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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 9 maggio 2007 seconda edizione SOMMARIO L’inizio del viaggio del Papa in Brasile, i preparativi in vista del Family Day e le polemiche (all’interno del governo) sul mancato invito delle organizzazioni gay alla prossima Conferenza ministeriale sulla famiglia, il dibattito (in particolare a sinistra) sui temi della legalità e della sicurezza di fronte alle questioni della criminalità e della droga, a Venezia l’annosa (e interminabile?) vicenda del ponte di Calatrava: ecco alcuni dei temi da prima pagina sui giornali di oggi. Da uno dei documenti riportati in questa Rassegna stampa raccogliamo, intanto, una citazione tratta da Emmanuel Mounier che parla di due dimensioni importanti, due punti di riferimento dell’azione umana: il polo “politico” e il polo “profetico”. Sono due “condizioni” che non vanno mai dissociate poiché rappresentano per l’uomo d’azione due strade obbligate e da percorrere sempre insieme. «L’uomo d’azione completo – scriveva Mounier - è colui che porta in sé questa duplice polarità, e si destreggia fra un polo e l’altro, lottando, volta a volta, per assicurare l’autonomia e controllare la forza di ciascuno, e per trovare delle vie di comunicazione fra l’uno e l’altro. Invece, per lo più, il temperamento politico, che vive d’espedienti e di compromessi, e il temperamento profetico, che vive di meditazioni e di audacia, non coesistono nel medesimo uomo. È indispensabile, per agire di concerto, che esistano entrambi questi tipi d’uomo e che siano articolati reciprocamente: in caso contrario il profeta, lasciato a se stesso, si volge all’imprecazione inutile, e il tattico si perde nel suo manovrare» (a.p.) 1 - IL PATRIARCA AVVENIRE Pag 10 Scola: “Non c’è civiltà senza famiglia” Il patriarca di Venezia a “Porta a porta”: “Lo Stato non può decidere per una neutralità radicale in cui le identità sono smorzate e spente” IL GAZZETTINO Pag 5 Scola: “Lo Stato favorisca il confronto” Il patriarca: “Nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti, si dovrebbe

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 9 maggio 2007

seconda edizione

SOMMARIOL’inizio del viaggio del Papa in Brasile, i preparativi in vista del Family Day e le polemiche (all’interno del governo) sul mancato

invito delle organizzazioni gay alla prossima Conferenza ministeriale sulla famiglia, il dibattito (in particolare a sinistra) sui temi della legalità e della sicurezza di fronte alle questioni

della criminalità e della droga, a Venezia l’annosa (e interminabile?) vicenda del ponte di Calatrava: ecco alcuni dei

temi da prima pagina sui giornali di oggi.Da uno dei documenti riportati in questa Rassegna stampa

raccogliamo, intanto, una citazione tratta da Emmanuel Mounier che parla di due dimensioni importanti, due punti di riferimento dell’azione umana: il polo “politico” e il polo “profetico”. Sono

due “condizioni” che non vanno mai dissociate poiché rappresentano per l’uomo d’azione due strade obbligate e da

percorrere sempre insieme. «L’uomo d’azione completo – scriveva Mounier - è colui che porta in sé questa duplice polarità,

e si destreggia fra un polo e l’altro, lottando, volta a volta, per assicurare l’autonomia e controllare la forza di ciascuno, e per

trovare delle vie di comunicazione fra l’uno e l’altro. Invece, per lo più, il temperamento politico, che vive d’espedienti e di

compromessi, e il temperamento profetico, che vive di meditazioni e di audacia, non coesistono nel medesimo uomo. È

indispensabile, per agire di concerto, che esistano entrambi questi tipi d’uomo e che siano articolati reciprocamente: in caso

contrario il profeta, lasciato a se stesso, si volge all’imprecazione inutile, e il tattico si perde nel suo manovrare» (a.p.)

1 - IL PATRIARCA

AVVENIREPag 10 Scola: “Non c’è civiltà senza famiglia” Il patriarca di Venezia a “Porta a porta”: “Lo Stato non può decidere per una neutralità radicale in cui le identità sono smorzate e spente”

IL GAZZETTINOPag 5 Scola: “Lo Stato favorisca il confronto”Il patriarca: “Nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti, si dovrebbe registrare l’opinione prevalente”

LA NUOVAPag 5 “Le coppie gay non possono essere famiglia”Il patriarca Scola ieri a “Porta a porta”. E la Bindi fa infuriare mezzo governo

IL VENEZIAPag 30 Scola: «No alla para-famiglia gay»L'intervista: secondo il Patriarca, lo Stato deve «registrare l'opinione prevalente nella società»

ASCA di lunedì 7 maggio 2007

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CHIESA: PATRIARCA SCOLA CON MAGLIA DI KAKA' IN CAMPO A MESTRE

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANOPag 1 Il Viaggio Apostolico di Benedetto XVI nel “Continente della Speranza” di Giampaolo MatteiDa mercoledì 9 a lunedì 14 maggio il Santo Padre sarà in Brasile

AVVENIREPag 1 Un Papa più nuovo dei suoi critici di Gian Maria VianStereotipi al via

Pag 7 “Il Brasile sorprenderà Benedetto XVI con il suo entusiasmo” di Luigi GeninazziIntervista all’arcivescovo di San Paolo Odilo Pedro Scherer

Pag 25 Giuseppe Zenti nominato nuovo vescovo di Verona di Alberto Margoni e Francesco Dal MasOriginario della diocesi scaligera, sessantenne, lascia Vittorio Veneto. Sulla cattedra di San Zeno subentra a Flavio Roberto Carraro

CORRIERE DELLA SERAPag 24 Pio XII beato: sì della Curia. A maggioranza di Bruno BartoloniOra l’ultima parola spetta al Papa. Una lunga catena di polemiche

Pag 25 Benedetto XVI in Brasile: “Mi aspettano tante sfide” di Luigi AccattoliDiminuisce il numero dei cattolici. L’incontro con Lula

Pag 40 Un Papa nuovo nella Chiesa dei dubbi di Alberto MelloniIl viaggio in Brasile

LA REPUBBLICAPag 50 Se la Chiesa diventa un partito di Nello AjelloUna raccolta di scritti di Zagrebelsky

