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Recensioni aaa [eSamizdat (II) , pp. ] V. Pelevin, DPP(NN). Dialektika Perechodnogo Perioda iz Niotkuda v Nikuda. Izbrannye proizvedenija, Eksmo, Moskva 2003. Negli anni Novanta il discorso nuovorusso, o, in altre parole, il macrotesto costituito dal corpus delle barzellet- te sui nuovi russi, era generato dall’incontro sodomitico, simboleggiato dallo scontro automobilistico sotto forma di tamponamento, di due figure emblematiche della Rus- sia contemporanea: il proprietario di un’automobile Za- porožec, rappresentante del popolo ed espressione dell’e- lemento debole, buono e strampalato dell’anima russa (il cui archetipo si può rintracciare nel personaggio delle fia- be popolari Ivan lo Scemo), e il nuovo ricco in Mercedes, incarnazione di quell’elemento forte, spietato e invincibile che un tempo era personificato dai bogatyri delle byliny. Nella sensibilità popolare il terzo millennio in Russia viene inaugurato da uno slittamento di ruoli: “a un incro- cio una mercedes tampona una volga nera con i vetri scuri. Un bandito scende dalla mercedes, comincia a fran- tumare i vetri della volga con il calcio di un fucile, ma poi vede che dentro l’automobile c’è un colonnello dell’FSB [Federal´naja služba bezopasnosti, i servizi segreti russi]: ‘Compagno colonnello, io busso, ma lei non apre. . . dov’è che devo portare i soldi?’” Questa barzelletta rappresenta una sorta di punto zero del folklore contemporaneo, un unicum che non può ge- nerare altre barzellette a tema poiché il suo significato è quello di una svolta epocale, “una rivoluzione della co- scienza”. Così la pensa Mjus (in russo appare come la tra- scrizione in cirillico dell’inglese Meowth, il nome di un pokemon), protagonista femminile di ˇ Cisla [Numeri], il romanzo che apre, dopo la breve Elegija 2, il volume inti- tolato DPP(NN), ovvero Dialektika Perechodnogo Perioda iz Niotkuda v Nikuda [Dialettica del Periodo di Passaggio da Nessunluogo a Nessundove]. A quattro anni dall’uscita di Generation P (tradotto in italiano con il titolo Babylon), Viktor Pelevin ricompare con una raccolta di prose inedite. A ˇ Cisla segue Makedonskaja kritika francuskoj mysli [Cri- tica macedone del pensiero francese], pseudosaggio critico sulle bizzarre teorie di Nasych Nafikov, detto Kika, “tipico nuovorusso dell’epoca dell’accumulazione originaria del karma” secondo cui le forze vitali dei morti dell’Unione sovietica sarebbero state convertite nel capitale della nuo- va Russia. I tre racconti Odin vog [Un vogue], una parodia del discorso della moda, Akiko, in cui la voce narrante è quella di un sito porno giapponese, e Fokus-gruppa [Fo- cus group], dialogo tra sette defunti e l’Essenza Lumino- sa, concludono la parte intitolata Mošˇ c´ velikogo [Potenza dell’eccelso]. Chiudono la raccolta altri due racconti, Go- st´ na prazdnike Bon [Ospite alla festa Bon], riflessioni di un indefinito personaggio sulla bellezza e sulla morte e Za- pis´ o poiske vetra [Appunto sulla ricerca del vento], lette- ra dalle atmosfere zen di uno studente al suo maestro sul- l’impossibilità di scrivere il Libro della Via, che rientrano nella sezione Žizn´ zameˇ catel´nych ljudej [Vita di persone straordinarie]. Pelevin si riconferma cantore della Mosca odierna: in ˇ Cisla, il testo più riuscito della raccolta e centro gravita- zionale del libro, la trama si snoda sullo sfondo di quella rivoluzione della coscienza di cui parla Mjus: l’elemento forte prende le fattezze del potere occulto dei servizi se- greti (tema anche dello scandaloso Gospodin Geksogen [Il Signor Hexogen] di Aleksandr Prochanov) che assogget- ta il nuovo russo, spodestandolo della sua aura mitologica nell’immaginario collettivo della società postsovietica. Fin da bambino, Stepa è attratto dalla cifra . Que- sto numero-feticcio diventa presto l’unico punto di orien- tamento della sua vita, una sorta di divinità illusoria co- struita dal suo intelletto, al cui carisma Stepa si abbandona totalmente. Stepan Michajlov diventa un banchiere di suc- cesso. Lavora sotto la protezione della mafia cecena ma poi è costretto a passare sotto quella dell’FSB, e in parti- colare del capitano Lebedkin (ovvia l’allusione al capitano Lebjadkin dei Demoni). Inizia una relazione amorosa con Mjus, sua dipendente e studiosa del folklore contempora- neo, che lo convince a identificarsi nel pokemon Pikachu. Trova una guida spirituale in Prostislav, informatore del- l’FSB, che gli fa conoscere il Libro dei Mutamenti. Do- po aver individuato nel banchiere gay Srakandaev (sraka è termine volgare per “sedere”), in quanto legato al nume-

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V. Pelevin, DPP(NN). Dialektika Perechodnogo Periodaiz Niotkuda v Nikuda. Izbrannye proizvedenija, Eksmo,Moskva 2003.

Negli anni Novanta il discorso nuovorusso, o, in altreparole, il macrotesto costituito dal corpus delle barzellet-te sui nuovi russi, era generato dall’incontro sodomitico,simboleggiato dallo scontro automobilistico sotto formadi tamponamento, di due figure emblematiche della Rus-sia contemporanea: il proprietario di un’automobile Za-porožec, rappresentante del popolo ed espressione dell’e-lemento debole, buono e strampalato dell’anima russa (ilcui archetipo si può rintracciare nel personaggio delle fia-be popolari Ivan lo Scemo), e il nuovo ricco in Mercedes,incarnazione di quell’elemento forte, spietato e invincibileche un tempo era personificato daibogatyridellebyliny.

Nella sensibilità popolare il terzo millennio in Russiaviene inaugurato da uno slittamento di ruoli: “a un incro-cio una mercedes tampona una volga nera con i vetriscuri. Un bandito scende dalla mercedes, comincia a fran-tumare i vetri della volga con il calcio di un fucile, ma poivede che dentro l’automobile c’è un colonnello dell’FSB[Federal´naja služba bezopasnosti, i servizi segreti russi]:‘Compagno colonnello, io busso, ma lei non apre. . . dov’èche devo portare i soldi?’”

Questa barzelletta rappresenta una sorta di punto zerodel folklore contemporaneo, un unicum che non può ge-nerare altre barzellette a tema poiché il suo significato èquello di una svolta epocale, “una rivoluzione della co-scienza”. Così la pensa Mjus (in russo appare come la tra-scrizione in cirillico dell’inglese Meowth, il nome di unpokemon), protagonista femminile diCisla [Numeri], ilromanzo che apre, dopo la breveElegija 2, il volume inti-tolatoDPP(NN), ovveroDialektika Perechodnogo Periodaiz Niotkuda v Nikuda[Dialettica del Periodo di Passaggioda Nessunluogo a Nessundove]. A quattro anni dall’uscitadi Generation P(tradotto in italiano con il titoloBabylon),Viktor Pelevin ricompare con una raccolta di prose inedite.A CislasegueMakedonskaja kritika francuskoj mysli[Cri-tica macedone del pensiero francese], pseudosaggio criticosulle bizzarre teorie di Nasych Nafikov, detto Kika, “tipico

nuovorusso dell’epoca dell’accumulazione originaria delkarma” secondo cui le forze vitali dei morti dell’Unionesovietica sarebbero state convertite nel capitale della nuo-va Russia. I tre raccontiOdin vog[Un vogue], una parodiadel discorso della moda,Akiko, in cui la voce narrante èquella di un sito porno giapponese, eFokus-gruppa[Fo-cus group], dialogo tra sette defunti e l’Essenza Lumino-sa, concludono la parte intitolataMošc´ velikogo[Potenzadell’eccelso]. Chiudono la raccolta altri due racconti,Go-st´ na prazdnike Bon[Ospite alla festa Bon], riflessioni diun indefinito personaggio sulla bellezza e sulla morte eZa-pis´ o poiske vetra[Appunto sulla ricerca del vento], lette-ra dalle atmosfere zen di uno studente al suo maestro sul-l’impossibilità di scrivere il Libro della Via, che rientranonella sezioneŽizn´ zamecatel´nych ljudej[Vita di personestraordinarie].

Pelevin si riconferma cantore della Mosca odierna: inCisla, il testo più riuscito della raccolta e centro gravita-zionale del libro, la trama si snoda sullo sfondo di quellarivoluzione della coscienza di cui parla Mjus: l’elementoforte prende le fattezze del potere occulto dei servizi se-greti (tema anche dello scandalosoGospodin Geksogen[IlSignor Hexogen] di Aleksandr Prochanov) che assogget-ta il nuovo russo, spodestandolo della sua aura mitologicanell’immaginario collettivo della società postsovietica.

Fin da bambino, Stepa è attratto dalla cifra. Que-sto numero-feticcio diventa presto l’unico punto di orien-tamento della sua vita, una sorta di divinità illusoria co-struita dal suo intelletto, al cui carisma Stepa si abbandonatotalmente. Stepan Michajlov diventa un banchiere di suc-cesso. Lavora sotto la protezione della mafia cecena mapoi è costretto a passare sotto quella dell’FSB, e in parti-colare del capitano Lebedkin (ovvia l’allusione al capitanoLebjadkin deiDemoni). Inizia una relazione amorosa conMjus, sua dipendente e studiosa del folklore contempora-neo, che lo convince a identificarsi nel pokemon Pikachu.Trova una guida spirituale in Prostislav, informatore del-l’FSB, che gli fa conoscere ilLibro dei Mutamenti. Do-po aver individuato nel banchiere gay Srakandaev (srakaè termine volgare per “sedere”), in quanto legato al nume-

eSamizdat, (II)

ro , il suo antagonista ideale, Stepa decide di ucciderlo,ma dopo una serie di peripezie finisce per avere con lui unrapporto sessuale in un locale di San Pietroburgo sotto losguardo attento di un ritratto di Putin. Tornato a Mosca,scopre che Mjus è partita e che in sua assenza ha trasferi-to un’ingente somma di denaro originariamente destinata aLebedkin sul conto di un’altra banca. Per recuperare i sol-di si rivolge a Srakandaev che promette di aiutarlo, senon-ché questi muore accidentalmente prima che Stepa riescaa raggiungerlo. Stepa alla fine troverà il modo di uscire daquesto apparente vicolo cieco.

Come sempre il materiale di lavoro prediletto da Pelevinè la cultura di massa, dalla barzelletta allo slogan pubbli-citario, dalla numerologia da baraccone alla canzone pop,dai pokemon ai computer game, e come sempre lo scrit-tore riesce non solo a divertire con calembour e lampi diironia, ma anche a fare ciò per cui ha un indubbio talen-to (che per altri, invece, rappresenta un limite della suaopera): raccontare lo spirito dei tempi. Le mitologie dellaRussia d’oggi ci sono tutte: i ceceni con la loro mistica del-l’aggressione, gli oligarchi con le loro estrose perversioni,l’FSB con i suoi nuovi cavalieri Jedi e, naturalmente, lospirito di Putin onnipresente nella sua multiforme icono-grafia. Putin è anche ilPut , il Tao, la Via verso l’Orienteche questa nuova Russia percorre nel deserto del senso, traun passato di rovine e un futuro impredicibile, in cui l’u-nica dialettica possibile sembra quella tradizionale di unpotere che ne violenta un altro. La logica dei testi di Pe-levin a volte rivela una virtù profetica che in questo casopare trovare una conferma negli ultimi avvenimenti del-la cronaca politico-giudiziaria: l’arresto del businessmanChodorkovskij potrebbe esserne un esempio.

Marco Dinelli

“S’affretta la farfalla della mente / precipita dal nullaverso il niente” [iz niotkuda v nikuda]: così recitava giàPetr Pustotà nei suoiCanti del regno di Io. La farfalla dellamente peleviniana è uscita dal lungo letargo editoriale perriprendere a svolazzare tra i banchi delle librerie, e granparte del mondo della critica russa a corrergli dietro con ilretino dei giudizi. Gli strappi che lacerano le griglie inter-pretative troppo rigide paiono mal rattoppati da una letturatalvolta superficiale di quest’ultimo libro di Pelevin, e ilrischio di veder scivolare via indisturbato il grazioso lepi-dottero verso la sua metamorfica “vita di insetto” è ancora

più alto del solito. Non è facile, in effetti, il giudizio suquest’opera. In difficoltà paiono anche molti tra i criti-ci storicamente più benevoli nei confronti dell’autore. Lacritica positiva ne esalta lo stereotipo classico dello scrit-tore che “rispecchia l’epoca”: ogni suo romanzo come unaffresco del decennio russo cui appartiene. Questo sarebbequindi il romanzo della cultura russa della globalizzazio-ne, con la sua ambientazione nel mercato finanziario in-ternazionale. La critica negativa ne appiattisce invece gliesiti nel solito funambolico gioco enigmistico e nella esal-tazionetout-courtdella cultura di massa elevata a paginaletteraria.

È certo però che, a furia di sventagliare definizioni, sialzano grandi polveroni di polemiche letterarie e sociolo-giche che finiscono per aver poco a che fare con una descri-zione di quel lieve “volo del libero pensiero” che cavalcala corrente di questi anni. La scrittura di Pelevin spessopaga un prezzo simile a quello delle farfalle: pochi rinun-ciano alla tentazione di infilzarla con uno spillo e metterlasotto vetro con un’etichetta. Ma le farfalle, come le fo-glie dell’ultimo racconto di questa raccolta, appartengonoal vento. E forse le si studia meglio osservandone il movi-mento, più che gli approdi: “tutto accade solo nel vento, edel vento in verità non si può dire che ci sia un luogo dacui arrivi o dove vada a finire” (p.).

Al centro della scrittura di Pelevin stanno le traiettorienarrative, il racconto è nel suo svolgersi, la meta è il cam-mino (Povest´ o Puti, p. ), mai il punto di arrivo o dipartenza. La domanda del lettore (“ma dove vuole arriva-re?”) e quella del critico (“ha fatto progressi?”) rischia-no di portare fuori strada. Pelevin dichiara apertamenteun rapporto diretto con il testo, sullo stesso piano di quel-lo del lettore. In quanto scrittore, segue la storia nel suosvolgersi, come primo lettore del testo. Nessuna missioneautoriale o messaggio implicito, quindi. Non c’è nessunluogo a cui “portare” il lettore. La pagina letteraria è la“casa comune” di scrittore e lettore, dichiara Pelevin nelleinterviste usando un’espressione da perestrojka letteraria.Questo libro sembra infatti più di altri una frase inciden-tale. Un ridondante “inter/mezzo”. Unperiodo di transi-zione, appunto, in cui unica certezza è la provvisorietà deirisultati, e unica tenace determinazione l’infinita ricerca diuna meta, all’orizzonte di ogni senso, con il piacere gra-tuito di chi racconta storie intorno al falò la sera durante ilviaggio.

Provare a formulare un giudizio qualitativo complessivo

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su quest’opera potrebbe rivelarsi, dunque, esercizio infrut-tuoso, se si prescinde da un’analisi strutturale immanenteal testo e spoglia di molti strumenti critici brevettati e dietichette linguistiche preconfenzionate. Giacché le stesseparole con cui si tenta di intrecciare il retino acchiappa-farfalle contengono sempre, suggerisce Pelevin, un picco-lo fallimento intrinseco, dato dal limite dell’espressione,per sua natura parziale. “Non sono in grado di intreccia-re una tal rete, con cui possa stanare questo mostro dalletenebre. [. . . ] Le parole con cui si vuole immortalare laverità sono la sua tomba. [. . . ] In verità, è difficile direqualcosa del vento, se i segni sono solo per le foglie che vivolano dentro” (pp.–).

Per uscire dalla “prigione delle parole” [tjurma slov] sipuò provare ad abbatterla, lacerando la struttura del testo.Mettendo in atto un processo di destrutturazione anarchi-ca delle regole del gioco letterario. Comprese (soprattut-to) quelle codificate dalla teoria decostruttivista, etichetta-ta made in france, come prodotto di consumo della nuo-va società post- (postmoderna o postindustriale, a secon-da dei gusti – postbellica non va più tanto di moda. . . ).Postmodernismo e decostruttivismo, in quanto teorie lette-rarie, se ridotte a rigidi sistemi ermeneutici finiscono pertrattare alla stregua di tradizionalecontenutoanche ilnon-contenuto. Il raccontoMakedonskaja kritika francuzskojmysli [Critica macedone del pensiero francese] è in que-sto senso interpretabile come un attacco frontale di Pele-vin al suo marchio di autore postmodernista. Dopo averglicostruito intorno steccati di definizioni, ci hanno appesosopra di tutto: etichette critiche, ex-voto di cultori appas-sionati. . . E quando “peleviniano” diventa aggettivo quali-ficativo e uno di cognome fa Pelevin, c’è da chiedersi se ineffetti non gli venga istintivo evitare la trappola di scrivereun testo peleviniano.

Il gesto liberatorio che scavalca la staccionata dell’este-tica “post”, sembra suggerire Pelevin, è un’estetica del po-sticcio. Allora prende i suoi vecchi testi, li sminuzza eli centrifuga. Ecco un bel prodotto post-peleviniano: am-masso e concentrato di autocitazioni, campionario da com-messo viaggiatore che mette in mostra motivi e immaginidi tutta la produzione. Una summa enciclopedica pelevi-niana, volutamentesequeldi Generation P(trad. it. Baby-lon, Mondadori, Milano 2000) (ricompare Maljuta, vienecitato Tatarskij), e smaccato centone delle sue altre ope-re, di cui dissemina frammenti e immagini come tesserescomposte di un puzzle difettoso (alcune sono identiche

tra loro). Ne viene fuori un remake: un’opera epigonica,se non ne fosse lui stesso l’autore. Un romanzo postic-cio, appunto, una pappa frullata e diluita, una specie dimedicina omeopatica da bere tutta d’un fiato per non sto-macarsi di noia (in effetti – parrebbe quasi volutamente –un po’ annacquato). All’apparenza un prodotto ripetitivo,consumato. In realtà è prodotto di consumo che consu-ma (i valori, la serietà delle “cose da dire” e degli autori),strumento attivo e non passivo di interazione con la realtàrappresentata.

Il romanzoCisla [Numeri] racconta la storia di un uo-mo che si costruisce un modello di spiegazione del mon-do. La denuncia della limitatezza dei giudizi basati sulleevidenze dei fatti e della realtà è un motivo che si ritrovacostante in Pelevin. Nelle sue opere i cosiddetti fatti, fisicio psichici, sono sempre rappresentazioni illusorie. Con ilconcetto di mondo come totale riflesso di coscienza Pele-vin si era già confrontato altrove, soprattutto inCapaev iPustota(trad.it. Il mignolo di Buddha, Mondadori, Milano2001). In generale, tutti i suoi passati personaggi si dibat-tevano nella comprensione di realtà parallele, sperimenta-vano stati di coscienza dentro realtà alternative o plurivo-che in cui pativano catene di causalità ignote e ineluttabili.Nel caso diCisla, la causalità diventa invece ordine arti-ficialmente indotto (e non passivamente subito) dal prota-gonista, che sviluppa una lettura soggettiva degli eventi eopera un’organizzazione individuale dei rapporti tra i fatti.Di conseguenza, il lettore si ritrova a non poter stabilireun giudizio di verità sulla realtà narrata: come a dire chel’opera non rappresenta la realtà, ma è la realtà a rappre-sentarsi come opera. La realtà è per Pelevin sempre verosi-mile. La distinzione stessa tra realtà e apparenza, per usareuna sua definizione, è un atteggiamento di adesione, un at-to di fede: la realtà è data dalla fiducia che vi si ripone;l’apparenza è quella realtà in cui non si pone fiducia.

La causalità soggettiva, vuole mostrare Pelevin, diven-ta strumento potente, perché rende il futuro prevedibile, ilpericolo arginabile attraverso il rispetto del tabù, l’omag-gio al totem. Ordine indotto secondo un sistema rigido dicausalità, sul piano sociale, è la forza di ogni fondamenta-lismo, di ogni sistema culturale rigorosamente determini-stico. Non sono strumenti più efficaci, secondo Pelevin, néla filosofia, né la storia. Perché la filosofia è un “codice diprocesso” (linguaggio di sistema) che “appoggiandosi alpassato genera il futuro” tramite leggi di causalità indottaartificialmente dallo stesso algoritmo di programmazione.

eSamizdat, (II)

La storia, dal canto suo, spiega il passato ma non può pre-vedere il futuro (e quindi è inutile, perché inapplicabile alpresente).

Ciò che resta irrisolvibile e radicale nella poetica di Pe-levin è il problema del tempo ineluttabile, la fatalità del suoscorrere. Segno e cifra stilistica di questo ultimo romanzoè l’accumulazione dei fatti e degli eventi che riguardanoil protagonista, la cui vita si sviluppa per tappe, secondoepisodi passati e precorrimenti di episodi futuri che si ri-verberano nel presente. Il personaggio si muove lungo ilfilo narrativo della sua “bio-grafia” in assenza di una tra-ma forte. La sequenzialità dei fatti non è intaccata neanchedalla esibita rinuncia all’ordine di paragrafazione della sto-ria (che aveva già subito un’inversione nellaFreccia gialla,ma con altra funzione). InCisla le cifre di paragrafazionediventano esse stesse narrative: si fanno titolazione nume-rica. Motore organizzativo della storia resta solo l’attesadella oscura predizione del tempo fatidico (la data di uncerto compleanno).

