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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia Corso di Laurea Specialistica in Economia e Gestione delle Reti e dell’Innovazione Il commercio internazionale Rassegna teorica di alcune tra le più importanti teorie economiche riguardanti il commercio internazionale e verifica empirica in riferimento a Stati Uniti e Cina Economia Internazionale Anno Accademico 2005/06 Prof. Andrea Ginzburg Relazione a cura di: Fabio Ruini Matricola nr. 7496

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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia

Corso di Laurea Specialistica in Economia e Gestione delle Reti e dell’Innovazione

Il commercio internazionale

Rassegna teorica di alcune tra le più importanti teorie

economiche riguardanti il commercio internazionale e verifica

empirica in riferimento a Stati Uniti e Cina

Economia Internazionale

Anno Accademico 2005/06

Prof. Andrea Ginzburg

Relazione a cura di:

Fabio Ruini

Matricola nr. 7496

Produttività del lavoro e vantaggi comparati: il modello ricardiano

Tra i vari modelli teorici del commercio internazionale proposti dagli economisti nel corso degli

anni, un posto d’onore spetta sicuramente a quello elaborato dallo studioso britannico David

Ricardo ai primi del 1800.

Secondo la sua tesi, i motivi che spingono due Paesi a commerciare tra loro sono principalmente

due:

• trarre vantaggio dalle proprie differenze: ciascun Paese produce ciò che sa produrre

relativamente meglio;

• realizzare economie di scala nella produzione: producendo una gamma limitata di beni, la si

produce in quantità maggiore ed in maniera più efficiente rispetto a quello che si potrebbe

fare dovendo suddividere le risorse in una più variegata gamma di beni.

Il concetto essenziale sul quale si basa l’analisi di Ricardo è quello del “vantaggio comparato”, che

andiamo subito a descrivere.

Il concetto di vantaggio comparato

Per comprendere il concetto di vantaggio comparato, occorre prima di tutto introdurre quello di

“costo-opportunità”. Quando un’economia ha la possibilità di produrre più di un bene,

inevitabilmente si trova a dover affrontare un trade-off, dovendo scegliere una certa combinazione

dei diversi beni da produrre. Possiamo definire come “costo-opportunità del bene A in termini del

bene B”, il numero di unità del bene B che sarebbe possibile produrre utilizzando le risorse

impiegate per la produzione di un certo numero di unità del bene A. Ad esempio, se negli Stati Uniti

possiamo ipotizzare un costo-opportunità di 10 milioni di rose pari a 100'000 computer, è

ragionevole supporre che esso sia inferiore in Sud America e pari, ad esempio, a 30'000 computer.

E’ evidente come questa differenza nei costi-opportunità offra la possibilità di una riorganizzazione

internazionale della produzione che sia vantaggiosa per entrambi i Paesi. Se infatti gli USA

decidessero di cessare la coltivazione di rose, potrebbero produrre 100'000 computer in più. Allo

stesso tempo, se il Sud America interrompesse la produzione di computer e si concentrasse su

quella di rose, il mondo avrebbe comunque i suoi 20 milioni di rose, ma si ritroverebbe con 70'000

computer in più.

Questo duplice vantaggio esiste in virtù della specializzazione dei Paesi in quei settori per i quali

essi godono di un “vantaggio comparato”, ossia per i quali il loro costo-opportunità in termini di

altri beni è minore rispetto a quello i di altri Paesi.

Un’economia con un solo fattore

Iniziamo l’analisi del modello ricardiano ipotizzando l’esistenza di un’economia in cui esiste un

solo fattore di produzione (il lavoro) e dove vengono prodotti soltanto due beni: vino e formaggio.

La tecnologia impiegata in questa economia può essere descritta specificando la produttività del

lavoro in ogni settore industriale in termini di “lavoro impiegato per unità di prodotto”, ossia il

numero di ore di lavoro necessarie per produrre un chilogrammo di formaggio oppure un litro di

vino. Definendo con la quantità L le risorse totali dell’economia (la quantità di lavoro disponibile),

possiamo considerare aLW ed aLC le quantità di lavoro impiegate rispettivamente nella produzione di

un’unità di vino e di un’unità di formaggio. Ipotizziamo infine di essere in presenza di una perfetta

mobilità intra-nazionale ed in assenza di mobilità internazionale.

La frontiera delle possibilità produttive

Avendo a disposizione una quantità limitata di risorse, per produrre una quantità maggiore di un

bene sarà necessario rinunciare a parte della produzione dell’altro bene. Tale relazione è espressa

graficamente per mezzo di una “frontiera delle possibilità produttive” (la retta PF nella figura qui

sotto), la quale mostra la quantità massima di vino producibile una volta fissato il livello di

produzione di formaggio e viceversa.

Definendo QW e QC rispettivamente come la quantità di vino e di formaggio prodotte

dall’economia, i limiti della produzione saranno dunque descritti dalla disuguaglianza:

aLCQC + aLWQW L

Quando la frontiera delle possibilità produttive, come in questo caso, è una linea-retta, il costo-

opportunità reciproco tra i due beni è costante. Formalizzando con riferimento al formaggio, la

produzione di un’unità aggiuntiva di questo bene richiede aLC ore di lavoro aggiuntive, ciascuna

delle quali potrebbe dare origine ad 1/aLW unità di vino. Ne consegue che il costo-opportunità del

formaggio in termini di vino sia pari al rapporto aLC/aLW. Questo costo-opportunità è uguale al

valore assoluto della pendenza della retta della frontiera delle possibilità produttive.

Prezzi relativi e offerta

La frontiera delle possibilità produttive rappresenta le diverse combinazioni di beni che l’economia

può produrre. Per stabilire quale sarà la combinazione effettivamente prodotta, occorre però

considerare i prezzi dei beni e, in particolar modo, i prezzi relativi. Nel modello di Ricardo, essendo

il lavoro l’unico fattore produttivo disponibile, l’offerta di vino e formaggio (che normalmente

dovrebbe essere una funzione diretta della possibilità di massimizzare i profitti) è determinata dagli

spostamenti del lavoro verso il settore nel quale vengono pagati i salari più alti.

Definendo PC e PW rispettivamente come i prezzi del formaggio e del vino, il salario orario nei due

settori sarà dato dal valore del prodotto di un’ora di lavoro: PC/aLC per il formaggio, PW/aLW per il

vino. Con un semplice passaggio algebrico, possiamo vedere come il salario orario pagato nel

settore che produce formaggio sia maggiore di quello pagato nel settore che produce vino, se

PC/PW>aLC/aLW. Solo nel caso in cui questo rapporto sia uguale, entrambi i beni saranno prodotti

contemporaneamente.

Il rapporto aLC/aLW, come abbiamo visto prima, rappresenta il costo-opportunità del formaggio in

termini di vino. Si può quindi concludere che l’economia si specializzerà nella produzione di

formaggio se il suo prezzo relativo è maggiore rispetto al suo costo-opportunità, mentre si

specializzerà nella produzione di vino nel caso contrario. Inoltre, se l’economia è chiusa e necessita

di entrambi i beni, possiamo inferire che i prezzi relativi dei beni saranno pari al rapporto fra le

quantità di lavoro necessarie a produrli.

Il commercio internazionale nel modello a un solo fattore

Ipotizziamo ora l’esistenza di due Paesi, A e B, caratterizzati da una certa configurazione delle

variabili relative alla propria industria (per differenziarle, verrà utilizzato un “*” accanto a quelle

riferite al Paese B).

L’unica assunzione arbitraria che viene fatta su questi due Paesi è che per essi valga la relazione

aLC/aLW < a*LC/a*LW, esprimibile anche nella forma: aLC/a*LC < aLW/a*LW. Questa condizione non

indica altro se non il fatto che la produttività relativa di A è maggiore nel settore che produce

formaggio. Produttività relativa che è di fatto il costo-opportunità del formaggio in termini di vino;

siccome abbiamo definito il vantaggio comparato proprio in termini di tale costo-opportunità, ne

consegue che il Paese A ha un vantaggio comparato nella produzione di formaggio.

L’assunzione che abbiamo appena fatto non è priva di spessore. L’intuito di un osservatore, infatti,

potrebbe essere portato a considerare che il Paese che produrrà formaggio, dipenda dal confronto tra

aLC ed a*LC: il Paese con il valore più basso per questo parametro (ossia quello più efficiente)

produrrà formaggio. Questo tuttavia non è ciò che ci dice il modello ricardiano, che definisce come

“vantaggio assoluto” la particolare condizione appena citata. Il vantaggio comparato, al contrario,

coinvolge le quantità di lavoro impiegate in tutte e quattro le produzioni, non in due soltanto.

In assenza di commercio internazionale, i prezzi relativi dei due beni sarebbero determinati, in ogni

Paese, dal rapporto fra gli input di lavoro: il prezzo del formaggio sarebbe aLC/aLW in A ed

a*LC/a*LW in B. In un modello del commercio internazionale, tuttavia, non sarebbe ragionevole

supporre che il prezzo sia determinato soltanto da fattori interni. Se infatti il prezzo relativo del

formaggio fosse più alto in B che in A, si verificherebbe un flusso continuo di importazione di

formaggio da parte di B, che a sua volta esporterebbe vino in A. Questo processo continuerebbe

fino a che non fosse raggiunta l’uguaglianza dei prezzi relativi dei due beni in entrambi i Paesi. Il

problema che ci si pone ora è quello di determinare il prezzo relativo, ossia il prezzo internazionale

del formaggio in termini di vino.

La determinazione dei prezzi relativi dopo lo scambio

Nello studio dei vantaggi comparati, essendo essenziale non trascurare le relazioni fra mercati

distinti (nel nostro caso i mercati del vino e del formaggio), siccome A esporta formaggio per

ottenere vino ed il contrario fa B, si rende necessario il ricorso ad un’analisi di equilibrio generale.

L’analisi simultanea dei due mercati è realizzabile osservando non tanto le quantità assolute dei due

beni offerte e domandate in entrambi i Paesi, quanto piuttosto le quantità relative.

Nella figura inserita alla pagina seguente sono rappresentate la curva RS dell’offerta relativa

mondiale di formaggio e quella RD della rispettiva domanda relativa mondiale.

L’equilibrio generale internazionale viene raggiunto nel momento in cui domanda ed offerta relativa

combaciano, ossia nel punto in cui le due relative curve si intersecano. Se è abbastanza semplice

decifrare il significato della curva RD (decrescente poiché riflette un effetto di sostituzione, secondo

cui all’aumentare del prezzo relativo del formaggio, i consumatori acquistano meno formaggio e più

vino, facendo diminuire la domanda relativa di formaggio), risulta interessante spiegare la forma “a

gradino” dell’offerta RS. Essa sta ad indicare che:

• per un prezzo relativo del formaggio inferiore ad aLC/aLW, entrambi i Paesi si

specializzeranno nella produzione di vino e quindi non vi sarà produzione internazionale di

formaggio;

• per un prezzo relativo del formaggio pari a aLC/aLW, i produttori di A otterranno esattamente

lo stesso guadagno dalla produzione di vino e di formaggio (situazione di indifferenza,

espressa dalla sezione piatta della curva di offerta);

• per un prezzo relativo del formaggio superiore a aLC/aLW, il Paese A si specializzerà nella

produzione di formaggio, ma fintanto che il prezzo relativo del formaggio è minore rispetto

a a*LC/a*LW, il Paese B continuerà a produrre soltanto vino. Per ogni prezzo compreso tra

questi due estremi, l’offerta relativa di formaggio sarà uguale a: (L/ aLC)/(L*/a*LW);

• per un prezzo relativo del formaggio uguale ad a*LC/a*LW, vi sarà situazione di indifferenza

per i produttori del Paese B, che potranno produrre vino o formaggio in maniera egualmente

utile;

• per un prezzo relativo del formaggio maggiore di a*LC/a*LW, sia A che B si specializzeranno

nella produzione di formaggio e quindi non vi sarà produzione internazionale di vino.

Se l’equilibrio, come nel punto 1 della figura che abbiamo appena visto, va a trovarsi in un punto

compreso nell’intervallo aLC/aLW – a*LC/a*LW, allora ogni Paese si specializzerà nella produzione

del bene per il quale gode di un vantaggio comparato. Se la domanda relativa fosse diversa, ad

esempio RD’, l’equilibrio cadrebbe in un punto diverso (nel grafico, il punto 2), sulla componente

“indifferente” della curva di offerta. In questo caso il Paese B si specializzerebbe nella produzione

di vino (prezzo relativo del cibo minore rispetto al costo-opportunità del formaggio in termini di

vino), mentre A non sarebbe portato a specializzarsi in alcuno dei due beni.

Trascurando per un momento il fatto che uno dei due Paesi possa non specializzarsi completamente,

osserviamo che il prezzo relativo dei beni viene a trovarsi in un intervallo avente come estremi i

prezzi relativi interni, praticati prima dell’apertura al commercio internazionale. In A aumenterà il

prezzo relativo del formaggio (il punto di equilibrio 1 coincide con un prezzo relativo maggiore di

aLC/aLW) e ciò costituisce un incentivo per la specializzazione del Paese in quella produzione. B, al

contrario, vedrà diminuire il prezzo relativo del formaggio e sarà conseguentemente disincentivata

per quella produzione e portata a passare alla produzione di vino.

I vantaggi del commercio internazionale

Come abbiamo appena visto, Paesi le cui produttività relative del lavoro sono differenti da un

settore all’altro si specializzeranno nella produzione di beni diversi. Il commercio internazionale fa

sì che entrambi i Paesi coinvolti negli scambi ottengano da essi dei vantaggi. Possiamo spiegare

questa affermazione secondo due punti di vista differenti:

1. commercio visto come un metodo di produzione indiretta: il Paese A potrebbe produrre vino

direttamente, ma il commercio con B consente di “produrre” vino, producendo prima

formaggio e scambiando quest’ultimo con vino: tale produzione indiretta risulta più

efficiente rispetto a quella diretta. Questo perché, affinché vi sia equilibrio internazionale ed

entrambi i Paesi siano specializzati, vale la relazione PC/PW > aLC/aLW, la quale a sua volta

implica che il prodotto (1/aLC)(PC/PW), ossia la produzione di formaggio scambiata con vino

ottenibile da A con un’ora di lavoro, sia maggiore rispetto ad 1/aLW, ossia alla produzione di

vino ottenibile direttamente con la stessa ora di lavoro;

2. commercio visto come modificatore delle possibilità di consumo di ogni Paese: in

un’economia chiusa, le possibilità di consumo della popolazione coincidono con la frontiera

delle possibilità produttive. Aprendosi al commercio con l’estero, queste due rette si

modificano permettendo di consumare combinazioni più ampie dei due beni.

Salari relativi

Ipotizziamo che i nostri due Paesi, A e B, si siano specializzati rispettivamente nella produzione di

formaggio e di vino. Se in un Paese è necessaria un’ora di lavoro per produrre un chilo di

formaggio, allora i lavoratori di questo Paese guadagneranno il valore di un chilo di formaggio per

ogni ora lavorata. Supponiamo che in A serva un’ora di lavoro per produrre un chilo di formaggio,

mentre a B, specializzata nel vino, servano tre ore di lavoro per produrne un litro.

Possiamo definire “salario relativo” dei lavoratori di un Paese, l’ammontare che essi ricevono per

ora lavorata, rispetto all’ammontare ricevuto dai lavoratori dell’altro Paese per la stessa ora di

lavoro. Fintanto che i prezzi dei due beni sono uguali (prezzo relativo del formaggio uguale ad 1), il

salario relativo dei lavoratori del Paese A sarà pari a 3. Questo salario relativo è compreso tra le

produttività relative dei due Paesi (A produce vino impiegando due ore di lavoro per litro, B

produce formaggio usando 6 ore per prepararne un chilogrammo: A è dunque 1,5 volte più

efficiente di B nella produzione del vino, 6 volte più efficiente nella produzione di formaggio) ed è

proprio per questo motivo che ogni Paese riesce a realizzare un vantaggio di costo nella produzione

di un bene. Grazie al suo minor salario, il Paese B ha un vantaggio di costo nella produzione di vino

nonostante la sua minor produttività. A, al contrario, ha un vantaggio di costo nella produzione di

formaggio, nonostante il suo maggior salario, perché tale è maggior salario è più che compensato

dalla sua maggior produttività.

Un modello con molti beni

Il modello semplificato che abbiamo visto sinora prevede la produzione/consumo di soli due beni.

