponibili, emerge come sempre più consistenti siano le evidenze che indicano che segni neurologici focali (peraltro, per definizione, sempre as-senti quando il trauma viene definito minore), alterazione dello stato di coscienza, segni di frattura, in particolare ematoma dello scalpo nei bambini di età inferiore ai 2 anni, perdita di coscienza/amnesia convulsioni, sono i predittori più importanti di lesione e sono quindi da considerarsi indicazioni all’esecuzione di una TAC cerebrale in urgenza.Ma una scelta alternativa per i bambini in cui vi è l’indicazione alla TAC cerebrale può essere quella di allungare i tempi di osservazione sino a 24-48 ore dal trauma, rimandando l’esecuzione dell’esame neuroradiologico solo in caso di un peggioramento clinico, con net-to risparmio quindi nell’esposizione radiante. A questo proposito va però ricordato che non esistono al momento in letteratura, per l’età pediatrica, studi definitivi che comparino efficacia ed efficienza di questi due diversi comportamenti clinici. L’unico studio di compara-zione sino ad ora pubblicato, condotto in maniera prospettica rando-mizzata (TAC precoce e dimissione in caso di negatività vs ricovero per osservazione) su un campione di 2602 pazienti di età superiore a 6 anni con trauma cranico minore ha dato risultati sovrapponibili misurati come esito a tre mesi (guarigione, eventuali complicanze) e soddisfazione dei pazienti, e con una riduzione dei costi per l’utilizzo della TAC rispetto al ricovero (Geijerstam et al., 2006; Norlund et al., 2006). Tali lavori sono stati oggetto di due editoriali pubblicati sul BMJ (Marcovitch, 2006) e sul Journal of Paediatrics (Garton., 2007), le cui conclusioni, assolutamente condivisibili, sono che i risultati non sono al momento estendibili all’età pediatrica perché la casistica comprendeva solo bambini di età > 6 anni, e soprattutto perché tra le variabili di outcome non è stato incluso l’impatto radiante, molto più importante per l’età evolutiva rispetto all’adulto. Vale ancora pertanto ciò che da molti anni la maggior parte delle linee guida sottolinea e cioè che, di fronte al singolo bambino, ogni

Tabella I. Modelli clinici predittivi di lesione intracranica (adattata da Schnadower et al., 2007).

Autore Dimensioni campione (N)

Criteri inclusione Outcomes Modelli clinici predittivi Sensibilità Specificità

Oman, 2006 138/1666(Outcome/N)

Bambini <18 aa. con TC minore che abbiano eseguito TAC cerebrale

Lesioni intracraniche cli-nicamente rilevanti (non incluse tutte le lesioni evidenziate alla TC)

Frattura cranica, alterazione sta-to di coscienza, deficit neurologi-co, vomito persistente, ematoma dello scalpo, comportamento anomalo, coagulopatia

98,6%(95-99,8%)

15%(13-17%)

Palchak, 2003 N = 20431271 eseguono TAC cerebrale

Bambini <18 aa. con TC minore

- Lesione intracranica che richiede intervento d’ur-genza (105/2043 pz.)- Qualsiasi lesione intracra-nica alla TC (98/1271 pz.)

Frattura cranica, alterazione sta-to di coscienza, vomito, emato-ma dello scalpo in bambini < 2 aa., cefalea

100%(97-100%)

99%(94-100%)

43%(41-45%)

26%(23-28%)

Dunning, 2006 281/22.272(Outcome/N)

Bambini < 16 aa. con TC di qualsiasi severità

Lesioni intracraniche cli-nicamente significative (decesso, necessità di intervento neurochirur-gico, anormalità alla TC); solo 766 pz (3,3%) ese-guono TC

Perdita di coscienza, sonnolenza, vomito, convulsione, depressio-ne dello stato di coscienza, se-gni neurologici, segni di frattura complessa, edema dello scalpo nel bambino < 1 anno, sospetto maltrattamento, dinamica di im-patto ad alta energia

98,6%(96-99,6%)

87%(86,5-87,4%)

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Trauma cranico minore

medico sarà chiamato a scegliere l’atteggiamento più appropriato in rapporto alla specifica situazione clinica e alle risorse disponibili (Schutzmann et al., 2001).

Prospettive future: i marcatori biochimici Il dosaggio di mediatori biochimici come marcatori di danno d’orga-no viene da molto tempo utilizzato nella pratica clinica, basti pansare alla troponina I e al CPK-MB per l’identificazione del danno miocar-dico o alle transaminasi per il danno epatico. Questo purtroppo non è ancora possibile per il Sistema Nervoso Centrale, ragionevolmente perchè la sua struttura complessa comprende compagini cellulari profondamente diverse tra loro e che rispondono, quindi, con mo-dalità molto differenti per entità e tipo all’azione di agenti lesivi e perchè la presenza della barriera emato-encefalica, proprio per le sue funzioni, limita la quantità e la tipologia dei mediatori biochimici che, una volta rilasciati dal sistema nervoso centrale possono rag-giungere il torrente ematico (Berger et al., 2006).D’altra parte l’analisi della letteratura dimostra come, negli ultimi anni, stia emergendo con sempre maggiore evidenza l’esigenza, nella gestione del trauma cranico, di avere a disposizione dei mar-catori che affianchino e completino le informazioni fornite dalla va-lutazione clinica e dalle indagini neuroradiologiche. La ricerca di marcatori che possano fornire questo tipo di informa-zioni è iniziata fino dalla fine degli anni ’70 (Thomas et al., 1978), e nel corso degli anni successivi si è concentrata in particolar modo su tre mediatori: la proteina S-100b, la Enolasi Neurono-Specifica (Neuron-Specific Enolase, NSE) e la Proteina Basica della Mielina (Myelin-Basic Protein, MBP). Queste tre proteine si differenziano per le caratteristiche biochimiche, per la loro cinetica plasmatica e per il fatto di essere espresse in diverse componenti del sistema nervoso centrale, e quindi di rappresentare, con la loro comparsa in circolo, la presenza di lesioni a carico delle diverse strutture cerebrali (Tab. II).La enolasi neurono-specifica (NSE) è un enzima glicolitico di 78 kDa che è espresso dai neuroni e la cui funzione sembra essere quella di favorire l’afflusso di ioni cloro durante la fase di attivazione neu-ronale. Essa ha il significato di esprimere direttamente il danno a carico delle cellule funzionali del sistema nervoso centrale, cioè dei neuroni. Numerosi studi negli adulti hanno fornito risultati contrastanti rispet-to alla associazione dei livelli plasmatici di NSE dopo trauma cranico e il Glasgow Coma Score (GCS) iniziale, la presenza di lesioni intra-craniche dimostrabili alla TAC e l’outcome neurologico. Ciò è stato attribuito alla sensibilità non ottimale di questo marcatore dovuta alla sua lunga emivita plasmatica che ostacola la valutazione del-l’entità del danno cerebrale iniziale per l’effetto confondente legato all’insorgenza di lesioni secondarie. Inoltre, il suo dosaggio può es-

sere sovrastimato in caso di emolisi del campione (Ingebrigsten et al., 2002).La proteina S-100b fa parte di un gruppo di circa 20 proteine a bas-so peso molecolare (9-13 kDa) con sequenza aminoacidica omologa che legano il calcio. È codificata da un gene presente sul cromoso-ma 21 e svolge funzioni sia intracellulari, di trasduzione di segnali e di regolazione della morfologia cellulare, sia extracellulari, di neu-roprotezione a basse concentrazioni e di mediazione dell’apoptosi neuronale ad alte concentrazioni. Essa è espressa elettivamente da-gli astrociti, e per questo è considerata un marker di lesione a carico della glia (Korfias et al., 2006).Negli studi dell’adulto, i livelli plasmatici della proteina S-100b, che aumentano rapidamente dopo trauma cranico, sono risultati asso-ciati, nel trauma cranico minore, alla presenza di lesioni intracra-niche rilevate con metodiche neuroradiologiche e alla insorgenza di sintomi post-concussione e, nel caso di trauma cranico severo, alla severità del trauma, allo stato di coscienza iniziale (GCS), alla presenza e all’estensione neuroradiologica della lesione intracra-nica (volume della contusione, presenza di ematoma sottodurale, presenza di emorragia subaracnoidea), all’outcome neurologico a 6 mesi e alla mortalità. Livelli plasmatici elevati della proteina sono stati evidenziati anche in corso di altre patologie a carico del siste-ma nervoso centrale (infezioni, neoplasie, sclerosi multipla …), negli affetti da sindrome di Down e in presenza di traumi extracerebrali severe, soprattutto addominali e toracici (Korfias, 2006).La Proteina Basica della Mielina è una proteina di 18 kDa espressa dagli oligodendrociti ed è una delle due più abbondanti proteine del-la mielina del sistema nervoso centrale. La sua caratteristica princi-pale come marcatore è quella di essere rilasciata più tardivamente rispetto agli altri due e di rimanere dosabile in circolo per un periodo più lungo, fino a due settimane, consentendo così l’individuazione di lesioni intracraniche a maggiore distanza di tempo dal trauma come, ad esempio, nel caso di emorragie sottodurali subacute o croniche in bambini paucisinomatici (Berger et al., 2006).Nell’adulto, livelli plasmatici più elevati di MBP sono risultati asso-ciati ad un peggior outcome neurologico dopo trauma cranico seve-ro (Ingebrigsten et al., 2002).In età pediatrica lo studio di questi marcatori in relazione al trauma cranico è stato eseguito in studi di tipo trasversale o prospettico. I due studi più numerosi sono quelli di Berger del 2005 (Berger et al., 2005) e di Spinella (Spinella et al., 2003).Nel suo studio del 2005, Berger e coll. hanno dosato i livelli plasma-tici di tutti 3 i marcatori in un gruppo numeroso (100) di bambini con trauma cranico accidentale o provocato di diversa severità, stabilita in base alla compromissione dello stato di coscienza all’ingresso, e li hanno confrontati con quelli di 64 bambini senza trauma cranico. I dosaggi plasmatici iniziali di S-100B e di NSE sono risultati signi-ficativamente maggiori nei bambini con trauma cranico rispetto ai

Tabella II. I principali marcatori biochimici nel trauma cranico (adattata da Berger et al., 2006).

Marcatori biochimici Sedi di espressione Tempo di comparsa in circolo dopo trauma cranico

Emivita plasmatica

NSE Neuroni, sistema neuroendocrino periferico, piastrine, globuli rossi

6 ore 24 ore

S-100b Astrociti, midollo osseo, adipociti, condrociti, miociti

immediato 60-120 minuti

MBP Mielina (oligodendroglia) 48-72 ore 12 ore

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L. Da Dalt, B. Andreola

controlli, anche se non sono state dimostrate associazioni con il Gla-sgow Coma Score iniziale. I livelli plasmatici di picco della MSB sono risultati più elevati solo nei bambini con emorragie intracraniche. Il risultato più interessante di questo studio è che esso apre la pro-spettiva sulla possibilità di identificare, combinando i tre marcatori, i bambini con trauma cranico provocato, anche in assenza di dati anamnestici. Infatti, combinando i valori cut-off di NSE e S-100B (pari a 11,36 e 0,017 ng/ml rispettivamente, area sotto la curva di 0,87 con 80% sensibilità e 73% specificità) con il valore di picco della proteina basica della mielina, sarebbe stato possibile identifi-care l’86% dei bambini con trauma cranico provocato.Lo studio di Spinella (Spinella et al., 2003) invece ha voluto valutare, in bambini con trauma cranico e lesioni intracraniche documentate alla TAC o alla RMN, la correlazione tra i livelli plasmatici di proteina S-100B e l’outcome neurologico (valutato mediante il punteggio Pe-diatric Cerebral Performance Score) alla dimissione e a distanza di 6 mesi. Nei 27 bambini reclutati, livelli maggiori di S-100B nelle prime 12 ore dopo il trauma sono risultati significativamente associati a un punteggi peggiori nella valutazione neurologica alla dimissione e a distanza di 6 mesi (per quest’ultimo, S-100B 4,2 µg /L vs. 0,77 µg /L, p < 0,001). Inoltre, valori maggiori o uguali a 2 µg/L sono risultati predittivi di outcome neurologico sfavorevole con una sensibilità del 86% e una specificità del 95%.

Tale correlazione dei livelli di S-100B con la prognosi neurologica a lungo termine è stata confermata in un successivo studio del-la Berger (Berger et al., 2006), eseguito su bambini con trauma cranico severo non accidentale e ipossia severa, in cui, tra l’altro, sono stati riportati anche i risultati dei primi dosaggi urinari della proteina. La associazione con gli esiti neurologici non ha invece trovato conferma in un recente studio italiano su bambini con trauma cranico di diversa entità; tali risultati, però, sono in parte limitati dalla scarsa numerosità del campione e dalla assenza di un gruppo di controllo (Piazza et al., 2007).In definitiva, l’impiego di marcatori biochimici nella valutazione del trauma cranico in età pediatrica è ancora oggetto di studio, ma ap-pare una prospettiva promettente, in base alle evidenze disponibili, in particolar modo in quanto metodica non invasiva di screening po-tenzialmente in grado di identificare bambini con trauma cranico da maltrattamento, bambini con lesioni intracraniche e con diverso rischio di esiti neurologici a distanza. Verosimilmente, la strada ver-so un più efficace utilizzo di marcatori biochimici nel trauma cranico passerà attraverso l’approfondimento dello studio del dosaggio con-temporaneo di più marcatori con diverse caratteristiche, il confronto con le metodiche neuroradiologiche, ancora poco indagato in età pediatrica, e la validazione dei risultati in gruppi indipendenti di pa-zienti.

Cosa sapevamo negli anni ’70• Controversie sul ruolo dei segni e sintomi nel predire lo sviluppo di lesione intracranica.• Elevato utilizzo della radiografia del cranio.

Cosa sappiamo oggi• Evidenze sempre più consistenti indicano che, nel trauma cranico minore, alterazione dello stato di coscienza, segni di frattura, in particolare ema-

toma dello scalpo nei bambini di età inferiore ai 2 anni, perdita di coscienza/amnesia convulsioni, sono i predittori più importanti di lesione e sono quindi da considerarsi indicazioni all’esecuzione di una TAC cerebrale in urgenza e/o alla prolungata osservazione clinica.

Cosa ci aspettiamo nei prossimi anni• Disporre di marcatori biochimici di danno tissutale che completino le informazioni fornite dalla valutazione clinica nel predire la presenza di danno

intracranico e la sua gravità.

Box di orientamento

Bibliografia1 American Academy of Pediatrics. The management of minor closed head

injury in children. Pediatrics 1999;104:1407-15.2 Berger RP, Adelson PD, Pierce MC, et al. Serum neuron-specific enolase,

S100B, and myelin basic protein concentrations after inflicted and nonin-flicted traumatic brain injury in children. J Neurosurg 2005;103:61-8.

3 Berger RP, Hymel K, Gao WM. The use of biomarkers after inflicted traumatic brain injury: Insight into etiology, pathophysiology, and biochemistry. Clin Pediatr Emerg Med 2006;186:93.

4 Berger RP, Kochanek PM. Urinary S100B concentrations are increased after brain injury in children: A preliminary study. Pediatr Crit Care Med 2006;7:557-61.

5 Brenner DJ. Estimating cancer risk from pediatric CT: going from the quali-tative to the quantitative. Pediatr Radiol 2002;32:228-33.

6 Da Dalt L, Andreola B, Facchin P, et al. Characteristics of children with vomiting after minor head trauma: a case-control study. J Pediatr. 2007;150:274-8.

* Unico studio caso-controllo presente in letteratura relativamente al trauma cranico minore; analizza i predittori di vomito post traumatico evidenziando

l’importanza della storia personale e della familiarità per cefalea e disturbi ciclici.

7 Da Dalt L, Marchi AG, Laudizi L, et al. Predictors of intracranial injuries in children after blunt head trauma. Eur J Ped 2006;165:142-8.

* Studio italiano multicentrico con popolazione esclusivamente pediatrica relativo al solo trauma cranico minore.

8 Da Dalt L, Pagano G, Zangardi T. Approccio al bambino con trauma cranico minore. Prospettive in Pediatria 2003; 33:15-9.

9 Dunning J, Batchelor J, Stratford-Smith P, et al. A meta-analysis of variables that predict significant intracranial injury in minor head trauma. Arch Dis Child 2004;89:653-9.

** Primo lavoro di metanalisi relativo al trauma cranico minore in età pediat-rica; partendo da oltre 2000 lavori ne analizza 16 metodologicamente cor-retti per individuare i parametri clinici più predittivi di lesione intracranica.

10 Dunning J, Daly JP, Lomas JP, et al. Children’s head injury algorith for the prediction of important clinical events study group. Derivation of the chil-dren’s head injury algorithm for the prediction of important clinical events decision rule for head injury in children. Arch Dis Child 2006;91:885-91.

** Studio multicentrico caratterizzato da una ampissima casistica: oltre 22.000

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Trauma cranico minore

bambini valutati in 10 diversi Pronto Soccorsi per trauma cranico di ogni se-verità.

11 Garton H. Immediate CT scan followed by early discharge may be appro-priate management for selected patients with mild head injury. J Pediatr 2007;150:321.

12 Geijerstam JL, Oredsson S, Britton M, for the OCTOPUS Study Investiga-tors. Medical Outcome after computed tomography or admission for obser-vation in patients with mild head injury: randomised controlled trial. BMJ 2006;333:465.

* Studio randomizzato (TAC vs. ricovero per osservazione clinica) volto a valu-tare l’impatto clinico dei due diversi approcci, condotto su un campione di oltre 2500 pazienti di età superiore a 6 anni con trauma cranico minore.

13 Holmes JF, Palchak MJ, Conklin MJ, et al. Do children require hospitalization after immediate posttraumatic seizures? Ann Emerg Med 2004;43:706-10.

14 Ingebrigsten T, Romner B. Biochemical serum markers of traumatic brain injury. J Trauma 2002;52:798-808.

15 Jan MM, Camfield PR, Gordon K, et al. Vomiting after mild head injury is related to migraine. J Pediatr 1997;130:134-37.

16 Korfias S, Stranjalis G, Papadimistriou A, et al. Serum S-100B protein as a biochemical marker of brain injury: A review of current concepts. Curr Med Chem 2006;13:3719-31.

17 Marcovitch H. Managing minor head injury in children. BMJ 2006;333:455-6.18 Norlund A, Marke LA, Geijerstam JL, et al. for the OCTOPUS Study. Imme-

diate computed tomography or admission for observation after mild head injury: cost comparison in randomised controlled trial. BMJ 2006;333:469.

* Studio randomizzato (TAC vs. ricovero per osservazione clinica) volto a valu-tare i costi dei due diversi approcci, condotto su un campione di oltre 2500 pazienti di età superiore a 6 anni con trauma cranico minore.

18 Oman JA, Cooper RJ, Holmes JF, et al. for the NEXUS II Investigators. Per-

formance of a decision rule to predict need for computer tomography among children with blunt head trauma. Pediatrics 2006;117:e238-46.

* Studio prospettico su una coorte esclusivamente pediatrica, ricavata da uno studio prospettico multicentrico osservazionale (National Emergency X-Radiography Utilization Study II: NEXUS II) relativo a pazienti con trauma cranico che abbiano eseguito la TAC cerebrale.

18 Palchak MJ, Holmes JF, Vance CW, et al. Does an isolated history of loss of consciousness or amnesia predict brain injuries in children after blunt head trauma? Pediatrics 2004;113:e507-13.

18 Palchak MJ, Holmes JF, Vance CW, et al. A decision rule for identifying chil-dren at low risk for brain injures after blunt head trauma. Ann Em Med 2003;42:492-506.

* Studio prospettico con casistica molto ampia, esclusivamente pediatrica, metodologicamente ben condotto.

19 Piazza O, Storti MP, Cotena S, et al. S100B is not a reliable prognostic index in paediatric TBI. Pediatr Neurosurg 2007;43:258-64.

20 Schnadower D, Vasquez H, Lee J, et al. Controversies in the evaluation and management of minor blunt head trauma in children. Current Opinion in Pediatrics 2007;19:258-64.

* Interessante, recente e ben documentata revisione sulle “domande ancora aperte” relative all’approccio al bambino con trauma cranico minore.

21 Schutzmann SA, Barnes P, Duhaime AC, et al. Evaluation and management of children younger than two years old with apparently minor head trauma: proposed guidelines. Pediatrics 2001;107:983-93.

20 Spinella PC, Dominguez T, Drott HR, et al. S-100beta protein–serum levels in healthy children and its association with outcome in pediatric traumatic brain injury. Crit Care Med 2003;31:939-45.

22 Thomas DG, Palfreyman JW, Ratcliffe JG. Serum myelin-basic protein assay in diagnosis and prognosis of patients with head injury. Lancet 1978;1:113-5.

prof.ssa Liviana Da Dalt, Dipartimento di Pediatria “Salus Pueri”, Università di Padova, via Giustiniani 3, 35128 Padova • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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L’artrite idiopatica giovanile

Alberto MartiniPediatria II, Istituto “G. Gaslini”, Dipartimento di Pediatria, Università di Genova

L’artrite idiopatica giovanile (AIG) (Ravelli e Martini, 2007) non co-stituisce una malattia ma una diagnosi di esclusione che si applica a tutte le artriti persistenti e di causa sconosciuta che insorgono in età pediatrica (Tab. I). Comprende perciò un eterogeneo gruppo di artriti croniche che, in assenza di conoscenze eziopatogenetiche, si è cercato negli anni di classificare sulla base di criteri clinici nel tentativo di identificare singole entità che potessero rappresentare malattie differenti. Le vari forme di artrite cronica del bambino così definite si sono rivelate assai differenti, per tipo e/o frequenza, da quelle osservate nell’adulto.

L’eziopatogenesiL’eziologia delle varie forme di AIG, come quella delle altre malat-tie reumatiche croniche, è ignota. Si ritiene che l’artrite cronica sia secondaria ad un’abnorme reazione immunitaria che riconosce un’eziologia multifattoriale, è cioè legata sia a fattori ambientali che a fattori genetici (Thomson e Donn, 2002). I risultati di uno studio di genome-wide scan (Thompson et al., 2004) hanno fornito dati in favore dell’ipotesi che la predisposizione genetica sia il risultato

dell’influenza contemporanea di diversi tipi di geni (multigenica) cia-scuno dei quali fornisce un modesto contributo.Molte delle malattie comprese sotto il termine di AIG sono chiara-mente entità tra loro differenti ed è quindi probabile che anche la sottostante eziopatogenesi sia differente. Tuttavia, tutte sono ca-ratterizzate da un processo infiammatorio cronico che si svolge al-l’interno dell’articolazione e che coinvolge la membrana sinoviale. La membrana sinoviale, che è normalmente formata da un sottile strato di cellule, va incontro, analogamente a quanto avviene nel-l’AR dell’adulto, ad un’importante ipertrofia fino a trasformarsi in una struttura villosa (villi sinoviali) che protrude nello spazio arti-colare. Gli strati sinoviali si moltiplicano ed il tessuto sottostante è sede di una neovascolarizzazione e di una massiccia infiltrazione da parte di cellule infiammatorie (linfociti, macrofagi, plasmacellu-le ecc.) con conseguente importante produzione di molecole pro-infiammatorie – TNF, interleuchina-1 (IL-1), interleuchina-6 (IL-6) ecc. – ed attivazione di attività enzimatiche che, con il tempo, possono produrre l’erosione della cartilagine articolare e dell’osso sottocondrale. L’inibizione selettiva delle citochine pro-infiamma-torie ha rappresentato il maggiore progresso degli ultimi anni nel trattamento dell’AIG.

La classificazioneIl primo tentativo di classificare questa eterogenea patologia risale agli anni ’70 dello scorso secolo, quando furono stabiliti per la prima volta i criteri diagnostici. Furono allora elaborate due differenti clas-sificazioni, una in uso negli Stati Uniti ed una in Europa. La presenza di queste due classificazioni, che, simili in molti aspetti, differivano per altri, creò per anni una certa confusione che ha reso necessaria, più di recente, l’elaborazione di una unica, comune classificazione (Petty et al., 2004) che è quella riportata nella Tabella II. In questa

RiassuntoArtrite idiopatica giovanile è un termine che comprende un eterogeneo gruppo di artriti croniche di eziologia sconosciuta e con esordio prima dei 16 anni di vita. Alcune di queste artriti sono tipiche del bambino o sono di osservazione rara nell’adulto. La prognosi è migliorata considerevolmente negli ultimi anni. Il progresso più importante è stato l’introduzione in terapia degli agenti biologici per i pazienti resistenti al methotrexate. I progressi futuri saranno legati ad una migliore comprensione dei meccanismi patogenetici delle singole forme e ad un miglioramento nelle conoscenze del processo infiammatorio con individuazione di nuovi bersagli terapeutici.

SummaryJuvenile idiopathic arthritis is a term which gather together a heterogeneous group of arthritides of un-known aetiology with onset before 16 years of age. Some of these arthritides are typical of childhood or are observed only rarely in adult age. The prognosis has improved considerably in the recent years. The most important new development has been the introduction of biologic medications for the treatment of patients who are resistant to methotrexate. Further insights will be related to a better understanding of the pathogenesis of the various subsets as well as of the mechanisms of the inflammatory process with the identification of new therapeutic targets.

Alberto Martini è nato a Piacenza il 17 Dicembre 1948. Fino al 2001 all’Uni-versità di Pavia è attualmente Ordina-rio di Pediatria a Genova e Direttore della Pediatria II dell’IRCCS G. Gaslini. È autore di oltre 250 lavori su riviste internazionali dedicati alle malattie reumatiche del bambino. Ha fondato e dirige PRINTO (“Pediatric Rheumato-logy International Trial Organization”), vasta rete internazionale il cui scopo è identificare nuove terapie per le ma-lattie reumatiche infantili.Sposato con due figlie. Ama in partico-lare la storia e la storia dell’arte.

Tabella I.Criteri diagnostici dell’artrite idiopatica giovanile.

Viene definita come artrite cronica giovanile ogni artrite che:

• Insorga prima dei 16 anni

• Duri per più di sei settimane*

• Non sia riconducibile ad alcuna altra malattia nota

* Il periodo di 6 settimane è ritenuto sufficiente per escludere le artriti di origine virale che generalmente si risolvono spontaneamente entro poche settimane dall’esordio.

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 52-58

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L’artrite idiopatica giovanile

classificazione il termine artrite idiopatica giovanile ha sostituito il termine artrite reumatoide giovanile (usato nella classificazione americana) e quello di artrite cronica giovanile (impiegato nella clas-sificazione europea).Anche quest’ultima classificazione mantiene i limiti di tutte le classi-ficazioni che si basano su criteri clinici e che sono prive di supporti eziopatogenetici. Anche se richiede ancora validazione e consenso e, come vedremo, è sicuramente migliorabile in alcuni aspetti (Mar-tini, 2003), costituisce un utile strumento per la ricerca scientifica internazionale e rappresenta la base per futuri affinamenti nell’atte-sa che il chiarimento dell’eziopatogenesi delle varie malattie possa permettere una classificazione più appropriata.

Le forme cliniche

Artrite sistemicaÈ definita dalla presenza, accanto all’artrite, sia di una febbre quo-tidiana e persistente che di uno o più dei sintomi seguenti: rash, epatomegalia o splenomegalia, linfoadenomegalia generalizzata, sierositi. L’AIG sistemica è una malattia caratteristica del bambi-no ed è di osservazione occasionale nell’adulto dove è conosciuta come malattia di Still dell’adulto.Si tratta con molta verosimiglianza di una condizione eterogenea come suggerito dalla stessa variabile evoluzione della malattia. Mentre infatti in alcuni pazienti l’artrite è modesta e recede ge-neralmente con il recedere della sintomatologia sistemica, in altri l’interessamento articolare domina il quadro clinico mentre la sin-tomatologia sistemica tende spesso ad attenuarsi fino a scom-parire. La potenziale eterogeneità dell’artrite sistemica è stata di recente ulteriormente avvalorata da sostanziali differenze tra i pa-zienti nella risposta terapeutica ad Anakinra, un inibitore di IL-1 (vedi oltre).La AIG sistemica si differenzia dalle altre forme di AIG non solo per la sintomatologia sistemica ma anche per alcuni peculiari aspetti biologici.Come dimostrato nel corso degli anni ’90 (De Benedetti e Martini, 2005), interleuchina-6 (IL-6) sembra avere un ruolo centrale nella patogenesi della malattia, ipotesi avvalorata di recente dagli ottimi risultati ottenuti in un trial controllato con un anticorpo monoclonale (Tociluzumab) diretto contro il recettore di IL-6 (vedi oltre).Inoltre, circa il 5-8% dei pazienti sviluppa una complicanza mol-to grave ritenuta secondaria ad un improvviso e importante rila-scio di citochine pro-infiammatorie. Questo quadro, denominato

“sindrome da attivazione macrofagica” (Ravelli et al., 2005), si caratterizza per la comparsa di una febbre continua (non quindi intermittente), una diatesi emorragica a tipo coagulazione intra-vascolare disseminata, un marcato aumento delle transaminasi, di altri enzimi e della ferritinemia, una pancitopenia con marcata neutropenia e manifestazioni neurologiche. Questa complicanza, che è una forma di linfoistiocitosi emofagocitica, si può osservare occasionalmente anche in altre malattie reumatiche sistemiche (come il lupus eritematoso sistemico o la malattia di Kawasaki). Le ragioni per cui si manifesti con così elevata frequenza nella AIG sistemica non sono note. Sembra che, come per le altre forme di linfoistiocitosi emofagocitica, sia in gioco un difetto di linfocitotos-sicità, che è stato evidenziato nelle sole fasi acute della malattia (Gromm, 2004), mentre le ricerche di una base genetica non hanno fino ad ora dato risultati positivi.

OligoartriteÈ definita dall’interessamento di 4 o meno articolazioni nel corso dei primi sei mesi di malattia in assenza di criteri che permettano di fare diagnosi di artrite psoriasica o di artrite associata ad entesite, altre due forme di AIG che, come vedremo, danno un interessamento prevalentemente oligoarticolare.La maggior parte dei pazienti che appartengono a questa catego-ria presentano delle caratteristiche cliniche ben definite che pro-babilmente identificano la forma di AIG meglio caratterizzata e più omogenea. Queste caratteristiche sono: una artrite asimmetrica che interessa prevalentemente le grandi articolazioni, un’insorgenza precoce (entro i 6 anni di vita), una marcata maggiore frequenza nel sesso femminile, la frequente positività degli anticorpi anti-nu-cleo (ANA) ed un elevato rischio di sviluppare una iridociclite cronica. Il fatto che questo gruppo di pazienti rappresenti un’entità clinica omogenea è anche testimoniato dalla presenza di un’associazione con alcuni alleli dell’HLA (in particolare HLA-DRB1*08). Questa for-ma di AIG è tipica del bambino e non si osserva nell’adulto.In alcuni pazienti con AIG oligoarticolare l’artrite rimane confinata a 4 o meno articolazioni lungo tutto il decorso della malattia (oligoar-trite persistente) mentre in altri si estende, dopo i primi sei mesi di malattia, ad interessare 5 o più articolazioni (oligoartrite estesa). Sebbene la classificazione ILAR distingua questi due gruppi di pa-zienti nell’ipotesi che possano rappresentare entità cliniche diverse è verosimile che in realtà rappresentino la stessa malattia e che la differenza sia solo nella gravità cioè nell’estensione dell’interes-samento articolare. Infatti, i pazienti ANA-positivi che appartengo-no a queste due categorie hanno caratteristiche molto omogenee per quanto attiene a tutti gli altri aspetti della malattia (asimmetria

Tabella II. Classificazione dell’artrite idiopatica giovanile.

Forma clinica % F/M Età d’esordiopreferenziale

Sistemica 15 F = M Tutte

Oligoarticolare 45 F > > > M < 5 anni

Poliarticolare FR-positiva 3 F > > > M > 8 anni

Poliarticolare FR-negativa 12 F > M Tutte

Artrite associata ad entesite 7 M > > F > 8 anni

Artrite psoriasica 3 F > M < 5 anni

Artrite indifferenziata 15

F = femmine; M = maschi; FR = fattore reumatoide

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A. Martini

dell’artrite, precoce età di esordio, prevalenza del sesso femminile, incidenza dell’iridociclite cronica, associazioni HLA) (Ravelli et al., 2005).La prognosi è generalmente buona. Nelle forme con oligoartrite per-sistente la malattia spesso con il tempo si spegne senza lasciare, se correttamente trattata, reliquati articolari importanti. Nelle forme con oligoartrite estesa vi è un maggior rischio di esiti a distanza.Il fatto che la stessa malattia possa avere evoluzioni di severità dif-ferente fornisce un utile modello per lo studio dei fattori che influen-zano non la patogenesi ma la gravità della malattia. Alcune ricerche hanno per esempio osservato nel liquido sinoviale un rapporto tra linfociti T regolatori e linfociti T attivati più elevato nei pazienti con oligoartrite persistente rispetto a quelli con oligoartrite estesa (Ru-precht et al., 2005). Inoltre è stato ipotizzato che nei pazienti con oligoartrite la risposta immune nei confronti di alcuni epitopi delle heat shock proteins possa contribuire ad indurre la remissione della malattia (Kamphuis, 2005).Una iridociclite cronica (mono- o bilaterale) si osserva in circa il 30% dei casi e, se non trattata, può causare conseguenze assai gravi fino alla perdita della vista (Rosenberg, 2002). È una complicanza assai insidiosa perché, a differenza di quanto avviene nell’iridocilite acuta che si può osservare nell’artrite associata ad entesite, è praticamen-te asintomatica. Può comparire contemporaneamente all’artrite, più spesso la segue (anche a distanza di anni) e solo raramente la pre-cede. Se non trattata può causare esiti importanti che comprendono sinechie, cataratta, cheratopatia a bandelletta e glaucoma. Vicever-sa se trattata in fase precoce risponde spesso bene alla terapia. È perciò essenziale poter fare una diagnosi precoce che si raggiunge sottoponendo i pazienti periodicamente (ogni 3 mesi ma anche mol-to più spesso se vi è già stato un episodio di iridociclite) ad un esame con lampada a fessura. Poiché la positività degli ANA rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo di iridociclite è im-perativo sottoporre ad esame con lampada a fessura tutti i pazienti con AIG ANA-positivi, anche quelli che presentano altre forme di AIG, come l’artrite psoriasica o l’artrite poliarticolare (vedi oltre).

Poliartrite fattore reumatoide positivaCaratterizzata dall’interessamento di 5 o più articolazioni e dalla presenza di titoli costanti ed elevati di FR, è l’equivalente, in età pediatrica, dell’artrite reumatoide FR-positiva dell’adulto a cui è sovrapponibile sia sotto il profilo clinico che di laboratorio. Mentre nell’adulto questa malattia rappresenta circa il 70% di tutte le for-me di artrite reumatoide nel bambino è di osservazione rara (circa il 3% delle AIG). Si osserva soprattutto nelle adolescenti ed è rara prima degli 8 anni. L’AIG poliarticolare FR-positiva ha una prognosi articolare severa nella maggioranza dei casi ed è caratterizzata dal-la precoce comparsa di erosioni ossee inizialmente osservabili sui radiogrammi soprattutto delle mani e dei piedi.

