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Franco Cardini, Incontri (e scontri) me- diterranei, Salerno Editrice, Roma, 2014, pp. 125 ‘Fare il punto’ – come dice il titolo della collana relativamente recente della Salerno Editrice,cioè compen- diare in poco più di cento pagine, un discorso sul Mediterraneo «come spa- zio di contatto tra culture e religioni diverse», che ovviamente vuol dire an- che fra popoli e stati – è un compito difficile ed averlo coraggiosamente af- frontato è merito di un autore del li- vello di Franco Cardini, a beneficio specialmente di lettori che desiderano una informazione e riflessione chiara, sostanziosa ed equilibrata, ma anche appunto ‘breve’. Il discorso pone in primo piano ovviamente la storia poi- ché è nel corso di millenni e di secoli che quegli incontri e scontri si sono svolti; che i secondi siano indicati nel titolo fra parentesi lo interpretiamo come un modo di immediata perce- zione per indicarne una presenza che per quanto costante, soltanto a prima vista può apparire decisamente pre- valente, come è oggi invece opinione diffusa. Prima di delineare una sintesi del corso storico, Cardini offre al let- tore – vorremmo dire lo conduce ad accogliere – una riflessione sul suc- cedersi di immagini, prospettive, idee che del Mediterraneo si sono avute. Dall’immagine platonica delle genti mediterranee come rane sui bordi di uno stagno, e da altri pertinenti cenni datati fra Medioevo ed età moderna, si passa presto giustamente all’opera storiografica di Fernand Braudel (1949) che ha proposto il Medi- terraneo «come spazio unitario pro- fondamente disposto all’incontro fra culture diverse e alla loro reciproca integrazione». Prontamente però Car- dini richiama le contestazioni della prospettiva di fondo dello storico fran- cese, a cominciare dalla ‘dimenticata frontiera’ ispano-islamica che segna il secolo XVI (Andrew Hess). Ai nostri giorni si è aggiunta una contestazione più radicale, in nome del ‘mare corruttore’ (The corrupting Sea, di Horden e Purcell), che ha su- scitato numerosi e approfonditi com- menti, come recensioni, tanto da in- durre uno degli autori a rispondere e in qualche misura a ‘riposizio- narsi’. L’analisi storiografica di Car- dini tocca anche il Grande Mare di David Abulafia, esplicitamente anti- braudeliano, per l’eccessiva consi- derazione attribuita da Braudel ai fattori geografici e ambientali e ai tempi diversi secondo i quali si deve analizzare il corso storico; Abulafia intende contrapporre una propria 227 33 n. ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online) Mediterranea - ricerche storiche - Anno XII - Aprile 2015

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Franco Cardini, Incontri (e scontri) me-diterranei, Salerno Editrice, Roma,2014, pp. 125

‘Fare il punto’ – come dice il titolodella collana relativamente recentedella Salerno Editrice,cioè compen-diare in poco più di cento pagine, undiscorso sul Mediterraneo «come spa-zio di contatto tra culture e religionidiverse», che ovviamente vuol dire an-che fra popoli e stati – è un compitodifficile ed averlo coraggiosamente af-frontato è merito di un autore del li-vello di Franco Cardini, a beneficiospecialmente di lettori che desideranouna informazione e riflessione chiara,sostanziosa ed equilibrata, ma ancheappunto ‘breve’. Il discorso pone inprimo piano ovviamente la storia poi-ché è nel corso di millenni e di secoliche quegli incontri e scontri si sonosvolti; che i secondi siano indicati neltitolo fra parentesi lo interpretiamocome un modo di immediata perce-zione per indicarne una presenza cheper quanto costante, soltanto a primavista può apparire decisamente pre-valente, come è oggi invece opinionediffusa. Prima di delineare una sintesidel corso storico, Cardini offre al let-tore – vorremmo dire lo conduce adaccogliere – una riflessione sul suc-cedersi di immagini, prospettive, idee

che del Mediterraneo si sono avute.Dall’im magine platonica delle gentimediterranee come rane sui bordi diuno stagno, e da altri pertinenti cennidatati fra Medioevo ed età moderna,si passa presto giustamente all’operastoriografica di Fernand Braudel(1949) che ha proposto il Medi -terraneo «come spazio unitario pro-fondamente disposto all’incontro fraculture diverse e alla loro reciprocaintegrazione». Prontamente però Car-dini richiama le contestazioni dellaprospettiva di fondo dello storico fran-cese, a cominciare dalla ‘dimenticatafrontiera’ ispano-islamica che segnail secolo XVI (Andrew Hess).Ai nostri giorni si è aggiunta una

contestazione più radicale, in nomedel ‘mare corruttore’ (The corruptingSea, di Horden e Purcell), che ha su-scitato numerosi e approfonditi com-menti, come recensioni, tanto da in-durre uno degli autori a risponderee in qualche misura a ‘riposizio-narsi’. L’analisi storiografica di Car-dini tocca anche il Grande Mare diDavid Abulafia, esplicitamente anti-braudeliano, per l’eccessiva consi-derazione attribuita da Braudel aifattori geografici e ambientali e aitempi diversi secondo i quali si deveanalizzare il corso storico; Abulafiaintende contrapporre una propria

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storia ‘umana’, della quale vuol chesiano protagonisti anche gli indivi-dui, mentre secondo lo storico bri-tannico Braudel ha offerto una sto-ria troppo condizionata dallageografia e dall’ambiente. Cardiniconcorda peraltro con Abulafia nelloscorgere nella storia del mondo me-diterraneo non un «fattore disgre-gante bensì al contrario un motoredi sempre nuove occasioni di scam-bio e di dialogo, maturate talora no-nostante, anzi addirittura attraversoi momenti o i periodi di stasi, di con-trasto, di tensione» (p. 25).Fra i temi della storia mediterra-

nea che si possono considerare em-blematici di incontri e scontri, oltreovviamente ai commerci, Cardini sisofferma su viaggi e pellegrinaggi,corsari e rinnegati, o meglio conver-titi, da una parte e dall’altra; storie,inoltre, di porti, di stretti e di canali,da quello di Suez con la cui apertura(1869) e poi con la guerra del 1956,coincidono, si può dire, l’inizio e lafine del colonialismo nel Mediterra-neo, quando trionfò l’idea unitaria,ma di una unità nel nome del predo-minio europeo sugli altri. Da qui l’at-tenzione si sposta sul percorso con-creto degli eventi storici (Il ‘Grandegiuoco’ mediterraneo, spartizione co-loniale e affermazioni nazionali bal-caniche, e Venti di guerra) del primoconflitto mondiale, con la successivaspartizione delle province arabe del-l’impero ottomano. Nell’ultimo paragrafo (Speranze,

pericoli, prospettive) prima della con-clusione, il discorso diviene più pro-blematico, poiché, pur nella obiettivaesposizione di rischi e di prospettivedi collaborazione, diviene inevitabilepropendere verso una data direzione,come previsione e come auspicio.Nella critica a Remi Brague, che ha

definito ‘una leggenda’ il Mediterra-neo spazio del dialogo, Cardini cosìconclude su questo punto: «Il lungo,profondo e proficuo dialogo tra le dif-ferenti sponde e le diverse culturecompresenti nel Mediterraneoemerge evidente e perentorio quandosi collocano i ‘prestiti’ filosofici escientifici dell’Islam alla Cristianitàoccidentale nel contesto degli scambi– quelli sì, veramente e intensamentetali – economici, commerciali, finan-ziari, tecnologici (dalla meccanicaalla nautica alla cartografia alle pra-tiche militari), infine anche diploma-tici, politici e perfino religiosi, comedimostra la tensione problematica dipensatori quali Raimondo Lullo e Ni-cola Cusano – entrambi peraltro so-stenitori della crociata e dei suoiideali –, rivolta appunto a edificareponti di comprensione e di fratel-lanza con l’Islam, a proporre itinerarifuturi fondati sul rispetto e sullacomprensione reciproca. Una dimen-sione che non sarebbe maturata, eche oggi da tante parti non si consi-dererebbe così necessaria e perento-ria, se non si fosse fondata su alcunigrandi esempi, alcuni indimenticabilimodelli» (p. 90).La conclusione, peraltro ‘senza

pretese’ – come saggiamente l’autorestesso avverte – dopo aver fornitocon un notevole impegno di sintesiun quadro anche economico-socialedel Mediterraneo, segnato dal fortedivario nord-sud, e delle implicazionidi politica internazionale e in parti-colare di strategia, chiude con un ri-chiamo severo al «drammatico e do-loroso squilibrio obiettivo tral’opulento Nord del pianeta e il suoSud sfruttato, impoverito e sovrap-popolato» (p. 110).

Salvatore Bono

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Nabil Matar, British Captives fromthe Mediterranean to the Atlantic,1563-1760, Brill, Leiden-Boston,2014, pp. 350

Nel ricco panorama di ‘novità’concernenti la schiavitù mediterra-nea, la recente monografia di NabilMatar – professor of English all’Uni -versità del Minnesota, già noto neglistudi sul vasto tema suddetto (ed eglistesso prigioniero in Libano nel 1986,durante la guerra civile) – si imponeall’attenzione e all’apprezzamento perpiù motivi. Sul tema specifico – laschiavitù, traduciamo così captives eprisoners ai quali fa riferimento il te-sto (torneremo su questo punto) – co-stituisce un apporto originale e dipeso significativo. L’autore ha peral-tro collocato la sua documentata ri-costruzione – concernente come diceil titolo individui di ‘nazionalità’ bri-tannica – in una presa di posizione,solidamente argomentata, contro lastrumentalizzazione del fenomenostorico della schiavitù mediterraneacome capo d’accusa nell’attuale po-lemica verso l’islàm. Il primo argomento consiste nel

mostrare il carattere di piena reci-procità fra i paesi europei e quelliislamici mediterranei. Tutto unoschieramento di autori, statunitensiin prevalenza, nella reazione controil terrorismo ‘islamico’ ha ritenuto ditrovare nell’attività corsara dei Bar-bareschi e nella conseguente schia-vitù di ‘cristiani’ un precedente al-l’attuale ‘barbarie’ degli islamisti.Bisogna ricordare che dalla procla-mazione dell’indipendenza degli StatiUniti alla fine della guerra corsaramediterranea (diciamo 1830, conqui-sta francese di Algeri) anche naviamericane cominciarono a frequen-tare il Mediterraneo e a subire perciò

catture e riduzioni in schiavitù dimembri dell’equipaggio e di passeg-geri, una esperienza per loro e pertutto il pubblico statunitense piùtraumatica, poiché tutta la realtà me-diterranea era per essi più lontana,insolita e temibile; la memoria delle‘guerre’ con gli stati barbareschi, inparticolare quella con Tripoli, è ri-masta viva, si può dire sino ad oggi,nella memoria collettiva statunitense. L’accostamento dell’attività cor-

sara degli stati maghrebini con le at-tività dei terroristi islamici dei nostrigiorni è respinta dalla maggior partedegli studiosi e trova credito soltantonella parte meno informata del pub-blico e più influenzabile da strumen-talizzazioni politiche. Nella ventina dipagine della introduzione e nell’arti-colata esposizione del cap. 1 (Britonsin Mediterranean and Atlantic. Capti-vity and Piracy, pp. 20-70), Matarcontesta vigorosamente e con docu-mentate argomentazioni la distortaprospettiva, di cui si è detto, con il ri-chiamo anzitutto alla reciprocità dellaschiavitù mediterranea nell’età mo-derna, al fatto cioè che governi e po-polazioni dei paesi europei e di quelliislamici esercitavano e subivanoegualmente la guerra corsara, la ri-duzioni in schiavitù e, in misura com-plessivamente marginale, il commer-cio di schiavi. Per non accreditare neilettori la Christian-Muslim polariza-tion, il convincimento cioè che allabase della guerra corsara e di tuttala conflittualità nel Mediterraneo visia stata la differenza religiosa, qual-cuno, come chi scrive, preferisce or-mai non usare in prevalenza i terminicristiani e musulmani, ed impiegareinvece definizioni ‘geografico-politiche’come europei, maghrebini, turchi.La parte specifica del volume (2.

