Recensione su "Filosofia Italiana"

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www.filosofia-italiana.net - ISSN 1827-5834 – Aprile 2014

 

Filosofia Italiana

Recensione a

Carlo Scognamiglio, Storia e libertà. Quattro passi con Hegel e Tolstoj, Pensa

MultiMedia, Lecce 2013

di Ambrogio Garofano

Il libro di Carlo Scognamiglio, Storia e libertà (Quattro passi con Hegel e Tolstoj, come recita il

sottotitolo – verso Hartmann e incrociando Croce, aggiungerei io, se mi fosse concesso), non si

presenta come una trattazione accademica del concetto di storia, del quale si tenti, vocabolario

alla mano, una definizione (che sia poi da sviluppare), o, com’è di moda oggi, un’indagine

genealogica; neppure vuole essere una ricostruzione storica, che disponga sulla linea dello

sviluppo cronologico le diverse concezioni dell’oggetto d’analisi. Piuttosto, si tratta di una

riflessione, condotta con toni e sensibilità da filosofo, su alcuni temi e problemi emersi

nell’ambito del dibattito sulla storia.

L’esposizione presenta un andamento discontinuo. Alla voce di Löwith, che apre il

dialogo, fanno eco quelle di Hegel e Croce; a queste, quella di Nicolai Hartmann; più avanti parla

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Tolstoj, che sul finale cede nuovamente la parola ad Hartmann. Si direbbe che i filosofi presi in

esami siano coinvolti in un comune dialogo; o, peripatetici post litteram, facciano «quattro passi»

conversando di storia. Come in ogni consesso filosofico che si rispetti, anche in questo dialogo a

più voci, più che risposte vengono fuori nuove e più sconcertanti domande. «Tutto è faticoso e si

manifesta nella sua estrema complessità» – così l’autore, nella breve prefazione al libro, ad

anticipare il groviglio di difficoltà che sta per esser presentato. E le questioni, in effetti, sono

difficili. Eppure, l’impressione che si ricava dalla lettura del saggio è opposta a quella auspicata

dall’autore: le difficoltà appaiono tenute insieme e, dunque, dominate e risolte, entro un ordito

concettuale rigido e non attraversato da particolari tensioni. Il problema del rapporto tra storia e

libertà appare risolto entro l’impostazione hartmanniana, compendiata efficacemente dall’autore

in queste parole: «se muovendosi nell’ambito dell’indagine etica Hartmann riesce ad affermare

[…] la libertà dell’essere personale, la transazione verso un’analisi più articolata dell’essere

spirituale, trascinata cioè sul terreno del movimento storico, determina una crisi profonda di

quell’aspirazione» (p. 110). E la crisi è a tal punto profonda che, sul terreno del concetto, per la

libertà non vi è spazio alcuno. Piuttosto, la libertà – e con questo passaggio Scognamiglio

presenta la propria proposta, ispirata a un certo volontarismo – va voluta, è un’aspirazione: «l’ethos

filosofico deve prendere una posizione, e credo, assumere la decisione – libera finanche dalla

necessità logica – di volere la libertà della persona, pur non potendola accogliere razionalmente»

(p. 111).

Ma come giunge l’autore a presentare una tale prospettiva? Per rispondere alla domanda,

occorrerà rivolgersi al percorso, articolato in tre tappe, che egli ha inteso presentare. Nel primo

capitolo si mostra come la prospettiva idealistica (tanto quella hegeliana, quanto la sua variazione

crociana), nonostante resista ad alcune classiche critiche (l’autore fa riferimento a quelle del

Löwith di Uomo e storia, dello Hartmann de Il problema dell’essere spirituale e del Dray di Filosofia e

conoscenza storica), pure mostri un profilo aporetico. L’identità (dialettica) tra res gestae e historia rerum

gestarum, tra accadimento e narrazione, permette, sì, di uscire dall’ingenuo mito del dato, ma, nello

stabilire un certo rapporto tra categoria e realtà, pensiero ed essere (storico, nella fattispecie), non

riesce ad esibire la prova del rigore filosofico. La separazione che si intendeva dialetticamente

ricucire si ripresenta, in Croce, come distinzione tra storia e filosofia (quest’ultima intesa come

momento metodologico della storiografia), in Hegel come distinzione tra essenziale e

inessenziale. Si badi, specifica Scognamiglio, non si tratta della distinzione tra «fatti e narrazioni di

fatti», bensì di quella tra «pensiero di fatti (storia) e conoscenza delle strutture categoriali di tale

attività pensante (metodologia della storia, o filosofia)» (p. 41).