Poliartrite fattore reumatoide negativaComprende i pazienti con artrite poliarticolare in cui il FR è assente. È probabilmente la più eterogenea di tutte le forme di AIG. Nel suo ambito si possono riconoscere due principali quadri clinici.Il primo è rappresentato da una malattia che è identica all’artrite oligoarticolare con la sola differenza di una più rapida estensione dell’interessamento articolare nei primi sei mesi di malattia. Questa forma infatti è caratterizzata, come l’artrite oligoarticolare, da un’ar-trite asimmetrica, un’insorgenza precoce (prima dei 6 anni), una prevalenza nel sesso femminile, la positività degli ANA, un rischio elevato di sviluppare un’iridociclite cronica (Ravelli et al., 2005), ol-tre ad essere associata con gli stessi antigeni HLA. I pazienti con

questa forma devono essere sottoposti allo stesso regime di diagno-si precoce dell’iridociclite come i pazienti con oligoartrite.Il secondo è caratterizzato da un’artrite simmetrica che interessa sia le grandi che le piccole articolazioni, che insorge in genere in età scolare ed è ANA-negativa. Il quadro clinico assomiglia a quan-to si osserva nelle poliartriti FR negative dell’adulto. L’evoluzione è variabile.

Artrite associata ad entesiteNell’ambito della patologia reumatica dell’adulto le spondiloartro-patie sono un gruppo di affezioni caratterizzate dall’interessamento dello scheletro assiale (colonna vertebrale ed articolazioni sacro-iliache) che colpiscono in prevalenza soggetti HLA-B27 positivi. Pre-sentano tuttavia anche una serie di altre manifestazioni che com-prendono un’artrite oligoarticolare asimmetrica prevalentemente a carico degli arti inferiori, un’entesite ed un’uveite acuta. Queste se-conde manifestazioni sono proprio quelle che caratterizzano l’artrite associata ad entesite che rappresenta pertanto, nel bambino, una forma di spondiloartropatia (Burgos-Vargas, 2002). Alcuni pazienti con artrite associata ad entesite con il tempo possono sviluppare un interessamento delle sacroiliache (e quindi sviluppare una franca spondiloartrite) senza però che sia possibile identificare precoce-mente i soggetti a rischio.L’artrite associata ad entesite, a differenza di altre forme di AIG, inte-ressa prevalentemente i maschi in età scolare ed è di rara osserva-zione prima dei 6 anni di vita. Come per le altre forme di spondiloar-tropatia, la maggioranza dei pazienti è HLA-B27 positiva.La presenza di entesite è il sintomo caratterizzante e quindi di gran-de importanza per la diagnosi. Le entesiti sono un processo infiam-matorio a carico delle entesi che costituiscono i punti di inserzione dei tendini, dei legamenti e delle capsule sulla superficie dell’osso. Si manifestano soprattutto con dolori localizzati alla superficie po-steriore o inferiore del calcagno (inserzione rispettivamente del ten-dine di Achille e della fascia plantare), alle teste dei metatarsi, alla tuberosità tibiale o alla superficie inferiore della rotula.L’artrite è generalmente pauciarticolare, asimmetrica e prevalente-mente localizzata agli arti inferiori. Mentre nelle altre forme di AIG è molto raro l’interessamento dell’anca nelle fasi di esordio della malattia, l’artrite associata con entesite esordisce sovente con ricor-renti episodi di coxite. A livello delle mani o dei piedi si può osservare una dattilite (dito a salsicciotto), infiammazione di un singolo dito dovuta alla presenza sia di un’artrite che di una tenosinovite.Un’iridociclite acuta può comparire in una minoranza di malati; si manifesta con insorgenza improvvisa di rossore, fotofobia e dolore intenso. L’anamnesi familiare è spesso positiva per una qualche for-ma di spondiloartropatia.L’interessamento assiale, che configura allora una diagnosi di spon-dilite anchilosante giovanile, non è frequente nel bambino e consiste sostanzialmente nella presenza di una sacroileite. La sacroileite è usualmente bilaterale e si manifesta inizialmente con dolore e ri-gidità lombare al mattino a riposo. Il sospetto verrà confermato dal dolore evocato dalle manovre specifiche che mobilizzano l’articola-zione sacro-iliaca e dalla risonanza magnetica.

Artrite psoriasicaSecondo la classificazione ILAR, l’artrite psoriasica è definita dalla contemporanea presenza di artrite e di psoriasi. In assenza di pso-riasi la diagnosi può essere posta in presenza di un’artrite associata a due delle seguenti caratteristiche: 1) storia familiare di psoriasi in uno dei parenti di primo grado; 2) presenza di dattilite (dito a salsic-ciotto); 3) presenza di nail pitting, fossette ungueali che rappresen-

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L’artrite idiopatica giovanile

tano un segno dell’onico-displasia psoriasica. Sempre secondo i cri-teri ILAR vengono esclusi i pazienti che presentano le caratteristiche dell’artrite associata ad entesite.Il concetto di artrite psoriasica è ancora discusso. Non è infatti chiaro se l’associazione sia fortuita (nell’adulto sia l’artrite che la psoriasi sono frequenti), se semplicemente la presenza di psoriasi influenzi la frequenza e/o il fenotipo di una forma definita di artrite (senza configurare un’entità clinica specifica) o se viceversa rappresenti un’artrite con caratteristiche peculiari e quindi nosograficamente indipendente. Nell’adulto vi è un discreto consenso nel ritenere l’ar-trite psoriasica una forma di spondiloartropatia poiché le caratteri-stiche cliniche dell’artrite che si associa alla psoriasi sono prevalen-temente quelle di una spondiloartropatia. Nel bambino l’analisi delle caratteristiche dei pazienti che presentavano contemporaneamente artrite e psoriasi ha fatto individuare due gruppi principali di pazienti. Uno, come nell’adulto, con le caratteristiche di una spondiloartro-patia (presenza di entesite) ed un altro con le stesse caratteristiche dell’oligoartrite (precoce età d’esordio, ANA-positività, artrite asim-metrica, prevalenza del sesso femminile, rischio di iridociclite croni-ca) con la sola differenza di una maggiore incidenza di dattilite e con una maggiore tendenza all’estensione dell’artrite.I pazienti che rispondono ai criteri ILAR, in cui, come detto, le spon-diloartropatie sono per definizione escluse, hanno questo secondo fenotipo clinico il che fa pensare che l’artrite psoriasica così definita non costituisca un’entità a sé stante ma sia rappresentata da pa-zienti con oligoartrite in cui la presenza di psoriasi al massimo causa minori modificazioni del fenotipo clinico (Martini, 2003).I pazienti ANA-positivi devono essere sottoposti, come quelli con oli-goartrite, a controlli trimestrali con lampada a fessura per la precoce individuazione dell’iridociclite.

Artrite indifferenziataNon rappresenta un sottogruppo ma un contenitore in cui per il mo-mento vengono messi tutti i casi che non soddisfano i criteri per una delle categorie o che ne soddisfano più di uno. La relativamente alta percentuale di pazienti (10-20%) che finiscono in questa categoria rappresenta uno dei limiti dell’attuale classificazione.

La terapiaL’approccio terapeutico all’AIG è cambiato radicalmente negli ulti-mi anni grazie alla scoperta di nuovi potenti farmaci ma anche alla possibilità di potere finalmente effettuare anche nei bambini con AIG studi clinici controllati che valutino la sicurezza e l’efficacia dei nuovi farmaci. Punto di partenza di questa autentica rivoluzione è stata la promulgazione, alla fine del secolo appena trascorso, da parte dell’FDA e più recentemente dell’EMEA della cosiddetta “rego-la pediatrica” secondo la quale un’industria che intenda registrare un nuovo farmaco deve fornire dati sulla sicurezza e sull’efficacia di questo farmaco anche nel bambino qualora nel bambino esista una malattia analoga a quella per cui viene chiesta la registrazio-ne nell’adulto. Questa regola vale ovviamente per tutte le patologie pediatriche ma ha avuto un particolare, immediato impatto nell’AIG, poiché pochi anni prima era stato creato PRINTO (Ruperto & Martini, 2004), una rete che raduna i centri di reumatologia pediatrica di più di 50 diversi paesi e che rende quindi possibile raccogliere, in un breve spazio di tempo, quale quello richiesto negli studi clinici con-trollati, un adeguato numero di pazienti che presentino indicazione al nuovo trattamento. Inoltre PRINTO si è fatto carico di elaborare e validare misure standardizzate con cui valutare l’efficacia dei farma-ci in varie malattie reumatiche del bambino tra cui l’AIG; misure che

sono state accettate e fatte proprie dagli enti regolatori sia america-ni che europei (Giannini et al., 1997). Un progresso enorme rispetto agli anni precedenti quando i farmaci impiegati nell’AR dell’adulto venivano usati off label aggiustando ad occhio le dosi e senza alcuna rigorosa valutazione della loro sicurezza ed efficacia.Anche se non conosciamo l’eziologia delle singole forme di AIG e quindi non possediamo farmaci che siano in grado di guarirle, pos-siamo molto più efficacemente che in passato contrastare l’infiam-mazione che la malattia produce e quindi prevenire il danno artico-lare.L’AIG raggruppa malattie tra loro differenti e quindi anche le neces-sità terapeutiche possono essere differenti. Tuttavia, si possono di-stinguere una terapia di primo approccio ed una terapia di secondo livello che viene attuata quando i risultati ottenuti con la precedente non sono ritenuti sufficienti. Non disponiamo infatti di elementi af-fidabili, clinici o di laboratorio, in grado di identificare all’inizio della malattia quei pazienti che avranno un decorso mite da quelli che avranno un’evoluzione più aggressiva. È necessario monitorare con attenzione il decorso della malattia con periodiche valutazioni clini-che e, laddove indicato, con successivi radiogrammi delle articola-zioni coinvolte per identificare precocemente l’eventuale comparsa di una riduzione della cartilagine articolare o di erosioni ossee (Ra-velli et al., 2007).La terapia riabilitativa è un altro cardine della terapia dell’AIG ed ha lo scopo di mantenere una buona funzionalità dell’articolazio-ne prevenendo l’atrofia muscolare, le retrazioni dei tessuti molli e l’insorgenza eventuale di disassamenti e deformazioni. Il nuoto e la bicicletta sono attività consigliate perché rinforzano la muscolatura in assenza di traumi meccanici.

FANS e infiltrazioni intrarticolariIl trattamento iniziale si basa sull’utilizzo dei farmaci anti-infiamma-tori non steroidei (FANS) e di infiltrazioni intrarticolari con triamcino-lone esacetonide.I FANS sono farmaci sintomatici dotati di azione anti-infiammatoria, analgesica ed antipiretica. Il loro effetto principale è legato all’ini-bizione della ciclossigenasi (COX) e, di conseguenza, della sintesi delle prostaglandine. Un’esperienza consistente nel bambino esiste solo per pochi (naprossene, ibuprofene, indometacina) dei numerosi FANS disponibili nell’adulto. L’aspirina, anche se altrettanto efficace, è oggi usata molto meno per la sua minore maneggevolezza (ne-cessità di monitorare la salicilemia, maggiore epatotossicità, rischio di sindrome di Reye). I FANS sono in genere ben tollerati, gli effetti collaterali (tossicità epatica, intolleranza gastrica, nefrite interstiziale ecc.) sono meno frequenti che nell’adulto. Vanno assunti a stomaco pieno.Gli inibitori specifici della COX-2 (la ciclossigenasi indotta princi-palmente in corso di processi infiammatori) sono di raro impiego e indicazione in pediatria.L’effetto terapeutico dei FANS sull’infiammazione articolare nell’AIG non è immediato ma lento e progressivo nel corso delle prime set-timane di terapia.Un aspetto assai importante della prevenzione delle deformità ar-ticolari è l’impiego di infiltrazioni intrarticolari con triamcinolone esacetonide. Quando un’articolazione è infiammata tende ad essere mantenuta in una posizione di semiflessione che è definita “antal-gica” e che, se mantenuta per lungo tempo, è spesso responsa-bile dell’insorgenza di una deformità articolare che, per esempio, nel caso della contrattura in flessione del ginocchio, consiste in una deviazione in valgo. Di conseguenza, di fronte ad una contrattura

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articolare è necessario interrompere il circolo vizioso che porta alla deformità e questo si ottiene attraverso una artrocentesi con inie-zione intrarticolare di triamcinolone esacetonide, un preparato corti-sonico a lento rilascio. L’effetto è spesso spettacolare e, nonostante non sia curativo, può durare anche a lungo. Sfortunatamente questo farmaco non è più, da molti anni, in commercio in Italia per cui è necessario procurarselo all’estero tramite la farmacia dell’ospedale. Il preparato in commercio nel nostro Paese è il triamcinolone aceto-nide che è ugualmente efficace ma ha un effetto di durata decisa-mente inferiore.

Terapie di secondo livelloSe la malattia non è ben controllata dalla terapia con FANS ed infil-trazioni intrarticolari occorre introdurre altre terapie. Si tratta nella grande maggioranza di casi di AIG ad esordio o ad evoluzione poliar-ticolare e di AIG sistemiche. In questo caso il farmaco di prima scelta è rappresentato dal methotrexate.

MethotrexateIl methotrexate è un analogo strutturale dell’acido folico che lega e inattiva la diidrofolatoreduttasi interferendo così con la sintesi di componenti essenziali del DNA. Uno studio controllato ne ha dimo-strato l’efficacia alla dose di 10 mg/m2 una volta alla settimana per via orale o intramuscolare (Giannini et al., 1992). Uno studio suc-cessivo ha stabilito che il massimo dell’effetto si raggiunge con 15 mg/m2/settimana e che dosi superiori non sono associate ad un ri-sultato terapeutico migliore (Ruperto et al., 2004). Un miglioramento significativo si osserva in circa il 70% dei pazienti trattati.Il farmaco è in genere ben tollerato e gli effetti collaterali non sono particolarmente frequenti. I più comuni sono incremento delle tran-saminasi e sintomi gastrointestinali (nausea, anoressia, stomatite).

Farmaci biologiciTumor necrosis factor (TNF), interleuchina(IL)-1 e IL-6 sono le prin-cipali citochine proinfiammatorie. L’inibizione del TNF in particolare si è dimostrata particolarmente efficace nella terapia dell’artrite sia dell’adulto che del bambino.Esistono attualmente in commercio tre inibitori del TNF. Due sono degli anticorpi monoclonali: Infliximab che è un anticorpo umaniz-zato (cioè con una componente di origine murina) e Adalimumab che è invece interamente umano. Etanercept, il terzo inibitore, è una molecola ricombinante in cui la porzione costante di un’immunoglo-bulina è associata a due molecole di un recettore del TNF. I recettori del TNF, dopo avere interagito con il TNF circolante, trasmettono il segnale proinfiammatorio alla cellula. Svolgono però anche un ruo-lo antinfiammatorio quando la porzione extracellulare del recettore viene rilasciata in circolo ove lega il TNF impedendogli di interagire con il recettore di membrana. È questa attività di inibizione in circolo del TNF che viene sfruttata nell’Etanercept.Gli inibitori del TNF si sono rivelati assai efficaci nel trattamento del-l’AIG. Attualmente Etanercept è l’unico registrato in pediatria (Lovell et al., 2000). Studi controllati hanno mostrato l’efficacia nell’AIG an-che dei due anticorpi monoclonali (Ruperto et al., 2007; Lovell et al., 2008).La tolleranza degli inibitori del TNF si è rivelata buona con una bassa incidenza di infezioni, che rappresentavano all’inizio l’effetto collate-rale più temuto. Particolare attenzione va tuttavia posta alla possibile riaccensione di un’infezione tubercolare per cui tutti i soggetti che devono intraprendere una terapia con inibitori del TNF devono sotto-porsi ad un’intradermoreazione di Mantoux.

Gli inibitori del TNF sono un’eccellente terapia per tutte le varie forme di AIG che non rispondono adeguatamente al MTX. Le per-centuali di miglioramento sono elevate, si osservano in un numero assai consistente di pazienti e, non infrequentemente, la terapia è in grado di indurre una remissione della malattia. I primi dati sem-brano anche mostrare una maggiore efficacia degli inibitori del TNF quando somministrati in associazione con il MTX, come già peraltro dimostrato nell’AR dell’adulto.Numerosi studi hanno peraltro mostrato che gli inibitori del TNF sono meno efficaci nell’AIG sistemica (Quartier, 2003). Ciò non è molto sorprendente perché la forma sistemica si differenzia consistente-mente dalle altre sia sotto l’aspetto clinico che di laboratorio. Studi precedenti avevano in effetti ipotizzato che IL-6, piuttosto che TNF, fosse la citochina maggiormente coinvolta nella patogenesi della AIG sistemica (De Benedetti e Martini, 2005). Questa ipotesi ha di recen-te trovato conferma in uno studio controllato che ha impiegato un anticorpo monoclonale (Tocilizumab) diretto contro il recettore di IL-6 (Yokota et al., 2008). Sempre nella forma sistemica di AIG risultati molto incoraggianti sono anche stati ottenuti con l’inibizione di IL-1 ottenuta con l’impiego di Anakinra, una forma ricombinante di una molecola naturale, l’antagonista recettoriale di IL-1 che si lega al re-cettore di IL-1 con un’affinità molto maggiore rispetto ad IL-1 senza essere in grado di indurre attivazione cellulare (Pascual, 2005). Al-cuni pazienti con AIG sistemica rispondono in maniera spettacolare ad Anakinra mentre in altri l’effetto è molto più modesto (Gattorno et al., 2008) il che fa pensare che i primi costituiscano un’entità clinica differente con una patogenesi a sé stante che presenta molte so-miglianze con un gruppo di malattie definite “autoinfiammatorie” e dovute a mutazione in geni che codificano per proteine che svolgono un ruolo regolatorio nel processo infiammatorio. È perciò possibile che i futuri studi controllati che saranno eseguiti sia per Tocilizu-mab che per Anakinra (o altri, più potenti inibitori di IL-1) potranno rappresentare non solo importanti progressi terapeutici ma anche uno strumento utile per comprendere l’eterogeneità clinica dell’AIG sistemica individuando forme patogeneticamente distinte.

Altre terapieLe segnalazioni sull’efficacia di altri farmaci (salazopirina, ciclospo-rina ecc.) sono prevalentemente aneddotiche. Aneddotica è anche la descrizione dell’efficacia della talidomide nella forma sistemica. Uno studio controllato ha mostrato l’efficacia nell’AIG della leflunomide (Silverman, 2005) ma l’esperienza con questo farmaco nel bambino è molto scarsa.Più di recente uno studio controllato con un inibitore dell’attivazione linfocitaria (Abatacept) ha fornito risultati positivi che porteranno nel prossimo futuro alla registrazione di questo nuovo farmaco per la terapia dell’AIG (Ruperto et al., 2008).La terapia della sindrome da attivazione macrofagica, efficace nel-la grande maggioranza dei casi, consiste nella somministrazione di prednisone a dosi piene e refratte e ciclosporina (3-5 mg/kg/die).Il trattamento della iridociclite cronica, il cui successo dipende molto dalla precocità della diagnosi, si limita usualmente ad una terapia topica che associa steroidi e midriatici. Nei casi che non rispondono si ricorre agli steroidi per via sistemica. Nei casi ancora resistenti, sono stati impiegati vari farmaci (methotrexate, ciclo-sporina e ciclofosfamide) ma non vi sono studi controllati che ne abbiano comprovato l’efficacia. Più di recente buoni risultati sono stati riportati con l’uso dell’Infliximab, anticorpo monoclonale con-tro il TNF.Gli steroidi hanno una potente azione antinfiammatoria ed immu-nodepressiva ma i loro effetti collaterali ed il fatto che non sono in

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L’artrite idiopatica giovanile

grado di modificare la storia naturale dell’AIG ne limitano fortemente l’impiego. Vengono principalmente usati nelle forme sistemiche sia per trattare i casi che non rispondono, come frequentemente acca-de, alla sola terapia con FANS che per la terapia delle complicanze (“sindrome da attivazione macrofagica”, miocardite, pericarditi im-portanti ecc.). Basse dosi di cortisone possono anche trovare impie-go come farmaco-ponte per controllare dolore e rigidità articolare nell’attesa dell’effetto dei farmaci di secondo livello.Ritardo di crescita e osteoporosi generalizzata si osservano oggi più di rado, poiché le nuove terapie hanno portato ad una riduzione nell’uso degli steroidi e ad un miglior controllo dell’infiammazione. Anche se alcuni studi in passato avevano mostrato un discreto

beneficio dell’impiego dell’ormone della crescita nel ritardo di cre-scita in corso di AIG non esistono oggi indicazioni al suo impiego. Anche l’indicazione all’uso dei bisfosfonati per il trattamento dei casi più severi di osteoporosi resta gravato dalla mancata cono-scenza degli effetti a lungo termine di questi farmaci sullo sche-letro in crescita.

Modalità della revisioneSono state cercate in medline i termini “juvenile idiopathic arthritis”, juvenile chronic arthritis” e “juvenile arthritis”. Sono state selezio-nate principalmente le pubblicazioni degli ultimi 5 anni ma non sono state escluse alcune rilevanti pubblicazioni di anni precedenti

Anche se ancora non conosciamo che cosa la determini, l’AIG molto è cambiata rispetto a 30 anni fa. Allora era ancora opinione diffusa che l’AIG fosse un’unica malattia, simile alla AR dell’adulto, e che i particolari aspetti che si osservavano nel bambino fossero dovuti all’insorgenza della malattia in età pediatrica. Oggi è ben chiaro che sotto il termine di AIG sono comprese varie malattie, alcune delle quali non esistono nell’adulto o sono di rara osservazione. La classificazione è peraltro in continua evoluzione e si avvale dei progressi che nascono sia dall’osservazione clinica che dagli studi sulla patogenesi.I maggiori cambiamenti hanno riguardato la terapia. Nessuno dei farmaci in uso negli anni ’70, con l’eccezione dei FANS e del cortisone, è ancora impiegato. Molte delle deformità un tempo causate dal persistere di una contrattura articolare sono oggi prevenute grazie all’impiego delle iniezioni intra-articolari di triamcinolone esacetonide. I pazienti che non rispondono adeguatamente ad un trattamento con FANS e infiltrazioni intrarticolari ven-gono oggi trattati con methotrexate e, in caso di insufficiente risposta, con antagonisti del TNF. La situazione è diversa per la forma sistemica nella cui terapia stanno assumendo un ruolo sempre più importante i farmaci anti-IL-1 e anti-IL-6. Nel complesso le nuove terapie hanno cambiato in maniera radicale le prognosi dell’AIG.Infine, mentre negli anni ’70 si impiegavano nell’AIG gli stessi farmaci in uso nell’AR dell’adulto (aggiustandone semplicemente la dose secondo il peso) senza che si potessero raccogliere notizie attendibili sulla loro sicurezza ed efficacia, oggi, grazie alle norme emanate dalla FDA e, più di recente, dall’EMEA ed all’esistenza di grandi reti di sperimentazione clinica, ogni nuovo farmaco introdotto sul mercato per la AR dell’adulto viene anche testato in studi controllati nell’AIG.Negli anni a venire è verosimile attendersi un’evoluzione verso una nuova classificazione dell’AIG basata su criteri eziopatogenetici ed un ulteriore miglioramento nelle conoscenze del processo infiammatorio con conseguente individuazione di nuovi bersagli terapeutici.

Box di orientamento

Bibliografia

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** Questo editoriale sostiene che il numero di articolazioni interessate e la presenza di psoriasi non sono adatti ad identificare, nella classificazione attuale, popolazioni omogenee di pazienti.

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** Studio non controllato che mostra un’importante risposta alla terapia con un

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A. Martini

inibitore di IL-1 (Anakinra) in pazienti con artrite idiopatica giovanile sistemica.

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Ravelli A, Magni-Manzoni S, Pistorio A, et al. Preliminary diagnostic guidelines for macrophage activation syndrome complicating systemic juvenile idiopathic arthritis. J Pediatr 2005;146:598-604.

** Elaborazione dei primi criteri diagnostici per la sindrome da attivazione mac-rofagica.

Ravelli A, Felici E, Magni-Manzoni S, et al. Patients with antinuclear antibody-positive juvenile idiopathic arthritis constitute a homogeneous subgroup irre-spective of the course of joint disease. Arthritis Rheum 2005;52:826-32.

** Dimostra come i pazienti ANA positivi classificati nelle categorie oligoartrite persistente, oligoartrite estesa o poliartrite posseggano tutti le stesse caratter-istiche (e quindi possano essere identificati come affetti da un’unica malattia) indipendentemente dal numero di articolazioni coinvolte.

Ravelli A, Martini A. Juvenile idiopathic arthritis. Lancet 2007;369:767-78.

** Una recente revisione critica delle attuali conoscenze su classificazione, pa-togenesi e terapia corredata di una ricca bibliografia.

Ravelli A, Ioseliani M, Norambuena X, et al. Adapted versions of the Sharp-van Der Heijde score are reliable and valid for assessment of radiographic progres-sion in juvenile idiopathic arthritis. Arthritis Rheum 2007;56:3087-95.

** Adattamento e validazione nell’AIG dello score radiologico in uso nella AR dell’adulto.

Rosenberg AM. Uveitis associated with childhood rheumatic diseases. Curr Opin Rheumatol 2002;14:542-7.

* Review sulle uveiti associate con le malattie reumatiche del bambino.

Ruperto N, Murray KJ, Gerloni V, et al. A randomized trial of parenteral methotrex-ate in intermediate vs. higher doses in children with juvenile idiopathic arthritis who failed standard dose. Arthritis Rheum 2004;50:2191-201.

** Il lavoro che ha definito la posologia ottimale del methotrexate nell’artrite idiopatica giovanile.

Ruperto N, Martini A. International research networks in pediatric rheumatology: the PRINTO perspective. Curr Opin Rheumatol 2004;16:566-70.

* Riassume l’attività di PRINTO, rete internazionale per studi controllati nelle malattie reumatiche del bambino.

Ruperto N, Lovell DJ, Cuttica R, et al. A randomized, placebo-controlled trial of infliximab plus methotrexate for the treatment of polyarticular course juvenile rheumatoid arthritis. Arthritis Rheum 2007;56:3096-106.

* Il lavoro che ha dimostrato l’efficacia di Infliximab nell’artrite idiopatica gio-vanile.

Ruperto N, Lovell DJ, Quartier P, et al. Efficacy and safety of abatacept in children with juvenile idiopathic arthritis: a randomized, double-blind, placebo-controlled withdrawal trial. Lancet 2008; 372: 383-91.

** Il lavoro che ha dimostrato l’efficacia di Abatacept nell’artrite idiopatica gio-vanile.

Ruprecht CR, Gattorno M, Ferlito F, et al. Coexpression of CD25 and CD27 identifies FoxP3 + regulatory T cells in inflamed synovia. J Exp Med 2005;201:1793-803.

** Dimostra come il rapporto tra T regolatori e T effettori sia più alto nei pazienti con oligoartrite rispetto a quelli con poliartrite e che il CD27 è un utile marker aggiuntivo per identificare i T regolatori nei tessuti infiammati e suggerisce che IL-7 e IL-15 possano interferire con la funzione regolatoria.

Silverman E, Mouy R, Spiegel L, et al. Leflunomide or methotrexate for juvenile rheumatoid arthritis. N Engl J Med 2005;352:1655-66.

** Studio controllato che dimostra una significativa risposta terapeutica alla leflunomide nei pazienti con artrite idiopatica giovanile.

Thompson SD, Moroldo MB, Guyer L, et al. A genome-wide scan for juvenile rheumatoid arthritis in affected sibpair families provides evidence of linkage. Arthritis Rheum 2004;50:2920-30.

** L’unico studio di genome-wide-scan nell’artrite idiopatica giovanile; è di sostegno all’ipotesi che la predisposizione genetica sia il risultato dell’influenza contemporanea di diversi tipi di geni.

Thomson W, Donn R. Juvenile idiopathic arthritis genetics. What’s new? What’s next? Arthritis Res 2002;4:302-6.

* Una eccellente review sugli aspetti genetici dell’artrite idiopatica giovanile.

Yokota S, Imagawa T, Mori M, et al. Efficacy and safety of tocilizumab in patien-ts with systemic-onset juvenile idiopathic arthritis: a randomised, double-blind, placebo-controlled, withdrawal phase III trial. Lancet 2008; 371:998-1006.

** Il lavoro che ha dimostrato l’efficacia di Tocilizumab nell’artrite idiopatica giovanile sistemica.

prof. Alberto Martini, Pediatria II, Istituto “G. Gaslini”, Dipartimento di Pediatria, Università di Genova, largo Gaslini 5, 16147 Genova • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione

Pierpaolo MastroiacovoAlessandra Lisi International Centre on Birth Defects, Roma

RiassuntoLe malformazioni congenite hanno un importante impatto sulla salute umana. La loro frequenza è del 3-6% (se considerate tutte quelle individuate durante la vita prenatale e postnatale fino a 7 anni di vita). Sono la causa di circa 1 interruzione di gravidanza su 200 gravidanze altrimenti desiderate; di morte entro i primi 5 anni di vita di circa 1 bambino su 200 (le MC sono responsabili di circa un terzo di tutte le morti in questa fascia di età); di disabilità fisica e/o cognitiva. La ricerca epidemiologica, il cui scopo primario è fornire risultati che possono essere applicati nel campo della prevenzione primaria, ha fatto piccoli ma significativi progressi. Il più importante riguarda la scoperta che una quantità ottimale di acido folico nel periodo peri-concezionale riduce il rischio dei difetti del tubo neurale e probabilmente di altre malformazioni. Molte speranze vengono riposte nella ricerca delle interazioni geni-ambiente. In attesa di soluzioni radicali (non ipotizzabili comunque a breve distanza) gli sforzi dei clinici e degli operatori di sanità pubblica sono concentrati nel campo delle cure pre-concezionali. Ridurre il rischio di alcune MC e di altri esiti avversi della riproduzione è oggi possibile e ineludibile. Non si può attendere però l’inizio della gravidanza ma bisogna agire prima del concepimento, prima dell’inizio dello sviluppo embrionale, e mettere in pratica in modo sistematico e diffuso a tutta la popolazione tutto ciò che oggi è noto per prevenire le MC: stili di vita corretti, compresa la supplementazione con acido folico, controllo attento delle malattie croniche, prevenzione di alcune malattie infettive, eliminazione di ogni sostanza farmacologia o chimica che possa danneggiare l’embrione.

SummaryCongenital malformations (CM) have a significant impact on human health. Their frequency is 3-6% (con-sidering all CM diagnosed during prenatal and postnatal life up to 7 years of age). Around 1 pregnancy termination out of 200 pregnancies otherwise desired, 1 death out of 200 children up to 5 years (or 1/3 of all deaths in the first 5 years of age) and a number of physical and cognitive disabilities are due to CM. The epidemiological research, whose priority aim is to give results that can be useful in the primary prevention, has achieved few but significant results. The most important is the need of an optimal intake of folic acid during the peri-conceptional period in order to reduce the risk of neural tube defects and perhaps of other severe CM. Great hopes are pinned in the gene-interaction research. Waiting for more radical solutions (whose achievements cannot be expected in the near future) the efforts of clinicians and public health physicians are focused on the preconception care. Today it is possible to reduce the risk of some CM and other adverse reproductive outcomes. We cannot wait the beginning of a pregnancy, we must implement a number of actions to all women before conception, before the early embryo develop-ment: correct life styles, including optimal intake of folic acid, chronic diseases optimal control, preven-tion of some infectious diseases, avoidance of medications and chemicals harmful for the embryo.

Pierpaolo Mastroiacovo è nato a Mac-chiagodena (IS) il 25 Giugno 1945, cresciuto in Toscana. Direttore Clinica Pediatrica Università Cattolica, Roma (2000-2002). È stato uno dei pro-motori dell’epidemiologia delle mal-formazioni in Italia e della Evidence Based Medicine in Pediatria. Dal 2002 Direttore dell’Alessandra Lisi Interna-tional Centre on Birth Defects, Roma. Autore di circa 300 pubblicazioni e alcuni libri su sindromi malformative, epidemiologia e prevenzione delle malformazioni congenite. Co-direttore di Prospettive in Pediatria dal 2000. Tra i fondatori e past-president della Società Italiana Malattie Genetiche Pediatriche e Disabilità Congenite (SIMGePeD). Felicemente sposato dal 1971, senza figli. Ama la musica clas-sica, le buone letture, il cinema e il nu-mero 7; gli piacerebbe essere esperto di eno-gastronomia.

ObiettivoL’obiettivo di questo articolo è fornire un aggiornamento nel campo dell’epidemiologia e della prevenzione primaria delle malformazio-ni congenite (MC). In questa revisione non verranno affrontati né i problemi patogenetici né quelli di diagnosi (prenatale o postnatale) o di trattamento. Non verranno neppure affrontate le problematiche relative ai dismorfismi minori e alle sindromi malformative.

Strategia di ricercaL’Autore di questo articolo si occupa intensamente dell’argomen-to da oltre 30 anni, non facendo affidamento sulle proprie capacità mnemoniche o di archiviazione degli articoli rilevanti ha utilizzato PubMed per (ri-)recuperare gli articoli più importanti, utilizzando la stringa più sensibile (birth defects OR congenital abnormalities)

associata a specifiche parole chiave per ogni paragrafo o sottopa-ragrafo dell’articolo (es.: AND epilepsy AND pregnancy). Sono state anche consultate le annate 2003-2007 di American Journal Epide-miology, American Journal Medical Genetics, Birth Defect Research, Reproductive Toxicology, così come è stata analizzata la bibliografia degli articoli reperiti e sono stati tenuti presenti i rapporti delle tre principali organizzazioni che si occupano dell’argomento [ICBDSR (International Clearinghouse for Birth Defect Surveillance and Re-search), EUROCAT (European Congenital Anomalies Surveillance) e NBDPN (National Birth Defects Prevention Network)] e quelli dei singoli registri ad esse afferenti.

Frequenza delle malformazioni congeniteClassicamente in medicina le misure di frequenza più informative sono l’incidenza e la prevalenza nella popolazione di una specifica

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 59-72

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P. Mastroiacovo

condizione. L’incidenza indica il numero di nuovi casi della condizio-ne in esame che si verificano per unità di tempo e di popolazione a rischio di quella specifica condizione, la prevalenza indica il numero di casi esistenti in un definito momento temporale per unità di po-polazione. Nel campo delle MC l’incidenza non viene correntemente misurata, poiché dovrebbe tener conto di tutti gli zigoti concepiti e di tutte le MC che si verificano dal momento del concepimento in poi (Mason et al., 2005). Impresa alquanto complicata dato l’elevato nu-mero di aborti spontanei e la difficoltà di una loro analisi sistematica. Dobbiamo quindi accontentarci della “prevalenza tra i nati” (PN) de-finendo come “nati” anche i feti che sarebbero nati se la gravidanza non fosse stata interrotta, proprio per una MC diagnosticata durante la gravidanza 1 2.

Prevalenza tra i nati 3

Una valida misura della PN dovrebbe:• essere definita in una popolazione non selezionata (es.: donne

residenti in una certa area, ovunque nati e non sulla popolazione che afferisce ad una, più, o tutte le maternità ospedaliere di una data area);

• includere tutti i nati e tutte le interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale di una MC (IGDP);

includere soltanto le MC “gravi” (che richiedono un intervento me-dico o chirurgico);

• includere tutte le MC diagnosticate nei primi anni di vita (es.: almeno entro il primo anno o meglio entro i 6-7 anni);

• raccogliere le informazioni da fonti multiple indipendenti;• conteggiare sia le MC isolate che quelle associate tra loro in uno

stesso soggetto ma non dipendenti l’una dall’altra (in sequenza) o appartenenti allo stesso organo (es.: assenza mani e piedi bi-lateralmente come un’unica MC e non quattro!) 4.