Pag 51 La Bibbia sui banchi di scuola di Marco PolitiOggi l’associazione Biblia presenterà al ministro Fioroni un appello con diecimila firme per promuovere la conoscenza del Libro dei Libri

IL GIORNALEL’offensiva di Benedetto XVI contro la deriva protestante di Massimo Introvigne

IL FOGLIOPag 2 Benedetto l’europeo di Jeff IsraelyUn Papa radicato nel Vecchio continente può portare all’età adulta la chiesa latinoamericana

IL GAZZETTINO DI VENEZIAPag III Veglia diocesana a Marghera con il patriarca Scola sulle “morti bianche” e sulla sicurezza nei posti di lavoro di Alvise Sperandio

LA NUOVAPag 21 Sicurezza nei posti di lavoro, veglia di preghiera con Scola

SIR di martedì 8 maggio 2007 MORTI BIANCHE: MERCOLEDÌ SERA A MARGHERA SERATA DI PREGHIERA E RIFLESSIONE COL CARD. SCOLA

IL NOSTRO TEMPO (settim. dioces. di Torino) di domenica 6 maggio 2007 Pag 1 Dico: se i laici ripetessero il Concilio di Gerusalemme (lettere a un parroco

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di montagna)

TOSCANA OGGI (settim. cattolico della Toscana) di domenica 6 maggio 2007 Pag 1 La riscossa del cristiano normale, alla faccia di monti e di circoli di Umberto Folena

SETTIMANA (settim. di attualità pastorale) di domenica 29 aprile 2007 Pag 2 Liturgia di ieri o liturgia per il domani? (lettera di Alberto Dal Maso)

Pag 5 I preti italiani del nuovo millennio di Mauro PizzighiniPiù che i compiti del prete, oggi è messa in discussione la sua identità. Da uno sguardo sulla sua vita quotidiana e sul ministero l’urgenza di leggere il prete come uomo di relazioni

Pag 8 Scelta religiosa e mediazione culturale di Giordano FrosiniUna riflessione sui termini del dibattito in corso fra Chiesa e società ma anche all’interno della stessa compagine ecclesiale

IL POPOLO (settim. dioces. di Concordia - Pordenone) di domenica 29 aprile 2007 Pag 5 La messa per il defunto finisce davanti al giudice di Antonio LazzaroParroco citato per danni per aver spostato la celebrazione

4 – MARCIANUM / ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI, ISTITUTI E GRUPPI

LA NUOVAPag 24 Messa e triangolare di calcetto al Cavanis di s.b.

IL MESTRE di martedì 8 maggio 2007 Pag 33 Apre la scuola per badanti, si insegna l'integrazione di Alberto FacchinettiStranieri: l'iniziativa delle Acli per chi si prende cura degli anziani

SETTIMANA (settim. di attualità pastorale) di domenica 29 aprile 2007 Pag 4 Dedicato all’evoluzionismo il “dies academicus” dello Studium Generale Marcianum di B. Scapin

LA CITTADELLA (settim. diocesano di Mantova) di venerdì 20 aprile 2007 Pag 14 Il Dio della fede e il Dio dei filosofi di Federico AdinolfiIl giovane Ratzinger su uno dei temi cruciali della modernità in un libro di Marcianum Press

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO

LA REPUBBLICAPag 1 Le coppie assenti dal Family Day di Natalia Aspesi

IL FOGLIOPag 1 Famiglia a due piazzeA San Giovanni vogliono fare una festa, la prima manifestazione unitaria del laicato cattolico. Il “dies familiare”, la scommessa di cambiare la vecchia immagine sparagnigna e difensivista del mondo cattolico

Pag 3 Non è bizzarro celebrare un divorzio?Auguri ma radicali, libertini e laicisti per il 12 maggio. La Bindi e i gay

AVVENIREPag 2 Ci battiamo per la famiglia, quella rinnovata nella modernità di Lucetta ScaraffiaCostituisce la massima acquisizione della civiltà

CORRIERE DEL VENETOPag 6 Si separa, ora dorme in garage: “Dopo il matrimonio la miseria” di Alessia

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Pirolo e Francesca VisentinCosti, alimenti, casa: quando il fallimento “raddoppia”. Le coppie dall’avvocato, spunta l’accordo “post crisi”: dividiamo le spese, non la vita

IL GAZZETTINO DI VENEZIAPag III In milleduecento al Family Day di Roma di Alvise SperandioNon c’è unanimità nel mondo cattolico sulla partecipazione. Fabio Poles: non è una marcia contro i Dico. Perplesso il presidente dell’Ac diocesana Gastore Fusaro: “E’ un’esibizione”. Sospese in diocesi tutte le attività previste sabato

LA NUOVAPag 1 Famiglia, diritto naturale e cellula sociale di Gilberto Muraro

6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ

IL GAZZETTINOPag 10 Ticket, un’esenzione su tre è falsa di Daniela BoresiRegione in campo per individuare chi nasconde redditi o dichiara patologie inesistenti

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINOPag 9 Calatrava: “I ritardi del ponte non sono colpa mia” di Michele FullinL’architetto valenciano a Marghera davanti alla sua creazione: “Amareggia il fatto che in una città eccezionale si costruisca con procedimenti amministrativi normali”. In cinque anni triplicati i costi e i tempi di realizzazione

CORRIERE DEL VENETOPag 8 Cacciari: “Tir su due file, è necessario” di Martina ZambonTangenziale, il sindaco si schiera con la Provincia contro il Governo per chiedere la sperimentazione

Pag 9 Agenzia degli eventi, i primi soci sono sei di Massimiliano CortivoNomine: conferme ai vertici di Actv, Veritas e Pmv

8 – VENETO / NORDEST

LA STAMPATreviso vieta le lanterne rosse di Ferdinando Camon

CORRIERE DEL VENETOPag 1 Dimenticare il Nord Est di Giovanni CostaPer una nuova leadership

9 – GVRADIO INBLU (Fm 92 e 94.6)

Il futuro del Palazzo e della Mostra del Cinema al Lido: il vicepresidente del Consiglio Francesco Rutelli e il direttore dell’Asl veneziana Antonio Padoan ai nostri microfoni

La visita di Calatrava ieri sera al “suo”, travagliatissimo, nuovo ponte veneziano