Esso consente di comprendere molti caratteri essenziali del concetto di vantaggio comparato e del

commercio internazionale, ma per acquistare un maggior grado di realismo è indispensabile

comprendere in quale maniera agiscono i vantaggi comparati in un modello con molti beni:

Costruzione del modello

Supponiamo che il sistema internazionale cui facciamo riferimento sia composto dai soliti due

Paesi, A e B, e che in ogni Paese si utilizzi come unico fattore produttivo il lavoro. In ogni Paese è

possibile produrre e consumare un numero N di beni diversi, che numeriamo progressivamente da 1

ad N. Identificando la tecnologia di un Paese con il numero di ore di lavoro necessarie alla

produzione di un’unità di ogni bene, definiamo come aLi le ore di lavoro necessarie per produrre

un’unità del bene i1. Supponiamo inoltre che i rapporti tra le quantità di lavoro richieste nei vari

Paesi per la produzione dei diversi beni seguano una relazione del tipo:

aL1a *L1

<aL2a *L2

<aL3a *L3

< ... <aLNa *LN

Salari relativi e specializzazione

La struttura del commercio internazionale (quali beni vengono prodotti e da quale Paese) dipende

esclusivamente dal rapporto tra i salari pagati nei due Paesi. Una volta che questo rapporto è noto,

possiamo determinare quali beni vengono prodotti da ciascun Paese, seguendo la semplice regola

secondo cui i beni saranno sempre prodotti dove è più conveniente produrli.

Se indichiamo il salario di A con la lettera w e quello di B con w*, otterremo che produrre il bene i

nel Paese A costerà waLi; produrlo nel Paese B costerà invece w*a*Li. Come dovrebbe essere

intuitivo, il bene i verrà prodotto nel Paese A nel caso in cui waLi < w*a*Li, in B nel caso contrario.

Questa disequazione può anche essere scritta nella forma a*Li/aLi > w/w*, rendendo immediato il

parallelo con la relazione che abbiamo mostrato prima: quella catena sarà spezzata in un punto

determinato dal rapporto tra i salari pagati nei due Paesi.

La determinazione del salario nel modello con molti beni

Per determinare il rapporto fra i salari nel caso di un modello con molti beni, è possibile considerare

le domande relative di lavoro implicite nelle domande relative dei singoli beni. La domanda relativa

di lavoro, infatti, non è esercitata direttamente dai consumatori, ma è una domanda derivata, che

diminuisce quando aumenta il rapporto tra i salari di A e B. Questa correlazione negativa esiste

poiché un aumento dei salari in A ha un duplice effetto: da un lato, il lavoro relativamente più caro

fa diventare più cari anche i prodotti e calare, di conseguenza, la domanda mondiale per quei beni;

dall’altro lato, al crescere del salario un minor numero di beni verranno prodotti in quel Paese,

riducendo ancora la domanda di lavoro per quel Paese.

La determinazione del salario relativo può essere illustrata con un diagramma come quello proposto

nel seguito, dove la curva RD rappresenta la domanda internazionale di lavoro di A relativamente a

B, mentre RS è l’offerta di lavoro di A relativamente a quella di B.

RS è una semplice retta verticale, giacché non dipende da parametri particolari, se non dalla

dimensione relativa della forza lavoro di A rispetto a quella di B. La curva RD presenta invece una

caratteristica forma a gradini, la quale riflette la condizione secondo cui, ogni volta che il salario

relativo di A aumenta, la domanda relativa per beni prodotti in A diminuisce, trascinando con sé la

1 Indichiamo sempre con il simbolo “*” le grandezze che fanno riferimento al Paese B.

domanda relativa di lavoro. Quando il salario relativo di A cresce fino a raggiungere alcuni

particolari “punti di soglia”, espressi dalla catena di relazioni vista in precedenza, la domanda

relativa di lavoro crolla in una maniera ancora più brusca, ad indicare il trasferimento all’estero

della produzione di un certo bene. La curva RD alterna quindi tratti piatti, nei quali la struttura della

specializzazione non cambia, e tratti obliqui, durante i quali avviene lo scostamento produttivo.

Il salario relativo di equilibrio è determinato dall’intersezione delle curve RD ed RS. In questo

esempio, esso assume valore 3, ad indicare che A produrrà mele, banane e caviale, mentre B si

focalizzerà sulla produzione di datteri e di focacce.

Costi di trasporto e beni non scambiati internazionalmente

Il grado di realismo di questo modello può essere ulteriormente aumentato considerando anche gli

effetti sul commercio derivanti dai costi di trasporto, i quali ostacolano il movimento dei beni e dei

servizi. Per quanto “modellizzato” sino a questo momento, un bene non può essere prodotto

contemporaneamente da più di un Paese. Nella realtà, questa “specializzazione estrema” è però

pressoché inesistente. Vi possono infatti essere casi in cui, dati gli elevati costi di trasporto (o, più in

generale, l’assenza di forti vantaggi di costo), alcune tipologie di beni divengono non scambiabili

internazionalmente, ossia prodotte in proprio da ciascun Paese.

Commercio internazionale e dotazione di risorse: il modello di Heckscher-Ohlin (o “teoria della

proporzione dei fattori”)

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il modello ricardiano del commercio internazionale

assume come ipotesi fondamentale l’idea che l’unico fattore produttivo disponibile sia il lavoro.

Diretta conseguenza di ciò è il fatto che la produttività del lavoro sia l’unica variabile da prendere in

considerazione per spiegare l’esistenza di un vantaggio comparato di un Paese in un certo settore.

E’ facile argomentare quanto l’ipotesi ricardiana sia piuttosto restrittiva. Heckscher ed Ohlin, due

economisti svedesi, sono partiti proprio da questo presupposto per sviluppare un diverso modello

del commercio internazionale, nel quale i vantaggi comparati sono determinati dall’interazione fra

le risorse di cui i Paesi dispongono (l’abbondanza relativa dei fattori di produzione) e le tecnologie

di produzione (le quali influenzano l’intensità relativa con cui i fattori della produzione sono

utilizzati nei diversi settori).

Descrizione del modello di Heckscher-Ohlin

Supponiamo l’esistenza di due Paesi, A e B, le cui economie sono entrambe in grado di produrre

due tipi di beni, seta e cibo, utilizzando, per ciascuna tipologia di bene, tutti e due i fattori di

produzione disponibili, ossia terra e lavoro.

Il lavoro e la terra sono disponibili nelle due economie in quantità limitate. Questo fa sì che, in ogni

Paese, ciascun settore debba scegliere una certa combinazione degli input da utilizzare per ottenere

un corrispondente ammontare di seta o di cibo. La combinazione scelta, dipende dal prezzo relativo

dei fattori di produzione. Ad esempio, nel caso della produzione di cibo, la combinazione di input

scelta dipende dal costo relativo della terra e del lavoro: se la rendita della terra è alta e i salari sono

bassi, gli agricoltori sceglieranno di produrre utilizzando molto lavoro e poca terra. Al contrario, se

la rendita è bassa ed i salari alti, i proprietari terrieri decideranno di investire maggiormente in terra,

piuttosto che in manodopera. Ovviamente relazione analoga vale per il settore della stoffa, dove i

produttori dovranno fronteggiare un trade-off tra i due fattori.

Questa relazione è dimostrata dalla figura qui sotto, dove la retta CC rappresenta le scelte terra-

lavoro nella produzione di stoffa e la retta FF quelle nella produzione di cibo. Siccome FF è a destra

rispetto a CC, si dirà che la produzione di cibo è ad alta intensità di terra, mentre quella di stoffa è

ad alta intensità di lavoro. A parità dei prezzi dei fattori, quindi, la produzione di cibo impiegherà

sempre un maggior rapporto terra-lavoro rispetto alla produzione di stoffa.

Prezzi dei fattori e prezzi dei beni

Ipotizzando un alto livello di concorrenza, il prezzo di ciascun bene risulta essere uguale al suo

costo di produzione. Il costo di produzione, a sua volta, dipende dai prezzi dei fattori: all’aumentare

della rendita della terra, a parità delle altre condizioni, il prezzo dei beni prodotti usando terra

aumenterà. L’importanza del prezzo di un particolare fattore nella determinazione del costo di un

bene è una funzione diretta di quanto quel fattore è utilizzato per produrre quel bene. Ad esempio,

quanto maggiore è il costo relativo del lavoro (espresso dal rapporto tra salario e rendita), tanto

maggiore deve essere il prezzo relativo del bene ad alta intensità di lavoro (ossia, la stoffa). Questa

relazione è espressa, mediante la curva SS, nel grafico seguente:

Unendo insieme gli ultimi due grafici che abbiamo visto, possiamo ottenerne un terzo, che ci mostra

indirettamente il legame tra i prezzi dei beni ed il rapporto terra-lavoro. Dato un certo prezzo

relativo della stoffa, sappiamo che ad esso corrisponde un certo rapporto salario/rendita. Il rapporto

salario/rendita può essere a sua volta messo in relazione con il rapporto terra/lavoro utilizzato

rispettivamente nella produzione di stoffa e di cibo. Ne consegue che, come messo in evidenza dal

grafico che segue, un aumento del prezzo relativo della stoffa provocherebbe, da un lato un

incremento del rapporto salario/rendita, dall’altro un aumento dei rapporti terra/lavoro impiegati.

Questo secondo effetto avrebbe luogo in entrambe le produzioni, sia per quella di stoffa, sia per

quanto riguarda quella di cibo.

La conclusione che è possibile trarre è dunque che una variazione dei prezzi relativi provoca un

aumento dei salari ed una diminuzione delle rendite, tramite un abbassamento del rapporto

salario/rendita.

Risorse e produzione

Supponiamo che il prezzo relativo della stoffa sia dato e che l’economia debba impiegare

pienamente le risorse disponibili di lavoro e di terra. Com’è possibile determinare l’allocazione

delle risorse tra le due industrie e, di conseguenza, l’output dell’economia?

Un modo possibile è utilizzare un rettangolo, dove il lato più lungo corrisponde all’offerta totale di

lavoro dell’economia, mentre l’altezza rappresenta l’offerta totale di terra. Un qualsiasi punto

interno al rettangolo (come il punto 1 all’interno della “scatola” rappresentata qui sotto) determina

l’allocazione delle risorse tra le due industrie.

Ricordando l’ipotesi secondo cui il prezzo relativo della stoffa é dato e, di conseguenza, lo sono

anche i rapporti terra/lavoro relativi alle due industrie, il punto di allocazione delle risorse si ottiene

tracciando due rette all’interno del rettangolo:

• la prima, con origine nel punto OC e pendenza pari al rapporto terra/lavoro nella produzione

di stoffa;

• la seconda, con origine nel punto OF e pendenza pari al rapporto terra/lavoro nella

produzione di cibo.

Il punto in cui queste due rette si intersecano corrisponde al punto di allocazione delle risorse. Dati i

prezzi della stoffa e del cibo, dunque, è possibile determinare quante risorse vengano impiegate

nella produzione di ciascun bene e, di conseguenza, la produzione di ciascun bene. Si osservi che la

retta che trae origine in OC è più inclinata rispetto a quella che origina in OF, in quanto la

produzione di cibo utilizza un maggior rapporto terra/lavoro (alta intensità di terra).

Cosa succederebbe nel caso di un aumento dell’offerta di terra nell’economia? La “scatola” che

abbiamo tracciato risulterebbe essere più alta, con lo spostamento del punto OF in OF2. La retta che

parte da questo nuovo punto, pur conservando la stessa pendenza della retta precedente, andrebbe

ad intersecarsi con la retta originante in OC in un punto di allocazione delle risorse diverso rispetto a

quello individuato precedentemente.

Il significato del nuovo punto di equilibrio è chiaro: le quantità di lavoro e di terra impiegate nella

produzione di stoffa diminuirebbero. Si può quindi concludere che un aumento dell’offerta di terra

nell’economia, a parità di prezzi, porta ad una riduzione della produzione del bene intensivo in

lavoro. Terra e lavoro non più utilizzati per la produzione di stoffa vengono ora impiegati nella

produzione di cibo, che aumenta in maniera più che proporzionale rispetto all’aumento dell’offerta

della terra. Tale risultato è evidente osservando la figura proposta qui di seguito:

E’ possibile infatti notare che l’aumento dell’offerta di terra disponibile, a parità di lavoro, fa

allargare la frontiera delle possibilità produttive, in maniera sbilanciata a favore della produzione di

cibo (aumento non neutrale). Dunque, un’economia con un alto rapporto terra-lavoro produrrà più

cibo che stoffa. La regola generale che ne deriva è che un’economia tenderà a produrre i beni

intensivi nei fattori di cui essa è relativamente ben dotata.

Effetti del commercio fra economie a due fattori

Ora che abbiamo esaminato la struttura produttiva di un’economia a due fattori, possiamo studiare

cosa accade quando due economie di questo tipo commerciano tra di loro. Ipotizziamo di essere in

presenza di due Paesi, A e B, le cui economie sono del tutto uguali, salvo differenziarsi per quanto

riguarda la dotazione di risorse: il rapporto tra offerta di lavoro ed offerta di terra è più alto in A che

in B (in A vi è abbondanza relativa di lavoro, in B di terra).

Prezzi relativi e struttura del commercio internazionale

Poichè la stoffa è un bene prodotto con alta intensità di lavoro, la frontiera delle possibilità

produttive del Paese A appare spostata verso l’esterno se confrontata con quella del Paese B, in

direzione della stoffa piuttosto che del cibo. Per qualsiasi prezzo relativo, il paese A produrrà quindi

un rapporto stoffa/cibo più alto rispetto a B. L’offerta relativa di stoffa sarà dunque maggiore in A

(curca RS) rispetto a quella di B (curva RS*), come mostrato dalla figura seguente:

Se non vi fosse commercio internazionale, il punto di equilibrio per il Paese A si troverebbe nel

punto 1, mentre per B sarebbe nel punto 3. Il prezzo relativo di equilibrio sarebbe in sostanza più

basso in A che in B.

Con il commercio internazionale, tuttavia, il prezzo relativo della stoffa tende a convergere in un

punto intermedio rispetto ad 1 e 3, quale può essere il punto 2 evidenziato dal grafico. L’aumento

del prezzo relativo della stoffa nel Paese A fa sì che il Paese consumi una minor quantità di quel

bene e ne produca di più. Viceversa in B, la diminuzione del prezzo relativo fa sì che si consumi più

stoffa rispetto a prima, ma se ne produca di meno. Il Paese A diventa quindi un esportatore di stoffa,

mentre B un importatore. La proposizione generale che ne segue è che ogni Paese tende ad

esportare i beni nella cui produzione si utilizzano più intensamente quei fattori che nel Paese stesso

sono relativamente più abbondanti.

Commercio internazionale e distribuzione del reddito

Un aumento del prezzo della stoffa fa aumentare il potere d’acquisto del lavoro in termini di

entrambi i beni e riduce il potere d’acquisto della terra in termini di entrambi i beni. Esattamente il

contrario accade nel caso di un aumento del prezzo del cibo. I proprietari dei fattori di cui un Paese

ha una dotazione relativamente abbondante traggono dunque beneficio dall’apertura al commercio

internazionale, mentre i proprietari del fattore scarso ne sono danneggiati.

Il pareggiamento dei prezzi dei fattori

Il commercio tra i Paesi A e B fa sì che i prezzi relativi dei beni convergano verso un unico valore.

Tale convergenza innesca a sua volta una tendenza verso un totale pareggiamento dei prezzi dei

fattori. Questo processo è facilmente comprensibile riprendendo in mano la figura 4.3:

l’uguaglianza del rapporto PC/PF, infatti, fa sì che per i due Paesi sia uguale anche il rapporto

salario/rendita. Da un punto di vista teorico, questo fenomeno si spiega con il fatto che il

commercio internazionale permette di scambiare indirettamente i fattori produttivi dei Paesi

coinvolti. I beni esportati dal Paese A, ad esempio, incorporano più lavoro dei beni che A importa.

In questo modo, A esporta lavoro, incorporandolo nelle proprie esportazioni ad alta intensità di

lavoro. Il contrario accade per B, i cui beni esportati incorporano una quantità maggiore di terra

rispetto a quelli importati e, di conseguenza, è come se B esportasse terra.

Economie di scala, concorrenza imperfetta e commercio internazionale

Abbiamo visto in precedenza come siano fondamentalmente due le ragioni che fanno sì che due

Paesi commercino tra di loro: le differenti dotazioni di risorse o di tecnologia, che danno luogo a

vantaggi comparati, nonché la presenza di economie di scala (spesso definite anche come

“rendimenti crescenti”). Nell’analisi di queste ultime si pone una serie di problemi che dobbiamo

ora affrontare. In particolare, considerare l’esistenza di rendimenti crescenti, implica il riconoscere

la presenza di mercati di solito imperfettamente concorrenziali.

Economie di scala e commercio internazionale: uno sguardo preliminare

Nella realtà, molti settori industriali sono caratterizzati dalle cosiddette economie di scala.

Tecnicamente, si parla di economie di scala (o rendimenti crescenti) quando la produzione è tanto

più efficiente quanto maggiore è la scala produttiva. Si è in presenza di rendimenti crescenti, ad

esempio, se il raddoppio della quantità di inputs della produzione provoca un aumento più che

doppio dell’output prodotto.