Il dato più valido oggi disponibile che soddisfa questi sei criteri è for-nito dal Sistema di Sorveglianza delle MC dell’Australia Occidentale. Il rapporto più recente (WABD, 2006) indica una PN del 6,5% (Tab. I). L’analisi attenta dei dati tuttavia conferma che le MC più gravi (tut-te comunque sottoposte a trattamento), in genere diagnosticate nei primi giorni di vita, abbiano una PN del 2-3% come spesso stimato in altre indagini e indicato in vari testi e revisioni. La Tabella I indica anche (limitatamente ad alcune MC più comuni e meno influenzate da variabilità di definizione ed accertamento) la PN osservata in 5 registri della Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in 5 registri Italiani. Si può notare che i valori differiscono leggermente. Le differenze sono imputabili più spesso a differenze di definizione ed accertamento, o più raramente a reali differenze (discusse più dettagliatamente in seguito). Il dato di fatto è che i valori di PN delle varie MC se non contestualizzati hanno scarso significato e che la PN di tutte le MC

nel loro insieme varia ampiamente (2-6%) in rapporto a come e quali MC vengono conteggiate.Un problema annoso riguarda la frequenza delle malformazioni car-diache. Due sono i fattori critici che influenzano i risultati:• l’età limite per la diagnosi, che influenza soprattutto la frequenza

delle forme più lievi;• le modalità di conteggio dei difetti cardiaci multipli (conteggiati

tutti i difetti o più appropriatamente solo il principale, secondo un criterio gerarchico).

Le due indagini attualmente più attendibili sono:• l’indagine condotta tra il 1991 e il 2001 in un singolo centro di

cardiologia pediatrica, a Trondheim (Norvegia), su tutta la popo-lazione residente nell’area circostante, sottoposta ad accurata indagine ecografica prenatale e ad un follow-up dei nati siste-matico fino all’età di 6 anni (Tegnander et al., 2006);

• i dati del Registro della popolazione residente nell’area metro-politana di Atlanta (Georgia, USA), relativi agli anni più recenti disponibili (1995-1997), basati sulle cardiopatie congenite dia-gnosticate tra i nati e le IGDP, con accertamento a fonti multiple fino ad un anno di età (Botto et al., 2001).

In queste due indagini la frequenza di difetti cardiaci (conteggiati secondo lo schema gerarchico) è risultata rispettivamente del 14,6 e del 9,0 per mille (Tab. II), con buona concordanza dei dati per quasi tutte le cardiopatie gravi ma non per quelle lievi (es.: stenosi della valvola aortica, difetti interventricolari ed interatriali), più frequenti nell’indagine norvegese probabilmente per il più lungo follow-up effettuato.

Prevalenza nella popolazione (PP) 5

La prevalenza nella popolazione (infantile, in specifiche classi di età, o in quella generale) è stata raramente studiata. È noto che la pre-valenza di una malattia nella popolazione dipende dalla mortalità e dalla guarigione. Per alcune malformazioni, incompatibili con la vita extra-uterina (es.: agenesia renale bilaterale) o che solitamen-te guariscono (es.: piede torto), la prevalenza tende a zero, quindi non è molto informativa. Per altre condizioni croniche e con una mortalità variabile sono necessarie indagini ad hoc (es.: sindrome di Down, cardiopatie) per stabilire quanti bambini presentano la MC. Due esempi di tali indagini sono:• prevalenza di cardiopatie congenite in bambini (< 18 anni) e

adulti (> 18 anni) nell’anno 2000, condotta nel Quebec (Cana-da), risultata rispettivamente di 11,9 e 4,1 per mille (Marelli et al., 2007);

• prevalenza di sindrome di Down in bambini (0-19 anni) nell’anno 2003, condotta nell’area metropolitana di Atlanta (Georgia, USA), risultata dell’8,3 per 10.000 (Besser et al., 2007).

1 La prevalenza tra i nati (PN) viene calcolata dividendo il numero di “casi con MC” [nati vivi, nati morti e feti la cui gravidanza sia stata interrotta dopo diagnosi prenatale (IGDP) di MC] per il numero totale dei soggetti esaminati (nati vivi, nati morti e IGDP) e moltiplicato per 1.000 o 10.000. Talvolta a denominatore vengono inclusi solo i nati vivi o solo il totale dei nati. In questi ultimi due casi si tratta di un rapporto e non di una proporzione (poiché non tutti i casi di MC sono compresi a denominatore). La PN non è mai un “tasso”, denominazione che deve essere riservata alle misure di incidenza, che includono anche il concetto di unità di tempo (tasso = rate = velocità).

2 Nella PN di solito non vengono conteggiate le MC osservate negli aborti spontanei poiché manca la sistematicità dell’osservazione di tali eventi e quindi della loro inclu-sione a denominatore. Qualora l’indagine preveda la valutazione sistematica degli aborti spontanei, almeno dopo una certa età gestazionale (es.: > 20 settimane), allora è auspicabile inserire tali eventi sia a numeratore che a denominatore.

3 Gli studi sulla PN servono a indagare sui fattori di rischio. Più rigorosamente dovrebbe essere utilizzata l’incidenza, ma, come abbiamo detto, non è disponibile. Trattandosi di un compromesso va ricordato che la PN è influenzata dall’abortività spontanea e quindi il rischio che viene ottenuto è composto dal rischio che si verifichi la MC e dal rischio di mortalità dell’embrione.

4 La presenza di due o più MC in uno stesso soggetto pone un serio problema di conteggio delle malformazioni. Malformazioni gravi e indipendenti tra loro vanno conteg-giate separatamente sia che la diagnosi finale sia una sindrome nota sia che la diagnosi finale rimanga semplicemente “malformazioni multiple ndd”. Le malformazioni minori possono e devono essere registrate, ma non conteggiate. Una buona interpretazione della PN passa prioritariamente attraverso un’analisi di queste questioni metodologiche.

5 Gli studi di prevalenza nella popolazione sono utili per pianificare servizi di assistenza.

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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione

Tabella I. Prevalenza tra i nati (PN) per 10.000 delle malformazioni congenite (MC) in Australia Occidentale, Stati Uniti, Regno Unito, EUROCAT e Italia.

Australia Occidentale1995-1999 (1)

Stati Uniti1999-2001 (2)

Gran Bretagna,1991-1999 (3)

Eurocat 2000-2004 (4)

Italia 2001-2005 (5)

Totale nati esaminati 127.702 839.521 3.477.335 923.638

PN di casi con una o più MC 645,0 129,2

Malformazioni per apparato (6)

MC del sistema nervoso centrale 46,4 22,3

MC dell’apparato oculare 14,3 3,5

MC dell’orecchio 44,7 2,8

MC dell’apparato cardio-vascolare 126,3 68,0

MC dell’apparato respiratorio 14,4 5,3

Labio-palatoschisi 24,4 14,0

MC dell’apparato gastro-intestinale 68,0 13,6

MC dell’apparato uro-genitale (UG) 195,5 44,3

MC dell’apparato muscolo-scheletrico 182,9 8,0

MC dell’apparato cutaneo 55,4 ----

Anomalie cromosomiche 42,8 33,7

Totale malformazioni 815,1 218,9

Malformazioni più frequenti (7)

• Lussazione congenita anca 73,5 5,3

• Criptorchidismo (trattato) 57,6

• Reflusso vescico-ureterale 50,6

• Ipospadia 35,9 12,0

• Idronefrosi 22,3 9,3

• Piede torto 19,8 7,2

• Trisomia 21 19,7 13,7 19,5 19,2 15,1

• Poli e sindattilia 18,1 13,3

• Stenosi ipertrofica del piloro 17,5

• Labio +/- palatoschisi 12,5 10,5 8,1 8,6 5,9

• Palatoschisi soltanto 11,9 6,4 4,3 5,5 4,4

• Ipo-agenesie arti 10,3 5,7 4,2 5,8 4,5

• Idrocefalo 9,7 4,5 5,3 5,0

• Sordità congenita 8,3

• Spina bifida 7,6 4,1 6,2 4,8 3,2

• Reni cistici 7,5 5,1 5,3 2,4

• Anencefalia 7,1 3,5 6,4 3,7 2,1

• Idrope non immunologica 0,7

• Appendici preauricolari 6,0

• Craniosinostosi 5,8 1,1

• Atresia/stenosi ano-rettale 5,7 4,8 2,6 2,9 2,8

• Microcefalia 5,5 2,0

• A/disgenesie renali 5,4 1,2

• Trisomia 18 5,1 2,4 4,4 4,2 2,5

• Ernia diaframmatica 4,3 2,9 2,8 2,6 2,4

• Gastroschisi 4,2 3,7 2,9 2,2 0,9

• Cataratta e difetti cristallino 3,8

• Sindrome di Turner 3,5 2,2

• Atresia esofagea 3,3 2,4 2,4 2,2 2,4

• A/microftalmia 3,2 2,1 1,0

(continua)

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P. Mastroiacovo

Australia Occidentale1995-1999 (1)

Stati Uniti1999-2001 (2)

Gran Bretagna,1991-1999 (3)

Eurocat 2000-2004 (4)

Italia 2001-2005 (5)

– Onfalocele 3,2 2,1 2,5 2,9 1,8

– A/microtia 3,1

– Atresie/stenosi intestinali 2,8 1,5 0,6 1,7

– Trisomia 13 1,7 1,3 1,8 1,7 1,2

– Megacolon congenito 1,6

– Atresia delle coane 1,3

– Encefalocele 1,3 1,1

(1) = WABD Report, 2006; (2) = CDC, 2006; (3) = Rankin et al., 2005; (4) = http://www.eurocat.ulster.ac.uk/pdf/EUROCAT-Annual-Report-2005-for-WHO.pdf; (5) = ICBDSR Annual Report, 2006; (6) = La PN di MC per apparato o per singola tipologia indica il numero di malformazioni isolate o no presenti in ogni soggetto. È dunque una misura diversa dalla PN di casi con una o più MC. La somma totale delle PN di MC è quindi superiore alla precedente; (7) = Eccetto le cardiopatie, vedi Tabella II.

Tabella II. Tasso di prevalenza tra i nati (PN) per 10.000 delle cardiopatie congenite in due recenti studi.

Tipo di malformazione (§) Atlanta (1)Botto, 2001

Trondheim (2)Tegnander, 2006

Totale nati 136.346 30.149

Etero-atassie, TGV-sin 1,6 1,0

Difetti tronco-conali

• Tetralogia di Fallot 4,7 2,4

• TGV-dx 2,4 4,8

• VD a doppia uscita 2,2 1,0

• Tronco arterioso comune 0,6 0,3

Difetti atrio-ventricolari

• in sindrome di Down 2,4 4,8

• non in sindrome di Down 1,0 3,4

Ritorno venoso polmonare anomalo 0,6 0,7

Anomalia di Ebstein 0,6 0,3

Difetti del cuore destro

• Atresia della tricuspide 0,3 0,7

• Atresia della polmonare, con setto normale 0,6

• Stenosi-atresia della polmonare 5,9 7,8

• Stenosi delle arterie polmonari periferiche 7,0 1,7

Difetti del cuore sinistro

• Ipoplasia del cuore sinistro 2,1 3,4

• Coartazione dell’aorta 3,5 4,1

• Ipoplasia/atresia dell’arco aortico 0,6 0,3

• Stenosi della valvola aortica 0,8 4,4

Difetti settali

• Difetti del setto interventricolare 24,9 83,8

• Difetti del setto interatriale 10,0 19,0

Pervietà del dotto arterioso (PDA) 8,1

Altre 9,7 2,0

Totale difetti più gravi 23,2 27,2

Totale difetti meno gravi / lievi 67,0 118,8

Totale 90,2 146,0

Totale senza difetti settali e PDA 46,6 43,1

(§) = Classificazione gerarchica (Botto et al., 2001); (1) = accertamento fino ad 1 anno; (2) accertamento fino a 6 anni con un range tra 2 e 13 anni.

(segue Tab. I)

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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione

In assenza di indagini dirette si possono produrre stime basate sulla PN (variabile nel tempo) e sulla sopravvivenza (anch’essa variabile nel tempo) come è stato fatto in Italia per la sindrome Down, ove è stata stimata per l’anno 1999 una prevalenza dell’8,6 per 10.000 nei bambini (0-14 anni) e del 6,1 per 10.000 negli adulti (Mastroia-covo et al., 2004).

Variabilità della frequenza nelle varie popolazioni

Premesso che gli studi da analizzare devono essere di buona qualità e che purtroppo riguardano un limitato numero di popolazioni, so-prattutto quelle dei Paesi più sviluppati, si può concludere che reali differenze macroscopiche sono evidenti solo per un limitato numero di MC, qui di seguito presentate:

a) i difetti del tubo neurale presentano frequenze sensibilmente più elevate in Cina del Nord, in particolare nella regione dello Shanxi: 13,9 per mille (Li et al., 2006), in alcune regioni dell’In-dia, ad esempio nel Balrampur (Uttar Pradesh): 6,6-8,2 per mille (Cherian et al., 2005) e in Iran 2,9 per mille con punte di 3-4 per mille in alcuni gruppi etnici (Golalipour et al., 2007). Tra i Paesi più ricchi le differenze si sono attenuate: tra circa 80 registri con dati validi per il quinquennio 2001-2005 solo quattro presentano una PN di DTN superiore all’1,5 per mille: Galles (1,6); Tabriz in Iran (1,7); Mainz in Germania (1,9) e Ucraina (2,2); tutti gli altri si aggirano intorno all’1 per mille;

b) la labio-palatoschisi in Europa presenta una chiara correlazione con la latitudine: più bassa in Italia e nella penisola Iberica (in-feriore a 0,6 per mille) più elevata nell’Europa del Nord (1,0-1,6 per mille). Una PN superiore al 2 per mille è registrata in Giappo-ne (2,0) e in Bolivia (2,1);

c) la palatoschisi presenta una PN inferiore a 0,5 per mille nell’Eu-ropa mediterranea e in Sud America e superiore all’1,0 per mille in Australia Occidentale (1,2) e in Finlandia (1,4);

d) la gastroschisi presenta una bassa frequenza in Italia (inferiore a 1 su 10.000) e più elevata nelle Regno Unito (Galles 5,7 per 10.000 nel 2000-2005), USA (es.: Utah e Texas 4-5 per 10.000), Canada (intorno al 4 per 10.000) e Australia Occidentale: 3,7 per 10.000);

e) la sindrome di Down appare più frequente nelle popolazioni in cui non è ammessa l’IGDP e in quelle con più elevata proporzio-ne di donne che hanno parti oltre i 30-35 anni. Ad esempio nella regione di Galway in Irlanda la PN è del 3,0 per mille (O’Nuallain et al., 2007). Il rischio specifico alla nascita per età materna non presenta tuttavia variazioni tra le varie popolazioni;

f) per tutte le altre MC le differenze osservate, lievi, si spiegano con differenze metodologiche: definizioni, accertamento, analisi.

Variabilità di frequenza nel tempo

Le variazioni di frequenza riguardano la PN e/o la PP.La PN può risultare “falsamente” in aumento se migliorano le ca-pacità diagnostiche (e questo è semplice da intuire) oppure se la diagnosi prenatale si diffonde sempre più (e questo è più difficile da intuire). In questo caso vengono infatti conteggiate anche le MC che sarebbero potute andare incontro ad aborto spontaneo. Classico è l’esempio per la Trisomia 21 in cui un terzo dei casi va incontro

ad aborto spontaneo dopo il prelievo di villi coriali e un quarto dopo amniocentesi (Fig. 1) (Savva et al., 2006): se non viene eseguita nes-suna diagnosi prenatale si contano solo i nati, se venisse eseguita a tutte le donne l’amniocentesi si avrebbe un incremento “falso” di trisomia 21 del 25% poiché verrebbero contati anche i feti che sarebbero andati incontro ad aborto spontaneo.La PP diminuisce per tutte le MC in cui la gravidanza viene in una qualche proporzione interrotta dopo diagnosi prenatale, mentre au-menta se aumenta la sopravvivenza dopo la nascita.Ebbene, le variazioni temporali registrate negli ultimi decenni (nelle popolazioni per le quali sono disponibili dati affidabili per più di 10-20 anni) indicano che:

a) alcune MC diagnosticabili più accuratamente durante la gravi-danza o nei primi anni di vita (es.: MC renali e cardiache) presen-tano un incremento, ma è chiaramente “falso”, attribuibile alla diagnosi, migliore o più precoce;

b) alcune MC gravi, diagnosticabili durante la gravidanza, presen-tano un incremento della PN (come detto sopra) e un decremen-to nella PP laddove l’IGDP è consentita e praticata (es.: sindrome di Down e difetti del tubo neurale);

c) la sindrome di Down (in misura minore la trisomia 13 e 18) presenta incrementi o decrementi sia della PN che della PP per effetto della maggiore o minore proporzione di donne che hanno figli in età avanzata, ma la frequenza standardizzata per età materna non cambia; la PP è variabilmente influenzata oltre che dall’effetto età materna soprattutto dalla migliorata soprav-vivenza (che determina un leggero aumento) e dalla maggiore diffusione di IGDP (che determina un forte decremento); in Italia si può stimare che l’intreccio dei vari fattori abbia prodotto negli ultimi trent’anni una variazione di PP della sindrome di Down a 6 anni da 1,35 a 0,40 per mille 6;

d) l’ipospadia aveva presentato un incremento in alcune popola-zioni negli anni ’60-’80 (Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Un-gheria, Stati Uniti) (Paulozzi, 1999), il cui significato era rima-

Figura 1. Abortività spontanea di feti con Trisomia 21 dopo diagnosi prenatale con prelievo di villi coriali o amniocentesi.

6 Nel 1974 la PN era di 1,8 per mille, con una sopravvivenza a 5 anni del 75% la PP a 6 anni nel 1980 anni era di 1,35. Nel 2004 la PN risulta dell’1,74 per mille, e con una sopravvivenza a 5 anni dell’85%, si può stimare una PP a 6 anni nel 2010 dello 0,4 per mille.

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sto oscuro. Più recentemente (anni 1980-2000) un incremento attendibile è stato osservato soltanto nel registro dell’Australia Occidentale (Nassar et al., 2007) con un incremento dal 2,8 per mille nel 1980 al 4,3 per mille nel 2000 (l’incremento maggio-re osservato per le ipospadie peniene e peno-scrotali da 0,34 a 0,63 per mille esclude un bias legato alla migliore registra-zione di forme lievi). Non è stata fornita una buona spiegazione di questo incremento e rimane il dubbio che alcuni incrementi di quelli osservati negli anni passati siano reali. La spiegazione più accreditata ed interessante per i possibili sviluppi futuri po-trebbe essere quella legata ad un qualche deterioramento della salute riproduttiva maschile (es.: maggiore diffusione ambien-tale dei pesticidi con effetto di endocrine disruptors (Fernandez et al., 2007) oppure ad un maggior numero di nati da coppie subfertili (trattate o no con farmaci o tecniche di riproduzione assistita), che hanno un rischio maggiore di ipospadia e che in proporzione sono oggi più numerosi che nel passato, anche per una ridotta fertilità volontaria delle coppie normalmente fertili (Kallen et al., 1986 e 1991);

e) i difetti del tubo neurale presentano in alcune popolazioni un sicuro decremento “naturale” attribuibile molto probabilmente a migliore alimentazione e migliori condizioni di vita e un chiaro decremento, ulteriore, in Canada, Stati Uniti, Costarica, Cile, Sud Africa “indotto” dalla fortificazione alimentare con acido folico (Eichholzer et al., 2006; De Wals et al., 2007);

f) la gastroschisi presenta un incremento in molte popolazioni del Nord Europa, Australia, Stati Uniti, ma non in Italia e Spagna (Ma-stroiacovo et al., 2006). La spiegazione dell’incremento è ancora misteriosa con un’unica ipotesi ragionevole: l’insieme di fattori che caratterizzano un diverso stile di vita (es.: scarsa alimen-tazione con tendenza alla magrezza, abitudine al fumo, uso di sostanze stupefacenti, più partner sessuali, infezioni vaginali) di un crescente numero di giovani donne (< 20-25 anni) (Draper et al., 2007).

Impatto delle malformazioni congenite sulla salute materna e infantileL’impatto delle MC sulla salute è considerevole e può essere va-lutato attraverso vari indicatori: aborti spontanei, IGDP, mortalità, basso peso neonatale, disabilità, costo economico, solo per citare i più noti.

Aborti spontaneiGli studi più recenti indicano che la stragrande maggioranza degli aborti spontanei precoci sono attribuibili ad anomalie cromosomiche (70-75%) o a gravi anomalie dello sviluppo, più spesso MC multiple (Fritz et al., 2001; Philipp et al., 2003).

Frequenza IGDPLa frequenza delle IGPD può essere misurata come rapporto di IGDP/per 1.000 nati. I dati disponibili in letteratura sono ancora par-ziali. Per avere un dato globale è necessario utilizzare le informazioni fornite da alcuni registri (ICBDSR, 2007). Si può notare (Tab. III) che in alcune nazioni tale rapporto raggiunge valori del 4-7 per mille. Le malformazioni che contribuiscono maggiormente alle IGDP sono: trisomia 21, difetti del tubo neurale e idrocefalia. Nella Tabella IV è presentata la percentuale di IGDP sul totale dei casi per 12 malfor-mazioni in Gran Bretagna e in Italia.

MortalitàOggigiorno l’impatto delle MC sulla natimortalità, mortalità perina-tale e mortalità neonatale è distorto dalle frequenti IGDP (Liu et al., 2002; Davidson et al., 2005). Più utile quindi valutare globalmente l’impatto delle MC sugli esiti infausti della gravidanza (IGDP + nati morti + morti neonatali). Dati attendibili di questo tipo sono forniti per ora solo da due Registri Australiani (Australia Occidentale e dello stato Vittoria), che indicano che circa 8 gravidanze su mille hanno un

Tabella III. Impatto delle malformazioni congenite sulle interruzioni di gravidanza dopo diagnosi prenatale (IGDP).

Anno IGDP Rapporto IGDP/

1.000 nati

Germania, Sassonia-Anhalt 2004 74 4,25

Italia, Toscana 2004 124 4,28

Svezia 2004 455 4,49

Italia, Campania 2004 288 4,73

Finlandia 2004 286 4,94

Australia, Victoria 2004 331 5,25

Francia, Centro-orientale 2004 569 5,38

Galles 2004 179 5,51

Repubblica Ceca 2004 598 6,15

Cuba 2004 772 6,35

Australia Occidentale 2005 180 6,69

Francia, Strasburgo 2004 91 6,79

Fonte: ICBDSR Annual Report 2006, Registri con dati più validi per valuta-re l’impatto delle malformazioni sulle IGDP.

Tabella IV. Percentuale di IGDP sul totale dei casi (nati + IGDP) in 5 regioni della Gran Bretagna (Rankin et al., 2005) e in 3 regioni italiane* (ICBDSR, 2007).

Gran Bretagna (1991-1999)

Italia (2003-2004)

% n % n

Anencefalia 89,4 483 89,8 53

Spina bifida 73,8 384 74,5 70

Idrocefalia 46,8 177 80,1 133

Ipoplasia ventricolo sinistro

42,6 83 63,5 33

Atresia anorettale 30,5 460 31,9 23

Agenesia renale bilaterale

67,6 73 39,7 27

Reni cistici 23,8 102 41,8 33

Ernia diaframmatica 29,0 69 31,7 20

Omfalocele 44,9 93 63,6 42

Trisomia 21 43,7 716 68,8 267

Trisomia 13 65,4 100 72,7 24

Trisomia 18 65,8 244 79,2 61

* = Emilia Romagna, Toscana e Campania; ICBDSR Annual Report 2006.

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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione

Figura 2. Tasso di mortalità 0-5 anni in Italia (1951-2002), e percentuale di morti per malformazioni congenite.Fonte: http://www.who.int/whosis/mort/download/en/index.html

Tabella V. Mortalità 0-5 anni in totale e per malformazioni congenite (MC). Percentuale di morti per MC sulla mortalità totale e percentuale di morti per cardiopatie congenite sul totale delle morti per MC.

Paese Triennio piùrecente

disponibile

Mortalità 0-5 anni(x 10.000)

Mortalità 0-5 anniper MC (x 10.000)

% Morti per MC sultotale morti 0-5 anni

% Morti per cardiopatie sul totale morti per MC

Hong Kong 2002-2004 31,3 8,3 26,5% 35,0%

Singapore 2001-2003 34,9 9,4 26,8% 38,4%

Giappone 2002-2004 40,0 12,9 32,3% 47,7%

Finlandia 2002-2004 40,0 10,9 27,4% 32,3%

Svezia 2000-2002 41,1 12,8 31,2% 31,7%

Norvegia 2002-2004 44,5 12,6 28,2% 34,9%

Spagna 2002-2004 49,4 13,2 26,8% 46,2%

Germania 2002-2004 51,4 12,8 24,9% 39,3%

Francia 2001-2003 51,5 9,7 18,9% 43,3%

Grecia 2002-2004 52,1 18,9 36,3% 41,6%

Austria 2003-2005 52,6 13,5 25,7% 32,3%

Italia 2000-2002 53,1 15,1 28,5% 45,7%

Irlanda 2003-2005 55,1 19,6 35,7% 25,7%

Olanda 2002-2004 57,6 16,9 29,3% 29,9%

Australia 2001-2003 59,9 12,8 21,4% 28,9%

Portogallo 2001-2003 61,4 13,7 22,3% 42,8%

Israele 2001-2003 63,8 13,3 20,9% 35,2%

Malta 2001-2003 66,5 26,1 39,2% 25,8%

Nuova Zelanda 2001-2003 70,3 14,9 21,2% 28,0%

Stati Uniti 2000-2002 81,4 15,2 18,7% 31,7%

Inghilterra 2002-2004 92,5 19,3 20,9% 34,9%

Canada 2001-2003 94,1 21,2 22,5% 28,4%

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esito infausto entro i primi 28 giorni dopo il parto a causa di una MC grave (1 su 125) 7. (WABD, 2006; VPDCU, 2004).La mortalità infantile e più recentemente il tasso di mortalità 0-5 anni è un indicatore classico. Tuttavia va tenuto presente che i dati disponibili non sono del tutto validi e forniscono la stima minima poiché spesso nei certificati di morte non viene indicata la MC come causa di morte (Copeland e Kirby, 2007) e che nei Paesi sviluppati il tasso di mortalità infantile ed a 5 anni di vita è influenzato dal numero di IGDP (Bourke et al., 2005) e quindi può risultare inferiore al passato.In Italia il tasso di mortalità 0-5 anni è diminuito costantemente dall’84 per mille nel 1951 fino al 5 per mille nel 2002 (Fig. 1). La proporzione di morti per MC 8 è andata crescendo dal 5% al 28% poiché non vi è stato un decremento parallelo nella mortalità specifica per MC. Og-gigiorno, nonostante un decremento del tasso specifico per MC (da 4,0 a 1,5 per mille), dovuto anche ad un crescente numero di IGDP (che hanno eliminato dal conteggio le MC più gravi, es.: anencefa-lia, agenesia renale, anomalie cromosomiche) più di un bambino su 4 muore entro i primi 5 anni di vita a causa di una MC, di cui quasi la metà per una cardiopatia congenita. Nella Tabella V sono presentati i dati di mortalità per MC in alcuni Paesi sviluppati; si può notare che in Italia la mortalità specifica per MC non è tra le più basse ed è quindi ragionevole auspicare un decremento nei prossimi anni.

Basso peso neonataleConsiderando che la frequenza di peso neonatale inferiore a 2.500 grammi è intorno al 5% e che la frequenza di MC gravi è 3,6 volte più elevata nei nati con basso peso (circa 10% invece dell’usuale 3%) (Dolan et al., 2007), si può calcolare che la frazione di basso peso attribuibile alle MC è del 7,2%. È questa la quota di decremen-to del basso peso neonatale se fossero prevenute tutte le MC.

Disabilità intellettiveTre indagini svolte in Australia Occidentale (Petterson et al., 2007), Stati Uniti, California (Jeliffe-Pawlowski et al., 2003) e Atlanta (De-couflé et al., 2001) consentono di stimare l’impatto delle MC sulle disabilità intellettive. Le tre indagini forniscono rispettivamente valori di frazione attribuibile alle MC del 15,7% (Atlanta), 26,5% (Australia Occidentale), 33,5% (California), con differenze di stima attribuibili principalmente alla definizione di disabilità intellettiva, ad esempio in California sono stati valutati anche casi lievi e ad Atlanta anche casi con paralisi cerebrali.

Costo economicoIl costo economico delle MC è stato valutato raramente; un’indica-zione, che va presa con le dovute cautele per le differenze notevoli nei sistemi socio-sanitari, è fornita da uno studio effettuato negli Stati Uniti (CDC, 1995) (Tab. VI).

Fattori di rischio per le malformazioni congeniteNel mondo, negli ultimi anni, sono stati condotti numerosi studi per individuare i fattori di rischio (cause, concause o teratogeni, che dir si voglia) per l’insorgenza di MC. Il tema più studiato è stato il ruolo di un apporto non ottimale di acido folico (ed altre

vitamine del gruppo B) nell’insorgenza dei difetti del tubo neurale (DTN – anencefalia e spina bifida), ma anche molto probabilmente di cardiopatie, LPS, ipo-agenesie degli arti ed altre malformazioni. A questo tema è dedicato un articolo di revisione su questa rivista (Scala et al., in press). In questa sede è sufficiente ricordare che un’associazione tra apporto non ottimale di acido folico (e altre vitamine?) è un fattore di rischio chiaramente dimostrato per i DTN, suggestivo per altre malformazioni e che la fortificazione o la supplementazione con acido folico sono azioni efficaci per pre-venzione dei DTN e probabilmente di altre malformazioni. La novità più rilevante è che proprio di recente in Italia è stato approvato dall’AIFA (Agenzia Italiana per il Farmaco) un trial randomizzato per valutare l’efficacia di acido folico a 0,4 vs. 4 mg/die, per la prevenzione delle MC nel loro insieme. Uno studio, questo, che ha più valore di stimolare studi simili in tutto il mondo (meta-analisi prospettica) che di dare risposte definitive data l’ampia dimensio-ne campionaria necessaria.Non sono mancati studi su vari farmaci, malattie o condizioni ma-terne, agenti ambientali (macro-ambientali o ambienti di lavoro), abitudini alimentari, alcol, fumo. I risultati, spesso negativi o non conclusivi, non hanno fornito alcuna sostanziale novità in confronto a quanto già noto (si veda ad esempio per i farmaci la recente pub-blicazione curata dall’Autore di questo articolo per l’AIFA – AIFA, 2005) eccetto che per quanto riguarda la conferma abbastanza definitiva del rischio aumentato di circa il 50% di schisi orali dopo esposizione a corticosteroidi (Pradat et al., 2003; Carmichael et al., 2007; Kallen e Otterblad Olausson, 2007) e l’ipotesi (fondata anche su studi in animali di laboratorio) di un rischio aumentato

Tabella VI. Costo economico in dollari USA (valore 1992) di alcune malformazio-ni congenite (MMWR, 2005).

Costo per caso (§) (migliaia di dollari)

% costi diretti medici

Tronco arterioso comune 505 51,9%

Sindrome di Down 451 36,1%

Ventricolo unico 344 36,4%

Spina bifida 294 50,7%

Trasposizione dei grossi vasi 267 33,0%

Tetralogia di Fallot 262 52,5%

Ernia diaframmatica 250 17,3%

Ipo-agenesie arti inferiori 199 17,4%

Onfalocele 176 21,2%

Atresia dell’esofago 145 60,2%

Gastroschisi 108 50,5%

Labio e/o palatoschisi 101 16,8%

Ipo-agensie arti superiori 99 20,6%

Difetti ostruttivi vie urinarie 84 13,4%

(§) = Il costo totale comprende costi diretti e indiretti. Nota bene: non è consigliabile l’estrapolazione di questi dati ad altre realtà.

7 Questa cifra dovrebbe sorprendere chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i tassi di mortalità perinatale e neonatale. Il dato fornito (8 esiti infausti per mille) è calcolato in Australia ove esiste una prevalenza relativamente più elevata che in Italia (ad esempio) di DTN e comprende anche quelle gravidanze che vengono interrotte ma che sarebbero andate incontro naturalmente ad aborto spontaneo. Il problema troverà migliore soluzione comparativa nel tempo e tra popolazioni quando verranno sempre considerati tutti gli esiti infausti dopo la 12°-13° settimana, valutandone i motivi.

8 Sarebbe più appropriato dire: “associate a MC”, senza inferire su un nesso di causa-effetto.

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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione

di spina bifida per esposizione a farmaci antiretrovirali (efavirenz, zidovudina, delavirdina) (Watts, 2007).Meritano un più ampio dettaglio per le recenti messe a punto: i far-maci anticonvulsivanti, le tecniche di procreazione assistita, l’obesi-tà e le bevande alcoliche.

Anticonvulsivanti (Artama et al., 2005; Kini et al. 2005; Perucca, 2005, Meador et al., 2006; Tomson e Hiilesmaa, 2007)L’epilessia in gravidanza ha una prevalenza intorno allo 0,5%. Di per sé l’epilessia non è associata ad un rischio più elevato di MC. L’uso di farmaci anticonvulsivanti di vecchia generazione (es.: trimetadione, fenitoina, fenobarbital, valproato) soprattutto se in politerapia comportano un aumento del rischio di MC gravi di 2-3 volte (6-10% vs. 2-3%). Il rischio risulta più elevato per varie malformazioni, in particolare schisi orali, cardiopatie ed ipospadia. Valproato e carbamazepina sono associati ad un rischio più eleva-to di spina bifida rispettivamente del 2-5% e dello 0,5-1%. Soltan-to il valproato presenta un effetto dose (più elevato con dosaggi > 800-1.000 mg/die). In monoterapia il farmaco più teratogeno è il valproato, il meno teratogeno il fenobarbital. Gli anticonvulsivanti di vecchia generazione sono associati anche ad un rischio aumen-tato di aborto spontaneo, nati morti, ritardo di crescita intrauterino e dimorfismi minori soprattutto a carico del volto. Questi ultimi, comuni a tutti gli anticonvulsivanti, non predicono tuttavia uno svi-luppo psico-motorio ritardato, la cui reale presenza, seppure mo-desta e limitata a specifiche aree di sviluppo, è ancora in dubbio. Per quanto riguarda i nuovi farmaci anticonvulsivanti i più studiati sono la lamotrigina e l’oxcarbazepina. Ambedue non sembrano as-sociati a rischi più elevati anche se per la lamotrigina cominciano a sorgere dubbi e al dosaggio elevato mostra rischi analoghi ai farmaci di vecchia generazione.