La battaglia contro la “forza del destino” è vinta dal pro-tagonista del romanzo per mezzo dell’eroico confronto conil pericolo ignoto, affrontandolo in campo aperto armatosolo dei suoi amuleti e delle formule apotropaiche da luistesso composte. Ci si trova davanti, seppure in altra for-ma, quello stessopodvig[gesto eroico] che era già il ful-cro della vicenda diOmon Ra(Mondadori, Milano 1999).L’eroismo di ogni uomo sta nella presa di coscienza del-la propria condizione transeunte (in quanto individui) edeterna (in quanto coscienza). In questo senso Pelevin in-tende l’esistenza umana come transizione cosciente versoil nulla. Il suopodvigpersonale è quello di scontrarsi concoraggio contro le incongruenze e i limiti dell’espressio-ne, armato dei suoi amuleti e della sue formule – le parole.Tendere con immaginazione il presente totalizzante dellasua coscienza a prefigurare un antecedente e un postumostato di coscienza, seguendo la corsa del tempo. Cattura-re l’ombra della vita prima della vita e dopo la morte. Aldi là della ineludibile consapevolezza della fragilità dellacondizione umana e oltre le rovine di tutte le costruzionistorico-culturali, Pelevin ci pone davanti l’immagine delviandante che si fa strada con la lanterna della sua coscien-za: l’immagine di Diogene che cerca l’uomo (già spettroocchieggiante dalle prime pagine diOmon Ra). Quellastessa lanterna che su un muro bianco proietta ombre ci-nesi. La saggezza orientale e quella occidentale si ritrova-no ferme davanti a quello stesso muro, suggerisce Pelevin.

Le ombre letterarie di questo ultimo libro sembrano servi-re a mostrare direttamente quel limite, la barriera con cuiognuno è chiamato a confrontarsi (si pensi al bel raccontoFokus-gruppa[Focus group]).

Il testo orientale che conduce a quel muro bianco è perPelevin un romanzo classico cinese,Viaggio in Occidente,che ha anch’esso al centro della narrazione un cammino(Povest´ o Puti). Il testo sacro che i protagonisti di quel-la storia ricevono alla fine del loro viaggio è un libro dallepagine bianche. Il confronto radicale tra il testo letterario ela pagina bianca, intesa come luogo dell’ineffabile, è moti-vo comune alla tradizione occidentale, fino all’ermetismoe oltre. La pagina immacolata è sacra perché racchiude ilmistero della creazione delle forme, il loro “parto doloro-so” dal nulla, come dice Pelevin. La creazione è afferma-zione della vita, atto che segna l’incipit di tutte le storie, loslancio vitale che muove alla coraggiosa esplorazione delcuore di tenebra con il lanternino della propria coscien-za. Quel libro dalle pagine bianche è in fondo lo stessolibro virtuale (mai pubblicato) che Pelevin ha voluto dareai lettori in questi ultimi quattro anni, prima di affronta-re di nuovo con coraggio il nero dell’inchiostro e il limitedella parola.

Il risultato è un’opera “debole”, in termini semiotici pri-ma ancora che artistici. LaDialettica è in effetti un testoslabbrato e sforacchiato, transitorio appunto, nel senso cheil peso specifico della scrittura (il suo presunto contenuto)si alleggerisce e funge da barriera da superare, ostacolo cheinvita al salto verso un’esperienza estetica qualitativamen-te superiore. Un po’ come la siepe leopardiana, di fronte acui sedersi e mirare. Come la tela strappata del pittore, do-ve il gesto artistico è nel taglio e non nella rappresentazio-ne (tantomeno nella verosimiglianza di un oggetto). Comeil cesso di Duchamps (da Pelevin esplicitamente citato nellibro) che “mostra la mostra”, rompendo la convenzionedell’oggetto d’arte all’interno della galleria di oggetti. Lagalleria delle diecimila cose, come la sala dei diecimila fe-nomeni della letteratura cinese, è il mondo raccontato. “Ilmio cuore sa che il racconto di cui parlo esiste [. . . ] Madetto fra noi è improbabile che esista qualcos’altro oltrea questo racconto”, dichiara Pelevin nell’ultima pagina diquesto libro.

Non ci sarebbe stato bisogno, forse, di questa postilla.Si sarebbe già capito tutto da quelle pagine di scrittura ne-ra sul foglio bianco. Dalla maglia larga del romanzo e dairacconti, brevi e stilisticamente coesi, che lo accompagna-

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no: frammenti omogenei, scaglie compatte di testo tenuteinsieme solo dal filo originario, ossia il desiderio di espres-sione, quell’élan vitalche spinge lo scrittore a riempire lapagina bianca: “mi immagino una gran quantità di storiestrane, sparse in un numero ancora maggiore di minuscoliracconti, fra cui non si può passare alcun filo comune – ec-cetto quello originario, che del resto passa attraverso tutto.[. . . ] Il cammino delle diecimila cose. Questo raccontosarà simile alla raccolta di molti frammenti scritti da gentediversa in tempi diversi” (p.).

Si sarebbe capito ugualmente. Ma questo è un libro ge-neroso perché non si limita a dire, ma spiega. Un libroleale, perché l’autore sbatte il mostro in prima pagina (ilDemone pedofilo della copertina) e la sua foto in controco-pertina, suggerendo l’intenzione di giocare allo scoperto,mettendosi in mutande con la mano tesa a offrirci la melatentatrice di un sodalizio maturo tra scrittore e lettore. Illettore riscrive il testo che legge, lo scrittore legge il testoche scrive.

Questo di Pelevin è il libro forse meno autoriale, menooriginale, ma più sincero. Un’autoparodia di chi non hala pretesa di dichiarare di essere diverso. Perché non mo-stra alternative: non vuole proporre un altro mondo o unaltro Pelevin. Perché non ce n’è altri. Per fare il verso (oaggiungerlo) all’Elegia iniziale (n. – incipit posticcio!):“oltre Pelevin, c’è Pelevin” [Za Pelevinom – Pelevin].

Catia Renna

Venedikt Erofeev, Tra Mosca e Petuški, cura etraduzione di M. Caramitti, Fanucci, Roma 2003.

Dopo la prova generale, evidentemente felice, diScheg-ge di Russia, la casa editrice Fanucci e Mario Caramittimettono a segno un nuovo doppio colpo grosso: presenta-re finalmente una nuova traduzione (e un nuovo titolo) delcapolavoro (tradotto nel per Feltrinelli da P. Zvete-remich col titoloMosca sulla vodka) di Venedikt Erofeeve vincere al fotofinish (grazie alla solita babele dei dirittiche continua a regnare in Russia) contro Feltrinelli stessa,che prevede a marzo del di pubblicare una raccoltadelle opere dello stesso autore. Questa nuova traduzionee questo nuovo titolo hanno meriti indubbi: la prima resti-tuisce all’autore la sua piena e straripante verve linguistica,rendendola al contempo finalmente anche in italiano “mo-derna” e godibile; il secondo disancora una volta per tuttele interpretazioni dal vischioso scoglio della vodka.

Qualunque sia il titolo che si preferisca,Moskva-Petuškiè la storia di un viaggio che non si compie e che forse nonc’è mai stato, di una morte tragica che forse non è una veramorte ma che è pur sempre qualcosa di ineluttabile (“Unadensa e rossa lettera “iu” si è dilatata ondeggiando davantiai miei occhi, e da quel momento non ho più ripreso co-scienza, né mai la riprenderò”, è la frase finale, p.),di un “buffone” sentimentale e ubriacone che forse è piùsobrio di tutti noi, di un autore che in un solo libro riversatutto il suo genio e tutta la sua vita, pur consapevole, comenota Mario Caramitti nella postfazione, “dell’inutilità delgenio nella società sovietica e [. . . ] nella società postin-dustriale” (p. ). In fondo, è proprio in questa illusio-ne continua, in questa oscillazione fra essere e non essere,in questi tempo e spazio sospesi che si giustifica anche lascelta del nuovo titolo. Il dubbio però è che quest’ultimo,nel tentativo di una restaurazione filologica, aggiusti il tra-visamento alcolico creando quello onirico. Eppure uno de-gli azzardi maggiori del curatore sta proprio nel sospettareche dietro la cittadina di Petuški si celi la città di Pietro(“il toponimo Petuški del titolo [. . . ] vuol dire né più némeno ‘Galletti’. Questa città dei galli è certamente impa-rentata con quella dove san Pietro tradisce Cristo prima delfatidico canto, ma perché mai allora Petuški non potrebbeessere anche la città di Pietro, con la quale del resto assonain modo così invitante? Emerge a questo punto un inter-testo davvero ineludibile, il romanzo di denuncia socialeViaggio da Pietroburgo a Moscadi Aleksandr Radišcev”,p. ). Azzardato, ma legittimo. Viene quasi da chiedersiperché non sia stato scelto come titolo proprioViaggio daMosca a Petuški.

Il fascino di queste “tragiche note” che, a circa annidalla stesura e a dalla morte del suo autore, non cessanodi stupire, incantare, far discutere, consiste essenzialmentein tre fattori: Erofeev non ha scritto quasi nient’altro (quelpoco che resta viene quasi sempre ignorato dalla criticao ricondotto a corollario dell’opera maggiore); la coinci-denza tra autore, narratore e protagonista (il procedimentodell’autofiction, come lo chiamerebbe Caramitti); il rap-porto inversamente proporzionale tra la brevità del testo ela densità del contenuto (una piccola scatola in grado dicustodire, se non tutto, moltissimo, con intertesti che spa-ziano dal Vangelo alla poesia russa di varie epoche, con leinterpretazioni che continuano a zampillarne e che varia-no dall’autobiografismo profetico all’imitazione cristolo-gica). Un testo in grado di mettere in difficoltà chiunque

eSamizdat, (II)

voglia accostarsi a una sua lettura non banale, soprattuttoin un contesto tutto sommato poco rischioso come quellodi una recensione. Perché il protagonista ci fa continua-mente l’occhiolino e ha con noi la stessa confidenza e in-timità che dimostra nei confronti degli angeli, ci ubriaca eci convince nelle sue poche, pochissime certezze, nelle suefrasi lapidarie (“‘Pochezza d’animo universale’: ma que-sta è la salvezza da ogni male, è una panacea, il più altoindice di perfezione!”, p.), nel suo giocare e far ride-re scimmiottando tanto la lingua del regime, quanto quelladelle sacre scritture, con quei suoi occhi che immaginiamolimpidi e umidi, e invece. . . quando le sue sbronze comin-ciano a contagiarci e siamo ormai tutti saliti sull’elektrickaper Petuški, per il migliore dei paradisi possibili, e non tan-to per gli uccelli che non smettono mai di cantare, quantoperché è lì che l’innocenza (del figlio) e la lussuria (del-l’amante) sembrano ricompense ugualmente possibili pertutti, ecco che lui scende e torna indietro, ecco che la tra-gedia (che, non c’è niente da fare, nasce dalla sobrietà) sicompie e il verbo che in lui si era incarnato finisce per tace-re sotto i colpi di una lesina da calzolaio. E a noi non restache rimanere sul trenino e arrivare a Petuški, magari soloper scoprire che è un luogo dove gli scrittori “non smetto-no di cantare né di giorno né di notte”, dove ad aspettarci,e non solo il venerdì, ci sarà la letteratura russa, “la piùamabile tra le troiette”. Oppure, più prosaicamente, non ciresta che finire questo brevissimo poema, che è tale pro-prio perché il destino dell’eroe è legato al destino del suopopolo. Ed è infatti ai russi, ai loro occhi “vuoti e rigonfi”,che Venedikt Erofeev dedica le pagine più sobrie, tragichee profetiche di tutto il libro: “Qualsiasi cosa succeda nelmio paese, nei giorni del dubbio, nei giorni dell’affannosaincertezza, quando gli si pareranno di fronte prove e cala-mità, questi occhi non batteranno ciglio. Per loro è tuttoacqua fresca. . . ” (p.).

Simone Guagnelli

Le fredde notti invernali dell’ultimo periodo invitano altepore riconosciuto delle abitudini. Lo slancio della pri-mavera riporterà il fermento tra i pensieri, ma non in questigiorni di gelo, con il vento a scompigliare anche gli umoripiù stabili. Il desiderio è ritrovarsi in casa, con poche facceamiche e la certezza di meritarsi la mitezza del conosciuto.La salvezza è una coperta che arrivi a coprire i piedi. Mala salvezza è tutt’altro che gratuità e non tutte le coperte

arrivano alle estremità. La strada verso casa è nascosta dapiante cannibali e distorti valori, ci sono dazi da pagare ebocconi amari da ingoiare e, seppure la si dovesse scorge-re, è probabile che qualche buontempone abbia mangiatole molliche messe a indicare la via. Non di meno è datosmettere di anelare all’utopia. Occorre tentare, stipare tut-to in preziose valigette e iniziare il viaggio. Avvicinarsi alsole, anche se non ci sarà altra fine che la rovina.

Vendikt Erofeev scrive nel secondo novecento russo lastoria di un tentativo. Un romanzo complesso e spigolo-so, dove è possibile annegare nel tentativo di trovare unaunivoca chiave di lettura. D’altro canto, lo stesso annegaresarebbe in linea con lo spirito dell’autore, che camuffa lasua amara sincerità tra le gradazioni alcoliche di cocktaildi sua creazione. Col sorriso orgoglioso, da benefattore,l’autore provvederà a dettare la formula del “Balsamo diCana”, della “Lacrima della giovane comunista” e di al-tre ricette nate per salvare dal tedio di bere solo vodka,colpevole di produrre alla lunga solo fiacchezza e vanità, eaccompagnare il bevitore tra stati diversi, inebrianti quantometafisici. Le dosi dei cocktail di Erofeev vanno ben misu-rate e gli ingredienti scelti con cautela, la stessa che si deveusare nel leggereTra Mosca e Petuški, perché si “vive unavolta sola, perciò è meglio non sbagliare le ricette”. Quinditorniamo al romanzo, anzi, al poema. Il tema del viaggio,da Mosca a Petuški, sembrerebbe un tema già sentito. Mail viaggio che si intraprende tra le pagine di questo roman-zetto è qualcosa d’altro. È una caduta dall’altra parte dellosguardo, dove poco rimane di intoccabile e dissacrare restal’unica via di fuga. La vicenda è di per se lineare, se nonfosse per tutte le incursioni nel fantastico e i sogghigni chesi intravedono pagina dopo pagina. Venedikt, un alcoliz-zato, intraprende il suo cammino dalla stazione di Kurskverso Petuški. Durante il tragitto avrà modo di incontrarecompagni di viaggio bislacchi, angeli del Signore, santi efarabutti, tra cui troneggia il controllore Semenyc ma so-prattutto, berrà. Bevendo verrà assalito da incubi che loporteranno al terribile sospetto: che il suo viaggio non sianella direzione di Petuški, dove troverà ad aspettarlo suofiglio e la sua donna, ma in verso contrario, verso l’orrorequotidiano e la fine. Sarà infatti la stazione di Kursk a fun-gere da punto di partenza e di arrivo, una circolarità senzascampo di un andare che poco importa sia stato immagina-to o meno. Qui Venedikt verrà inseguito da quattro figurimal intenzionati che, raggiuntolo, lo colpiranno a morte.Fine della storia.

Recensioni

Ma cosa porta Venedikt al suo lungo viaggio in treno,mezzo proprio di un peregrinare caro alla religiosità popo-lare, che ospitò già ilDottor Živago? Si potrebbe conve-nire che sia l’unica occasione di evasione, benché fittizia.Infatti, la voce narrante ubriaca non riesce a celare che Pe-tuški è anche punto di arrivo impossibile di un viaggio, peraltri versi, improrogabile. Petuški è la pace negata in unaterra che non offre altro che alcool contro le sue brutture.La lucidità diventa un lusso fulminante.

“È forse impossibile non bere?”, si chiedono in una del-le tante pittoresche discussioni i parodistici compagni diviaggio del nostro viandante. La risposta non può essereche retoricamente affermativa. Persino chi sembra lontanodall’odore dell’alcool non farà che proiettare il suo deside-rio di bere su quanto lo circonda, rendendolo, unicamentein conseguenza di ciò, grandioso (con buona pace di Jo-hann von Goethe). Il lettore astemio non accetterà facil-mente questa verità. Non farà invece fatica a riconoscerenella voce narrante lo stesso autore. Se sin dalle primebattute si arguisce il nome del protagonista, più avanti ea scanso di equivoci, verrà “svelato” chiaramente che chiparla è lo stesso Erofeev, “naturalmente”. Niente di strano.Un tale poema non può che essere narrato dall’uomo cheha trasformato il suo dissenso in parola e il suo dolore ininchiostro alla Vodka, tanto coinvolgimento non potrebbeessere che autobiografico. Ma lo stesso autore non accettadi essersi tanto compromesso e dopo aver giocato per tuttoil racconto con la sua nitida identità, se ne libera nelle ul-time pagine, rivelando il paradosso di essere voce narrantedal mondo dei morti, rimasta a raccontare gli eventi dopo ilsuo omicidio. Erofeev si rivela un cadavere superstite allasua stessa fine. Nato povero nel e, ugualmente malein arnese, spentosi nel, è stato sempre in disaccordocon il suo tempo e la sua storia, non accettando mai nulla,viaggiando sempre in senso contrario a Petuški. Sin dallasua prima satira,Zapiski psichopata[Diari di uno psico-patico], rende noto quanto gli stringa il vestito ben stiratodello scrittore. Nata a Mosca, in una stanzetta divisa conquattro compagni di studi, la sua prima satira colpisce ilregime senza darsi la pena di inventar fronzoli, apparen-do subito una dichiarazione di non accettazione dello statodi studente prodigio e come primo riconoscimento regalaallo scrittore l’espulsione dall’università. Poi la sua vitasarà vissuta sempre sul bordo tra il genio e la follia, ac-compagnata dall’alcool e dalla malattia, guardata a metàtra la riabilitazione e la repulsione. Un autore scomodo

per primo a se stesso, incapace di far altro che criticarequanto di quella Russia non gli andava giù neppure a forzadi grammi e grammi di vodka. Cristo, Lenin, i celebratieroi nazionali Minin e Požarskij, autori riconosciuti comeTurgenev cosa dovevano contare per un uomo affamato eincapace di arrendersi alla sua Russia? Il nostro liberco-lo diventa l’autobiografia di un malessere che riveste dicomicità simboli forti e riconoscibili. Su tutti, troneggiadalla prima all’ultima pagina, il Cremlino, magnificenteresidenza degli zar che nelle prime righe del romanzo Ve-nedikt confessa di non aver mai visto e che, quando final-mente gli appare nelle ultime pagine, non poteva trovaremomento peggiore. Quale è il tipo di violenza che am-manta le pagine diTra Mosca e Petuški? La violenza diuna realtà tanto terribile da non poterne parlare se non dasbronzi. L’alcool diventa l’escamotage e si fa rivelazione.Tutto il viaggio si trasforma nella visione della realtà final-mente dicibile perché tradotta nel linguaggio indefinibile,e per questo inequivocabile, della vodka. La stessa ideadi una rivoluzione grottesca, concepita durante il viaggioe congegnata con attenzione al particolare, rivela una ta-le potenza profanante da superare i mostri sacri delle vererivoluzioni.

Il romanzo di Erofeev coinvolge dissacrando quanto lacultura offre. Si estende al di là del quotidiano, renden-dolo valore assoluto. Appurato che ogni giorno ci si nutrea ciarpame, Petuški diventa l’eden dove ognuno troveràla bellezza. Per Venicka, la meta del viaggio è la perfe-zione dei beni più intimi, l’affetto del figlio e la voluttuo-sa compagnia della sua donna, che avvampa e beve sullabanchina dell’attesa. Un luogo dove, finalmente, è pos-sibile concedersi il lusso di contraccambiare con dei donial molto che ci si aspetta di ricevere. Doni come quelliche il nostro viaggiatore porta con sé per il suo bambino,ma di cui, inesorabilmente, verrà derubato insieme con lasua valigetta. Al pensiero di Petuški, l’alcool fa posto almiserevole desiderio di deporre le armi e ritrovarsi a casa.“Quando non ci sei sono molto solo, bambino mio!”, con-fessa Venedikt e sarà proprio per il figlio, nel ricordare unloro incontro, l’unico sorriso beato che non si trasforme-rà in ghigno. Se Borges raccontava di Ulisse che, stancodi meraviglie, piangeva d’amore nel vedere Itaca umile everde, Petuški si rivelerà però, per Erofeev, una meta benpiù lontana di Itaca e ben peggiore. Non ci sono eroi sulnostro treno e quindi non ci sono premiazioni e la metaammantata di incantevole umiltà non potrà essere raggiun-

eSamizdat, (II)

ta. Non solo è lontana, peggio, è in direzione contrariaallo svolgimento della storia. La tenebra notturna si scio-glie sui sogni di gloria. La risolutezza con cui prende ledistanze dall’umanità, porta il protagonista ad aspirare alsogno non potendo accettare diventi realtà. Non è dato aun povero pazzo altro che il dissacrante riso del dissenti-mento, giammai il pattume del lieto fine. Credere nellapossibilità di una rosea conclusione merita una punizio-ne. L’autore lo sa e, infatti, Venedikt perde la valigettacon i suoi doni, peggio, perde lo stato di grazia dell’ubria-chezza, da eroe diventa zimbello. Lo stesso Satana giocacon lui fino allo svelarsi dell’unica realtà (“A Petuški nonci arriverà proprio nessuno!”), atroce sentenza sottolineatastavolta da un sorriso che non è più quello dell’autore maquello inappellabile di una cannibalesca Sfinge, creatricedi enigmi al limite dell’osceno.

Sembrano non esserci vie di fuga nella terra degli uomi-ni. Erofeev si affida, malconcio ma onesto, alla religiositàcristiana, sottofondo di parecchie riflessioni. Lo stesso,prossimo alla fine, invoca il Signore chiedendogli il per-ché dell’averlo abbandonato e l’immagine del Cristo, del-l’uomo, cade come ombra sui chilometri del viaggio senzaperò lasciare troppa speranza.