Dato questo presupposto, è facile argomentare sul perché le economie di scala costituiscano un

incentivo allo sviluppo del commercio internazionale. In presenza di rendimenti crescenti, possiamo

infatti facilmente ipotizzare che 30 ore complessive di lavoro “producano di più” se concentrate in

un unico Paese, piuttosto che suddivise in due o più Paesi. Se ogni Paese produce solo alcuni beni,

allora ogni bene può essere prodotto su di una scala più ampia di quanto non sarebbe possibile se

ogni Paese tentasse di produrli tutti e l’economia mondiale può, dunque, ottenere una quantità

maggiore di ciascun bene. Il commercio internazionale, in generale, permette ad ogni Paese di trarre

vantaggio dalle economie di scala, senza per questo dover rinunciare alla varietà dei beni di

consumo offerti sul mercato interno.

Economie di scala e struttura di mercato

Per analizzare gli effetti delle economie di scala sulla struttura del mercato deve essere chiaro quale

tipo di aumento di produzione è necessario per ridurre il costo medio. Possiamo infatti distinguere

tra economie di scala esterne, che si verificano quando il costo unitario dipende dall’ampiezza del

settore (ma non necessariamente dalla grandezze della singola impresa) ed economie di scala

interne, che si verificano quando il costo unitario dipende dalla grandezza di una singola impresa,

ma non necessariamente da quella del settore.

I due tipi di economie di scala esistenti hanno differenti implicazioni sulla struttura di mercato dei

settori industriali coinvolti. Un settore dove vi sono solo economie esterne sarà caratterizzato da

molte piccole imprese in regime di concorrenza perfetta. Le economie interne di scala, al contrario,

danno alle grandi imprese un vantaggio di costo rispetto a quelle piccole e ciò genera una struttura

di mercato di concorrenza imperfetta. Nonostante entrambe queste economie siano importanti per il

commercio internazionale, esse hanno, come abbiamo appena visto, implicazioni diverse sulla

struttura di mercato. Per questo motivo le analizzeremo separatamente, a partire da un modello

basato sulle economie di scala interne.

La teoria della concorrenza imperfetta

In un mercato perfettamente concorrenziale, le imprese operano come “price-takers”. Esse, non

avendo dimensioni sufficientemente grandi per poter influenzare il mercato nel suo complesso,

possono vendere la quantità desiderata del bene che producono, senza timore che ciò causi un

abbassamento del livello di prezzo di quel bene.

Le cose sono differenti quando soltanto poche imprese producono un certo bene. In questo caso si

parla di concorrenza imperfetta, poiché le imprese sono consapevoli di poter influenzare il prezzo

dei propri prodotti e di poter vendere di più soltanto riducendo il prezzo finale. La concorrenza

imperfetta è caratteristica sia di mercati in cui ci sono solo pochi produttori, sia di mercati in cui il

prodotto di ciascuna impresa è visto dai consumatori come sostituto, ma fortemente differenziato

rispetto a quello dei competitors. L’impresa opera quindi come “price-setter” (o “price-maker”),

ossia determina il prezzo del proprio prodotto.

Quando le imprese non sono price-takers, ossia il mercato non è perfettamente concorrenziale, è

necessario sviluppare un sistema di strumenti addizionali per descrivere il loro comportamento. La

struttura di mercato più semplice da esaminare e che vedremo nella prossima sezione è quella del

“monopolio puro”, dove un’impresa non è in competizione con altre imprese.

La teoria del monopolio

Osserviamo la figura sottostante, nella quale sono tracciate tra le altre:

• la curva di domanda D, inclinata negativamente, che si trova di fronte ad un’impresa

monopolistica. L’inclinazione negativa mostra come il prezzo del bene prodotto

dall’impresa diminuisca quando essa cerchi di venderne una quantità maggiore;

• la curva MR del ricavo marginale che l’impresa ottiene dalla vendita di un’ulteriore unità di

prodotto. Per un’impresa monopolistica il ricavo marginale è sempre inferiore al prezzo,

poiché per vendere un’ulteriore unità di bene l’impresa deve diminuire anche il prezzo delle

unità (non marginali) che avrebbe comunque venduto; questo fa sì che la curva MR giaccia

al di sotto della curva di domanda D.

Per quanto riguarda la relazione tra il prezzo che il monopolista ottiene per ogni unità di bene ed il

ricavo marginale, notiamo immediatamente che il ricavo marginale è sempre inferiore rispetto al

prezzo. Può essere interessante analizzare in quale modo sia quantificabile tale differenza: essa

dipende innanzitutto da quanto l’impresa stia già vendendo (un’impresa che non vende molte unità

di un bene non avrà una grossa perdita se diminuisce il prezzo fissato per quelle unità) ed inoltre da

qual è l’inclinazione della curva di domanda (la quale ci dice di quanto il monopolista deve

diminuire il prezzo per vendere un’unità addizionale di prodotto). Se assumiamo che la curva di

domanda dell’impresa sia lineare, la dipendenza delle vendite complessive dell’impresa dal prezzo

fissato infatti può essere rappresentata da un’equazione del tipo:

Q = A BP

dove Q è il numero di beni venduti dall’impresa, P è il prezzo unitario, A e B sono costanti (B

rappresenta l’inclinazione della curva di domanda). In questo caso, il ricavo marginale può essere

espresso come:

MR = PQ

B

il che implica:

P MR =Q

B

La differenza tra prezzo e ricavo marginale è dunque una funzione delle vendite iniziali Q e

dell’inclinazione della curva di domanda B. Maggiori sono le vendite iniziali, inferiore è il ricavo

marginale, poiché la diminuzione di prezzo “costa di più” all’impresa. Maggiore è l’inclinazione

della curva di domanda (ossia, maggiore è la caduta delle vendite per ogni dato aumento di prezzo),

più vicino è il ricavo marginale rispetto al prezzo del prodotto.

Nell’ultima figura sono tracciate anche altre due curve che non abbiamo ancora descritto:

• la curva AC dei costi medi di produzione delle imprese. L’inclinazione negativa riflette

l’idea che vi siano economie di scala tali da ridurre il costo di produzione al crescere delle

dimensioni d’impresa;

• la curva MC dei costi marginali dell’impresa, ossia il costo di produzione di un’unità

aggiuntiva di output. L’inclinazione negativa è dovuta al fatto che il costo medio è una

funzione decrescente della quantità prodotta (presenza di economie di scala).

E’ possibile mettere in relazione il costo medio con il costo marginale, analogamente a quanto

abbiamo fatto con prezzo e ricavo marginale. Ipotizziamo che i costi dell’impresa siano dati dalla

seguente funzione lineare:

C = F + cQ

dove F sono i costi fissi (in quanto tali, indipendenti dal livello di produzione) e c il costo

marginale. I costi fissi F sono la fonte delle economie di scala, poiché essi sono tanto più

“spalmabili” a livello di costo fisso unitario, quanto più è maggiore la scala produttiva. Il costo

medio dell’impresa segue infatti la relazione:

AC =C

Q=F

Q+ c

secondo la quale esso decresce all’aumentare di Q. Il costo medio cresce all’infinito al tendere della

produzione a zero e tende, al contrario, al costo marginale per livelli produttivi molto alti.

Il livello di produzione che permette la massimizzazione del profitto del monopolista viene

individuato dal punto in cui si intersecano le curve AC e MC, ossia uguagliando il ricavo marginale

al costo marginale.

La teoria della concorrenza monopolistica

Nel mondo reale, i profitti monopolistici sono fortemente contesi dagli altri soggetti economici

esistenti. Proprio per questo motivo, in presenza di economie interne di scala si assiste alla presenza

di oligopoli, strutture di mercato dove sono presenti molte imprese, ciascuna di esse

sufficientemente grande da poter influire sul prezzo, ma nessuna con un potere di monopolio

assoluto. E’ complicato studiare il comportamento delle imprese in regime di oligopolio, poiché le

politiche di prezzo praticate dalle imprese sono interdipendenti2. Più semplice analizzare invece un

particolare caso di oligopolio, noto come “concorrenza monopolistica”, che si basa su due ipotesi

chiave per aggirare il problema dell’interdipendenza delle strategie di pricing delle imprese:

• la differenziazione del prodotto fa sì che ogni impresa detenga un potere di monopolio per il

particolare prodotto che vende in un certo settore. Una piccola variazione di prezzo non

provoca una fuga dei consumatori;

• ogni impresa prende i prezzi fissati dai rivali come “dati”. In altre parole, l’impatto del suo

prezzo sui prezzi praticati dalle altre imprese è nullo.

In sostanza, pur essendo in condizioni di oligopolio, ciascuna impresa si comporta come se fosse

una monopolista.

Un modello di base per l’analisi della concorrenza monopolistica

Ipotizziamo l’esistenza di un settore industriale che comprende un certo numero di imprese, le quali

producono beni differenziati (ossia, non esattamente uguali tra loro), ma che sono l’uno il sostituto

dell’altro. Ogni impresa è dunque monopolista per il suo particolare prodotto, ma la sua domanda

varia in funzione del numero di prodotti simili disponibili sul mercato (ossia, dalla numerosità delle

imprese operanti nel settore) e dai prezzi praticati dalle altre imprese. Dall’equazione seguente,

dove S sono le vendite complessive del settore, n il numero di imprese presenti, b il parametro che

misura la sensibilità della quota di mercato dell’impresa al prezzo da essa fissato, P il prezzo

praticato dall’impresa e P* quello medio dei “competitors”:

Q = S[1

nb(P P*)]

notiamo come la relazione sia decrescente per quanto riguarda la prima variabile (all’aumentare del

numero di imprese, il rapporto 1/n, ossia la quota di mercato di ciascuna impresa, diminuisce) e

crescente per la seconda (al crescere del prezzo medio dei concorrenti, la differenza P-P*, che fa

parte del termine negativo dell’equazione, decresce). Ipotizziamo inoltre che le vendite complessive

del settore (variabile S) non siano influenzate dai prezzi praticati dalle imprese, ossia che

l’ampiezza del mercato sia data e non modificabile: ogni impresa può dunque guadagnare nuovi

clienti soltanto “strappandoli” alle altre imprese.

Immaginiamo che, nonostante esse producano e vendano prodotti in qualche modo differenziati,

tutte le imprese siano simmetriche, ossia abbiano identiche funzioni di domanda e di costo. In

questo modo, per analizzare il settore, non dobbiamo determinare nient’altro che non siano P* ed n.

2 Gli studi svolti da Axelrod sul “Dilemma del prigioniero”, dove un algoritmo genetico è stato in grado di identificare

la “Tit-For-Tat” come migliore strategia possibile per il gioco iterato, potrebbero costituire un’interessante punto di

partenza per lo studio di questa struttura di mercato.

Per farlo, sono sufficienti tre passaggi:

1. Relazione tra numerosità del settore e costo medio: essendo tutte le imprese simmetriche, in

equilibrio esse fisseranno lo stesso prezzo (P = P*) e, di conseguenza, la funzione di

domanda diventerà Q = (S/n). La produzione di ogni impresa è dunque una quota 1/n delle

vendite complessive del settore. Come abbiamo visto precedentemente, il costo medio

dipende inversamente dalla quantità prodotta dall’impresa (rendimenti crescenti), quindi:

AC =F

Q+ c = n

F

S+ c

Maggiore è il numero delle imprese nel settore, maggiore è il costo medio, poiché minore è

la produzione di ciascuna di esse.

2. Relazione tra numerosità del settore e prezzo: il prezzo scelto dalla singola impresa dipende

dal numero di imprese presenti nel settore. In generale, quanto maggiore è la numerosità del

settore, tanto maggiore è la concorrenza e dunque l’incentivo alla riduzione dei prezzi.

Possiamo riscrivere la funzione di domanda come:

Q = (S

n+ SbP*) SbP

Questa equazione ha la stessa forma di quella generica Q = A – B * P, con A = (S/n + SbP*)

e B = Sb. Riprendendo in mano la formula per il ricavo marginale, MR = P – Q/B e

sostituendo B, otteniamo:

MR = PQ

Sb

La condizione di massimizzazione del profitto (ricavo marginale uguale al costo marginale),

ci porta ad ottenere, riordinando un po’ i termini, un’espressione per il prezzo fissato

dall’impresa:

P = c +Q

Sb

Avendo però ipotizzato che tutte le imprese fissino lo stesso prezzo, ciascuna di esse venderà

una quantità pari a S/n. Sostituendo a Q questa frazione, otteniamo infine la relazione tra il

numero complessivo di imprese ed il prezzo scelto singolarmente:

P = c +1

bN

Da essa possiamo notare come, al crescere del numero delle imprese presenti nel settore,

minore è il prezzo fissato da ogni impresa.

3. Numerosità in condizione di equilibrio: la figura di apertura della pagina successiva mostra

le due curve CC e PP, corrispondenti rispettivamente al costo medio ed al prezzo fissato

dalle singole imprese in funzione della numerosità del settore cui appartengono.

Le due curve, i cui andamenti sono stati descritti nelle righe precedenti, si intersecano nel

punto E, al quale corrisponde un numero di imprese n2 ed un prezzo ottimale P2, esattamente

uguale al costo medio AC2. E’ facile dimostrare come mai E costituisca il punto di equilibrio

del modello. Supponendo che n sia più piccolo di n2, così come nel caso di n1, il prezzo

fissato dalla singola impresa è P1, decisamente superiore rispetto al costo medio AC1. Le

imprese che operano nel settore godono dunque di un profitto monopolistico, che verrà

prontamente attaccato attraverso l’ingresso di nuovi competitors. Al contrario, nel caso in

cui il numero di imprese, ipotizziamo n3, sia maggiore di n2, il prezzo di vendita P3 sarebbe

più basso dei costi medi AC3 e ciò provocherebbe alle imprese delle perdite che le farebbero

uscire dal settore.

Limiti del modello di concorrenza monopolistica

Nella realtà pochi settori industriali possono essere descritti dal modello della concorrenza

monopolistica. Il sistema di mercato più comune è l’oligopolio, dove un numero limitato di imprese

è in effettiva competizione ed è consapevole che le proprie azioni influenzano il comportamento dei

competitors. Il modello della concorrenza monopolistica, ad esempio, esclude due tipi di

comportamenti che spesso possono presentarsi in situazioni di oligopolio:

• comportamento collusivo: ogni impresa può fissare il prezzo ad un livello più alto rispetto a

quello che dovrebbe massimizzare il profitto, aspettandosi che gli altri faranno altrettanto. In

questo modo aumentano, a spese dei consumatori, i profitti di tutte le imprese;

• comportamento strategico: le imprese possono far temporaneamente diminuire i profitti,

seguendo una strategia finalizzata a condizionare il comportamento dei concorrenti nel

modo desiderato. Ciò è raggiungibile ad esempio installando capacità produttiva aggiuntiva,

inutilizzata, per scoraggiare potenziali nuovi entranti.

Concorrenza monopolistica e commercio internazionale

L’applicazione del modello della concorrenza monopolistica al commercio internazionale, si fonda

sull’idea che gli scambi internazionali provochino un ampliamento del mercato. In presenza di

scambi, ciascun Paese può spingersi verso una specializzazione più estrema ed al tempo stesso

aumentare la vastità di prodotti disponibili per i consumatori. Il modello di concorrenza

monopolistica può essere utilmente sfruttato per dimostrare in che modo il commercio

internazionale migliori il trade-off tra scala e varietà.

Gli effetti di un aumento della dimensione del mercato

In mercati più grandi vi sono di solito più imprese e più vendite per ciascuna di esse; i consumatori

ricevono offerte a prezzi più bassi e con una maggiore possibilità di scelta rispetto ai consumatori

che acquistano in mercati piccoli. E’ possibile spiegare questo fenomeno osservando nuovamente le

equazioni che originano le due curve CC e PP.

La curva CC dei costi medi è data dalla formula: AC = n * (F/S) + c. Un aumento delle vendite

totali S riduce il valore del rapporto F/S e, di conseguenza, comporta un abbassamento dei costi

medi per ogni dato numero di imprese n. Ciò è spiegato dal fatto che i costi unitari decrescono

all’aumentare della scala di produzione. La curva CC, all’aumentare di S, riduce la sua inclinazione.

La curva PP dei prezzi fissati dalle imprese, data dalla formula P = c + 1/(b*n), rimane invece

immobile, in quanto in essa non entra in gioco la quantità prodotta/venduta.

Lo scostamento della curva CC comporta l’individuazione di un nuovo punto di equilibrio rispetto a

quello identificato precedentemente con la lettera E. Il nuovo punto di equilibrio corrisponde ad un

livello dei prezzi minore rispetto a P2 e ad un maggior numero di imprese (nuovo valore di n

maggiore rispetto a n2).