Unabomber: le ultimissime sulle indagini in corso

“Le stagioni della laguna”: in un click tante immagini veneziane presentate in una nuova mostra fotografica

Musica e attualità, notizie e approfondimenti dal Veneto e dal Nordest

… ed inoltre oggi segnaliamo…

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CORRIERE DELLA SERAPag 9 Il progetto del Partito democratico minato dalle diffidenze reciproche di Massimo Franco

Pag 11 Gay, scontro nel governo. Ferrero attacca la Bindi di Monica Guerzoni e M. Antonietta CalabròLa titolare della famiglia: posizioni strumentali. Gli omosessuali minacciano una controffensiva. Dico, slitta l’esame a Palazzo Madama. Berlusconi: io al Family Day? vedremo

LA REPUBBLICAPag 7 “Accuse sbagliate e strumentali” di Giovanni CasadioRosy Bindi contrattacca: “Ho sempre sostenuto il riconoscimento dei diritti per i gay ma i Dico non sono famiglie di serie B riservate a loro”

Pag 28 "Madonne al posto delle croci, rispettiamo tutte le religioni" di Laura AsnaghiMilano, rivoluzione alla Mangiagalli, clinica degli aborti. Il crocefisso esposto solo su richiesta: "Abbiamo tutte le etnie"

IL FOGLIOPag 3 Come si “dice” sicurezza a sinistra Veltroni inizia un piccola battaglia culturale? Bene, servono parole e fatti

AVVENIREPag 2 Quel “guardare” la realtà che convince sulle sfide di Marina CorradiE’ capitato al sindaco di Torino sulla droga

Pag 33 Uomini o scimpanzè? di Luigi Dell’AglioSulla Terra e nell’universo, spiega il genetista americano Francisco Ayala, non esiste nulla di paragonabile alla nostra specie

IL GAZZETTINOPag 1 La stanca classe politica italiana e la lezione di Sarkò e Ségolène di Riccardo Calimani

LA NUOVAPag 4 Legalità e chiacchiere di Mino Fuccillo

VITA NUOVA (settim. dioces. di Trieste) di venerdì 4 maggio 2007 Pag 17 Le vongole de Marghera di GrazielaL’angolo del dialetto

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1 - IL PATRIARCA

AVVENIREPag 10 Scola: “Non c’è civiltà senza famiglia” Il patriarca di Venezia a “Porta a porta”: “Lo Stato non può decidere per una neutralità radicale in cui le identità sono smorzate e spente”

Roma. L'amore, per essere qualificato come «coniugale», deve rispettare tre caratteristiche. La «differenza sessuale», l'orientamento «al dono totale di sé» e «l'apertura alla vita». «Queste tre caratteristiche che fanno la coniugalità - ha ribadito ieri il cardinale Angelo Scola- non mi sembra che qualifichino l'amore omosessuale, e quindi da lì non nasce il diritto ad un riconoscimento pubblico di un "para-matrimonio", di una "para-famiglia" omosessuale». Il patriarca di Venezia è stato intervistato ieri da Bruno Vespa, nell'ambito di una puntata di "Porta a porta" dedicata al tema della

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famiglia e al dibattito politico sui cosiddetti "Dico". Rispondendo alle domande dell'intervistatore, il porporato ha detto che «il compito dello Stato», inteso come «istituzione al servizio della società civile», è quello «di registrare l'opinione prevalente, nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti». Quindi, ha aggiunto, «non può lo Stato decidere per una neutralità radicale in cui tutte le identità sono smorzate e spente, deve favorire il confronto e alla fine registrare l'esito di questo confronto». In questo confronto perciò si inseriscono anche i cristiani, i quali, ha ricordato il cardinale, «propongono la loro visione di vita buona. Per esempio sono convinti che una società veramente civile e avanzata, è una società che fonda la famiglia sul matrimonio stabile, aperto alla vita, di un uomo e di una donna». «Ovviamente questa proposta - ha proseguito Scola - entra nel dibattito, nel confronto che in una democrazia plurale si svolge secondo delle procedure prestabilite». I vescovi, perciò, «non hanno fatto altro che riproporre il loro compito e la loro funzione». «Se io voglio capire come funziona un nuovo motore a scoppio, mi riferirò al progettista - ha esemplificato il patriarca di Venezia -. Se sono un cristiano e voglio capire come funziona (mi si passi la parola) la coscienza, sarò contento che i vescovi mi dicano come funziona una coscienza, mi spiego? Poi non sono mica i vescovi - non mi risulta che siano i vescovi - che devono schiacciare il bottone in Parlamento». «Credo - ha concluso - che un cattolico sia ben lieto di sentire che i vescovi (i quali da sempre hanno il compito di dire che cos'è una coscienza retta, cioè una coscienza che si misura con la verità) facciano presente il loro insegnamento a questo livello».

IL GAZZETTINOPag 5 Scola: “Lo Stato favorisca il confronto”Il patriarca: “Nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti, si dovrebbe registrare l’opinione prevalente”