Captives and captors, 1563-1760, pp.

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71-159, e 3. The Northern Invasion,pp. 160-192) ricostruisce catture eliberazione di schiavi, nel quadro discontri navali, incursioni a terra, re-lazioni diplomatiche; l’esposizione èritagliata secondo una precisa scan-sione cronologica dal periodo elisa-bettiano e ai successivi sino alla Re-storation (1660-1688). La trattazioneè necessariamente concisa ma sem-pre precisa e appoggiata a fonti di-rette perlopiù di prima mano, trattedagli State Papers degli archivi di Kewe da numerosi manoscritti della Bri-tish Library, sino alle pubblicazioniufficiali e alle raccolte di fonti astampa. Sotto il titolo già riportato di Nor-

thern Invasion, la massiccia implica-zione inglese nella storia del Medi-terraneo a partire dagli ultimidecenni del Seicento, la terza partedel volume delinea le vicende di cat-ture e di riscatti in quel periodo sto-rico con particolare attenzione a duecasi: Tripoli (pp. 165-172) e Algeri(pp. 172-189). Dalla seconda metàdel Settecento il fenomeno corsaro eschiavile mediterrraneo – salvo ecce-zionali episodi in alcune isole – è unfenomeno decrescente (anche per ilcontemporaneo notevole sviluppo diriscatti e scambi da ambo le parti); ilricordo diverrà un elemento della fic-tion letteraria e teatrale – come ri-chiama Matar che è anzitutto unostudioso di storia della letteratura edelle idee; per l’Italia basti pensarealla rossiniana Italiana in Algeri. La Conclusion del volume (pp.

192-195) riprende e sintetizza la ‘di-fesa’ dei governi e delle popolazionimaghrebine dall’accusa, imputataloro per secoli, di essere dei barbarie crudeli pirati, e accenna al succes-sivo svolgimento del rapporto fra ledue parti del mondo mediterraneo,

dopo il termine ad quem della coper-tina (1760): l’affermarsi della supre-mazia navale e militare europea e ilsuccessivo maturare dell’espansionecoloniale delle potenze europee, a co-minciare dalla occupazione di Algeri,il ‘covo di pirati’ per eccellenza.Un altro apporto del volume è in-

teressante segnalare: Matar nellalunga appendice Captives (pp. 199-299) elenca un gran numero di no-minativi di schiavi britannici trattida varie fonti, datate fra il 1563 e il1760, i due estremi cronologici dellatrattazione. Si va da pochi o singolinomi, come i tre iniziali di John Fox,protagonista con due compagni, diuna coraggiosa e celebrata fuga, allasingola citazione di Robert Ellyatt(italianizzato come Eliatta nella suaBreve descrittione di Tunisi) a elenchidi decine di nomi, come i Redeemedda Salé e da Safi nel settembre 1637,ripartiti sotto le località di prove-nienza (in totale, fra uomini, donne eragazzi, furono 339 e forse sino a400, anche francesi, olandesi e di al-tre nazionalità). In uno degli elenchipiù lunghi, di riscattati da Algeri nel1646, si riporta per ogni nominativol’ammontare pagato, espresso in‘doppie’ e in dollari (più costose fu-rono le poche donne e fra queste ilmassimo (quasi 357 dollari rispettoa importi perlopiù fra 100 e 200), futoccato dalla londinese Elizabeth Al-win). Un altro elenco è ancora piùricco di informazioni: quello di alcunedecine di navi catturate dagli algerinifra il 1677 e il 1679; per ognuna diesse, designate con il nome, il portodi provenienza e la data di cattura,si indica il numero delle persone ri-scattate o decedute. Ci siamo soffermati su questa ap-

pendice, principalmente costituita danomi di persone catturate, poiché

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Matar ha per primo ripreso e comin-ciato a realizzare una lista generaledi nominativi di schiavi, nel suo casodi inglesi, lista che intende portareavanti. L’ipotesi di un progetto delgenere, più ambizioso e complicatoin quanto esteso tendenzialmente atutti gli schiavi (non esclusi forse an-che quelli dell’altra parte) è stata di-scussa – come Matar segnala – dachi scrive, in particolare nel convegnoad Exeter (Trade and Cultural Ex-change in the Early Modern Mediter-ranean, 2010) nel contributo SlaveHistories and Memoirs e poi altrove. Per l’area britannica il volume di

Matar costituisce ora l’opera piùcomprensiva e aggiornata sul temadella cattura e del riscatto, anche perla copiosità di indicazioni su fonti ebibliografia, con titoli in lingua araba.In una prospettiva generale il suocontributo è rilevante poiché entraanche nel vivo nella attuale discus-sione su caratteristiche e specificitàdella schiavitù mediterranea e su di-rettrici e suggestioni di ricerca.

Salvatore Bono

Francesco Storti, «El buen marinero».Psicologia politica e ideologia monar-chica al tempo di Ferdinando I d’Ara-gona re di Napoli, Viella, Roma, 2014,pp. 178

L’attenta analisi condotta daFrancesco Storti rientra nell’ambitodel progetto FARO 2011 «Ideologiamonarchica e prassi politica nella Na-poli aragonese» coordinato da Gio-vanni Vitolo. Il volume ricostruisce dal basso,

ossia partendo dall’osservazione di-retta dell’azione di governo, dellestrategie politiche e diplomatiche di

Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli,l’ideologia monarchica ad esse sot-tesa. L’uso puntuale della fonte di-plomatica (lettere autografe del so-vrano, raccolte di missive e istruzionidello stesso) è volto ad indagare nonsolo le strutture ideologiche a guidadell’agire politico del re, ma anche lapsicologia del potere, focalizzandol’attenzione sull’individualità delbuen marinero, re Ferrante, la cui vi-cenda viene seguita sin dall’insedia-mento sul trono (1458), momento dimaggiore necessità di legittimazioneper il sovrano e di costruzione dellasua personalità politica. La ricostruzione della meccanica

del potere è abilmente arricchita dauna pregevole analisi del linguaggioadottato dal re e dai suoi collabora-tori, riflesso delle strutture ideologico– culturali della monarchia (idea,ruolo e attributi della sovranità), non-ché importante strumento attraversocui passava la costruzione stessadella personalità del “principe” o, me-glio, della sua pubblica immagine.Fanno da sfondo alla ricerca la que-stione della legittimazione dinastica(quindi la tensione fra la monarchiae nobiltà regnicola sfociata, con losbarco angioino, nella Guerra di suc-cessione 1458-1465) e il tema dellasoggezione feudale alla Chiesa. Il ri-sultato è un quadro completo dellescelte linguistiche, comportamentali,tattiche, ideologiche e strategichedella monarchia aragonese.Il libro segue un percorso circo-

lare: parte dall’azione diplomaticarealizzata da Ferrante, all’esordio delsuo regno, nei confronti del principedi Taranto (capitolo I), prosegue conl’analisi ideologica del suo agire poli-tico (capitolo II); ritorna ai primi annidel regno e prosegue la trattazionecronologica nel terzo capitolo.

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Il primo capitolo – L’arte della dis-simulazione – segue i modi e i tonidella trattativa diplomatica (1458-1463) intercorsa tra il sovrano e Gio-vanni Antonio Orsini, principe di Ta-ranto, il quale si era rifiutato diprestargli omaggio, non riconoscendocosì formalmente la successione altrono. Tanto il sovrano quanto l‘Or-sini utilizzavano le trattative comestrumento di simulazione e dilazionecelando, dietro l’illusione dell’accordo,programmi eversivi, nuove alleanze ein definitiva l’acquisizione di una po-sizione di forza. Il tutto sottomessoalla stretta necessità di giustificarsidinnanzi agli occhi dell’opinione pub-blica e di sostenere la bontà e giusti-zia della causa da essi perseguita.Pratica della dissimulazione, re-

ciproca coscienza della fictio messain atto (volta a svelare l’altrui frodepiù che a celare le proprie intenzioni)ed attenta costruzione della propriaimmagine: questi dunque gli elementiindividuati da Storti come centrodelle azioni diplomatiche. L’arte delladissimulazione, intesa come verapratica etica che Ferrante manife-stava attraverso il proprio contegnopubblico e applicava tanto alla diplo-mazia, quanto alla guerra, ai rapportiinterni alla corte come a quelli in-trattenuti con il baronaggio, servivaad affermare gli attributi esclusividella sovranità e a costruire l’imma-gine pubblica del sovrano come giu-sto, benigno e garante della pace. Unsecolo prima del Principe di Machia-velli, insomma, la necessità dell’ap-parire, del costruire e mostrareun’immagine degna era pratica poli-tica ben consolidata.La morte del principe di Taranto

nel 1463 segnava la fine delle tratta-tive e apriva l’ultima fase dellaguerra. Il re ridisegnava la mappa

feudale del regno e nel 1464 varavale riforme, fra cui quella militare che,estendendo il sistema demaniale emodificando le forme dell’ingaggio,toccava diritti e consuetudini conso-lidate dell’aristocrazia, e rilanciava alcontempo il ruolo pubblico della mo-narchia e il senso dello stato.Il secondo capitolo abbandona mo-

mentaneamente la trattazione crono-logica per addentrarsi nei meccanismidella comunicazione e della psicologiapolitica. Denso di suggestioni, questocapitolo conduce non solo un’analisilinguistica delle espressioni del re ene evidenzia l’alto valore performativo,ma le inquadra nelle coordinate dot-trinali sottese alla logica comunicativae all’immagine monarchica. Sonoquindi evocate le più diffuse teoriedell’umanesimo giuridico (opere comeil De Iure di Leon Battista Alberti e ilDe Principe di Giovanni Pontano), coni necessari riferimenti all’opera deicommentatori e glossatori del CorpusIuris Civilis, e le figure di intellettualie giuristi (Maso di Girifalco, Goffredodi Gaeta, Matteo d’Afflitto, Paride delPozzo) che collaboravano con Ferdi-nando I d’Aragona o che comunquerientravano in quell’amalgama cultu-rale che ne influenzò l’azione politica.Re Ferrante in sostanza reclamava gliattributi propri della sovranità (hone-state, liberalitate, gratia, humanitateet iusticia) rivitalizzando un’idea di so-vranità dalle origini antiche, affer-mando e difendendo quel modello diregalità legato all’esercizio e alla difesadella giustizia.La giustizia, trasfigurazione del

potere regio, è la virtù che sostienela funzione di tutela del diritto, a suavolta fondamento della pace, dallaquale la corona traeva legittimazionepolitica. Nell’esercizio della giustiziail re trasfigura: il suo volto rappre-