Economie di scala e vantaggio comparato

Un mercato integrato funziona in maniera più efficiente rispetto a tanti mercati separati. Il nostro

modello di concorrenza monopolistica assume che il costo di produzione sia lo stesso in entrambi i

Paesi coinvolti nello scambio e che essi avvengano a costo zero. Con tali ipotesi, non possiamo

stabilire dove saranno geograficamente localizzate (ossia come si suddivideranno tra i due Paesi) le

imprese che costituiranno questo mercato integrato. Per farlo, occorre abbandonare l’analisi di

equilibrio parziale considerata fino a questo momento e pensare a come le economie di scala

interagiscono con il vantaggio comparato al fine di determinare il sistema degli scambi

internazionali.

Ipotizziamo un’economia mondiale formata da due Paesi, A e B, ciascuno dei quali in possesso dei

due fattori di produzione disponibili al mondo, lavoro e capitale. Supponiamo che il rapporto

capitale-lavoro sia più alto nel Paese A, ossia che esso disponga di un’abbondanza relativa di

capitale. L’economia mondiale è formata da due solo settori: alimentare e manifatturiero, il primo a

maggiore intensità di lavoro, il secondo a maggiore intensità di capitale.

Come abbiamo visto nel capitolo dedicato al modello di Heckscher-Ohlin, se i due settori fossero in

regime di concorrenza perfetta, il Paese A si specializzerebbe completamente nella produzione di

manufatti (maggiore intensità relativa di capitali) e B in quella di cibo. In questo modo, A

produrrebbe ed esporterebbe una quantità di manufatti pari, in valore, alle importazioni di cibo

provenienti da B (che, comportandosi in maniera inversa, si è specializzato nella produzione

alimentare, divenendo esportatore netto).

Ipotizziamo però che il settore manifatturiero non sia perfettamente concorrenziale, ma che sia

caratterizzato invece da concorrenza monopolistica e che dunque le imprese producano beni

differenziati. Anche in questo caso A rivestirebbe il ruolo di esportatore netto di manufatti ed

importatore netto di cibo, ma, all’interno del Paese B, non avrebbe luogo una specializzazione

completa con conseguente abbandono del settore manifatturiero. Questo perché, essendo i beni

differenziati, i consumatori di A non si accontenterebbero della produzione interna, ma

importerebbero anche una certa quantità di beni manufatti prodotti in B. Vi sarebbe dunque un

commercio bidirezionale tra i due paesi all’interno del settore manifatturiero, come mostrato dalla

seconda delle due figure seguenti:

Il commercio internazionale può quindi essere inteso come formato da due parti: una parte detta

“commercio intra-industriale”, la quale consiste in uno scambio di beni simili (nel nostro caso,

manufatti contro manufatti), ed un’altra parte detta “commercio inter-industriale”, caratterizzata da

uno scambio di beni diversi (come, ad esempio, cibo contro manufatti). Se, come si evince anche

dal nostro semplice modello, il commercio inter-industriale riflette i vantaggi comparati (A è

esportatrice netta di manufatti, B lo è per quanto riguarda il cibo), ciò non vale per quanto riguarda

il commercio intra-industriale. Anche se le dotazioni dei diversi Paesi fossero tali da rendere

identici i loro rapporti capitale-lavoro, le imprese continuerebbero comunque a produrre beni

differenziati e la domanda dei consumatori per i prodotti esteri persevererebbe nel dar luogo ad un

commercio intra-industriale. La struttura di questo commercio intra-industriale è pressoché

impossibile da determinare a priori, in quanta esso dipende in larga misura dal cammino precedente

(path-dependency). L’importanza relativa del commercio intra-industriale, infine, dipende dalla

somiglianza tra i due Paesi coinvolti nel commercio: più essi sono simili, maggiore è la rilevanza

che assume questo tipo di scambio.

Considerazioni generali sull’importanza del commercio intra-industriale

Circa un quarto del commercio mondiale è costituito da scambi di tipo intra-industriale, cioè

esportazioni ed importazioni di beni simili tra Paesi diversi. Per i Paesi avanzati, solitamente, la

rilevanza di questo tipo di commercio è ancora più forte: per gli Stati Uniti, ad esempio, il

commercio intra-industriale ricopre il 70% del commercio internazionale complessivo. Un analisi di

alcuni indicatori macroeconomici aggregati ci mostra come l’intensità di commercio intra-

industriale sia proporzionale alla somiglianza tra le strutture produttive dei Paesi coinvolti e che sia

positivamente correlata soprattutto per quelle tipologie produttive che richiedono tecniche ad alta

intensità di capitale.

Siccome gli scambi intra-industriali coinvolgono generalmente Paesi simili tra loro in relazione a

variabili quali: rapporto capitale-lavoro, livello di qualificazione della forza lavoro, grado di

sviluppo, ecc..., questo tipo di commercio internazionale può facilmente risultare favorevole ad ogni

individuo appartenente ai Paesi coinvolti negli scambi, nonostante gli effetti potenzialmente

negativi sulla distribuzione del reddito. Effetti negativi che, tuttavia, come dimostra il caso della

CEE, sono pressoché inesistenti quando il commercio intra-industriale coinvolge i settori

manifatturieri di Paesi industrialmente avanzati.

Il dumping

Il modello della concorrenza monopolistica ci permette di vedere gli effetti positivi indotti dai

rendimenti crescenti sul commercio internazionale, ma non prende in considerazione le

conseguenze derivanti dalla concorrenza imperfetta sui vari mercati. Nella realtà essa ha importanti

conseguenze sugli scambi. Il più paradossale di essi è che le imprese non fissano necessariamente lo

stesso prezzo sui beni esportati e su quelli venduti invece all’interno del mercato nazionale.

La teoria economica del dumping

In situazione di concorrenza imperfetta, le imprese spesso operano discriminazioni di prezzo in

funzione del tipo di cliente che lo deve pagare. Il caso più comune, come accennato sopra, è quello

in cui un’impresa vende i propri prodotti sui mercati esteri ad un prezzo più basso rispetto a quello

praticato sul mercato nazionale. Questa pratica di pricing, spesso vietata dalle normative sul

commercio, è detta “dumping”.

Il dumping può avere luogo solo in condizioni di concorrenza imperfetta, poiché le imprese devono

essere price-makers (devono cioè poter stabilire liberamente i prezzi dei propri prodotti). Inoltre, i

mercati devono essere segmentati, ossia i residenti nazionali non devono avere la possibilità di

acquistare facilmente i beni in questione sui mercati esteri.

In genere (per via dei costi di trasporto, delle barriere protezionistiche, ecc…) le imprese detengono

la maggior parte della propria quota di vendita sul mercato nazionale. Ne consegue che le vendite

all’estero sono maggiormente influenzate dalle decisioni delle imprese relative al prezzo, poiché le

imprese possono contare su di un minor grado di monopolio sui mercati stranieri.

In generale, la politica di dumping risulta vantaggiosa per l’impresa, in quanto essa risiede nella

differenza di reattività al prezzo delle vendite sul mercato estero e su quello interno. Vi possono

essere infatti casi in cui un aumento delle vendite all’interno sia perseguibile soltanto attraverso una

riduzione dei prezzi, mentre la domanda espressa all’estero sia costante indipendentemente dal

prezzo. In questo caso, un aumento della produzione potrebbe essere assorbito dal mercato

straniero, senza che i ricavi provenienti dal mercato interno sulle unità non marginali siano

intaccati.

Dumping reciproco

La discriminazione dei prezzi può essere in grado di generare nuovi rapporti commerciali.

Supponiamo che esistano due monopolisti che producono lo stesso bene, pur se localizzati in due

Paesi diversi (A e B). Per semplificare, ipotizziamo che queste due imprese abbiano gli stessi costi

marginali e che non vi siano costi di trasporto.

Se le due imprese praticassero lo stesso prezzo, allora non avrebbe luogo commercio internazionale.

I due monopoli non sarebbero a rischio. Il dumping, però, consente alle imprese di vendere una

piccola quantità sull’altrui mercato, ottenendo profitti anche se il prezzo è più basso rispetto a

quello praticato nel mercato nazionale (l’effetto negativo delle vendite esistenti sul prezzo ricadrà

sull’altra impresa). Tutte e due le imprese saranno dunque tentate da questa pratica ed

innescheranno un certo flusso bidirezionale di scambi commerciali intra-industriali. Questa

situazione, nella quale il dumping è causa degli scambi bidirezionali per lo stesso prodotto, è nota

come “dumping reciproco”. Essa permette di eliminare il monopolio puro, dando là ad un certo

grado di concorrenza.

La teoria delle economie esterne

Il modello della concorrenza monopolistica che abbiamo osservato, presume che le economie di

scala che danno origine al commercio internazionale siano a livello della singola impresa, ossia si

tratti di “economie interne”. Come accennato qualche pagina fa, non tutte le economie di scala si

applicano alla singola impresa. Vi sono infatti economie di scala che si manifestano a livello di

industria: si tratta delle cosiddette “economie esterne”.

L’economista inglese Alfred Marshall ha studiato in maniera approfondita quelli che lui definiva

“clusters di imprese”, individuando tre motivazioni in grado di spiegare la loro miglior efficienza

rispetto all’industria isolata:

1. la capacità di attrarre fornitori specializzati: in presenza di molte imprese, si crea un

mercato di riferimento sufficientemente ampio da incentivare la presenza di un’ampia

gamma di fornitori specializzati. I beni intermedi, fondamentali per la produzione, possono

così essere reperiti, dalle imprese che costituiscono il cluster, in maniera più semplice,

veloce e conveniente;

2. la capacità di generare un bacino di lavoratori con le qualifiche adatte: un “distretto

industriale” può indurre una concentrazione del mercato del lavoro specializzato, con effetti

positivi sia per le imprese (che non faticheranno a trovare manodopera adeguata, sia per

numero che per abilità, durante le fasi espansive), sia per i singoli lavoratori (che

percepiranno come più lontano lo spettro della disoccupazione);

3. la capacità di generare spillover di conoscenza: in un’economia moderna, la conoscenza

costituisce un input dei processi produttivi quanto il lavoro ed il capitale. La diffusione di

questa conoscenza non avviene sempre con modalità rigorose, ma, al contrario, spesso ha

luogo con lo scambio informale di informazioni. Il distretto agevola questo processo di

scambio informativo informale, avendo dalla sua la concentrazione geografica.

Economie esterne e rendimenti crescenti

Un Paese può avere un’alta concentrazione di imprese in un settore, soltanto se dispone di

un’industria di dimensioni rilevanti. La teoria delle economie esterne suggerisce che, quando queste

economie esterne sono rilevanti, un Paese con un’industria più grande sarà, a parità di altre

condizioni, più efficiente rispetto ad un Paese con un’industria di dimensioni minori. Le economie

esterne, per inferenza, possono generare rendimenti crescenti di scala a livello dell’industria

nazionale.

Economie esterne e commercio internazionale

E’ importante considerare come le economie esterne possano avere ripercussioni anche negative sul

commercio internazionale: esse, ad esempio, potrebbero portare i Paesi a rimanere intrappolati in

strutture di commercio non desiderabili.

Economie esterne e flussi commerciali

Economie esterne di scala corrispondono ad un ampio livello di produzione, cui fanno da

contraltare i bassi costi di produzione. Forti economie esterne tendono a confermare i flussi di

commercio inter-industriale esistenti, quali che siano state le loro ragioni iniziali. Questo fenomeno,

unitamente alle sue ripercussioni negative sul commercio internazionale nel suo complesso, è

immediatamente evidente dallo studio del grafico qui sotto:

Nella figura è rappresentato il mercato degli orologi. Il costo di produzione, rappresentato dalle

curve AC è una funzione decrescente del numero di orologi prodotti annualmente (rendimenti

crescenti); i pedici S e T corrispondono rispettivamente a Svizzera e Tailandia. Supponendo che vi

siano nel settore solo economie esterne, la situazione è quella di concorrenza perfetta. Nel caso in

cui solo la Svizzera producesse orologi, il prezzo a cui essi sarebbero venduti sul mercato mondiale

sarebbe pari al costo medio (punto 1 della figura), per effetto della concorrenza. Ma, nella realtà, un

mercato di questo tipo sarebbe molto appetitoso e invogliare nuove imprese ad entrarvi. Ipotizziamo

che lo faccia la Tailandia. Se, come nel grafico, la curva dei costi della Tailandia fosse più bassa

rispetto alla controparte svizzera ed il Paese asiatico fosse l’unico produttore, il punto di equilibrio

(punto 2) della figura sarebbe decisamente più basso rispetto al punto 1, il che starebbe a significare

minori prezzi per i consumatori.

Le economie esterne, però, fanno sì che il commercio internazionale non necessariamente vada ad

assestarsi sul punto di equilibrio tailandese. Se, per ragioni storiche o di altro tipo, la Svizzera fosse

stato il primo Paese a produrre orologi, nel momento in cui entrerebbe la Tailandia si potrebbe

trovare sfavorita. Questo perché, non avendo ancora accumulato alcun livello di produzione

precedente, i suoi costi medi iniziali sarebbero superiori rispetto a quelli pagati dalla Svizzera. Essa

dovrebbe conseguentemente fissare un prezzo più alto, senza riuscire così a penetrare nel mercato.

Commercio e benessere in presenza di economie di scala

Il commercio basato su economie esterne ha effetti ambigui sul benessere nazionale. Per l’economia

mondiale, ci possono essere da un lato vantaggi derivanti dalla concentrazione produttiva in

particolari settori per realizzare le economie esterne; dall’altro non vi è garanzia che il Paese

“giusto” produrrà il bene soggetto alle economie esterne, ed è possibile che gli scambi basati sulle

economie esterne possano lasciare un Paese in una situazione peggiore rispetto a quella che avrebbe

in assenza di scambi.

E’ esattamente quello che accade nel grafico che abbiamo appena visto. Se la Tailandia fosse chiusa

al commercio internazionale, potrebbe avviare una produzione di orologi su scala nazionale ed

arrivare al suo punto di equilibrio, per il quale offrirebbe i suoi prodotti, ai suoi cittadini, ad un

prezzo più basso rispetto a quello che essi devono pagare per un orologio svizzero. Questo dovrebbe

essere tuttavia un caso limite: il mondo, con il commercio internazionale, è in generale più

efficiente e di conseguenza più ricco.

Rendimenti crescenti dinamici

Esistono anche economie esterne derivanti non dal livello di produzione corrente, ma dalla

conoscenza. In questa situazione alternativa, i costi di produzione dipendono dall’esperienza,

normalmente misurata dalla produzione settoriale accumulata nel tempo. L’idea che sta alla base di

questa visione è che il costo di produzione di un bene possa dipendere negativamente dalla quantità

totale già prodotta di quel bene dal momento in cui il relativo settore produttivo è nato. Tale

relazione è espressa nella “curva di apprendimento”, che mette sulle due assi il costo unitario e la

quantità accumulata.

In un caso come questo, ci troviamo in presenza di rendimenti crescenti dinamici. Il funzionamento

di queste economie esterne dinamiche è del tutto simile a quello della altre economie esterne che

abbiamo considerato finora. Così come mostrato esemplarmente dall’ipotetico caso

Giappone/Tailandia, esse possono essere utilmente sfruttate dagli economisti per giustificare la

necessità di misure protettive. Questa argomentazione, che in effetti essi muovono spesso, è detta in

gergo “infant industry argument”.

Il ciclo di vita del prodotto e la produzione internazionale

Il contesto

Gli anni ’60 vedono lo sviluppo di un nuovo insieme di teorie sul commercio internazionale, basate

sul concetto di divario tecnologico (technological gap). Tra i vari studi elaborati in quegli anni, si

distinguono quelli di Posner, che analizza i meccanismi attraverso i quali un’iniziale innovazione di

prodotto in un Paese porta a vantaggi tecnologici cumulativi e conseguenti vantaggi di quel Paese

nel commercio internazionale, e quelli di Hufbauer, il quale sottolinea la velocità ed il processo

attraverso cui la manifattura si diffonde da un Paese all’altro.

Nel frattempo, altri ricercatori, tra cui Simon Kutznets, avevano elaborato una teoria che mette in

relazione la crescita della domanda di un prodotto con le fasi del “ciclo di vita del prodotto” stesso:

invenzione, crescita, maturità. L’incremento della domanda tende ad essere limitato nella fasi di

innovazione, aumenta durante la crescita e tende nuovamente a stabilizzarsi una volta raggiunta la

maturità. Muovendo su queste basi, Seev Hirsch giunse ad alcune conclusioni relative alle tre fasi:

1. invenzione: il prodotto richiede manodopera qualificata e ad alto costo, la spesa per beni

capitali, in questa fase, è relativamente bassa;

2. crescita: l’introduzione di produzione e distribuzione di massa rendono il prodotto

maggiormente capital-intensive; si abbassa il rapporto capitale-lavoro;

3. maturità: il prodotto diventa standardizzato, scala di produzione e tecnologia sono stabili; vi

è minore richiesta di manodopera qualificata e la produzione diventa fortemente capital-

intensive.