Tra Mosca e Petuškici porterà dovunque pur non an-dando da nessuna parte, arte del paradosso possibile soloagli scrittori capaci e alle anime disperate, in questo casopresenti in una sola voce. Pagina dopo pagina possiamodecidere di scendere o continuare a essere portati in giroda personaggi apparentemente inoffensivi ma di gran for-za, una corte dei miracoli troppo somigliante a tante facceincontrate in tutte le storie di tutti i paesi, da concedersila frivolezza di pensare che Venicka pensasse solo al suotempo e alla sua terra. Chiuso il libro, ripresi dalla sbor-nia e ancora incerti su quale strada seguire per dare al tuttogiusta interpretazione, conviene fermarsi un attimo. Die-tro la sfida lanciata con fare altezzoso, si cela il bisognopiù semplice di qualsiasi narratore: raccontare. Nessunpersonaggio è quindi umano come il controllore, il temi-bile utopista Semenyc, che chiede a tutti vodka al posto dichilometri ma che dal nostro non avrà mai altro che parole,tutta la storia dell’uomo, tutte le parole che la sua Sheraza-de potrà raccontare. Venedikt celebra e punisce il cattivocontrollore lasciandolo fradicio di alcool, semivivo, tuttosbottonato, a una stazione intermedia, in preda al vomitodelle sue multe in forma di vodka, unico a pagare per ladebolezza d’aver desiderato ascoltare. Con concentrazio-

ne e distacco l’autore riflette se stesso, non risparmiandonulla e tutto criticando. Diffidente sul senso di ogni co-sa, stanco di ricercare il significato, Venedikt ammetteràalla fine che “non si può passare tutta la via a tormentarsicon gli enigmi”, enigmi che, seppure finge di aver dimen-ticato, lo tormenteranno fino alla fine, quando, inchiodatoal pavimento, martire del mondo, assolutamente fuori disé, invocherà “Perché perché. . . Perché perché perché!” enon, comeCechov, “Versatemi dello champagne”.

Eppure è proprio nelle ultime righe del suo poema cheVenedikt trova come tornare a casa. Nel perdere coscienzaper sempre, morendo, potrà concedersi di smettere i pannidel pensatore dissacrante, per arrendersi al tepore di quelladensa e rossa lettera “iu” pronunciata dal figlio e negataglidall’inarrivabile Petuški. Se tanto, in ogni caso, non si hadove andare, la casa è l’incoscienza del sonno eterno e lamorte è la coperta rassicurante che permette di essere vocetra i vivi, per raccontare di un viaggio che si ferma solo iltempo di ripartire. E il freddo della notte si fa tiepido alracconto.

Marzia Cikada

Siete mai stati alla stazione Kursk di Mosca? Oppureavete mai provato la fetida esaltazione di un viaggio, lungoo breve che sia stato, su un vagone di unaelektricka? Ave-te mai avuto occasione di parlare con gli angeli (in questocaso sarebbe interessante conoscere che cosa vi siete det-ti)? E di Petuški, cosa mi dite di Petuški? Sì, sì, proprioquel posto dove gli uccelli non smettono di cantare né digiorno né di notte! Non ne sapete niente? Allora è proprioil caso di leggervi questo libriccino, un centinaio di pagineche scendono giù come un bicchiere di buona vodka.

Oddio, non che in queste pagine ce ne sia molta di buo-na vodka. Anzi, quasi per nulla. Ce n’è di tutti i tipi, pertutti i palati, ma di buona, ahimè, non ce n’è. “Sovetskoekacestvo”, si diceva una volta. E “sovetskoe kacestvo”, c’èda scommetterci, si diceva anche nell’autunno del,epoca di composizione del manoscritto. Sulla luna era-no arrivati gli americani, e non i sovietici. Il “socialismodal volto umano” era stato cancellato dalla faccia della ter-ra. L’URSS era sulla soglia del ventennio più amorfo del-la sua storia, l’odioso “zastoj” brežneviano. Correva purevoce di una riabilitazione di Stalin, ma nel complesso tuttoandava per il meglio, il socialismo era trionfante e ilsoldell’avvenirstava lì lì per sorgere.

Recensioni

Ma torniamo alla vodka. D’altronde il titolo della pri-ma traduzione italiana, datata, dava proprio a que-sto inarrivabile prodotto del genio russo il ruolo di primadonna:Mosca sulla vodka, suonava proprio così, se la me-moria, annebbiata dall’alcool, non mi inganna. Ci permet-tiamo di preferire il titolo di questa nuova traduzione, siaperché più fedele al titolo originale, sia perché ridimen-siona il ruolo della vodka nel romanzo, un ruolo troppospesso enfatizzato da critiche e letture (o letture critiche,fate un po’ voi) superficiali. Ci tengo a sottolineare chel’uso della prima persona plurale non è dettato da deliriodi onnipotenza, ma semplicemente dal fatto che sono statigli angeli a suggerirmi questa osservazione.

Il mio ruolo mi obbliga a essere recensore severo e nonmi esimerò dall’esserlo, anche se una genetica timidezzami frena. Butto giù un altro bicchierino di vodka e passala paura: non mi abituerò mai a questo cannibalismo dellatraduzione, che pretende di rendere “proprio” tutto ciò che“proprio” non lo è. Come piangono le mie orecchie quan-do il mio occhio legge “Circonvallazione dei Giardini”!Gli angeli già mi gridano in coro che “Sadovoe Kol´co”sarebbe risultato incomprensibile al lettore italiano. . . giu-sto, giustissimo. Eppure non riesco ad adeguarmi a questo.Obbedisco, ma non capisco.

Quisquilie, comunque. “Pustjaki”. La traduzione è as-solutamente adeguata all’originale, anche gli angeli sonorimasti soddisfatti. E siamo soprattutto soddisfatti perchéqualcuno si prende ancora la briga di pubblicare della let-teratura russa “contemporanea”, al di fuori degli ormai in-flazionati mostri sacri e delle mode passeggere dettate dachissà quale intuizione metafisica (Denežkina docet, aspet-tiamo presto la traduzione delle sue “geniali” epigone let-terarie). Dispiace solo che ogni tanto ci si abbandoni adaffermazioni che ci fanno dubitare dell’intelligenza di chile ha scritte: quella definizione di Venedikt Erofeev come“uno dei pochi grandi geni del secondo Novecento russo”,che abbellisce la terza di copertina, non mi fa dormire lanotte. Gli angeli vorrebbero sapere chi altro sia stato in-serito nella business-class dei “grandi geni”; io, più umil-mente, mi permetto di far notare che di figure letterariedello stesso livello di Erofeev (Venedikt) ce ne sono, e co-me, nel secondo Novecento russo. Semplicemente, qui danoi, nessuno le conosce.

Pardon. Mi sono lasciato un po’ prendere la mano, for-se. Sarà stato questo ultimo bicchiere di vodka, forse. Nonvi arrabbiate, anzi, brindate insieme a me. Sì, anche la

vodka della Kuban´ può andare bene! Persino la birra diŽiguli. può fare al caso nostro! Ma sì, anche un bel cock-tail “Trippa di cane” non lo si nega mica a nessuno! Tutto èconcesso! L’importante è bere, bere a non finire, bere finoa svenire, bere fino a vomitarsi l’anima. Insomma, bere.Per dimenticare.

Stefano Bartoni

P. Kohout, L’assassino delle vedove, traduzione di L.Kostner, Fazi Editore, Roma 2003.

Febbraio; nel Protettorato di Boemia e Moravia,ossia pressappoco nella odierna Repubblica Ceca occupa-ta dai nazisti, si avverte che la capitolazione del Reich èormai questione di mesi, tanto peggio si sopporta l’arro-ganza degli occupanti tedeschi, ma non è chiaro quandoverrà il momento in cui scatenare le sopite forze della ri-volta patriottica. La collaborazione forzata delle istituzionipubbliche è una delle viscide superfici sulle quali il purodovere amministrativo può oscillare fra il servile collabo-razionismo e la tempratura degli animi onesti, in un peri-coloso esame quotidiano che mette alla prova ogni giornoin modo diverso la dignità e la morale umana, costringen-do i “buoni” a interrogarsi sul giudizio storico che valuteràle loro azioni condizionate dal terrore e dalle minacce, elasciando gli approfittatori a godere di una impunità cheha ormai i giorni contati. Si aggiunga che nel bel mezzo diquesta polveriera, in un bailamme di segnali contrastantie di continui rischi bellici per il cittadino comune (Pra-ga è bombardata, non si sa se i tedeschi risparmieranno lacittà) esplode la furia omicida, tutta personale, per niente“storica”, del serial killer di turno, che si ispira a una telareligiosa per martirizzare le proprie vittime e neutralizzarei propri irrisolti conflitti con il sesso femminile.

Sono questi, rispettivamente, lo sfondo reale e la vicen-da fittizia su cui Pavel Kohout (Praga,) fa muovere isuoi poliziotti, i suoi investigatori e i vari bruti delle SS edella Gestapo, tutti coalizzati contro un ulteriore mostro,un unico nemico, che, paradossalmente, viene a sua voltariconosciuto anche dai tedeschi come incarnazione del ma-le assoluto. L’assassino delle vedove, l’omicida rituale chedà il titolo alla buona traduzione italiana di Letizia Kostner(l’originale ceco suona come “il momento magico degli as-sassini”), è l’imprevisto elemento impazzito che si stagliasullo sfondo storico degli ultimi mesi del secondo conflittomondiale e costringe a una laboriosa, diffidente collabora-

eSamizdat, (II)

zione il poliziotto ceco Jan Morava e il suo corrispondentetedesco Erwin Buback, finito nelle fila della Gestapo per-ché incantato “in buona fede” dalle idee megalomani delsuo Führer, sebbene anch’egli abbia origini ceche. L’avvi-cinamento fra i due, che avviene sulla base delle comuniorigini e delle comuni sventure, è una delle linee princi-pali del racconto, ma ha un’impronta fondamentalmentebuonista e appare forzato.

L’autore, Pavel Kohout, è una delle figure più interes-santi e sintomatiche dell’ultimo cinquantennio ceco: dopoessere stato fervente comunista, si “ravvede” e passa nellefile dell’opposizione al dogmatismo prima, in quelle delladissidenza legata a Václav Havel e a Charta poi. Cometanti uomini di cultura importanti è stato coinvolto in pole-miche politico-culturali, come tanti costretto a vivere all’e-stero durante la cosiddetta “normalizzazione”, come tantitornato in patria dopo l’. . . come tanti, verrebbe da dire,è ora costretto a scrivere lunghi, interminabili romanzi persbarcare il lunario.

Da questa nostra affermazione si sarà capito che que-sta storia a sfondo poliziesco con velleità sociologiche nonci ha propriamente entusiasmato. Non possiamo esimer-ci dall’intavolare una seppur superficiale discussione (nesiamo consapevoli: quanto poco originale, quanto trita!)sull’appartenenza di tale libro alla produzione di genere oalla narrativa “d’autore”, servendoci di qualche parallelocinematografico. Sugli scaffali delle librerie italiane (sul-le quali raramente compaiono nuove traduzioni dal ceco,e dalle quali latitano ancora decine di romanzi dai valorimolto meno controversi) lo si trova fra i thriller, accanto aibestseller americani o alloctivo teutonico: la mole spro-positata di pagine che da un certo punto in poi stancanoper l’esaurirsi dei temi che vengono inutilmente trascinatioltre la loro autonomia temporale, l’eccesso di descrizionepsicologica che sfocia in una deleteria volontà di spiega-zione di ogni minimo gesto dei personaggi, la qualità noneccelsa di molti dialoghi, che sfiorano a volte il sentimen-tale o il kitsch amoroso, o ancora il gusto evidente per icolpi di scena e per l’orrore cinematografico, “visibile”, latroppo schematica suddivisione in buoni e cattivi e la ra-pida trasformazione psichica dei protagonisti nel momentodecisivo, uno scioglimento rimandato all’infinito e poi rag-giunto con imbarazzante facilità alleggeriscono non pocoil peso specifico del libro. Che poi Kohout tenti di trasfi-gurare la sua vicenda criminalistica riallacciandola a temiimpegnativi come l’odsun(la cacciata di gran parte dei te-

deschi dalle terre ceche successiva alla sconfitta del Rei-ch), la successiva caduta della Repubblica Cecoslovaccain un regime stalinista, o addirittura la metafisica e sfug-gente analisi della “cattiveria” del popolo tedesco duranteil nazismo conduce in parte l’autore (e il lettore) a ulterioriimpasse logici.

Come in un discreto film da sabato sera, la narrazionesi dipana agevolmente senza scossoni e soprattutto senzarischi interpretativi. Ed è forse proprio questo il punto do-lente, Kohout non lascia nulla al caso, non rischia mai dilasciare il suo lettore senza l’attesa esplicazione di moven-ti, turbe psichiche, slanci emotivi, si perde in prolissi flash-back che permettono un inquadramento fin troppo univoconel casellario dei tipi psicologici e degli stereotipi narrati-vi: una eccessiva presenza materna trasforma un poverac-cio in un assassino di “puttane”, una tremenda tragedia fa-miliare spinge il duro investigatore tedesco alla ricerca delgrande amore e al rifiuto del nazismo, un colpo altrettantoduro trasforma il puro e ingenuo Morava in un perfetto, ge-lido segugio, il tutto condito dalle prevedibili angherie deinazisti e dalla sostanziale bontà dei personaggi cechi, chediventano negativi solo nel caso che siano psichicamentedeviati o esasperati dall’odio per gli invasori.

Va tuttavia riconosciuto che tutto ciò è in realtà raccon-tato con una interessante alternanza di focalizzazioni (cherischia però di diventare anch’essa schematica e prevedi-bile), con begli spunti di discorso interiore e non senzaavvincere (almeno per le prime centinaia di pagine) un let-tore che pretenda solo di essere intrattenuto con una vicen-da complicata quanto basta, ma che non gli faccia dolertroppo la testa. Kohout qui sembra non riconoscere dirit-to di cittadinanza al non-detto, al suggerito, all’ellissi, al-la doppia possibilità interpretativa, all’intervento ispiratodel lettore: sembra dire “B è causato da A, a questo se-gue naturalmente quello, così ho scritto, e così, mio carolettore, devi capirla”. Sintomatico di questo approccio è iltrattamento della figura-chiave, quella dell’assassino, il cuipassato traumatico l’autore si premura di spiegarci fin neiminimi particolari e ripetutamente, come avviene nei filmd’azione in cui balenano dei flashback esplicativi che ram-mentino allo spettatore assopito chi sia il dato personaggioo cosa lo abbia portato a trovarsi lì nel dato momento.

E proprio quando magari stiamo per riconsiderare in po-sitivo il nostro giudizio complessivo sull’opera perché sene apprezza l’alternanza virtuosa nella gestione dei gruppidi personaggi, o la riuscita commistione di sfondo stori-

Recensioni

co e vicende private spuntano frasicheapcome quella deltedesco “convertito” Buback: “Sempre che un individuopossa porgere le scuse a nome di un intero popolo, eccole mie”, quello stesso Buback che, illuminato (con ritar-do) sulla via di Damasco “reprimeva la propria identità ditedesco a vantaggio della propria identità di essere uma-no”, o la straziante confessione della sua amante: “Questoè successo: tu col tuo sesso mi hai toccato l’anima”. Sonofrasi massimaliste, momenti in cui l’autore vuole strafare,cadute di stile che, nel loro voler essere segno di una ve-duta ampia e non preconcetta (verso i tedeschi, non tutti“cattivi”) o dimostrazione della forza rigenerante di ses-so e amore purtroppo suonano come rubate alla letteraturad’appendice.

Confessiamo in chiusura di non essere affatto espertidell’opera di Pavel Kohout; è certo però che (per torna-re alle contrapposizioni cui accennavamo sopra) lo spes-sore di un grande romanziere che domina il genere o lotrascende, di un autore non pacificato, si misura anche perquello che riesce a tenere nascosto al suo pubblico, per ledomande che lascia senza risposta, per gli stimoli di ricer-ca e connessione fra le parti che la struttura-romanzo do-vrebbe lasciare nel campo del potenziale, e non sminuirecostringendoli nella feriale chiarezza del realizzato.

Massimo Tria

D. Albahari , Il buio , traduzione di A. Fonseca, Besaeditrice, Lecce 2003.

Dopo la raccolta di raccontiLa morte di Ruben Rube-novic, pubblicato nel dalla Hefti edizioni di Mila-no, compare in Italia questo secondo volume, nel catalogodella Besa editrice, coraggioso editore di Nardò, paese inprovincia di Lecce, che presta particolare attenzione alleletterature dei Balcani e a quei paesi di recente emersi da-gli smottamenti provocati dall’onda d’urto del crollo delMuro di Berlino (come ad esempio l’Ucraina).

Albahari quindi è un autore che è arrivato in Italia grazieall’ondata di attenzione mediatica verso l’ex-Jugoslavia,ovviamente legata alle note e tragiche vicende che hannocolpito quel paese. Nato a Pec (Kossovo) nel, Alba-hari è cresciuto a Zemun, oggi sobborgo di Belgrado sulDanubio, da dove era partito un secolo prima il fondatoredell’idea sionista Thodor Herzl. In comune con quest’ulti-mo sono le radici ebraiche di Albahari, che rappresentanouna componente importante della sua creazione letteraria.

Il suo debutto letterario risale al con la raccoltadi raccontiPorodicno vreme[Tempo di famiglia], a cuiseguono gliObicne price[Racconti comuni] del e,nello stesso anno, il romanzoSudija Dimitrijevic [Il giu-dice Dimitrijevic]. Al risale la raccolta di raccontiOpis smrti [Descrizione della morte] tradotto in italianocomeLa morte di Ruben Rubenovic, per la quale l’auto-re ricevette il prestigioso Premio Ivo Andric. Per arrivarein Italia ci sono voluti quindi diciassette anni e una guer-ra. Nel frattempo Albahari ha pubblicato tre romanzi,Cink[Zinco, ] Kratka knjiga[Un breve libro,], Snez-ni covek[L’uomo delle nevi,] e le raccolte di raccontiFraš u šupi[Convulsioni nel magazzino,] Jednosta-vnost[Semplicità,], Pelerina [La mantellina,,Premio Stanislav Vinaver].

Il romanzo in questione,Mrak, è stato pubblicato nel, tre anni dopo che lo scrittore si era trasferito in Ca-nada, dove attualmente risiede. Il confronto tra i due li-bri tradotti in italiano può essere utile per mettere in evi-denza il percorso artistico compiuto dall’autore. Tra i duelavori ci sono quindici anni e una guerra che ha lasciatoovviamente un’impronta indelebile nella coscienza delloscrittore. La morte di Ruben Rubenovicè una raccolta diracconti incentrata su una famiglia ebraica di Zemun nellaquale domina un ludico spirito post-modernista all’ombradi grandissimi padri come Kafka o Bruno Schulz.

Ne Il buio i toni sono decisamente più tragici e cupi.L’autore abbandona risolutamente gli “esperimenti” e gliespedienti narrativi per affrontare di petto il dramma jugo-slavo. Il lettore percepisce fin dalle prime pagine una gran-de onestà: l’autore racconta le tragedie del suo paese esclu-sivamente dal suo punto di vista di scrittore-personaggio,il quale si trova ad affrontare suo malgrado un dramma dalquale vorrebbe fuggire. I chiari riferimenti autobiografi-ci rendono forse ancora più credibile questo libro, scritto,questo va sottolineato, con grande mestiere.

Nelle prime pagine assistiamo alla cronaca della vitadello scrittore-autore-personaggio, un intellettuale noto eaffermato che frequenta i salotti letterari e i ricevimentiall’ambasciata americana. Una vita piuttosto agiata e co-moda, nei limiti di quanto era possibile negli ultimi annidi esistenza della Jugoslavia. Un episodio apparentemen-te banale segna l’inizio di un impercettibile cambiamento:qualcuno lascia alla reception dell’albergo dove alloggia ilprotagonista del romanzo una busta con dentro una fogliadi un albero di ginko di Zemun al quale sono legati alcu-

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ni suoi ricordi dell’adolescenza, e in particolare quello diun suo amore, Metka, in seguito andata sposa al suo caroamico Slavko, gallerista di Belgrado.

La vicenda è scandita dall’orologio che segna l’appros-simarsi della tragedia. Siamo nel, quando i delegatisloveni abbandonano il congresso della Lega dei comu-nisti. Il titolo del libro è tratto da un episodio che assu-me il significato di una metafora dell’imminente tragedia:Slavko racconta di avere visitato una mostra ad Amster-dam nella quale vi era una installazione: “Nella sala dellamostra vera e propria poteva entrare un solo visitatore pervolta [. . . ]. Ogni visitatore doveva attraversare prima unpiccolo corridoio buio che finiva con due porte: dovevachiudere la prima per poter aprire la seconda; in questomodo si impediva il passaggio della luce; tre linee fluore-scenti agevolavano l’orientamento. Dopo, il visitatore sitrovava in un’altra sala della galleria, completamente buia,nella quale senza alcun preavviso, passava un tempo abba-stanza lungo, immerso tra due acuti sibili elettronici [. . . ].In questo intervallo di tempo bisognava trovare il maggiornumero di oggetti sparsi nel pavimento e poi riconoscerli.Contemporaneamente, dagli altoparlanti, sistemati verosi-milmente sul soffitto, provenivano voci maschili e femmi-nili, che in diverse lingue [. . . ] elencavano gli oggetti chesi trovavano nella sala, ma anche altri [. . . ]. Nell’ultimasala, ugualmente illuminata come la prima, ma non piùspaziosa di una cabina elettorale, il visitatore doveva an-notare su un foglio di carta tutti gli oggetti che credeva diaver riconosciuto [. . . ]. Dopo aver lasciato il foglio in unascatola, il visitatore apriva una tenda di velluto, e si tro-vava in una scala che conduceva fuori dalla galleria, sullastrada”.