Roma. «Lo Stato deve favorire il confronto e alla fine registrare l'esito prevalente». È la richiesta del cardinale Angelo Scola, avanzata nel corso della puntata di "Porta a Porta" di ieri sera dedicata alla famiglia e ai provvedimenti legislativi in suo favore. E naturalmente ai Dico. Nell'intervista rilasciata dal Patriarca di Venezia a Bruno Vespa sul tema della laicità il cardinale ha detto che «il compito dello Stato come istituzione, è di essere al servizio della società civile, è quello, in ultima analisi, di registrare quella che io chiamo l'opinione prevalente, nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti. Quindi, non può lo Stato decidere per una neutralità radicale in cui tutte le identità sono smorzate e spente, deve favorire il confronto e alla fine registrare l'esito di questo confronto».Il cardinal Scola, che è anche membro del Comitato di Presidenza del Pontificio consiglio per la famiglia, ha infatti di recente pubblicato un libro dal titolo "Una nuova laicità. Temi per una società plurale". «Quando si dice chiesa si pensa ai Vescovi, no? - Ha aggiunto il cardinal Scola -. Mentre la chiesa - ha proseguito - è una realtà variegata, c'è tutto il popolo di Dio, ci sono diversissimi stati di vita, ci sono dei laici che sono impegnati quotidianamente nei vari mondi dell'esistenza dell'uomo. Allora, cosa fanno i cristiani? Propongono la loro visione di vita buona. Per esempio sono convinti che una società veramente civile e avanzata, è una società che fonda la famiglia sul matrimonio stabile, aperto alla vita di un uomo e di una donna». «Ovviamente questa proposta - ha continuato - entra nel dibattito, nel confronto che in una democrazia plurale si svolge secondo delle procedure prestabilite. Allora, in questo contesto, cosa hanno fatto i Vescovi? Ma, non hanno fatto altro che riproporre il loro compito e la loro funzione. Se io voglio capire come funziona un nuovo motore a scoppio, mi riferirò al progettista. Se sono un cristiano e voglio capire come funziona, mi si passi la parola, la coscienza, sarò contento che i Vescovi mi dicano come funziona una coscienza, mi spiego? Poi non sono mica i vescovi, non mi risulta che siano i vescovi che devono schiacciare il bottone in Parlamento».«L'amore è uno - ha poi sottolineato - però può avere diverse qualifiche. Lo posso qualificare come amore coniugale, quando realizza tre caratteristiche: la differenza sessuale, da cui scaturisce un orientamento al dono totale di sè che in persone che vivono nel corpo, si manifesta nell'apertura alla vita. Allora a me non sembra che queste tre caratteristiche, che fanno la coniugalità, qualifichino l'amore omosessuale, e quindi io dico che da lì non nasce un diritto ad un riconoscimento pubblico di un para-matrimonio, di una para-famiglia omosessuale».

LA NUOVAPag 5 “Le coppie gay non possono essere famiglia”

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Il patriarca Scola ieri a “Porta a porta”. E la Bindi fa infuriare mezzo governo

Roma. Dall’amore omosessuale «non nasce un diritto ad un riconoscimento pubblico di una para-matrimonio, di una para-famiglia omosessuale». Così il patriarca di Venezia Angelo Scola è intervenuto, con un’intervista a Bruno Vespa trasmessa ieri sera a «Porta a Porta», sulla discussione su famiglia e coppie gay. Per il porporato il riconoscimento è nell’ambito dei diritti individuali. Non essere in accordo con il riconoscimento famigliare delle coppie omosex «non significa non rispettare i diritti individuali». Nel suo intervento Scola ha anche rivendicato il diritto dei vescovi italiani a guidare la coscienza dei cattolici. «Se sono un cristiano e voglio capire come funziona, mi si passi la parola, la coscienza, sarò contento che i vescovi mi dicano come funziona una coscienza, mi spiego? Poi non mi risulta che siano i vescovi a schiacciare il bottone in parlamento». La Famiglia resta al centro dell’agenda politica italiana. E non bastassero le polemiche che stanno accompagnando la marcia di avvicinamento al Family Day, ieri il “caso Bindi” ha rubato la scena e il Governo è finito sotto schiaffo. Il ministro delle Politiche per la famiglia non ha invitato le associazioni rappresentative dei gay alla Conferenza nazionale sulla famiglia in programma a Firenze dal 24 maggio e si è scatenato il putiferio. Due ministri, Ferrero e Bonino, hanno criticato la decisione della collega annunciando che non andranno nella città toscana e tanti esponenti dell’opposizione hanno colto la palla al balzo per mettere all’angolo l’Esecutivo. Il ministro per la Solidarietà sociale a questo punto ha ritenuto «inopportuna» la sua presenza a Firenze: «I temi dei diritti di cittadinanza di tutti i cittadini al di là del loro orientamento sessuale e delle loro scelte di vita - ha affermato - avranno evidentemente altre sedi di discussione». Anche il ministro delle Politiche comunitarie ha dato forfait: «Peccato, l’ho detto anch’io stamattina alla Bindi - ha risposto Emma Bonino ai giornalisti che le chiedevano se condividesse la decisione di Ferrero di non partecipare alla conferenza - non ci andrò». E «stupefatto» per la chiusura della Bindi si è detto anche il ministro dell’Università, Fabio Mussi: «Penso che abbia sbagliato. Che all’alba del terzo millennio, nel 2007, si discuta ancora degli omosessuali come nel Medioevo, lo trovo sconcertante». Lei, ministro delle Politiche per la Famiglia, ha difeso la scelta fatta definendola «coerente con il suo mandato e con il programma di legislatura illustrato in Parlamento». «Ho difeso e difendo i diritti delle persone con la stessa determinazione con cui sto lavorando alla promozione dei diritti della famiglia. Ho dato il mio contributo - ha ricordato Bindi - alla legge sui Dico, una legge che riconosce diritti e doveri dei conviventi senza discriminazioni sugli orientamenti sessuali e senza fare confusione tra le unioni civili e la famiglia. Non ho mai nascosto che la famiglia per noi è quella di cui parla senza ambiguità la Costituzione ed è questa famiglia che sarà al centro dei lavori della Conferenza di Firenze». Ma anche Barbara Pollastrini, che pure con la Bindi ha firmato il ddl sui Dico, ha bacchettato la collega: «Trovo giusto che alla Conferenza possano partecipare persone che, nella loro esperienza quotidiana, convivono in un progetto d’amore e d’affetto indipendentemente dal proprio orientamento sessuale». Chi invece si schiera con la Bindi e contro i gay è Mauro Fabris, capogruppo dell’Udeur alla Camera: «L’interventismo della lobby gay - ha dichiarato - diventa sempre più insopportabile. Essi - ha aggiunto - organizzano manifestazioni contro il Family Day, attaccano i conduttori dell’evento di piazza San Giovanni, ora condizionano alcuni ministri al punto che Ferrero e Bonino dichiarano che non andranno alla conferenza intergovernativa sulla famiglia». Il loro obiettivo, secondo Fabris, «non è quello di riconoscere i diritti che nessuno vuole negare ai singoli, ma è l’equiparazione delle convivenze omosessuali con la famiglia, composta da un uomo e una donna come riconosciuta dalla Costituzione». Una divisione sottolineata dal senatore di An Francesco Storace che ha invitato il premier a prendere posizione. Grandissima l’indignazione delle associazioni omosessuali. Il presidente onorario di Arcigay Franco Grillini ha usato parole forti accusando la Bindi di essere «maleducata e disumana» e responsabile di una «brutale discriminazione verso gli omosessuali».