Hirsch va oltre l’analisi del singolo prodotto, cercando di estendere questo approccio anche

all’analisi degli effetti del gap tecnologico sul commercio internazionale. Uno dei suoi lavori più

interessanti è proprio quello in cui cerca di spiegare il “paradosso di Leontief” utilizzando la teoria

del ciclo di vita del prodotto.

La teoria di Vernon

Raymond Vernon utilizzò l’approccio del ciclo di vita del prodotto per sviluppare una teoria della

produzione internazionale. Vernon parte dal presupposto secondo cui le imprese operanti in Paesi

simili possono potenzialmente accedere al medesimo patrimonio di conoscenze, ma che possono

essere diverse le capacità imprenditoriali di trasformare queste informazioni in prodotti. Secondo

l’economista, ad esempio, il mercato statunitense permette di sfruttare agevolmente le conoscenze

delle imprese, in parte perché si tratta di un mercato ampio con una domanda economicamente

rilevante anche per prodotti di nicchia, in parte perché gli elevati costi unitari del lavoro spianano la

strada a qualsiasi innovazione che permetta di ridurre i costi, sia per i produttori, sia per i

consumatori/utenti.

Un imprenditore in grado di individuare un potenziale mercato inespresso, destinerà con ogni

probabilità il suo prodotto al Paese in cui questo mercato è stato inizialmente rintracciato. Ciò

accade poiché il prodotto non è inizialmente standardizzato: l’implicazione è che i produttori siano

fin da subito interessati a flessibilità e possibilità di adattamento del prodotto e del processo

produttivo (così come la flessibilità è presente, ed è utilissima, in relazione all’adattamento del

prodotto ai bisogni ed alle critiche dei consumatori). Il nuovo prodotto gode inizialmente di una

bassa elasticità della domanda rispetto al prezzo, siccome non esiste ancora una reale concorrenza:

l’impresa innovatrice opera dunque in una posizione monopolistica.

Con l’approssimarsi della fase di maturità, il bisogno di flessibilità e di prossimità ai consumatori

tende ad esaurirsi. Inoltre, l’inasprirsi della concorrenza fa aumentare le preoccupazioni circa il

prezzo del prodotto: i costi di produzione divengono più importanti rispetto alle caratteristiche del

prodotto. Contemporaneamente (o quasi) alla diffusione della domanda all’interno del Paese di

origine, è probabile che si verifichi anche una diffusione della domanda negli altri Paesi simili (ad

esempio nell’Europa Occidentale, se il prodotto è stato concepito sul mercato USA). Se questa

domanda sarà inizialmente soddisfatta dalle esportazioni, diversi fattori (minaccia costituita da

potenziali nuovi imitatori nei Paesi destinatari, costi di produzione inferiori nei Paesi dei mercati di

destinazione, ecc…) faranno sì che l’impresa si orienti dopo poco tempo verso una strategia basata

sulla produzione diretta all’estero. La produzione diretta all’estero avrà notevoli implicazioni sul

volume e sulla struttura del commercio internazionale: l’impresa diminuirà le esportazioni dal Paese

originale, si modificherà il commercio intra-industriale tra i vari Paesi dove opera ora l’impresa, ed

infine il Paese originario potrà paradossalmente avere un aumento delle importazioni, proprio per

procurarsi beni prodotti dalla “sua” impresa localizzata all’estero.

Man mano che il processo produttivo diventa sempre più standardizzato, esso richiederà processi

produttivi ad alta intensità di capitale e lavoro poco qualificato. L’imitazione diventa un rischio

concreto e la concorrenza spinge a contenere il più possibile i costi, con possibili scelte strategiche

di ulteriore delocalizzazione produttiva. Il Paese dove è stata concepita l’innovazione, dunque,

perderà gradualmente il proprio vantaggio competitivo come localizzazione produttiva.

Localizzazione della produzione e strutture oligopolistiche secondo Vernon

La localizzazione della produzione è influenzata dal fatto che le decisioni vengano prese da imprese

multinazionali, piuttosto che da imprese nazionali? Vernon argomenta in maniera affermativa:

l’impresa multinazionale può comprare e vendere in tutto il mondo, quindi non si limita a prendere

in considerazione i costi dei fattori produttivi nel Paese in cui si trova l’affiliata, ma anche quelli

praticati in altre parti del mondo. Rispetto alle imprese nazionali, le multinazionali operano su

mercati con un maggior grado di oligopolio. Vernon identifica tre tipi di oligopolio possibili:

• oligopolio basato sull’innovazione: l’impresa innovatrice crea barriere all’entrata grazie alle

nuove tecnologie utilizzate nei prodotti e/o nei processi produttivi;

• oligopolio maturo: le barriere all’entrata sono generate dalla scala di produzione, dal

trasporto e dal marketing;

• oligopolio senescente: per i nuovi entranti, le barriere possono essere sufficientemente basse

da invogliarli ad entrare nel settore; i produttori cercano quindi di utilizzare tagli nei costi

come ulteriore barriera all’entrata.

Il ciclo di vita del prodotto in un nuovo contesto macroeconomico

Colpito dallo studio del crescente grado di internazionalizzazione nella diffusione di nuovi prodotti

e dai cambiamenti intervenuti nell’ambiente macroeconomico europeo, nel 1979, Vernon propone

una revisione critica della sua teoria.

L’espansione geografica della rete delle operazioni effettuate dalle imprese multinazionali non ha

soltanto aumentato il volume degli scambi, ma anche fatto diminuire il lasso di tempo intercorrente

tra l’introduzione di un nuovo prodotto in un Paese e la sia introduzione/diffusione in un altro.

L’attenzione posta sull’Europa da parte di Vernon, deriva dal fatto che nella sua precedente teoria,

l’esempio che calzava a pennello era proprio quello delle innovazioni di prodotto statunitensi, che

poi venivano esportate/prodotte nel Vecchio Continente. Il progressivo processo di uniformazione

di questi due mercati ha reso sempre più difficilmente applicabile la teoria del ciclo di vita del

prodotto. Le imprese multinazionali, secondo Vernon, sono diventate sempre più dei “global

scanners”, mentre molti prodotti sono divenuti standardizzati. L’ambiente stesso che aveva generato

il ciclo di vita del prodotto stava scomparendo e, con esso, le possibilità di applicare tale teoria.

La teoria del ciclo di vita del prodotto può tuttavia rimanere valida per l’analisi dell’attività

innovativa delle piccole/medie imprese, che non sono global scanners e si rivolgono a mercati di

dimensioni ridotte, con gusti dei consumatori non ancora standardizzati. La stessa teoria, se non più

valida in relazione ai rapporti tra Stati Uniti ed Europa, potrebbe comunque essere applicata con

successo alle transizioni tra i Paesi del nord del mondo e quelli in via di sviluppo.

Verifica empirica delle teorie del commercio internazionale proposte: composizione del

commercio internazionale di Stati Uniti e Cina

A conclusione di questo lavoro verrà ora effettuata una breve analisi del commercio internazionale,

prendendo come riferimento due Paesi estremamente rilevanti nel contesto dell’odierna economia

mondiale, quali la Cina e gli Stati Uniti. Studiando i dati commerciali relativi a queste due

economie, l’obiettivo è quello di dare un’evidenza empirica alle teorie finora proposte

La banca dati dalla quale è stato attinto il dataset utilizzato per le analisi è quella dell’UNCTAD,

che presenta i volumi complessivi di commercio estero con un livello di disaggregazione SITC a tre

cifre decimali, il quale dà origine a 239 settori merceologici distinti.

Gli indicatori utilizzati per agevolare la nostra analisi sono due tra quelli più comunemente

impiegati nelle analisi di questo tipo, ossia l’indice di Balassa e quello di Grubel-Lloyd.

Indice di Balassa

Per un Paese A, l’indice di Balassa relativo ad una certa produzione i è dato dalla formula:

Indice di Balassa =

xiA

xtotalA

xiworld

xtotalworld

Si tratta in sostanza del rapporto tra l’incidenza che hanno le esportazioni del bene i nella struttura

commerciale del Paese A e quella che è una sorta di incidenza media che esse hanno nel commercio

mondiale. Ne consegue che un valore maggiore di 1 (il quale può essere ragionevolmente sfruttato

come “rivelatore” dell’esistenza di un vantaggio comparato) indica una specializzazione del Paese

A nella produzione di quel determinato bene i, in quanto l’incidenza che le esportazioni di quel

bene hanno nella sua struttura produttiva/di mercato è mediamente superiore rispetto a quella che ha

luogo in altri Paesi. Al contrario, un valore dell’indice di Balassa minore di 1 indica una sorta di

“de-specializzazione” (o, meglio, una “non-specializzazione”) del Paese A per quel determinato

bene.

Indice di Grubel–Lloyd (o indice del commercio intra-industriale)

L’indice di Grubel-Lloyd misura la sovrapposizione tra importazioni ed esportazioni del bene i, in

rapporto al suo “flusso totale”. Si tratta in sostanza di una misura del cosiddetto “commercio intra-

industriale” e la formula attraverso la quale calcolarlo è:

Indice di Grubel_Lloyd = 1xiA mi

A

xiA+ mi

A

Il valore di questo indice può oscillare nel range [0,1] e può anche essere usato come misura del

grado di specializzazione di un Paese. Nel caso in cui il valore dell’indice di Grubel-Lloyd fosse

uguale ad uno di questi due valori estremi, allora la situazione del Paese analizzato sarebbe quella di

specializzazione (o de-specializzazione) completa in riferimento al bene i. Ciò è facilmente

dimostrabile, ipotizzando ad esempio che il Paese A esporti il bene i per 10 miliardi di euro e non

ne importi dall’estero: in questo caso, con il Paese specializzato nella produzione/esportazione del

bene i, la formula darebbe come risultato il valore 0. In caso contrario, ossia ipotizzando un Paese

che abbandonasse completamente la produzione del bene i (situazione di “de-specializzazione

completa”), importandone dall’estero una quantità pari a 10 miliardi di euro, la formula darebbe

ancora una volta come risultato il valore 0. Valori intermedi rispetto agli estremi 0 ed 1 indicano

l’esistenza di commercio intra-industriale (oltre, ovviamente, ad una situazione di “specializzazione

non-completa”), in misura tanto più maggiore quanto più il valore dell’indice si avvicina ad 1.

Andamento storico dell’indice di Balassa medio per Stati Uniti e Cina

In riferimento a ciascuno degli anni presenti all’interno del dataset è stato calcolato il valore

dell’indice di Balassa fatto registrare dalle economie statunitense e cinese per tutti i 239 settori

merceologici in cui sono state suddivise le esportazioni dei due Paesi. Come accennato in

precedenza, questo indicatore assume il valore 1 nel caso in cui l’incidenza delle esportazioni di un

determinato prodotto sull’intera struttura di export di un Paese sia uguale a quella che è la

proporzione delle esportazioni di tale prodotto sul complesso delle esportazioni mondiali. Valori più

grandi di 1 identificano una maggiore specializzazione del Paese in esame per la

produzione/esportazione del bene in questione, mentre, al contrario, valori minori di 1

rappresentano un livello di specializzazione inferiore alla media.

Ai fini di una prima analisi di massima è stato calcolato il valore medio annuale dell’indice di

Balassa3 per entrambi i Paesi. I risultati, rappresentati in figura 1, mostrano come gli Stati Uniti, nel

corso degli ultimi 20 anni, abbiano fatto registrare una sostanziale stabilità di questo indicatore

(deviazione standard: 0,0357; scarto massimo4: 0,1580) che, partendo da un valore di 1,0843 si è

poi assestato per anni all’interno del range [0,93;0,99] prima di risalire infine al di sopra della

“soglia critica” nel 2003.

Figura 1 – Andamento temporale (1980-2003) del valore medio dell’Indice di Balassa

per le economie di Stati Uniti (in verde) e Cina (in rosso).

Molto diversa invece la situazione cinese, dove nei primissimi anni ’80 questo indice è stato

addirittura al di sopra del valore 2, ad indicare che il Paese, mediamente, esportava una proporzione

3 Si tratta della media degli indici di Balassa associati a ciascuna delle 239 categorie merceologiche in cui è strutturato

il dataset utilizzato. 4 Con il termine “scarto massimo” intendiamo la differenza tra il valore massimo ed il valore minimo registrati.

doppia della propria produzione interna rispetto a quanto faceva il resto del mondo. Tra il 1983 ed il

1984 questa situazione si è fortemente e rapidamente trasformata, facendo crollare l’indice di

Balassa medio al valore 1,3287. Da lì in poi vi è stato un andamento altalenante dell’indicatore fino

al 2000, quando esso ha ripreso a scendere in maniera piuttosto brusca fino a raggiungere, nel 2003,

il suo minimo storico5 di 1,1675. La spiegazione di questi due crolli non è semplice. Si potrebbe

infatti pensare che essi siano dovuti ad una frenata delle esportazioni, ma i dati aggregati

sembrerebbero smentire questa tesi, indicando chiaramente come l’export cinese sia stato stabile nei

due periodi incriminati. La stessa sostanziale stabilità che, come emerge dalla figura 2, si manifesta

anche osservando i dati relativi alle importazioni.

Figura 2 - Andamento (in valore commerciale) delle importazioni/esportazioni cinesi nel periodo 1980-2003.

Analizzando in maniera più accurata i dati a nostra disposizione, si scopre come, tra il 1983 ed il

1984, la generale diminuzione della specializzazione cinese sia stata trainata dall’autentico tracollo

di un paio di settori. Nella tabella seguente sono riportati alcuni dei settori per i quali i cambiamenti

(sia in segno negativo che positivo) sono stati particolarmente rilevanti:

Tabella 1 - Riepilogo dei settori dell'economia cinese per i quali, nel periodo 1982-84,

l'indice di Balassa è variato in misura estremamente rilevante.

Settore SITC Indice di Balassa 1982 Indice di Balassa 1984 Differenza

074 - Tea and mate 14,1500274 6,16536909 -7,98465831

264 – Jute, other textile bast fibres 27,27015765 2,569643516 -24,70051413

688 – Uranium, thorium, alloys 28,7010605 3,15815384 -25,54290666

941 – Zoo animals, pets, etc 8,64890069 2,30588179 -6,3430189

001 – Live animals for food 0,46123779 4,61130333 +4,15006554

652 – Cotton fabrics, woven 5,10064736 9,27357154 +4,17292418

843 – Women’s outweae non-knit 3,02846971 5,6661345 +2,63766479

I due settori a cui si sta facendo riferimento come cause principali del crollo della specializzazione

media cinese sono quelli identificati dai codici SITC 264 (Jute, other textile bast fibres6) e 688

5 Il termine “storico” è utilizzato in maniera probabilmente impropria, in quanto il nostro dataset è temporalmente

limitato, prendendo in considerazione soltanto il periodo 1980-2003. 6 Appartengono a questa categoria la iuta e le altre fibre di origine vegetale, con l’esclusione del cotone.

(Uranium, thorium, alloys7). Le esportazioni cinesi di questi due settori, si scopre spulciando il

dataset, sono sempre state molto basse in valore assoluto e, nel triennio di riferimento (1982-84),

sono effettivamente crollate, come evidenziato nella tabella seguente:

Tabella 2 - Volume delle esportazioni cinesi, per i settori SITC 264 e 688, nel periodo 1982-84.

Settore SITC Export 1982* Export 1983 Export 1984 Differenza 1982-84

264 – Jute, other textile bast fibres 64698,2 27154,9 6324 -58374,2 (-90,2%)

688 – Uranium, thorium, alloys 648 130,6 68 -580 (-89,5%)

Dunque, malgrado l’analisi dei dati aggregati possa apparire fuorviante (non mostrando

modificazioni significative del saldo di bilancia commerciale nel periodo di riferimento8), si scopre

come il grosso dell’impulso verso una riduzione dell’indice di Balassa medio sia provenuto dal

crollo commerciale di alcuni settori di punta della specializzazione cinese. Non è da escludere che

tali settori produttivi siano stati volutamente “abbandonati” dal governo di Pechino, di fronte a

pessimistiche previsioni di sviluppo futuro. Ciò è particolarmente evidente per quanto riguarda il

settore indicato dal codice SITC 264. Osservando la figura 3, si nota infatti come il progressivo

abbandono del settore (di nicchia) da parte della Cina abbia dato il la ad una tendenza progressiva

verso la scomparsa di tale agglomerato merceologico nel contesto del commercio internazionale.

Figura 3 – Esportazioni di prodotti classificati come SITC 264, da parte della Cina e del mondo nel suo

complesso, nel periodo di riferimento 1980-2003.

La parte restante della diminuzione (che tra il 1982 ed il 1984 è stata mediamente di 0,8473 punti

dell’indice di Balassa) può essere spiegata con motivazioni di carattere “esterno”. Possiamo infatti

ipotizzare che questi crolli siano l’effetto di un aumento di competitività delle nuove economie

emergenti, che sono state in grado di inserirsi in maniera significativa sul commercio

internazionale, eliminando in diversi settori la predominanza cinese dell’export.