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senta il volto dell’intero regno; ilsenso profondo della sovranità risiedein questo connubio, nel rispecchia-mento fra il monarca e la società, nelmatrimonio politico e morale del prin-ceps con la respublica. Trasfigura-zioni, non a caso, è il titolo del se-condo capitolo.

L’abito e la natura, terzo e ultimocapitolo del libro, riprende la tratta-zione dai primi di luglio del 1460, nelpieno della guerra baronale di suc-cessione e ne segue gli avvenimenti:centrale è la disfatta aragonese diSarno, di cui Storti segue non tantol’evento in sé, quanto la modalità digestione dello stesso, da parte del rearagonese. I toni rassicuranti rivoltialle potenze della lega sue alleate edil contegno mostrato dal buen mari-nero, in quell’occasione, rivelano il sa-piente uso della retorica che il sovranoseppe piegare allo scopo di sminuirela sconfitta; esempio, ancora unavolta, di quell’arte del dissimulare edel celare a servizio della politica ara-gonese e delle contingenze di guerra.La sconfitta allora si trasforma in se-gno della forza del re: la nota metaforadel buon marinaio, del timoniere cheguida la barca dello Stato e resta saldoal timone, nonostante le avversità el’alterna fortuna, forte della propriaesperienza e abilità, è ripresa esplici-tamente dallo stesso Ferrante nellesue lettere. Il sovrano deve vestire un“abito” pubblico, “un’altra natura”,deve cioè dare un’immagine di sé vir-tuosa, saggia, forte, imperturbabileche, nonostante sia frutto dell’espe-rienza e del controllo dei propri im-pulsi, sembri innata. La ragione è pro-prio il fondamento dell’abito virtuosodel re, della dissimulazione, della suaarte mimetica.L’azione politica di re Ferrante fu

quindi determinata e ampiamente in-

fluenzata dal problema del consensopolitico e da come la monarchia si mo-strava agli occhi altrui. FrancescoStorti vede nell’ottica del sovrano ara-gonese un legame tra il concetto di re-putazione del re (necessario alla con-servazione dello stato e della pace) equello di opinione (che gli altri hannodel re), e constata in Ferdinando Id’Aragona piena consapevolezza deimeccanismi e dei ritmi della politica.L’autore ritiene dunque che dall’esamedel carattere politico di re Ferrante sipossa ravvisare, anche se ad uno sta-dio zero di sviluppo, il concetto di ra-gion di stato (qui ancora nel senso diinteresse proprio del sovrano): nellalotta contro le passioni, la ragione cheguida l’autodisciplina del princeps èanche una ragione politica che lo pre-dispone all’ascolto dei suoi interlocu-tori, (permettendogli, senza scoprirsi,di valutarne i reali fini e intendimenti)e ad un contegno ficto, quale mezzoper determinati fini politici.

Elena Sapienza

Francesco Dandolo, Gaetano Saba-tini (a cura di), I Carafa di Maddalonie la feudalità napoletana nel Mezzo-giorno Spagnolo, Atti in memoria diS.E. Mons. Pietro Farina, Salettadell’Uva, Caserta, 2013, pp. 446

Le nuove abitudini che si vannoimponendo nel panorama storiogra-fico italiano hanno progressivamentemarginalizzato il valore delle raccoltedi saggi realizzate in occasione di in-contri di studio. Una delle principaliqualità del volume che vorremmo di-scutere, invece, è proprio quella dicontribuire a dimostrare come i con-vegni siano occasioni importanti peril confronto su metodi e contenuti

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della ricerca e che raccoglierne gliatti costituisca opera meritoria ecomplessa.Il tema dell’appuntamento orga-

nizzato da Dandolo e Sabatini nel no-vembre 2012 era ben noto ai due stu-diosi che tre anni prima avevanopubblicato un importante volume nelquale si analizzavano la genesi e lagestione economica e amministrativadei feudi dei Carafa di Maddaloni,nonché la capacità del casato distrutturare i propri possedimenti inun vero e proprio stato grazie a uncostante posizionamento lealista neiconfronti della Corona aragoneseprima, spagnola poi (F. Dandolo, G.Sabatini, Lo Stato feudale dei Carafadi Maddaloni. Genesi e amministra-zione di un ducato del regno di Napoli,secc. XV-XVIII, Napoli, 2009, poi tra-dotto in spagnolo con variazioni e ag-giunte col titolo El Estado feudal delos Carafa de Maddaloni en el Reinode Nápoles, siglos XVI-XVIII, Rosario,2012). La piena conoscenza dell’ar-gomento proposto e la ferma volontàdi inserirlo nel dibattito attraversoambiti disciplinari diversi hanno con-tribuito a strutturare un incontro epoi un poderoso volume nel quale piùdi venti studiosi hanno approfonditogli stimoli originali emersi da quelprimo lavoro monografico.Al di là dell’interesse dei singoli

saggi, mi sembra che il merito prin-cipale della raccolta stia proprio nellacapacità di programmare un sistemadi contributi utile a recepire insiemela sedimentazione dei percorsi sto-riografici e le svolte di metodo e dichiavi interpretative emerse nei piùrecenti lavori dedicati al tema del feu-dalesimo. Un campo di studi chevanta una lunga tradizione, allaquale molto ha contribuito, già daglianni Sessanta del secolo appena tra-

scorso, la ripresa delle ricerche cor-relate alla sopravvivenza del regimesignorile in area meridionale. Il temasembrava ultimamente destinato auna progressiva marginalizzazione,prodotta soprattutto dalla cristalliz-zazione di quella interpretazione delfeudo che lo aveva collocato tra glielementi residuali e atipici del pano-rama moderno, sopravvivenza di tra-scorse stagioni storiche, principal-mente confinato in un Mezzogiornoavviato a un percorso tardivo di svi-luppo rispetto all’Italia del Centro-Nord segnata dalla storia di comunie città.Come emerge anche dal contri-

buto di Giovanni Muto che apre laprima parte del volume (La feudalitàmeridionale in età moderna nella piùrecente riflessione storiografica), daqualche anno gli studi sulla feudalitàstanno vivendo una felice stagionestoriografica favorita dalla innovativarevisione metodologica proposta dalvolume Il feudalesimo nell’Europa mo-derna. pubblicato da Aurelio Musinel 2007, e dalla contestuale dina-mizzazione dell’ottica interpretativadel governo signorile sistematizzatanella Storia del Regno di Napoli diGiuseppe Galasso (6 vv., Torino2006-2011), che ha affiancato allalettura economica e materiale, domi-nante in questo campo degli studi,quella attenta alle dinamiche di ne-goziazione politica tra il sovrano e iceti dominanti, ma anche ai mecca-nismi del potere e dei suoi linguaggi.L’idea di una feudalità percepita

in una prospettiva di evoluzione mo-derna, non più fenomeno residualedel passato, ma parte integrante diuna nuova relazione tra potere, eco-nomia e società, addirittura contro-parte attiva e necessaria della terri-torializzazione dello Stato moderno

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ha enormemente stimolato la ripresadelle ricerche sul feudo che hannoultimamente prodotto alcuni volumimonografici di notevole interesse, maanche raccolte di studi dalle qualisono emerse feconde sollecitazioni te-matiche che hanno preso le mosseda necessarie ricognizioni sulle spe-cificità regionali. È il caso, per esem-pio, della prospettiva proposta da L.Covino, Governare il feudo. Quadriterritoriali, amministrazione, giustizia.Calabria Citra (Milano, 2013), diquella suggerita da M. Spedicato, Lafeudalità salentina nella crisi del Sei-cento (Galatina, 2010) o della raccoltacurata da G. Brancaccio Il feudale-simo nel Mezzogiorno moderno. GliAbruzzi e il Molise (Milano, 2011).Mettendo insieme riflessioni di me-

todo e nuove ricerche, nel 2011 sonostati poi pubblicati due volumi collet-tanei che hanno contribuito in mododeterminante a rafforzare il quadrodinamico della feudalità moderna. Icontributi riuniti in Feudalità laica efeudalità ecclesiastica nell’Italia meri-dionale, a cura dello stesso Musi e diM.A. Noto (Palermo, 2011) e Baroni evassalli. Storie moderne, a cura di E.Novi Chavarria e V. Fiorelli (Milano,2011) hanno accreditato la centralitàdella giurisdizione nella strutturazionedel potere signorile, l’esercizio dellafunzione di potere delegato dal so-vrano al baronaggio e, soprattutto,hanno definito una prima, necessariaricognizione delle caratteristiche dilunga durata della signoria ecclesia-stica. Una prospettiva non specifica-mente meridionale (lo dimostrano icontributi di L. Casella, C. Cremonini,K. Visconti e la ricognizione sui feudiepiscopali catalani di M. Barrio Gozalopubblicati in Baroni e vassalli), utilea confrontarsi con filoni di indagineche hanno coniugato radicamenti ter-