Quando esce da questa galleria, Slavko si accorge diavere le mani sporche di sangue, che proverà inutilmen-te a pulire e a nascondere nelle tasche. Egli, come scriveAlbahari, “avrebbe potuto volare, se solo lo avesse voluto,avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, non gli venne in men-te nulla, ma sentiva che nulla ormai,nulla, sarebbe statocome prima”. A questo campanello di allarme, metafo-ra e presagio della tragedia imminente, ne seguono altri:qualcuno recapita al protagonista alcuni dossier nei qualiil suo “caro amico” Davor Miloš risulta essere un infor-matore dei servizi segreti. Anche Slavko è cambiato, par-la con veemenza di questioni etniche, di scelte politiche,dalla sua borsa spuntano iProtocolli dei savi di Sion, men-tre nei suoi discorsi accenna frequentemente al “complotto

giudaico-massonico”. Sua moglie, Metka, che scopriamoessere di origine slovena, rimane su posizioni diametral-mente opposte a quelle del marito e questo, insieme allarepentina partenza dovuta alla coscrizione obbligatoria diSlavko, contribuisce al riavvicinamento e alla successivapassione tra Metka e il protagonista.

Ma gli eventi precipitano e, ovviamente, volgono al peg-gio. Metka, che si impegna nelle organizzazioni pacifisteche offrono ricovero ai disertori, rimane incinta e vieneuccisa con un colpo di pistola da Slavko che subito doporivolge l’arma contro se stesso. A questo punto il prota-gonista decide di abbandonare il suo paese. Comincia cosìuna fuga nella quale il protagonista cerca disperatamentequanto inutilmente di sottrarsi ai fantasmi che lo inseguo-no. Al termine di questa fuga l’autore trova come unicavia di salvezza la scrittura, con la quale proverà a ricuci-re i profondi strappi e le ferite inferte dalla tragedia delsuo paese nella sua coscienza e nella sua anima. “Ecco, èfinito, Ora devo solo scrivere il titolo”. Così si chiude que-sto romanzo che è anche una riflessione sull’arte e sullascrittura.

La scena più toccante del libro è senza dubbio quellain cui il protagonista, prima di abbandonare il suo pae-se, va a visitare la tomba di Metka, sulla quale depone unsasso, secondo l’uso ebraico. Più in generale è assoluta-mente efficace il modo in cui l’autore riesce a raccontarel’incombere della tragedia che, successivamente, stravolgee distrugge le vite dei protagonisti. Sotto questo punto divista Il buio è un perfetto romanzo “balcanico” (non a ca-so ha anche vinto il Premio Balkanica). Qualche dubbio,ma non è questa la sede per parlarne, suscitano in me tuttequelle opere legate a immani tragedie che a volte sembra-no voler toccare le corde emotive del lettore. In questocaso sarei propenso ad assolvere l’autore da questa accu-sa: la voce del protagonista-autore appare infatti sincera ecredibile, lucida e dolente, ma mai patetica.

Albahari rappresenta certamente uno scrittore di razza,purtroppo pressoché ignorato qui in Italia, e meriterebbecertamente una ben maggiore attenzione da parte dei no-stri media, visto che questo romanzo infatti rimane tutt’og-gi, a sei anni dalla sua pubblicazione, una delle miglioritestimonianze letterarie sulla tragedia jugoslava.

Lorenzo Pompeo

Recensioni

Gustaw Herling-Grudzi nski, Requiem per il campa-naro, traduzione di V. Verdiani, postfazione di F.M.Cataluccio, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2003.

Commentando il primo racconto inedito di Herling pub-blicato in Italia dopo la sua morte (l’edizione originale èdel ), la critica si è soffermata in genere sul rappor-to tra l’autore e l’ebraismo. Nell’esauriente postfazione altesto, Francesco Cataluccio rileva tra l’altro come fosseroebrei entrambi i genitori di Herling. Si tratta di un approc-cio nuovo all’opera dello scrittore polacco che, soprattuttonei testi più recenti, ha dimostrato un crescente interesseper le proprie origini.

Per cogliere appieno il significato di questoRequiem peril campanaro, tuttavia, non bisogna avere paura di ricerca-re anche le orme consuete dell’autore. Questi è impegnatoa mettere in risalto anche il male compiuto dal singolo,il male che convive quotidianamente con il bene, oltre aquello supremo dell’Olocausto; il racconto unisce così ledue dimensioni: la tragedia universale della “notte dei cri-stalli” che scatena quella individuale di fra’ Nafta, prota-gonista della narrazione. Quest’ultimo ricorda da vicinoil lebbroso deLa torre (racconto contenuto inRitratto ve-neziano, Milano ): entrambi sono dei reclusi, l’unotra le pietre della costruzione aostana, l’altro psicologica-mente “murato” dalle fiamme della violenza nazista chedurante l’infanzia gli ha strappato i genitori.

Fra’ Nafta è cresciuto tra i francescani di Wüpperthal equelli di Napoli pressoché muto; grazie al gesto di suonarele campane, lentamente, egli torna alla parola e alla vita.Vagabonda questuando tra Germania e Italia, trasforma lapropria fede sino al punto di profetizzare la catastrofe im-minente: “Suonate le vostre campane! Il nostro mondocrudele sta per finire!”. Nella rappresentazione della Pas-sione che si tiene ogni anno presso Sordevolo nel Biellese,fra’ Nafta interpreta Gesù Cristo. Dà scandalo poiché ac-coglie il martirio con un sorriso e per questo motivo vieneallontanato dalla messinscena e dal paese. Dopo moltis-simo tempo, torna a suonare le campane della chiesa diSanta Chiara a Napoli il giorno di capodanno del.Ricongiungendosi col proprio sogno, come il lebbroso deLa torre, fra’ Nafta deve accettare l’assenza di un signifi-cato ultimo dell’esistenza: il campanile che egli percuotenon annuncia la fine del mondo, ma trasmette al secoloche incomincia l’allarme per il male causato dal preceden-te. Ancora una volta, sembra suggerire Herling, a un passodalla morte tutto si risolve in vita.

Alessandro Ajres

J. Andruchovyc, Moscoviade, traduzione di L. Pompeo,Besa, Lecce 2003.

Mosca. Vigilia del crollo dell’Unione Sovietica. Unacasa dello studente. I letterati che vi sono ospitati. Un gio-vane poeta ucraino, Otto Von F. e il suo ultimo giorno nellacapitale raccontato da lui stesso. Fin qui in breve la tramadi Moscoviade(scommessa di una piccola e coraggiosa ca-sa editrice, la Besa di Lecce, che ci ha regalato la primatraduzione di un’opera letteraria ucraina contemporanea),il romanzo del giovane scrittore ucraino Jurij Andrucho-vyc, classe Sessanta, che ha realmente trascorso due annidella sua vita a Mosca, forse negli stessi luoghi battuti daOtto. Si potrebbe pensare alla semplice cronaca di unodei tanti cittadini dell’“Impero sovietico”, catapultati nellacapitale dalla “provincia” in cerca di fama e successo. Einvece lo spazio in cui si muove Otto non è la Mosca dal-le cupole dorate, ma la “Moscoviade”, uno spazio urbanodeformato dall’inquietante suffisso -ade.

Moscoviadeapre così la dimensione del viaggio, quellodi Otto e del suo interminabile giorno. Come nella gran-de epopea, l’eroe affronta difficoltà, viaggia attraverso lospazio e il tempo trovandosi in altri mondi. Discende agliInferi, o nell’Ade, se preferite. La Mosca del romanzo èuna città claustrofobica e sotterranea, fatta di sporchi cu-nicoli, oscuri corridoi, labirinti che si diramano al di sottodella superficie urbana. La verticalizzazione dello spazio èalgebrica: ogni edificio possiede un suo equivalente sotter-raneo, un’architettura capovolta, una cifra negativa e spe-culare. Sono le viscere della “mamma imperiale”, in unostato di già avanzata decomposizione, viscere incancrenite,la cui sintomatologia è ormai evidente anche nella Moscaal piano di sopra, che va incontro a Otto “zoppa, umida”.L’impero sta crollando “e percepisci sulle tue spalle chel’impero si scuce e si strappano, cascando da tutte le par-ti, paesi e nazioni”. Mosca non sembra voler morire dasola, ma trascinare nell’imminente implosione sotterraneaanche i suoi abitanti. Inghiottito, Otto procede il suo an-dare per i gironi della Mosca infernale, abitati ormai dairimasugli del KGB e da grandi ratti, pronti a colonizza-re la superficie come dopo una grande catastrofe atomica.Quale salvezza allora? Forse la parola, “in ogni modo nonmi ucciderete del tutto. Ho lasciato parole, parole, paro-le. . . Parole, parole, parole. . . i ratti sono impotenti, nonriescono a morderle e bucarle”. I manoscritti non bruciano.Non sono bruciati nella prima Mosca-Ade non lo farannonemmeno ora.

eSamizdat, (II)

La Mosca-Ade delMaestro e Margherita, ma ancheDiavoleidecon l’ormai affezionato suffisso e il senso difuga e di fine,Uova Fatalie Cuore di Canenei fantoma-tici esperimenti del KGB sui ratti. Ritroviamo anche Go-gol´ e del resto non poteva non essere altrimenti: al di làdella madame senza naso della bettola moscovita, le atmo-sfere gogoliane fanno infatti parte del codice genetico delgrottesco della narrazione.

Al filone ucraino va però aggiunta una nota “alcolica”,perché se tutti sono usciti dal cappotto di Gogol´, molti ne-gli ultimi tempi sembrano farlo dal bicchierino di VenediktErofeev.Moscoviadeè avvolta nei fumi dell’alcool, la suastratificazione geologica corrisponde a quella etilica del-l’anima dell’eroe, “in cuor tuo esegui una sezione vertica-le del tuo ego. In questo modo sarà più facile concentrartie arrivare all’essenza della questione. Dunque, nella partepiù bassa abbiamo la birra. Più o meno tre o quattro litridi liquido giallo e torbido. Prodotto appositamente per ilproletariato. Più in alto uno strato caldo e rosso di vino. Lìsi svolgono i processi tettonici, ci sono profondità vulca-niche. Ancora più in alto, da qualche parte all’altezza del-l’apparato digerente, c’è uno strato di vodka [. . . ] Soprala vodka, più vicino al gargarozzo, giace il BUF –Bevan-da d’uva forte”. Il viaggio diventa anche ricerca interiore,ricostruzione della propria identità, apocalisse individualeche porta Otto con un proiettile nel cranio a tornare e a nonfuggire.

Laura Piccolo

B. Pekic, Il tempo dei miracoli, traduzione di A.Parmeggiani, Fanucci, Roma 2004.

Dopo quasi quaranta anni dalla sua pubblicazione() e a quasi trenta dalla prima traduzione inglese (Thetime of miracles: A legend, New York 1976)Vreme cu-da, uno dei più straordinari debutti della letteratura serbadel dopoguerra, arriva finalmente in Italia. Di Borislav Pe-kic era stato pubblicato nel Come placare il vampiro(Kako upokojiti vampira, Belgrado) per i tipi dellaDe Martinis & C. di Messina, in una edizione ormai datempo introvabile (sempre che sia mai stata reperibile inlibreria). Possiamo dire che con l’edizione deIl tempo deimiracoli si affaccia nelle nostre librerie uno degli autoripiù fecondi, e probabilmente non solo delle lettere serbe.L’edizione del delle sue opere scelteOdabrana de-la Borislava Pekicacontava ben dodici volumi, e da allora

fino alla sua scomparsa, avvenuta nel, ha pubblica-to altri nove libri (senza contare altre nove pièce teatrali ediverse sceneggiature).

Nella sterminata produzione dell’autore,Vreme cudarappresenta un episodio del tutto particolare. Pekic, nato aPodgorica, in Montenegro, nel, ma vissuto dal

a Belgrado, aveva allora trentacinque anni. A diciotto an-ni era stato arrestato in quanto membro del partito illegaleGioventù democratica jugoslava e condannato a quindicianni di carcere. Anche se fortunatamente ne sconterà so-lo cinque, questa esperienza segnerà la sua vita in modoindelebile.

Negli anni di detenzione, nei quali contrarrà una tuber-colosi che minerà seriamente la sua salute, comincia a scri-vere con mezzi di fortuna, buttando giù appunti che poiutilizzerà nelle opere degli anni successivi. Nel vie-ne graziato e può uscire dal carcere, negli anni successivistudia psicologia sperimentale presso la facoltà di filoso-fia dell’università di Belgrado. Nel interrompe glistudi, si sposa e comincia a lavorare come sceneggiatore(il film Dan ceternaesti, basato su una sua sceneggiatura,rappresenterà la Jugoslavia al festival di Cannes).

A quattro anni dopo () risale il suo debutto lettera-rio, avvenuto anch’esso in circostanze del tutto particolari:sei mesi prima era stato ricoverato, gravemente malato ditubercolosi. Dimesso dall’ospedale, aveva dovuto consta-tare che questa volta erano le sue condizioni materiali edeconomiche a essere notevolmente peggiorate.

La pubblicazione diVreme cudarappresentò un puntodi rottura e di svolta per le lettere serbe e jugoslave. Po-chi anni prima, nel, aveva debuttato Danilo Kiš condue brevi romanziMansardae Psalam 44e, nello stes-so anno del debutto di Pekic, Kiš aveva pubblicatoBasta,pepeo(Giardino, cenere, Milano ), considerato una-nimemente uno dei suoi lavori migliori. I due scrittori gui-darono, negli anni Sessanta, il romanzo serbo oltre le pa-stoie del realismo convenzionale, legato prevalentementealle vicende belliche, mettendo a frutto gli orientamenti ei fermenti delnouveau romane l’esempio di Borges. MaVreme cuda, è in realtà molto più di un geniale romanzodi sperimentazione e del geniale debutto di un grafomaneslavo. Oggi, senza dubbio, può e deve essere consideratoun vero e proprio classico.

L’opera in questione è una riscrittura delle narrazionidei Vangeli, rielaborati e rivisitati partendo da un puntodi vista diverso rispetto a quello dell’originale. Ciò, ov-

Recensioni

viamente, non rappresenta in sé una novità assoluta. Na-turalmente tornano subito alla mente i capitoli inseriti daMichail Bulgakov neIl Maestro e Margherita, nei qualila vicenda della Passione viene ripercorsa dal punto di vi-sta di Pilato. Alcuni temi diVreme cudavengono ripresinel meno noto lavoro del bulgaro Emilijan StanevLazari Isus del (Lazzaro e Gesù, in italiano pubblicato inLazzaro e Gesù e altre storie, Roma). Nel fantasio-so ritratto di Giuda, che convincerebbe un incerto e pavidoGesù a portare la sua missione fino in fondo, evidenti sonoi richiami di Pekic al romanzo del del greco Kazan-tzakisO teleutaios peirasmos(L’ultima tentazione, Milano), che suscitò scandalo sia in Grecia che all’estero evalse all’autore una scomunica da parte della chiesa orto-dossa (è il romanzo dal quale Scorsese ha tratto nel

il film The last temptation of Christ). Allo stesso modo citorna in mente la dostoevskianaLeggenda del grande in-quisitore, che rappresenta forse uno dei più illustri esempidi para-apocrifo in chiave polemica.

Certamente non sarà un caso il fatto che tutti gli autoricitati appartengano a paesi di religione ortodossa. La lun-ga persistenza del “medioevo” e i troppo deboli baglioridell’illuminismo hanno creato le condizioni per una per-sistenza, nei canoni delle letterature di quei paesi, di ele-menti legati al mondo ecclesiastico e alle sacre scritture.Non è da escludere, anche nel caso diVreme cuda, un in-flusso degli “apocrifi popolari”, ovvero di quelle narrazio-ni apocrife tramandate oralmente, nelle quali le narrazionivenivano arricchite da una infinità di varianti e di detta-gli. Queste narrazioni, assimilabili alle leggende popolari,si caratterizzavano per il carattere parodistico e per il loroprevalente tono ironico.

Nella critica prevale la lettura diVreme cudain chiavepolitica, come un manifesto di uno scetticismo e di un an-tidogmatismo nei confronti dell’utopia comunista. La ra-dicale distorsione dei miti biblici, e in particolare il ritrattodi Giuda, severo custode ed esecutore di una ortodossiaideologica, spesso paragonato dai critici a un commissariopolitico bolscevico, viene solitamente ricollegato alle po-sizioni politiche di Pekic, che continuò ad avere problemicon il regime e al quale, quando nel andò a Londra,fu vietato di tornare in patria.

Attualmente, quando la parabola del comunismo jugo-slavo e di un intero paese è terminata, senza smentire l’in-terpretazione corrente in chiave politica, si potrebbe azzar-dare un’interpretazione parallela in chiave “locale”, ovve-

ro balcanica. Rileggendo oggiVreme cuda, il paragone trala tragedia jugoslava e la Passione, così come viene narratada Pekic, ovvero come l’approssimarsi della tragedia an-nunciata che si deve compiere, si rivela illuminante. Allostesso modo la “festosa epifania della tragedia”, la com-piaciuta ed esuberante prosa di questa opera fa tornare inmente il film di KusturicaUnderground.

L’ottima traduzione di Alice Parmeggiani ci restituisceun vero e proprio classico che, in quanto tale, può esserereinterpretato in modo diverso per ogni epoca. La qualitàdella lingua, che la traduttrice rende in tutta la sua fastosaricchezza, è straordinaria. Pekic è un maestro nel combi-nare i registri alto e basso, il sublime con il triviale. Colgusto del paradosso l’autore, in alcune pagine, raggiungel’apice del grottesco. La sua è una ironia raffinata, causti-ca e altamente corrosiva (l’esperienza dei cinque anni dicarcere sono pur serviti a qualcosa!).Vreme cuda, letturacertamente sconsigliata ai “fondamentalisti” e ai fedeli diqualsiasi “ortodossia”, per le persone dotate di intelligenzae spirito, al contrario, è un vero piacere da gustare a piccolibocconi. Provare per credere.

Lorenzo Pompeo

N. Dejan, SFRJ za ponavljace – turisticki vodic, Mocknjige, Beograd 2003.

La nostalgia del passato socialista, soprattutto di alcuniaspetti della vita quotidiana di quegli anni, è una caratte-ristica diffusa in molte delle ex-repubbliche popolari del-l’Europa centrale e orientale, a cominciare dalla Russia.L’intensità con cui il ricordo viene vissuto, i modi in cuielementi del passato vengono ricercati e riabilitati varianotuttavia assai da un paese all’altro. E così se da un latoil recente successo diGood Bye Lenin, film che celebra,pur paradossalmente, certi oggetti e rituali della Germaniaorientale, si accompagna a una reale mania per il made inDDR, a Praga, diversamente, la rielaborazione di quell’e-poca, passando ineluttabilmente attraverso l’invasione del e la normalizzazione degli anni Settanta, si risolvesempre in un giudizio negativo e non genera, malgrado ilcostante successo di vecchi serial televisivi degli anni Set-tanta e Ottanta, alcuna forma evidente di nostalgia per laCecoslovacchia.

Nella ex-Jugoslavia, ora che le guerre sono finite, chel’odio interetnico si va sopendo, che la situazione terri-toriale è temporaneamente stabilizzata, che neppure Ser-

eSamizdat, (II)

bia e Montenegro sono più Jugoslavia, anche per gli ex-jugoslavi è giunto il momento del ricordo eJugoslavija,non più percepita come entità politica minacciosa, spo-gliata delle sue valenze negative, diventa il contenitore deiricordi, di immagini di un passato felice, di un tempo miti-co ormai andato – forse un po’ come la vecchia fotografiaingiallita che la Ugrešic porta con sé nel suo vagare daemigrante. DiJugonostalgijasoffrono un po’ tutti e, sor-prendentemente, anche molti di quelli che, bambini o ra-gazzi nell’ultimo ventennio di esistenza della Jugoslavia,sono stati di lì a pochi anni inghiottiti dalle guerre oppurecentrifugati (si veda ad esempio laBeogradska TrilogijadiBiljana Srbljanovic) negli angoli più remoti del globo, unagenerazione che, malgrado le divisioni, sa e sente di essereprodotto di quel mondo.

Uno di questi è Dejan Novacic, autore diSFRJ za pona-vljace – turisticki vodic, una guida turistica particolarissi-ma, un Baedeker di un paese che non c’è più. Il suo libro,lontano dall’essere un percorso dolente e malinconico delricordo, è al contrario una rassegna ironica e divertita diquegli oggetti, di quei personaggi, dei fatti e degli avve-nimenti che hanno scandito la vita quotidiana dei cittadinijugoslavi; è una rievocazione distante dall’ufficialità dellapolitica e dalla tragicità della storia, immagine di un mi-crocosmo domestico ormai scomparso ma ancora percepi-bile a tutti coloro che l’hanno vissuto. Privo di drammati-cità, quasi un respiro profondo di sollievo per un passatoche ormai è tale,SFRJ za ponavljacesi rivolge a tutti co-loro che hanno dimenticato oppure non vogliono dimenti-care. E proprio da Dubravka Ugrešic, una scrittrice che haconosciuto nel suo percorso di vita la perdita della patriae che usa il ricordo come atto di ricostruzione, è curata laprefazione a questo libro. La Ugrešic interpretaSFRJ zaponavljaceattraverso il prisma del fantastico, lo interpretacome visione di un mondo dissoltosi all’improvviso, chein questo libro riappare come per magia, lo definisce “Le-xicon izmišljene zemlje” (p.), cioè un’opera di raccoltae archiviazione di tutto ciò che ha animato un paese dellefavole, la Jugoslavia, e che a essa si lega indissolubilmen-te, un sorta di immaginario “muzeja bivše Jugoslavije” (p.).