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Del resto, già nel secondo paragrafo di questo capitolo, si era fatto riferimento ad una di

queste strutture metastoriche, e cioè alla hartmanniana «protrazione» (p. 23). Ma è solo con il

secondo capitolo che Le categorie della storia vengono in primo piano. A partire dall’affermazione

del filosofo di Stoccarda, secondo la quale nella filosofia della storia si considera ciò che è

essenziale e si tralascia ciò che non lo è, Scognamiglio prende in considerazione lo spirito logico che

sottende la concezione hegeliana. Si rivolge dapprima alle categorie di essenziale e inessenziale, le

prime e più povere determinazioni della Dottrina dell’essenza; passa poi al positivo e al negativo; per

finire con la Realtà, categoria (e sezione) entro la quale si risolve il faticoso percorso della Dottrina

dell’essenza, il cui esito l’autore individua nella presentazione della realtà come unità di essenza ed

esistenza (p. 50). Il riferimento alla Scienza della logica permette a Scognamiglio di chiarire che la

differenza tra inessenziale ed essenziale, alla quale Hegel, a sua volta, fa riferimento nelle prime

pagine delle Lezioni sulla filosofia della storia, non si riferisce ad una differenza tra fatti e fatti (alcuni

dei quali sarebbero degni di nota e assunti come essenziali, ed altri meno – ché, se così fosse, in

linea con quanto Hegel afferma, il criterio della distinzione sarebbe assolutamente estrinseco, non

potrebbe che cadere in un terzo, il soggetto valutante, il quale, arbitrariamente, deciderebbe di

assegnare l’essenzialità e l’inessenzialità all’uno o all’altro dei termini), quanto piuttosto alla

distinzione tra la forma categoriale dell’essere storico e la sua esistenza. È nella lunga

introduzione alle Lezioni sulla filosofia della storia, che Hegel indica nel «mutamento» (Veränderung),

nel «ringiovanire» (Verjüngung) e nella ragione le tre categorie fondamentali del processo storico.

Dopo aver notato l’analogia tra le prime due e la protrazione hartmanniana, è sulla terza categoria

che Scognamiglio concentra lo sguardo, richiamando l’attenzione su quelle figure scelte da Hegel

ad esemplificarla, il nous anassagoreo e la provvidenza.

È con quest’ultimo tema che, per la prima volta e in maniera esplicita, il saggio apre al

problema della libertà, con la domanda: Lo spirito è libero? (pp. 63-67). In breve, e senza

ripercorrere la scansione degli argomenti proposta dall’autore, la «teleologia storica» hegeliana

presenta «il tratto determinante della necessità» (p. 68): in essa, la libertà dell’individuo è

impensabile. Nel presentare – e, sulla scorta delle indicazioni di Hartmann, criticare – il modello

finalistico che sottende la concezione hegeliana, Scognamiglio invita a distinguere tra una

teleologia cosmica e una teleologia umana. Il modello di quest’ultima, offerto dalla produzione

umana e presentato in maniera efficace da Aristotele in Metafisica z, 7, non può essere esteso alla

prima, la teleologia cosmico(-storica). Se tratto fondamentale di quest’ultima si rivela essere la

necessità, la libertà sembra esserlo della teleologia umana. Come specifica l’autore, se «lo sguardo

si sposta dal fenomeno individuale a quello collettivo, è più difficile continuare a esprimersi negli

stessi termini. Se libera è l’azione programmata e realizzata, lo spirito oggettivo, privo di una sua

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capacità di anticipazione [privo cioè della capacità di posizione coscienziale del fine],

sembrerebbe estraneo al concetto di libertà, anzi parrebbe esso stesso costituire un limite all’idea

di libertà personale» (p. 78).

Preparato da quest’ordine di considerazioni, nel terzo capitolo, La forza e la libertà, il tema

che dà il titolo al libro è posto al centro della trattazione. Qui, però, in primo piano viene Tolstoj

e quella lunga digressione sulla storia che si trova sul finire di Guerra e pace. Rispetto ai problemi di

movimento, direzione e nesso di determinazione del processo storico, Tolstoj si muove su un

terreno diverso da quello hegeliano. Per il romanziere russo, topica fondamentale del discorso

storico è la forza. Sebbene Tolstoj sembri oscillare tra una metafisica teleologica e un causalismo

meccanicistico, in realtà, a ben vedere, sovverte entrambi gli schemi. Le categorie modali,

continua l’autore, non permettono di orientarsi nel processo storico, il quale è «semplicemente

effettuale», non «possibile, né necessario, né casuale» (p. 88). L’effettualità del flusso degli

accadimenti storici è la risultante di infinitesimali “movimenti particolarissimi e individuali” (p.