ritoriali e profili istituzionali comequello aperto dagli studi sulla feuda-lità imperiale nell’Italia centro-setten-trionale della raccolta I feudi imperialiin Italia tra XV e XVIII secolo, a curadi C. Cremoni e R. Musso (Roma,2010), fino alla più recente ipotesi diun feudalesimo “mediterraneo” sug-gerita da Musi in Feudalesimo medi-terraneo e Europa moderna: un pro-blema di storia sociale del potere(«Mediterranea-ricerche storiche», 24/2012, pp. 9-22).Oltre al filone storiografico più

specificamente dedicato al feudale-simo, però, il libro del quale stiamodiscutendo si pone in dialogo idealecon le ricerche dedicate alla storiadelle famiglie nobili, per esempio F.Luise, I d’Avalos. Una grande famigliaaristocratica napoletana nel Sette-cento (Napoli, 2006), E. Papagna, So-gni e bisogni di una famiglia aristo-cratica. I Caracciolo di Martina(Milano, 2002), A. Mele, Una famigliain ascesa nel Regno di Napoli. I Ma-rulli duchi d’Ascoli tra Sei e Settecento(Foggia, 2010). Già nel volume diGiulio Sodano, Da baroni del Regnoa Grandi di Spagna. Gli Acquavivad’Atri (Napoli, 2012) e nei numerosistudi dedicati agli Stati feudali di Si-cilia da parte di giovani studiosi for-matisi alla strada indicata dai lavoridi Rossella Cancila, l’attenzione dellericerche in questo campo ha moltocontribuito alla focalizzazione dellafunzione dei feudi nelle politiche dirafforzamento dei lignaggi e alla con-sapevolezza del persistente radica-mento provinciale dei casati in fun-zione della loro proiezione “connessa”alle reti europee.La volontà dei curatori di ritor-

nare a uno sguardo di sistema e diproiettare la storia dei Carafa e deiloro territori in una prospettiva di

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lunga durata aiuta a comprenderemolto bene l’evoluzione del modellodi gestione signorile dei territori apartire dal percorso di aggregazioneprogressiva dei feudi. Nel saggio diFrancesco Dandolo (I Carafa di Mad-daloni. Un casato di lunga durata), ilpassaggio dalle concessioni regie auna sapiente politica di acquisti,senza dimenticare l’attenta strategiamatrimoniale tipica dei casati di etàmoderna, tracciano insieme il quadrodi una sedimentazione di territori edi un accumulo di giurisdizioni chesi trasforma di pari passo con i cam-biamenti della proiezione del poterenel corso dell’ancien régime.Un altro tema centrale della rifles-

sione storiografica più recente chetrova eco puntuale tra i lavori pub-blicati in questo volume è quello dellaterritorializzazione all’interno di unavisione non antagonista del rapportotra Stato moderno e feudalità. In que-sta chiave, il contributo di GiuseppeCirillo (I Carafa di Maddaloni: da ba-roni del regno a “capitani imperiali”.Strategie politico-militari ed utilizza-zione delle giurisdizioni tra Cinque eSeicento) ha ripreso il filone svilup-pato in altre ricerche portate avantidallo studioso. Egli ha puntato l’at-tenzione sulla stretta connessione tragiurisdizione baronale e amministra-zione del territorio in funzione di so-stituzione della limitata autonomiadelle università per fare da sponda alpotere centrale, ma anche sul valoredell’impegno per il reclutamento mi-litare svolto dai feudatari, qui propo-sto in chiave di ammodernamentodella funzione tradizionale di sostegnoalle campagne del sovrano e trasfor-mata in strumento per ottenere pri-vilegi fiscali e giurisdizionali, oltre chericonoscibilità politica. Anche il con-fronto tra i Carafa di Maddaloni e gli

Acquaviva d’Aragona proposto da Ma-ria Anna Noto (Conflitti territoriali eamministrativi tra lo “stato” di Mad-daloni e lo “stato” di Caserta nell’etàmoderna) utilizza uno dei frequenticonflitti nati attorno ai confini di dueStati feudali di prima importanza peril Regno e per il sistema imperialespagnolo in una prospettiva di con-trollo degli spazi politici e giurisdizio-nali con un taglio che supera in modonetto lo stereotipo storiografico delrozzo baronaggio di provincia anta-gonista degli assetti della Corona.Passando poi alla questione della

conduzione economica dei territoriche tanto spazio aveva avuto neglistudi sulla feudalità meridionale, iltaglio storiografico appare qui radi-calmente rinnovato. L’utilizzo, nellaricerca pubblicata nel 2009, dei relevida parte di Gaetano Sabatini per de-lineare le consistenze del patrimoniofeudale dei Carafa aveva già alloradelineato una diversificazione deicomportamenti gestionali da partedella famiglia. La crescita delle ren-dite rilevata tra Cinque e Seicento,infatti, faceva registrare una drasticainversione di tendenza dopo la crisiprovocata dalla peste. L’orientamentodei duchi a riportare i proventi “im-prenditoriali” al più tradizionale pre-lievo giurisdizionale è stata interpre-tata dallo studioso come segnale dimatura consapevolezza nella condu-zione amministrativa del feudo, maanche come un esercizio di governonel quale si componevano necessitàdi sfruttamento patrimoniale e re-sponsabilità dei ruoli. Un aspetto,quest’ultimo, che si rileva in tuttaevidenza dallo studio di Idamaria Fu-sco sugli anni della grande epidemia(Il Regno di Napoli nel 1656: compor-tamenti e scelte della feudalità meri-dionale durante la peste), ma che si

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leggeva in filigrana già nel tentativodi istituire, nel principale centro delloStato feudale, un luogo destinato afornire assistenza e cura per il be-nessere dei sudditi. Un progetto por-tato avanti senza successo quasi unsecolo prima da Roberta Carafa,giunta a Maddaloni a seguito del ma-trimonio con Diomede e dal 1560 ve-dova e titolare del feudo. Si trattavain realtà di una iniziativa che dimo-stra la lucida percezione, da partedel signore e di sua moglie, del valorequalificante della fondazione carita-tiva per il potenziamento dell’imma-gine pubblica del governo feudalenella delicata fase di passaggio daconti a duchi.Una figura, quella di Roberta, alla

quale si sarebbe potuto forse dedi-care più spazio. Sia nel periodo disupplenza che dopo, infatti, la suacapacità di governo e di gestione delpatrimonio contribuì in modo deter-minante alla modernizzazione dellepolitiche del lignaggio (ne ha parlatoElisa Novi-Chavarria in un saggiopubblicato nel volume Donne di po-tere nel Rinascimento, a cura di L.Arcangeli, S. Peyronel, Roma, 2008).Costretta a seguire controversie ependenze giudiziarie che gravavanosulle dissestate finanze familiari, lanobildonna riuscì a riordinare la con-tabilità e a recuperare, talvolta addi-rittura ad ampliare, i diritti di naturagiurisdizionale. L’impegno a realiz-zare a Maddaloni, centro identitariodel potere del casato, un locus deli-tiae e un colto centro di ritrovo mon-dano, ma anche una città per i sud-diti, mirava a comporre, insieme, laproiezione visibile del ritrovato decorodi una delle principali famiglie ari-stocratiche del Regno.Proprio all’identità aristocratica

e al radicamento della forza del ca-

sato nel tessuto urbano si sono in-teressate le ricerche di MarcellaCampanelli per il suo saggio (I Ca-rafa e le istituzioni ecclesiastichemaddalonesi). A partire dalla Refuta(un documento di “buon governo”composto all’inizio del secolo XVII,oggetto del contributo di GiuseppeRescigno, La “Refuta” di DiomedeCarafa nel 1610, ma utilizzato comefonte da molti autori) e dalla respon-sabilità di finanziare le chiese deipropri domini indicata dal ducacome tratto fondamentale del poterebaronale, la studiosa ha analizzatosul lungo periodo la presenza eccle-siastica nella città, la protezione, an-che la copertura non sempre deco-rosa, offerta dai Carafa al clerolocale, la promozione degli insedia-menti dei regolari (domenicani, cap-puccini, verginiani). In modo analogoMario Spedicato (“La guerra del bal-dacchino”. Note sul particolarismofeudale e sulla giurisdizione episco-pale nel Mezzogiorno di antico re-gime, secc. XVII-XVIII) ha proposto iltema della costruzione identitaria at-traverso la ritualità religiosa cometratto rilevante del governo dei ter-ritori. Un aspetto che si integra inmodo interessante con i contributipiù specificamente dedicati alla ri-costruzione della forza del mecena-tismo del casato che ha lasciatotracce importanti nel tessuto archi-tettonico e urbanistico dei centri feu-dali, ma anche nella capitale del Re-gno (se ne trova ampia traccia neicontributi di G. Sarnella, Frammentidi storia, colture, arredi dei giardinidei Carafa di Maddaloni dal XVI alXIX secolo; D. Scalella, La cappellaCarafa di Maddaloni nella chiesa diS. Maria dei Sette dolori a Napoli; G.Dal Manso, “Bel composto e affettidevoti” Mecenatismo e devozione dei

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Carafa nella cappella dell’Addoloratain S. Maria dei Sette dolori a Napoli).A questo proposito, un percorso

tematico trasversale ai contributi rac-colti nel volume è quello che riguardala costruzione dell’onore e la tuteladell’identità di ceto che ha accompa-gnato la storia del casato in età mo-derna. Si tratta di una questione benradicata nella storiografia contempo-ranea che molto ha discusso sullatrasformazione dei linguaggi politicie che si sta oggi rivolgendo ad ap-profondire la progressiva confluenzadella cultura degli antichi casati conl’immagine aristocratica progressiva-mente assunta dagli homines novi. Inquesta chiave, ma da prospettive di-verse, vanno letti i contributi di Giu-lio Sodano (I “Baroni rampanti”: sca-late e carriere politiche nel casato deiCarafa) e di Valentina Favarò (I togatie la nuova nobiltà nella Sicilia del Sei-cento: il caso della famiglia Di Napoli).La studiosa ha infatti trattato il per-corso di nobilitazione di esponentidel ceto togato siciliano inserendolonel sistema di relazioni transnazio-nali dei domini asburgici secondouna logica che supera quella dell’in-tegrazione aristocratica tra le nobiltàmeridionali e la corte di Madrid, perproiettarsi nella più moderna pro-spettiva storiografica di una storia“connessa”.Non voglio chiudere queste brevi

note senza segnalare l’attenzione al-l’aspetto più squisitamente finanziariodel governo del feudo tratteggiato, peresempio, nel saggio di E.M. GarcíaGuerra (Banchieri e feudatari: alcuniesempi di gestione del patrimonio nelMezzogiorno spagnolo: Modica, Taglia-cozzo, Melito, secolo XVI), o alla capa-cità di promozione di attività produt-tive documentata dai lavori di RossellaDel Prete (La complessità del feudale-

simo moderno fra economie protoindu-striali, antichi baronaggi e redistribu-zione della proprietà: il caso del Princi-pato Ultra, secc. XVII-XIX) e di RobertoRossi (La nobiltà meridionale tra ma-nifattura e rendita feudale: il caso diPrincipato Citra nel XVIII secolo).Queste brevi note non hanno

avuto la pretesa di discutere in modoesaustivo spunti e contributi del vo-lume. In conclusione, però, ci sembradi poter affermare che dalla lungastoria dei Carafa ricostruita in quellepagine emerga con chiarezza una pro-spettiva dinamica di modelli storio-grafici, capace di rinnovare gli studisullo spazio mediterraneo e sulla pro-iezione atlantica della Monarquía hi-spanica durante l’età moderna.