Un paese inventato dunque, la Jugoslavia di Novacic, dicerto non quello che troviamo nei libri di storia, un mon-do che forse rispecchia solo parzialmente la realtà dei fat-ti, ma che è ancor più vero perché frutto della percezioneche della Jugoslavia avevano i suoi abitanti, risultato della

commistione tra l’ideale ostentato della propaganda e l’im-magine sinceramente ingenua del singolo. “La Jugoslaviafu creata per sua libera iniziativa da Josip Broz Tito” (“Ju-goslaviju je svojom slobodnom voljom stvorio Josip BrozTito”, p. ), così parafrasa iperbolicamente Novacic ilprocesso di formazione della Jugoslavia, celebrato fino al-l’esasperazione dalla storiografia ufficiale. Non solo la fi-gura di Tito (“U pocetku bijaše zemlja bez oblicja i bijašetama nad bezdanom. I rece Tito: neka bude svjetlost. I bisvjetlost”, p.), ma ogni voce di questo libro è propostanei termini di una trasfigurazione mitologica. La Jugosla-via diventa un paese dalla geografia immaginaria dove ilcivilizzato nord confina con la Germania e l’Unione sovie-tica, mentre il retrogrado sud con la Bulgaria, l’Iraq e laLibia. Il dato reale e quello percepito si intrecciano conti-nuamente: le date, se indicate, precisissime, affiorano quae là in una temporalità indefinita, quasi epica.SFRJ za po-navljaceè l’enciclopedia della mitologia jugoslava, in cuiaccanto ai miti del soprannatuale, Tito,Deda Mraz, i par-tigiani, (“Partizani (gr. titanikwz) su božanska bica ma-gicnih moci i natprirodnih osobina”, p.), si aggiungonoi miti del quotidiano, ilburek(“Rec je o bureku, bez kogase u Jugoslaviji ne može zamisliti ni jedan osvit novog da-na”, p. ), gli abiti di tela impermeabile (“Šuškavci sušvercovani direktno iz tadašnjeg centra svetskog glamura,pijace Ponte Roso u Trstu”, p.), e così via. In que-sto modo vengono riesumati tutti gli aspetti della vita nellavecchia Jugoslavia, la storia, la geografia, l’organizzazio-ne dello stato, la religione, le scienze, l’arte, la scuola, finoai sex simbol, al cibo e, naturalmente, Tito.

Pur essendo una pubblicazione per nulla pretenziosa,SFRJ za ponavljacenon risulta una lettura facile per il let-tore che non ha avuto esperienza diretta di questa realtà.La complessità dei riferimenti a fatti e personaggi di quelperiodo, che non possono essere noti tramite il semplicestudio della storia o della letteratura, rende la compren-sione decisamente ardua.SFRJ za ponavljaced’altrondenon lo nasconde, anzi, dichiara apertamente di essere unlibro rivolto a coloro che già conoscono, e che desideranoora ricordare, ripetere,ponavljati. A tutti gli altri SFRJ zaponavljacedà la possibilità di immergersi in questo paesedelle favole per cercare di cogliere e forse di capire comevivevano, cosa pensavano, che cosa sognavano i cittadi-ni jugoslavi, quel popolo dei Balcani che storicamente si èestinto o è migrato nell’ultimo decennio del XX secolo (“Uistoriskom smislu, izraz ‘Jugosloveni’ oznacava balkanski

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narod koji je izumro ili se iselio u poslednjoj deceniji XXveka”, p.).

Andrea Trovesi

T. Nikol´skaja, Avangard i okrestnosti, Izdatel´stvoIvana Limbacha, Sankt-Peterburg 2002.

Presso la casa editrice Ivan Limbach di San Pietroburgo,tra le più raffinate all’interno dell’attuale panorama edito-riale russo per la scelta delle pubblicazioni e per la cura –redazionale e grafica – a esse rivolta, è apparso nel

il volume Avangard i okrestnostidi Tat´jana Nikol´skaja.Il testo raccoglie una serie di interventi, parzialmente ri-veduti e corretti, della nota ricercatrice, apparsi, nel corsodegli ultimi vent’anni, in riviste difficilmente raggiungibilie dalle tirature spesso estremamente limitate e rivolti al-lo studio di autori e gruppi letterari, se non dimenticati,spesso trascurati dagli studiosi: operazione di per sé me-ritoria, che presenta al pubblico degli specialisti studi ericerche che avrebbero altrimenti subito la medesima sortedegli artisti cui sono dedicati.

La prima sezione del volume contiene infatti dodici bre-vi articoli che, complessivamente, ricostruiscono, con ric-chezza di particolari ed estrema cura bibliografica, le com-plicate vicende dell’avanguardia russa in terra georgiana edell’avanguardia georgiana tra la fine degli anni Dieci e iprimissimi anni Venti. Tra il maggio del e il febbraiodel, nei quattro anni di vita della Repubblica Indipen-dente di Georgia, Tbilisi divenne infatti una sorta di oasiculturale, una “città fantastica” che vide fiorire tutta unaserie di gruppi poetici d’ispirazione futurista: da una par-te il Sindikat futuristov, capeggiato dal padre della linguazaum, Aleksej Krucenych, e da Il´ja Zdanevic, ideologodello vsecestvo, successivamente trasformatosi nel gruppo◦, cui si unì anche Igor´ Terent´ev, dall’altra l’avanguar-dia futurista georgiana, rappresentata dal gruppo Golubyerogi e dal raggruppamento dei cosiddetti futuristi georgia-ni, H2 SO4. L’autrice ripercorre la storia di questi raggrup-pamenti e degli artisti che ne fecero parte attraverso l’ana-lisi di opere poetiche e teatrali, manifesti, serate letterariee accese polemiche, rivolgendo un’attenzione particolaread autori meno noti come Jurij Marr, figlio del noto lingui-sta, Tat´jana Vecorka e AleksandrCacikov, mettendo inparticolare rilievo il rapporto, diretto e indiretto, tra que-sti gruppi e il dadaismo occidentale, secondo una linea diinterpretazione ormai consolidata che pone in stretta rela-

zione i poetizaumnikicon gli oberiutyda un lato, e conil dadaismo e il surrealismo occidentali dall’altro. Nonè dunque un caso che l’autrice faccia spesso riferimentoagli studi di Luigi Magarotto, Jean-Philippe Jaccard e so-prattutto di Marzio Marzaduri, autore del fondamentale te-sto del dedicato al cosiddetto “dada russo”, e curato-re, insieme alla stessa Nikol´skaja, della raccolta completadelle opere di Terent´ev, apparsa a Bologna nel, non-ché organizzatore di un convegno, tenutosi a Venezia nel, che ha avuto per argomento il futurismozaum´e ildadaismo nella letteratura russa.

All’interno di questa prima e compatta sezione del li-bro si distinguono tuttavia due brevi saggi, rispettivamentededicati all’analisi delle opinioni di Jurij Tynjanov sull’at-tività poetica dei futuristi e deglizaumnikie alla ricezionedelle idee dell’OPOJAZ in Georgia, che, al di là del lorovalore intrinseco, alludono, nel caso in cui non fosse giàevidente, al ruolo svolto dalle idee di Tynjanov nella for-mazione culturale e letteraria dell’autrice. Nella secondaparte del libro è infatti raccolta una serie di saggi dedicatiad autori attivi negli anni Venti, poeti e prosatori “nemagi-stral´nye”, la cui riscoperta, secondo la linea interpretativainaugurata negli stessi anni Venti proprio da Jurij Tynja-nov, non può che arricchire e completare, se non addirittu-ra illuminare, lo studio di una determinata fase letteraria eculturale.

Oggetto di tali ricerche è in primo luogo l’influsso delsettarismo mistico, con particolare riferimento alla settadei chlysty, sulla poesia russa degli anni Venti, nella fat-tispecie sulla poesia di Michail Kuzmin e di due poetesse(Anna Radlova e Ol´gaCeremšanova), entrambe apparte-nenti al gruppo degli Emozionalisti, guidato dallo stessoKuzmin. Altro oggetto d’analisi è l’influenza dell’operadi Elena Guro sulla poesia di autori poco noti come AdaVladimirovnaja, Nadežda Bromlej, Marija Škapskaja, Bo-ris Ender e Aleksandr Tufanov insieme all’attività di poe-ta e prosatore di un autore spesso dimenticato, ma moltonoto e apprezzato nella sua epoca, come Konstantin Vagi-nov, che con il suo primo romanzoKozlinaja pesn offre,in forma parodistica, un quadro ampio e vivace proprio diquell’ambiente culturale che la Nikol´skaja tenta di rico-struire ad anni di distanza. Viene infine riconosciuta anchel’importanza di duepasticheur, molto originali, ma asso-lutamente trascurati dalla critica, come Michail Kazakove Gleb Alekseev, della prosa, molto popolare negli anniVenti, ma in seguito quasi completamente dimenticata, di

eSamizdat, (II)

Konstantin Bolšakov e dell’opera di un poetazaumnikdiseconda generazione, come Aleksandr Tufanov.

Questi saggi, ricchi di ottimi spunti di riflessione e sem-pre molto accurati dal punto di vista bibliografico, costi-tuiscono, singolarmente presi, il frutto di anni di lavorodell’autrice e sono indubbiamente molto utili per chi si ac-costa per la prima volta ad autori in parte o del tutto di-menticati e su cui è spesso difficile reperire informazioni,ma, nel loro complesso, acquistano un ulteriore, e più ge-nerale significato, che solo la terza e conclusiva parte dellibro pone nella giusta luce. L’ultima sezione è infatti de-dicata ai ricordi legati agli anni di formazione dell’autrice,cresciuta a Leningrado tra la fine degli anni Cinquanta e iprimi anni Sessanta, e tali ricordi, così come la sua attivi-tà di studiosa, mirano a salvaguardare una preziosa ereditàculturale che andrebbe altrimenti perduta. Oltre alla figuradi Josif Brodskij, l’autrice ricorda anche altri personag-gi, meno noti, dell’underground leningradese di quegli an-ni, come l’esteta e decadente Aleksej Sorokin e l’originalecantautore Aleksej Chvostenko, ma anche l’erudizione e lapassione per gli autori minori e dimenticati – filo condut-tore dell’intero libro – di suo marito, LeonidCertkov, poiemigrato in Occidente all’inizio degli anni Settanta, e so-prattutto le serate a casa di Ivan Lichacev e di Andrej Egu-nov, i due “vecchi” intorno ai quali si riuniva parte dellagioventù leningradese. Entrambi passati attraverso l’espe-rienza del lager, il primo poeta e traduttore dal portoghese,francese e inglese, il secondo poeta, prosatore, traduttoree studioso di letteratura greca antica, estimatori dell’operadi Vaginov e Kuzmin, loro amici di gioventù, i due “vec-chi” rappresentano per i giovani leningradesi che hannomodo di conoscerli un’eredità da custodire e da non dissi-pare. E sono soprattutto, insieme a personaggi come JakovDruskin, Igor´ Bachterev, Genadij Gor, Ida Nappel´baum,per citarne solo alcuni, i custodi della memoria di quel-la intelligencija a–rivoluzionaria nei confronti della qua-le, per usare le parole di Jurij Tynjanov, nella storia dellaletteratura è stata commessa una grave ingiustizia, dovutaall’influenza della corrente letteraria vincitrice. L’ingiusti-zia, come è ben noto, è stata ben più che letteraria, ma, inmodo del tutto trasversale, la generazione cui appartieneTat´jana Nikol´skaja, è riuscita, all’inizio per vie sotterra-nee, poi sempre più apertamente, a far pubblicare e cono-scere gli autori (Vaginov, Charms, Vvedenskij) che hannopoi profondamente influenzato le generazioni successive.

Milly Berrone

M. Gurgul, A. Klimkiewicz, J. Miszalska, M Woz-niak, Polskie przekłady włoskiej poezji lirycznej od cza-sów najdawniejszych do 2002 roku. Zarys historyczny ibibliograficzny, Universitas, Cracovia 2003.

Ci stupisce in positivo la pubblicazione da parte di unagrande casa editrice di un’opera come questa. Non cre-diamo che in termini di copie vendute questo studio possaraggiungere numeri da capogiro, ma di certo farà la gioiadegli slavisti italiani e degli italianisti polacchi. Compilatoda quattro studiose di Cracovia, città nella quale si troval’università attualmente più vivace per quanto riguarda glistudi italianistici in Polonia, il saggio contiene un’introdu-zione che ospita la cronaca delle alterne fortune dei nostripoeti in quelle terre (ne risulta che il primo a cimentarsi intraduzioni poetiche dall’italiano sia stato Sebastian Grabo-wiecki, che nel pubblicò una sua versione delleRimespirituali di Gabriele Fiamma). Segue l’elenco in ordinealfabetico degli autori tradotti. Esclusi dalla bibliografia,oltre alle opere di teatro in versi, ancheLa Divina Com-media, l’ Orlando Furiosoe la Gerusalemme liberatapermotivi non ben giustificati. Escluse anche le traduzioni diopere italiane tradotte in polacco da un’altra lingua.

Uno studio come questo può essere letto in diversi modi.È innanzi tutto un prezioso strumento di consultazione; mapuò essere divertente anche solo spulciare, piluccare qua elà di tanto in tanto e scovare le tante chicche e curiositàche si nascondono in queste pagine. Stupirà così talvoltail grande numero di traduzioni di poeti in Italia poco co-nosciuti o dimenticati: si tratta spesso di autori di compo-nimenti sulla Polonia e sulla sua storia (il seicentesco Vin-cenzo da Filicaia, ad esempio) o di italiani per vari motivivicini alla Polonia (si scopre che lo slavista Nullo Minissiha scritto poesie, pubblicate in traduzione in Polonia, manon in Italia). Tra le molte traduzioni d’autore citiamo so-lo due “chicche”: una versione mickiewiciana del diChiare fresche et dolci acquee l’esperimento di affidarenel una raccolta di poesie di Salvatore Quasimodo,fresco di Premio Nobel, all’interpretazione di “traduttori”come Broniewski, Jastrun, Iwaszkiewicz, Przybos, Wazyke altri.

Leonardo Masi

Recensioni

S. Aleksievic, Ragazzi di zinco, traduzione e postfazionedi S. Rapetti, edizioni e/o, Roma 2003.

“La guerra. . . ha un significato riposto che mi tormentasempre. Sono cresciuta in mezzo a racconti di guerra. Larivoluzione, la guerra civile, la seconda guerra mondiale. . .Ma nei libri che ne parlavano ho sempre sentito la mancan-za di qualcosa di importante. Si trattava pur sempre dellastoria dello Stato o delle idee generali, ma non dell’ani-ma dell’uomo. A interessarmi era ciò che le persone rac-contavano della guerra a casa propria e non nelle riunioniufficiali e nelle celebrazioni solenni. . . Voglio mettermi acercare e a raccogliere non i racconti degli eroi ma quellidella gente comune”.

In queste parole è racchiusa l’urgenza esistenziale chemuove la giornalista e scrittrice bielorussa Svetlana Alek-sievic alla ricerca di “autentiche” testimonianze di guerra.Ragazzi di zincoè infatti un’opera che riverbera l’espe-rienza della guerra sovietica in Afghanistan attraverso unatrama composta dalle voci dei suoi reduci. I loro raccon-ti danno vita a un coro da tragedia in cui l’autrice dirigee amalgama la materia viva dei ricordi, modellandoli nel-l’insieme unitario del libro. I protagonisti di questa poli-fonia bellica sono in primo luogo gliafgancy, quei soldatisovietici che la guerra, procedendo inesorabile nella sualogica di privazione, ha mutilato ancora imberbi: ragazzi acui è stata sottratta l’esistenza, sono state sottratte gambeo braccia, ma anche semplicemente normalità, speranza.A comporre questo coro sono poi una serie di personaggi“marginali” nell’economia eroica della guerra, le cui vitesono state ugualmente stravolte da essa, così come quelledei soldati. Sono le infermiere, le volontarie, le mogli esoprattutto le madri degliafgancy, che hanno visto tornarea casa i propri figli in bare di zinco sigillate, unico segnotangibile di una guerra nascosta per anni alla popolazio-ne sovietica, camuffata da operazione umanitaria grazie alsupporto di tutte le strategie di potere e controllo in manoalle istituzioni. La bara di zinco diviene allora simbolo ditutta l’operazione militare condotta in Afghanistan e piùancora del sistema sovietico basato su una coercizione at-tuata attraverso la menzogna e l’imposizione del silenzio.Il silenzio non a caso è il nucleo tematico di un convengoorganizzato dalla Aleksievic a Minsk (ottobre) daltitolo Intellektualy: soblazn molcanija.

Ragazzi di zincocostituisce la parte finale di una trilo-gia “corale” dedicata dall’autrice al tema della guerra. Ilprimo libro del trittico,U vojny ne ženskoe lico[La guerra

non ha un volto femminile], collage di racconti di donne-soldato sovietiche nella seconda guerra mondiale, vieneportato a termine nel ma vede la luce due anni più tar-di, quando la censura, ammorbidita dal nuovo corso dellaperestrojka, ne permette finalmente la pubblicazione, finoa quel momento impedita dalle accuse di pacifismo rivol-te dalle autorità alla giornalista.Poslednie svideteli[Gliultimi testimoni], pubblicato insieme al primo libro nel, continua a indagare i retroscena della grande guer-ra patriottica, ma adotta come filtro sul reale lo sguardodi chi all’epoca era bambino, perseverando nella volontàdi ritrarre una guerra meno clamorosa di quella ufficiale,lontana da facili eroismi.

Nella ricerca continua di una dimensione narrativa di-messa e quotidiana l’autrice ci presenta l’opera “afgha-na” suddividendola secondo le tappe del percorso evolu-tivo che ha portato alla stesura, quasi a volerci mostrare lamateria in divenire, dall’intuizione autoriale alla ricezionedel pubblico. Il libro si apre con alcuni appunti di lavoropreliminari, che narrano quella necessità di comprensionee conoscenza che porta la giornalista a interessarsi dell’Af-ghanistan nel, un momento in cui la guerra è anco-ra celata e semplicemente giustificata come dovere inter-nazionalista. Nel quadro frammentario di questa introdu-zione (riflessioni personali, il racconto della permanenza aKabul – settembre –, brevi racconti di guerra, estrat-ti dei quotidiani del, aforismi) la Aleksievic rivela ilproprio orizzonte etico come forte componente intellettua-le. Suffragata da Berdjaev, dal Vangelo, da Shakespearee Kafka, alle volte evocati con la banalità della citazio-ne, con una fretta onnivora per dare respiro universale allapropria ricerca, la scrittrice espone con semplicità l’ogget-to della sua attenzione. È la storia dei sentimenti, ovvero larivelazione di quell’aspetto minuto della guerra, che portaalla demitizzazione di un eroismo astratto: “siamo prigio-nieri dei miti. . . La nostra è una società terrorizzata daideali ed esempi eroici. I nostri eroi sono freddi e irreali.Dobbiamo liberare la vita vera da questa pelle artificialeche l’avvolge. . . Perché resti solo la vita reale. Così che lasi possa penetrare, lì dove pulsa il dolore. . . dove è vivo ilsentimento. . . e vive la memoria”.

Chiarito il suo compito la Aleksievic torna nell’ombra elascia spazio ai racconti, che vengono suddivisi in tre gior-nate, rimando biblico al libro della Genesi, fonte dichiaratadi riflessione per l’autrice, che sembra cercare nelle SacreScritture qualche risposta ai suoi interrogativi sulla natura

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umana. L’incipit di ogni giornata è segnato dalle conver-sazioni telefoniche della giornalista con unafganec, chia-mato “l’eroe principale”, che inizialmente attacca la suainterlocutrice e porta avanti le ragioni di chi è andato inguerra solo per servire la patria e obbedire agli ordini; tut-tavia la conversazione procede e nel contatto con la perso-na che ha svelato la brutalità di quella guerra, la sofferenzadell’ex soldato esplode e così la sua voglia di riscattarsi,di vivere, di dimenticare. L’afganecè una sorta di alterego della Aleksievic, suo interlocutore ideale proprio per-ché rappresenta quella consistente parte dell’opinione pub-blica contraria a una operazione di demistificazione comequella diRagazzi di zinco. Nell’incarnare lo stereotipo delsoldato incattivito, che ha compiuto il suo dovere e che ri-conosce la propria verità solo nel sacco di cellophane incui è contenuto il cadavere del suo compagno, l’afganecdiviene infatti portavoce di quei soldati (vittime di un ter-ribile inganno), a cui non è rimasto altro che difendere lapropria guerra e il martirio per non soccombere all’orrore.

Un punto nevralgico e ricorrente in questa narrazionecorale e immediata dell’epopea afghana scaturisce propriodalla dinamica tra istituzioni e soldato, tra il potere e lasua pedina, tra menzogna e verità: è unanime nelle vocidegli afgancylo sconforto per un sacrificio compiuto innome di qualcosa che non esisteva, il dovere internazio-nalista e la fratellanza col popolo afghano, per una guer-ra affrontata senza la minima preparazione tecnica e incondizioni atroci. La disillusione di molti ragazzi partitisulla scorta di un ingenuo romanticismo si reitera all’in-finito e pone ognuno di essi di fronte al lacerante conflit-to tra il continuare a “credere”, più autentico precetto so-vietico, e la scoperta della verità che ha reso la formulasocialista-internazionalista un dogma ormai scarnificato,sclerotizzato nella sua immobilità e astrattezza.

Ad aggregare questi relitti è poi lo stesso sentimento disolitudine e isolamento rispetto a una società e a un esta-blishment che li ha sacrificati e poi ignorati, che dopo averelargito qualche medaglia ha liquidato la “loro guerra” co-me errore politico. Quella guerra, assoluta e prepotente co-me l’eroina, che non si può relegare al passato perché si èimpadronita di ogni spazio vitale: “se è un errore politico,allora restituitemi le gambe”, dice un ex-tenente.