88), entro la quale la pianificazione (e, dunque, la libertà) del singolo non trova spazio.

L’autore ritiene che, sebbene «in termini filosoficamente abborracciati» (p. 90), Tolstoj sia

pervenuto a conclusioni analoghe a quelle cui perverrà, decenni dopo, Hartmann in Möglichkeit

und Wirklichkeit (1938). Hartmann mostra come le categorie modali siano inadeguate alla

comprensione del processo storico. Tramite le prime quest’ultimo è ricondotto a un modello

viziato di antropomorfismo, nel quale è «la scelta di una possibilità» a permettere l’uscita

dall’orizzonte indeterminato delle molteplici possibilità e a realizzare l’effettualità. Questo

modello non può essere esteso al processo storico per diversi motivi. Anzi tutto, occorre

osservare che la storia «risulta essere un indecifrabile risultato di microeventi reciprocamente

condizionanti» (p. 95), sul quale la scelta e l’azione del singolo sembrano non poter incidere in

alcun modo. Inoltre, l’illusione di un aperto orizzonte di possibilità (che dischiuderebbe lo spazio

per la pensabilità della libertà) dipende da un difetto cognitivo dell’uomo, il quale non può

abbracciare con lo sguardo la totalità delle condizioni che producono un determinato evento.

Condizioni che, se si conoscessero, svelerebbero l’orizzonte di un ferreo determinismo.

Questa considerazione ontologica, ha effetti anche sulla metodologia storiografica. Con

Tolstoj (il quale, come rileva Scognamiglio, in questo è vicino a certe posizioni della Nouvelle

histoire), occorre abbandonare storie di re e condottieri, e rivolgersi agli «elementi omogenei e

infinitesimali che condizionano il comportamento delle masse» (p. 97). Le risoluzioni di re e

condottieri non sono altro che la condizione finale che suggella, senza veramente determinare, un

processo che ha nelle molteplici condizioni e avvenimenti la propria causa.

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Come che sia delle ricadute che questo discorso ha sulla metodologia storiografica

(Scognamiglio le segnala nel secondo e nel terzo paragrafo del terzo ed ultimo capitolo), quel che

si ricava dall’analisi condotta dall’autore, come si diceva sopra, è una netta ed inequivocabile

risposta (ispirata al pensiero di Nicolai Hartmann) al problema del rapporto tra storia e libertà.

Sebbene dall’ontologia a «strati» hartmanniana si ricavi che è «un surplus di libertà» (p. 109) a

costituire la specificità della dimensione umana dell’essere, tuttavia non si può ignorare ciò che

l’Ethik dichiara in termini espliciti: del libero arbitrio è possibile una visione soltanto ipotetica, dal

momento che «”essere e realtà della libertà personale restano al di là dei confini della razionalità”»

(p. 109). La conclusione è tratta a partire dal rilievo che la sfera spirituale non si esaurisce nella

sola dimensione personale: occorre tener presente una sfera intersoggettiva, che, secondo

Hartmann (e con lui Scognamiglio), risulta effettivamente determinante. In definitiva, la libertà,

che, verbis, è presentata come connaturata allo «strato» più alto dell’essere, nei fatti, e considerata

alla luce dell’essere spirituale storico, si riduce ad aspirazione soggettiva. Non per questo, come si

diceva in apertura, l’autore ritiene ci si debba rassegnare alla rinuncia della libertà, dal momento

che essa vive nel «nostro “sentire”», si presenta come «certezza della nostra capacità di

autodeterminazione» (p. 112).

Contro una tale prospettiva, non solo si potrebbero riesumare le vecchie critiche che

Hegel rivolgeva al suo avversario Fries; ma, soprattutto, si potrebbe rilevare l’inconsistenza di un

tale “sentire” o “esser certi” rispetto ad una ontologia (che Scognamiglio riconduce ad Hartmann

e i cui assunti fondamentali sembra condividere), che si risolve in un determinismo forte (hard

come direbbero gli anglofoni).

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