Tecniche di procreazione assistitaSono stati pubblicati numerosi studi e recentemente 6 revisioni si-stematiche (Jackson et al., 2004; Kurinczuk et al., 2004; Rimm et al.; 2004; Helmerhorst et al., 2004; Hansen et al., 2005; Lie et al., 2005; Bower e Hansen, 2005) sull’esito delle gravidanze assistite da specifiche tecnologie di riproduzione (ART).Nel loro insieme queste revisioni indicano che i nati singoli han-no un rischio circa doppio di mortalità perinatale e di prematurità e del 50% in più di essere piccoli per età gestazionale. I nati ge-melli non presentano invece tali rischi aumentati, ma il problema non ancora ben affrontato è quello del gruppo di controllo utilizzato comunemente (tutti i gemelli, invece che soltanto gemelli dizigoti, che rappresentano il 95% dei gemelli dopo ART e il 60% dei ge-melli naturali, dato che i monozigoti hanno rischi più elevati). Per quanto riguarda le MC le meta-analisi condotte indicano un rischio aumentato del 30-40% senza differenze tra le varie tecniche uti-lizzate. Risultato del tutto simile a quello ottenuto in un solo studio (successivo e non incluso nelle meta-analisi) svolto in Svezia (Kallen et al., 2005) su un campione molto ampio (simile a quello ottenuto nelle meta-analisi). Questo studio, data la dimensione del campione, le caratteristiche metodologiche e la competenza nel campo delle MC degli Autori è senza dubbio il più informativo e più istruttivo, più delle meta-analisi. Le conclusioni di questo studio sono che i nati dopo ART hanno effettivamente un rischio aumentato di MC, del 42%, senza differenze tra le diverse tecniche, ma tale rischio è attribuibile in gran parte alle caratteristiche materne in particolare alla subfertilità, come più volte era stato ipotizzato, e forse anche ad un più attento accertamento delle MC nel corso di gravidanze assistite (bias di attenzione). Nell’ambito delle varie malformazioni

alcune mostrano rischi più elevati di altre: spina bifida, atresie del tratto alimentare, VATER, atresia delle coane, ipospadia e sindromi con difetto di imprinting; rischi tutti molto modesti sia dal punto di vista personale che di sanità pubblica, ma non del tutto trascurabili dal punto di vista della ricerca. Tali difetti infatti potrebbero trova-re una spiegazione più che nelle tecniche di riproduzione assistita nelle caratteristiche parentali di sub-fertilità che ancora rimangono misteriose sul piano biologico.

Bevande alcolicheÈ noto da tempo che l’abuso di bevande alcoliche durante la gravi-danza può determinare una “serie di difetti associati all’alcol” (Fetal alcohol spectrum disorders – FASD) (Wattendorf e Muenke, 2005). L’abuso (oltre 5 drink al giorno, anche occasionale) può determinare la manifestazione più grave, la sindrome feto-alcolica, caratterizzata da dimorfismi facciali, deficit dell’accrescimento e dello sviluppo in-tellettivo e MC. Negli ultimi anni è stato definito che anche moderate quantità di bevande alcoliche, corrispondenti a 1-2 drink al giorno (ma la soglia di sicurezza non esiste!!!), possono rappresentare un fattore di rischio anche per deficit di sviluppo intellettivo o anomalie del comportamento senza alterazioni morfologiche (Peadon et al., 2007). In Italia un’attenta indagine svolta nei Castelli Romani ha recentemente indicato che la prevalenza tra bambini in età scola-re dei difetti morfologici o funzionali (soprattutto difficoltà dell’ap-prendimento, iperattività e deficit di attenzione) associati all’uso di bevande alcoliche (in media 9 drink a settimana contro 1,6 drink a settimana nei controlli) è del 3,5% (Ceccanti et al., 2007; May et al., 2006; Kodituwakku et al., 2006). Una prevalenza ben superiore a quanto poteva essere immaginato o atteso da coloro che focalizzano l’attenzione solo sulla sindrome feto-alcolica.Gli studi sull’alcol dimostrano che per un’efficace epidemiologia e prevenzione dei fattori di rischio prenatali non possiamo limitarci ad analizzare solo i difetti strutturali più gravi ed evidenti, o quelli morfologici più lievi, ma comprendere anche difetti congeniti fun-zionali. Ciò necessita studi su bambini più grandicelli, e quindi studi di coorte a lunga scadenza. Tale riflessione non è limitabile all’alcol, ma va estesa a molti altri e diversi fattori di rischio.

ObesitàDiversi studi hanno fornito una sufficiente evidenza che le donne obe-se (BMI > 30,0) hanno un rischio doppio di avere figli affetti da spina bifida (Waller et al., 2007). L’obesità e in misura minore il sovrappeso (BMI > 25,0 < 30,0) sono stati indicati come fattori di rischio per car-diopatie, omfalocele e difetti multipli. In alcuni studi con sufficiente potenza anche labio-palatoschisi, atresia anorettale, ipospadia, ipo-agenesie degli arti, ed ernia diaframmatica sono risultati associa-ti all’obesità. Considerando la crescente frequenza del sovrappeso e dell’obesità nei paesi sviluppati (es.: negli Stati Uniti il 51% delle donne 20-39 anni risultano soprappeso) si comprende che questo problema assume un’importanza rilevante per la sanità pubblica.

Sviluppi nella ricerca dei fattori di rischioLo sviluppo degli studi di biologia molecolare hanno consentito di studiare non solo i geni che possono essere coinvolti nel determi-nismo di alcune MC (geni candidati) ma anche l’associazione tra polimorfismi genici e malformazioni congenite (fattori di rischio ge-netici). I polimorfismi più studiati sono stati fino ad ora quelli dei geni implicati nel metabolismo dell’acido folico, nel tentativo di trovare una spiegazione all’effetto preventivo di questa vitamina. Il polimor-fismo C677T, del gene MTHFR, è stato studiato in molte malforma-

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zioni (es.: spina bifida, labio-palatoschisi, cardiopatie, sindrome di Down). L’osservazione più consistente è l’associazione con la spina bifida, presente in varie popolazioni (Botto e Yang, 2000), compresa quella italiana (de Franchis et al., 2002), quella più intrigante e an-cora tutta da studiare e chiarire è quella con la Sindrome di Down (Scala et al., 2006). Tali studi comunque cercano di stabilire se un dato polimorfismo è fattore di rischio per una o più malformazioni e sono di estrema utilità per comprendere la patogenesi. Ancora più interessanti ed utili sono gli studi di interazione tra i polimorfismi ge-nici ed alcuni agenti ambientali (interazione geni-ambiente) e quel-li di interazione tra fattori ambientali (Botto et al., 2002). È questo il campo più promettente di tutta la ricerca sulle MC. Al momento attuale gli studi disponibili sono limitati (Zeiger et al., 2005; Car-michael et al., 2006) e le modalità di analisi ancora in discussione (Weiss, 2007; Botto, 2007) ma il campo è in forte sviluppo e nel fu-turo potrebbe fornire alcune indicazioni utili per una prevenzione più mirata, basata sulle caratteristiche genetiche delle persone. Come avverrà per i trattamenti farmacologici.

La prevenzione delle malformazioni congeniteLa prevenzione primaria delle MC dipende strettamente dalla ricer-ca di base ed epidemiologica sui fattori di rischio modificabili. Senza l’identificazione del fattore di rischio modificabile (causa o concausa, teratogeno maggiore o minore che dir si voglia) la riduzione della sua frequenza è impossibile. La scoperta più recente ed utile alla preven-zione primaria è il carente apporto di acido folico. La speranza per il futuro è realizzare gli idonei interventi preventivi in tutta la popolazione e precisare alcuni interventi preventivi su base genetica individuale.La prevenzione delle MC, ed ovviamente di altri esiti sfavorevoli della riproduzione umana, può essere attuata principalmente nel periodo pre-concezionale attraverso un accurato counseling che comprenda tutte le informazioni ed azioni riassunte nella Tabella VII (Korenbrot et al., 2002; Curtis et al., 2006; Allen et al., 2007; Lu, 2007).

Prospettive per il futuroLa ricerca sulle cause e sulla prevenzione delle MC è un campo di studio relativamente giovane, entrato solo da qualche anno nella ma-turità. I circa 50 anni di attività sono stati caratterizzati da tre fasi:• realizzazione di sistemi di sorveglianza per definire con preci-

sione la frequenza delle varie malformazioni e valutarne l’anda-mento temporale per identificare precocemente eventuali incre-menti o cluster;

• più o meno contemporaneamente hanno avuto inizio e si sono sviluppati studi osservazionali (di coorte o caso-controllo) per individuare eventuali fattori di rischio ambientali, con uno svi-luppo importante, più di recente, di valutazione delle interazioni geni-ambiente o tra fattori ambientali;

• più recentemente hanno potuto svilupparsi gli studi di imple-mentazione dei risultati della ricerca nella pratica clinica e in sanità pubblica e la conseguente valutazione dell’efficacia di misure preventive implementate.

La prima fase di ricerca è stata attuata con successo (anche se parziale) in quasi tutti i Paesi sviluppati (seppure in molte nazioni solo in alcune aree), ma ancora molto, se non tutto, deve essere realizzato nei Paesi in via di sviluppo. Anche nei Paesi sviluppa-ti è opportuno che i sistemi di sorveglianza vengano affinati. È indispensabile migliorare la definizione diagnostica dei “casi”, evitare l’analisi di fenotipi simili morfologicamente ma eterogenei dal punto di vista eziologico. Non è più sopportabile la valutazio-ne delle varie malformazioni comunque si presentino (isolate, in associazioni non chiare eziologicamente o sindromiche). È anche necessaria una maggiore specificità di analisi: la valutazione del-l’andamento temporale delle varie MC si è rivelato poco utile, se non del tutto inutile, più opportuno analizzare alcuni fenotipi più specifici (es.: spina bifida per sede e tipo, malformazioni multiple) o le associazioni tra fattori di rischio e MC (es.: nel progetto MADRE dell’ICBDSR vengono analizzate le associazioni farmaco nel primo trimestre di gravidanza-malformazione). Altrettanto indispensabile è valicare il confine della sorveglianza a scopi eziologici ed utiliz-zare i sistemi di sorveglianza per valutare nel tempo la frequenza dei fattori di rischio noti e soprattutto la salute e la qualità di vita dei nati con MC, nonché la qualità dei servizi socio-sanitari di as-sistenza e prevenzione. Il tutto realizzato in modo efficiente utiliz-zando le statistiche correnti delle molteplici fonti informative e le tecniche di record linkage. I vari registri e sistemi di sorveglianza hanno dimostrato l’inutilità delle indagini trasversali volte a defi-nire con precisione la frequenza delle varie malformazioni, meglio andare diritti al cuore del problema con sistemi di sorveglianza moderni ad ampi obiettivi o con indagini eziologiche di coorte o caso-controllo. Questa osservazione ci porta ad alcune considera-zioni nel campo della ricerca eziologica vera e propria. In questo campo il futuro ci porterà sicuramente alla realizzazione di studi collaborativi. La rarità delle singole malformazioni, la necessità di indagare su specifici fenotipi (es.: labioschisi isolate, e non gene-ricamente tutte le schisi orali isolate o parte di sindromi note o ignote) impone una ricerca collaborativa internazionale. Negli Stati Uniti questo percorso è già iniziato da qualche anno (Yoon et al., 2001) con uno studio caso-controllo di ampie dimensioni (su una popolazione di circa mezzo milione di nati per anno) e con ampi obiettivi (incluso lo studio dell’interazione geni-ambiente e tra fat-tori ambientali). Il salto di qualità potrà comunque essere fatto solo attraverso una multidisciplinarietà tra competenze epidemiologi-che tradizionali e competenze di epidemiologia genetica. È infatti ormai irrinunciabile pianificare gli studi eziologici con un approccio in grado di individuare le possibili interazioni geni-ambiente. Infine è prevedibile che gli sviluppi del terzo settore di ricerca (imple-mentazione e valutazione efficacia interventi preventivi) consenti-ranno di individuare le aree deboli in cui operare per migliorare il trasferimento dei risultati della ricerca nella pratica clinica giorna-liera e negli interventi di sanità pubblica. È questo forse il settore che merita i maggiori sforzi, data la complessità delle barriere, non solo sanitarie ma soprattutto psico-sociali, che si frappongono nel trasferimento di conoscenze eziologiche in azioni preventive efficaci per tutta la popolazione.

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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione

Tabella VII. Come prevenire le malformazioni congenite ed altri esiti sfavorevoli della riproduzione attraverso il counseling preconcezionale.

Ambito Che cosa deve fare il medico Obiettivo

Incoraggiamento alla programmazione della gravidanza

Aiutare la donna ad individuare la migliore stra-tegia di controllo della fertilità e programmazione della gravidanza

Evitare gravidanze indesiderate

Promozione stili di vita per il miglioramento o mantenimento di un buono stato di salute

Prescrivere acido folico (0,4mg/die; 4 mg/die se rischi di MC più elevati)

Aumentare i livelli di folatemia e diminuire quelli di omocisteinemia in vista della gravidanza

Chiedere abitudini alimentari Incoraggiare alimentazione ricca di frutta e ver-dura, povera di grassi

Calcolare l’indice di massa corporea (IMC) Fornire informazioni per ottenere un IMC normale prima del concepimento

Chiedere abitudine al fumo Individuare insieme alla coppia la migliore strate-gia per smettere di fumare

Raccogliere informazioni su uso di bevande al-coliche

Informazione su astensione completa in previsio-ne e durante la gravidanza. Indirizzare a servizi di aiuto specifici per ridurre, se uso eccessivo.

Raccogliere informazioni sull’uso di sostenze stupefacenti anche occasionalmente

Indirizzare a servizi di aiuto specifici, se l’infor-mazione non è sufficientemente efficace.

Chiedere uso più o meno abituale di farmaci po-tenzialmente teratogeni, in particolare retinoidi, warfarina, anticonvulsivanti

Fornire informazioni su quali farmaci vanno evi-tati in vista della gravidanza (es.: anticoagulanti cumarinici, retinoidi, abuso benzodiazepine, vita-ma A a dosi elevate)

Prevenzioni danni da malattie infettive Prescrivere esami per anticorpi contro varicella, rosolia, epatite B

Vaccinazione rosolia, varicella, epatite B se su-scettibile

Prescrivere esami per anticorpi contro la toxo-plasmosi

Informare sullo stato anticorpale nel periodo pre-concezionale, fornire informazioni di prevenzione primaria se suscettibile, informazione anticipata sull’eventuale diagnosi e trattamento se siero-conversione in gravidanza

Prescrivere esami per anticorpi contro la CMV Informare sullo stato anticorpale nel periodo pre-concezionale e informazione anticipata sulle pre-cauzioni per ridurre il rischio di infezione in gravi-danza se suscettibile: lavaggio mani e precauzioni per assistenti all’infanzia e personale sanitario

Informare sui rischi dell’influenza e dell’iperter-mia (> 38°C)

Eventuale vaccinazione per l’influenza, consiglia-re paracetamolo in caso di febbre elevata duran-te la gravidanza.

Valutazione del rischio di malattie a trasmissione sessuale, compreso HIV e lue. Esecuzione del Pap test

Counseling, diagnosi ed eventuale trattamento

Identificazione rischi per malattie genetiche Anamnesi familiare per malattie genetiche, com-prende valutazione età materna e appartenenza particolari gruppi etnici a rischio di malattie ge-netiche

Indirizzare alla consulenza genetica e all’acquisi-zione delle informazioni sulle opzioni riproduttive, sugli esami da eseguire in gravidanza e sulla mo-dalità di diagnosi prenatale

Valutazione rischio MEN: prescrizione emocromo, fattore Rh e gruppo sanguigno

Valutare rischio MEN e prescivere test di Coom-bs indiretto se necessario; valutare emocromo come screening di talassemia minor ed altre emoglobinopatie e valutare opportunità elettro-foresi Hb

Trattamento malattie croniche Anamnesi personale con particolare riferimento a: diabete, epilessia, ipo/iper-tiroidismo, iper-tensione, malattie cardio-vascolari, asma, LES, disturbi dell’umore, fenilchetonuria

Iniziare il trattamento più idoneo in vista della gravidanza e programmarla quando il trattamen-to e il controllo della malattia sono ottimali

Identificazione rischi psico-sociali Identificare depressione, violenza domestica, stress psico-sociali

Indirizzare a servizi di aiuto specifici

Precauzioni per evitare inquinanti ambientali e lavorativi

Valutare con servizi specifici di medicina del la-voro i rischi per la coppia legati a sostanze chimi-che, gas tossici e radiazioni

Informare sui rischi legati agli ambienti di lavoro con eventuale astensione sin dal periodo di pia-nificazione della gravidanza; informare su rischi (anche se minimi) legati a solventi organici e pe-sticidi utilizzati in attività domestiche/hobby.

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P. Mastroiacovo

Cosa sapevamo• Anni 1962-1982 - Scoperta del più noto teratogeno: la talidomide. - Individuazione di vari farmaci (es.: farmaci anticonvulsivanti) o condizioni materne (es.: diabete tipo 2) come fattore di rischio per malformazioni congenite. - Inizio attività di alcuni registri e prime stime della frequenza delle varie malformazioni in diverse popolazioni. - Azioni preventive limitate alla rimozione della talidomide dal commercio libero e vaccinazione anti-rosolia con strategie sempre più efficaci

(vaccinazione universale e non solo alle bambine). - Prime osservazioni di Smithells et al. sulla possibilità di prevenire la ricorrenza dei DTN con vitamine. Prospettive in Pediatria pubblica un

lavoro di Smithells dal titolo: “È possibile prevenire le malformazioni congenite?”.• Anni 1983-2002 - Scoperta di altri fattori di rischio tra cui acido valproico, retinoidi e villocentesi precoce. - Sviluppo studi caso-controllo e revisioni sistematiche per individuare nuovi fattori di rischio o precisarne la dimensione. - Ampliamento obiettivi della ricerca sui fattori di rischio: non solo farmaci ed infezioni, ma vari fattori ambientali (poco produttiva) e condizioni materne (più promettente, es.: obesità, ipertermia, sub-fertilità). - Scoperti altri farmaci teratogeni in situazioni particolari (es.: misoprostol per provocare aborti, fluconazolo ad alte dosi). - Attivati molti registri per precisare la frequenza delle MC nelle varie popolazioni e valutarne l’andamento nel tempo. - Diffusione della diagnosi prenatale e maggiore attenzione rivolta alla prevalenza totale delle MC piuttosto che alla prevalenza tra i nati.

Cosa sappiamo oggi 2003-2007• Dimostrata inequivocabilmente l’efficacia di una misura preventiva di sanità pubblica universalmente accettata: vaccinazione antirosolia (pur esi-

stendo ancora lacune di efficacia in molte nazioni sviluppate come l’Italia).• Dimostrata ma non accettata ovunque un’altra decisiva misura preventiva di sanità pubblica: supplementazione e/o fortificazione con acido folico di

alimenti comuni.• Precisata la frequenza delle varie MC e la loro variabilità nel tempo e nelle popolazioni.• La ricerca si è avviata sulla strada della valutazione delle interazioni tra geni e più decisivo nel campo della prevenzione della interazione tra geni e

fattori ambientali.• Precisati i rischi associati all’obesità, all’alcol, alle terapie anti-epilettiche e alle tecniche di riproduzione assistita.• Iniziata una significativa azione di promozione del counseling pre-concezionale come intervento più adatto ad integrare tutte le conoscenze fino ad

oggi acquisite per la prevenzione delle malformazioni e di altri esiti sfavorevoli della riproduzione umana.

Cosa ci attendiamo nel futuro• Implementazione diffusa del counseling pre-concezionale con integrazione dei vari interventi preventivi.• Sviluppo della ricerca sociale sui fattori determinanti i comportamenti a rischio e le barriere che impediscono un rapido trasferimento dalla ricerca

alle azioni preventive cliniche o di sanità pubblica.• Sviluppo della ricerca delle interazioni geni-fattori ambientali e tra fattori ambientali.• Maggiore impulso alla ricerca collaborativa per identificare nuovi fattori di rischio o precisare la dimensione di quelli noti.• Ampliamento della sorveglianza da parte dei registri di malformazioni: più precisa (es.: MC isolate; sottotipi di MC, MC multiple), più specifica (es.: sorveglianza associazione MC-farmaci usati nel primo trimestre di gravidanza), più ampia (es.: sorveglianza della qualità di vita delle persone con MC e della qualità dei servizi disponibili).

Box di orientamento

Bibliografia

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*** Manuale di base e completo che affronta tutta la problematica dei farmaci in gravidanza in rapporto al loro rischio teratogeno. Sviluppato con approccio “EBM” contiene anche capitoli sui problemi di base di epidemiologia e di teratologia.

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** Uno dei rari studi che affronta correttamente il problema della prevalenza nella popolazione di bambini/adolescenti con sindrome di Down.

Botto LD, Correa A, Erickson JD. Racial and temporal variations in the prevalence of heart defects. Pediatrics 2001;107:E32.

*** Indagine essenziale per definire la frequenza delle cardiopatie congenite.

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** Anche in Italia l’uso di bevande alcoliche in gravidanza è un problema. Leg-gere questo articolo per credere!

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** Uno dei rari studi che affronta il costo economico di alcune malformazioni congenite e delle paralisi cerebrali. È riferito all’inizio degli anni ’90, e riguarda

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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione

gli Stati Uniti. È un’utile indicazione in mancanza di dati più recenti e specifici.

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de Franchis R, Botto LD, Sebastio G, et al. Spina bifida and folate-related genes: a study of gene-gene interactions. Genet Med 2002;4:126-30.

** Studio svolto in Italia.

De Wals P, Tairou F, Van Allen MI, et al. Reduction in neural-tube defects after folic acid fortification in Canada. N Engl J Med 2007;357:135-42.

*** La più recente tra diverse indagini di valutazione dell’efficacia della fortifi-cazione, utile per comprendere il diverso effetto della fortificazione in rapporto alla prevalenza pre-intervento dei DTN.

Decouflé P, Boyle CA, Paulozzi LJ, Lary JM. Increased risk for developmental disabilities in children who have major birth defects: a population-based study. Pediatrics 2001;108:728-34.

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*** Lo studio più completo che analizza i vari fattori di rischio della gastroschisi.

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*** Uno degli studi più ampi condotti sull’ipospadia, affronta varie problematiche e sebbene datato rimane uno degli studi più interessanti.

Källén B, Castilla EE, Kringelbach M, et al. Parental fertility and infant hypospa-dias: an international case-control study. Teratology 1991;44:629-34.

*** Lo studio che per primo suggerisce la sub-fertilità come un fattore di rischio per l’ipospadia. Essenziale per comprendere altri studi svolti sui fattori di rischio di questa malformazione.

Källén B, Finnström O, Nygren KG, Olausson PO. In vitro fertilization (IVF) in Swe-den: risk for congenital malformations after different IVF methods. Birth Defects Res A Clin Mol Teratol 2005;73:162-9.

** Studio “imperdibile” per chiunque voglia affrontare il quesito del rischio di malformazioni nella riproduzione assistita.

Källén B, Otterblad Olausson P. Use of anti-asthmatic drugs during pregnancy. 3. Congenital malformations in the infants. Eur J Clin Pharmacol 2007;63:383-8.

** Studio interessante non solo per il contenuto specifico ma soprattutto per la metodologia di studio.

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** Uno dei rari studi che affronta il problema della prevalenza nella popolazione di cardiopatie congenite.

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* Articolo più recente che fornisce una buona spiegazione sull’uso dei termini incidenza e prevalenza nel campo dei difetti congeniti.

Mastroiacovo P, Diociauti L, Rosano A. Epidemiology of Down sindrome in the third millennium. In: Rondal, Rasore Quartino, Soresi, eds. The adult with down syndrome. A new challenge for society. London: Whurr, 2004.

** Utile messa a punto dell’epidemiologia della sindrome di Down con stima della prevalenza nelle varie fasce di età, bambini, adolescenti e adulti in Italia.

Mastroiacovo P, Lisi A, Castilla EE. The incidence of gastroschisis: research ur-gently needs resources. BMJ 2006;332:423-4.

Scala I, Bortolus R, Mastroiacovo P. Acido folico nel periodo peri-concezionale: come, quando, perché. Prospettive in Pediatria, in press.

*** Articolo “pratico” di messa a punto globale sugli effetti dell’acido folico sulla riduzione del rischio dei difetti del tubo neurale e di altre malformazioni.

May PA, Fiorentino D, Phillip Gossage J, et al. Epidemiology of FASD in a prov-ince in Italy. Prevalence and characteristics of children in a random sample of schools. Alcohol Clin Exp Res 2006;30:1562-75.

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** Studio esemplare per valutare l’andamento nel tempo della frequenza dell’ipospadia, una malformazione non facile da studiare.

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*** Indagine cruciale che fornisce dati attendibili sulla percentuale di aborti spontanei con sindrome di Down dopo la diagnosi prenatale.

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prof. Pierpaolo Mastroiacovo, Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects, via Carlo Mirabello 19, 00195 Roma • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Vecchie e nuove immunodeficienze

Alessandro Plebani*, Luigi Daniele Notarangelo**

*Clinica Pediatrica, Università di Brescia; **Children’s Hospital, Harvard Medical School, Boston (USA)

RiassuntoNel corso degli ultimi 15 anni, sono stati identificati circa 130 difetti genetici responsabili di immuno-deficienza primitiva nell’uomo. Patologie che apparivano omogenee sotto il profilo immunologico sono in realta’ spesso sottese da difetti genici diversi. Questa eterogeneita’ genetica si associa talvolta an-che ad evoluzione clinica diversa, con importanti implicazioni prognostiche. Infine, studi recenti hanno permesso di stabilire che patologie considerate tipicamente acquisite, come le malattie infettive, sono talvolta dovute a difetti immunologici su base genetica.

SummaryIn the last 15 years, nearly 130 genes have been identified, whose mutations cause primary immunodefi-ciencies in humans. Disorders that were thought to be immunologically homogeneous have been shown to be caused by multiple gene defects, that may lead to variable clinical outcome. This has significant prognostic implications. Finally, it has recently been shown that diseases that were typically considered acquired, such as infectious diseases, may reflect genetically-determined immunological defects.

Alessandro Plebani è nato a Chiuduno (BG) il 27 Marzo 1951. Direttore del-la Clinica Pediatrica dell’Università di Brescia e Direttore Scientifico del Cen-tro di Medicina Molecolare “A. Nocivel-li” (centro, fondato e sostenuto da una famiglia bresciana, per lo studio dei meccanismi patogenetici e lo svilup-po di strategie terapeutiche avanzate delle immunodeficienze primitive). è attualmente Coordinatore della rete IPINET (Italian Primary Immunodefi-ciency Network). Autore di 200 lavori scientifici pubblicati su riviste inter-nazionali, i suoi studi hanno portato alla identificazione dei difetti genetici di diverse forme di immunodeficienze primitive e contribuito a una migliore comprensione dei meccanismi attra-verso i quali l’organismo umano si di-fende dalle infezioni. è sposato ed ha tre figlie. Ama la musica nei suoi vari generi, la lettura e lo sport.

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 73-80

Obiettivi e metodologia della ricerca bibliografica effettuataQuesto articolo di revisione si propone l’obiettivo di analizzare i più recenti sviluppi nel campo dei difetti congeniti dell’immunità, con particolare riferimento alla definizione fisiopatologia di tali malattie e alla identificazione di nuovi difetti genetici. Verranno messe a con-fronto acquisizioni storiche con nuove scoperte, allo scopo di illu-strare come la nostra stessa comprensione dei quadri morbosi deb-ba necessariamente essere soggetta a continui ripensamenti critici. Verranno anche illustrate alcune scoperte che potrebbero mettere in dubbio persino la natura di quadri clinici per tradizione considerati tipicamente acquisiti, come alcune forme acute di malattie infettive. Infine, verranno discusse le implicazioni diagnostiche e terapeutiche che queste acquisizioni comportano. Il lavoro si è basato su:

a) revisione sistematica della letteratura degli ultimi 5 anni, con-dotta utilizzando come motore di ricerca PubMed e le seguenti parole-chiave:

1) primary immunodeficiency; 2) innate immunity; 3) adaptive immunity; 4) gene defects; 5) infectious disease. b) personale esperienza di ricerca degli autori e consultazione di

altri esperti nazionali ed internazionali sulla materia.

IntroduzioneI notevoli progressi dell’immunologia cellulare e molecolare in que-sti ultimi anni hanno consentito di meglio identificare i meccanismi patogenetici delle varie forme di immunodeficienze primitive. Questi progressi hanno portato all’identificazione di forme nuove di immu-nodeficienza, mai descritte precedentemente, caratterizzate da una maggiore suscettibilità a infezioni da singoli patogeni, ma anche han-no consentito di suddividere le forme classiche e note da tempo di immunodeficienza, caratterizzate da un’aumentata suscettibilità a molteplici microrganismi e da un profilo immunologico ben definito, in malattie diverse, sulla base dei differenti difetti genetici coinvolti. In altre parole, quelle che prima dell’era molecolare potevano essere considerate un’unica forma di immunodeficienza primitiva sulla base del profilo immunologico, in realtà con l’avvento dell’era molecolare si sono dimostrate essere un insieme di malattie diverse caratterizzate da quadri clinici a gravità differente. è il caso di dire che il vecchio di-venta nuovo e questo cambiamento è legato allo sviluppo delle cono-scenze dell’immunologia di base e della loro applicazione alla clinica.

Immunodeficienze da aumentata suscettibilità a infezioni da patogeni multipli

Agammaglobulinemia L’agammaglobulinemia è una immunodeficienza abbastanza datata: è stata descritta per la prima volta da Odgeon Bruton nel 1952 in un bambino di 7 anni che aveva presentato numerosi episodi infettivi,

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A. Plebani, L.D. Notarangelo

in particolare sepsi, frequentemente sostenute dallo stesso patogeno (Bruton, 1952). Questa osservazione ha spinto Bruton a ipotizzare che il paziente non fosse in grado di produrre anticorpi nei confronti del patogeno stesso, ipotesi confermata dalla dimostrazione che il pazien-te al tracciato elettroforetico (unica metodica disponibile a quel tempo per evidenziare la presenza di anticorpi) mancava del picco γ. Da qui il termine di agammaglobulinemia. In quel tempo non erano ancora stati identificati i vari isotipi delle immunoglobuline sieriche.Dopo la descrizione di questo paziente, numerosi altri casi analoghi con lo stesso difetto immunologico sono stati riportati portando alla identificazione, sulla base della modalità di trasmissione della malat-tia, di forme a trasmissione X recessiva e a trasmissione autosomica recessiva. Nel frattempo i progressi dell’immunologia di base avevano consentito di identificare, mediante l’impiego di reagenti specifici per i linfociti B, le varie fasi della loro differenziazione a livello midollare: dal precursore totipotente alla cellula pro-B, poi pre-B, quindi linfocito B immaturo e infine B maturo che lascia il midollo ed entra in circolo. L’impiego di questi reagenti ha consentito di dimostrare la completa assenza dei linfociti B circolanti nei pazienti con agammaglobuline-mia, a causa di un blocco precoce della differenziazione dei linfociti B. Verso la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, il gene responsabile della forma a trasmissione X recessiva è stato mappato in corrispon-denza del cromosoma X e nel 1993 il difetto è stato identificato nel gene che codifica per una proteina citoplasmatica con attività chinasi-ca denominata, in onore di Bruton, Btk (Bruton tyrosine kinase) (Vetrie et al., 1993). Questa proteina espressa principalmente nei linfociti del-la serie B è essenziale per trasdurre il segnale di differenziazione dalla cellula pro-B a linfocito pre-B, da qui la condizione di agammaglobu-linemia con assenza di linfociti B midollari e circolanti nei pazienti che presentano mutazione di questo gene.

Ma mutazioni del gene BTK non spiegavano le forme autosomiche recessive di agammaglobulinemia che rappresentavano circa il 20% dei casi. Nel frattempo, studi sul modello murino evidenziavano il ruolo cruciale del pre-BCR nella differenziazione dei linfociti B (Mel-tchers et al., 2000). Il pre BCR è un complesso formato dalla catena μ, la catena λ5, la Vpreβ, la Igα e la Igβ. Pertanto i geni che codi-ficano per queste molecole sono stati considerati dei possibili geni candidati della agammaglobulinemia a trasmissione autosomica recessiva nell’uomo. Ed infatti, dal 1996 al 2007 è stato dimostrato che mutazioni della catena μ, della λ5, della Igα e della Igβ, sono responsabili di circa il 60% delle forme di agammaglobulinemia a trasmissione autosomica recessiva (Yel L et al., 1996; Minegishi Y et al., 1998; Minigishi Y et al., 1999; Ferrari et al., 2007a; Ferrari et al., 2007b). In altre parole, al momento attuale il difetto genetico è noto approssimativamente nel 90% delle forme di agammaglobulinemia con assenza di linfociti B circolanti. Questi dati dimostrano come la condizione di immunodeficienza caratterizzata da un punto di vista immunologico da bassi livelli di immunoglobuline sieriche e da as-senza di linfociti B circolanti, non sia in realtà un’unica malattia, ma un insieme di malattie diverse dovute a mutazioni di geni differenti, identificabili solo mediante sequenziamento genico (Fig. 1). Una vec-chia forma di immunodeficienza è stata quindi scomposta in diverse forme nuove. Potrebbe questo spiegare la diversa espressività clini-ca della forme diagnosticate solo sulla base del profilo immunolo-gico? è probabile. Queste nuove conoscenze consentono di meglio costruire la storia naturale dell’agammaglobulinemia e di definirne i fattori prognostici. Da un punto di vista terapeutico il trattamento rimane lo stesso per le varie forme.

L’ipogammaglobulinemia comune variabile L’ ipogammaglobulinemia comune variabile (CVI) è una condizio-ne di immunodeficienza primitiva caratterizzata da bassi livelli di immunoglobuline sieriche con presenza di un numero pressocchè normale di linfociti B, ma funzionalmente difettivi. La CVI è caratte-rizzata da una grande variabilità delle alterazioni immunologiche e dell’espressività clinica, variabilità molto più vasta di quella osserva-ta nell’agammaglobulinemia (Cunningham-Rundles e Bodian, 1999; Quinti et al., 2007; Plebani, et al. 2002; Winkelstein et al., 2006). In-fatti in quest’ultima il profilo immunologico è pressocchè costante in tutti i pazienti: bassi livelli di immunoglobuline e assenza di linfociti B circolanti con integrità del compartimento dei linfociti T. Al contra-rio nella CVI oltre a forme con difetti primitivi dei linfociti B, vi sono forme in cui è possibile evidenziare un difetto del compartimento dei linfociti T (alterazioni nelle varie sottopopolazioni, difetto nella pro-duzione di interleuchine, difetto proliferativo, aumento dell’attività soppressoria), a volte associato a leucopenia/linfopenia.L’eterogeneità della CVI non si esprime solo a livello immunologico ma anche a livello clinico. Oltre agli episodi infettivi, in questi pa-zienti sono relativamente frequenti manifestazioni di tipo autoim-mune (piatrinopenia, vitiligine, artrite, anemia emolitica, malattie infiammatorie intestinali), manifestazioni di tipo granulomatoso, tumori. Queste complicanze sono molto più rare nei pazienti con agammaglobulinemia. All’eterogeneità immunologica e clinica si associa anche un’eterogeneità genetica: oltre a casi con presenta-zione sporadica (la maggior parte) vi sono forme familiari con tra-smissione autosomico dominante o recessiva. Queste osservazioni hanno rafforzato l’idea che anche la CVI fosse un insieme di malattie differenti causate da difetti genetici diversi, con un diverso effetto sull’omeostasi del sistema immune. Ed infatti in questi ultimi anni sono stati identificati almeno tre geni che se mutati danno luogo

Figura 1. Blocco della differenziazione dei linfociti B nell’agammaglobulinemia. In questa immunodeficienza i linfociti circolanti sono assenti per un blocco differenziativo a livello della cellula pro-B che non matura a pre-B. Nella forma X-recessiva questo blocco maturativo è dovuto a mutazioni di BTK che quindi non è in grado di trasferire al nucleo il messaggio differenziati-vo che gli viene trasmesso dal complesso del pre-BCR (B Cell Receptor) espresso sulla superficie della cellula pro-B. In mancanza di BTK non vengono trascritti i geni essenziali per il passaggio da pro-B a pre-B. La forma autosomica recessiva riconosce come causa mutazione dei geni che codificano per componenti del pre-BCR (catena μ, λ5, Igα, e Igβ). Mutazioni di uno di questi geni impediscono la formazione del pre-BCR che non viene espresso sulla superficie cellulare e quindi non trasmette a BTK lo stimolo differenziativi che riceve dal microambiente.