I punti di convergenza della maggior parte dei raccontisono la scoperta dell’inganno, la narrazione delle condi-zioni catastrofiche riservate dall’Unione sovietica ai suoimartiri, la necessità di ricorrere alle droghe per affrontare

attacchi e spedizioni, l’umiliazione delle donne volonta-rie ritenute semplice merce di scambio, in un più generaleprocesso di mercificazione che porta i più furbi a trasfor-mare l’esperienza afghana in un Eldorado di contrabbando.Al di sopra di queste verità, che hanno il valore di consi-derazioni politiche sulla natura stessa del regime sovieticopiù che sulla guerra in sé e che presentano l’afganecso-prattutto come vittima di quel regime, l’immagine che sileva dai racconti e che poi sedimenta come messaggio as-soluto e universale è quella di un’umanità annullata dallaguerra, che inferocisce, che apprende il gusto di uccidere,che nella logica perpetua della vendetta livella ogni diffe-renza. In questa follia il sangue degli animali si confon-de con quello degli uomini, la brutalità dei sovietici conquella degli afghani. Le vittime si trasformano in carne-fici, l’ingenuo diciottenne russo diviene un assassino, cosìcome il suo nemico. Oltre a svelare l’ipocrisia sovieticaperpetuata per dieci anni, le voci raccolte e filtrate dal-la Aleksievic mettono a nudo e vivisezionano il mecca-nismo dell’odio, la perdita di umanità e dignità in guerra. Iracconti divengono un’analisi a occhio nudo delle trasfor-mazioni di un’umanità messa alle strette, tra vita e morte,vittoria e sconfitta. Il punto di vista oscilla tra la posizio-ne di chi ha combattuto obbedendo senza poter pensare equella di chi invece si è sentito “a casa”, poiché gli è sta-to insegnato solo a riconoscere il nemico per combatterlo:“l’unica esperienza morale di tutti noi era o la guerra ola rivoluzione, non ce ne avevano insegnate altre”. Tutta-via, la sconfitta vera, quella del non aver avuto scelta, è ilcomune denominatore di vittime e guerrafondai.

Prima di chiudere il libro (con l’inquietante racconto suuna madre che vede il figlio trasformarsi in assassino unavolta tornato a casa) la scrittrice riporta alcuni frammentidelle reazioni suscitate dalla pubblicazione dei primi branidel testo, conversazioni, telefonate, lettere. In tal modocontinua a far vivere la sua opera, ricreando ancora unavolta quella struttura polifonica che rappresenta l’elementoportante dei suoi reportage.

Con Ragazzi di zinco, basato su materiale raccolto ingiro per l’URSS e a Kabul dall’ all’, sparisce la di-stanza emotiva con il passato dellaotecestvennaja vojnaritratto inLa guerra non ha un volto femminilee inGli ul-timi testimoni. I racconti sono quelli di una guerra ancorain atto, l’indagine entra nel flusso della storia in divenire.Sicuramente anche per questo motivo quando il libro escein Russia nel le reazioni sono ancora più contrastanti

Recensioni

ed esasperate di quelle che avevano accompagnato l’usci-ta delle prime due opere. Perché a differenza della guerradel–’, che costituisce uno degli episodi eroici fon-danti della storia e della mitologia culturale sovietica, tan-to da far rimpiangere a molti ragazzi di non avervi potutopartecipare (questo ce lo raccontano proprio glicinkovyemal´ciki), il fallimento di una guerra durata dieci anni, ri-battezzata il “Vietnam russo”, è evidente. Forse è per tuttoquesto – una ferita ancora aperta e la verità troppo scomo-da su un potere che si è sbagliato, stremandosi, per diecianni – che nel a Minsk Svetlana Aleksievic vienecitata in giudizio per diffamazione da alcuni degli intervi-stati. Il processo si chiude con una sentenza parzialmentefavorevole alla scrittrice, anche se il solo fatto di ritrovarsisul banco degli imputati svela quella logica perversa, tut-ta kafkiana, che convive con una verità così difficile: “chisiamo dunque? Come mai di noi si può fare ciò che sivuole? Si può restituire a una madre una bara di zinco,e poi indurla a sporgere querela contro lo scrittore che haraccontato di come lei non abbia potuto neanche baciareun’ultima volta il proprio figlio, e abbia dovuto pianger-lo in mezzo alle erbacce, accarezzandone la bara [. . . ] dachi o da che cosa dovreste difendere i vostri figli? Dallaverità?”. Con la Aleksievic un altro tassello va a compor-re il lungo elenco dei processi letterari così cari al regime,e sul casoCinkovye mal´cikiun dossier per la stampa ègià pronto prima ancora che venga avviata la fase istrutto-ria: “non sarei venuta in quest’aula se non ci fossero statele madri, anche se so, d’altra parte, che non sono loro aprocessarmi, ma il defunto regime [. . . ] Dietro le madriintravedo le spalline dei generali”. L’arringa della scrit-trice fatta in aula durante l’ultima udienza, che Rapetti ri-porta nella postfazione, è una dichiarazione d’intenti e unmanifesto letterario, che in poche righe chiarisce – con lasemplicità e la pregnanza proprie del suo pensiero – l’ap-proccio con cui l’autrice si accosta al suo soggetto. LaAleksievic difende il proprio diritto di scrittrice a una vi-sione parziale e soggettiva del mondo, sostenendo un’arteletteraria in cui “un documento non è un certificato di levao un biglietto del tram”. Dalle sue parole emerge l’ideadi un libro che è sì documento, ma al tempo stesso rie-laborazione personale delle voci e degli echi di un’epoca,di una materia viva e multiforme che appartiene a chi laracconta e a chi la ascolta per raccontarla di nuovo. Nel-lo sfondo sociale in cui questi avvenimenti si compiono lascrittrice coglie un’altra, “sua”, verità: l’immutabilità del-

l’homo post-sovieticus, che ha assistito al cambiamento diuna realtà ridenominata, rimanendo però fedele alla logicapreesistente, quella ambigua delcampo socialistae del-la zonacome rappresentanti metonimici di tutta l’Urss. Ilcontinuare a chiedersi “di chi è la colpa” distoglie allora daun problema più profondo, da quell’eterna questione delloCto delat´?che pone l’uomo di fronte a una scelta esisten-ziale: “sparare o non sparare, tacere o non tacere, andarci onon andarci”. Svetlana Aleksievic però non ha fiducia nel-le possibilità di un contatto profondo col sé dell’individuopost-sovietico, ammaestrato con le bandiere rosse a lottaree a odiare, incapace di “vivere, semplicemente vivere”.

L’unica cosa che in questo scenario disgregato rimanevitale, fertile, è la narrazione, che ricompone e rimanda,nella sua trama fitta di echi e memoria, l’immagine diun dolore imposto, dell’annichilimento dell’essere umanonella tragedia collettiva della guerra.

Giulia Bottero

“Poetiche di guerra in Russia”,Vremja “C”. Stichi o Cecne i ne tol´ko, a cura di N. Vin-nik, Novoe literaturnoe obozrenie, Moskva 2001;S. Stratanovskij, Rjadom sCecnej. Novye stichotvoreni-ja, Puškinskij Fond, Sankt-Peterburg 2002.

Le politiche di guerra in Russia appaiono come subdo-le proiezioni che dai vertici di governo, attraverso un’in-formazione ancora troppo controllata dall’alto, giungonoall’opinione pubblica in maniera epurata e distorta. Ciòche una volta era riconoscibile più semplicemente comepropaganda di guerra, si è trasformato in un meticolosolavoro per camuffare gli interessi particolari e le responsa-bilità effettive delle strategie belliche contro la resistenzain Cecenia (Nachce), cioè contro quelle che appaiono or-mai come invincibili bande di guerriglieri. In questo suooperare il governo russo dimostra tuttavia i limiti di unagrossolana maniera di condurre la questione. Da anni èormai diventata un’abitudine fare i conti con le notizie delconflitto ceceno: mass-media, rappresentanti politici e mi-litari convogliano l’idea confusa della guerra in un angoloassordito e raggrumato nella coscienza dei russi, i compar-tecipi silenziosi di un’aggressione spesso presentata comedovuta e inevitabile, atto indispensabile e irrevocabile. Daquando nel l’agente segreto Putin è diventato il con-dottiero del paese e si è presentato al suo popolo di tele-spettatori con carte geografiche della Cecenia alla mano,

eSamizdat, (II)

spiegando nel dettaglio come liquidare qualche migliaio dibanditi sparsi sui monti del Caucaso, nulla è cambiato senon il numero delle vittime stimate. Ai russi non sembravavero di aver trovato l’uomo per risolvere quella scomodaguerra, nocivo residuo di una deriva storica del Novecentocosternato da non pochi sconvolgimenti politici e disgraziesocio-economiche. D’altronde dopo i discorsi alticci e ledecisioni arbitrarie di El´cin, in molti erano a credere chetrovare soluzione al conflitto fosse solo una questione disobrietà politica e di lucidità diplomatico-strategica.

La guerra in Cecenia invece continua ancora oggi e restatanto efferata quanto accettata in modo discreto, cioè pas-sivamente e con distacco. I dati stilati sono inattendibili,ma si parla di decine di migliaia di morti, senza distinzio-ne tra la popolazione civile, i soldati russi (spesso ragazzidi provincia arruolati nemmeno maggiorenni) e i guerri-glieri ceceni, integrati con mercenari musulmani di altripaesi islamici. Non c’è politica, né diplomazia che attual-mente possano paventare credibilità di fronte ai bombar-damenti indiscriminati, agli eccidi da una parte e dall’altrae all’odio gratuito che non trova più contegno. In realtà ilvalore che hanno le vite umane sacrificate in questo con-flitto resta pressoché nullo, se è vero che fa poca differenzadove e cosa succeda e se non si fa nulla di straordinaria-mente concreto per mutare il corso degli eventi. All’or-rore quotidiano dell’indifesa popolazione civile cecena sisovrappone quello estemporaneo che colpisce il cuore diMosca. Ma se nemmeno gli eclatanti e sanguinosi atti diterrorismo, che negli ultimi anni hanno colpito la capitalerussa, riescono a scuotere l’opinione pubblica, è eviden-te che indifferenza e impotenza giocano ad accusarsi finoa mascherarsi in quella sovietica rassegnazione che sem-bra abbia ormai vaccinato il popolo al cospetto di qualsiasiforma di terrore esterno o interno che sia. Lo stato poli-ziesco e la propaganda di governo continuano in tal modoa utilizzare l’idea della minaccia terroristica per giustifica-re la soluzione bellica alla questione cecena, ampliando ilvortice del conflitto e impoverendo ogni reale prospettivadi pacificazione.

Tali sono le politiche di guerra in Russia. Se la retori-ca non può trovare spazio ulteriore alle ragioni umane diun conflitto, al contempo la letteratura russa porta da lon-tano la sua testimonianza di un cinico ricorso storico, checonferma come il Caucaso resti l’eterno teatro di scontroper i russi, impegnati da sempre a domarvi nemici ribellie guerrafondai. La realtà storica e le vicende belliche, che

nell’Ottocento autori come Lermontov e Tolstoj avevanoritratto nelle loro opere, si è tradotta nella contingenza del-la contemporaneità. Pur di fronte a una opinione pubblicapressoché annichilita, l’intelligencija russa cerca oggi difar sentire timidamente la propria voce di dissenso. Si trat-ta spesso di voci singole che si levano da un coro di omertà,come avviene nella prosa di guerra o con il giornalismo didenuncia di autori quali Anatolij Kim o, almeno in parte,A. Prochanov (Idušci v noci; Cecenskij bljuz) e Anna Po-litkovskaja (Vtoraja cecenskaja). Quest’ultimo volume èstato pubblicato nel dicembre del 2003 (in traduzione dalfrancese) con una prefazione di A. Glucksmann dalla casaeditrice Fandango. Si tratta di casi in cui gli scrittori citaticon la loro testimonianza tentano di mantenere l’attenzio-ne dei lettori su un argomento scomodo, così vicino e cosìlontano, tanto tragico quanto manipolato, di cui dopo die-ci anni di conflitto non si riesce ad avere ancora la realepercezione. Per tale ragione anche i poeti russi hanno vo-luto simbolicamente dare il loro contributo, nel tentativo discuotere o di scuotersi la coscienza di fronte alla questionedella guerra.

***

L’antologia Vremja “C” , traducibile comeL’ora “X” ,edita da Novoe literaturnoe obozrenie nel, è un pro-getto ideato da Nikolaj Vinnik, che compare nelle vesti dicuratore della pubblicazione. Come indicato nel sottotito-lo, le poesie raccolte nell’antologia riguardano principal-mente la Cecenia e più ampiamente la condizione umananella dimensione terribile della guerra. Sono esattamen-te centosei gli autori inclusi nella raccolta, poeti di variegenerazioni, di diversa formazione e con idee anche diver-genti, ma legati dal comune intento di sensibilizzare i letto-ri con le proprie impressioni di fronte alla realtà contempo-ranea dei conflitti bellici, che tocca direttamente la Russia.Dal più anziano, Semen Lipkin (), sino al più giovane,Dmitrij Tkacenko (), la schiera di poeti rappresentaben quindici città della Federazione russa, con una pre-valenza di autori moscoviti e pietroburghesi, ma accoglieanche autori emigrati e viventi in Francia, Germania, Sta-ti Uniti, Gran Bretagna, nonché i cugini ucraini, di cui siriportano alcuni testi tradotti in una sezione finale a parte,Priloženie (perevody). Sensibilizzare i lettori sulla disu-manità di qualsiasi conflitto bellico significa per N. Vin-nik partire dal sottolineare la pericolosità di fenomeni co-me la xenofobia, l’intolleranza religiosa, il nazionalismo,l’imperialismo e il terrorismo.

Recensioni

Le poesie sono raccolte su nove sezioni che indicanouna suddivisione tematica e in parte cronologica. La pri-ma sezione, “Vsem znakom etot strach vysoty. . .”, inclu-de i testi che in qualche modo rappresentano i prodromidella guerra, poesie profetiche o in cui è intuibile il pre-sentimento del conflitto. Si tratta di testi scritti prima del. La seconda sezione, “My seem svincovoe semja. . .”,è dedicata alla lirica di guerra, dove spiccano i nomi deipoeti Grigorij Daševskij, Semen Lipkin e Valerij Šubin-skij. Nella terza sezione, “Ne poj, krasavica. . . k stoluli nam vesel´e?”, dominano i temi d’impegno civile; trai poeti di maggior risonanza inclusi in questo sottocapi-tolo compaiono Ivan Achmet´ev, Dmitrij Kuz´min, SergejStratanovskij, Michail Suchotin e Michail Jasnov. Nellaquarta sezione, “Vnov´ orlom gljadit rossijskij gerb. . .”, èsviluppato il motivo del rapporto tra il poeta e lo stato russocon la sua natura e struttura imperialista e spicca il nomedel poeta moscovita Vsevolod Nekrasov. Nella quinta se-zione, “Plac´te po derevljanam. . .”, c’è invece una sortadi spostamento dei temi già descritti verso una dimensio-ne spazio-temporale diversa, non necessariamente attuale.Qui spiccano i nomi del giovane Filipp Kirindas, del poe-ta classicista Sergej Zav´jalov e di Aleksandr Levin. Nelsesto capitolo, “I, podozritel´no igrivy, na novosti pochožisny. . .”, i testi sono caratterizzati dalla stilizzazione del-l’antiutopia, del motivo fantastico e di immagini surreali,come nelle poesie di Dmitrij Aleksandrovic Prigov, Dar´jaSuchovej e Vladimir Strockov. La settima sezione, “I vy-polzet iz bukvy zver´. . .”, include le poesie che hanno co-me tematica centrale il conflitto in Cecenia negli ultimi an-ni; tra i testi di maggior interesse si evidenziano quelli delpietroburghese Dmitrij Golynko-Vol´fson e di Elena Fana-jlova. Nell’ottavo capitolo, “Ptica v kletke ešce poet. . .”,torna il tema della collocazione del poeta nel mondo e in-direttamente del suo sguardo sugli eventi storici in Russiae nel Caucaso. La nona è la sezione di chiusura,Poemyi cikly, caratterizzata dai cicli di poesie e dai lunghi poe-mi dedicati agli argomenti di guerra, tra i quali si eviden-zia in particolare il contributo consistente offerto dal poetapietroburghese Viktor Krivulin.

Questa importante raccolta di alcune centinaia di testipoetici rappresenta un gesto significativo d’impegno civi-le, con cui Nikolaj Vinnik ha voluto portare alla ribalta iltema della Cecenia e della guerra. Ciò che preoccupa inqualche modo l’opinione pubblica trova la sua più profon-da rielaborazione nella poesia, il genere letterario che per-

mette di riflettere sulla situazione reale nel modo più sensi-bile, sottile e arguto possibile. Questo libro si può parzial-mente considerare come cassa di risonanza nel contestodei media, che hanno il dovere di comunicare la realtà sul-la questione cecena, ma lo scopo è alla fine ben più ampiodi quello di raccogliere testi sul motivo della guerra. L’an-tologiaVremja “C” mostra in realtà gli aspetti più tragici esofferenti di una disorientata società russa, colta in tutta lasua complessità, in un’epoca attuale dove motivi culturali,politici, economici, ma anche psicologici, s’intersecano edevolvono in maniera sempre più spasmodica.

***

Tre cicli di poesie e un poema polifonico compongonol’ultimo libro di Sergej Stratanovskij, uscito nel. Ilprimo di questi cicli è omonimo del titolo dato alla pub-blicazione (Rjadom sCecnej) e comprende nove componi-menti brevi esplicitamente dedicati alla guerra e alla Cece-nia (pp.–). Il pensiero di S. Stratanovskij sul conflittoceceno è chiaro: un intero popolo è esposto alle violen-ze indiscriminate, agli eccidi e alle sopraffazioni che ogniguerra porta con sé. Il poeta denuncia la mancanza di capa-cità e di volontà per risolvere il conflitto senza le armi, sot-tolineando la gravità dell’assenza diplomatica, nell’impel-lenza di un dialogo pacificatore, anche se è ormai difficilerintracciare dei possibili interlocutori. La solidarietà versola popolazione civile in Cecenia giustifica il titolo del libroRjadom sCecnej[Accanto alla Cecenia]. Il mostro del-la guerra è stigmatizzato dal poeta attraverso le percezionie le sorti degli eroi quotidiani, siano essi soldati russi ocivili ceceni, che non avendo reali speranze di una vita di-versa e migliore, sembra non possano sottrarsi al pensieroincombente della morte.

La seconda sezione del libro è dedicata a un compo-nimento lungo a più voci (Pcharmat prikovannyj), scrittosullo sfondo della versione cecena del mito di Prometeo(pp. –). Il poeta dimostra in questo caso la sua at-tenzione per la ricca dimensione letteraria, mitologica eprofondamente culturale di un popolo che ha una sua iden-tità linguistica e nazionale ben distinte e che solo per que-sto meriterebbe una considerazione diversa. Pretendere disottomettere la volontà dei ceceni con la costante minacciadella repressione dimostra la miopia di chi conduce taleconflitto. La resistenza dei banditi ribelli si giustifica at-traverso le salde radici storiche di un popolo ora indigente,ora offeso, ma notoriamente combattente, che nel vederedevastato il suo territorio è finito per affidarsi al fonda-

eSamizdat, (II)

mentalismo islamico pur di riscattarsi e vendicarsi controquello che si mostra come l’occupante russo.

Nella terza sezione del libro (Obraz Rossii), che racco-glie le poesie sull’immagine contemporanea della Russia(pp. –), il poeta riflette sull’identità del popolo russonell’epoca post-sovietica. Stratanovskij decostruisce i mitiideologici e l’inganno utopico manifestando quasi la pro-pria vergogna verso certi aspetti della storia troppo spessosanguinaria e dolorosa del proprio Paese. Il folclore con-temporaneo dei ricchi e prepotenti “nuovi russi”, le chi-mere capitalistiche di un contadino del futuro si mescola-no ai personaggi della classicità greca o della tradizionecristiano-ortodossa. I procedimenti stilistici di Stratanov-skij sembrano ormai consolidati, come le costruzioni me-taforiche e lessicali rispondono a meccanismi tipici dellasua poetica. Nelle brevi poesie compaiono neologismi esovietismi accanto a parole composte in maniera strava-gante, ma che moltiplicano la realizzazione semantica deitesti.

Le poesie della quarta e ultima sezione del libro (O bess-mert´e i pochoronach), sono dedicate alla morte (pp.–). Qui è confermata la tendenza ai toni lugubri e pes-simistici di Stratanovskij, il cui humour nero costerna inrealtà tutta la visione d’insieme della raccolta. La denun-cia di una guerra non merita tuttavia altri toni, né una sen-sibilità clemente o compromessa con idealistici pacifismi.Per il poeta la guerra è morte, una morte violenta, miserae priva di senso.

Marco Sabbatini

M. Todorova, Immaginando i Balcani, Argo, Lecce2002.

Il bel libro della storica bulgara Maria Todorova (l’edi-zione originale è del) è senza dubbio un contribu-to importante alla ricerca sui Balcani, cosa che è testimo-niata anche dalla meritata fortuna del saggio, tradotto nel-le principali lingue europee e in quelle dell’area europeasud-orientale.