IL VENEZIAPag 30 Scola: «No alla para-famiglia gay»L'intervista: secondo il Patriarca, lo Stato deve «registrare l'opinione prevalente nella società»

Scola ribadisce il proprio no alla «para-famiglia omosessuale ». E lo fa davanti alle telecamere di “Porta a Porta” su Rai Uno. Il patriarca di Venezia Angelo Scola ha

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rilasciato un'intervista a Bruno Vespa sul tema della laicità e dei diritti delle coppie di fatto. Confermando come debbano essere i vescovi a dire «come funziona una coscienza - ma precisando - poi non sono mica i vescovi che devono schiacciare il bottone in Parlamento». All'amore omosessuale mancherebbero, secondo il porporato, tre caratteristiche che lo qualificano come amore coniugale: «la differenza sessuale, da cui scaturisce un orientamento al dono totale di sé che in persone che vivono nel corpo si manifesta nell'apertura alla vita». E il compito dello Stato dovrebbe essere registrare «quella che io chiamo l'opinione prevalente. Quindi lo Stato non può decidere per una neutralità radicale in cui tutte le identità sono smorzate e spente ma deve favorire il confronto e alla fine registrarne l'esito». La visione «di vita buona» dei cristiani si riassume, conclude il Patriarca, nella convinzione che «una società veramente civile e avanzata è una società che fonda la famiglia sul matrimonio stabile, aperto alla vita, di un uomo e di una donna».

ASCA di lunedì 7 maggio 2007 CHIESA: PATRIARCA SCOLA CON MAGLIA DI KAKA' IN CAMPO A MESTRE

Venezia - Il ''milanista'' Angelo Scola, cardinale e patriarca di Venezia, ha indossato la maglietta n.22 ''Angelo Kaka Scola'' per dare il calcio d'inizio, ieri sera, alla partita tra la squadra dei sacerdoti del Patriarcato di Venezia e quella dei consiglieri comunali (trasversali). La sfida, vinta ai rigori dai rappresentanti dell'assemblea municipale, si è svolta presso il campo sportivo del nuovo centro pastorale di Zelarino, a Mestre. Scola, che non nasconde la sua grande passione milanista, ha detto che il suo ruolo sarebbe stato quello di ''centravanti fisso''. Dopo aver seguito la prima azione in attacco, si è però ritirato in panchina.

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANOPag 1 Il Viaggio Apostolico di Benedetto XVI nel “Continente della Speranza” di Giampaolo MatteiDa mercoledì 9 a lunedì 14 maggio il Santo Padre sarà in Brasile

L'America Latina ha la forma di un calice. Un'immagine eloquente per il «Continente della Speranza» che conta circa 480 milioni di cattolici su circa 600 milioni di abitanti, moltissimi dei quali sono giovani. Un dato che parla da solo e che non deve far dimenticare le grandi e gravi sfide che questi popoli di identità cristiana stanno vivendo. Sì, l'America Latina ha la forma di un calice e il richiamo è subito al punto focale di questo Viaggio Apostolico di Benedetto XVI: la Canonizzazione di Frate Antônio di Sant'Anna Galvão, il primo Santo nato in Brasile, e l'apertura della V Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, presso il Santuario Mariano Nazionale di Nostra Signora Aparecida. Incalzante il tema: «Discepoli e missionari di Gesù Cristo, perché i nostri popoli in Lui abbiano la vita». Due eventi ecclesiali, di comunione, che «parlano» all'intera America Latina. Dal quel «pulpito» alto ed eloquente che è il Brasile, che è Aparecida, Benedetto XVI annuncerà e testimonierà la verità di un Dio che è amore. La Chiesa è davvero la Casa di tutti: di ogni persona, di ogni famiglia, di ogni popolo. La Chiesa, che unisce nella fede cristiana il Continente Latinoamericano, accoglie tutti a braccia aperte perché è formata da tutti. È un travolgente, gioioso, messaggio di speranza che riconosce in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, il centro dell'esistenza di ciascuno. Non serve ricercare la felicità e il senso della vita seguendo derive pseudo-religiose nelle sette o culturali o politiche: c'è Cristo presente nella sua Chiesa. Sì, c'è Cristo presente sulle strade dell'America Latina, nella sua Parola, nei Sacramenti. È un fatto che le parole fondanti di questo Continente siano chiaramente cristiane: il Papa arriva a São Paulo, metropoli fondata nel nome e nell'impetuoso spirito missionario dell'Apostolo delle Genti, e poi sarà pellegrino ad Aparecida, città scaturita dal ritrovamento di una piccola Immagine della Madre di Dio, «apparsa» dalle acque del fiume Paraíba nelle reti gettate da tre pescatori. È una proposta chiara, semplice, diretta quella che la Chiesa rivolge all'America Latina. È l'annuncio di sempre: Gesù Cristo «Via, Verità, Vita». Una proposta esigente, non tranquillizzante. Ma è l'unica vera, l'unica che salva, l'unica che porta alla felicità autentica che non conosce confini. Una proposta che