Per quanto riguarda il rapporto tra saldo di bilancia commerciale e livello medio di

specializzazione, un’analisi incrociata delle figure 1 e 4 mostra in maniera evidente l’assenza di una

chiara relazione tra queste due grandezze. Nonostante una sostanziale stabilità dell’indice di Balassa

7 Fanno parte del classificatore SITC 688 l’uranio, il torio e le leghe di materiali non classificate a parte.

* I valori sono tutti espressi in migliaia di dollari.

8 Questo perché i due settori incriminati coprono una percentuale poco rilevante dell’export complessivo cinese.

medio degli Stati Uniti, il saldo commerciale del Paese è violentemente sceso nel corso degli ultimi

vent’anni. Al contrario, la leggera crescita dell’export cinese nello stesso periodo è coincisa con un

crollo della sua specializzazione media.

Figura 4 - Andamento del saldo della bilancia commerciale per Cina e Stati Uniti nel periodo 1980-2003.

L’assenza di una relazione non è certo un dato sorprendente. La bilancia commerciale di un Paese,

per definizione, misura semplicemente i volumi di import/export; da questa considerazione risulta

molto semplice dedurre che un Paese possa avere alti volumi di esportazioni sia con un livello di

specializzazione media molto basso, sia con una specializzazione molto ampia. Più ragionevole

cercare magari una relazione con le importazioni, presumendo che quanto più un Paese è

specializzato in alcuni settori ben precisi, tanto maggiore é la sua propensione all’importazione di

quei beni forzatamente assenti nella sua struttura produttiva.

Figura 5 - Relazione tra indice di Balassa medio e volume delle importazioni in riferimento alla Cina.

La figura 5, tuttavia, sembra negare in pieno anche quest’ipotesi, delineando una curva che ricorda

molto da vicino un andamento esponenziale decrescente. L’analisi della situazione cinese ci

porterebbe dunque a concludere che il volume complessivo delle importazioni aumenti al diminuire

del livello medio di specializzazione. Tale conclusione appare però controintuitiva al punto che

appare più ragionevole attribuire l’andamento osservato alla particolarità dei valori presenti

all’interno del dataset, che presentano una pressoché continua crescita in termini di volume. Non ci

aiuta a risolvere l’enigma l’osservazione dello stesso grafico tracciato in riferimento agli USA

(figura 6), il cui andamento è molto confuso.

Figura 6 - Relazione tra indice di Balassa medio e volume delle importazioni per quanto riguarda gli USA.

Specializzazione settoriale di USA e Cina in una prospettiva storica

Nel paragrafo precedente abbiamo provveduto a calcolare l’indice di Balassa medio per entrambi i

Paesi che stiamo analizzando. Per quanto questo strumento ci abbia consentito di individuare alcuni

aspetti piuttosto interessanti, una misura “media” è per definizione un qualcosa di poco accurato e

di molto suscettibile all’influenza di pochi “outliers”, come è stato perfettamente evidenziato

dall’analisi del “crollo” della specializzazione cinese avvenuto tra il 1982 ed il 1984, la quale non

era di proporzioni così “drammatiche” come poteva apparire ad un primo sguardo.

Può dunque risultare maggiormente utile analizzare singolarmente gli indici di Balassa dei vari

settori, individuando le principali modificazioni che si sono succedute nel corso del tempo. A tal

fine, nelle due tabelle che seguono sono riportate le proporzioni di quei settori che, in base a questo

indice, in Cina e negli Stati Uniti risultano essere “estremamente specializzati” (indice di Balassa >

4), “altamente specializzati” (indice di Balassa >2 e <4), “semplicemente specializzati” (indice di

Balassa >1 e <2) o “non specializzati” (indice di Balassa <1).

Tabella 3 - Riepilogo annuale delle proporzioni di settori dell'economia cinese che risultano "estremamente

specializzati", "altamente specializzati", "semplicemente specializzati" e "non specializzati", nel periodo di

riferimento 1980-2003.

Settori

/

Anno

Settori

“estremamente

specializzati”

Settori

“altamente

specializzati”

Settori

“semplicemente

specializzati”

Settori “non

specializzati”

Numero totale

di settori9

1980 29 (12,34%) 45 (19,14%) 35 (14,89%) 126 (53,61%) 235

1981 28 (11,76%) 45 (18,9%) 40 (16,8%) 125 (52,52%) 238

1982 31 (13,08%) 41 (17,29%) 45 (18,98%) 120 (50,63%) 237

9 Il numero di settori non è sempre uguale per i vari anni presi a riferimento. Questo è dovuto da un lato all’estinzione

di taluni settori nel corso del tempo, dall’altro all’assenza dei valori riferiti ad alcuni di essi per particolari annate.

1983 31 (13,02%) 44 (18,48%) 41 (17,22%) 122 (51,26%) 238

1984 23 (9,87%) 22 (9,44%) 26 (11,15%) 162 (69,52%) 233

1985 23 (9,91%) 23 (9,91%) 26 (11,2%) 160 (68,96%) 232

1986 24 (10,21%) 26 (11,06%) 22 (9,36%) 163 (69,36%) 235

1987 17 (7,32%) 32 (13,79%) 32 (13,79%) 151 (65,08%) 232

1988 20 (8,54%) 31 (13,24%) 30 (12,82%) 153 (65,38%) 234

1989 22 (9,48%) 30 (12,93%) 34 (10,34%) 146 (62,93%) 232

1990 20 (8,54%) 32 (13,67%) 33 (14,10%) 149 (63,67%) 234

1991 22 (9,28%) 29 (12,23%) 29 (12,23%) 157 (66,24%) 237

1992 22 (9,32%) 31 (13,13%) 40 (16,94%) 143 (60,59%) 236

1993 23 (9,87%) 28 (12,01%) 45 (19,31%) 137 (58,79%) 233

1994 22 (9,32%) 30 (8,47%) 43 (18,22%) 141 (59,74%) 236

1995 21 (8,86%) 31 (13,08%) 41 (17,29%) 144 (60,75%) 237

1996 22 (9,36%) 31 (13,19%) 41 (17,44%) 141 (60%) 235

1997 21 (8,89%) 29 (12,28%) 43 (18,22%) 143 (60,59%) 236

1998 21 (8,89%) 28 (11,86%%) 43 (18,22%) 144 (61,01%) 236

1999 19 (8,08%) 32 (13,61%) 41 (17,44%) 143 (60,85%) 235

2000 21 (8,97%) 41 (17,52%) 37 (15,811%) 137 (58,54%) 234

2001 17 (7,23%) 37 (15,74%) 42 (17,87%) 139 (59,14%) 235

2002 13 (5,5%) 35 (14,83%) 44 (18,64%) 144 (61,01%) 236

2003 11 (4,66%) 35 (14,83%) 43 (18,22%) 147 (62,28%) 236

Tabella 4 - Riepilogo annuale delle proporzioni di settori dell'economia statunitense

che risultano "estremamente specializzati", "altamente specializzati", "semplicemente

specializzati" e "non specializzati", nel periodo di riferimento 1980-2003.

Settori

/

Anno

Settori

“estremamente

specializzati”

Settori

“altamente

specializzati”

Settori

“semplicemente

specializzati”

Settori “non

specializzati”

Numero totale

di settori

1980 8 (3,38%) 22 (9,52%) 62 (26,83%) 144 (62,33%) 236

1981 6 (2,54%) 24 (10,38%) 56 (24,24%) 150 (64,93%) 236

1982 5 (2,11%) 23 (9,95%) 57 (24,67%) 151 (65,36%) 236

1983 7 (2,96%) 22 (9,52%) 53 (22,94%) 154 (66,66%) 236

1984 5 (2,11%) 21 (9,09%) 60 (25,97%) 150 (64,93%) 236

1985 5 (2,11%) 22 (9,52%) 53 (22,94%) 156 (67,53%) 236

1986 5 (2,12%) 24 (10,43%) 50 (21,73%) 156 (67,82%) 235

1987 4 (1,7%) 22 (9,56%) 57 (24,78%) 152 (66,08%) 235

1988 6 (2,55%) 20 (8,69%) 51 (22,17%) 158 (68,69%) 235

1989 3 (1,27%) 23 (9,95%) 50 (21,64%) 160 (69,26%) 236

1990 4 (1,69%) 20 (8,65%) 58 (25,1%) 154 (66,66%) 236

1991 3 (1,27%) 23 (9,95%) 57 (24,67%) 153 (66,23%) 236

1992 4 (1,69%) 20 (8,65%) 57 (24,67%) 155 (67,09%) 236

1993 3 (1,27%) 20 (8,69%) 59 (25,65%) 153 (66,52%) 235

1994 2 (0,84%) 23 (9,95%) 63 (27,27%) 148 (64,06%) 236

1995 4 (1,7%) 21 (9,13%) 61 (26,52%) 149 (64,78%) 235

1996 4 (1,69%) 20 (8,65%) 65 (28,13%) 147 (63,63%) 236

1997 2 (0,84%) 18 (7,79%) 73 (31,6%) 143 (61,9%) 236

1998 2 (0,85%) 16 (6,95%) 73 (31,73%) 144 (62,6%) 235

1999 2 (0,85%) 14 (6,08%) 73 (31,73%) 146 (63,47%) 235

2000 1 (0,42%) 20 (8,69%) 78 (33,91%) 136 (59,13%) 235

2001 2 (0,84%) 15 (6,49%) 82 (35,49%) 137 (59,3%) 236

2002 2 (0,85%) 17 (7,39%) 82 (35,65%) 134 (58,26%) 235

2003 4 (1,69%) 18 (7,79%) 79 (34,19%) 135 (58,44%) 236

E’ subito evidente come, nel corso degli anni, in entrambi i Paesi si sia manifestata una marcata

tendenza verso la riduzione del numero di settori “estremamente” ed “altamente” specializzati. I

primi sono passati dal 12,34% del 1980 al 4,66% del 2003 per quanto riguarda la Cina, dal 3,38%

all’1,69% per ciò che concerne gli USA; i secondi sono invece diminuiti dal 19,14% al 14,83% nel

Paese asiatico e dal 9,53% al 7,79% in quello occidentale. Una parte di questi settori ha comunque

mantenuto un qualche livello di specializzazione10

, sebbene meno rilevante rispetto al passato: i

settori “semplicemente specializzati” sono infatti aumentati dal 14,89% al 18,22% in Cina, dal

26,83% al 34,19% in USA. Il risultato che è stato osservato era preventivabile. Come ci insegna la

teoria ricardiana, con il passare del tempo i Paesi tendono a specializzarsi in quei settori per i quali

essi godono di un vantaggio comparato. La specializzazione su alcuni settori, dal canto suo, fa sì

che altri di essi vengano abbandonati o, comunque, accantonati in secondo piano: ciò dà

esattamente origine ad un andamento del tipo di quello che abbiamo riscontrato nella nostra analisi.

E’ interessante notare come Cina e Stati Uniti si comportino in maniera differente per quanto

riguarda invece l’andamento del numero di settori non-specializzati: essi aumentano in Cina (dal

53,61% del 1980 al 62,28% del 2003), mentre diminuiscono negli Stati Uniti (dal 62,33% al

58,44%). Questa differenza può essere ascritta al differente punto di partenza da cui si sono mossi i

due Paesi: osservando il grafico delle proporzioni di settori non specializzati (riportato in figura 7),

si nota infatti la messa in atto di un processo di convergenza delle due curve.

Figura 7 - Andamento della proporzione di settori non-specializzati nelle strutture produttive di Cina e Stati

Uniti nel periodo 1980-2003.

Tale processo di convergenza è probabilmente l’effetto del boom economico che sta attraversando

da diversi anni la Cina e che la sta trasformando in un Paese sempre più simile alle economie

sviluppate (categoria alla quale appartengono gli USA). E’ stato infatti notato11

che la maggior parte

dei Paesi industrializzati (con la sola significativa eccezione costituita dall’Italia), ha intrapreso dal

1964 ad oggi un processo di convergenza verso un pressoché identico modello di specializzazione.

La Cina, dal canto suo, è cresciuta a passi da gigante nel corso degli ultimi vent’anni e

l’osservazione del grafico qui sopra può far pensare che anche in termini di specializzazione la

10

Ovvero ha conservato un indice di Balassa maggiore di 1. 11

Si veda il lavoro di Faini e Gagliarducci, “Competitività e struttura dell’economia italiana: un’anatomia del declino”

citato da Falni e Sapir nel loro articolo “Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione dell’economia italiana”.

struttura produttiva di questo Paese stia lentamente arrivando ad assomigliare a quella dei Paesi

sviluppati.

E’ naturale, però, che parlare di modelli di specializzazione implichi il fatto di dover andare ad

analizzare da un punto di vista “qualitativo” quei settori che determinano l’odierna specializzazione

dei due Paesi. Se la Cina, in quanto a numero di settori produttivi in cui è fortemente specializzata,

inizia ad assomigliare agli Stati Uniti, ciò non implica che tale somiglianza sia anche di tipo

“qualitativo”, ovvero che i settori che la determinano siano gli stessi.

L’attuale modello di specializzazione di Stati Uniti e Cina

Utilizzando lo stesso schema adottato in precedenza (ossia la suddivisione tra settori

“estremamente”, “altamente” e “semplicemente” specializzati) nelle tabelle che seguono sono

riepilogati i dati relativi alle esportazioni sino-statunitensi fatte registrare nel corso del 2003.

La tabella 5 riportata qui sotto mostra come gli Stati Uniti siano ad oggi estremamente specializzati

in soli quattro settori. E’ interessante osservare come tre di questi quattro settori riguardino

produzioni di tipo molto “tradizionale”: mais, sementi e cereali. Sebbene si possa essere tentati di

pensare che questi settori siano a basso contenuto tecnologico, occorre tenere in considerazione gli

sviluppi dell’agricoltura moderna e dei relativi macchinari. Un Paese che, come gli USA, può

disporre di tecnologie avanzate, sarà in grado di ottenere dalla stessa quantità di terra e di ore di

lavoro impiegate, una quantità di prodotto più alta rispetto ad un Paese che può contare soltanto su

strumenti tecnologici arretrati. Si tratta, per dirla alla Ricardo, dell’esistenza di un vantaggio

assoluto che si esprime in termini di maggior produttività.

Tabella 5 - Settori "estremamente specializzati" dell'economia USA nel 2003.

Settore SITC12

Indice di

Balassa

Percentuale sul complesso

delle esportazioni mondiali

044 – Maize (com), unmilled 4,57394483 44,82154923%

222 – Seed for soft fixed oils 4,20733013 41,22897439%

045 – Cereals nes, unmilled 4,005640739 39,25255554%

951 – War firearms, ammunition 4,53859451 44,4751401%

A fare da contraltare a queste tre tipologie produttive vi è il settore delle armi da fuoco belliche e

delle relative munizioni, uno spazio commerciale che gli Stati Uniti dominano, generando quasi il

45% delle relative esportazioni mondiali totali. Nonostante sia ben lungi dagli obiettivi di questo

lavoro porsi problemi di carattere etico/politico in relazione al commercio di armamenti, è facile

notare come, commercialmente parlando, l’attuale modello di specializzazione statunitense faccia sì

che gli USA abbiano tutto da guadagnare da una strategia quale quella della “guerra preventiva”

teorizzata dai falchi dell’amministrazione Bush nel post-11 settembre.

La Cina, dal canto suo, mostra un più elevato numero di settori estremamente specializzati (undici

quelli con un indice di Balassa > 4) rispetto agli Stati Uniti. Si tratta di produzioni variegate che, al

di là dell’elencazione riportata nella tabella 6, possono essere riassunte in maniera più efficace nel

modo seguente:

• carbone e suoi derivati;

12

044: Mais non macinato; 222: sementi per olii fissi leggeri; 045: cereali, non macinati; 951: armi da fuoco belliche e

munizioni.

• seta, articoli tessili;

• abbigliamento: copricapo ed articoli non-tessili;

• ceramiche;

• utensili da taglio;

• registratori di suoni e fonografi;

• rimorchi e veicoli senza motore;

• abbigliamento ed attrezzature per lo sport.

Tabella 6 - Settori "estremamente specializzati" dell'economia cinese nel 2003.