La suddivisione tematica dei capitoli permette al lettore,esperto e non, di seguire un filo conduttore che ha inizio apartire dallo studio del nome stesso di “Balcani”. Già nel-l’introduzione, però, la Todorova avverte il lettore della na-tura del percorso che intende seguire. Collocare i Balcaniall’interno della discussione intellettuale sull’orientalismo(è qui esplicito il riferimento al saggio di Said), attraverso

la storia, la filosofia e la letteratura, permette di compren-dere come a lungo l’occidente abbia considerato il sud-esteuropeo un’entità altra da sé, come se facesse parte di unmondo oscuro (quello orientale). In questo contesto in-tellettuale di percezione (anche sociologica) dell’altro, na-sce in seno all’orientalismo il feticcio epistemologico del“balcanismo”. Feticcio, appunto, poiché serve all’occi-dente civile, per esorcizzare le proprie paure, relegandolee trasferendole nei Balcani. Dopo aver analizzato il nome“Balcani” e studiato la sua origine sin dall’antichità (l’He-mus latino), si passa allo studio dell’autopercezione deipopoli balcanici che si sono sempre visti attraverso la di-cotomia cristianità-ortodossia e in relazione all’importan-te elemento musulmano. Così facendo, la Todorova arrivagradualmente al nucleo della problematica affrontata. Lefonti con le quali si cerca di capire la nascita del balcani-smo e la sua cristallizzazione nel pensiero europeo, sonorappresentate dai resoconti di viaggio di numerose perso-nalità del mondo politico, letterario, accademico, che dalCinquecento si sono recati nei Balcani con diversi inten-ti. Si notano tra questi i viaggiatori e i diplomatici dellecorti europee in missione nell’Impero Ottomano. Se nelCinque-Seicento si attraversava la Turchia europea, sen-za prestare molta attenzione alle diversità culturali dellepopolazioni soggette alla Porta, il momento di svolta puòessere rintracciato nel XVIII secolo, il secolo dell’Illumi-nismo. La svolta intellettuale nasce intorno al concetto dicivilizzazione, al quale è legata una lunga tradizione sto-riografica connessa all’immagine del turco dispotico e allalotta contro l’infedele. La battaglia di Lepanto del eil fallito assedio di Vienna del furono episodi così ro-vinosi per la Porta, che fecero credere a più riprese all’Oc-cidente di potersi sbarazzare del problema turco. Comemette in evidenza Wolff nel suo interessante saggio sull’in-venzione dell’Europa orientale, gli abitanti della Turchiain Europa erano per gli occidentali qualcosa di indefini-to. I resoconti di viaggio parlavano solamente dell’aspettofisico e dei problemi abitativi di queste popolazioni, sen-za la benché minima volontà di indagarne la storia “etni-ca”. Quindi ciò che dei Balcani era conosciuto, era la lorocomposizione non uniforme e totalmente oscurata dall’e-lemento turco. Queste popolazioni, considerate primitive,servirono da ago della bilancia per legittimare l’alto gradodi civilizzazione raggiunto dall’Europa occidentale. Comespesso avviene nella cultura occidentale, lanostraciviliz-zazione diventa quindila civilizzazione, non essere come

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noi significa quindi non esistere. Seguendo quest’imposta-zione filosofica, che si svilupperà per tutto l’Ottocento, eraggiungerà risultati estremi nel Novecento, si compren-de meglio come i Balcani siano divenuti ilVolksmuseumd’Europa. I Balcani come luogo di “fuga dalla civiltà”,“un reame esotico e fantastico, dimora di leggende di fa-te e altre meraviglie”, diventano quindi l’altro. Loro sonooggi quello chenoi eravamo in passato; un museo deglistadi dello sviluppo civile. Questa opposizione nata dallascoperta dell’altro all’interno di se stessi porta a sradica-re l’essenza storica del sud-est europeo, e a porlo in unaposizione di minorità. Ovviamente a condizionare la na-scita di questa opposizione è stato fin troppo spesso usatoil confronto con l’elemento islamico. Una valutazione sto-rica analitica, comunque, non può prescindere dall’identitàpiù o meno coesa che l’Impero Bizantino prima, e quelloOttomano poi, dettero alla regione. L’altra immagine deiBalcani, quella di un ponte o di un crocevia (e quindi diuna terra di mezzo), contribuì a togliere importanza allaregione. Nell’Ottocento a questi stereotipi si aggiunse lapolitica espansionistica della Russia zarista, in difesa deipropri fratelli slavi. Quindi i Balcani assumono il signi-ficato di avamposto della politica assolutista della Russia,luogo di un possibile rinvigorimento dell’ortodossia. L’al-tro punto di svolta che Maria Todorova rende evidente perl’immagine costruita dei Balcani è il Novecento o meglio,due suoi momenti specifici. Lo scoppio delle guerre bal-caniche consentì agli intellettuali del tempo di consideraredefinitivamente questa regione come luogo selvaggio, di-mora di popolazioni barbare e anarchiche. Ma il grandecrimine, il “marchio indelebile” in epoca contemporaneadei Balcani avvenne con l’assassinio dell’Arciduca Ferdi-nando a Sarajevo a opera di Gavrilo Princip. Quest’episo-dio, se connesso all’handicap dell’eterogeneità etnica del-la regione, offre il terreno adatto per comprendere perchénegli anni venti e trenta si sia così sviluppata l’immaginenegativa dei Balcani, legata a concetti dal significato fintroppo chiaro (instabilità politica, arretratezza economicae perfino razzismo). Qualcuno parla addirittura di “originibalcaniche” a proposito del nazismo. Maria Todorova ciinvita alla fine del libro a riflettere più a fondo sui Balcani,attraverso lo studio di alcuni esponenti dell’intelligencijaaccademica della seconda metà del Novecento. Nell’af-fannosa ricerca di un’Europa centrale, che si innesta al-l’interno della questione sull’Europa orientale, i Balcanisono stati spesso ingombranti e difficilmente collocabili.

Ortodossia, cristianità, slavi e islam sono aspetti che, con-vivendo all’interno della medesima regione, hanno creatonon pochi problemi ai classificatori accademici.

Dopo aver letto il libro della Todorova, non resta cheaugurarci, come fa la stessa storica bulgara, che l’Euro-pa sia in futuro capace di guardare ai Balcani come guar-da a se stessa. Leggere gli avvenimenti balcanici con lelenti della politica, della sociologia e dell’economia, co-me l’Occidente fa per se stesso. Questa regione che haacquisito indirettamente una propria essenza marginale eartificiale, non è l’altro. È divenuta l’altro grazie a ciò chenel corso dei decenni i cosiddetti esperti e osservatori stra-nieri, contravvenendo alle leggi dell’essotopia bachtinia-na, hanno voluto trasmettere, dal loro tipo di interesse peril sud-est europeo. In questo senso si comprende che l’i-dentità balcanica studiata non inerisce alla sua essenza, maè in gran parte dipesa da decisioni classificatorie esterne.Maria Todorova ha finalmente offerto, a partire dalla dedi-ca iniziale, una visione finalmente equilibrata dei Balcani:“ai miei genitori, dai quali ho imparato ad amare i Balca-ni senza provare necessariamente orgoglio o vergogna peressi”.

Giacomo Brucciani

J. Bérenger, Storia dell’impero asburgico 1700–1918, ilMulino, Bologna 2003.

Non può non saltare agli occhi quanto numerosi sianostati negli ultimi venti anni i testi dedicati (e ben prestotradotti in italiano) a un periodo della storia degli Asbur-go che evidentemente continua ad attirare l’interesse deilettori (tanto per fare un elenco in ordine sparso basti ri-cordare quelli di C.A. Macartney, R.H. Kann, A. Sked,A.J.P. Taylor, A.J. May, A. Wandruszka). La pubblica-zione del libro di Bérenger sembra quindi inserirsi da unlato in questa tendenza e dall’altro nell’interessante poli-tica editoriale del Mulino, l’unica casa editrice italiana adavere sottocollane dedicate alla storia della Germania, del-l’Austria e della Russia. Secondo la quarta di copertina illibro dovrebbe per di più “riconnettersi” idealmente all’or-mai classico volume di R.J.W. Evans,Felix Austria. L’a-scesa della monarchia asburgica 1550–1700(testo che pe-raltro risale all’ormai lontanissimo). Si spiega forsein questo modo la scelta editoriale di pubblicare soltanto laseconda parte delle 800 pagine dell’edizione originale deltesto (Historie de l’Empire des Habsbourg 1273–1918, Pa-

eSamizdat, (II)

ris ) e forse non è nemmeno del tutto assente l’esem-pio dell’edizione inglese (uscita in due volumi negli anni–).

Va subito detto però che la scelta consapevole di affian-care il volume di Bérenger a quello di Evans rappresentaun azzardo editoriale compiuto piuttosto a sproposito. Seil testo di Evans resta ancora oggi il libro che ogni storicoche si occupa di Europa centrale vorrebbe scrivere, questonon si può certo dire del libro di Bérenger, che per certiversi invece rappresenta forse l’apice, ma allo stesso tem-po anche il simbolo, di un modo di fare storia oggi messoprofondamente in discussione. La storia di Bérenger è in-fatti una storia molto classica, incentrata quasi esclusiva-mente sulle vicende politiche e diplomatiche. E, anche sesi tratta di filoni di studi che continuano ad avere grandefortuna (soprattutto in Italia), non si può negare che pro-prio il confronto con il ben più articolato testo di Evanstradisca tutte le debolezze di quest’approccio, che peral-tro ben si inserisce in quella certa passione del Mulino pertesti tradizionali e piuttosto “scolastici” che è emersa re-centemente anche con la pubblicazione dei due deludentivolumi di H. Schilling dedicati alla Germania.

La Storia dell’impero asburgicodi Bérenger è un libroche ha comunque molti pregi (alcuni dei quali a dire il veroerano più evidenti nella prima edizione francese e riguar-dano più la parte non tradotta in italiano del testo), primofra tutti quello di essere davvero un solido manuale sco-lastico di storia politica. Per certi aspetti anzi si potrebbedire che rappresenta il culmine di quella tendenza al revi-sionismo delle verità intoccabili professate per buona partedel Novecento dalle varie storiografie “nazionali” (di de-rivazione più o meno ottocentesca) che si sono occupatedell’area asburgica. Alla visione ristretta delle varie in-terpretazioni statali del passato asburgico diffuse ormai daquasi due secoli in Boemia, Austria e Ungheria, Bérengeroppone la rivalutazione del ruolo degli Asburgo, a parti-re dalla guerra di successione spagnola, nella creazione diquello stato cosmopolita che poi diventerà alla fine dell’ot-tocento l’Austria-Ungheria (varrà la penaen passantdi ri-cordare che comunque ilMito absburgico nella letteraturaaustriaca modernadi C. Magris è del).

Bérenger era stato il creatore dell’immagine della diar-chia tra sovrano e aristocrazia che tanta fortuna ha poi avu-to nel descrivere la struttura del potere nella monarchiaasburgica: rivalutando il ruolo delle famiglie aristocrati-che, degliStände(i ceti, gli stati) e delle Diete provinciali

delle varie entità territoriali che gli Asburgo governavano,lo storico francese era infatti implicitamente giunto a unaprofonda revisione di che cosa è stato l’assolutismo asbur-gico (etichetta che peraltro continua a regnare sovrana intanti manuali scolastici). Anche in questo libro l’autoreconferma la sua dettagliata conoscenza della situazione fi-nanziaria della monarchia e dei problemi delle province(varrà la pena ricordare che a suo tempo era stato davve-ro illuminante il suo pioneristicoFinances et absolutismeautrichien dans la seconde moitié du XVIIe siècle, Paris). Vincente si è rivelata da questo punto di vista an-che la scelta di scommettere sulla questione delle rifor-me, sempre imminenti e sempre rimandate, per spiegareil nascere, il rafforzarsi e il proliferare delle tendenze di-sgregatrici in seno alla monarchia stessa. Si tratta quin-di di un solido volume che trae il meglio da quella visio-ne politico-diplomatica della storia che si rivelava ancoraqualche decennio fa dominante un po’ in tutt’Europa.

Penalizzante invece si rivela l’impostazione fin troppotradizionale di un testo in cui la periodizzazione è anco-ra scandita dal succedersi dei sovrani e in cui il raccontodelle vicende di politica estera e interna occupa più o me-no il percento del volume. E non sempre la scelta dirivisitare molte delle questioni che più hanno attirato glistorici negli ultimi decenni (la politica di Maria Teresa edi Giuseppe II, la questione dell’assolutismo prima e del-l’illuminismo poi, le rivoluzioni del, il compromes-so austro-ungherese del, la politica imperialistica esuicida di Francesco Giuseppe) distruggendo l’immaginedella monarchia asburgica come “prigione dei popoli” sirivela sufficiente a garantire l’originalità del testo. Le mol-te ripetizioni disturbano non poco la lettura del libro, nelquale sono sopravvissuti alle varie revisioni e traduzionialcuni errori marchiani davvero sorprendenti: il più cla-moroso è forse il passaggio sulla “corrispondenza in cecodi Leopoldo I con il suo amico, il conte di Czernin” (p.), che dovrebbe servire a problematizzare il supposto at-teggiamento penalizzante degli Asburgo nei confronti del-le culture nazionali, mentre potrebbe al massimo essere unargomento contrario (la corrispondenza è infatti in italia-no e rappresenta uno dei migliori esempi della diffusio-ne capillare della nostra lingua alla corte degli Asburgo;l’errore è provocato dal fatto che l’edizione parziale del-la corrispondenza, opera dello storico ceco Z. Kalista, ècommentata in ceco).

Anche se poi si può magari anche essere d’accordo sul

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fatto che alla fine della guerra mondiale per la Monarchiaasburgica non esistevano altre strade oltre alle quattro trat-teggiate da Bérenger (conservazione dell’unità garantitadagli Asburgo, creazione di tanti piccoli stati cuscinetto,espansionismo tedesco e avanzata dell’imperialismo rus-so), e magari anche sul fatto che la prima delle soluzio-ni (ma solo alla luce di quanto successo nel Novecento)avrebbe potuto rallentare, e magari evitare (al limite solonella nostra fantasia), il tragico succedersi delle altre pos-sibilità, va comunque posta la questione se per la storia nonsia definitivamente arrivato il momento di abbandonare ilpiano del giudizio e delle speranze più o meno utopisti-che per dedicarsi a una ricostruzione storica diversa e mol-to più profonda dei processi in atto nelle società che de-scriviamo, perché è indubbio che nei secoli tratteggiati daBérenger all’interno della monarchia asburgica è successomolto più di quanto l’autore vorrebbe farci credere.

Alessandro Catalano

Tra speranze e delusioni. La Bulgaria a Versailles, acura di R. Tolomeo, Lithos, Roma, 2002.

La raccolta di saggi contenuti nel volume curato da Ri-ta Tolomeo va a incrementare, quantitativamente nonchéqualitativamente, gli studi dedicati alla storia dei Balcani ein particolare a uno degli stati più importanti della regione.La storia della Bulgaria in particolare ha ricevuto in Italia,nell’ultimo secolo, un’attenzione altalenante, legata per lopiù alle contingenti situazioni politiche. Non c’è stato peròun interessamento sistematico, com’è avvenuto nel caso dialtri paesi dell’Europa orientale, come l’ex Unione sovie-tica, l’ex Cecoslovacchia, la Polonia. Considerata spessocome il limite geografico e anche culturale dell’Europa, laBulgaria ha via via assunto la connotazione di una via dimezzo tra l’occidente e l’oriente. Il legame con la Russiazarista, e successivamente con l’Unione Sovietica, inoltre,sebbene giustificato da importanti aspetti della vita cultu-rale, confessionale e politica, ha portato a un sostanzialeoccultamento della specificità nazionale del paese. Speci-ficità che è ora accuratamente studiata, in molte delle suesfaccettature, nel volume in questione, incentrato sulla si-stemazione territoriale bulgara post-bellica, attuata in oc-casione dei Trattati di Pace di Versailles, e sui problemi chela Bulgaria si trovò ad affrontare in campo internazionale.

Il saggio introduttivo di Antonello Biagini,L’Europa diVersailles e lo Stato bulgaro, permette di far luce in mo-

do chiaro e preciso su alcuni aspetti politici e sociali dellastoria recente della Bulgaria, necessariamente legati allastoria balcanica contemporanea e ai riflessi che in questaregione ha avuto la sistemazione territoriale post-bellica.Il saggio di Paolo Bertoia,Le relazioni tra la Germaniae la Bulgaria dal crollo del fronte macedone al Trattatodi Versailles (1918–1919), affronta con estrema chiarez-za i rapporti della Bulgaria con il suo principale alleato diguerra, dedicando il giusto peso alle rivendicazioni territo-riali bulgare sulla regione della Dobrugia. Il contenziososulla sistemazione geopolitica dei Balcani terminò infattisolo quando il Reich tedesco ridefinì i propri rapporti di-plomatici con gli alleati della regione (la Bulgaria nel no-stro caso) alla luce delle acquisizioni territoriali tedeschedopo la firma della pace di Brest Litovsk del.

Il sistema nato a Versailles nel ha sancito sul pianodiplomatico il principio dell’autodeterminazione dei popo-li, cioè la formazione di stati-nazione fondati sul principiodella comunità etnica. Il nuovo ordine politico ha porta-to, specialmente nell’Europa orientale, a due conseguen-ze importanti. Prima di tutto bisognava definire i confinidegli stati all’interno dei quali dovevano nascere le singo-le nazioni. Se s’intende la nazione come unità linguisti-ca e culturale, realizzatasi storicamente, si comprendonoimmediatamente le rivendicazioni bulgare sulla Macedo-nia, derivate dalla tradizione degli antichi stati medievali.La difficoltà di conciliazione tra i confini etnici e confi-ni storici conduce poi direttamente al secondo problemachiave: i confini etnico-linguistici, questione di difficiledefinizione soprattutto a causa del continuo intersecarsi esovrapporsi di popolazioni diverse. Anche questa proble-matica ha le sue radici quindi nel concetto di nazione, chein Europa orientale si definisce soprattutto come comunitàetnico-culturale, sviluppando quindi ulteriormente l’ideadi un nazionalismo etnico, contrapposto al nazionalismocivico dell’Europa occidentale. I nuovi stati-nazione, na-ti alla fine della prima guerra mondiale, dovevano quindiper forza di cose affrontare il problema delle minoranzeetniche interne, che in molti casi venivano discriminate egli appartenenti alle minoranze venivano ridotti a cittadi-ni di seconda categoria. Il malcontento delle minoranzesi manifestava del resto anche fuori dei confini stabiliti: èad esempio questo il caso dei macedoni della Jugoslaviache guardavano alla Bulgaria come stato-nazione simbo-lo. Il problema dei confini etnici è affrontato con cura daisaggi di Rita Tolomeo,Problemi etnici e territoriali bul-

eSamizdat, (II)

gari tra l’armistizio di Salonicco e la pace di Neuilly, edi Giuliano Caroli,L’Italia e la definizione del confine traGrecia e Bulgaria (1919–1922). Sullo sfondo della maisopita idea di una Grande Bulgaria, negata dal trattato diBerlino del giugno–luglio che rivedeva le precedentirisoluzioni del trattato di Santo Stefano del marzo, ilsaggio di Paola Storchi,Alle origini del colpo di stato del19 maggio 1934: nascita e sviluppo del circolo Zveno, illu-stra dettagliatamente la struttura del circolo dagli evidentitratti massonici che porterà poi in Bulgaria alla soppressio-ne del pluralismo e del sistema costituzional-parlamentare.Anche in questo caso, ovviamente, il riferimento alla que-stione territoriale, e in particolare alla Macedonia, è unodei presupposti di partenza fondamentali di tutta l’analisi.

I due saggi che concludono il volume affrontano dueinteressanti tematiche, che senza dubbio sono una novi-tà assoluta per il panorama di studi italiano. Il saggiodi Stoico Grancarov, Il pensiero economico in Bulgaria(1915–1944), abbraccia un arco di tempo molto ampio, maallo stesso tempo estremamente indicativo per indagare ilpercorso teorico e pratico che ha compiuto il pensiero eco-nomico bulgaro alle prese con due guerre mondiali e conun periodo interbellico molto turbolento. Il saggio di An-tonina Kuzmanova,La storiografia bulgara e la politicaestera della Bulgaria dopo Versailles, va infine a colmareun vuoto di studi (persino in Bulgaria) sul fondamenta-le tema della presa di coscienza della questione nazionaleda parte della classe politica e accademica alla luce delladisfatta bellica.

In definitiva il volume sulla Bulgaria a Versailles, fruttodi una collaborazione accademica italo-bulgara, dimostratutta la sua importanza sia per i temi trattati, che per il ten-tativo riuscito di infrangere tanti luoghi comuni e rimette-re in discussione le rigide categorie imposte a suo tempoanche in campo storico dalla dottrina ufficiale del partitounico. La raccolta di saggi, inoltre, ci fa essere ottimistisulla ripresa degli studi bulgaristici in Italia, fino a oggilegati quasi esclusivamente ad analisi di tipo linguistico-filologico. Se nel la Bulgaria entrerà effettivamen-te a far parte dell’Unione Europea, credo che sarà davve-ro opportuno contribuire con studi specifici a un’integra-zione che non sia solamente di tipo economico, ma ancheculturale e di reciproco scambio intellettuale.

Giacomo Brucciani

Glosse storiche e letterarie I,

G.B. Manni, Vecný pekelný žalár. Do ceštiny prevedlMatej Václav Šteyer, k vydání pripravil M. Valášek,doslov napsala A. Wildová-Tosi, Atlantis, Brno 2002.

“Das schrecklichste aller Bücher” erano le parole concui Dobrovský, per l’espressività con cui il gesuita rac-contava le pene dei dannati, aveva liquidato nel latraduzione ceca del libro di Manni. Nell’efficace tradu-zione di una delle figure più attive in campo letterario delsecondo Seicento ceco, il gesuita M.V. Šteyer, il testo (chel’anno scorso ha raccolto anche il provocatorio voto di P.Ouredník come migliore libro dell’anno nella tradizionaleinchiesta del quotidiano Lidové noviny), pubblicato a Pra-ga nel, diventa una delle più efficaci espressioni diquella che è stata efficacemente definita “l’offensiva cul-turale” controriformista dei gesuiti. Curiosamente quin-di anche se G.B. Magni è figura del tutto marginale nellaletteratura italiana, e del tutto dimenticata è la sua ope-ra La prigione eterna dell’inferno disegnata in immaginiet espressa in essempii al peccatore duro di cuore(Vene-zia ), l’assimilazione del libro da parte della culturaceca è arrivata al punto che, in tutte le storie della lettera-tura successive a Dobrovský (Jungmann, Vlcek, Jakubec),il volume di Manni è sempre stato preso a simbolo delladecadenza culturale ceca nel Seicento. In realtà oggi pos-siamo guardare in modo più pacato a questo segmento delpassato culturale della Boemia e verificare che anche il li-bro di Manni appartiene a quel tipo di testi, assimilati dallacultura ceca in quel complesso e difficile processo di ap-propriazione del codice culturale cattolico, che a lungo erarimasto estraneo all’Europa centrale. Come avviene anchein altre zone limitrofe, in ceco vengono infatti tradotti ingran quantità i testi pedagogico-religiosi prodotti dagli spi-rituali e dai religiosi italiani, allo scopo preciso di fornireai missionari che attraversano il paese le armi pedagogichesenza le quali il processo di ricattolicizzazione dello spazioboemo sarebbe impensabile. Oggi la traduzione del librodi Manni viene riproposta all’interno dell’originale collanaThesaurus absconditus della casa editrice Atlantis (il pri-mo volume pubblicato era stato, nel, uno degli scrittipolemici più curiosi del Settecento ceco,Zeme dobrá, tojest zeme ceská). La traduzione di Šteyer è accompagnatada una puntuale postfazione di A. Wildová Tosi (“OsudyVecného pekelného žaláre a jeho místo vceské literature”,pp. –) che salda un vecchio debito della boemisticaitaliana, visto che già nel Vašica auspicava uno stu-

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dio più approfondito del testo. Oltre a offrire un’analisi delmotivo dell’inferno nella lettura ceca, l’autrice ripercorrele vicende storiche e il “successo” del libro tra i critici let-terari cechi, e propone anche la prima analisi delle fonti siadi Manni che di Šteyer. Il testo di partenza infatti, proprioper la sua struttura “aperta”, offriva possibilità notevoli diampliamento e approfondimento che sono state sfruttate afondo da entrambi gli autori: Manni trae molte delle sueimmagini dal trattato ascetico del gesuita spagnolo JuanEusebius NieremberDe la diferencia entre lo Temporal yEterno() e Šteyer a sua volta amplia e modifica il te-sto di Manni, al punto che si può quasi parlare più di un“riadattamento dell’originale” che di una traduzione verae propria (le fonti primarie sono in questo caso la bibbiae lo Speculum exemplorum, ma anche molti testi meno fa-mosi, tra i quali spicca l’interessante aggiunta della visionedi Francesca Romana). Sia l’edizione ceca che quella te-desca sono state pubblicate nel e fanno parte di unmomento di grande diffusione dell’opera di Manni in Eu-ropa centrale, probabilmente legata alla presenza di Mannia Vienna, dove per qualche tempo ha ricoperto la funzio-ne di predicatore e confessore alla corte dell’imperatriceEleonora. È curioso notare fino a che punto possano cam-biare le coordinate culturali: la versione ceca dellaPrigio-ne eterna dell’infernotorna in libreria, a più di trecentoanni dalla prima edizione e con le terribili illustrazioni ori-ginali, avvolta da una fascetta rossa che annuncia il ritornodel “più terribile di tutti i libri”.