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Vecchie e nuove immunodeficienze

al quadro clinico ed immunologico compatibile con la CVI. Si tratta di mutazioni di ICOS (Inducile Co-Stimulator), TACI (Transmembrane Activator and CAML Interactor) e CD19. Il gene ICOS che codifica per una proteina che viene espressa sui linfociti T attivati; mutazioni di questo gene danno luogo ad una forma di CVI a difetto primitivo dei linfociti T (Grimbacher et al., 2003). ICOS è il recettore di ICOSL (ICOS Ligand) una proteina espressa costitutivamente sui linfociti B. L’interazione ICOS/ICOSL attiva i linfociti B che si differenziano a plasmacellule secernenti immunoglobuline, mentre difetti di tale interazione determinano una condizione di ipogammaglobulinemia. Anche mutazioni del gene che codifica per TACI (Transmembrane Activator and CAML Interactor), una proteina espressa sulla super-ficie dei linfociti B e che agisce da recettore per BAFF (B cell Acti-vating Factor) e APRIL (A PRoliferation Inducing Factor) possono dar luogo a una forma di ipogammaglobulinemia (Salzer et al., 2005). L’interazione di TACI con BAFF e APRIL attiva una serie di processi biochimici che sono cruciali per la “Class Switch Recombination”, meccanismo mediante il quale vengono prodotti tutti gli isotipi delle immunoglobuline. Una difettiva interazione tra TACI e BAFF/APRIL per mutazione di TACI (finora non sono state identificate mutazioni in BAFF o APRIL) comporta un difetto dei meccanismi dello switch isotipico e quindi una condizione di ipogammaglbobulinemia. TACI è una molecola espressa prevalentemente sui linfociti B quindi una sua mutazione comporta un difetto primitivo dei linfociti B. Anche la mutazione del gene che codifica per la molecola CD19 è stato dimostrato essere un’altra causa di difetto primitivo dei linfociti B e quindi di CVI (van Zelm et al., 2006). La molecola del CD19 è costitutivamente espressa sui linfociti B e fa parte di un complesso multiproteico il cui ruolo nella maturazione dei linfociti B a plasmacel-lule producenti immunoglobuline è cruciale. Mutazioni del gene che codifica per la molecola del CD19 interferiscono con la formazione del complesso e da qui la condizione di ipogammaglobulinemia.A differenza dell’agammaglobulinemia dove le mutazioni dei geni iden-tificati come causa di malattia si osservano in circa il 90% dei pazienti, mutazioni dei geni finora identificati come causa di CVI si riscontrano solo nel 5-10% dei pazienti; nella stragrande maggioranza dei pazienti il difetto genetico rimane quindi ancora sconosciuto. I recenti tentativi di classificare i pazienti affetti da CVI sulla base del gene difettivo, stan-no fornendo una ragionevole spiegazione dell’eterogeneità clinica di questi pazienti: le malattie autoimmuni sono più frequenti nei pazienti con mutazioni di TACI. Questo è in accordo con i dati del modello mu-rino, in cui topi knock-out per questo gene presentano una maggiore incidenza di malattie autoimmuni (Seshasayee et al., 2003).Nel complesso, quanto soprariportato conferma che anche per la CVI vale quanto detto per l’agammaglobulinemia e che cioè lo stesso fenotipo immunologico (bassi valori delle immunoglobuline sieriche in presenza di un numero pressocchè normale di linfociti B) può es-sere dovuto a mutazioni di geni differenti (Fig. 2). Quindi una vecchia forma di immunodeficienza può essere scomposta in diverse forme nuove che consentono di meglio definirne la storia naturale, i fattori prognostici e di sviluppare trattamenti più adeguati.

L’immunodeficienza con Iper IgML’immunodeficienza con Iper IgM (HIGM) è una forma di immunode-ficienza primitiva caratterizzata da bassi livelli di IgG e IgA sierici e livelli normali o elevati di IgM, in presenza di un numero normale di B linfociti circolanti (Notarangelo et al., 1992). I primi casi riportati si ri-ferivano a pazienti di sesso maschile, suggerendo una trasmissione X recessiva della malattia (Notarangelo et.al., 1992). Il meccanismo patogenetico di questa forma è rimasto elusivo fino al 1986 quando,

Figura 2. Difetti genetici dell’ipogammaglobulinemia comune variabile (CVI). Finora sono stati identificati tre geni (ICOS, TACI, CD19) che se mu-tati causano questa condizione di immunodeficienza. Ciascuno di questi geni codifica per una proteina che è essenziale per consentire la maturazione dei linfociti B a plasmacellule secernenti immuno-globuline. ICOS codifica per una proteina che è espressa sui linfociti T, pertanto questa forma di CVI riconosce un difetto primitivo dei linfociti T. Il suo ligando (ICOSL) è espresso dai linfociti B. Mutazioni di TACI e di CD19, comportano un difetto maturativo dei linfociti B; trattandosi di geni che codificano per molecole espresse costituti-vamente sui linfociti B, queste due forme di CVI riconoscono come causa un difetto primitivo dei linfociti B. TACI è il recettore di APRIL e BAFF, due proteine prodotte dalle cellule dendritiche. Il loro legame con TACI è cruciale per la maturazione dei linfociti B. La molecola del CD19 è parte di un complesso multiproteico che regola l’attivazione dei linfociti B.

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A. Plebani, L.D. Notarangelo

in un brillante esperimento, Mayer dimostrò che le cellule B di questi pazienti coltivate in presenza di cellule T isolate dalla cute di un paziente con sindrome di Sezary, erano in grado di secernere livelli normali di immunoglobuline sieriche (Mayer et al., 1986). Questo ha portato a ipotizzare che il difetto primitivo fosse localizzato nei lin-fociti T, ipotesi che bene spiegava il quadro clinico di questi pazien-ti che presentavano, oltre ad una elevata suscettibilità a patogeni capsulati, anche una maggiore suscettibilità a patogeni opportunisti (Pneumocystis jiroveci, Cryptosporidium, Cytomegalovirus), tipica dei difetti dell’immunità T. Il profilo immunologico compatibile con la sindrome da Iper IgM è stato successivamente osservato anche in pazienti di sesso fem-minile, suggerendo l’esistenza di forme a trasmissione autosomica recessiva. Il quadro clinico dei pazienti con la forma autosomica re-cessiva della malattia presentava una minore gravità degli episodi infettivi per minore incidenza di infezioni da patogeni opportunisti, suggerendo che diversi meccanismi patogenetici caratterizzavano la forma autosomica recessiva rispetto alla X-recessiva, probabil-mente per un coinvolgimento di difetti genetici differenti.Grazie ai progressi della biologia molecolare è stato possibile di-mostrare nel 1993 che la forma X recessiva della malattia (HIGM1) è dovuta a mutazioni del gene, localizzato sul cromosoma X, che codifica per la molecola del CD40 ligando (CD40L), una proteina che è espressa sui linfociti T attivati (Korthauer et al., 1993). Questa proteina interagendo con il suo recettore, il CD40, espresso costitu-tivamente sui linfociti B, induce lo switch dalla produzione di IgM a quella di IgG e IgA. Il difetto primitivo della HIGM1 è localizzato a li-vello dei linfociti T e questo spiega la maggiore suscettibilità di que-sti pazienti a patogeni opportunisti. Inoltre l’identificazione di questo difetto genetico ha consentito di fornire una spiegazione razionale all’esperimento di Mayer eseguito con le cellule T della sindrome di Sezary: le cellule T di questa sindrome sono in uno stato di attiva-zione continua e pertanto esprimono costitutivamente la molecola del CD40L. Questo è sufficiente per indurre le cellule B dei pazienti affetti dalla forma X recessiva della malattia a differenziarsi in pla-smacellule che secernono le immunoglobuline. Il CD40 è il recettore del CD40L pertanto il gene che codifica per questa molecola è stato considerato come un gene candidato per la forma di Iper IgM a trasmissione autosomica recessiva. Studi con-dotti nel modello murino con lo scopo di identificare i meccanismi molecolari della “class Switch recombination” hanno dimostrato come durante il passaggio dalla produzione di IgM a quella di IgG e IgA venivano espressi in modo significativo alcuni geni come AICDA (Activation-Induced Cytidine Deaminase) (Muramatsu et al., 1999) e UNG (Uracil-N-Glycosylase) (Rada et al., 2002), suggerendo che entrambi questi geni potessero essere dei geni candidati della for-ma di IgM a trasmissione autosomica recessiva. Infatti dal 2000 al 2003 mutazioni di AICDA (HIGM2) (Revy et al., 2000), CD40 (HIGM3) (Ferrari et al., 2001) e UNG (Imai et al., 2003) sono stati identificati in pazienti affetti dalla forma autosomica recessiva di Iper IgM. Mu-tazioni di NEMO sono state identificate come la causa di una forma di immunodeficienza con Iper IgM associata a displasia ectodermica anidrotica (Doffinger et al., 2001). è interessante osservare come i difetti genetici finora identificati come causa della immunodefi-cienza con Iper IgM, codifichino per delle proteine che entrano a far parte del pathway biochimico attivato dall’interazione CD40/CD40L. Vi è tuttora una aliquota relativamente ampia di pazienti con fenotipo clinico ed immunologico compatibile con immunodeficienza da Iper IgM per la quale il difetto genetico non è ancora stato identificato. Anche la sindrome da Iper IgM (una vecchia forma di immunodefi-cienza) può essere scomposta sulla base del difetto genetico in varie

forme (nuove forme di immunodeficienza) dovute a mutazioni di geni differenti che sottendono meccanismi patogenetici differenti (Fig. 3). Distinguere tra le varie forme non è importante ai fini di una migliore definizione diagnostica, ma per meglio definire i fattori prognostici e gli interventi terapeutici più adeguati. Infatti le HIGM1 e le HIGM3, sono caratterizzate da un quadro clinico più severo per le quali il trapianto di midollo è raccomandato, mentre le forme HIGM2 e UNG, sono caratterizzate da un fenotipo clinico più lieve e non richiedono trapianto di midollo osseo.

Nuove frontiere in infettivologia pediatrica: immunodeficienze caratterizzate da suscettibilità a specifici patogeniA partire dal 1952, e fino alla fine degli anni ’90, le immunodeficien-ze primitive sono state considerate malattie rare caratterizzate da distinti fenotipi immunologici, ciascuno dei quali definisce il tipo di patogeni verso i quali esiste aumentata suscettibilità (ad esempio, nei difetti anticorpali prevalgono le infezioni batteriche, nei difetti se-lettivi dell’immunità cellulo-mediata sono comuni le infezioni da virus o da altri patogeni intracellulari, ecc.). La possibilità di differenziare le forme “classiche” di immunodeficienza in base al fenotipo immuno-logico ha costituito la base per porre in atto nuove ed efficaci strate-gie terapeutiche volte a correggere le anomalie fenotipiche (Ochs et al., 2007). In questo modo vanno interpretati la somministrazione di immunoglobuline (per correggere i difetti anticorpali) (Bruton, 1952) e il trapianto di cellule staminali ematopoietiche per curare i difetti

Figura 3. Difetti molecolari dell’immunodeficienza con Iper IgM.Questa immunodeficienza è caratterizzata da un difetto dello switch isotipico: il linfocita B non è in grado di passare dalla produzione delle IgM a quella delle IgG e IgA. Nello switch isotipico un ruolo essenzia-le viene svolto dall’interazione CD40L/CD40. Questa interazione è in grado di attivare il complesso NEMO/IKKα/IKKβ. In condizioni normali, questo complesso fosforila I-kB che viene degradato, liberando NF-kB il quale migra nel nucleo e induce la trascrizione di geni come AID e UNG che svolgono un ruolo importante nei meccanismi dello switch isotipico. In figura sono indicati le proteine finora identificate che, se alterate, por-tano al fenotipo immunologico della immunodeficienza con Iper IgM.

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Vecchie e nuove immunodeficienze

combinati dell’immunità (Gatti et al, 1968). Un altro elemento comu-ne alle forme “classiche” di immunodeficienza è costituito dal fatto che – per ciascun difetto – vi è aumentata suscettibilità nei confronti di diversi patogeni, pur nei limiti definiti dalla specificità del fenotipo immunologico stesso. In tal modo, i pazienti affetti da immunode-ficienza combinata presentano una suscettibilità generalizzata nei confronti di qualsiasi infezione virale, e non di virus specifici. Fino alla fine degli anni ’90, erano ben poche le eccezioni a tale regola; un possibile esempio di tali eccezioni è rappresentato dalla sindrome linfoproliferativa X-recessiva, per la quale era ben definita la suscetti-bilità nei confronti del virus di Epstein-Barr (Nichols et al., 2005).Negli ultimi anni, tuttavia, lo scenario è radicalmente cambiato e con esso anche la stessa definizione delle immunodeficienze pri-mitive. Grazie soprattutto alle straordinarie scoperte del gruppo di Jean Laurent Casanova a Parigi sono stati scoperti molti nuovi difetti genetici a carico del sistema immunitario che per lo più non sono definibili sulla base di comuni test immunologici, ma piuttosto sulla base del fenotipo clinico sotteso: la suscettibilità a quadri infettivi sostenuti da singoli patogeni o da pochi patogeni con caratteristiche biologiche comuni (Marodi e Notarangelo, 2007). A questi quadri, spesso legati a difetti dell’immunità innata (o all’interfaccia tra l’im-munità innata e l’immunità adattiva) si fa spesso riferimento par-lando di “nuove” immunodeficienze. Si tratta di un capitolo in effetti del tutto nuovo, ancora appena agli albori: non a caso, in un recente editoriale, Casanova provocatoriamente sostiene che l’intero gruppo delle immunodeficienze deve essere considerato un campo ancora nella sua infanzia (Casanova e Abel, 2007). A tale gruppo di malattie, alle differenze con le forme classiche di immunodeficienza (Tab. I), ai rapporti con l’infettivologia e a possibili nuove implicazioni di natura diagnostica e terapeutica dedicheremo ora la nostra attenzione.

Immunodeficienze da aumentata suscettibilità a infezioni da micobatteri

è noto da tempo che l’espressività clinica delle infezioni da micobat-teri, ed in particolare da micobatterio tubercolare, è assai variabile. Nonostante tale microrganismo sia responsabile di oltre 8 milioni di nuovi casi e di quasi 2 milioni di morti ogni anno, nella mag-gior parte dei casi l’infezione ha un decorso più benigno, senza che venga di fatto sviluppato un quadro di malattia. Per giustificare tale variabilità fenotipica, sono spesso stati invocati fattori nutrizionali, la coesistenza di altri stati morbosi, fattori di tipo ambientale (esposi-zione a fumo, ecc.). Negli ultimi anni, tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato l’importanza di fattori di tipo genetico (van de Vosse et al., 2004; Britton et al., 2007). In realtà, un esempio drammatico di come fattori genetici siano implicati nella suscettibilità alle infezio-

ni da micobatteri era stato offerto dal noto incidente di Lubecca, occorso in Germania prima della seconda Guerra Mondiale, allor-ché 251 bambini vennero per errore sottoposti a vaccinazione non con il bacillo di Calmette-Guérin, bensì con un ceppo virulento di Mycobacterium tubercolosis. Settantasette di tali bambini morirono entro l’anno, 127 svilupparono vari segni di infezione, mentre nes-sun sintomo fu riferito dagli altri 47. In condizioni ambientali simili, quindi, vi era stata una detta differenza nella risposta biologica ad un medesimo agente infettivo. Successivamente, anche gli studi di

Tabella I. “Vecchie” e “nuove” immunodeficienze a confronto.

Caratteristiche generali “Vecchie” (o classiche) immunodeficienze “Nuove” immunodeficienze

Trasmissione Trasmissione familiare Più spesso, sporadiche

Evoluzione Progressiva Spesso, miglioramento spontaneo

Definizione fenotipica Immunologica Clinica

Suscettibilità infettiva A molti patogeni A pochi (spesso singoli) patogeni

Numero di episodi infettivi Molti (infezioni ricorrenti) Pochi (anche uno solo)

Gravità delle infezioni Variabile Spesso elevata

Penetranza clinica Completa Incompleta

Figura 4. Risposta biologica ai micobatteri. Una volta infettati da micobatteri, i macrofagi secernono interleuchi-na-12 (IL-12) che si lega al recettore specifico espresso dai linfociti T. Questo segnale induce la produzione di interferone-γ (IFN-γ) da parte dei linfociti T. L’IFN-γ si lega a sua volta al proprio recettore specifico, espresso sulla membrana dei macrofagi, e determina l’attivazione di vie di segnale intracellulari, che portano all’attivazione del fattore tra-scrizionale STAT-1, che consente l’induzione di geni che codificano per meccanismi di citotossicità, con conseguente distruzione intracellulare dei micobatteri contenuti nel fagosoma. Contemporaneamente, l’IFN-γ determina anche la produzione di Tumor Necrosis Factor-α (TNF-α) che potenzia la risposta infiammatoria e modula l’attività di altre molecole, come N-RAMP1, coinvolte nella difesa contro i micobatteri. I macrofagi possono essere attivati anche attraverso Toll-like receptors (TLR).In Figura, sono anche rappresentati i difetti genetici della via IL-12/IFN-γ finora scoperti nell’uomo: si tratta delle mutazioni a carico della subu-nità p40 della IL-12, della catena IL12Rβ1, delle due catene dell’IFN-γR (IFN-γR1 e IFN-γR2) e di STAT1.Da notare che la subunità p40 della IL-12 è anche condivisa dalla IL-23.

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A. Plebani, L.D. Notarangelo

Comstock, condotti su gemelli monozigoti o dizigoti, confermarono una maggiore concordanza nello sviluppo di tubercolosi tra i primi (Comstock, 1978), confermando in tal modo l’importanza dei fattori genetici. Tuttavia, è stato solo negli ultimi anni, grazie ad una at-tenta valutazione di elementi epidemiologici e alla realizzazione di importanti ricerche, che sono stati identificati numerosi difetti gene-tici responsabili di quadri di suscettibilità mendeliana alle infezioni da micobatteri. In particolare, è stato dimostrato che mutazioni a carico di diversi geni, che codificano per molecole funzionalmente organizzate lungo l’asse IL-12/IL-23/IFN-γ/IFN-γR (Fig. 4) deter-minano suscettibilità ad infezioni ricorrenti e gravi da micobatteri ambientali e, in alcuni casi, da Salmonella (Casanova e Abel, 2002; Filipe-Santos et al., 2006; Quintana-Murci et al., 2007). Queste os-servazioni non solo hanno rivoluzionato il nostro modo di “leggere” le immunodeficienze primitive (evidenziando come difetti genetici del sistema immunitario possano causare uno spettro molto ristretto di infezioni), ma hanno anche posto in crisi alcuni dogmi dell’im-munologia come disciplina di base. In particolare, uno degli assiomi consolidati si basava sulla dicotomia funzionale tra linfociti TH1 e linfociti TH2: secondo tale principio, ai primi verrebbe demandata la difesa contro patogeni intracellulari, mentre i secondi interverrebbe-ro nel controllo di reazioni anticorpo-mediate, in processi allergici e nella difesa contro gli elminti. In realtà, come dimostrato dallo stu-dio della suscettibilità mendeliana a infezioni da micobatteri atipici, l’asse IL-12/IL-23/IFN-γ/IFN-γR (che rappresenta la “firma” delle difese di tipo TH1), è ridondante nei meccanismi di difesa contro la maggior parte dei patogeni intracellulari. Nello stesso tempo, la sco-perta delle basi cellulari e molecolari della suscettbilità mendeliana a micobatteriosi atipiche ha offerto nuove e più mirate prospettive di intervento terapeutico, quali l’impiego di IFN-γ ricombinante nei di-fetti della IL-12 e del suo recettore, o il trapianto di cellule staminali per i pazienti con mutazioni del recettore dell’IFN-γ. In questo senso, si può ben dire che grazie a queste scoperte si è potuto scomporre un quadro che appariva fenotipicamente relativamente omogeneo, permettendo di predisporre terapie individualizzate, basate sulla de-finizione del difetto genetico.

Encefalite erpetica e immunodeficienzaDurante gli studi volti a caratterizzare le basi fisiopatologiche della suscettibilità mendeliana a micobatteriose, furono identificati sog-getti nella cui storia clinica, accanto a infezioni da micobatteri, si evidenziava un’incidenza aumentata di encefaliti da Herpes Simplex (Dupuis-Giros, 2003). In tali soggetti vennero identificate mutazioni a carico del fattore trascrizionale STAT-1, implicato nella risposta bio-logica non solo all’IFN-γ (da qui il rischio di micobatteriosi), ma an-che agli interferoni di tipo 1 (IFN-α/β) (Fig. 5). Proprio questa osser-vazione indusse il gruppo di Casanova a rivalutare – dapprima sotto il profilo epidemiologico/genetico e quindi sul piano immunologico e molecolare – il quadro dell’encefalite erpetica. L’Herpes Simplex di tipo 1 (HSV-1) è un virus ubiquitario, che di regola causa quadri di patologia acuta a risoluzione spontanea. L’infezione primaria da HSV-1 determina di regola la gengivostomatite erpetica. Assai più raramente, essa può causare encefalite erpetica, in soggetti per altri versi apparentemente sani. Analizzando il Registro francese dei casi di encefalite erpetica, Casanova notò che non raramente tale pato-logia si verificava in diversi soggetti della stessa famiglia; peraltro, il fatto che solo alcuni dei familiari venissero colpiti rendeva impro-babile l’ipotesi che differenze di virulenza dei ceppi virali giocasse-ro un ruolo determinante. Attraverso studi di segregazione e sulla base di osservazioni condotte da altri in modelli murini, il gruppo

di Casanova dapprima identificò mutazioni a carico della molecola endosomiale UNC-93B (Casrouge et al., 2006), e successivamente nel Toll-like Receptor 3 (TLR3) (Zhang et al., 2007) nei soggetti con encefalite erpetica. I TLR rappresentano i sensori di prodotti di deri-vazione microbica e sono quindi considerati un elemento essenziale nell’innesco delle risposte dell’immunità innata (Beutler et al., 2006). Il TLR3, assieme ai TLR7, TLR8 e TLR9, ha una localizzazione intra-cellulare, nel reticolo endoplasmatico e negli endosomi. UNC93B è per l’appunto coinvolta proprio nella risposta a segnali di attivazione via TLR3,7,8 e 9. Tra questi, il TLR3 lega RNA a doppia elica (dsRNA) ed è quindi in grado di funzionare come un sensore dell’immunità innata nei confronti di molti tipi di virus. Come si spiega allora che difetti di TLR3 e di UNC93B conferiscano paradossalmente una au-mentata suscettibilità solo nei confronti dell’HSV-1 e perché tale su-scettibilità si esprime sotto forma di encefalite? Alla prima domanda è possibile rispondere con l’osservazione che molti virus (ma non l’HSV-1) sono in grado di innescare altre vie di attivazione dei TLR, indipendenti da UNC93B; in particolare, un ruolo importante in que-ste vie alternative di attivazione viene svolto dalla molecola IRAK4, una kinasi coinvolta nella trasduzione del segnale via TLR (Fig. 2). La selettività di fenotipo clinico (encefalite erpetica) nei soggetti con mutazioni di TLR3 si spiega invece col fatto che il TLR3 è espresso sia nel sistema nervoso centrale (SNC) sia – al di fuori di esso – da cellule dendritiche ed epiteliali; queste ultime, tuttavia, possiedono anche altre vie, TLR3-indipendenti, per rispondere a dsRNA virale, mentre a livello del SNC vi è assoluta dipendenza dal TLR per la risposta a dsRNA. In questo modo, attraverso lo studio attento di un fenotipo clinico (encefalite erpetica) si è potuto comprendere molto

Figura 5. Risposta biologica all’Herpes Simplex-1 (HSV-1).L’RNA a doppia elica dell’HSV-1 viene riconosciuto dal TLR3, espresso nel erticolo endoplasmatico. Inoltre, anche altri TLR intracitoplasmatici, come il TLR7,8 e 9, vengono attivati da prodotti di derivazione virale. L’attivazione del TLR3 comporta, attrevrso l’intervento della molecola UNC-93B e di Trif, di kinasi intracellulari (TBK1 e IKK-ε) che in ultima analisi attivano complessi trascrizionali (IRF-3 e IRF-7). L’attivazione dei TLR7,8 e 9, porta invece ad una via alternativa di attivazione che comprende, oltre a UNC93B, la molecola MyD88 e la kinasi IRAK4. Ciò porta ad attivazione del complesso trascrizionale NF-κB e di IRF-7. Infine, i complessi IRF-3, IRF-7 e NF-κB sono implicati nella induzione di interferoni di tipo 1 (IFN-α/β). Tali molecole agiscono legandosi a re-cettori specifici e inducendo, nelle cellule infettate dal virus, l’attivazione delle kinasi JAK1 e TYK2, con conseguente attivazione del complesso trascrizionale STAT1/2. Ciò porta, in ultima analisi, alla induzione di meccanismi di apoptosi cellulare, con conseguente distruzione anche del virus. Difetti a carico di UNC-93B e di TLR3 sono selettivamente associati nell’uomo ad encefalite da HSV-1.

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Vecchie e nuove immunodeficienze

di più sulla biologia della risposta agli agenti virali e sui meccanismi di ridondanza esistenti nell’immunità innata. La scoperta di difetti di TLR3 e di UNC93B in pazienti con encefalite erpetica non è stata importante solo sotto il profilo conoscitivo: la di-mostrazione infatti che tali difetti comportano incapacità a produrre IFNα/β ha offerto nuove prospettive di terapia, basate sulla sommi-nistrazione di IFN di tipo 1, nei pazienti affetti da questa grave mani-festazione clinica. Tale approccio può essere utilizzato ancor prima di sapere se il soggetto ha in effetti un difetto di TLR3 o di UNC93B e ha già dato luogo a qualche significativo successo terapeutico.

Un altro esempio di immunodeficienza con selettiva suscettibilità a patogeni: difetti di IRAK4 e infezioni da piogeniUn ulteriore esempio di come alcune forme di immunodeficienza pri-mitiva possano comportare una selettiva suscettibilità a patogeni è fornito dalla dimostrazione di deficit della kinasi IRAK4, coinvolta nella risposta via TLR, in pazienti con storia clinica di infezioni invasive da piogeni. Come già detto, IRAK4 è coinvolto nella risposta biologica di diversi TLR; poiché ciascun TLR riconosce specifici prodotti di deriva-zione microbica (lipopolisaccaride, DNA, ds RNA, RNA a singola elica, flagellina, ecc.), era logico supporre che difetti in molecole comuni all’attivazione di diversi TLR dovessero comportare una suscettibilità ad un ampio spettro di patogeni o, più verosimilmente, non fossero legati ad aumentato rischio infettivo a causa di ridondanza nelle vie di risposta biologica. I fatti hanno dimostrato che queste ipotesi non erano corrette. Studiando una serie di pazienti la cui storia clinica era contrassegnata da infezioni gravi da piogeni (specie da Streptococcus pneumoniae) nei primi anni di vita, associate a segni del tutto modesti (o persino assenti) di risposta infiammatoria, il gruppo di Casanova ha stabilito che tale condizione dipende da mutazioni di IRAK4, tra-smesse con modalità autosomico-recessiva (Picard et al., 2003; Ku et al., 2007). Successivi studi in vitro hanno dimostrato come, no-nostante il fatto che IRAK4 sia coinvolto nella risposta all’attivazione di diversi TLR, i pazienti con deficit di IRAK4 mostrano una selettiva incapacità di difesa nei confronti di uno spettro assai limitato di batteri,

rappresentati soprattutto da S. pneumoniae e da Staphylococcus au-reus. Inoltre, lo studio attento della storia clinica di questi soggetti ha dimostrato che le manifestazioni cliniche erano particolarmente gravi (con esito spesso letale) nei primi anni di vita, ma con una progressiva attenuazione del fenotipo clinico negli anni, verosimilmente a seguito della maturazione di meccanismi di difesa dell’immunità adattiva.

Sono comuni le immunodeficienze primitive? Implicazioni per la salute pubblica

Nell’insieme, la scoperta che difetti a carico di molecole del sistema immunitario potessero dar luogo a quadri di selettiva suscettibilità a patogeni, spesso contrassegnati da esordio acuto e fenotipo grave, ha rivoluzionato l’idea che le malattie infettive siano da considerar-si per definizione patologie esclusivamente su base ambientale e ha portato a valutare con che frequenza singoli eventi infettivi acuti possano avere una base immunologica. In effetti, se – come ritenuto da Casanova – “ciascun individuo è affetto da almeno una forma di immunodeficienza primitiva” (Casanova e Abel, 2007), diventa im-portante valutare attentamente la presenza di difetti immunitari di fronte ad ogni episodio infettivo di inusuale gravità. In realtà, studi recenti sembrano dimostrare che, per quanto interessante, l’ipotesi di Casanova non trova oggi un riscontro concreto. Proprio facendo seguito alla scoperta dei difetti di IRAK4 in pazienti con infezioni invasive da piogeni, Hirschfeld e coll. hanno analizzato una ampia coorte di soggetti, che comprendeva 38 soggetti appa-rentemente sani (di età variabile tra 0 e 57 anni) e 50 bambini con storia di infezione invasiva da pneumococco. Tutti questi soggetti sono stati studiati per possibili anomalie dei TLR. In nessun caso, sono stati dimostrati difetti (Hirschfeld et al., 2007). Non trova quindi alcun fondamento l’ipotesi di sottoporre a screening per espressione o funzione dei TLR soggetti altrimenti sani, all’atto della prima mani-festazione grave di natura infettiva. Nonostante ciò, gli studi di Casanova hanno davvero rappresentato un capitolo nuovo nell’Immunologia e nella Infettivologia Clinica. è verosimile che si tratti di una storia tuttora in evoluzione, di cui non abbiamo visto che l’inizio.

Cosa sapevamoLa prima descrizione delle immunodeficienze primitive risale ai primi anni ’50. Si trattava di una descrizione clinica, basata su una elevata suscettibilità alle infezioni e supportata dall’impiego di pochi, anzi pochissimi esami di laboratorio disponibili (emocromo, elettroforesi proteica, immunoelettroforesi) dal momento che poco si conosceva sui meccanismi di difesa nei confronti delle infezioni. Con l’identificazione dei linfociti T e dei linfociti B e del loro ruolo nei meccanismi di difesa e con la disponibilità di metodiche per la loro identificazione, si è passati da una diagnosi clinica ad una diagnosi immunologica, classificando le immunodeficienze primitive in due categorie principali: immunodeficienze a prevalente difetto dell’immunità umorale o cellulare.L’osservazione che pazienti con lo stesso fenotipo immunologico presentavano caratteristiche cliniche a gravità differenti ha indotto a ipotizzare che differenti meccanismi patogenetici portassero allo stesso fenotipo immunologico.

Cosa sappiamo oggiI progressi nella comprensione dei meccanismi molecolari attraverso i quali il sistema immunitario ci difende dalle infezioni, e lo sviluppo di metodo-logie di analisi genetica hanno consentito di identificare il difetto genetico di circa 100 tipi di immunodeficienze primitive. Questo significa che, immu-nodeficienze caratterizzate da uno stesso fenotipo immunologico, che quindi potevano fare pensare ad una singola malattia, in realtà, debbano essere considerate come entità distinte sulla base del difetto genetico, ciascuna con fattori prognostici e trattamenti differenti.In questi ultimi anni è emerso un dato che ha cambiato il concetto “classico” di immunodeficienza (suscettibilità a infezioni da più patogeni): l’identifi-cazione di immunodeficienze caratterizzate da una suscettibilità a singoli patogeni (micobatteri, Herpes simplex, Streptococcus pneumoniae). Queste immunodeficienze sono caratterizzate da difetti della via dei recettori “toll-like” e vengono definite con il termine di “nuove” immunodeficienze.

Cosa ci aspettiamo nel futuro.Migliorare gli approcci terapeutici: l’identificazione del difetto genetico consente una più precisa classificazione delle immunodeficienze primitive, una migliore definizione dei fattori prognostici e lo sviluppo di strategie terapeutiche più mirate ed efficaci. Identificare le basi molecolari di immunode-ficienze classiche a patogenesi tutt’ora sconosciuta. Migliorare le conoscenze sui meccanismi difensivi mediati dalla via dei recettori “toll-like” per identificare un numero sempre maggiore di “nuove” immunodeficienze e rispondere al quesito che tutt’ora non trova una soddisfacente risposta, del perché alcuni soggetti hanno maggiore suscettibilità ad infezioni, magari minori, rispetto ad altri.

Box di orientamento

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prof. Alessandro Plebani, Clinica Pediatrica, Università di Brescia, p.le Spedali Civili 1, 25123 Brescia • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Malattia renale cronica e insufficienza renale

Sara Testa, Alberto Edefonti, Fabio SereniU.O.C. Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico, “Mangiagalli e Regina Elena”, Milano

RiassuntoUna trattazione puntuale e aggiornata dei principali attuali problemi concernenti l’insufficienza renale cronica nell’infanzia, non può prescindere da considerare questo tema con una visione più ampia, prendendo anche in considerazione pazienti con malattia renale cronica.Partendo dalla ben nota teoria di Brenner sulla patogenesi della progressione dell’insufficienza renale cronica, sono in questo articolo presi in particolare considerazione i fattori che, nell’infanzia, hanno una particolare importanza nel condizionare la velocità di progressione dell’insufficienza renale. Solo nei po-chi soggetti in cui tali fattori non siano presenti, la velocità di progressione appare ridotta e la funzione renale rimane costante nel lungo termine.La dieta ipoproteica, in passato ampiamente prescritta, non si è dimostrata efficace nel rallentare la velocità di progressione del danno renale. Farmaci inibitori dell’enzima di conversione e bloccanti del recettore dell’angiotensina si sono dimostrati efficaci nel rallentare la progressione della malattia renale cronica nella nefropatia diabetica e nelle patologie glomerulari proteinuriche; nelle ipodisplasie renali, prima causa di insufficienza renale cronica in età pediatrica, il loro impiego deve essere sottoposto ad attenta analisi di efficacia, non essendo i benefici altrettanto certi.Il trattamento chirurgico del reflusso vescico-ureterale, considerato un tempo indispensabile per pre-venire il danno renale, ha dato gli stessi risultati della terapia conservativa in termini di danno renale strutturale e di insufficienza renale terminale e presenta oggi indicazioni limitate. Nonostante il netto miglioramento dei risultati del programma di dialisi/trapianto pediatrico rispetto agli esordi, rimangono ancora molto elevate le percentuali di mortalità e morbilità nei giovani adulti che hanno iniziato il trat-tamento sostitutivo in età pediatrica. Questi dati indirizzano verso politiche di trapianto precoce, il cui esito a lungo termine deve comunque essere ancora valutato.