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si rivolge singolarmente a ciascuno, senza esclusioni, e che rende tutti corresponsabili di una grande missione di giustizia, di pace, di dignità, di riconciliazione in Cristo che è la Giustizia, la Pace, la Riconciliazione. Sì, «Deus caritas est». La prima Enciclica di Benedetto XVI è stata accolta con grande fervore in Brasile e in America Latina. La parola «Amore» ha colpito nel cuore. Così l'attesa per la sua Visita è stata scandita da una particolare riflessione sui temi principali, fondanti, essenziali. Su ciò che conta veramente. La Croce è la pietra fondamentale dell'inizio del cammino stesso del popolo brasiliano e dell'America Latina. Non è possibile tracciare un profilo storico di questa terra senza tener conto della presenza, fin dall'inizio e lungo tutta la sua evoluzione, della Chiesa. Come dimenticare l'opera dei missionari, in tutti i campi, che hanno servito la causa di Dio e la causa dell'uomo in modo inscindibile? La prima Eucaristia in Brasile fu celebrata la Domenica in Albis del 1500, a Santa Cruz de Cabrália. La povera Croce di legno che allora si ergeva su quel primo altare è ancora un segno vivo, eloquente, forte. Con l'arrivo sulla spiaggia, oggi chiamata Porto Seguro, delle caravelle portoghesi capitanate da Pedro Alvarez Cabral, la Domenica di Pasqua del 1500, è iniziata l'evangelizzazione del Brasile. Da quel giorno non si può più parlare di questa meravigliosa terra e della sua gente senza tener conto della Persona di Gesù Cristo e della presenza della Chiesa. È, infatti, grazie alla fondamentale azione della Chiesa che le diverse razze ed etnie presenti in Brasile hanno saputo coesistere e fondersi. È anche grazie all'eroismo dei primi missionari che il Brasile è potuto diventare una grande Nazione cristiana. Se non sono mancate le ombre della conquista è certo che nell'opera di evangelizzazione autentica sono le luci a prevalere. Sono, dunque, trascorsi 507 anni dall'inizio della prima evangelizzazione del Brasile. In quel 1500 l'Oceano Atlantico divenne «strada» per l'evangelizzazione. Oggi questo Continente conosce il Vangelo, è cristiano. Sia pure nei tortuosi sentieri della storia in questi cinque secoli i cristiani hanno cercato di tradurre il Vangelo nella vita dei popoli. All'inizio la chiamarono la Terra «de Vera Cruz» che poi divenne Terra «de Santa Cruz». Ecco il primo nome del Brasile, ecco il nome del suo Battesimo. E quel giorno di 507 anni fa — annotava il cronista Pero Vaz de Caminha — venne cantata la prima «Ave Maria» da Frate Henrique de Coimbra. Da allora chi potrà mai contare quante volte è stata intonata, recitata, vissuta l'«Ave Maria» in questa terra?

AVVENIREPag 1 Un Papa più nuovo dei suoi critici di Gian Maria VianStereotipi al via

Da oggi Benedetto XVI è in Brasile. Lo scopo di questo viaggio intercontinentale del Papa è principalmente quello di aprire la quinta conferenza generale dell'episcopato di tutta l'America Latina: un appuntamento importante, che mostra con evidenza planetaria la cattolicità e la collegialità della Chiesa di Roma. Tanto importante che, dopo il concilio Vaticano II, all'apertura delle tre precedenti conferenze (a Medellín, Puebla e Santo Domingo) non avevano voluto mancare né Paolo VI né Giovanni Paolo II. E tanto importante che Pio XII aveva disposto che la prima, nel 1955, si svolgesse non a Roma - come era avvenuto al tempo di Leone XIII per il concilio plenario latinoamericano del 1899 - ma a Rio de Janeiro: in quel Brasile dove, ad Aparecida, da domenica saranno riuniti per tutto il mese di maggio i vescovi latinoamericani. Non è poi la prima volta di Ratzinger in quello che domenica scorsa ha chiamato il "continente della speranza": dove infatti si era recato come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, per riunirsi con gruppi di vescovi e sottolineare - anche in questo modo inedito nella prassi curiale - l'attenzione e la considerazione di Roma per le Chiese latinoamericane. Ed è interessante come Benedetto XVI abbia chiosato la citata definizione di "continente della speranza" ormai entrata nel linguaggio cattolico, spiegando che questa speranza «riguarda non solo la Chiesa, ma tutta l'America e il mondo intero». I cattolici latinoamericani sono cioè chiamati, nella visione di papa Ratzinger, a una responsabilità alta e coerente nei confronti dell'America settentrionale e del mondo, che va dunque al di là dei confini visibili del cattolicesimo. Sorprende, quindi, ed anche rattrista, un intervento di Leonardo Boff sul viaggio papale in Brasile, presentato in forma di «intervista collettiva che può essere usata liberamente, in tutto e in parte, da quanti vi siano interessati». Come ha fatto poi ieri il Manifesto, che ha pubblicato una sintesi del lunghissimo testo sotto un titolo appena appena pessimista: «Benedetto XVI, un papa nostalgico di una Chiesa che non ha futuro». Per anticipare le «decine di richieste» giornalistiche, il teologo brasiliano - che nel 1992 ha lasciato l'abito francescano e si è

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«autopromosso allo stato laicale» - risponde a domande che per ora si è posto da solo e soprattutto in modo preconfezionato. Ripetendo convinzioni che non sembrano tenere nel minimo conto la realtà come nel frattempo si è evoluta, modificando scenari esterni ed «interni». Così l'attuale pontificato non avrebbe «mostrato finora alcun tratto distintivo» da quello di Giovanni Paolo II (evidentemente considerato in modo negativo), mentre «si ha la chiara sensazione che Benedetto XVI si senta un papa di transizione», formula che in fonti diplomatiche si trova, già nel 1955, applicata alla candidatura del cardinale Roncalli e che accompagnerà poi, non benevolmente, il pontificato di Giovanni XXIII. Benedetto XVI dimostrerebbe però una strategia di restaurazione volta a «costruire una chiesa chiusa su stessa», lontana dal mondo, dal concetto di popolo di Dio e da una teologia della liberazione «viva» e «forte», tanto è vero che «per Roma, di fatto, l'unico vescovo è il papa e gli altri vescovi scompaiono». Insomma, un diluvio di stereotipi rispetto ai quali i dati di fatto non contano nulla: quelli relativi ai due anni di pontificato, come quelli di una realtà complessa quale l'America Latina. Ma davvero il teologo - che ora si occupa prevalentemente di ecologia - pensa che Benedetto XVI e il cattolicesimo siano come se li rappresenta? «Non c'è molto da inventare per la chiesa in America Latina», riconosce Boff, auspicando una riconferma delle precedenti assemblee dell'episcopato latinoamericano. Ma quelle di Medellín, Puebla e Santo Domingo non sono piovute dal cielo. Proprio come la prossima di Aparecida, che ha un compito che «riguarda non solo la Chiesa, ma tutta l'America e il mondo intero».