Quellenkunde der Habsburgermonarchie (16.–18. Jah-rhundert). Ein Exemplarisches Handbuch, a cura diJ. Pauser, M. Scheutz e Th. Winkelbauer [Mittei-lungen des Instituts für Österreichische Geschichtsfor-schung. Ergänzungsband 44], R. Oldenbourg Verlag,Wien-München 2004.

Uno dei principali trend della ricerca storiografica inambiente austriaco e tedesco è stato negli ultimi anni, inmodo molto più evidente che in Italia, un ritorno a unostudio più rigoroso delle fonti. Certo fonti di tipo diver-so rispetto a quelle di cui si occupava prevalentemente lastoriografia positivista ottocentesca, ma pur sempre fon-ti d’archivio. Forse per una ritrosia congenita del tedesconei confronti dei castelli di parole senza solide basi testua-li, uno dei centri in cui più profonda è stata negli ultimianni la riflessione sul legame tra fonte storiografica e riela-borazione storica è stata Vienna. Il grande successo degli

studi sulla corte imperiale hanno profondamente cambiatolo stato delle nostre conoscenze sull’argomento e molti deilibri “canonici” fino a pochi decenni fa sembrano oggi de-finitivamente invecchiati. Il punto d’arrivo di questo pro-fondo ripensamento è un volume di più di mille pagine chefarà sicuramente la felicità non solo di qualunque studentema anche di tutti quegli specialisti che non hanno la fortu-na di occuparsi esattamente del tema di cui tratta il singolointervento: gli ottanta saggi, per lo più appartenenti alleprime due grandi categorie in cui è diviso il volume (In-stitutionene Gattungen, le altre sonoBilder und Dingee,la più modesta, visto che contiene un solo articolo,Medie-narchäologischer Ausblick), agevoleranno sostanzialmen-te la fase di iniziale orientamento in campi di studio diver-sissimi. Il volume infatti ha il grande merito di raccogliere,in un contesto di sempre maggiore specializzazione deglistudi, testi dedicati a temi molto lontani tra loro e offre unquadro esaustivo dei risultati ottenuti in campi molto di-versi fra loro da due generazioni di storici. La scommessa,ampiamente vinta, dei curatori era quella di non limitare lostudio dei materiali alla sola Vienna, ma di ampliare, neilimiti del possibile, l’orizzonte a tutta la monarchia asbur-gica (molto rappresentate sono infatti Boemia, Moravia eUngheria) e offrire in questo modo a chiunque voglia av-venturarsi nelle ricerche d’archivio uno strumento di par-tenza su materiali spesso citati, ma in realtà poco utilizza-ti. Quasi impossibile è dare un’idea precisa del contenutoconcreto del volume, visto che si spazia da testi molto spe-cifici dedicati alle memorie di un singolo, fino ad analisi diben più ampio raggio che riguardano il mondo militare, lacorte, il consiglio segreto, i governi regionali e gliStändedelle singole province, o l’importante (e spesso trascura-to) rapporto delle terre ereditarie con l’Impero. Particolar-mente innovativa, nell’impostazione del libro, è lo spaziodedicato a fonti fino a pochi anni fa del tutto trascurate dal-la ricerca storiografica: i diari (anche qui lo spazio copertova dalle memorie dei nobili fino alle cronache familiari),gli scambi epistolari (da quelli ricchissimi di Leopoldo Ie degli eruditi alla normale corrispondenza quotidiana) e iprimi giornali (sia stampati che manoscritti). Le voci so-no state scritte dai maggiori specialisti dei rispettivi set-tori, tutti studiosi che negli ultimi anni hanno avuto ripe-tutamente occasione di frequentare gli archivi dell’Europacentrale e di “riscoprire” molte fonti apparentemente di-menticate. Si tratta di un volume che, oltre a riscoprire erendere accessibili a un pubblico più vasto molte di queste

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fonti, si presenta come uno strumento utilissimo di cui saràimpossibile, nei prossimi anni, non tenere conto.

Z. Kalista, Valdštejn. Historie odcizení a snu, Vyšehrad,Praha 2003.

La pubblicazione della monografia sul Wallenstein “néimperatore né re” di J. Polišenský e J. Kollmann (Valdš-tejn. Ani císar, ani král, Praha) ha dato il via nellastoriografia ceca a una vivace ripresa della discussione sulreale ruolo svolto dal generalissimo negli ultimi anni dellasua vita. La tesi dell’innocenza di Wallenstein, del ruolonegativo svolto in tutta la vicenda dalla diplomazia spa-gnola e della serietà dei suoi piani di pace (Wallensteinsarebbe stato spinto soprattutto dal desiderio di raggiunge-re la pace universale e rivolgere le armi dei cristiani con-tro i turchi), è stata poi sviluppata soprattutto da J. Koll-man che, in due monografie (Valdštejn a evropská politika1625–1630. Historie 1. generalátu, Praha, e Valdš-tejnuv konec. Historie 2. generalátu 1631–1634, Praha), ha cercato di mettere in discussione la a lungo do-minante tesi di J. Pekár, che era stato il maggior sosteni-tore della tesi del tradimento consapevole di Wallenstein.Pur senza tener presenti gli importanti studi di Ch. Kamp-mann (in particolareReichsrebellion und kaiserliche Acht,Münster) e senza portare grandi scoperte documenta-rie, le tesi di Kollmann hanno trovato largo consenso nellapubblicistica ceca e, in certi casi, anche tra gli storici.

In questa cornice piuttosto movimentata è apparsa di re-cente un’altra monografia dedicata a Wallenstein, pubbli-cata a quasi trentacinque anni di distanza dalla sua stesura.L’autore è una delle figure più interessanti del Novecen-to letterario ceco: dagli esordi letterari come poeta d’a-vanguardia, Zdenek Kalista è passato infatti attraverso unaconversione al cattolicesimo in occasione di un viaggio ro-mano e poi al mestiere di storico di professione. Imprigio-nato all’inizio degli anni cinquanta per attività antistata-le, ha continuato a lavorare dopo la sua liberazione, purdovendo fare i conti con quei sempre più gravi problemialla vista, che lo avrebbero poi portato alla cecità assolu-ta. Kalista è, assieme a VáclavCerný, uno degli autoripiù pubblicati degli anni Novanta e la tendenza non sem-bra ancora arrestarsi: chi ha avuto occasione di sbirciarenei loro archivi sa bene del resto con quanta cura preparas-sero per la stampa testi che spesso sapevano di non poterpubblicare se non a distanza di molti anni. A differenza diCerný, Kalista ha dovuto attendere più a lungo, sia per un

oggettivo minore interesse nei confronti di un approcciostoriografico a volte marcato da un fastidioso cattolicesi-mo di sottofondo (quella “storiografia spirituale” di cui èstato il maggior propagatore), sia per il carattere speciali-stico di molti suoi lavori. Non è questo però il caso dellamonografia su Wallenstein che anzi, come abbiamo visto,si inserisce in un filone di grande successo editoriale de-gli ultimi anni e doveva essere pubblicata alla fine deglianni Sessanta in un’edizione dedicata al grande pubblico.La casa editrice Vyšehrad inaugurando la nuova collana“Le grandi figure della storia ceca” ha deciso di pubblicareun testo di cui si conosceva da tempo l’esistenza, ma chenon era stato finora reso accessibile al pubblico, soprat-tutto perché si era ben consapevoli del fatto che gli annipassati rischiavano di farlo sembrare antiquato. Effettiva-mente l’iniziativa va vista più come un omaggio all’operadi Kalista e alla sua concezione della storia e come il ri-sultato delle ricerche degli storici cechi alla fine degli anniSessanta, che come un originale apporto allo studio del tra-dimento del più famoso generale degli Asburgo. La chiaveinterpretativa di Kalista è piuttosto semplice: Wallensteinsarebbe “un uomo sradicato, che non conosce nessuna sen-sazione profonda di appartenenza, né in senso nazionale néin quello religioso o politico, il rappresentante di un indi-vidualismo illimitato” (p. ). Alla luce di questo puntodi partenza e con l’obiettivo piuttosto chiaro di polemizza-re con il suo professore, J. Pekár, Kalista ripercorre tuttala vicenda esistenziale di Wallenstein. Per un uomo privodi radici è quindi semplice dare avvio a quella “specie digioco. . . pieno di strani sotterfugi, tergiversazioni e simu-lazioni” (p. ) che lo porterà alla morte. La decisione dipuntare alla pace anche contro le direttive dell’imperatore,e senza tener conto dei suoi ordini, è qui interpretata comeuno dei tanti episodi in cui lo sradicamento di Wallensteinlo porta a giocare d’azzardo, a rischio della propria stessavita. Si tratta indubbiamente di un sistema interpretativopiù intelligente di quello, pure così diffuso, che punta tuttosulla pazzia e la passione per gli oroscopi di Wallenstein,ma che rimane molto al di sotto della ricchezza fattualedella monografia a tutt’oggi fondamentale sul tema, quelladi G. Mann, che pure ha scelto la stessa strada di Kalista,quella di una storia da raccontare con gli strumenti dellanarrativa.

Varrà la pena di concludere questa breve rassegna su unadelle figure più studiate della storia dell’Europa centralesegnalando un’interessante edizione (P. Balcárek, “Cheb-

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ská exekuce ve svetlé korespondence srímskou kurií”,Pocta Josefu Kollmannovi, a cura di A. Pazderová, Praha, pp. –). P. Balcárek, uno dei pochi storici cechiche frequentano con assiduità le biblioteche romane, è trai più decisi propagatori delle “scoperte” di Kollmann e indiversi articoli ha sostenuto la tesi che il celebre condottie-ro sarebbe stato “tradito, non traditore”, usando le paroledel nunzio Carlo Caraffa. In un recente volume di scarsadiffusione, dedicato proprio a Kollmann, Balcárek ha pub-blicato il carteggio tra il nuovo nunzio alla corte imperiale,Ciriaco Rocci, e Francesco Barberini nel periodo compre-so tra il febbraio del e il maggio dello stessoanno. Anche se le notizie di Rocci non si caratterizzanoné per originalità né per quantità di nuovi dettagli, dimo-strano quanto infondata sia l’idea che in questa vicendasia stato detto tutto ciò che si poteva dire. Particolarmen-te significative sono le relazioni di Rocci nel confermarel’astio sviluppatosi a corte nei confronti degli italiani coin-volti (Piccolomini in particolare si era “reso odioso allanazione Alemanna”, p.) e i dubbi circolati fin dal primomomento che “la fellonia, e tradimento del duca, non restiben giustificato” (Ibidem). Anche se ci si poteva aspetta-re una pubblicazione ben più ampia di materiali da partedi chi sta lavorando all’edizione della nunziatura più im-portante del Seicento, quella di Caraffa, non si può nonnotare che, rispetto ad altri articoli, in questo caso l’autoreha offerto alla comunità scientifica utili materiali che ap-profondiscono le nostre conoscenze su una vicenda su cuipure esiste una bibliografia sterminata.

I. Pfaff , “Jalta: d elení sveta nebo legenda? Zceskoslo-venského zorného úhlu”,Paginae historiae, 2002, 10,pp. 108-152.

Incredibilmente pubblicato su una rivista dalla scarsis-sima distribuzione, l’articolo di Pfaff è una delle miglio-ri ricostruzioni di un problema spinoso e spesso discus-so dalla storiografia che si è occupata dell’assetto stataleuscito fuori dalla seconda guerra mondiale: la leggendadella conferenza di Jalta. Pur incrinata già dai lavori diB. Cialdea all’inizio degli anni Settanta, la leggenda dellaspartizione del mondo a Jalta si è infatti rivelata ben du-ra a morire e, anche se ormai è diffusa la coscienza chel’importanza reale dell’episodio (che aveva lasciato a tut-ti la possibilità di interpretare a proprio modo le decisioniprese) venga sopravvalutata, è pur vero che l’episodio haconservato un valore simbolico molto elevato. L’analisi di

Pfaff dei documenti a nostra disposizione sulla vicenda ce-coslovacca ricostruisce in modo stringente la nascita dellaleggenda sulla separazione del mondo che, come tutte leleggende, ha poi trovato la sua consacrazione romanticanella scena dei foglietti su cui i potenti della terra si divi-dono il resto del mondo. Particolarmente significativa è lascena con cui si conclude l’articolo (che sarebbe auspica-bile venisse pubblicato presto come libro), quella in cui ilsempre più potente Višinskij risponde appena un paio disettimane dopo la conferenza alle proteste dei romeni conuna frase semplice, ma efficace: “Jalta? E che significaJalta? Jalta sono io” (p.).

J. Lehár, La letteratura ceca medievale. Il contributo diRoman Jakobson alla medievistica ceca, Udine 2003;M. Špirit , Bohumil Hrabal: una sfida per storici ed edi-tori, Udine 2003;J. Wiendl, Cercatori di bellezza e ordine. la letteraturaceca di orientamento cristiano nella prima metà del XXsecolo, Udine 2003;T. Glanc, Tendenze della letteratura russa contempo-ranea. Breve rassegna di movimenti, temi e problemi,Udine 2003.

Dopo l’importante conferenza del dedicata alletendenze più recenti delle letterature russa, polacca, ser-ba, ceca e ungherese (Cinque letterature oggi, a cura diA. Cosentino, Atti del Convegno Internazionale, Udine,novembre–dicembre, Udine ), l’università diUdine ha sponsorizzato nel la pubblicazione di quat-tro fascicoli di “lezioni e letture”, uno strumento didatticoper gli studenti che ripropone, con traduzioni di studenti oex studenti, le conferenze più interessanti tenute nell’am-bito del programma Socrates da insegnanti dell’universitàdi Praga (almeno questo è avvenuto per i fascicoli finorapubblicati). L’idea è in fondo semplice: perché rinunciarealla pubblicazione di tutti quei materiali (e alle rispettivetraduzioni) che oggi molte università producono in granquantità? I primi quattro fascicoli sono dedicati a proble-mi molto diversi e testimoniano di tendenze diverse dellaricerca ceca post: il loro significato per gli studen-ti dipende quindi molto anche dallo stato delle ricerchesull’argomento in questione a disposizione in italiano.

Il testo di Lehár, uno dei maggiori esperti di letteraturaceca antica in circolazione, ripercorre la struttura evolutivadella letteratura ceca medievale, comparando le interpreta-zioni che le varie sintesi letterarie hanno offerto di que-

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st’epoca, e offre un quadro molto sintetico, ma allo stessotempo sufficientemente chiaro, degli autori e dei testi piùsignificativi. Nella seconda delle sue lezioni analizza ilcontributo dato da Jakobson al tema e, pur riconoscendol’immensa importanza degli studi di Jakobson, giunge allaconclusione, sostanzialmente giusta, che “oggi leggiamogli studi di Jakobson con la consapevolezza di dover di-stinguere in essi, passo dopo passo, la conoscenza positivadalle ipotesi non dimostrate che sono talvolta formulatecome conoscenza positiva” (p.). Per uno studente, cheha in italiano a disposizione gran parte degli studi origi-nali di Jakobson su cui si sofferma Lehár, è sicuramenteimportante poter ascoltare non soltanto le voci di studiosiitaliani sul tema, ma anche una delle più autorevoli vociceche. Non sempre i giudizi infatti coincidono.

Il più problematico dei testi pubblicati è quello che do-vrebbe essere anche il più interessante, essendo dedica-to all’opera di uno degli scrittori più amati dagli studenti,Bohumil Hrabal. In questo caso emergono infatti tutti iproblemi di questo tipo di edizione, e non solo perché laconferenza esce dopo che il saggio è stato già pubblicatoin ceco in forma molto ampliata e con un ricco apparatobibliografico (M. Špirit, “Bohumil Hrabal v roce”,Kritická Príloha Revolver Revue, , , pp. –).L’articolo è infatti un condensato di quella che scherzosa-mente un’amica ha definito il “totalitarismo intellettuale”imperante in una parte della critica letteraria ceca. La te-si di fondo, che l’opera di Hrabal sia stata massacrata daltotalitarismo politico e quindi andrebbe sempre pubblicatain tutta la sua totalità (va ricordato che le opere comple-te di Hrabal ammontano a volumi) e non nella formache compiacenti editori propinano al pubblico ingenuo deilettori, è a dir poco ingenua ed era già stata proposta inmodo molto più intelligente e sensibile da J. Lopatka nelcorso degli anni Sessanta. La pubblicazione del testo èimportante perché esporta in Italia una corrente molto pro-duttiva in un ambiente culturale che ha deciso di eliminaredal proprio passato cinquant’anni della propria esistenza edi portare questo atteggiamento culturale anche in campoeditoriale. Fortunatamente un lettore italiano ha oggi lapossibilità di confrontare direttamente le opere dell’autorecon i testi di Hrabal, recentemente pubblicati in un’edizio-ne molto ricca da Mondadori, e rendersi conto da solo finoa che punto il ragionamento dell’autore sia fondato.

Il fascicolo successivo offre un altro spaccato su un te-ma molto caro negli ultimi anni alla critica letteraria ceca,

quello degli autori cattolici. Per chi accetta la definizionedi “autori cristiani”, l’analisi di Wiendl risulterà equilibra-ta e più moderna di ciò che sul tema possiamo leggere initaliano. Anche in questo caso la conferenza fa emerge-re in Italia almeno una parte del revival religioso che lacritica letteraria ceca ha attraversato per tutti gli anni No-vanta. Al limite ci si può rammaricare solo del fatto cheepisodi importanti della vita culturale ceca tra le due guer-re (prima fra tutte la dura polemica traCapek e Durych sulfranchismo) non abbiano trovato spazio in una ricostruzio-ne basata molto sull’ecumenismo che nel aveva ma-nifestato ad esempio B. Fucík: “oggi dovrebbe già essereovvio, almeno per le riviste letterarie, che non esiste nes-sun’arte cattolica, proprio come non c’è un’arte proletaria.Un ‘influsso del cattolicesimo’ non lo vedo da nessuna par-te, però conosco alcuni buoni artisti che sono cattolici” (p.).

L’ultimo dei fascicoli pubblicati offre una carrellatamolto veloce di tutte le tendenze in atto nella letteraturarussa da parte di un autore che, con le sue “cronache rus-se” pubblicate regolarmente sulla rivista Kritická PrílohaRevolver Revue (ha già superato le dieci puntate), è diven-tata una delle voci più ascoltate su quanto sta avvenendoin campo culturale in Russia negli ultimi anni. Nonostantel’eccessiva sinteticità in rapporto alla quantità di nomi ci-tati (ma del resto l’autore già nella prima pagina ammetteche “nelle riflessioni sull’arte contemporanea bisogna ras-segnarsi quindi alla frammentarietà e alla soggettività delleosservazioni”, p.), nel testo scorrono un po’ tutti i prota-gonisti della vita letteraria russa che conosciamo anche daaltre pubblicazioni in italiano. Sicuramente utile strumen-to per uno studente che vuole avere una prima, sommaria,idea di quanto avvenuto in Russia negli ultimi dieci anni.

L’iniziativa, anche nel suo dare un’opportunità tradutto-ria agli studenti, merita senz’altro attenzione ed è auspica-bile che prosegua anche in futuro, anche se qualche per-plessità desta il fatto che si sia rinunciato a pubblicare unarielaborazione delle conferenze con un apparato bibliogra-fico più corposo. In fin dei conti non si può negare chetra un testo letto e uno stampato, pure come “lezione” o“lettura”, continui a passare una differenza notevole. Deltutto inspiegabile è poi la scelta di non pubblicare il testooriginale “a fronte”: la presenza dell’originale ceco e rus-so alla fine di quello italiano è veramente un artificio chenon fa onore al progresso tecnico degli ultimi decenni. No-nostante questi (peraltro facilmente correggibili) difetti, la

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collana promette di rivelarsi un importante ponte attraver-so il quale anche il lettore italiano potrà avere un’idea piùprecisa di quanto sta attualmente avvenendo, nel bene e

nel male, nella critica letteraria ceca (e in futuroprobabilmente anche di altri paesi).

Alessandro Catalano

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