Vittoria Fiorelli

Giovanni Brancaccio, Aurelio Musi (acura di), Il Regno di Napoli nell’età diFilippo IV (1621-1665), Guerini e As-sociati, Milano, 2014, pp. 238

Primogenito di Filippo III e di Mar-gherita d’Austria, Filippo IV salì altrono di Spagna il 31 marzo 1621,all’età di sedici anni, assumendo an-che i titoli di re di Portogallo, di Napolie Sicilia, di Aragona e di Sardegna. Ilsuo Regno durato qua ran taquattroanni, fino al 17 settembre 1665,giorno della sua morte, si colloca inuna delle congiunture economiche epolitiche più complesse e negativedella storia europea. L’età di Filippo IV, però, non de-

v’essere e non può più essere lettacome un rapporto unilaterale traSpagna-dominante e Napoli-domi-nata, ma piuttosto in una chiave re-lazionale bilaterale, di scambi co-struttivi e di coesione politica tra la

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Corona e le élites regnicole. È questoquanto emerge dalla più recente sto-riografia italiana e spagnola, che ha,di fatto, superato l’obsoleta contrap-posizione dicotomica centro/perife-ria, per una nuova e più originalecontestualizzazione e visione dei rey-nos spagnoli quali elementi chiavedell’articolazione della politica dellaMonarchia e spazi di comunicazionepolitica (rinvio per questo a M. RiveroRodriguez, La edad de oro de los vir-reyes. El virreinato en la MonarquíaHispánica durante los siglos XVI yXVII, Madrid, 2011 e ad A. Musi,L’impero dei viceré, Bologna, 2013). Lungo questa direttrice va rintrac-

ciato il filo conduttore del volume IlRegno di Napoli nell’età di Filippo IV(1621-1665). Gli Autori dei cinquesaggi del libro a cura di Aurelio Musie Giovanni Brancaccio, studiosi assaiesperti nel panorama degli studiitalo-spagnoli, mettono a confrontola storiografia napoletana sei e sette-centesca e gli studi recenti, interro-gandosi sulle dinamiche, sui processisocio-politici ed economici e sul si-gnificato complessivo della lunga earticolata età di Filippo IV. Essi indi-viduano, così, da un lato le strategiee le linee politiche impartite dalla Ca-stiglia e, dall’altro lato, la loro mag-giore o minore condivisione nel Regnodi Napoli.Nella ricca e interessante Introdu-

zione Aurelio Musi non traccia, comedi consueto, intenti e finalità del-l’opera, ma si addentra piuttostonell’analisi delle posizioni storiogra-fiche che si sono susseguite e/o af-fiancate negli studi recenti italiani,spagnoli e anglosassoni, ripercor-rendo i lavori che i più autorevoli sto-rici – soprattutto Galasso, MartínezMillán, Elliott e Feros – hanno dedi-cato al tema dei rapporti tra Italia e

Spagna e al ruolo del Regno di Napolinel XVII secolo. A questi, poi, egli af-fianca la storiografia napoletana seie settecentesca, da Francesco D’An-drea a Pietro Giannone, entrando nelvivo della realtà del tempo e assu-mendo il punto di vista interno alcontesto socio-politico dell’epoca. Unconfronto critico, quello proposto daMusi, che sgombera il campo da mo-delli storiografici di stampo ottocen-tesco sedimentatisi nel tempo e perlo più contrassegnati dall’antispagno-lismo e dal malgoverno spagnolo(temi a cui lo stesso Musi aveva giàdedicato Antispagnolismo e identitàitaliana, a cura dello stesso, Milano,2003; Id., Antispagnolismo classico eantispagnolismo rivisitato, in Seicentoallo specchio. Le forme del potere nel-l’Italia spagnola. Uomini, libri, strut-ture. Atti del convegno svoltosi aSomma Lombardo, Castello dei Vi-sconti di San Vito, 6-7-8 settembre2007, a cura di C. Cremonini, E.Riva, Roma, 2011, pp. 13-25).L’ampio saggio a firma di Gio-

vanni Brancaccio ricostruisce il pa-norama dell’economia del Regno diNapoli che, proprio nell’età di FilippoIV, fu contrassegnata «più da ombreche da luci» (p. 79). L’Autore offreun’analisi molto dettagliata delle di-namiche della crisi che fu, in effetti,strutturale e interessò ogni aspettodella vita economica e politica del Re-gno. Egli analizza la concatenazionedelle cause e degli effetti che la pro-vocarono, determinando un lungoperiodo di stagnazione per l’economiadi tutto il Mezzogiorno d’Italia. Ana-lizzando la situazione delle finanzenapoletane e i piani di interventoadottati dalla corte vicereale, Bran-caccio pone l’accento anche sul ruolodi primo piano svolto da banchieri-mercanti, come Cornelio Spinola e

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Bartolomeo d’Aquino, che assunseroin quegli anni un potere sempre piùevidente all’interno della corte e dellapolitica del Regno. Una larga parte del saggio di

Brancaccio è poi dedicata a definirela geografia e le dinamiche della crisi,passando in rassegna, provincia perprovincia, l’andamento della produ-zione in ambito agricolo e proto-in-dustriale, e dei rispettivi circuiti dicommercializzazione ed esportazionedei prodotti e delle materie prime,nonché lo studio dell’andamento de-mografico. Il Regno di Napoli, comeprecisa Brancaccio, «incapace di con-seguire una propria indipendenzaeconomica e a sottrarsi alla condi-zione subalterna alle grandi potenzeeconomiche scivolò, rispetto algrande mercato internazionale, inun’emarginazione periferica dallaquale non riuscì a venir fuori neglianni seguenti» (p. 43).Sposta l’attenzione al tema Corte

e viceré il saggio di Elisa Novi Cha-varria, la quale, mettendo da partela triste pagina della crisi economiadel Seicento, offre un interessantestudio sulla magnificenza e sontuo-sità della vita di corte nella Napolibarocca. Proprio negli ultimi anni, iltema della vita di corte e lo studiodel cerimoniale sta incontrandomolta fortuna anche per l’Italia me-ridionale sulla scia della più consoli-data tradizione storiografica spagnola(si veda a questo proposito Fiesta yceremonia en la corte virreinal de Nà-poles, a cura di G. Galasso, J. V. Qui-rante, J. L. Colomer, Madrid, 2013).In linea con quanto proposto da que-sti recenti studi la Novi Chavarria in-siste, giustamente, molto sul “ruoloattivo” che ebbe Napoli nella scac-chiera del sistema imperiale spagnoloe per la formulazione di un modello

di società cortigiana del tutto auto-nomo da Madrid e che, piuttosto, fuoggetto di emulazione nelle altre cortiitaliane ed europee dell’epoca e inparticolare in quella castigliana,verso la quale si registrò un vero eproprio flusso di esportazione di mo-delli culturali e prodotti artistici (siveda, a questo proposito, anche Ce-rimoniale del viceregno spagnolo e au-striaco di Napoli (1650-1717), a curadi A. Antonelli, Rubettino, SoveriaMannelli, 2012).Proprio durante l’età di Filippo IV

e il viceregno del duca d’Alcalà, adesempio, il trasferimento della cortenella nuova residenza napoletana, vo-luta dal viceré conte di Lemos, fu l’oc-casione per riadattare gli apparati dipalazzo e il cerimoniale ai nuovi spazi,adeguandoli alle tendenze dell’epoca.Per questo l’Autrice delinea gli spazi,i tempi, i modi e i protagonisti delleazioni di governo e della vita di corteche in quegli anni raggiunsero lamassima maturazione. La Napoli delXVII secolo, una delle città più popo-late e opulente d’Europa, continuavaad essere, infatti, «un laboratorio po-litico e culturale della complessa im-magine della Monarquía hispánica,ancora al centro, in pieno Seicento,di grandi innovazioni artistiche e delcerimoniale» (p. 128). In linea, e con una perfetta com-

plementarietà rispetto allo scrittodella Novi Chavarria, il contributo diGiulio Sodano volge lo sguardo adaltri protagonisti della vita di corte edel cerimoniale: Le aristocrazie na-poletane, impegnate a conservare ilproprio potere all’interno degli equi-libri politici e dei giochi di potere e afronteggiare la crisi mantenendo unospazio e un ruolo di rilievo neglistessi ambienti di corte. L’atteggia-mento della feudalità, nel corso del-