SummaryA detailed analysis of the main problems associated to chronic renal insufficiency in children has to consider this topic from a wide point of view, including patients with chronic kidney disease.Starting from the Brenner’s hypothesis on the pathogenesis of the progression of chronic renal failure, in this paper we discuss the factors that, in childhood, play a major role in the determination of the rate of progression of renal insufficiency. Only in patients who do not present these factors, the rate of progression is slow and the renal function remains stable for a long period.It has been demonstrated that the low-protein diet, widely prescribed in the past, failed to delay the progression of the kidney damage. Angiotensin converting enzyme inhibitors and angiotensin receptor blockers reduce the rate of progression of renal injury in the diabetic and in proteinuric glomerular dis-eases; on the contrary, the efficacy of these drugs in the hypodisplastic kidney, main cause of chronic renal failure in children, has still to be proven and their prescription has to be carefully evaluated.Surgical correction of vesicoureteral reflux, once considered essential to prevent the renal injury has the same efficacy of the conservative treatment in the prevention of the structural renal damage and of the end stage renal disease and nowadays has only few indications. Notwithstanding the improvement in the dialysis/transplant program during the last years, the mortality and the morbility of the young adults who started renal replacement therapy during childhood are still high. This evidence encourages the use of the pre-emptive transplant, even if its long-term follow up has still to be carefully studied.

Alberto Edefonti è nato a Marnate (Va) il 1 Aprile 1947. Dal 1999 Direttore Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi Pediatrica della Clinica Pediatrica De Marchi, Milano. Ha introdotto innova-tive tecniche dialitiche per l’età pe-diatrica e nuove modalità di diagnosi e trattamento della malnutrizione dei bambini con insufficienza renale cro-nica. Molto impegnato in un organico piano di assistenza ai bambini con malattie renali del Nicaragua e di altre nazioni del Centro America. Sposato dal 1974, ha 2 figlie e 1 nipote. Si inte-ressa di fotografia e arte moderna.

L’insufficienza renale cronica rappresenta oggi nell’adulto un proble-ma di salute pubblica, tanto da essere definita l’epidemia del terzo millennio. Una parte del problema ha le sue radici nell’età pediatrica, così che il pediatra può e deve svolgere un’azione importante ai fini della prevenzione dell’insufficienza renale cronica.

Metodologia della revisioneDovendo affrontare un argomento assai vasto, gli Autori hanno de-ciso di sviluppare questa revisione rispondendo ad alcune domande ritenute fondamentali nell’evidenziare i problemi aperti nell’ambito della diagnosi e terapia dell’insufficienza renale cronica (IRC). Que-ste domande sono quelle più comunemente poste dai pediatri quan-

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 81-88

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do si trovano di fronte ad un bambino con IR e rappresenteranno quindi i capitoli di questa revisione.La ricerca bibliografica nei vari capitoli è stata effettuata per la let-teratura recente tramite il sito Internet PubMed e sugli scaffali delle biblioteche, per quanto riguarda la letteratura inerente al passato. Le parole chiave utilizzate nella ricerca su PubMed sono state le seguenti: malattia renale cronica, insufficienza renale cronica, pro-gressione, fattori di rischio, outcome a lungo termine.

PremessaQuando si parla di IRC e di malattia renale cronica (CKD) si è tentati di pensare che questi due termini siano sinonimi; nulla invece appare più diverso. Se andiamo infatti ad analizzare cosa gli Autori negli anni ’70 intendessero per IRC vediamo che il criterio fondamentale era la riduzione del filtrato glomerulare (FG) sotto a 60 ml/min/1,73 m2 e che venivano distinti 3 gradi di IRC:il I, compreso tra valori di 55-60 e 20 ml/min/1,73 m2, era consi-derato una fase durante la quale il paziente andava monitorato nel tempo ed eventualmente iniziati i primi trattamenti;il II, tra 20 e 5 ml/min/1,73 m2, imponeva un’intensificazione delle terapie per fronteggiare l’alterazione dell’equilibrio metabolico;il III o IR terminale, al di sotto dei 5 ml/min/1,73 m2, in cui era neces-sario istituire una terapia sostitutiva (Broyer, 1983).Passando ai giorni nostri il quadro si fa più complesso: nel 2002 la National Kidney Foundation ha pubblicato le nuove Linee Guida per la definizione e stadiazione della CKD. Non a caso la terminolo-gia viene cambiata da insufficienza renale cronica a malattia renale cronica: per CKD si intende infatti, non solo una condizione caratte-rizzata da riduzione del FG, ma anche la sola presenza di anomalie strutturali e funzionali del rene senza riduzione del FG. Per essere più precisi, per definire una condizione di CKD deve essere soddisfatto almeno uno dei seguenti due criteri: danno renale persistente da più di 3 mesi definito come anormalità strutturale (alterazioni istologiche e/o di imaging) o funzionale (alterazioni esami ematici e/o urinari) del rene con o senza riduzione del FG; oppure FG inferiore a 60 ml/min/1,73 m2 per più di 3 mesi con o senza danno renale. Entrano per esempio in questa categoria tutti i bambini con riduzione del patri-monio nefronico. La stadiazione della CKD, più differenziata rispetto al passato, è riportata nella Tabella I. (NKF, 2002).Appare a questo punto evidente come, con la nuova definizione, si comprenda all’interno della categoria di soggetti affetti da CKD un numero notevolmente più alto di individui apparentemente sani, che costituiscono la parte sommersa di quell’iceberg la cui parte emersa è rappresentata dai pazienti con IRC conclamata. Riconoscere e trat-tare tempestivamente soggetti potenzialmente a rischio di progre-dire verso stadi terminali di compromissione della funzione renale,

appare oggi di estrema importanza, per arginare l’attuale epidemia di malati renali adulti necessitanti dialisi e trapianto. L’attenzione del medico dovrà quindi essere sempre più focalizzata sulla cura delle salute che non su quella delle lesioni.Nel corso di questa revisione abbiamo cercato di rispondere a quat-tro domande, non strettamente specialistiche, che riteniamo fon-damentali per una buona comprensione dei problemi più attuali di nefrologia pediatrica concernenti l’IRC.

Prima domandaLa prima domanda è la seguente: l’IRC del bambino è sempre progressiva? Quali fattori influenzano la progressione?Già alla fine degli anni ’70 veniva proposta dal gruppo di Brenner una teoria sulla progressione dell’IRC che ha costituito la base per lo sviluppo delle attuali conoscenze. Attraverso studi si era dimostrato che la riduzione della massa nefronica secondaria a diverse malattie renali provocava nei nefroni residui un aumento del carico di lavoro, che era responsabile dello sviluppo di ipertensione glomerulare, con conseguente sclerosi progressiva e proteinuria, marker e poi essa stessa fattore causale della progressione dell’IRC (Hostetter et al., 1981). La Figura 1 riassume i meccanismi fisiopatologici che con-tribuiscono all’instaurarsi del circolo vizioso della progressione del danno renale e l’interazione dei medesimi con i principali fattori di rischio (Taal et al., 2006).Focalizzando la nostra attenzione sulla progressività della malattia renale in età pediatrica e sui fattori che la influenzano, sono stati evi-denziati dalla letteratura in questi anni i seguenti cinque elementi.

Il ruolo della patologia renale primitivaEra già stato notato in passato come, a seconda della malattia re-nale sottostante prevalentemente glomerulare o tubulare, la velocità di progressione della insufficienza renale fosse differente (Broyer, 1983). Tale fenomeno è stato poi documentato in studi di popola-zione giungendo all’identificazione di valori medi di caduta di FG nettamente diversi a seconda della patologia primitiva: ad esempio, le malattie glomerulari o il rene policistico di tipo adulto si associano ad una velocità nettamente superiore di declino rispetto alle malattie tubulointerstiziali, displasiche e malformative (NKF, 2002).

Il ruolo dell’età del bambino con IRC nel predire la velocità di progressione del danno renaleNumerosi studi di popolazione hanno evidenziato che nell’adulto, con il progredire dell’età, si assista ad una riduzione del FG anche in soggetti senza patologia renale; ed ancora che nella malattia re-nale cronica l’età correla con una velocità di progressione del danno renale sempre maggiore (Taal et al., 2006). In uno studio eseguito su una popolazione di bambini con IRC facente parte del Registro Italiano dell’IRC, ItalKid, si è osservato come l’accelerazione della progressione del danno renale si verifichi precipuamente nel periodo dello sviluppo puberale (Ardissino, dati non pubblicati).

Il rapporto tra i valori iniziali di filtrato glomerulare, dall’inizio dell’osservazione e la velocità di decremento della funzione renaleUn ulteriore fattore che influenza la progressione dell’IRC nell’infan-zia sembra essere il valore di FG all’esordio della malattia renale. Un’attenta analisi della curva della velocità di progressione divisa per i diversi valori di filtrato consente di osservare che i bambini con maggiore compromissione iniziale della funzione renale presenta-no una riduzione molto più rapida della sopravvivenza renale, rag-

Tabella I. Stadiazione della CKD secondo la National Kidney Foundation (NKF).

Stadi della malattia renale cronica

Stadio Descrizione FG(ml/min/1,73 m2)

1 Danno renale con FG normale o # ≥ 90

2 Danno renale con lieve i del FG 60-89

3 Moderata i del FG 30-59

4 Severa i del FG 15-29

5 Insufficienza renale terminale < 15 (o dialisi)

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Malattia renale cronica e insufficienza renale

giungendo le fasi terminali della malattia entro la seconda decade di vita (Fig. 2) (Ardissino et al., 2003). Considerando solo i pazienti con livelli di FG lievemente compromesso (CKD stadio 2), si osserva come, anche all’interno di tale categoria, che ha ovviamente una sopravvivenza renale più lunga, si possano individuare differenze di velocità di declino in base ai livelli di FG di partenza: valori superiori a 70 ml/min/1,73 m2 sembrerebbero essere correlati con una pro-gressione pressoché nulla (Ardissino, dati non pubblicati).

Il ruolo patogenetico della proteinuria e dell’ipertensione arteriosaLa proteinuria ha una duplice valenza all’interno del processo di pro-gressione del danno renale: in primo luogo essa rappresenta il primo segno evidente del danno renale esistente ed evolutivo; in secondo luogo diventa essa stessa fattore di progressione del danno renale.

Diversi studi sia in coorti di soggetti sani (Iseki et al., 1996) che in pazienti già affetti da patologia renale (Keane et al., 2006) hanno infatti mostrato come la proteinuria costituisca di per sé fattore di progressione del danno renale. Inoltre, tanto più alti sono i valori di proteinuria all’esordio della malattia renale, tanto maggiore sarà la velocità di progressione dell’IR: ciò è stato dimostrato sia in pazienti adulti con CKD ad eziologia varia (prevalentemente malattie protei-nuriche) (Peterson et al., 1995; GISEN, 1997; Lea et al., 2005), che in età pediatrica, dove la patologia renale primitiva prevalente è quella ipodisplasica con o senza uropatia malformativa, notoriamente scar-samente proteinurica (Ardissino et al., 2004) (Fig. 3). La pressione arteriosa (PA) è nota da tempo essere un fattore indipendente di progressione del danno renale. Ciò che è divenuto chiaro solo più

Figura 2.Valori di filtrato glomerulare (FG) iniziali e sopravvivenza renale.Si noti la maggior velocità di progressione dell’IRC nei bambini con valori più bassi di FG all’esordio della malattia.

Figura 3.Proteinuria e sopravvivenza renale in pazienti pediatrici con ipodisplasia renale.I soggetti con valori di proteinuria più elevati alla diagnosi, progredisco-no più velocemente verso l’insufficienza renale grave.

Figura 1.Schema dell’interazione tra fattori di rischio e meccanismi fisiopatologici che regolano la progressione del danno renale cronico.

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recentemente è che la pressione arteriosa non può essere conside-rata un fattore di rischio dicotomico, normotensione vs. ipertensione, ma una variabile continua, in quanto ogni piccolo aumento dei valori di PA, anche all’interno dei limiti di normalità, si associa ad un au-mento del rischio di progressione. Questo concetto è stato verificato in diversi studi prospettici randomizzati sia in età adulta (Taal et al., 2006), che nei bambini (ESCAPE trial, dati non pubblicati) e implica un diverso approccio al controllo della pressione arteriosa nel pa-ziente con CKD: l’obiettivo terapeutico non deve più essere quello di raggiungere i livelli soglia di normalità, bensì di ottenere valori di PA più bassi del 90° percentile per età e sesso.

L’importanza della dotazione nefronica alla nascitaUn altro concetto abbastanza recente riguarda la dotazione nefroni-ca individuale: mentre inizialmente si pensava che ogni rene fosse costituito da un numero pressappoco costante (800.000) di glome-ruli (Mounier et al., 1983), studi recenti hanno invece evidenziato come tale numero abbia una variabilità interindividuale molto ampia già nei soggetti sani ed inoltre sia strettamente correlato con il peso alla nascita (Hughson et al., 2003). Tanto maggiore è il ritardo di crescita intrauterino o la prematurità di per sé, tanto più basso sarà il numero di nefroni alla nascita con conseguente aumento del rischio di sviluppare malattia renale cronica ed ipertensione arteriosa in età adulta. Nell’attuale pratica clinica pediatrica tale dato assume una valenza importante dal momento che, grazie al notevole progresso delle cure mediche, i neonati con basso peso (LBW) o estremamente basso peso (VLBW) alla nascita che sopravvivono sono in numero sempre maggiore. Per essi deve essere previsto un programma di screening e di prevenzione dell’insorgenza e della progressione del danno renale molto accurato, al fine di prevenire possibilmente l’in-cremento in età adulta di casi di CKD.

Seconda domandaIl secondo grande quesito cui cerchiamo di rispondere è il se-guente: qual è l’efficacia in età pediatrica dei provvedimenti te-rapeutici che nell’adulto sono attualmente accettati come validi per rallentare la progressione dell’insufficienza renale?

Dieta ipoproteicaGià negli anni ’70 e ’80, alcuni studi sperimentali avevano dimostra-to che la dieta iperproteica era responsabile di iperfiltrazione a livello glomerulare sia nel ratto che nell’uomo, causando una riduzione di FG e una progressione del danno renale nei soggetti con malattia renale pre-esistente (Nolen et al., 1972; Broyer, 1983; Bosch et al., 1986). Sulla base di queste osservazioni, ma anche per la necessi-tà di ridurre la tossicità uremica, era stato ipotizzato che una dieta ipoproteica potesse ridurre la velocità di progressione dell’IRC. A tale scopo furono disegnati svariati studi in soggetti adulti affetti da IRC, che dimostravano la maggior efficacia di una dieta ipoproteica stretta, nel ridurre la velocità di progressione della malattia, rispetto ad una dieta normo-ipoproteica. Tale efficacia risultava più eviden-te con supplementazione di aminoacidi essenziali e chetoanaloghi (Barsotti et al., 1981). Risultato analogo, anche se con una minor evidenza statistica, venne poi ritrovato in un amplissimo studio sulla dieta nei pazienti con CKD (Klahr et al., 1994).Dopo questi riscontri positivi nei pazienti adulti, ci si è posti l’inter-rogativo se anche in età pediatrica potesse valere lo stesso princi-pio, considerando peraltro che in soggetti in crescita una carenza di proteine avrebbe potuto portare ad una riduzione del potenziale di crescita.

Una Cochrane Review del 2007 ha analizzato tutti gli studi control-lati portati a termine in età pediatrica su dieta e IRC: su 62 studi valutati solo 2 rispondevano ai criteri selezionati. In totale l’analisi è stata condotta su 250 pazienti con CKD casualmente assegnati a dieta normo- o ipoproteica. Entrambi gli studi concludevano che tra i due gruppi di pazienti non esistevano differenze statisticamente significative nella velocità di progressione dell’IR, nella proteinuria, nella pressione arteriosa e negli indici di crescita e stato nutrizio-nale. Pertanto, la dieta ipoproteica in pazienti con malattia renale cronica in età pediatrica non sembra rappresentare un provvedi-mento terapeutico efficace ai fini di rallentare la progressione della IRC (Chaturvedi et al., 2007). Rimane peraltro ferma l’indicazione alla dieta controllata progressivamente in apporti proteici, per limi-tare la tossicità uremica, man mano che il FG scende sotto i 50 ml/min/1,73 m2.

Farmaci inibitori dell’enzima di conversione (ACEi) e bloccanti il recettore dell’ACE (ARB)Già dalla fine degli anni ’80 e poi per tutti gli anni ’90 si è via via af-fermata l’utilità degli ACEi nel ridurre la progressione dell’IRC (Mann et al., 1996). I primi studi sono stati condotti su pazienti diabetici, ma successivamente l’efficacia di tali farmaci è stata verificata in tutti i soggetti con IRC, a prescindere dall’eziologia (Maschio et al., 1996). Si trattava comunque di soggetti adulti in cui è noto che la maggior parte delle patologie renali primitive è di tipo altamente proteinurico. Nel 1997 infine è stato pubblicato su Lancet un ampio studio ran-domizzato con controllo in placebo, condotto dal Gruppo Italiano di Studi Epidemiologici in Nefrologia (GISEN, 1997) (Fig. 4) che, pur non aggiungendo nuove informazioni, ha avuto una particolare risonanza mediatica e creato eccessive speranze in tutti coloro che, affetti da malattie renali croniche, credevano di poter evitare il programma dialisi-trapianto.

Figura 4.Riduzione del filtrato glomerulare (FG) nei soggetti trattati con ACEi o placebo.Si noti la sostanziale stabilità dei valori di FG nei soggetti trattati con ACEi vs. i soggetti non trattati, nei quali il FG si riduce naturalmente.

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Per quanto riguarda la popolazione pediatrica è stata ben dimo-strata l’efficacia degli ACEi nel ridurre la proteinuria ed abbassare la pressione arteriosa (Wuhl et al., 2004) ma, per quanto riguarda l’effetto renoprotettivo con rallentamento della progressione verso le fasi terminali dell’IRC, i dati a nostra disposizione sono ancora poco concordanti. In alcuni studi si afferma l’effettiva riduzione della velocità di progressione del declino della funzionalità renale (Ellis et al., 2003; Yang et al., 2005) con l’utilizzo di questo tipo di farmaci, in altri, invece, tale evidenza clinica non è comprovata (Fig. 5) (Ar-dissino et al., 2007). Una parte della differenza nell’esito di questi studi potrebbe essere spiegata dal fatto che i lavori sugli adulti e quelli pediatrici di Ellis e Yang sono stati effettuati in popolazioni con nefropatie prevalentemente proteinuriche, mentre lo studio di Ardissino et al., condotto sulla popolazione di soggetti con IRC in età pediatrica iscritta nel Registro Italiano dell’IRC in età pediatrica (ItalKid), si concentra sull’ipodisplasia renale associata o meno ad uropatia malformativa (principale causa di IRC in età pediatrica), che è una malattia non proteinurica.In conclusione a distanza di circa 10 anni dal grande exploit me-diatico degli ACEi vi è oggi maggior cautela nell’affermare che tali farmaci, associati o meno agli ARB, possano sempre costituire un’indicazione efficace al problema di rallentare la progressione dell’insufficienza renale cronica nell’infanzia. Del resto ciò viene af-fermato anche nella realtà della nefrologia dell’adulto, dove impor-tanti recenti meta-analisi hanno frenato gli entusiasmi (Casas et al., 2005) e rimesso in discussione l’effetto renoprotettivo per sé di ACEi e ARB. Nella realtà nefrologica pediatrica, l’indicazione più sicura agli ACEi e ARB è rappresentata dalla CKD secondaria a nefropatie glomerulari proteinuriche, specie se accompagnate da ipertensione.

In altre patologie renali pediatriche con CKD, il loro utilizzo deve ri-spondere ad un’attenta indicazione di efficacia/sicurezza.

Terza domandaIl terzo grande problema sul quale si è molto dibattuto riguarda vantaggi e limiti di alcuni precoci interventi chirurgici correttivi di malformazioni delle vie urinarie nel prevenire l’insufficienza renale cronica. Due sono i principali temi controversi sui quali è necessario discutere, e cioè l’opportunità di praticare interventi “anti-reflusso” e il ruolo della chirurgia fetale per disostruire molto precocemente le vie urinarie malformate.Le malformazioni delle vie urinarie associate ad ipodiplasia renale costituiscono la causa principale di insufficienza renale cronica in età pediatrica, rappresentando circa il 45% di tutte le cause. Al-l’interno delle malformazioni, la più frequente (55,7%) è il reflusso vescico-ureterale (RVU), seguito dalle valvole dell’uretra posteriore (VUP) (Fig. 6) (Ardissino et al., 2003).Negli anni ’60 era stato ipotizzato che lo sviluppo dell’IRC nei soggetti con RVU dipendesse dal reflusso stesso e dalle infezio-ni delle vie urinarie (IVU) ad esso associate, giungendo infine alla definizione di nefropatia da reflusso. Come conseguenza terapeu-tica risultava indispensabile allora prevenire le IVU e correggere chirurgicamente il RVU, al fine di ridurre il danno renale e quindi prevenire l’IRC.Più recentemente, invece, è stata avanzata la teoria che in realtà i soggetti con RVU che manifestano CKD hanno anormalità renali congenite (displasia), associate, ma non secondarie, al RVU. Di qui la sottolineatura dell’importanza patogenetica dell’ipodisplasia renale associata a uropatia malformativa e, secondariamente, la conside-razione che la correzione del RVU non sia in grado di prevenire il danno renale e dunque l’evoluzione verso l’IRC. A tali conclusioni indirizzano i risultati di uno studio condotto sui soggetti arruolati nell’ItalKid, che mostrano come l’età alla diagnosi dell’uropatia mal-formativa non influenzi minimamente la progressione dell’IRC, con tutta probabilità perché il danno è congenitamente presente e non secondario al RVU (Ardissino et al., 2004).Un’ampia review del 2003 ha inoltre analizzato gli eventuali vantag-gi del trattamento chirurgico del RVU associato alla profilassi anti-biotica nei confronti della sola profilassi, considerando 7 studi per un totale di 833 pazienti. Gli outcomes analizzati sono stati la frequenza di IVU, il danno renale valutato con scintigrafia renale con DMSA,

Figura 5.Velocità di caduta del FG prima e durante l’uso degli ACEi.La velocità di progressione dell’insufficienza renale non è influenzata dal-l’introduzione in terapia dell’ACEi (da Ardissino et al., NDT 2007, mod.).

Figura 6.Tempistica della diagnosi di RVU e progressione dell’IRC.La probabilità di sopravvivenza renale non è diversa tra coloro in cui la presenza di RVU viene diagnosticata più precocemente riseptto a diagnosi più tardiva (da Ardissino et al., J Urol 2004, mod.).

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il raggiungimento di insufficienza renale terminale e l’ipertensione arteriosa. Per nessuno di tali parametri è stata evidenziata una dif-ferenza tra i due gruppi; in particolare, non è stato dimostrato che la correzione chirurgica del RVU sia efficace nel ridurre la progressione di un danno renale pre-esistente (Wheeler et al., 2003).Si può quindi concludere che la correzione chirurgica del RVU non influenza la progressione della CKD.Esistono d’altro canto delle condizioni, quali frequenti pielonefriti nonostante la profilassi antibiotica o scarsa compliance familiare, in cui l’intervento chirurgico risulta indicato.

Per quanto riguarda la chirurgia fetale delle uropatie ostruttive, in particolare delle valvole dell’uretra posteriore (VUP), un’attenta ana-lisi retrospettiva dei risultati a lungo termine è stata effettuata da Holmes in tutti i feti operati per VUP dal 1981 al 1999 (Holmes et al., 2001). Su 40 pazienti valutati, 36 hanno eseguito intervento pre-natale con importanti problematiche connesse: una mortalità fetale del 43% secondaria a alterazioni dello sviluppo polmonare, infezioni (corioamnioniti), rottura spontanea delle membrane e perdita di li-quido amniotico. In ogni caso, nei soggetti sopravvissuti, l’intervento non ha modificato la prognosi sfavorevole per la funzione renale e la necessità di terapia sostitutiva (dialisi/trapianto). Si può quindi con-cludere che l’iniziale entusiasmo per questo tipo di procedura si sia notevolmente ridotto e la chirurgia fetale debba essere confinata a pochi e selezionati casi di malformazioni gravi che non abbiano altrimenti chance di sopravvivenza.

Quarta domandaL’ultimo grande tema che in questa sede è utile trattare con-cerne l’handicap psico-fisico che ancora oggi viene riscontrato nei bambini con IRC che hanno dovuto sottostare a dialisi e trapianto. È possibile effettuare una prevenzione? Quale ruolo per il trapianto pre-emptive, cioè eseguito senza aver messo il bambino in dialisi cronica con tutti i sacrifici che tale pratica terapeutica comporta per il paziente (e l’eventuale costo per la comunità)?Nei primi anni dopo la nascita del programma di dialisi e trapianto pediatrico (fine anni ’60) non era chiaro se tale trattamento sosti-tutivo garantiva una sufficiente qualità di vita dei bambini affetti da insufficienza renale terminale (IRT). Dopo quasi 50 anni di pratica clinica segnata da notevoli progressi terapeutici, farmacologici e tecnologici, i risultati del programma dialisi-trapianto pediatrico ap-paiono ancora non del tutto soddisfacenti. In un pregevole articolo di Groothoff del 2005 viene tracciato un chiaro “stato dell’arte” della terapia sostitutiva nell’IRC in età pediatrica. Risulta subito evidente come la mortalità complessiva dei bambini sottoposti a terapia so-stitutiva sia 30 volte superiore a quella di soggetti sani di pari età. Tra le cause di morte, la principale risulta essere la patologia cardio-vascolare, che incide per il 35-50% dei casi, seguita dall’ipertensio-ne maligna con complicazioni cerebrovascolari, dalle infezioni, dalle

neoplasie e infine dalla deliberata sospensione del trattamento. Per quanto riguarda le morbilità, il primo posto è riservato nuovamente alla patologia cardiovascolare: il 50% dei soggetti con IRT esordita in età pediatrica, presenta all’età di 40 anni ipertrofia ventricolare sinistra e calcificazioni vascolari che possono essere responsabili di morte. Altra rilevante morbilità associata è rappresentata dalla malattia metabolica ossea che affligge circa il 30% dei pazienti. L’incidenza delle neoplasie appare 10 volte superiore rispetto alla popolazione sana età-correlata; tra i tumori più frequenti i linfomi non-Hodgkin e i tumori della cute. Questo aumento dell’incidenza di neoplasie, insieme alle infezioni severe, costituisce uno dei problemi principali della terapia immunosoppressiva del trapianto renale.Oltre alle complicazioni fisiche, non vanno sottovalutate le conse-guenze psicosociali della malattia renale cronica terminale e della terapia sostitutiva. Numerosi studi hanno evidenziato come le ca-pacità cognitive e di apprendimento (soprattutto memoria, capacità di lettura e scrittura, abilità matematica e capacità di attenzione) dei bambini dializzati siano significativamente ridotte rispetto alla popolazione sana di controllo. Questo riscontro sembrava essere correlato alla durata della dialisi. In realtà ulteriori studi hanno dimo-strato che la compromissione neurologica risulta presente anche nei soggetti trapiantati precocemente.Il riscontro positivo dello studio di Groothoff è rappresentato da una percezione della propria salute più ottimistica nei soggetti con inizio in età pediatrica di terapia sostitutiva se paragonati a soggetti in cui la dialisi è stata iniziata in età adulta. Ciò consente ai primi di integrarsi più facilmente nel tessuto sociale, con una significativa differenza in positivo del numero di soggetti inseriti in un contesto lavorativo.Per contrastare le numerose comorbidità derivanti da una più o meno lunga permanenza in dialisi cronica del bambino con IRT, l’attenzione si è concentrata recentemente sull’opportunità di estendere la pra-tica del trapianto precoce senza mettere il bambino in trattamento dialitico cronico (pre-emptive), pratica oggi largamente utilizzata in alcuni Paesi del Nord Europa. Questa tecnica ha mostrato numerosi vantaggi sulla sopravvivenza, associati però ad un’importante quota di morbilità a lungo termine rispetto ai bambini trattati con dialisi cronica (McDonald, 2004).In conclusione, ciò che oggi emerge da tutti gli studi sulla soprav-vivenza a lungo termine dei pazienti con malattia renale terminale esordita in età pediatrica è che negli ultimi 30 anni non si sono registrati notevoli miglioramenti delle statistiche né di mortalità e morbilità, né di handicap psico-fisico-sociale (McDonald et al., 2004; Groothoff et al., 2002). Ciò impone che nel prossimo futuro ci si focalizzi maggiormente sulla prevenzione della malattia car-diovascolare, del danno osseo, delle infezioni severe, delle neopla-sie e della compromissione delle capacità cognitive ed insieme si lavori per migliorare il passaggio del soggetto adolescente malato alla vita adulta la cosiddetta “transition terapeutica”, cercando di favorire in tutti i modi la sua integrazione nella società (Groothoff, 2005).

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Malattia renale cronica e insufficienza renale

Definizione IRC e CKD• In questi ultimi anni si è riconosciuto che sono meritevoli di controlli ed eventuale terapia, non soltanto i soggetti con IRC definita come riduzione

del FG sotto a 90 ml/min/1,73 m2, ma anche i pazienti con alterazioni della struttura e/o della funzione renale che presentino ancora un FG > 90 ml/min/1,73 m2 (CKD stadio 1). Anche la definizione degli stadi dell’IRC (CKD stadio 2-5) è stata meglio diversificata rispetto al passato con l’indicazione dei controlli necessari per ogni stadio. Grazie all’utilizzo di questa nuova definizione si è ampliata la popolazione ritenuta meritevole di follow-up e sono migliorate le possibilità di prevenzione.

Fattori di progressione dell’IRC ed ineluttabilità dell’evoluzione ad IRT• L’ipotesi di Brenner, risalente alla fine degli anni ’70, secondo cui la progressione dell’IRC dipende dall’iperlavoro dei nefroni residui ad ogni malattia

con perdita nefronica, è stata pienamente confermata nel trentennio successivo. Sono riconosciuti oggi diversi fattori in grado di accelerare nell’in-fanzia la velocità di progressione dell’IRC, quali la patologia renale primitiva di tipo glomerulare, l’età puberale, i ridotti valori di FG all’esordio, valori elevati di proteinuria, la presenza di ipertensione arteriosa e il ridotto patrimonio nefronico alla nascita. Si può quindi ammettere che una minoranza di casi, che non presentino tali fattori negativi, possano mantenere per molti anni livelli stabili di funzionalità renale.

Efficacia dei provvedimenti terapeutici per la prevenzione della progressione dell’IRC• La dieta ipoproteica prescritta nel passato per ridurre l’iperlavoro renale sulla base dell’ipotesi di Brenner, non si è dimostrata efficace nel rallentare

la velocità di progressione dell’IRC nell’infanzia. Gli ACEi e gli ARB, che intervengono bloccando i meccanismi di formazione dell’angiotensina II, mediatore di danno renale, si sono dimostrati efficaci nelle nefropatie diabetica e glomerulare proteinurica, mentre il loro utilizzo nelle ipodisplasie renali, che costituiscono una parte considerevole delle cause di IRC in età pediatrica, deve essere sottoposto ad attenta valutazione del rapporto rischi/benefici.

Ruolo della chirurgia del RVU e della chirurgia fetale nella prevenzione del danno renale• Si è invertita in questi ultimi anni la tendenza ad operare frequentemente bambini con RVU allo scopo di ridurre il danno renale. Si è infatti dimostrato

che non vi è differenza tra i casi operati e quelli non operati nella percentuale di sviluppo di danno parenchimale (evidenziato in scintigrafia renale) o di raggiungimento di insufficienza renale terminale. Dopo le iniziali e forse eccessive speranze che interventi di derivazione dell’ostruzione urinaria sul feto potessero impedire, in un numero significativo di casi, la progressione del danno renale post-natale, attualmente la chirurgia fetale ha un ruolo molto limitato, riservato a singoli casi con precise indicazioni strumentali o laboratoristiche.

Prevenzione dell’handicap psico-fisico nei bambini in trattamento sostitutivo con dialisi o trapianto renale• Non vi è dubbio che rispetto agli anni ’70, quando la stessa attuazione di un programma dialisi/trapianto pediatrico era in discussione, oggi sulla

base dei risultati di riabilitazione raggiunti, tale indicazione non venga posta in discussione. Tuttavia è stata sottolineata da studi di registro, un’im-portante mortalità e morbilità, soprattutto cardiovascolare, nei giovani adulti in dialisi o trapiantati che abbiano iniziato il trattamento sostitutivo in età pediatrica. Questo apre la strada a politiche di trapianto renale precoce, anche evitando l’inizio del trattamento dialitico. Tale programma necessita comunque di essere ancora sottoposto a valutazione definitiva.

Box di orientamento

Bibliografia

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** Meta-analisi di studi sull’utilizzo degli ACEi come renoprotettori nei nefropatici adulti che sminuisce parte dell’efficacia fino ad ora sostenuta.

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** Interessante meta-analisi degli studi pediatrici sull’efficacia della dieta ipo-proteica nella progressione della CKD.

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** Completa review sugli outcomes fisici e psico-sociali del percorso dialisi/tra-pianto in età pediatrica.

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* Viene tracciata la teoria sulla progressione dell’IRC che costituirà la base per tutti gli studi futuri.

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* Studio su un’ampia popolazione per la valutazione dell’efficacia della dieta ipoproteica nella riduzione della velocità di progressione dell’IRC.

Lea J, Greene T, Hebert L, et al. The relationship between magnitude of proteinu-

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* Review sugli effetti positivi degli ACEi sul rallentamento della progressione dell’IRC.

Maschio G, Alberti D, Janin G, et al. Effect of the angiotensin-converting-enzyme inhibitor benazepril on the progression of chronic renal insufficiency. The Angi-otensin-Converting-Enzyme Inhibition in Progressive Renal Insufficiency Study Group. N Engl J Med 1996;334:939-45.

McDonald SP, Craig JC; Australian and New Zealand Paediatric Nephrology As-sociation. Long-term survival of children with end-stage renal disease. N Engl J Med 2004;350:2654-62.

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National Kidney Foundation. K/DOQI clinical practice guidelines for chronic kidney disease: evaluation, classification, and stratification. Am J Kidney Dis 2002;39:S1-266.

** Segna la svolta nella definizione e stadiazione della CKD, con indicazioni agli accertamenti necessari per ogni stadio.

Nolen GA. Effect of various restricted dietary regimens on the growth, health and longevity of albino rats. J Nutr 1972;102:1477-93.

Peterson JC, Adler S, Burkart JM, et al. Blood pressure control, proteinuria, and the progression of renal disease. The modification of diet in renal disease study. Ann Intern Med 1995;123:754-62.

Taal MW, Brenner BM. Predicting initiation and progression of chronic kidney disease: developing renal risk scores. Kidney Int 2006;70:1694-705.

** Review molto interessante che riassume tutta la teoria della progressione, i fattori predisponesti e il tentativo di identificazione di un punteggio per individu-are i soggetti maggiormente a rischio di progressione verso IRT.

The GISEN Group (Gruppo Italiano di Studi Epidemiologici in Nefrologia). Ran-domised placebo-controlled trial of effect of ramipril on decline in glomerular filtration rate and risk of terminal renal failure in proteinuric, non-diabetic neph-ropathy. Lancet 1997;349:1857-63.

* Studio che conferma dati già precedentemente dimostrati sull’efficacia degli ACEi nelle nefropatie proteinuriche, ma con una estrema rilevanza mediatica.

Wheeler D, Vimalachandra D, Hodson EM, et al. Antibiotics and surgery for vesi-coureteric reflux: a meta-analysis of randomised controlled trials. Arch Dis Child 2003;88:688-94.

** Meta-analisi degli studi controllati sull’efficacia dell’intervento chirurgico per la correzione del RVU nella prevenzione del danno renale cronico.

Wühl E, Mehls O, Schaefer F, ESCAPE Trial Group. Antihypertensive and anti-proteinuric efficacy of ramipril in children with chronic renal failure. Kidney Int 2004;66:768-76.