Settore SITC13

Indice di

Balassa

Percentuale sul complesso

delle esportazioni mondiali

323 – Briquettes, coke and semi-coke 7,77975912 46,16981871%

261 – Silk 13,0010271 77,15599635%

658 – Textile articles nes 4,41875713 26,22359029%

666 – Pottery 5,12043294 30,38776096%

696 - Cuttery 4,11230781 24,40493379%

763 – Sound recorders, phonographs 4,14930172 24,62447809%

786 – Trailers, non-motor vehic nes 4,98724947 29,59736935%

831 – Travel goods, handbags, etc 4,8521183 28,79541883%

848 – Headgear, non-textile clothing 6,13461113 36,40651074%

851 - Footwear 4,38727246 26,03674113%

894 – Toys, sporting goods, etc 4,55631586 27,03994739%

Anche questi settori rientrano nella categoria delle produzioni “low-tech”. Non inganni in tal senso

la presenza di apparati elettronici quali registratori di suoni e fonografi: la tecnologia che vi sta alla

base è divenuta molto semplice, al punto che la costruzione di apparati di questo genere può essere

agevolmente paragonata a quella delle più tradizionali produzioni di massa. I numeri confermano

inoltre come i prodotti ceramici costituiscano oggi uno dei settori di punta dell’odierno modello di

specializzazione cinese. Tale risultato era perfettamente atteso ed è la dimostrazione del sentore

ampiamente diffuso all’interno del distretto ceramico di Sassuolo-Scandiano, secondo il quale

proprio la Cina costituisce la principale minaccia alla sopravvivenza di uno di quei settori che

costituiscono il fiore all’occhiello dell’economia italiana14

.

Tabella 7 - Settori "altamente specializzati" dell'economia USA nel 2003.

Settore SITC15

Indice di

Balassa

Percentuale sul complesso

delle esportazioni mondiali

041 – Wheat etc, unmilled 2,420649056 23,72071479%

047 – Other cereal meals, flour 2,119706845 20,77168575%

13

323: formelle di carbone, carbone e semi-carbone; 261: seta; 658: articoli tessili; 666: ceramiche; 696: utensili da

taglio; 763: registratori di suoni, fonografi; 786: rimorchi e veicoli senza motore; 831: accessori da viaggio, bagagli a

mano, ecc…; 848: copricapo, abbigliamento non-tessile; 851: abbigliamento sportivo; 894: giocattoli, attrezzi sportivi,

ecc…. 14

In realtà, anche una semplice analisi dei volumi di produzione/esportazione di prodotti ceramici cinesi negli ultimi

anni avrebbe messo in luce un andamento chiaramente crescente. 15

041: frumento, non macinato; 047: altri mangimi cereali, farina; 411: oli e grassi animali; 211: pelli di animali

selvaggi (eccetto pellicce), grezze; 233: gomma, sintetica e riciclata; 263: cotone; 289: minerali grezzi per l’estrazione

di materiali preziosi; 524: materiali radioattivi; 572: esplosivi, prodotti pirotecnici; 584: cellulosa e suoi derivati; 688:

uranio, torio e leghe varie; 714: motori e propulsori; 723: equipaggiamento per ingegneria civile; 774: equipaggiamento

elettro-medicale e per raggi-x; 792: aerei; 872: strumenti medici; 874: strumenti per misurazioni; 896: opere d’arte.

411 – Animals oils and fats 2,622363425 25,69737845%

211 – Hides skins, exc furs, raw 3,03172619 25,69737845%

233 – Rubber, synthetic, reclaimed 2,064588607 20,2315645%

263 – Cotton 3,903572883 38,25235995%

289 – Prec metal ores, waste nes 2,893053512 28,34995724%

524 – Radioactive etc materials 2,443704888 23,94664626%

572 – Explosives, pyrotechnic prdts 2,420195479 23,71627004%

584 – Cellulose, derivatives, etc 2,48042037 24,30643302%

688 – Uranium, thorium, alloys 3,120951509 30,58320265%

714 – Engines and motors nes 2,962659883 29,03205235%

723 – Civil engineering equip, etc 2,049498055 20,08368735%

774 – Electro-medical, xray equip 2,734345305 26,79472473%

792 – Aircraft, etc 3,445711677 33,76563146%

872 – Medical instruments nes 2,301244938 22,55063563%

874 – Measuring, controlg instruments 2,355381146 23,08113365%

896 – Works of art, etc 2,841286789 27,84267855%

In base al criterio di classificazione che abbiamo deciso di adottare, anche i settori “altamente

specializzati” (indice di Balassa > 2 e < 4) risultano essere quantitativamente molto importanti nel

complesso della struttura dell’export nazionale dei due Paesi. Vediamo dunque quali sono le

categorie produttive che ne fanno parte.

La tabella 7 mette in evidenza i settori “altamente specializzati” dell’economia USA. Quanto

affermato poche righe fa, in merito alla presunta superiore produttività nei settori agricoli che

contraddistingue gli Stati Uniti nei confronti dei suoi principali competitors internazionali, sembra

essere confermata dalla gran mole di settori legati all’agricoltura che sono presenti in questa tabella

riepilogativa. Per quanto siano lontani i tempi dello schiavismo e delle sterminate distese di campi

di cotone negli Stati del sud, ancora oggi gli USA ricoprono un notevole 40% nel complesso delle

esportazioni mondiali di questo prodotto. Seguono poi alcune produzioni unanimemente

riconosciute “hi-tech”, quali motori, apparati elettromedicali, equipaggiamenti per analisi basate su

raggi X, aeroplani e strumenti medici. Infine, appare a sorpresa il settore delle opere d’arte. Non ci

saremmo certo aspettati questo risultato, ma possiamo ipotizzare che esso sia dovuto ad un criterio

di classificazione piuttosto elastico, che mette sullo stesso piano i lavori degli artisti moderni

contemporanei (che spesso trovano terreno fertile per una crescita professionale proprio in USA) e

quelli dei più illustri artisti della storia (e di cui, al di là dell’impossibilità di commercializzazione,

gli Stati Uniti sono pressoché del tutto privi).

In tabella 8 è riportato invece l’elenco dei settori “altamente specializzati” in riferimento alla Cina.

Ancora una volta troviamo prodotti alimentari (pesce, mais, vegetali, the ed infusi), materie prime

(carbone, cotone, legna, stagno, ecc…), animali (per pelliccia e alimentazione) ed abbigliamento (di

vario genere, confezionato e non-confezionato). Compaiono ora il settore chimico (materiali

chimici inorganici, esplosivi e prodotti pirotecnici), quello dell’edilizia residenziale

(equipaggiamenti per idraulica, riscaldamento ed illuminazione), delle macchine per ufficio ed altri

tipi di produzioni “pseudo-hi-tech” relativi alle telecomunicazioni ed ai prodotti per la generazione

di energia elettrica. Ancora una volta siamo dunque in presenza di un modello di specializzazione

che si basa quasi esclusivamente su settori a bassa intensità di know-how ed alto fabbisogno di

lavoro non-qualificato. Costituiscono potenziale eccezione a questa regola i settori SITC 752

(automatic data processing equipments) e 871 (optical instruments), ma per averne una maggiore

certezza occorrerebbe valutare in maniera più approfondita quali sono, da un punto di vista

qualitativo, quei prodotti che rientrano all’interno di questi due aggregati.

Tabella 8 - Settori "altamente specializzati" dell'economia cinese nel 2003.

Settore SITC16

Indice di

Balassa

Percentuale sul complesso

delle esportazioni mondiali

037 – Fish etc prepd. Prsrvd nes 2,837687399 16,84056161%

044 - Maize (corn), unmilled 2,683842654 15,92755339%

056 - Vegtb etc prsrvd, preprd 2,477814316 14,70485603%

074 - Tea and mate 2,033301015 12,06684395%

322 - Coal, lignite and peat 2,056015243 12,20164398%

245 - Fuel wood nes, charcoal 2,092479681 12,41804612%

291 - Crude animal materials nes 3,092804369 18,35458076%

523 - Other inorganic chemicals 2,060550258 12,22855752%

572 - Explosives, pyrotechnic prdts 3,49897216 20,76502728%

613 - Fur skins tanned, dressed 2,178148119 12,92645469%

652 - Cotton fabrics, woven 3,464550303 20,56074706%

653 - Woven man-made fib fabric 2,839299387 16,85012813%

654 - Other woven textile fabric 2,261267896 13,41973796%

655 - Knitted, etc, fabric 2,381395014 14,13264529%

679 - Iron, steel castings unworked 2,345866061 13,92179489%

685 - Lead 2,744340402 16,2865838%

687 - Tin 2,287596475 13,57598776%

689 - Non-fer base metals nes 3,361132654 19,94700388%

697 - Base metal household equip 3,349329771 19,87695839%

751 - Office machines 3,392389974 20,13250381%

752 - Automatic data processing equip 3,305344925 19,61592559%

762 - Radio-broadcast receivers 3,304975865 19,61373536%

764 - Telecom equip, parts, acces 2,055335773 12,19761159%

771 - Electric power machinery nes 2,520363152 14,95736668%

775 - Household type equip nes 2,929325281 17,3843965%

785 - Cycles, etc, motorized or not 2,833024003 16,81288618%

812 - Plumbg, heatg, lightg equip 2,766107253 16,41576152%

842 - Men's outwear non-knit 3,642615477 21,61749402%

843 - Women's outwear non-knit 3,603232377 21,38377077%

844 - Under garments non-knit 3,704054446 21,9821102%

845 - Outer garments knit nonelastic 3,985106512 23,65004396%

846 - Under garments knitted 2,55998794 15,19252425%

847 - Textile clothing accessoris nes 3,402787002 20,19420609%

871 - Optical instruments 2,847292427 16,89756368%

899 - Other manufactured goods 2,221656007 13,18465694%

16

037: pesce confezionato e pasti preconfezionati a base di pesce; 044: mais non macinato; 056: cibi vegetali

confezionati e pasti preconfezionati a base di cibi vegetali; 074: the ed infusi; 322: carbone, lignite, torba; 245: legname

combustibile, carbonella; 291: materie grezze di origine animale; 523: altri prodotti chimici inorganici; 572: esplosivi e

prodotti pirotecnici; 613: pelli per pellicce, seccate e trattate; 652: tessuti in cotone intrecciato; 653: tessuti in fibra,

intrecciati a mano; 654: altri tessuti tessili intrecciati; 655: abbigliamento cucito a macchina; 679: ferro, leghe di

acciaio, non lavorati; 685: piombo; 687: stagno; 689: metalli base non-ferrosi; 697: metalli base per l’edilizia

residenziale; 751: macchine per ufficio; 752: equipaggiamento per il processamento automatico dei dati; 762: ricevitori

radio; 764: equipaggiamento per telecomunicazioni, parti di ricambio ed accessori; 771: generatori di energia elettrica;

775: equipaggiamento per l’edilizia residenziale; 785: cicli, motorizzati e no; 812: equipaggiamento per idraulica,

riscaldamento ed illuminazione; 842: abbigliamento maschile non-confezionato; 843: abbigliamento femminile non-

confezionato; 844: abbigliamento intimo non-confezionato; 845: abbigliamento “da esterno” confezionato, non-

elasticizzato; 846: abbigliamento intimo confezionato; 847: accessori per capi d’abbigliamento tessili; 871: strumenti

ottici; 899: altri beni manufatturieri.

Le due tabelle che seguono, 9 e 10, presentano il riepilogo dei settori “semplicemente specializzati”

(indice di Balassa maggiore di 1 e minore di 2), per quanto riguarda rispettivamente l’economia

statunitense e quella cinese. Non ci addentreremo in un’analisi approfondita di questi dati in quanto

non presentano particolari elementi di novità rispetto alle conclusioni tratte dall’esame dei settori

“estremamente” ed “altamente specializzati”. Ci limitiamo ad osservare come gli Stati Uniti godano

di un elevatissimo numero di settori “semplicemente specializzati”, con una presenza significativa

di quelli legati alla natura (prodotti alimentari e vegetali). Sono presenti, in misura a loro volta

rilevante, diversi settori “hi-tech”, quali quello della produzione di valvole/transistors17

, di motori

per veicoli, di strumentazione per la fotografia e di veicoli a rotaia. Assolutamente nulla di

particolare, invece, per quanto riguarda la Cina, la cui struttura specializzativa è del tutto simile a

quella che abbiamo analizzato nelle tabelle precedenti.

Tabella 9 - Settori "semplicemente specializzati" dell'economia statunitense nel 2003.

Settore SITC Indice di

Balassa

Percentuale sul complesso

delle esportazioni mondiali

011 - Meat, fresh, chilled, frozen 1,495991565 14,65970012%

042 – Rice 1,465005335 14,35605613%

057 - Fruit, nuts, fresh, dried 1,344045829 13,17073522%

081 - Feeding stuff for animals 1,626702922 15,94058253%

098 - Edible products, preps nes 1,450200878 14,21098252%

335 - Residual petroleum prdts nes 1,875173662 18,37542684%

121 - Tobacco, unmanufactd, refuse 1,900324216 18,62188516%

122 - Tobacco, manufactured 1,180579535 11,56887669%

223 - Seeds for other fixed oils 1,292145122 12,66214358%

247 - Other wood rough, squared 1,704224471 16,700241%

251 - Pulp and waste paper 1,978440177 19,38736847%

267 - Other man-made fibres 1,676338373 16,4269762%

269 - Waste of textile fabrics 1,683142397 16,49365102%

277 - Natural abrasives nes 1,026413894 10,05815824%

278 - Other crude minerale 1,427316791 13,98673402%

282 - Iron and steel scrap 1,534396905 15,03604633%

288 - Non-ferrous metal scrap nes 1,637041689 16,04189542%

291 - Crude animal materials nes 1,627847996 15,95180348%

516 - Other organic chemicals 1,410429608 13,82125111%

522 - Inorg chem elmnt, oxides, etc 1,18245125 11,58721822%

523 - Other inorganic chemicals 1,567191417 15,35741025%

533 - Pigments, paints, varnishes etc 1,236619004 12,11802538%

553 - Perfumery, cosmetics, etc 1,099971436 10,77897212%

554 - Soap, cleansing, etc preps 1,06946546 10,4800343%

562 - Fertilizers, manufactured 1,440513776 14,11605551%

511 - Hydrocarbons nes, derivtives 1,540149253 15,09241543%

512 - Alcohols, phenols, etc 1,32898484 13,02314777%

17

A differenza di quanto detto precedentemente in merito alla Cina, è un dato di fatto che la maggior parte del know-

how tecnologico che sta dietro alla produzione di chip, processori e, di conseguenza, transistors, sia localizzata negli

Stati Uniti. Quando i prodotti che appartengono a tali categorie divengono sufficientemente standardizzati (una volta

raggiunta cioè la fase di maturità in un’ottica di ciclo di vita del prodotto), la loro produzione (e di conseguenza la loro

esportazione) si delocalizza all’esterno dei confini nord-americani, in aree quali appunto la Cina. Per questo motivo,

possiamo considerare “hi-tech” il settore della produzione di transistors in USA, ma non possiamo fare altrettanto per il

suo analogo cinese.

513 - Carboxylic acids, etc 1,317755534 12,91310821%

514 - Nitrogen-function compounds 1,048639826 10,27595726%

621 - Materials of rubber 1,074938634 10,5336677%

628 - Rubber articles nes 1,08232305 10,60602995%

642 - Paper and paperboard, cut 1,078655773 10,57009312%

582 - Prdts of condensation, etc 1,441618057 14,12687671%

583 - Polymerization, etc, prdts 1,202168922 11,780438%

585 - Plastic materials nes 1,995116883 19,55078884%

591 - Pesticides, disinfectants 1,175740038 11,5214529%

592 - Starch, inulin, gluten, etc 1,198142621 11,74098298%

598 - Miscel chemical prdts nes 1,807557626 17,71283566%

657 - Spec textile fabrics, products 1,163387976 11,4004111%

663 - Mineral manufactures nes 1,066573301 10,45169311%

664 - Glass 1,274157643 12,48587851%

689 - Non-fer base metals nes 1,391948323 13,64014709%

694 - Stell, copper nails, nuts, etc 1,146928185 11,23911634%

695 - Tools 1,026342758 10,05746115%

699 - Base metal manufactures nes 1,17975079 11,56075555%

711 - Steam boilers and auxil parts 1,266376114 12,40962482%

712 - Steam engines, turbines 1,075648913 10,54062794%

713 - Intern combust piston engines 1,544207412 15,13218263%

716 - Rotating electric plant 1,075567764 10,53983274%

718 - Oth power generating machinery 1,086818047 10,65007786%

721 - Agricult machinry exc tractor 1,743921338 17,0892433%

722 - Tractors non-road 1,371106083 13,43590731%

728 - Oth machy for spec industries 1,236718349 12,11899889%

736 - Metal working machy, tools 1,073552118 10,52008078%

741 - Heating, cooling equipment 1,24036101 12,15469449%

742 - Pumps for liquids, etc 1,327343162 13,00706044%

743 - Pumps nes, centrifuges, etc 1,504712426 14,74515862%

744 - Mechanical handling equipment 1,067648898 10,46223324%

745 - Non-electr machy, tools nes 1,186946942 11,63127295%

749 - Non-electr machy parts, acces 1,014452758 9,940947231%

752 - Automatic data processing equip 1,053714573 10,32568633%

759 - Office, adp machy parts, acces 1,185308115 11,61521356%

772 - Switchgear etc, parts nes 1,167207204 11,43783694%

773 - Electricity distributing equip 1,065067462 10,43693692%

776 - Transistors, valves, etc 1,66301616 16,29642758%

778 - Electrical machinery nes 1,020843019 10,00356745%

782 - Lorries, spec motor vehicl nes 1,166013834 11,42614272%

784 - Motor vehicl parts, acces nes 1,611307874 15,78972153%

791 - Railway vehicles 1,280679119 12,54978455%

873 - Meters and counters nes 1,325950093 12,99340931%

882 - Photogr and cinema supplies 1,577771568 15,46108854%

884 - Optical goods ne 1,227760743 12,03122044%

892 - Printed matter 1,52104592 14,90521575%

893 - Articles of plastic nes 1,12694639 11,04330833%

898 - Musical instruments and parts 1,303065131 12,76915224%

899 - Other manufactured goods 1,523880693 14,9329946%

931 - Special transactions 1,285939486 12,60133257%

941 - Zoo animals, pets, etc 1,037407338 10,16588651%

971 - Gold, non-monetary nes 1,565785136 15,34362965%

Tabella 10 - Settori "semplicemente specializzati" dell'economia cinese nel 2003.