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l’età di Filippo IV, fu contraddistinto,com’è noto, da processi di collisione/ collusione / resistenza (si veda aquesto riguardo quanto sostiene A.Musi, Il feudalesimo nell’Europa mo-derna, Bologna, 2007). L’attenzionedi Sodano è tutta posta, quindi, adefinire i tratti salienti di queste di-namiche, tracciando così la fisiono-mia delle aristocrazie, protagonistedi un inevitabile ripiegamento suscala locale. Sodano indaga le rela-zioni che le aristocrazie ebbero traloro e con la corte per stabilire o rin-saldare la propria fedeltà alla Co-rona, mettendo in risalto sia i diversielementi di conflittualità al loro in-terno, sia le loro dinamiche di inte-grazione e/o di inserimento nei cir-cuiti del potere attraverso lecomplesse trattative matrimoniali (sucui, per un punto di sintesi, rinvio aG. Delille, Parenté et alliance en Eu-rope occidentale. Un essai d’interpréta-tion générale, «L’Homme», 193 (2010),pp. 75-136). Un’analisi a sé è poi ri-servata allo studio delle relazioni traaristocrazie e corte negli anni Qua-ranta del Seicento, tracciando gli at-teggiamenti della nobiltà durante larivolta masanelliana, tra quanticome il duca di Maddaloni assunserouna posizione di totale lealtà alla Co-rona, rispetto ad altri che si allea-rono con i francesi. In un panoramacosì eterogeneo, ricco di interessi escambio di favori, il dopo Masaniellofu contraddistinto da viceré che fu-rono impegnati nel disciplinamentodell’aristocrazia, attraverso la ripresadel l’as solutismo regio e di rapportipiù diretti con la corte madrilena,com’è evidente dalle richieste e dallaconcessione del Toson d’Oro.Proprio a La rivolta del 1647-48 è

dedicato il contributo di AurelioMusi. «I dieci giorni che sconvolsero

Napoli tra il 7 e il 16 luglio 1647 sonoparagonabili – egli dice – a undramma polidimensionale, con unavarietà di scenari e una molteplicitàdi protagonisti e comparse» (p. 178).Quei dieci giorni e i focolai nelle pro-vince hanno avuto un ruolo periodiz-zante per la storia del Regno. Perquesto, Musi ripercorre la sequenzadegli avvenimenti. Egli si sofferma suogni aspetto e momento-chiave dellarivolta per tracciare le dinamiche chela contraddistinsero, soffermarsi suiprofili dei protagonisti che vi parteci-parono, individuare le reazioni e gliinterventi degli organi di governo, ci-vili ed ecclesiastici, e per analizzare,infine, analogie e differenze dei motirivoluzionari che si svilupparononelle province del Regno. A questoquadro complessivo delle vicende ri-voluzionarie, a cui l’Autore in passatoaveva più volte dedicato attenzione(cfr. A. Musi, La rivolta di Masaniellonella scena politica barocca, Napoli,20022), si affianca una lettura dia-cronica e critica dei lavori dedicatialla Rivolta dalla storiografia del No-vecento a partire dallo studio di Mi-chelangelo Schipa del 1918, fino adarrivare ai giorni nostri. Musi indivi-dua così per ciascuno di questi lavorii meriti e anche i demeriti, rileggendoe ricollocando la storia dei moti ma-sanelliani nel più recente filone sto-riografico che ha individuato dei «de-nominatori comuni di rivolte fra lorocomparabili in un breve arco tempo-rale» (p. 215). Gli eventi rivoltosi con-traddistinsero infatti, come è noto,tutta la storia europea degli anniQuaranta del Seicento con i casi delPortogallo, della Catalogna, dell’In-ghilterra, di Palermo, Napoli e, poi,della Fronda francese. Il Regno di Napoli era tra i domini

più importanti per la Corona spa-

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gnola e lo era ancora negli anni cen-trali del Seicento, durante l’età diFilippo IV, quando era «un paesevuoto di forze e di denari» come lodescrive Pietro Giannone (p. 15). Èquesto quanto mette in evidenza ilvolume che stiamo discutendo. Lacorretta lettura della storia del Regnonell’età di Filippo IV che esso pro-pone, in linea per altro con quantoemerge dalla più consolidata visionestoriografica offerta nei lavori di Ga-lasso, sottolinea come i processi dicrisi economica e di ristrutturazionesociale e politica che caratterizzaronoi decenni centrali del Seicento nonportarono al crollo definitivo dellaMonarchia spagnola, ma furono se-gnati da una lenta ripresa dell’asso-lutismo regio che consentì all’Imperospagnolo di resistere ancora permezzo secolo.

Valeria Cocozza

Roberto Bizzocchi, I cognomi degliItaliani. Una storia lunga 1000 anni,Laterza, Roma, 2014, pp. 248

Chi cerca l’etimologia o la storiadel proprio cognome non le troveràdi certo in questo libro. Nell’era digi-tale oramai basta andare in rete percombinare ricerche di vario tipo e co-noscere etimologia, varianti, diffu-sione regione per regione e numerodi persone che portano un medesimocognome. Le biblioteche, poi, sonopiene di dizionari, più o meno recentie più o meno dettagliati, con un’im-postazione perlopiù linguistica, utilia sciogliere le più varie curiosità sulnome della propria famiglia (basti ci-tare a questo riguardo i lavori di E.De Felice, Cognomi d’Italia. Origine,etimologia, storia, diffusione e fre-

quenza di circa 15 mila cognomi, 3vv., Milano, 1978 e Id., I cognomi ita-liani. Rilevamenti quantitativi daglielenchi telefonici: informazioni socioe-conomiche e culturali, onomastiche elinguistiche, Bologna, 1980; I cognomid’Italia. Dizionario storico ed etimolo-gico, a cura di E. Caffarelli e C. Mar-cato, 2 vv., Torino, 2008). È questoquanto mette da subito in chiaro Biz-zocchi in apertura al suo volume.Già con L’Italia dei cognomi. L’an-

troponimia italiana nel quadro medi-terraneo a cura dello stesso Bizzoc-chi, insieme con Andrea Addobbatie Gregorio Salinero (Pisa 2012) si erainaugurato un nuovo filone per glistudi onomastici italiani. Il volumeappena ricordato, in particolare, rac-coglieva gli Atti del Convegno con-clusivo di un progetto di ricerca assaiampio, condotto tra il 2008 e il 2012dall’Università di Pisa in collabora-zione con diversi altri istituti univer-sitari francesi e spagnoli. L’atten-zione era focalizzata principalmentesull’età moderna e sullo spazio delMediterraneo, attraverso approccimultidisciplinari, metodologie e te-matiche originali. Il progetto, forte-mente sostenuto dallo stesso Bizzoc-chi, ha avuto prima di tutto il meritodi far uscire lo studio del sistema co-gnominale da un alone prettamentelocale e di stampo esclusivamentelinguistico. In quell’occasione, l’Au-tore avanzava un’interessante letturacritica e di confronto del panoramadegli studi italiani ed europei, po-nendo l’accento sugli elementi di no-vità promossi da quel gruppo di ri-cerca. Soprattutto sottolineava lanecessità di affrontare la storia deicognomi nell’ambito dei più ampicontesti socio-culturali e della storiadelle istituzioni. Ed è sulla scia diquegli stessi presupposti e di tutto

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quel nuovo settore di studi sulleforme e i processi di registrazione eidentificazione, che, proprio in questiultimi anni sta incontrando tantafortuna (e su cui si veda la rassegnacritica di A. Buono, Identificazione eregistrazione dell’identità. Una propo-sta metodologica, in «Mediterranea -ricerche storiche», 30, aprile 2014,pp. 107-120) che si inserisce ora ilvolume I cognomi degli Italiani. Unastoria lunga 1000 anni. L’intero libro si compone di qua-

rantaquattro capitoli, snelli e di facilelettura, che ripercorrono le ragioni, imodi, i tempi della formazione deicognomi, dall’alto medioevo ai giorninostri e fino agli estremi del dibattitoche si sta svolgendo, in questi mesi,in sede legislativa in Italia, in meritoalla possibilità di assegnare ai proprifigli il cognome materno. Per la primavolta, quindi, Bizzocchi offre unostudio diacronico della storia deicognomi.I primi studi onomastici in Italia

risalgono alla metà del XVIII secolo esi riconducono a due dissertazioni diLudovico Antonio Muratori contenutein Antiquitates Italicae Medii Aevi. Lostorico modenese in quell’occasionefissava l’inizio della storia dei co-gnomi intorno all’anno Mille, soste-nendo che prima dell’XI secolo leforme cognominali attestate erano ilprodotto degli «incensatori prezzolatidelle casate nobiliari», intenzionati afissare i lustri della famiglia lontanonel tempo (cap. 1).La prima operazione che fa Biz-

zocchi, dunque, è quella di spogliarela storia dell’antroponomia italianadai “fantasmi”, termine con cui l’Au-tore definisce gli errori accumulatinel tempo per le inesattezze inter-pretative delle fonti storiche e conesse gli esiti scorretti delle prime ri-

cerche sui cognomi. In questa dire-zione si colloca la notizia più anticada cui prende inizio la narrazionedel libro. Essa risale al 539 e al “co-gnome” Vaistrini «portato in Roma-gna da un uomo di nome Pellegrino»,secondo l’attestazione contenuta inun papiro ravennate già noto. Il vir-golettato alla parola cognome è d’ob-bligo perché in effetti quel Vaistrininon era un nome di famiglia, bensìun errore interpretativo che avevaoscurato la reale formula Peregrinoviro strenuo (cap. 1). E, così, sfa-tando una serie di errori e seguendole tracce dei primi sistemi onoma-stici adottati dagli italiani, Bizzocchiricolloca l’origine dei cognomi primadella data fissata dal Muratori e cioènell’819, a Venezia. La città lagunarepuò per tanto essere considerata la“capitale dei cognomi”, direttamentericonducibili a precoci dinamiche so-cio-politiche e socio-culturali del pa-triziato locale (cap. 4).La storia dei cognomi tracciata

da Bizzocchi è quindi ricostruita at-traverso un’attenta analisi criticache, via via, problematizza spazi,tempi, modi della formazione deinomi di famiglia e della loro stabi-lizzazione o anche della loro insta-bilità, mostrando analogie e diffe-renze che emergono sia dal con frontosincronico tra contesti socio-cultu-rali e geografici differenti tra loro, esia dal confronto diacronico. La na-scita dei cognomi fu tutt’altro cheun processo lineare e omogeneo. Enon lo fu né sul piano culturale, perle diverse vicende politiche, religiosee sociali che hanno caratterizzato lapenisola italiana, né sul piano geo-grafico o sociale. Il caso di Veneziaoffre solo il primo esempio e la primamotivazione di come la formazionedelle élites locali abbia potuto favo-