Pag 7 “Il Brasile sorprenderà Benedetto XVI con il suo entusiasmo” di Luigi GeninazziIntervista all’arcivescovo di San Paolo Odilo Pedro Scherer

Quando stasera la papamobile percorrerà i cinque chilometri che separano il Campo di Marte dal monastero di Sao Bento si troverà in mezzo a due ali di folla di paulistanos che vorranno vedere da vicino Benedetto XVI. «L'attesa è grande perché grande è l'affetto che tutti portano al Papa», afferma il nuovo arcivescovo di San Paolo, Odilo Pedro Scherer. Si è insediato lo scorso 29 aprile alla guida di una delle più vaste diocesi del mondo - la terza in ordine di grandezza. Scherer, che qui tutti chiamano familiarmente «don Odilo», ha occhi azzurri e profilo tipicamente nordeuropeo che tradiscono le sue origini tedesche. «Ja, doch, sì, certo, con Papa Ratzinger parlo nella sua lingua», dice con aria soddisfatta. Settimo di 13 figli, 57 anni, è stato ausiliare del suo predecessore, il cardinale Claudio Hummes e conosce bene questa megalopoli dove 2 milioni di persone vivono nelle favelas. Le visita spesso, come un semplice prete che vuole essere vicino ai più poveri.Eccellenza, da noi c'è molta curiosità per la visita del Papa in Brasile. Non solo per il fatto che sarà la prima di Benedetto XVI fuori Europa, ma anche perché questo Papa viene considerato eurocentrico. Anche voi in America Latina avete la stessa impressione?«Direi proprio di no. È un vostro modo di vedere, appunto eurocentrico. In realtà i temi che Benedetto XVI ha sviluppato finora sono validissimi anche per il nostro continente. E sono sicuro che tutto questo emergerà con forza nei prossimi giorni qui in Brasile. Il grande interesse che il Santo Padre nutre per l'America Latina è confermato dal fatto che ha scelto personalmente la data e il luogo della Quinta conferenza del Celam e ne ha discusso a fondo il tema : Discepoli e missionari di Gesù Cristo perché in Lui i nostri popoli abbiano la vita. Quell'inciso significativo, in Lui, è stato aggiunto dal Papa che ha a cuore la missionarietà della nostra Chiesa».Benedetto XVI incontrerà un Brasile un po' meno cattolico rispetto a quello che visitò Giovanni Paolo II nel 1996?«Secondo gli ultimi dati il 75 % dei brasiliani si dice cattolico; non mi sembra poco. Dal punto di vista qualitativo il nostro popolo è sempre molto attaccato alla tradizione cattolica. Le nostre chiese non si sono svuotate, c'è molta partecipazione dei laici e negli ultimi vent'anni stiamo assistendo ad un eccezionale risveglio missionario. Sono sempre di più i sacerdoti brasiliani presenti sul fronte dell'evangelizzazione nel mondo. Certo, c'è l'avanzata delle nuove Chiese evangeliche, un fenomeno che va esaminato attentamente. La trasmigrazione di fedeli non riguarda solo i cattolici ma un po' tutte le Chiese: siamo di fronte a una grande mobilità religiosa, la gente sceglie in base ad impulsi immediati, in una specie di supermercato dei valori».Come lo spiega?«C'è un indebolimento dei legami con l'istituzione che dipende soprattutto dalla scarsità di sacerdoti rispetto al numero dei fedeli. Le vocazioni sono in aumento ma non bastano.

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Abbiamo parrocchie con 100mila fedeli; come fa il prete a essere vicino alla sua gente? C'è l'esigenza di un lavoro pastorale più capillare, di una catechesi approfondita».I movimenti ecclesiali possono essere una risposta?«Sì, certamente. Sono caratterizzati da un forte senso d'appartenenza e da un grande slancio missionario. Devo dire che in generale c'è una stretta collaborazione tra gerarchia e movimenti: la maggior parte dei vescovi li appoggia pienamente».Eccellenza, in un'intervista ad un giornale brasiliano lei disse che la teologia della liberazione è finita. Ma tanti non la pensano così in America Latina...«È vero, esiste ancora questa tendenza ma io ho voluto sottolineare che è tramontata la versione che faceva uso del metodo marxista e ha rappresentato una deviazione dottrinale. Di questo rimane poco; in generale possiamo dire che la teologia della liberazione continua ma in altra forma, in sintonia con la dottrina sociale della Chiesa».La Chiesa brasiliana ha sempre sostenuto il presidente Lula ma negli ultimi tempi non ha risparmiato critiche al governo, specialmente per quanto riguarda i progetti di liberalizzazione dell'aborto e di riconoscimento delle coppie fuori dal matrimonio. Come sono i rapporti attualmente?«Prima di tutto mi lasci dire che non c'è mai stata alcuna dichiarazione ufficiale della Chiesa a sostegno di Lula, neppure nell'ultima campagna presidenziale dello scorso ottobre. Certo, se è stato eletto in un Paese come il Brasile vuol dire che molti cattolici l'hanno votato. Come episcopato abbiamo sempre cercato, in piena autonomia, d'avere rapporti costruttivi con il governo. Notiamo però che ci sono alcuni gruppi, sia dentro l'esecutivo sia nel parlamento, decisi a portare avanti alcuni progetti di legge che non possiamo assolutamente condividere».Pensa che Benedetto XVI affronterà l'argomento durante la sua visita in Brasile?«Mi auguro che possa toccare, con sovrana libertà, tutti gli argomenti che gli stanno a cuore. Poi ci sarà chi vorrà criticarlo per questo, ma non si può pretendere che il Papa non ne parli».Come verrà accolto il Papa dai brasiliani?«Con grande affetto ed entusiasmo, prima di tutto perché è il Papa. Tutti quanti ci lasceremo sorprendere dalla sua persona e dalle sue parole. E credo che anche Benedetto XVI si lascerà sorprendere dall'affetto e dall'entusiasmo contagioso con cui verrà circondato».