** Studio randomizzato multicentrico europeo su un’ampia coorte di soggetti pediatrici sottoposti a trattamento con ACEi con follow-up a lungo termine.

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prof. Alberto Edefonti, U.O.C. Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico “Mangiagalli e Regina Elena”, via Com-menda 9, 20122 Milano • Tel. +39 02 55032883 • Fax +39 02 55032451 • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Paralisi cerebrali infantili

Luigi Titomanlio, Ennio Del GiudiceDipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli

Modalità della revisione

I lavori considerati per la stesura di questo articolo sono stati selezio-nati cercando in Medline con le parole chiave “Cerebral Palsy” limitato a “Ages: Children, 0 to 18 years” e “Languages: English” dal 1977 al 2007. Sono risultati 6.687 articoli, di cui 739 revisioni della letteratura.Sono stati anche inclusi articoli pubblicati in un periodo precedente o paragrafi di libri conosciuti dagli Autori.

Il passato della Paralisi Cerebrale Infantile

La Paralisi Cerebrale Infantile (PCI) fu descritta per la prima volta da William Little nel 1862, e fu quindi chiamata morbo di Little negli anni successivi. Era descritta come una malattia che appariva cli-nicamente entro l’anno di vita, e che comprometteva il successivo sviluppo psicomotorio. La malattia non migliorava col tempo, e la sintomatologia clinica restava piuttosto stabile. Lo stesso Little ipo-tizzò che la causa della diplegia spastica fosse una mancanza di ossigeno al momento del parto (Fig. 1).Fino al 1980, l’asfissia perinatale era considerata l’unico fattore responsabile di PCI, finché studi clinici e di ricerca di base più ap-

profonditi individuarono altre cause. Da allora, l’asfissia neonatale è considerata solo uno dei fattori eziologici della PCI (Moster et al., 2001; Nelson e Ellenberg 1986).Il trattamento si basava principalmente sulla rieducazione motoria, sino ai primi anni ’80.

Stato attuale delle conoscenze

Definizione

La PCI è una patologia non progressiva della postura e del movimen-to, causata da un danno acuto al SNC in fase di sviluppo. Le disa-bilità motorie osservate riflettono anatomicamente l’area cerebrale colpita. Se il coinvolgimento è massivo, altre disabilità non motorie possono associarsi, come ad esempio dei deficit cognitivi. È definita anche, in termini più pratici, come un’encefalopatia statica a pre-sentazione tardiva. L’incidenza su scala mondiale è di 1,5-2 casi per 1.000 nascite ed è costante negli ultimi decenni malgrado un netto miglioramento della gestione clinica dei neonati, siano essi a termi-ne o pretermine (Clark e Hankins, 2003; Gibson et al., 2003).

RiassuntoLa Paralisi Cerebrale Infantile è definita come un disturbo non progressivo, ma non invariabile, della postura o del movimento causato da un’anomalia cerebrale, già rilevabile fin dalle fasi precoci dello sviluppo. La forma più classica, la diplegia spastica, fu identificata nel XIX sec. L’incidenza attuale, su scala mondiale, è all’incirca del 2 per 1.000 nati vivi. Rappresenta in assoluto la causa più comune di disabilità pediatrica nei paesi occidentali. Non costituisce di per sé una malattia in quanto tale, ma rappresenta piuttosto un insieme di sintomi e di disabilità, che non riconoscono nella maggior parte dei casi un’eziologia chiaramente definita.In ragione delle differenze nelle cause, nel quadro clinico e nella prognosi è utile che la Paralisi Cere-brale Infantile venga suddivisa in differenti entità nosografiche sulla base del quadro clinico. Il quadro è spesso complicato da disturbi neurologici quali crisi convulsive e disfunzione cognitiva, oltre che sen-soriali, sotto forma di deficit visivo o uditivo. Esistono peraltro disturbi associati di pertinenza extraneu-rologica, come ad esempio i problemi gastrointestinali e nutrizionali inclusa la disfunzione oro-motoria. Attualmente si assiste ad una revisione della terminologia e della classificazione della Paralisi Cerebrale Infantile, che permette di gestire meglio i pazienti affetti e consente di adottare precocemente le terapie neuroabilitative e farmacologiche disponibili.

SummaryCerebral palsy may be defined as a non-progressive but not unchanging disorder of posture or movement caused by an abnormality of the brain, first evident from the stage of rapid brain development. Spastic diplegia was firstly identified in the XIX century. Cerebral palsy has a worldwide incidence of approximately 2 per 1,000 live births. As applied to Cerebral palsy, etiology is the initiating or inciting cause which oper-ates through pathophysiological mechanisms, either individually or as part of a causal sequence, to pro-duce the clinical manifestations of Cerebral palsy. The differences in cause, clinical picture, and prognosis require that Cerebral palsy be subdivided into various entities based on the clinical picture. Associated neurological/perceptual disabilities such as hearing and vision impairment, seizures, cognitive dysfunc-tion, as well as extraneurogical complaints such as gastrointestinal and nutritional problems including oral-motor functions frequently complicate the clinical picture. Notwithstanding the widely accepted ter-minology, concerns have arisen about the limitation of the current concept of Cerebral palsy, to revise its definition and classification. The ultimate goal is to improve patients care.

Luigi Titomanlio è nato a Napoli il 5 Di-cembre 1972, laureatosi in Medicina e Chirurgia nel 1997 a Napoli, Università Federico II, dove in seguito ha ottenu-to la Specializzazione in Pediatria nel 2002 e il Dottorato di Ricerca in Ri-produzione, Sviluppo e Accrescimento dell’Uomo nel 2007. Attualmente è Chef de Clinique all’Ospedale Robert Debré di Parigi, Francia - Università Paris VII e membro della Direzione di Prospettive in Pediatria. I suoi campi specifici di interesse sono la Neurope-diatria e la Pediatria d’Urgenza. Spo-sato senza figli. Ama lo sport, i viaggi, la cucina internazionale e la pittura moderna.

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 89-95

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L. Titomanlio, E. Del Giudice

Classificazione

La classificazione di uso più semplice per il pediatra individua il sot-totipo di PCI sulla base del deficit motorio predominante (spastica, ipo-tonica, atetosica, distonica e atassica) e sulla topografia (monoplegia,

diplegia, triplegia, emiplegia o quadriplegia). Una classificazione ancor più semplificata distingue le PCI piramidali (spastiche) e quelle extra-piramidali (non spastiche) (Batshaw, 2002; Kuban e Leviton, 1994; Pueyo et al., 2003; Sanger et al., 2003; Taft, 1995) (Tab. II).La PCI spastica rappresenta il 70% circa di casi di PCI, con un coin-volgimento delle funzioni superiori nel 30% (Taft, 1995) ed è il risul-tato di un danno ai fasci corticospinali (Fig. 2).La PCI non spastica è causata da un danno ai nuclei della base o al cervelletto. La forma discinetica è divisa ulteriormente nei sottoti-pi atetoide e distonica (Blair e Stanley, 1985; Dormans e Pellegrino, 1998; Rosembaum, 2003) e rappresenta il 15% circa dei casi di PCI.Il 5% dei casi è ad espressione atassica (Sanger et al., 2003). Cli-nicamente si osservano incoordinazione ed anomalie del controllo posturale.È anche possibile osservare diversi tipi di PCI nello stesso paziente, a seconda delle aree cerebrali coinvolte (Kuban e Leviton, 1994).Attualmente la storia naturale della PCI è ben conosciuta. Ciò per-mette di prevedere con buona approssimazione anche la prognosi neuromotoria e cognitiva del paziente (Tab. I). Sono state sviluppate altre scale prognostiche per il bambino con PCI (Gorter et al., 2004). Il Gross Motor Function Classification System (GMFCS) è un sistema di classificazione usato soprattutto per la ricerca e l’epidemiologia. Il vantaggio per il clinico è la possibilità di avere una prognosi piut-tosto precisa delle capacità motorie a medio e lungo termine. È sta-to sviluppato in origine per misurare la severità del deficit motorio (Palisano et al., 1997) e si basa su 5 livelli di compromissione (Tab. II). I bambini nello stadio 1 possono fare le stesse attività dei loro coetanei, anche se con difficoltà nella velocità di esecuzione, equili-brio o coordinazione. I bambini classificati nello stadio 5 hanno delle difficoltà importanti nel controllo della testa e del tronco e nell’ese-cuzione dei movimenti volontari. Inoltre, se il GMFCS è illustrato cor-rettamente alle famiglie, può servire da guida per comprendere le capacità attuali del bambino e pianificare insieme gli obiettivi futuri da raggiungere. La prudenza nel fornire una prognosi è indispensa-bile, poiché il GMFCS non considera gli eventuali deficit in comorbi-dità, ad esempio i deficit visivi. Un’altra classificazione comunemen-

Figura 1. Paziente di 5 anni con diplegia spastica (m. Di Little).

Tabella I. Sottotipi clinici di PCI.

Tipo Sottotipo Prognosi

Spastica Diplegia: 30%-40% 30% presenteranno deficit cognitivi; 80%-90% potranno camminare

50% per prematurità autonomamente o con supporto. Indipendenza nella cura personale e

controllo sfinteriale di solito acquisiti.

Emiplegia: 20%-30% > 60% hanno una intelligenza normale e potranno camminare con o senza

associata a ictus, supporto prima dei 3 anni. Possibili difficoltà nell’abbigliarsi,

malformazioni, emorragia indipendenza per la cura personale. Controllo sfinteriale acquisito.

intraventricolare unilaterale

Quadriplegia: 10%-15% 50% potranno arrivare ad una minima deambulazione assistita, 25%

associata ad asfissia severa; saranno impossibilitati alla marcia.

leucomalacia severa nei Rischio del 50% di sviluppare epilessia, ritardo mentale, sordità,

pretermine deficit visivo. Problemi nella comunicazione e nella continenza sfinteriale.

Monoplegia/triplegia Disabilità variabile a seconda dell’arto colpito e della severità

Non Discinetica: alterazione dei Disartria comune, 50% circa hanno intelligenza normale. 50%

spastica nuclei della base avranno una acquisizione della marcia più o meno autonoma.

Sottotipi: atetosica o distonica Di solito disturbi oromotori. Problemi nella coordinazione dei movimenti.

Atassica: alterazione cerebellare Atassia nei pazienti che acquisiscono la marcia.

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Paralisi cerebrali infantili

te usata nella pratica neuropediatrica è quella proposta dal gruppo “Surveillance of Cerebral Palsy in Europe” (2000) che considera il sottotipo e la topografia del deficit motorio. Sebbene uno studio lon-gitudinale multicentrico, l’Ontario Motor Growth study (Gorter et al., 2004), concluda che la classificazione per tipo e topografia del de-ficit sia utile nella clinica ma non aggiunga elementi supplementari per la prognosi rispetto al GMFCS, lo stesso gruppo “Surveillance of Cerebral Palsy in Europe” ha recentemente dimostrato come la presenza di comorbidità (ad es. l’epilessia) possa invece incidere significativamente sulla prognosi (Beckung et al., 2008).

DiagnosiLa diagnosi di PCI è principalmente clinica. L’anamnesi, soprattutto centrata sul periodo pre-perinatale, permette spesso di porre il so-spetto diagnostico. I segni clinici che appaiono più tardivamente sono il ritardo nell’acquisizione delle normali tappe di sviluppo psicomoto-rio, la persistenza dei riflessi arcaici, delle reazioni posturali anormali

ed altre anomalie all’esame neurologico. Nella diagnosi differenziale si dovranno considerare alcune malattie metaboliche ereditarie (argi-ninemia, sindrome HHH, glutaricoaciduria tipo 1) e delle sindromi ge-netiche neurodegenerative lentamente progressive (sindrome di Rett, sindrome di Pelizaeus-Merzbacher), che possono avere un’espressio-ne clinica iniziale simile ad una PCI (Krigger, 2006).

Meccanismi fisiopatologici della PCIIl meccanismi fisiopatologico più comune a tutti i tipi di PCI è l’ipos-sia/ischemia.Data la complessità dello sviluppo cerebrale fetale, uno stesso dan-no o un’anomalia di sviluppo può condurre a quadri clinici postnatali differenti.Come esempio, ed in linea generale, un danno acuto vascolare prima delle 20 settimane conduce ad un deficit di migrazione neuronale, tra le 26 e le 34 settimane può causare una leucomalacia periventricola-re, tra le 34 e le 40 settimane risulta in un danno corticale focale.L’immaturità del cervello e la fragilità dell’irrorazione arteriosa ce-rebrale fetale spiega perché la prematurità sia un fattore di rischio importante per la PCI. Soprattutto tra le 26 e le 34 settimane di età gestazionale, la materia bianca periventricolare che circonda i ven-tricoli laterali è estremamente sensibile agli insulti ischemico/ipos-sici. Infatti l’apporto arterioso è di tipo terminale, cioè al confine tra la arteriole striatali e quelle talamiche. Queste aree cerebrali conten-gono le fibre responsabili del controllo motorio e del tono degli arti inferiori. Un danno risulta quindi nella diplegia spastica (m. di Little). Quando i danni si estendono alle fibre sottocorticali, coinvolgendo quindi il centro semiovale e la corona rad iata, si osserva clinica-mente un coinvolgimento anche degli arti superiori.A termine di gestazione, quando la circolazione arteriosa si avvicina a quella adulta, gli insulti ischemici si localizzano soprattutto nella regio-ne dell’arteria cerebrale media, e risultano in un’emiplegia spastica.In caso di ipoperfusione, che colpisce in questo caso simultanea-mente le zone terminali di tutte le arterie cerebrali, si osserva una quadriplegia spastica.Se sono coinvolti i vasi che irrorano i nuclei della base ne risulta una PCI discinetica. Quest’ultima era associata, soprattutto alcuni decenni or sono, ad una encefalopatia acuta da iperbilirubinemia (kernicterus) (Watchko, 2006).Sono stati finora identificati molteplici fattori di rischio, che posso-no intervenire nell’epoca prenatale, perinatale o postnatale (Tab. III). In circa il 10-30% dei casi non è possibile identificare un’eziologia certa (Bax et al., 2006; Rosembaum, 2003; Taft, 1999). I fattori più frequentemente ritrovati sono le infezioni intrauterine, le anomalie congenite di sviluppo del SNC, l’asfissia e la nascita pretermine (Mo-ster et al., 2001; Naeye et al., 1989).La causa più comune nei nati pretermine è il coinvolgimento della materia bianca cerebrale periventricolare, che conduce alla leuco-malacia periventricolare (Fig. 1). Difatti, le fibre motrici cortico-spi-nali sono particolarmente sensibili agli insulti che intervengono tra le 24 e le 32 settimane di gestazione (Naeye et al., 1989). Il danno leucomalacico periventricolare è altamente predittivo di PCI, che si manifesta nell’80% circa dei pazienti (Perlman et al., 1996).La prematurità è in continuo aumento nei Paesi occidentali indu-strializzati e sempre più neonati nascono ad età gestazionali basse o molto basse. Di pari passo, si registra un aumento nella prevalenza della PCI nei neonati molto prematuri. In questi casi, alla suscettibilità del cervello in fase di sviluppo si aggiungono le anomalie legate alla prematurità, quali ad esempio la broncodisplasia ed il trattamento con cortisonici, che possono influenzare negativamente i mecca-nismi responsabili del controllo neuronale (Msall, 2006). In effetti a

Tabella II. Stadi del GMCSF per bambini dai 6 ai 12 anni (da Palisano 1997, mod.).

Stadio Descrizione

I Marcia senza difficoltà; limitazione nell’esecuzione di gesti motori più complessi

II Marcia senza necessità di ausili ortopedici; limitazione nella marcia all’esterno dell’abitazione

III Marcia con necessità di ausili ortopedici; limitazioni nella mar-cia all’esterno dell’abitazione

IV Mobilità limitata; necessità di trasporto assistito all’esterno dell’abitazione

V Mobilità estremamente limitata

Figura 2. Leucomalacia periventricolare. RMN cerebrale, T2-weighted, coronale che mostra un ipersegnale della materia bianca periventricolare pro-fonda (frecce), una ventricolomegalia importante ed un’atrofia del corpo calloso secondarie alla perdita neuronale.

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L. Titomanlio, E. Del Giudice

livello cellulare, ed anche in caso di ipossia/ischemia, è soprattutto la produzioni di un eccesso di radicali liberi e l’attivazione della ca-scata eccitotossica a danneggiare la materia bianca. La tossicità da citochine è anche messa in causa ed è principalmente in causa per il danno legato alle infezioni materno-fetali (Folkerth, 2006). Il mec-canismo comune finale è l’apoptosi degli oligodendrociti prematu-ri, che non arriveranno dunque a mielinizzare correttamente i fasci corticospinali. La suscettibilità di questo sottotipo oligodendrocitario è spiegata da un deficit in superossido dismutasi (che impedisce la tossicità da radicali liberi). Altri meccanismi fisiopatologici, quali il danno da riperfusione, il deficit energetico mitocondriale, l’attivazio-ne della microglia, la produzione di IL2 e IL6 in loco, oltre che l’at-tivazione dei recettori per il glutammato di tipo NMDA intervengono contemporaneamente o in modo ritardato (Perlman, 2006).Altro fattore di rischio è la gemellarità. Comunque, sia per i parti sin-goli che per i parti gemellari, il fattore più importante resta la nascita pretermine. La prevalenza di PCI per i parti gemellari è più alta rispetto

ai parti singoli solo per le età gestazionali superiori alle 35 settimane e per un peso alla nascita superiore ai 2.500 g (Bonellie et al., 2005). Invece, la PCI è più frequente nei parti singoli di neonati con età ge-stazionale inferiore alle 35 settimane. L’analisi univariata per quintili (peso alla nascita/età gestazionale) dimostra che il rischio maggiore per i gemelli di sviluppare una PCI non è solo dovuto al peso (inferiore) e alla nascita (più prematura) nei parti gemellari e che pertanto un parto gemellare è di per sé un fattore di rischio. Il dato più significativo del lavoro citato, cha raccoglie i dati del registro scozzese sulle PCI, è che il tipo di PCI è differente: i gemelli presentano nel 64,9% una PCI spastica bilaterale, rispetto al 48,5% per i neonati singoli. Ne conse-gue che l’eziologia della PCI è probabilmente differente.In assenza di ipossia/ischemia e prematurità, si dovrà considerare nella diagnosi eziologica differenziale la possibilità di una patologia infettiva (es. citomegalovirus), metabolica, genetica o neurodegene-rativa. In quest’ultimo caso, la diagnosi di PCI va rivista, essendo la PCI per definizione un’encefalopatia non evolutiva.Per quel che riguarda le patologie genetiche, in un’elegante analisi matematica dei dati del registro svedese per i bambini nati tra il 1959 e 1970, Costeff (2004) ha stimato che il 40% (pari al 35% di tutti i casi) dei casi di PCI di quella comunità eziologicamente non diagnosticati (48% di quelli nati a termine e 24% di quelli nati pre-maturi) erano dovuti ad un’anomalia genetica. Alcuni possibili geni candidati per la PCI sono stati già proposti nella letteratura: UBE3A, ANKRD15 e Trak1.Molfetta et al. (2004) hanno descritto una mutazione frameshift del gene UBE3A in due primi cugini che presentavano un fenotipo di-scordante e che avevano ereditato la stessa mutazione dalle madri asintomatiche. Il probando aveva le caratteristiche tipiche della Sin-drome di Angelman (AS) mentre sua cugina aveva ricevuto diagnosi di PCI, caratterizzata da ipertono ai quattro arti e ipotonia del tron-co. Sebbene mutazioni del gene UBE3A siano state essenzialmente identificate negli individui affetti da AS (Matsuura et al., 1997), la famiglia descritta nel lavoro di Molfetta et al. suggerisce che il gene UBE3A potrebbe avere un ruolo anche nella PCI.Un lavoro recente di Lerer et al. (2005) ha identificato il gene ANKRD15 (ankyrin repeat domain 15) come possibile gene candida-to, analizzando una famiglia Israeliana di origine marocchina in cui nove bambini avevano una PCI congenita, caratterizzata da quadri-plegia e ritardo mentale.L’ipertonia è una delle caratteristiche costitutive della PCI spastica. Gilbert et al. hanno recentemente descritto dei topi con mutazioni del gene “ipertonico” (hyrt) che presentavano come elemento es-senziale del quadro clinico una grave ipertonia (Gilbert et al., 2006). I topi mutanti avevano livelli molto più bassi di recettori per l’acido

Tabella III. Principali fattori di rischio associati a PCI (dati tratti da Gibson et al., 2003).

Prenatali Perinatali Postnatali

Ipossia Prematurità < 32 SG or < 2500 g Asfissia

Plurigemellarità Asfissia Convulsioni < 48 h di vita

Infezioni intrauterine Infezioni perinatali Ictus cerebrale

Malformazioni cerebrali Uso del forcipe Iperbilirubinemia

Malattie genetiche Meningite/Sepsi

Malattie metaboliche Distress respiratorio

Trombofilia Leucomalacia periventricolare

Esposizione a tossici Emorragia intraventricolare

Figura 3. PCI spastica, tetraplegica, conseguente ad anossia perinatale severa. Si associa microcefalia (conseguente a perdita neuronale importante). Notare la caratteristica posizione degli arti superiori in flessione forzata; sono presenti retrazioni tendinee severe.

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gamma-aminobutirrico di tipo A, GABA(A), nel SNC, in particolare a livello dei motoneuroni inferiori, rispetto al ceppo wild-type: è quindi probabile che l’ipertono dei mutanti potesse essere in rapporto con un deficit di inibizione dei motoneuroni mediato dal GABA. Inoltre, i topi mutanti avevano una delezione di 20 nucleotidi nell’ultimo esone del gene Trak1, implicato nel trafficking cellulare recettoriale, inclusi quindi i recettori GABA(A). Il gene Trak1 potrebbe essere un possibile gene candidato per la PCI, proprio in ragione del suo ruolo di regolatore dei recettori GABA(A).Anche anomalie cromosomiche sono state associate a PCI e potreb-bero permettere l’identificazione di nuovi geni candidati. McHale et al. (1999) hanno effettuato uno studio di linkage su tutto il genoma in otto famiglie, mediante 290 markers polimorfici, dimostrando che una porzione di PCI spastiche autosomiche recessive mappano sul cromosoma 2q24-25. Lo stesso gruppo ha evidenziato linkage sul cromosoma 9p12-q12 in un complesso pedigree di consanguinei asiatici affetti da PC atassica (McHale et al., 2000).

TerapiaNon esiste attualmente una terapia specifica per la PCI. Estremamente importante è diagnosticare la patologia, e successivamente sorvegliare le possibile complicanze per intervenire quando necessario. La Società Americana di Neurologia (Ashwal et al., 2004) suggerisce di sorvegliare attentamente dal punto di vista cognitivo, oculistico, uditivo, ortofonico e oromotorio i pazienti con diagnosi di PCI, per poter intervenire pre-cocemente. Una terapia neuroabilitativa in centri specializzati è impor-tante, per consentire il raggiungimento di un livello di autonomia il più elevato possibile in età adulta. In effetti, le limitazioni motorie (deambu-lazione, alimentazione, scrittura) sono in primo piano, soprattutto per la PCI spastica che è la forma più frequente. Attualmente sono disponibili diverse opzioni terapeutiche per la spasticità, dal metodo Bobath, alla fisioterapia classica, all’utilizzo di ortesi per sfruttare al meglio le po-tenzialità dell’arto affetto (in caso di emiplegia o monoplegia), sino ad arrivare alla terapia farmacologica o alla neurochirurgia.Il metodo Bobath, che è molto diffuso e che si basa sul controllo attraverso manipolazioni specifiche del tono muscolare, dei riflessi, delle sensazioni e delle posture anormali per diminuire la spasticità non sembra sia utile a lungo termine per prevenire le contratture o migliorare la funzionalità motoria (Butler et al., 2001). Per quanto ri-guarda la fisioterapia classica, l’allungamento muscolare (stretching) passivo è una delle metodiche più diffuse, praticato spesso anche dai genitori dei pazienti. Una recente revisione della letteratura non ha permesso di concludere sull’utilità del metodo, soprattutto per la scarsità di trial clinici randomizzati (Pin et al., 2006). Il rinforzo pro-gressivo dei muscoli deficitari attraverso programmi plurisettimanali, è benefico per migliorare le capacità alla marcia negli adulti (Anders-son et al., 2003), ma per i bambini con PCI sono ancora pochi i dati disponibili in letteratura (Dodd et al., 2002). È probabilmente utile la terapia motoria che obbliga il bambino ad utilizzare l’arto affetto da

un’emiparesi per velocizzare il recupero funzionale e la riorganizza-zione corticale (Taub et al., 2004; Sutcliffe et al., 2007). Il metodo si basa sulla immobilizzazione dell’arto sano per obbligare il paziente ad usare l’arto affetto durante le sessioni di fisioterapia. Delle ses-sioni giornaliere per una durata totale di 3 settimane migliorano le capacità motorie dell’arto affetto e la qualità di vita del paziente, con risultati che si mantengono stabili per almeno 6 mesi. Tuttavia, i dati finora presenti in letteratura non permettono di concludere sull’effet-tiva efficacia di questo trattamento, soprattutto per la scarsità di studi clinici randomizzati e controllati (Hoare et al., 2007).La terapia farmacologica è diretta in primo luogo alla prevenzione delle complicanze della spasticità (quali retrazioni tendinee), ed è poi specificamente diretta ai segni clinici associati.Se la spasticità è focale, la terapia locale con iniezioni di tossina botulinica è efficace, anche se solo transitoriamente. Sebbene ridu-ca la spasticità, i risultati sono discordanti tra vari studi (Backer et al., 2002; Reddinhough et al., 2002; Koman et al., 2000; Bjornson et al., 2007; Willis et al., 2007), l’effetto dura 3-6 mesi ed il costo è notevole. In pratica, sembra ragionevole proporne l’uso ai bambini con spasticità focale, che interferisca in modo significativo con il loro sviluppo motorio (Wood, 2006).In caso di spasticità diffusa, la terapia orale con diversi farmaci è disponibile, anche se gli effetti secondari importanti (sedazione) ne limitano usualmente l’impiego a dosi efficaci. I farmaci usati più di frequente sono le benzodiazepine, il baclofene ed il dantrolene (Tab. IV). Uno studio retrospettivo recente ha segnalato una riduzione del-la spasticità nel 76% dei bambini trattati con modafinil, effetto già riportato in diversi studi anteriori (Hurst et al., 2006).Per quel che riguarda i casi più severi, il baclofene può essere impie-gato per via intratecale (De Lissovoy et al., 2007; Jones et al., 2007). Il vantaggio è di controllare la spasticità con basse dosi di farmaco, inserendo una pompa ad infusione continua a livello di D11-D12, per combattere la diplegia spastica. Sebbene la funzione motoria migliori significativamente (Krach et al., 2005), la somministrazione continua per via intratecale ha lo svantaggio di abbassare la soglia epilettogena (e quindi di favorire l’apparizione di crisi convulsive) (Buonaguro et al., 2005), può provocare una sindrome da dipendenza (tachicardia, agita-zione, allucinazioni alla sospensione del trattamento) ed anche favorire l’aggravazione di una scoliosi preesistente (Sansone et al., 2006).Altra alternativa terapeutica è la rizotomia selettiva dorsale, vale a dire una resezione delle radici dei gangli dorsali L4-S1, attuata tramite in-tervento neurochirurgico sotto controllo elettromiografico. Purtroppo le evidenze scientifiche a favore dell’impiego di questa metodica per dei vantaggi a lungo termine sono scarse (McLaughlin et al., 2002).Un follow-up ortopedico periodico è necessario, al fine di sorvegliare scoliosi e dislocazioni d’anca, e poter intervenire con tenotomie o allun-gamenti tendinei in casi di spasticità importante (Terjesen et al., 2005).La gestione attuale del paziente con PCI è multidisciplinare: è neces-saria una sorveglianza dal punto di vista nutrizionale (in caso di di-

Tabella IV. Farmaci comunemente impiegati per la spasticità (da Edgar 2003, mod.).

Molecola Dose iniziale Dose massima

Diazepam 0,05 mg/kg/dose, per 2-4/die 0,8 mg/kg/die

Baclofene < 2 anni: 2,5 mg per 3/die < 2 anni: 20 mg/die

2-7 anni: 5 mg per 3/die 2-7 anni: 40 mg/die

> 7 anni 5 mg per 3/die > 7 anni 60 mg/die

Dantrolene 0,5 mg/kg/dose per 2/die 3 mg/kg/dose

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L. Titomanlio, E. Del Giudice

sturbi della deglutizione, reflusso gastroesofageo, costipazione, e per sorvegliare lo stato nutrizionale), pneumologico (rischio di aspirazioni, infezioni respiratorie frequenti), ortopedico ed ovviamente neurope-diatrico per la molteplicità dei sintomi neurologici che possono asso-ciarsi (convulsioni, disturbi del movimento ecc.) (Jones et al., 2007).

Prospettive futureDal punto di vista diagnostico, si spera poter trovare un’eziologia nella quasi totalità dei casi di PCI. Il miglioramento delle tecniche di neuroimaging e l’individuazione di nuovi geni candidati oltre quelli già conosciuti (Matsuura et al., 1997; Lerer et al., 2005; Gilbert et al., 2006) dovrebbero permettere di raggiungere questo obiettivo. Inoltre, gli studi genetici attualmente in corso sono anche volti ad identificare fattori predisponenti la nascita pretermine e quindi indi-rettamente favorenti una PCI. A partire dal 2000 sono stati esaminati diversi geni per valutare la loro possibile associazione con la nascita pretermine, ed in particolare il recettore β-adrenergico, i geni corre-lati a trombofilia e quelli correlati al sistema immunitario (Giarratano, 2006). Nelson et al. (2005) per primi hanno condotto uno studio su alcuni polimorfismi genetici quali possibili fattori di suscettibilità alla PCI arrivando alla conclusione che fosse senz’altro utile un ulteriore approfondimento del problema. Lo stesso gruppo di studio, in una popolazione di neonati pretermine senza una successiva diagnosi di PCI, ha confermato che varianti genetiche del recettore β-adre-nergico e della sintasi dell’ossido nitrico iNOS sono associate con la prematurità (Gibson et al., 2007). I bambini nati pretermine e con diagnosi di PCI avevano invece una maggiore prevalenza di polimor-fismi nel gene della sintasi dell’ossido nitrico endoteliale (eNOS, p < 0,05) e dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno di tipo 2 (p

< 0,05). Questi dati vanno certamente confermati, ma trovare che un certo assetto genetico conferisce una predisposizione a nascere prematuramente e/o a sviluppare una PCI e una disabilità neuroevo-lutiva minore riveste particolare importanza, in quanto l’evoluzione neurologica della PCI, come già descritto, è spesso complicato da un’alta prevalenza di deficit cognitivi spesso molto lievi e difficil-mente identificabili dal pediatra. L’associazione di questi deficit, quali disprassie, disfunzioni esecutive e compromissioni cognitive porta ad un profitto scolastico mediocre. Studi cognitivi recenti negli scolari che sono degli ex-neonati estremamente prematuri ritrovano un’alta prevalenza di deficit percettivi, dell’attenzione, visuospaziali e motori (Marlow et al., 2007), che devono dunque essere pronta-mente identificati e presi in carico.Notevoli sono i progressi scientifici per quel che riguarda la neuro-protezione, cioè l’uso di farmaci o di manovre fisiche (es. l’ipotermia controllata) per prevenire o ridurre il danno neuronale (Sfaello et al., 2005; Perlman, 2006; Long e Brandon, 2007; Tanaka et al., 2007; Wang et al., 2007). Trial clinici sono attualmente in corso e dovreb-bero apportare delle evidenze scientifiche in tempi brevi. L’impiego di terapie innovative quali la terapia con cellule staminali neuronali, efficace in diversi modelli animali, sarà probabilmente un’opzione supplementare per i pazienti con PCI (Vawda et al., 2007).La speranza è soprattutto che a breve la gestione ed il follow-up di questa encefalopatia non evolutiva sia migliorata, attraverso una gestione multidisciplinare dei diversi aspetti clinici, e attraverso una diagnosi neuropsicologica più precisa dei deficit cognitivi associati ai problemi motori. Una diagnosi precoce ed accurata permetterà di orientare i pazienti verso specifici protocolli di rieducazione e favori-rà un’autonomia in età adulta. Ovviamente, ci si auspica che struttu-re dedicate saranno presenti sul territorio in numero adeguato.

Cosa sapevamo negli anni ’70• La PCI è un’encefalopatia non evolutiva legata all’asfissia perinatale.• Il trattamento si fonda sulla rieducazione neuromotoria.

Cosa sappiamo oggi• I fattori eziologici della PCI sono molteplici, anche monogenici.• I meccanismi molecolari che conducono al danno cerebrale sono svariati.• La presa in carico precoce e multidisciplinare del paziente è fondamentale per garantire una vita autonoma.

Cosa ci aspettiamo nei prossimi anni• Diagnosi eziologica per una vasta maggioranza dei pazienti.• Migliore comprensione dei meccanismi del danno cellulare per una neuroprotezione più efficace.• L’applicazione della terapia con cellule staminali, efficace nei modelli animali, anche all’uomo.

Box di orientamento

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dott. Luigi Titomanlio, Emergency Department INSERM U676, Robert Debré University Hospital,48 Bld Sérurier, 75019 Paris (F) • Tel. +33 01 40034005 • Fax +33 01 40034774 • E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Dove va la Pediatria

Armido RubinoDipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli

In un tempo caratterizzato da grande velocità nei cambiamenti scrivere di futuro può essere molto imprudente. Vorrei partire da qualche riflessione sulle linee di tendenza osservabili oggi, riferendomi alla Pediatria dei paesi scientificamente più avanzati e quale è internazio-nalmente definita (American Academy of Paediatrics, 1988). È peraltro evidente che tali linee di tendenza non hanno ovunque pari velocità o identici connotati e sono segnate da luci e ombre in diversa misura nei diversi paesi. Concentrerò perciò le riflessioni prevalentemente sulla situazione italiana.Rivolgendo poi lo sguardo al futuro, nel quale ovviamente le suddette linee di tendenza si proiettano, più che predire ciò che, almeno per me, è imprevedibile, tenterò di cogliere alcuni elementi di preoccupazione rispetto ai quali cercherò di prospettare quelle che mi appaiono auspicabili obiettivi e linee di azione per la Pediatria italiana.

Le tendenze in atto. Le luci e le ombre

Pediatria generale e specialisticaL’esplosivo progresso scientifico della seconda metà del Novecento e dei primi anni di questo secolo ha portato a un elevato numero di quelle che chiamiamo “sub-specialità pediatriche”. In Italia il curriculum della Suola di Specializzazione in Pediatria definita nei primi anni No-vanta comprendeva tredici “indirizzi sub-specialistici”. Oggi, al di là delle parole (al termine “indirizzo” si sostituiscono i “curricula differenziati” o gli specifici contenuti nel “supplemento al diploma di specializzazione”) il numero tende progressivamente ad aumentare, secondo una evoluzione inarrestabile che ha in sé il segno positivo dell’incessante accumularsi di nuove conoscenze e competenze, ma ha anche il rischio di un eccesso di frammentazione con conseguente separatezza interna e indebolimento dell’approccio globale nelle cure all’in-dividuo in età evolutiva (Burgio et al., 1978; Rubino, 1999; Saggese, 2005; Saggese, 2006; Sereni, 1976).