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rire la precoce comparsa di elementidi iden tificazione degli individui.Come scrive l’Autore nell’Introdu-

zione al volume, «i cognomi si sonolentamente e faticosamente formati,e poi stabilizzati, come conseguenzadi un processo di interazione che hacoinvolto molti fattori: identità per-sonale, ruolo dell’individuo nella fa-miglia, posizione della famiglia nellacomunità di appartenenza, e infineintervento delle autorità costituite, laChiesa e i vari Stati che hanno eser-citato la sovranità nel nostro paese».Attorno a questi “fattori”, dunque, sipuò e si deve leggere il bel libro diBizzocchi.Il motore dell’avvio alla cogno-

mizzazione è da ricercarsi da un latonelle prassi burocratiche messe inatto dalle autorità civili ed ecclesia-stiche che, per le rispettive azionidi governo del territorio e delleanime, erano chiamati a lasciaretraccia degli individui e a raccoglieregli elementi per identificarli in ma-niera univoca all’interno di una co-munità. Dall’altro lato, il processodi formazione dei cognomi deve ri-condursi al bisogno di un pubblicoriconoscimento da parte degli stessiindividui e all’esigenza di quest’ul-timi a rendere riconoscibile la pro-pria appartenenza a una famigliae/o a una comunità. Processi, quellidescritti, che ebbero, com’è noto, unforte impulso nel corso dell’età mo-derna nei nuovi apparati statali eche trovano nel volume di Bizzocchiche stiamo discutendo un interes-sante e originale riscontro. Sonoproprio le interazioni e le relazionibilaterali tra individui, istituzioni esocietà a guidare le osservazioni diBizzocchi, che a proposito di questoscrive: «il rapporto fra vita quoti-diana e scrittura chiama prepoten-

temente in causa la questione dellastratificazione socioculturale. I no-bili e i benestanti maneggiavano idocumenti scritti, mentre il popolovi compare di solito in modo pas-sivo» (cap. 28), non potendo control-lare la correttezza con cui si regi-strava e si trasmetteva il propriocognome, subendo storpiature di va-ria natura e favorendo la registra-zione dei cognomi in modi semprediversi. Si pongono quindi due ri-flessioni. La prima di esse riguardai diversi tempi con cui si fissarono icognomi in base alla classe socialedi appartenenza. La seconda ri-guarda la molteplicità anche delleforme nominali con cui, in tempi di-versi, poteva identificarsi un indivi-duo o un gruppo familiare e dunquepoteva essere registrato dalle auto-rità preposte. È noto che fu la Chiesa post-tri-

dentina ad avviare la prima spintadecisiva verso la fissazione o forma-zione dei cognomi attraverso la regi-strazione, più regolare e sistematica,degli individui nei registri parroc-chiali e con le prime forme di censi-mento della popolazione attraversogli stati delle anime. Si tratta certa-mente, in quest’ultimo caso, di fontiprivilegiate sulle cui potenzialità esi-ste una ricca bibliografia. A queste più note fonti l’Autore

affianca, però, un’altra ricca tipologiadocumentaria: soprattutto atti nota-rili e rilevazioni fiscali, che di con-sueto contengono gli elementi utili aidentificare i contraenti. Tutte questefonti attestano senz’altro l’uso dei co-gnomi, ma ciò che interessa è anchestabilire la percezione e l’utilizzo delcognome come elemento stabile ecerto per l’individuazione di una per-sona. Per fare ciò Bizzocchi esaminai sistemi di indicizzazione, offrendo

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come primo esempio l’Indice dei libriproibiti del 1596. In quel caso pre-valse, infatti, un’indicizzazione perprenome con poche eccezioni di au-tori indicizzati con il cognome, comenel solo caso di Boccaccio. Dimostra-zione quest’ultima che il cognome,per quanto ormai diffuso, non eraancora un elemento centrale nellaidentificazione delle persone. Solo apartire dall’età napoleonica si ebbe ilprimo impulso «su grande scala al ri-baltamento delle priorità che ha poideterminato e tuttora determina, inmodo inconfondibile la dichiarazionedell’identità onomastica di ogni indi-viduo in contesti pubblici e ufficiali»,fissando il cognome come elementoprioritario nell’identificazione di cia-scuno di noi (cap. 35).La visione a tutto tondo del mondo

dei cognomi non tralascia nessunaspetto, arricchendo il volume di det-tagli sempre più affascinanti. Nonsono trascurati i cognomi dei perso-naggi storici, così come la percezionee l’uso dei cognomi nelle fonti lettera-rie. Il quadro delle abitudini onoma-stiche della società di Antico Regimeè arricchito dallo studio dei cognomiassegnati alla servitù o ai “bambinisenza famiglia” affidati agli istituti as-sistenziali. Inoltre, si volge lo sguardoanche ad alcune minoranze religiose,come quella dei Valdesi, il cui fortesenso di appartenenza a una comu-nità ha prodotto cognomi «assai piùcarichi di identità storica della mediadei cognomi degli italiani» e chehanno finito per caratterizzare unaben precisa area del Piemonte occi-dentale, al punto da sembrare inap-propriato parlare di cognomi valdesi(cap. 18). Si tratta in questo caso diun discorso che può essere traslatoanche ad altre minoranze, come nelcaso di quella ebraica, pure trattata

nel volume o di molte altre cui è de-dicata un’apposita sezione Minoranzenel volume già citato L’Italia dei co-gnomi, esteso anche al caso dei co-gnomi degli zingari o dei moriscosnella penisola iberica.Altro elemento che conferisce ul-

teriore completezza al volume è lascelta di estendere la ricerca anchea casi-studio esterni ai confini dellapenisola, ma pur sempre utili a per-seguire una storia dei cognomi degliItaliani. Per questo è analizzato il casodella Corsica nel cui sistema cogno-minale predominano forme italiane.Un lungo periodo di dominio italiano,pisano prima e genovese poi ha, in-fatti, indelebilmente segnato il si-stema onomastico dell’isola, dimo-strando che all’epoca in cui vi fu ilforte cambiamento politico, nel 1768,le forme cognominali avevano già rag-giunto una certa maturazione.Parlando di cognomi degli ita-

liani, poi, non può escludersi lagrande emigrazione di fine Ottocentoe inizi Novecento verso le Americhee, dunque, la massiccia esportazioneall’estero, non solo di uomini donnee bambini, ma anche dei loro co-gnomi, che subirono immediate osuccessive trasformazioni e adatta-menti al nuovo contesto socio-lin-guistico. Un elemento assai importante che

pure emerge dal libro di Bizzocchi ri-guarda i diversi spunti offerti per leg-gere una storia anche dei cognomidelle italiane. Più volte nel corso dellibro emerge, infatti, il ruolo che an-che le donne ebbero nella società eper la formazione di alcuni cognomi.Alle ovvie tracce del genere femminilenei matronimici del tipo De Maria oD’Agata, devono affiancarsi altri casiassai più singolari e interessanti. Ri-cordo tra tutti l’esempio di alcuni vil-

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laggi nel territorio di Nuoro a voca-zione pastorale in cui, tra Cinque eSettecento, vigeva un sistema cogno-minale doppio, con la trasmissionesia del cognome paterno che di quellomaterno. Si trattava di un sistemache traeva le sue origini dalle dina-miche ereditarie per cui agli uominiera assegnato il gregge e alle donnela casa.Infine, l’ultima fonte scelta per la

chiusura del volume pone l’atten-zione a un dibattito di estrema at-tualità. È, infatti, discussa la sen-tenza della Corte europea dei dirittidell’uomo del 7 gennaio 2014. Sitratta di una sentenza epocale per lequestioni di genere e per la storiadella famiglia, con la quale si è apertala possibilità di assegnare ai proprifigli anche solo il cognome della ma-dre, a discrezione dei genitori. D’al-tronde già nel 2006 la Corte costitu-zionale si era pronunciata in favoredel superamento di una concezionespiccatamente patriarcale della fami-glia e dell’adeguamento del sistemadi attribuzione del cognome al valorecostituzionale dell’uguaglianza trauomo e donna.«Quello dei cognomi – scrive Biz-

zocchi – è un tema sempre di attua-lità, che continua a riguardareognuno di noi non solo per i nostriinteressi storici o le nostre curiositàerudite, ma anche come cittadini inuna società che si evolve in unmondo che cambia sempre più rapi-damente» (cap. 44). È proprio perquesti motivi che Bizzocchi giusta-mente non può e non vuole trarreuna conclusione per la sua storiadei cognomi, protagonisti del dive-nire storico e oggetto delle trasfor-mazioni socio-culturali proprie diogni epoca.

Valeria Cocozza

Michele Olivari, Avisos, pasquines yrumores. Los comienzos de la opiniónpública en la España del siglo XVII,Cátedra (Historia/Serie Menor), Ma -drid, 2014, pp. 520

El objetivo inicial de la obra es,sin duda, uno de sus grandes atrac-tivos. Apartándose de la concepciónclásica sobre el momento ilustradode la opinión pública, el autor haceretrotraer sus orígenes a los años ini-ciales del siglo XVII. Sin detenerseen exceso en el “eterno” debateacerca del surgimiento del concepto,desarrolla su tesis –mantenida enotros tantos trabajos– sobre el cre-ciente grado de comunicación y tran-smisión de noticias, escritos, comen-tarios, rumores, etc., sobre loshechos y acontecimientos de natu-raleza política en la sociedad espa-ñola de finales del siglo XVI. Una ten-dencia –en opinión del autor– que noharía sino aumentar en los años si-guientes, dando lugar a una inci-piente aunque muy significativa opi-nión de la que participaría unnúmero en absoluto insignificante desúbditos.La obra de Michele Olivari puede

ser leída como una historia del rei-nado de Felipe III a través del prismade la opinión pública. Un propósitocapaz gracias al enorme número defuentes y materiales empleados porel autor conjugados con un excelenterepertorio bibliográfico. Estructurada en tres grandes

partes, la primera (“Premisas histó-ricas y culturales de la Opinión Pú-blica”), está dedicada a la reflexiónsobre la naturaleza pública de lascalles y plazas de las ciudades y villasespañolas, principales escenariospara la representación y difusión demensajes dirigidos al común de la

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sociedad. La vitalidad de los lugarespúblicos –en los que confluían con-tenidos propagandísticos orquesta-dos desde el poder con la posibilidadde informarse a través de otros cau-ces informales de comunicación– severía reforzada en los primeros añosdel siglo XVII «por la concomitanciade un régimen político más abiertoque el precedente». Sin embargo, aúnen los años finales del reinado de Fe-lipe II, el autor no duda en señalar loque considera las bases de la opiniónpública posterior, destacando una se-rie de episodios enormemente rele-vantes para perfilar y caracterizar sudesarrollo. En este sentido, son ana-lizadas por Olivari algunas de las ma-nifestaciones más controvertidas delmovimiento comunero, las fiestas ce-lebradas tras la victoria de Lepantoo los pasquines que circularán en laciudad de Zaragoza con motivo de lossucesos de Antonio Pérez; desfiles,fiestas y mensajes escritos como víasde canalización y expresión de di-scursos e imágenes políticas poten-cialmente accesibles a un público enaumento. Precisamente, la implica-ción de la sociedad en los asuntos denaturaleza política, encontraría ter-reno abonado en los inicios del rei-nado de Felipe III. El clima menos rí-gido que inauguraba el nuevo reypermitiría –en palabras de Olivari–cierta «estabilidad y mayores oportu-nidades al interés de los españolespor cuanto sucedía en los palaciosdel poder y en sus entornos». La pro-pia exposición de los reyes en susjardines y fiestas era una prueba másde la diferencia de estilos en los mo-dos de gobierno de padre e hijo. Laposibilidad de tomar la pluma y deairear opiniones sobre temas tan po-lémicos como la atenuación de losestatutos de limpieza de sangre, evi-