Settore SITC Indice di

Balassa

Percentuale sul complesso

delle esportazioni mondiali

036 - Shell fish fresh, frozen 1,656622825 9,831406643%

034 - Fish, fresh, chilled, frozen 1,317138284 7,816699059%

036 - Shell fish fresh, frozen 1,075131081 6,380481237%

042 - Rice 1,160512914 6,887188923%

054 - Vegtb etc fresh, simply prsrvd 1,105461302 6,560479201%

058 - Fruit prsrvd, preprd 1,34228045 7,96590795%

075 - Spices 1,45841418 8,655116084%

268 - Wool (exc tops), animal hair 1,726968021 10,24887779%

271 - Fertilizers, crude 1,682716175 9,986260442%

278 - Other crude minerale 1,842902881 10,93690571%

522 - Inorg chem elmnt, oxides, etc 1,57998606 9,376597508%

531 - Synth dye, natrl indigo, lakes 1,587882219 9,423458111%

611 - Leather 1,03612786 6,149012418%

612 - Leather, etc, manufactures 1,971178035 11,69816843%

635 - Wood manufactures nes 1,831354283 10,86836931%

585 - Plastic materials nes 1,167351085 6,927770789%

651 - Textile yarn 1,763208074 10,46394829%

656 - Lace, ribbon, tulle, etc 1,404571503 8,335580915%

659 - Floor coverings, etc 1,489736818 8,841003657%

661 - Lime, cement and building prdts 1,868996725 11,09176243%

662 - Clay, refractory building prdts 1,156361735 6,862553305%

665 - Glassware 1,22159632 7,249694977%

671 - Pig iron, etc 1,910655857 11,33899305%

686 - Zinc 1,445169492 8,576514059%

691 - Structures and parts nes 1,277856784 7,583578764%

693 - Wire products, non-electric 1,308241132 7,763897949%

694 - Stell, copper nails, nuts, etc 1,300646922 7,718829291%

695 - Tools 1,230982889 7,305400586%

699 - Base metal manufactures nes 1,299135258 7,709858164%

716 - Rotating electric plant 1,420248039 8,428615007%

741 - Heating, cooling equipment 1,220929594 7,245738225%

759 - Office, adp machy parts, acces 1,997610998 11,8550377%

761 - Television receivers 1,559331882 9,254023058%

773 - Electricity distributing equip 1,103303742 6,547674933%

778 - Electrical machinery nes 1,567591154 9,303038602%

821 - Furniture and parts thereof 1,981254624 11,75796903%

873 - Meters and counters nes 1,006609614 5,973833212%

881 - Photogr apparatus, equip nes 1,114627492 6,614876946%

884 - Optical goods nes 1,217858982 7,227515345%

885 - Watches and clocks 1,520028601 9,020773508%

893 - Articles of plastic nes 1,777220851 10,54710862%

895 - Office supplies nes 1,765323774 10,47650414%

897 - Gold, silver ware, jewellery 1,055294767 6,262760493%

Il commercio intra-industriale di Stati Uniti e Cina

Come accennato nella sezione “teorica” di questo lavoro, il commercio intra-industriale ricopre un

ruolo fondamentale nel contesto del commercio internazionale, che possiamo vedere come

sommatoria di due componenti: il commercio inter-industriale e quello, appunto, intra-industriale.

Attraverso la precedente analisi degli indici di Balassa abbiamo visto quali sono quei settori

produttivi che, nei due Paesi presi in esame, riflettono l’esistenza di vantaggi comparati. Al

contrario, l’analisi del commercio intra-industriale, pur essendo interessante ai fini della

completezza del nostro studio, non ci fornisce indicazioni utili relative all’assenza/esistenza di tali

tipi di vantaggio. Utilizzando come indicatore della rilevanza del commercio intra-industriale

l’indice di Grubel-Lloyd18

, i settori che sono risultati maggiormente coinvolti nel fenomeno sono

riepilogati nelle due tabelle seguenti:

Tabella 11 - Settori dell'economia statunitense (2003) con elevato

livello di commercio intra-industriale (indice di Grubel-Lloyd > 0.95).

Settore SITC Indice di Grubel-Lloyd Livello di specializzazione

266 - Synthetic fibres for spinning 0,989076207 Non-specializzato

516 - Other organic chemicals 0,998034108 Semplicemente specializzato

553 - Perfumery, cosmetics, etc 0,951920765 Semplicemente specializzato

562 - Fertilizers, manufactured 0,959922787 Semplicemente specializzato

572 - Explosives, pyrotechnic prdts 0,98252002 Altamente specializzato

512 - Alcohols, phenols, etc 0,958591221 Semplicemente specializzato

513 - Carboxylic acids, etc 0,996167343 Semplicemente specializzato

592 - Starch, inulin, gluten, etc 0,984741071 Semplicemente specializzato

653 - Woven man-made fib fabric 0,974879714 Non-specializzato

664 - Glass 0,981596872 Semplicemente specializzato

692 - Metal tanks, boxes, etc 0,971836614 Non-specializzato

742 - Pumps for liquids, etc 0,997316824 Semplicemente specializzato

743 - Pumps nes, centrifuges, etc 0,999486188 Semplicemente specializzato

772 - Switchgear etc, parts nes 0,96245348 Semplicemente specializzato

774 - Electro-medical, xray equip 0,952269667 Altamente specializzato

783 - Road motor vehicles nes 0,956771043 Non-specializzato

786 - Trailers, non-motor vehicl nes 0,997200861 Non-specializzato

Tabella 12 - Settori dell'economia cinese (2003) con elevato

livello di commercio intra-industriale (indice di Grubel-Lloyd > 0.95).

Settore SITC Indice di Grubel-Lloyd Livello di specializzazione

651- Textile yarn 0,973905899 Semplicemente specializzato

716 - Rotating electric plant 0,9697452 Semplicemente specializzato

741 - Heating, cooling equipment 0,981848249 Semplicemente specializzato

881 - Photogr apparatus, equip nes 0,996350677 Semplicemente specializzato

882 - Photogr and cinema supplies 0,987205733 Non-specializzato

892 - Printed matter 0,990501467 Non-specializzato

18

L’elevato livello di disaggregazione del nostro dataset ha fatto sì che, per entrambi i Paesi, moltissimi settori

risultassero avere valori altissimi dell’indice di Grubel-Lloyd. Per questo motivo si è reso necessario utilizzare come

livello di soglia l’altissimo di punteggio di 0,95.

Per quanto riguarda entrambi i Paesi, nessuno dei settori che sono stati rilevati come fortemente

caratterizzati dal commercio intra-industriale appartiene alla categoria precedentemente delineata

dei settori “estremamente specializzati”. Stessa cosa dicasi per i settori “altamente specializzati”,

con le sole eccezioni costituite da quelli identificati dai descrittori SITC 572 (explosives,

pyrotechnic products) e 774 (electro-medical, xray equipments), appartenenti all’economia USA.

La maggior parte dei settori riportati nelle tabelle 11 e 12 appartiene al gruppo dei settori

“semplicemente specializzati”, ovvero aventi un indice di Balassa compreso tra i valori 1 e 219

,

mentre i rimanenti risultano essere “non specializzati” (indice di Balassa < 1). Questi risultati non ci

colgono di sorpresa: è lecito infatti aspettarsi che, se un Paese è fortemente specializzato nelle

esportazioni di un determinato settore, la sua produzione sarà sufficientemente ampia e

qualitativamente valida da poter soddisfare un’ampia percentuale della domanda interna, rendendo

marginale la necessità di ricorrere alle importazioni.

Un indicatore alternativo per lo studio del commercio intra-industriale

L’indicatore di Grubel-Lloyd che si è scelto di utilizzare ci ha riportato valori tra loro molto simili e

comunque contenenti al loro interno una limitata mole informativa. Una semplice modifica di

questo indice, ottenuta eliminando il valore assoluto al numeratore (inserendo cioè il valore

effettivo del saldo di bilancia commerciale), ci consente di scoprire se il Paese analizzato, in

relazione al settore considerato, è caratterizzato da una prevalenza dell’import o al contrario

dell’export.

La formula di quello che chiameremo “Indice di Grubel-Lloyd modificato” è quindi data dalla

formula:

Indice_di_Grubel-Lloyd_modificato = 1xiA mi

A

xiA+ mi

A

Utilizzando l’indice di Grubel-Lloyd modificato, il range dei valori che esso può assumere risulta

doppio rispetto a quello dell’indice “originario”, passando da [0,1] a [0,2] e consentendoci in questo

modo di discriminare maggiormente tra i diversi settori. A seconda del suo valore, il Paese cui si sta

facendo riferimento può infatti ritrovarsi, in merito al settore preso in esame, in una delle quattro

situazioni esplicate nella tabella seguente:

Tabella 13 - Possibili valori che può assumere l'indice di Grubel-Lloyd modificato

e loro significato in termini di specializzazione settoriale.

Valore dell’indice di

Grubel-Lloyd modificato

Situazione del Paese in esame,

in riferimento allo specifico settore

0 Specializzazione completa: non vi sono

importazioni

> 0 e < 1 Specializzazione non-completa: le

esportazioni superano le importazioni

> 1 e < 2 Specializzazione non-completa: le

importazioni superano le esportazioni

2 De-specializzazione completa: non vi

sono esportazioni

19

10 su 17 per gli Stati Uniti, 4 su 6 per quanto riguarda la Cina.

Calcolando il valore di questo indicatore per i settori rilevati nelle tabelle 11 e 12, i risultati ottenuti

sono riassunti qui di seguito:

Tabella 14 – Valore dell’indice di Grubel-Lloyd modificato per quei settori dell'economia statunitense (2003) con

elevato livello di commercio intra-industriale (indice di Grubel-Lloyd “tradizionale” > 0.95).

Settore SITC Indice di Grubel-Lloyd modificato

266 - Synthetic fibres for spinning 1,010923793

516 - Other organic chemicals 0,998034108

553 - Perfumery, cosmetics, etc 0,951920765

562 - Fertilizers, manufactured 0,959922787

572 - Explosives, pyrotechnic prdts 0,98252002

512 - Alcohols, phenols, etc 0,958591221

513 - Carboxylic acids, etc 0,996167343

592 - Starch, inulin, gluten, etc 0,984741071

653 - Woven man-made fib fabric 0,974879714

664 - Glass 0,981596872

692 - Metal tanks, boxes, etc 1,028163386

742 - Pumps for liquids, etc 1,002683176

743 - Pumps nes, centrifuges, etc 1,002683176

772 - Switchgear etc, parts nes 1,03754652

774 - Electro-medical, xray equip 0,952269667

783 - Road motor vehicles nes 1,043228957

786 - Trailers, non-motor vehicl nes 1,002799139

Tabella 15 – Valore dell’indice di Grubel-Lloyd modificato per quei settori dell'economia cinese (2003) con

elevato livello di commercio intra-industriale (indice di Grubel-Lloyd “tradizionale” > 0.95).

Settore SITC Indice di Grubel-Lloyd modificato

651- Textile yarn 1,026094101

716 - Rotating electric plant 0,9697452

741 - Heating, cooling equipment 1,018151751

881 - Photogr apparatus, equip nes 0,996350677

882 - Photogr and cinema supplies 0,987205733

892 - Printed matter 1,009498533

Dall’osservazione di queste tabelle notiamo subito come i valori che abbiamo ottenuto si discostino

di poco dal valore 1. Ciò non sorprende particolarmente, poiché abbiamo considerato soltanto quei

settori con un altissimo livello di commercio intra-industriale (indice di Grubel-Lloyd

“tradizionale” maggiore di 0,95) e che era dunque lecito attendersi come caratterizzati da forti flussi

sia in ingresso che in uscita. Disponiamo comunque di alcune informazioni in più rispetto a prima.

Senza la necessità di controllare singolarmente il saldo commerciale dei vari settori coinvolti

nell’analisi, siamo ora a conoscenza del fatto che:

• per quanto riguarda gli Stati Uniti, 7 dei 17 settori sono caratterizzati da un indice di Grubel-

Lloyd modificato maggiore di 1 (importazioni superiori rispetto alle esportazioni), mentre i

10 rimanenti presentano un valore dell’indicatore minore di 1 (esportazioni superiori rispetto

alle importazioni);

• per quanto concerne la Cina, 3 settori possono vantare un indice di Grubel-Lloyd modificato

maggiore di 1 (importazioni superiori rispetto alle esportazioni), mentre gli altri 3

evidenziano un valore dell’indicatore minore di 1 (esportazioni che superano le

importazioni).

Conclusioni

L’analisi del commercio inter-industriale ed intra-industriale di Cina e Stati Uniti non ha portato

alla scoperta di elementi particolarmente innovativi.

Il gigante asiatico mostra ancora i segni lasciati sulla propria pelle da una straordinaria

accelerazione economica che non è stata tuttavia in grado di modificare radicalmente la struttura

produttiva del Paese, lasciandola ancorata ai settori più tradizionali e poveri in quanto a valore

aggiunto. L’analisi “storica”, relativa agli ultimi due decenni, mostra comunque come la struttura

“specializzativa” cinese non abbia ancora raggiunto una sostanziale maturità/stabilità, ma anzi

fluttui continuamente, lasciando prevedere che proseguirà con questo tipo di andamento anche nel

futuro prossimo.

Per quanto riguarda invece gli USA, la continua caduta del saldo della bilancia commerciale non

sembra essere l’effetto di cambiamenti avvenuti a livello di struttura “specializzativa”. Gli Stati

Uniti, negli ultimi 20 anni e nonostante i crescenti fenomeni di delocalizzazione ed outsourcing,

hanno bene o male conservato un medesimo livello di “specializzazione media”. I settori nei quali

gli USA sono oggi specializzati sono settori ad alto valore aggiunto, spesso appartenenti alla

famiglia dell’hi-tech. Si tratta di aree universalmente riconosciute come cruciali per l’economia del

domani, ma che in questi ultimi anni non sembrano essere sufficienti per fare da contraltare alle

crescenti importazioni che entrano sul territorio nordamericano. Acconsentendo allo spostamento

verso l’esterno dei propri confini nazionali di tutte quelle produzioni low-tech a basso valore

aggiunto, negli ultimi anni gli USA hanno di fatto creato tutte le premesse necessarie all’affermarsi

della preoccupante situazione odierna.

Ora si tratta soltanto di vedere se e per quanto tempo ancora gli Stati Uniti potranno tollerare,

politicamente e socialmente, una situazione di così pesante deficit commerciale. E sarà una lezione

della quale dovranno cercare di far tesoro anche i Paesi dell’Unione Europea ed i Paesi più

industrializzati in genere che, sebbene leggermente più indietro in questo cammino evolutivo,

stanno seguendo un identico percorso verso il mantenimento all’interno dei propri confini dei soli

settori ad alto valore aggiunto. La risposta al quesito posto, che potrebbe implicare un drastico

mutamento nelle strategie politico-economiche dei Paesi industrializzati, arriverà presumibilmente

nel giro di pochi anni. Nel frattempo, non ci resta che studiare i dati commerciali che man mano

verranno resi disponibili, alla ricerca di qualche segno di un’eventuale inversione di tendenza,

sperando che essa possa avere luogo in maniera non drammatica prima che sia troppo tardi.

Bibliografia

• Krugman P.R., Obstfeld M., “Economia Internazionale – vol. 1. Teoria e politica del

commercio internazionale” (ed. Hoepli, 2003);

• Ietto-Gillies G., “Imprese Transnazionali. Concetti, teorie, effetti” (ed. Carocci, 2005);

• Falni R., Sapir A., “Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione dell’economia

italiana” - http://www.frdb.org/images/customer/rapporto_1.pdf.

Fonte dei dati utilizzati per la verifica empirica

• UNCTAD, “Handbook of Statistics On-line 2005 – Structure of international trade by

product”

http://stats.unctad.org/handbook/ReportFolders/ReportFolders.aspx?IF_ActivepathName=P/

IV.%20Structure%20of%20international%20trade%20by%20product