RiassuntoSono riassunte le linee di tendenza in atto nella Pediatria internazionale e in particolare in quella italiana relativamente: al rapporto fra la Pediatria generale e le subspecialità pediatriche; al significato di azioni concertate, reti, lavoro in équipe; alla formazione pediatrica specialistica; la formazione continua; ai luoghi e ai modelli delle cure; ai contenuti delle cure pediatriche.Luci e ombre, per i vari aspetti sono ricordate con particolare riferimento alla realtà italiana.Vengono poi espresse alcune preoccupazioni e relativi auspici di obiettivi da perseguire e azioni da con-durre nel prossimo futuro, relativamente: alla ricerca scientifica di interesse pediatrico; alla formazione dei giovani alla ricerca scientifica; al rapporto fra ricerca e assistenza; alla Pediatria fra cultura tecnico-scienti-fica e cultura umanistica; al rapporto fra Pediatria e comunicazione; alla necessità di una rinnovata allean-za tra pediatri e famiglie unitamente a una nuova corresponsabilità fra Pediatria e aziende sanitarie.

SummarySome current trends of paediatrics in the international community and particularly in the Italian one are summarized, in regard to: the relation between general paediatrics and subspecialties; the value of concerted actions, networks, equipe work; the postgraduate paediatric education; the continuous paediatric education; organization and contents of health care in paediatrics. Lights and shadows are underlined, referring particularly to the Italian conditions.A number of worries and thoughts about aims and possible actions to be taken in the near future are expressed referring to: the paediatric scientific research; the scientific paediatric training; the relation between research and health care; some problems in combining the scientific culture with the human sci-ences in paediatric education and health care; the importance of the modern communication technology for paediatrics; the call of a new alliance among paediatricians, children and families and a new co-re-sponsibility behaviour in the relation with the managerial settlement of the health care organization.

Armido Rubino è nato a Vallo del-la Lucania (SA) il 3 Giugno 1937. Ha vissuto da protagonista le vicende della Pediatria italiana degli ultimi cinquant’anni: componente del primo comitato di redazione di Prospettive in Pediatria; uno dei fondatori dell’Asso-ciazione Culturale Pediatri; Direttore per tre anni della Rivista Italiana di Pediatria; Presidente della Società Italiana di Pediatria; tra i fondatori della “ESPGHAN”; promotore del pri-mo Dipartimento di Pediatria in Italia e dell’attuale assetto della Scuola di Specializzazione in Pediatria in Europa e in Italia. È stato Preside di Facoltà di Medicina, Presidente del Comitato per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, Presidente del Centro Studi del Ministero della Sanità, Presidente della Commissione Infanzia del Mi-nistero della Sanità che promosse il primo progetto obiettivo materno-in-fantile in Italia, Presidente della Unio-ne delle Società Europee di Pediatria, e principale artefice della sua recente trasformazione in European Paediatric Association. Attualmente è Ordinario di Pediatria all’Università Federico II di Napoli, Presidente del Collegio dei Professori Universitari di Pediatria; rappresenta la Regione Europea nello Standing Committee della Internatio-nal Paediatric Association; tra i fonda-tori e Coordinatore della Società Ita-liana di Ricerca Pediatrica. È sposato e ha una figlia. Nel poco tempo libero ama dedicarsi alla saggistica varia, arte, qualche viaggio, il Cilento (a sud di Eboli dove “si fermò Cristo”; ma lui dice: “Cristo veniva da sud”).

Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 96-101

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Dove va la pediatria

Guardando al panorama internazionale ci sono oggi almeno 20 ambiti sub-specialistici della Pediatria. Questa evoluzione ha prodotto una crisi nella cultura e nella pratica di Pediatria generale che tende ad-dirittura a scomparire in alcuni paesi. La crisi è più evidente nei paesi in cui l’assistenza di base all’infanzia e all’adolescenza è affidata al medico di medicina generale, con il pediatra subentrante in seconda battuta (Katz et al., 2002). Da questo punto di vista l’Italia può van-tare una condizione nettamente positiva: l’istituto del “pediatra di li-bera scelta”, quale operatore generalista responsabile dell’approccio globale alla protezione della salute in età evolutiva e degli interventi diagnostici e terapeutici nell’ambito delle cure primarie, costituisce un importante strumento per il mantenimento di una cultura pediatrica di tipo generale. Non a caso nel nostro Paese la Pediatria è definita “generale e specialistica” e il più gran numero di nuovi pediatri è de-stinato appunto a un’attività di Pediatria generale nel sistema della Pediatria di famiglia (Johnston, 1981; Rivkees, 2007 Saggese, 2005).

Le azioni concertate, le reti, le équipeAlla complessità della Pediatria nelle sue diverse tipologie sub-specialistiche corrisponde la moderna organizzazione delle cure pediatriche nella articolazione in assistenza primaria (in Italia pra-ticata dalla Pediatria di famiglia e dai servizi territoriali), secondaria e terziaria (praticate negli ambiti ospedaliero e universitario). Dalla vecchia medicina basata su un rapporto uno a uno medico-paziente (che per la Pediatria è da sempre rapporto coinvolgente i genitori) si è passati alla moderna logica delle reti: reti pediatriche genera-listiche di assistenza primaria; reti integrate dei servizi territoriali; reti cliniche generalistiche e specialistiche; reti socio-sanitarie; rete ospedaliera; reti cliniche specialistiche e dei centri specialistici; ecc. (Betke et al., 2006). Alle reti stabilmente organizzate si aggiungono le “azioni concertate” su specifici programmi con specifici obiettivi. Al tempo stesso il diritto della persona in età evolutiva a continuità, globalità, longitudinalità e accessibilità delle cure impone la costitu-zione di gruppi di operatori che, tra loro interagendo, garantiscono tale diritto in ogni campo dell’assistenza a partire dalle cure prima-rie. Si tratta di assicurare a tutti, attraverso le “reti” ed i “percorsi”, sia le cure più moderne sia la salvaguardia di un fondamentale biso-gno dell’individuo in età evolutiva: avere un pediatra di riferimento, in un rapporto di reciproca conoscenza e fiducia.Da tutto ciò deriva la moderna esigenza di lavorare con spirito di squadra: l’esigenza cioè di praticare con successo, negli ambiti for-mativi come nella pratica assistenziale, la relazione dei pediatri tra loro e tra pediatri e gli altri professionisti coinvolti nelle cure (Burgio et al., 2007; Katz et al., 2002).

La formazione specialisticaLa formazione specialistica prevede, in Italia come in Europa e in USA, un triennio di formazione pediatrica di base, seguito da bienni diffe-renziati per la Pediatria generale ovvero per ciascuna delle diverse su-bspecialità pediatriche (Fig. 1) (Federico et al., 2007; Saggese, 2005).Tuttavia non mancano ombre nella realtà del nostro Paese (Federico et al., 2005; Rubino, 1999; Sereni et al., 1998): 1) persistono difetti gene-rali nel sistema universitario che hanno recentemente condotto ad un tentativo di “riforma” non del tutto appropriato rischiando di allontanare la formazione pediatrica dal modello europeo; 2) il numero di nuovi specialisti è insufficiente a garantire i fabbisogni. Stato e Regioni, che hanno il compito di programmare annualmente la numerosità dei nuovi specialisti da formare, si muovono, da questo punto di vista, con im-provvisazione e sostanziale arbitrio. Da circa quindici anni manca una seria analisi dei fabbisogni effettivi quale premessa della programma-zione; 3) la lentezza delle procedure attuative, a livello Stato e Regioni,

rispetto a norme di legge, unitamente a qualche resistenza e inerzia al-l’interno della stessa comunità pediatrica, fa sì che si sia ancora lontani dalla piena realizzazione di un fondamentale principio generalmente applicato a livello internazionale: che la formazione specialistica, diretta e guidata dalle Università, debba avvenire nei luoghi e contesti in cui vengono svolte le attività per le quali gli allievi vengono formati e deb-ba coinvolgere ampiamente gli operatori responsabili di tali attività. Mi riferisco cioè alla necessità di prevedere adeguata frequenza in centri universitari ma anche ospedalieri e extraospedalieri; 4) si tarda tuttora a mettere in campo un adeguato sistema di valutazione delle attività formative, da tutti auspicato a parole ma da pochi attuato. Sotto questo aspetto precise indicazioni europee restano disattese.Malgrado tutto ciò, credo si possa affermare che il modello italiano della formazione specialistica in Pediatria mantiene una buona qua-lità complessiva. Ha particolare importanza l’essere riusciti a mante-nere l’intero panorama delle subspecialità pediatriche all’interno di una comune cultura pediatrica nei suoi principi, metodi, valori.

La formazione continuaÈ in atto una forte accelerazione nei cambiamenti riguardo a: il pro-gresso scientifico e tecnologico; le caratteristiche demografiche con riferimento all’infanzia e all’adolescenza; la (le) cultura (e) della popo-lazione di riferimento; i bisogni di salute; le attese e le esigenze delle famiglie; le condizioni organizzative della medicina e della sanità con riferimento alla Pediatria; la mobilità nel lavoro; le condizioni sociali e economiche influenzanti le cure sanitarie. Questa crescente accelera-zione mal si accorda con i tempi della formazione pre-laurea e spe-cialistica in Pediatria e pone perciò la formazione continua al centro dell’intero processo formativo. In passato i contenuti della formazione pre-laurea e specialistica erano più di oggi vicini ai contenuti del suc-cessivo lavoro. Il futuro sempre più vedrà invece una formazione pre-laurea e specialistica finalizzata soprattutto a conferire adattabilità ai cambiamenti nel sapere, nel saper fare, nel saper essere. Sempre più la formazione continua servirà a saldare l’inevitabile gap tra la pre-cedente formazione e il lavoro. Sempre più sarà centrale la necessità di una nuova formazione quando si troverà o si cambierà il lavoro. E sempre più si attenuerà il cosiddetto “valore legale del titolo di studio” mentre crescerà il valore certificativo delle attività di formazione con-tinua ai fini dell’esercizio professionale (Fig. 1).La formazione pediatrica in genere e la formazione continua in partico-lare dovranno perciò affinare la capacità di promuovere più qualità nel lavoro, conferire più “appropriatezza” alle competenze tenendo conto degli aspetti scientifici, relazionali e anche economici; collegare cioè la formazione continua al miglioramento continuo della qualità nel lavoro. Sempre più e meglio i protagonisti della formazione continua in Pedia-tria dovranno essere attenti ai bisogni di salute regolando su di essi quelli formativi e didattici nei campi delle abilità e competenze intellet-tive, gestuali, di comunicazione interpersonale. Occorrerà l’impiego di metodi basati su: piccoli gruppi; interattività; scelta di supporti didattici pertinenti e logici rispetto agli obiettivi; approccio per problemi (problem based learning, self directed learning); utilizzazione degli stessi discenti come co-docenti; il confronto fra pari e coinvolgimento dei partecipanti. Sempre più la formazione in generale e quella continua in particolare impiegheranno l’informatica e le moderne tecniche di simulazione. Un ritardo della Pediatria italiana nell’acquisire e praticare tali tecniche provocherebbe cali nella qualità della formazione e quindi del lavoro generando o accentuando differenze rispetto a altri paesi.Sempre più la formazione sarà anche “formazione a distanza”. Per-ciò è necessario che i docenti sappiano essere autorevoli protago-nisti nella individuazione e attuazione di contenuti e metodi atti a conferire qualità alla formazione a distanza.

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Dal tempo degli “eventi” si passerà ad una routine fatta di forma-zione intrecciata al lavoro. È augurabile che i Governi (internaziona-li, nazionali e locali) definiscano e aggiornino norme adeguate alle esigenze della formazione continua superando, per quanto riguarda l’Italia, forti ritardi oggi persistenti. Ed è indispensabile che norme e programmi abbiano forte credibilità anche sul terreno della indipen-denza rispetto agli erogatori di risorse, pubblici o privati (Chambers, 2000; Federico et al., 2007; Miles, 2007; Rubino, 1999).

I luoghi e i modelli delle cureÈ ormai acquisito, nei principi come nella pratica, che la Pediatria è prevalentemente attuata in modelli ambulatoriali. Nel campo del-l’assistenza primaria l’attività del pediatra è di regola ambulatoriale e eccezionalmente domiciliare. Ma anche nell’ambito delle cure se-condarie e terziarie sempre più prevale l’attività di tipo ambulatoria-le ovvero un’attività di day hospital inteso come ricovero limitato a un certo numero di ore all’interno della giornata (Katz et al., 2002; Mangione-Smith et al., 2007; Schor, 2007; Starfield, 1973). I ricoveri protratti oltre le dodici ore dovrebbero, di regola, essere limitati ai casi in cui è indispensabile, per la natura dei problemi, una osser-vazione continua in ambito ospedaliero. Ne deriva che il ricovero ospedaliero (che può essere per cure generali ovvero in centri di alta specializzazione) sempre più richiede strutture tecnologicamente raffinate (unità di terapia intensiva neonatale, unità di terapia inten-siva pediatrica, unità “sterili” ecc.).Al tempo stesso i luoghi destinati alle cure a soggetti in età evo-

lutiva richiedono particolari caratteristiche che tengano conto delle esigenze psicologiche connesse all’età e che vengono generalmen-te definite con il termine “umanizzazione”. Particolare importanza hanno, in questo ambito, le condizioni che consentano presenza e partecipazione da parte dei genitori.Coniugare alta tecnologia e umanizzazione dell’assistenza costitui-sce una delle fondamentali sfide della moderna organizzazione dei luoghi destinati alle cure a neonati, bambini, adolescenti. Sotto que-sto aspetto, in Italia, accanto a numerosi eccellenti esempi, persisto-no forti ritardi. È necessario un forte impegno sia in termini di risorse e interventi strutturali, sia in termini di atteggiamenti e operatività da parte di pediatri e altri professionisti operanti nel sistema delle cure all’età evolutiva.

I contenuti delle cureL’evoluzione delle conoscenze biomediche ha profondamente tra-sformato il modo di fare Pediatria. I progressi della biologia cellulare e molecolare, della genetica e dell’immunologia, della diagnostica per immagini e strumentale (per citarne solo alcuni tra i più rilevanti) hanno trasformato la pratica pediatrica. L’informatica ha a sua volta fortemente influenzato sia l’organizzazione dei servizi, sia i modi del rapportarsi dei pediatri fra loro e con altri professionisti, nonché il modo di lavorare del singolo pediatra (Bellanti, 1980; Cao, 1989; Court, 1980; Freed et al., 2007; Johnston, 1981; Kretchmer, 1977).Ma accanto ai cambiamenti determinati dal progresso scientifico e tecnologico, forti trasformazioni hanno interessato i bisogni di sa-lute della popolazione in età evolutiva. Al diminuire della patologia acuta per numerosità e gravità si accompagna il crescente numero di problemi cronici, sia per il continuo raffinamento delle possibilità diagnostiche sia in conseguenza degli stessi progressi terapeutici.Continui sono anche i miglioramenti in termini di qualità di vita nelle patologie croniche.Negli ultimi decenni sempre più rilevanti e frequenti sono divenuti i problemi della salute mentale, con la conseguente esigenza di un forte impegno in questo campo sotto l’aspetto preventivo e educativo oltre che diagnostico e terapeutico. Gli straordinari progressi in ambito neo-natologico con la conseguente sopravvivenza di neonati di peso molto basso hanno aperto i problemi connessi al follow-up e alla qualità di vita di tali soggetti. Sul versante opposto dell’età evolutiva, gli adolescenti sempre più, nel moderno “villaggio globale”, sono a rischio di disagi, devianze, patologie conclamate più o meno gravi nella sfera psicolo-gica e comportamentale (Burgio et al., 2007; Wise, 2007). Alla gene-rale consapevolezza della importanza di tali problematiche non ancora si accompagnano adeguate risposte. I ritardi riguardano la società e la politica nel suo complesso, ma riguardano anche la stessa comunità dei pediatri, che da un lato rivendica una specifica competenza nel campo degli adolescenti, ma dall’altro, malgrado l’eccellente attività di alcuni gruppi, tarda a mettere in campo tutto il necessario impegno, sia nella formazione specialistica e continua sia nelle pratiche assistenziali.

Il futuro fra auspici e preoccupazioni

La ricerca scientificaRicerca scientifica, formazione e assistenza sanitaria sono attività strettamente collegate. In larga misura si tratta addirittura di un’uni-ca attività avente tre distinte finalità. In generale le tre attività sono strettamente interdipendenti nel senso che la qualità di ciascuna fortemente influenza quella delle altre due. È ovvio che in biome-dicina la produzione delle nuove conoscenze (ricerca scientifica) precede la trasmissione delle stesse e l’applicazione alle cure. La

Figura 1.Rapporti fra formazione e lavoro.

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Pediatria ovviamente non fa eccezione. Perciò guardare al futuro della Pediatria richiede anzitutto una riflessione sullo stato di salute della ricerca pediatrica e sulle sue prospettive.Nei passati decenni e anche attualmente e prevedibilmente in fu-turo, sempre nuove conoscenze e metodi sono offerti alla ricerca scientifica pediatrica, provenendo dalla biologia cellulare e moleco-lare, dalla genetica, dalle ricerche biomediche di base in generale, dalla diagnostica per immagini, dai presidi diagnostici e terapeutici, dalla epidemiologia, dalla immunologia ecc.Questa nuova ricchezza, che pur tanto ha prodotto in termini di ridu-zione della mortalità e miglioramento della qualità di vita in età evoluti-va, ha tuttavia in sé un rischio e pone un problema che tocca la stessa identità della ricerca pediatrica. Il crescente valore di nuove tecnologie preventive, diagnostiche e terapeutiche rischia di trasformare il pe-diatra clinico in semplice registratore di risultati prodotti da altri. Ana-loga evoluzione è in atto nella stessa ricerca scientifica (Boat, 2007; Rivkees et al., 2007; Schor, 2007; Wise, 2007). Ad esempio Thomas Boat documenta che nei dipartimenti pediatrici degli USA sempre di più e sempre più frequentemente la ricerca è condotta da investigatori non pediatri e sempre di più la ricerca di interesse pediatrico ha luogo in strutture che pediatriche non sono. Complessivamente negli Stati Uniti la ricerca finanziata dall’NIH tende a concentrarsi in un basso numero di dipartimenti pediatrici (nel 2005 in USA il 30% del finanzia-mento complessivo diretto a ricercatori pediatri era concentrato in soli 4 dipartimenti mentre il 75% era concentrato in 30) (Boat, 2007). Nel-la comunità pediatrica internazionale si moltiplicano perciò gli appelli per un maggiore e rinnovato impegno a favore della ricerca pediatrica, intesa quale ricerca svolta dai pediatri in quanto i cultori più autentici della salute dell’individuo durante la crescita e lo sviluppo.Nel nostro Paese la crisi è forse più sentita a causa delle ben note insufficienze generali di impegno e attenzione che il Paese dedica alla ricerca scientifica e al sistema universitario, con la conseguente crisi generale che colpisce appunto il sistema della ricerca e dell’Università. Si aggiunge il diffuso difetto nazionale della scarsa corrispondenza fra parole e fatti per cui alla declamazione, con toni spesso retorici, della “importanza dell’infanzia”, sovente non segue un adeguato impegno per il sostegno alla ricerca scientifica di interesse pediatrico.Uno sforzo straordinario della comunità pediatrica italiana impe-gnata nella ricerca appare necessario lungo alcune linee (Box rias-suntivo). Anzitutto è auspicabile promuovere una stagione di forti interazioni e scambi con altre discipline cliniche e di base. I confini fra il settore scientifico-disciplinare “Pediatria generale e speciali-stica” (per usare il linguaggio universitario) e quelli di altre e diverse discipline cliniche e di base dovrebbero tendere ad aprire ampie vie di comunicazione. Occorre affinare la capacità di coniugare il valore della specificità pediatrica con quello dell’apertura a scambi e col-laborazioni nella più ampia comunità biomedica. È appena il caso di aggiungere che l’auspicio alla collaborazione fra diversi gruppi e istituzioni è ancora più importante ed essenziale se riferito ai gruppi sub-specialistici all’interno della stessa comunità pediatrica.In secondo luogo è auspicabile un salto quantitativo e qualitativo nella formazione alla ricerca pediatrica promuovendo e utilizzando al meglio risorse e strumenti che il Paese pone a disposizione per la formazio-ne; occorre cioè fare più formazione alla ricerca in ambito pediatrico, sviluppare più competenze riguardo, ad esempio, alla capacità di di-segnare, condurre e analizzare studi valutativi di strumenti preventivi o diagnostici, di indicatori prognostici, di efficacia/sicurezza terapeutica, nonché capacità critica nel fare revisioni della letteratura. Fatte salve le ovvie differenze, appare opportuno migliorare tale tipo di competenza sia nella formazione specifica alla ricerca (dottorati di ricerca, master, bienni sub-specialistici di indirizzo, mobilità in qualificati centri) sia nel-

la stessa formazione specialistica. In effetti è un buon clinico moderno chi ha sviluppato la capacità di comprendere i fondamenti della ricerca scientifica per costruire poi, su tale base, un’attività prevalentemente di ricerca ovvero prevalentemente pratica con la connessa prerogativa di saper criticamente valutare i risultati delle ricerche legate alle appli-cazioni cliniche. In sostanza: occorrerebbe fare di più per promuovere l’acquisizione del metodo scientifico (Kelch, 1989). Aggiungo che una forte azione sulla formazione di giovani alla ricerca scientifica non può essere disgiunta da un’azione di promozione delle possibilità di inseri-mento nel lavoro in un sistema credibile, che sappia offrire da un lato concrete possibilità e dall’altro metodi corretti e trasparenti. Ciò significa che occorre anche porre attenzione a che ci sia una certa congruità fra il numero di giovani che vengono specificamente formati alla ricerca scientifica e le possibilità effettive di inserimento nel sistema comples-sivo della ricerca pubblica e privata, in una moderna visione di mobilità almeno sull’intero territorio nazionale.Inoltre occorrerebbe che nella formazione alla ricerca scientifica maggiore attenzione fosse data allo sviluppo di competenze per l’accesso a programmi e finanziamenti nonché per lo svolgimento di funzioni di coordinamento all’interno di gruppi di ricerca complessi e/o multi-disciplinari (aspetto non secondario al fine di evitare che l’apertura alle collaborazioni lasci poi troppo spesso il pediatra con-finato in ruoli subalterni).Infine non va dimenticato che la formazione alla ricerca è stretta-mente legata alla partecipazione alla comunità scientifica interna-zionale, con tutto ciò che ne consegue in termini di conoscenza dell’inglese, padronanza delle tecnologie di comunicazione attinenti alla ricerca scientifica, mobilità internazionale per giovani e meno giovani, familiarità con la letteratura scientifica internazionale, ecc.Non va sottovalutata la necessità che nelle macroscelte sui temi della ricerca i diversi soggetti in campo, e tra questi la stessa comunità scientifica pediatrica, sappiano scegliere obiettivi che tengano conto dei prevalenti bisogni nella popolazione di età evolutiva in una società che cambia. Ricordo alcuni punti: la traslazione di nuove conoscenze, concetti e strumenti in nuove possibilità diagnostiche e terapeutiche per l’età evolutiva; i trattamenti farmacologici personalizzati; la Pedia-tria predittiva; le malattie croniche; la valutazione della qualità e della sicurezza delle cure sanitarie; i problemi della salute mentale e della Pediatria dello sviluppo e del comportamento; i problemi vecchi e nuo-vi dell’età adolescenziale; gli effetti dei moderni stili di vita sull’indivi-duo durante lo sviluppo e la crescita; la sopravvivenza e la qualità di vita dei nati di peso molto basso; la valutazione della qualità delle cure in Pediatria ambulatoriale; gli effetti dei cambiamenti demografici sui contenuti della Pediatria. (Boat, 2007; Burgio et al., 2007; Cao, 1989; Freed et al., 2007; Mangione-Smith et al., 2007; Miles, 2007; Rivkees et al., 2007; Schor, 2007; Wise, 2007).

Il rapporto fra ricerca scientifica e assistenzaIl collegamento fra ricerca scientifica, formazione e attività clinica, con la forte interdipendenza tra i tre ambiti dal punto di vista della qualità, è concetto valido se riferito alla comunità nel suo complesso, in particola-re alla comunità pediatrica di un Paese, o di una istituzione universitaria, ospedaliera, territoriale. Ma nel nostro Paese il collegamento è stato a lungo – e tuttora è – riferito anche alle singole persone, in particolare nel sistema universitario. In tale ambito la inscindibilità delle tre funzioni da parte dei singoli docenti viene rivendicata come un insuperabile para-digma. Credo si debba riflettere sui rischi di una concezione così rigida. Il crescente fabbisogno di personale docente nelle Università per far fron-te, nel presente e nella prospettiva del futuro, alle esigenze nella sfera didattico-scientifica rischierebbe di essere insostenibile per il sistema sanitario, sui piani sia finanziario che organizzativo, se detto paradigma

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della inscindibilità dovesse valere sempre e comunque. D’altro canto le crescenti esigenze di sviluppo di una moderna ricerca scientifica di interesse pediatrico non necessariamente richiedono, per ogni docente, un impegno assistenziale diretto. Tale impegno, se inteso come obbligo, può addirittura risultare nocivo a docenti pediatri in relazione alle speci-ficità della loro attività didattico-scientifica. Credo perciò che la comunità universitaria (poiché è evidente che non si tratta qui di questione soltan-to pediatrica) debba riflettere sull’effettiva necessità che “il dogma della inscindibilità” sia mantenuto, e se non sia invece opportuno introdurre elementi di flessibilità. Ciò renderebbe possibile prevedere, all’interno della “Pediatria generale e specialistica” quale è intesa in Italia, anche la presenza di ricercatori non impegnati direttamente in attività cliniche ma competenti e interessati ad attività di ricerca scientifica finalizzata alla protezione della salute in età evolutiva.

La Pediatria fra “le due culture”La crescente tecnologizzazione della medicina e la doverosa atten-zione alla “medicina basata sull’evidenza” non devono indebolire la consapevolezza che la medicina è non solo scienza ma piuttosto pra-tica basata su conoscenze scientifiche, in un sistema di relazione fra persone, dentro il quale sistema c’è la speciale relazione fra pediatra e persona in età evolutiva. Occorre evitare il rischio che si indebolisca il concetto di medicina nel suo significato primario, cioè di risposta al bisogno dell’individuo di chiedere aiuto nella sofferenza, nel dolore, nel disagio, nell’ansia, per ricevere consolazione, consigli, risposte.La risposta a questo bisogno deve restare alla base della medici-na. Ma può restarvi solo se il medico, pur moderno cioè capace di risposte basate su concetti scientifici modernamente acquisiti, resta protagonista di una speciale relazione che è fatta di dialogo, di comprensione, di spirito di servizio rispetto ai bisogni complessi della persona, di capacità di informare ma anche di dialogare e di dare risposte – le migliori possibili – a tutte le domande, incluse quelle per le quali una risposta scientificamente intesa manca. Guai se la Pediatria dovesse ridursi a rapporti tecnici o quasi burocratici, magari mediante computer, e dovesse dimenticare che il pediatra è veramente tale solo se è nella condizione di stabilire un’autentica relazione con l’individuo in età evolutiva e i suoi familiari.Empatia, dialogo, comunicazione, fiducia, rispetto della persona, ri-spetto della privacy, attenzione alla globalità dei problemi della per-sona che chiede l’aiuto del medico: queste cose non sono oggi ab-bastanza presenti nei contesti formativi e nell’esercizio della pratica. Sovente la realtà è fatta quasi esclusivamente di indagini, prescrizioni, linee guida, analisi di risultati scientifici e conseguenti applicazioni e sempre meno di impegno per le buone relazioni interpersonali.L’auspicio è che la Pediatria resti bene ancorata a ambedue le cultu-re: quella tecnico-scientifica e quella umanistico-relazionale.

Pediatria e comunicazioneLa rivoluzione in atto in materia di comunicazione ha profondamente cambiato tutti gli aspetti del vivere e quindi, tra l’altro, la comunicazio-ne scientifica, le modalità della didattica, la comunicazione fra pediatri e fra pediatri e altri professionisti, le modalità di fare assistenza ecc. Computer, internet, telefonini, fotografia, televisione, navigatori satelli-tari, tecnologie digitali sempre più sono alla portata di tutti.I sistemi della ricerca, della formazione e dell’organizzazione sani-taria, i rapporti fra pediatri e con altri professionisti della sanità, i rapporti fra pediatri, pazienti e famiglie, tra pediatri e pubblica opi-nione, sono profondamente influenzati dalle nuove tecniche. Restare indietro in questo campo sarebbe grave.Il concetto di sapere come diritto e come bene comune ha assun-to dimensione e accessibilità straordinarie. Ma l’accesso alla co-

noscenza significa anche essere esposti alle opinioni più diverse, donde una crescente necessità di sviluppo delle capacità critiche e di possibilità di confronto tra opinioni diverse. E questo vale per tutti i rapporti, da quelli di un paziente o del genitore del bambino che accede a conoscenze sanitarie via internet fino a quelli dei rapporti nella comunità scientifica per l’individuazione di ciò che è scientifi-camente evidente e per la definizione dei consensi. La connessione è garantita a tutti ma occorre garantire anche la qualità dei contenuti il che apre ai pediatri nuovi e grandi spazi di intervento nei campi della ricerca, della formazione e dell’assistenza.La Pediatria fa fatica a affrontare adeguatamente questi problemi. Oc-corre perciò un impegno nuovo e straordinario per adeguare le capaci-tà del pediatra nella moderna comunicazione in tutte le sue espressioni: dalla programmazione e svolgimento della ricerca scientifica, alle forme di comunicazione dei risultati e fino alla divulgazione degli stessi per la pubblica opinione; dalla organizzazione delle attività formative pre-laurea, post-laurea, di formazione continua, di educazione sanitaria, alla comu-nicazione all’interno delle équipe sanitarie e nelle reti di servizi sanitari, fino alla comunicazione pediatra-paziente-famiglia e a quella tra pediatri e pubblica opinione. Il sistema formativo in Italia tarda ad adeguarsi a tutto questo, si attarda ancora in sperimentazioni episodiche e non sostitutive dei vecchi modelli con conseguenti ritardi rispetto alla velocità degli ade-guamenti in altri paesi. Occorrerebbero significative riforme generali nel sistema formativo e della comunicazione. Ma intanto è auspicabile che la Pediatria si muova con programmi formativi coerenti addestrando:a conoscere il linguaggio multimediale e saperlo convertire in comu-nicazione/informazione nell’ambito della didattica medica;a sapere integrare i modelli tradizionali della didattica medica con le nuove tecnologie di telecomunicazione, teledidattica e intercon-nessione;a sapere effettuare cicli didattici in video conferenza e forum tele-matici di discussione, ecc.

Alleanza e corresponsabilitàNel nostro Paese le profonde modifiche in atto nel rapporto fra medici (pediatri inclusi), pazienti e aziende a seguito delle varie riforme del sistema sanitario succedutesi hanno modificato lo stesso “status” del medico spingendolo verso una condizione di speciale “dipendenza”. Sotto alcuni aspetti il fenomeno è stato positivo nella misura in cui ha ridimensionato la vecchia e superata figura paternalistica. Tuttavia esso rischia di mettere in crisi lo speciale rapporto che da sempre lega il medico al paziente e che costituisce la base della pratica medica (Cavicchi, 2007). Si tratta di dipendenza dal potere decisionale della “managerialità” aziendale, spesso dominata prevalentemente se non esclusivamente da una logica di natura economica.In questo quadro, le attività dei pediatri, i percorsi diagnostici e tera-peutici, il contenuto delle prestazioni tendono a divenire sempre più standardizzate, vincolate e controllate dal potere decisionale azien-dale, riducendo gli spazi di autonomia decisionale del pediatra.Non vanno dimenticate le buone ragioni dell’economia e delle aziende. I concetti di essenzialità, efficacia, efficienza, appropriatezza nella pratica medica anche in senso finanziario sono sacrosanti. Il fatto è tuttavia che le aziende, anche come conseguenza di ritardi del sistema formativo dei medici di questo Paese, tendono a travalicare, in tal modo intervenendo sul ruolo del medico nella sua essenza di interprete dei bisogni di salute dell’individuo e di protagonista delle decisioni conseguenti.Mentre il processo di progressiva perdita di autonomia del medico si sviluppava, parallelamente cresceva la consapevolezza dei diritti nel campo della salute. I “pazienti” di prima sono divenuti gli “esigenti” di oggi (Cavicchi, 2007). Tutto questo, messo insieme al frequente malfunzionamento dei servizi sanitari o anche soltanto ai limiti e vin-

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coli imposti dalle aziende, finisce con lo scaricarsi sul pediatra che rischia di restare schiacciato tra esigenti che chiedono e aziende che limitano. Nasce così e si sviluppa una crescente conflittualità dentro la quale, pur essendo dimostrato che nella stragrande maggioranza dei casi le colpe quando ci sono riguardano l’organizzazione sani-taria e non l’attività pediatrica in senso stretto, il pediatra si trova in difficoltà e può rifugiarsi nella medicina difensiva che è cattiva medicina. Va così in crisi il rapporto di fiducia fra pediatra, paziente e famiglia che costituisce base per la corretta pratica pediatrica. Esso a volte è sostituito da un rapporto conflittuale, di sospetto, di difesa, di sfiducia. La situazione appare destinata ad aggravarsi, anche per i costi continuamente crescenti in sanità, cosicché il conflitto fra le ragioni degli esigenti e le ragioni delle aziende tende a esacerbarsi e sempre più a scaricarsi sui pediatri. È evidente che la questione riguarda l’intera medicina, ma in essa i pediatri sono fortemente coinvolti, sia perché particolarmente esposti alle giuste e compren-

sibili emotività nelle famiglie e nella società intorno all’infanzia, ma anche perché essi tendono a mantenere – ancora e malgrado tutto – un buon rapporto di fiducia, pur nel clima generale avverso.È auspicabile un’azione fatta di alleanza e corresponsabilità. Si in-tende alleanza fra pediatri e “esigenti”, cosicché ogni cosa o com-portamento che possa prestarsi anche al solo sospetto di non piena eticità va evitato (soprattutto nelle modalità di attuazione dei pro-grammi di formazione continua), mentre vanno accentuate e rese più evidenti le posizioni di sostegno, attenzione, dialogo con le fami-glie nell’esercizio della pratica pediatrica.Ma – si diceva – anche corresponsabilità, perché anche il rapporto con l’azienda dovrebbe riconoscere le giuste ragioni di essa, cosicché anche il contenimento dei costi, nel limite di ciò che è consentito dal pieno soddisfacimento dei corretti bisogni di salute, andrebbe trattato più decisamente ed efficacemente nel sistema formativo e dovrebbe costituire atteggiamento abituale nella pratica assistenziale.

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Auspici di obiettivi e azioni per il futuro• Coesistere come pediatria generale e subspecialità, nella formazione e nell’assistenza, con equilibrio e attenzione ai bisogni di salute.• Ampliare: i rapporti scientifici con altre discipline, di base e cliniche; la formazione scientifica in pediatria; le interazioni nella comunità scientifica internazionale; la formazione ai ruoli di coordinamento e all’accesso a programmi e finanziamenti.• Coniugare le “due culture” (umanistica e tecnico-scientifica).• Sviluppare le “reti”, le “azioni concertate”, il lavoro in équipe.• Migliorare la comunicazione in pediatria.• Preservare la fiducia delle famiglie, nella corresponsabilità con il SSN.

Box di orientamento

prof. A. Rubino, Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II” di Napoli, via S. Pansini 5, 80131 Napoli • Tel. +39 081 7463501 • E-mail: [email protected]

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