denciaba la aparición de nuevas for-mas y espacios de opinión revelado-res de una «vida pública amplia», in-tegrada no solo por los intelectualesdel círculo reducido de la élite corte-sana y aristocrática, sino tambiénpor sectores de la vida popular. La«alta política y la política de plazas»articuladas a partir de rumores, cor-rillos, avisos, ecos y demás reunionesinformales que –tanto en la cortecomo fuera de ella– servían para lle-var y traer la tensión política del mo-mento.En la segunda parte de la obra,

titulada “Fundamentos y sujetos dela opinión pública”, el autor ofreceun análisis plural y revitalizador delcontexto teórico que envuelve al con-cepto “opinión pública”. En el primer capítulo, se presen-

tan el conjunto de requisitos que de-ben tenerse en cuenta para estudiarel nacimiento de la opinión pública;suscribiéndolos, de manera acertada,dentro de la óptica de la “sociedaddel bienestar” propuesta por PierreVilar. En esa dinámica descriptiva, sehablaría de los siguientes factores: lademanda intelectual de la sociedad,el proceso de alfabetización, el papelde las universidades (centrando laatención en Salamanca y en otrosespacios más reducidos), la presenciade los lectores (para los que se pro-ponen novedosas formas de medicióna través de las gafas dedicadas a lalectura o el desarrollo de la industriaeditorial) y la relación de los libroscon la vida política (lo que indefecti-blemente se relaciona con la labor delos censores). De otro lado, dando unpaso más, Olivari señala otros condi-cionantes que influyen en el ecosi-stema de la opinión: la cuestión moral(donde aborda el tema de “la opinióndesde abajo” a partir de ejemplos va-

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riados como el de la controversia ge-nerada en torno a la licitud o no delteatro), la proximidad de los autorescon los centros generadores de noti-cias (reflejando la capacidad de algu-nos escritores para salvar la accióncensora –siendo paradigmático elcaso de Gaspar Lucas Hidalgo y losDiálogos de apacible entretenimiento–), la retroalimentación discursiva quese producía a partir de la dicotomíalectores-autores (siendo muestra deello los discursos arbitristas o las sá-tiras políticas) y la importancia de losconventos como auténticos centrosde noticias (ejemplificado a partir delcartapacio del dominico Gaspar Vi-cens). Cierra el capítulo, a modo deresultado, la atención sobre lo que elautor llama “el gran público”, siendoespecialmente destacable su visiónde éste como un conjunto de espec-tadores que adquiría una disposiciónjerárquica en función de la informa-ción. Se trata, pues, de una imagennovedosa de la estructura socioinfor-mativa, lo que también ayuda a ana-lizar las redes sociales desde la visiónde la opinión pública. En fin, un ca-pítulo que presenta un orden lógico yconsecuente que va sumando ele-mentos explicativos –conectados en-tre sí– a los argumentos expuestos,ampliando el horizonte conceptualpropuesto.El siguiente capítulo es el dedi-

cado a los “instrumentos de comuni-cación”. Aquí se enmarcaría la pre-dicación, de la que el autor ofreceuna visión interesante al abordarladesde su interactuación con el pú-blico, ayudando a entender su fun-ción dentro de la creación de opinión.También el teatro, ya que éste servíapara facilitar las críticas encubiertasa las clases privilegiadas, lo que enocasiones coincidía con algunas in-

quietudes intelectuales. Igualmenteimportantes eran los bandos políti-cos, para los que Olivari analiza elcaso sevillano (la llamada “justicia-espectáculo”) y el valenciano (expo-nente de la simbiosis entre lo profanoy lo sagrado). El gran valor de estapropuesta analítica es su demostra-ción de que éstos trascendían el ám-bito puramente local, por lo que plan-tea la sugerente idea de que estafuente puede servir para conocercómo era la percepción de los pro-blemas por parte de la administra-ción y para comprender las relacio-nes entre el poder y la comunicaciónpública. Pasquines, panfletos y libe-los eran otros de estos canales, in-terpretados por el autor como formasde oposición y disensión contra el po-deroso, factor clave para afianzar suconstrucción teórica sobre el con-cepto “espectador colectivo”. Junto alo anterior, aparecen las “relacionesde sucesos”, con las que caracteriza,además, el ambiente cortesano de in-trigas durante la primera etapa dereinado de Felipe III.Por otra parte, se encuentran los

medios que, sin ser nuevos del todo,sí que aparecen de forma más in-tensa y tangible en los inicios de si-glo. Es el caso de los avisos, de losque demuestra con gran énfasis queno fueron un recurso marginal, puessu importancia fue aumentando con-forme avanzó el siglo. Otro elementodestacable es la comparación querealiza con la realidad catalana (ana-lizando para ello los avisos de Madriden Cataluña), facilitando la descrip-ción de los flujos de información.Además, Olivari da especial relevan-cia a los denominados como «casosde interlocución con el público»: las«gacetas mal asonantadas» (desta-cando su conexión con la oralidad y

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su transgresión de lo meramente lo-cal), las noticias con temáticas cen-tradas en el bandolerismo, las fac-ciones o las acciones de los virreyes(como complemento de los avisos ypor ello un instrumento utilizado porlas élites políticas) y los diarios, cen-trando la atención en el Dietari deJeroni Pujade. En definitiva, este ca-pítulo, gracias a su amplitud geográ-fica y variedad temática, explica deforma sobresaliente cómo se produ-cían los diversos intercambios infor-mativos y qué elementos operabandentro de las corrientes de transmi-sión de la información.Cierra esta segunda parte el ca-

pítulo dedicado a la acción de los su-jetos políticos en la vida pública. Paraello, Olivari presta atención a lasCortes, destacando esa doble funciónque ejercen en relación a la opinión:son altavoz de los intereses munici-pales, pero también un difusor de lostemas propulsados desde la Coronay su entorno. El mismo análisis seefectúa para la contribución de la no-bleza a la vida política, bien argu-mentado a través del estudio de larelación de negociaciones diplomáti-cas con Inglaterra llevadas a cabopor don Íñigo Fernández de Velasco,Condestable de Castilla. Este apar-tado introduce también la figura delos mediadores, acertadamente re-presentados por los enviados de laCorona a los centros alejados de laCorte. La propuesta novedosa es lavisión de estos personajes como cor-reas de transmisión de opinión e in-formación desde el centro a las ciu-dades. Por último, y cerrando estaenumeración, aparece la acción delas medidas legislativas, poniendo elfoco en las destinadas al control dela vida universitaria y a la seguridadpública de la capital.

La aportación esencial de esta se-gunda parte, radica por tanto, en elanálisis de los elementos necesariosy las claves oportunas no solo paraconocer nuevos aspectos que com-pleten el conocimiento sobre el rei-nado de Felipe III, sino que introducelas bases teóricas para comprenderla génesis y el origen de las distintasformas que asumió la opinión públicaen los inicios del siglo XVII. En la tercera parte (“Las dinámi-

cas de la Opinión Pública, 1598-1621”) se analiza el pulso arrítmicode una opinión que careció de ho-mogeneidad a lo largo del reinado. Síen los comienzos, el grado de con-senso y esperanza puestos en FelipeIII quedaban fuera de duda, la inevi-table sucesión de fracasos y tensio-nes internas en la vida de la monar-quía, daría pronto al traste consemejante estado. En este punto, elautor escribe unas sugestivas pági-nas sobre la percepción de un nú-mero de episodios políticos más querelevantes entre un público capaz deexaminar y participar así en el juegode los acontecimientos. El impactode la discutida paz de 1605 con In-glaterra –una potencia hereje– y lascríticas de los reputacionistas a la lí-nea impuesta por Lerma y el rey; lasescandalosas corruptelas de los mi-nistros Franqueza y Ramírez delPrado y su denuncia por intelectualescomo el padre Mariana; la expulsiónde los moriscos y la oposición –ai-slada aunque reconocible– de religio-sos como los jesuitas Pedro de Leóny Jerónimo Román de la Higuera, lacrítica conservada en la memoria delos carmelitas de Tortosa, las resi-stencias locales de regidores, aristó-cratas, clérigos, etc.No obstante, serán los años fina-

les del reinado de Felipe III y la quie-

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bra del poder labrado por el duquede Lerma, los que mayor número decríticas y reacciones contrarias de-spertarán en una opinión que mu-daba ya de la inicial aceptación a unaconstante desconfianza. En este sen-tido, serán analizadas con detallefuentes tan diversas como las sátirasdel conde de Villamediana, el sal-mantino Diario de Girolamo de Som-maia o los debates sobre la estrategiainternacional desplegada por el rey.Un coral de voces que pudieron serpronunciadas y escuchadas en unaEspaña –concluye el autor– «más pa-cífica, menos inquisitorial y, en con-secuencia, menos presionada por laherencia de una beligerancia dirigidaa su interior como a Europa». Más allá de las características de

la opinión pública en la que insisteOlivari, sus límites y las condicionesque cuajaron para su aparición a fi-nales del siglo XVI y los primerosaños de la centuria siguiente, la obradeja una evidencia–a nuestro juiciotanto o más transcendente que la an-terior– relativa a la discutida tesissobre la politización de la sociedadModerna. Frente a la lectura tradi-cional en la que tanto politólogoscomo historiadores se refieren alestadio pre-político dominante en lasociedad europea antes de 1789, tra-bajos como los de Olivari son capacesde cuestionar los fundamentos de la

débil conciencia política –en este casode los españoles de 1600– demo-strando el interés de una parte –cadavez más amplia– del cuerpo socialpor las acciones y decisiones de susgobiernos y gobernantes. Un interéscanalizado a través de rumores, car-tas, memoriales, incluso gestos y ac-tuaciones que servían para transmi-tir mensajes a una población no tanindiferente a lo político. Los estudiossobre la opinión pública resultan unmedio de extraordinario valor parapulsar la forma en la que los discur-sos, hechos y acontecimientos políti-cos eran recibidos por la sociedad delmomento, qué se entendía, cómo sedifundían, quién o quiénes partici-paban en su circulación, con qué fi-nes, en definitiva, comprender la in-fluencia recíproca de la acciónpolítica, tanto de los grandes proce-sos como de las decisiones cotidia-nas, captadas desde abajo pero tam-bién, en ocasiones, resultado de unestado de ánimo que favorecía o nosu desarrollo. La obra de Olivari con-stituye una excelente herramientapara seguir proponiendo nuevas lec-turas que enriquezcan el debate hi-storiográfico sobre éstas y otras mu-chas dimensiones del poder y surepercusión social.

Francisco Precioso Izquierdo Francisco Javier Crespo Sánchez

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