Pag 25 Giuseppe Zenti nominato nuovo vescovo di Verona di Alberto Margoni e Francesco Dal MasOriginario della diocesi scaligera, sessantenne, lascia Vittorio Veneto. Sulla cattedra di San Zeno subentra a Flavio Roberto Carraro

La diocesi di Verona ha un nuovo pastore. Benedetto XVI infatti ha accolto le dimissioni presentate per raggiunti limiti di età dal vescovo Flavio Roberto Carraro e ha nominato come suo successore sulla cattedra di San Zeno il veronese monsignor Giuseppe Zenti, dal 1° febbraio 2004 alla guida della diocesi di Vittorio Veneto. L'annuncio è stato dato a mezzogiorno di ieri, in contemporanea con la Sala stampa vaticana, dallo stesso Carraro nel salone dei vescovi dell'episcopio scaligero (dove la notizia è stata accolta da un lungo e caloroso applauso) mentre nella sede della Curia diocesana di Vittorio Veneto è stato Zenti ad annunciare la sua nomina. Per Zenti si tratta di un ritorno nella terra di origine. Infatti è nato a San Martino Buon Albergo (Verona) il 7 marzo di 60 anni fa. Entrato in quinta elementare nel pre-seminario, ha percorso tutto il curriculum di formazione e di studio prima nel Seminario minore di Verona, quindi in teologia sino all'ordinazione presbiterale conferitagli dal vescovo Giuseppe Carraro il 26 giugno 1971. I primi tre anni da sacerdote lo hanno visto collaboratore nella parrocchia del paese natale e studente dell'Università di Padova dove nel 1975 si è laureato in lettere classiche con una tesi su «Le sedi apostoliche in sant'Agostino». Al santo di Ippona Zenti ha anche dedicato alcuni anni fa il volume «Sant'Agostino evangelizzatore della comunione ecclesiale». Per 19 anni il presule ha svolto il proprio ministero nel Seminario minore di San Massimo (Verona), sia come insegnante di materie letterarie, sia come vice-rettore. Nominato nel 1989 pro-rettore del Seminario, è stato anche preside dell'istituto scolastico «Gian Matteo Giberti» frequentato dai giovani seminaristi. Ha svolto per nove anni il ministero di parroco, dapprima a Santa Maria Immacolata nel popoloso quartiere cittadino di Borgo Milano (1993-97), quindi nella parrocchia del Duomo di Legnago (1997-2002). Il 25 gennaio 2002 è stato nominato vicario generale della diocesi . Il 3 dicembre 2003 Giovanni Paolo II lo ha chiamato alla guida della diocesi di Vittorio

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Veneto. «Zenti è un figlio di Verona ed è un vescovo per Verona - ha affermato Carraro nel comunicare la nomina del suo successore al quale egli stesso conferì l'ordinazione episcopale l'11 gennaio 2004 -. Un confratello nel sacerdozio ordinato vescovo torna nella diocesi che l'ha formato e l'ha preparato. Sono gioiosamente onorato di questa notizia del Santo Padre. Certamente monsignor Zenti è una persona preparata e conosce molto bene la diocesi. Entra in un ambiente conosciuto e nel quale ha vissuto a lungo». In attesa dell'ingresso del nuovo pastore, Carraro rimarrà alla guida della diocesi in qualità di amministratore apostolico. Per il presule cappuccino quelli veronesi sono stati nove anni molto intensi di ministero, caratterizzati dallo stile della sobrietà francescana e dell'umile e indefesso servizio. Un episcopato culminato nella visita di Papa Benedetto XVI il 19 ottobre scorso in occasione del quarto Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana ospitato dalla diocesi scaligera. Ma caratterizzato anche da altri eventi storici come la visita alla sinagoga cittadina il 16 gennaio 2005 e la celebrazione del Sinodo diocesano a 120 anni di distanza dal precedente. «Non posso che portare un grande ricordo della santità e della missionarietà di Verona - ha affermato ieri in risposta alle domande dei giornalisti -, una città che mostra una grande capacità di accoglienza evangelica».

Vittorio Veneto. «La vigna è la stessa, cambio solo filare». Così il vescovo Giuseppe Zenti ha confortato i più stretti collaboratori, all’annuncio della nomina a Verona, dopo 3 anni di servizio pastorale a Vittorio Veneto. «La cosa che mi conforta – ha aggiunto – è che in tre anni si farà poco di bene ma si hanno anche meno occasioni di fare disastri. Qui ho imparato a fare il vescovo sul campo. Mi dispiace di lasciare un clero che nel suo insieme tiene: dai più giovani, che ho da poco ordinato, ai più anziani». Proprio sabato scorso, infatti, Zenti ha ordinato gli ultimi 4 sacerdoti. E tra le prospettive che stava perfezionando, due erano quelle più impegnative: il sinodo e la visita pastorale. Proprio per questo, il vicario generale monsignor Martino Zagonel ha ieri sottolineato che l’accettazione della nomina a Verona «è l’ennesimo atto di generosità del vescovo, un’altra sua bella testimonianza di Vangelo». Tre anni sono pochi. Ma per Zenti a Vittorio Veneto sono stati particolarmente intensi. A cominciare dall’impegno per la famiglia, soprattutto per quelle più giovani con figli in fase educativa. Da qui, anche, i ripetuti interventi a difesa del lavoro e in particolare contro la delocalizzazione «selvaggia», quella dello sradicamento dei posti di lavoro. Insieme alla famiglia, lo preoccupava la carenza di sacerdoti. «Ha stimolato una intensa campagna di promozione vocazionale – sottolinea don Giampiero Moret, direttore del settimanale diocesano "L’azione" – e nei numerosi funerali dei preti ricordava ai concelebranti una specie di patto, vale a dire di impegnarsi, una volta raggiunta la casa del Padre, a implorare una nuova vocazione per occupare il posto lasciato libero. Per far fronte alle necessità delle parrocchie che restavano senza un parroco residente, ha dato impulso alla formazione delle unità pastorali, già iniziata con in vescovi precedenti e alla formazione di quei gruppi di laici che avrebbero dovuto gestire i vari settori della pastorale parrocchiale in assenza di una presenza stabile del sacerdote».

CORRIERE DELLA SERAPag 24 Pio XII beato: sì della Curia. A maggioranza di Bruno BartoloniOra l’ultima parola spetta al Papa. Una lunga catena di polemiche

Città del Vaticano — A quarant'anni dalla sua apertura il 18 ottobre del 1967 per volontà di Paolo VI, la causa di beatificazione di Pio XII ha superato l'ultimo ostacolo: l'approvazione da parte della «sessione ordinaria» della congregazione per le cause dei santi che si riunisce ogni martedì. Ne fanno parte quindici cardinali e quindici vescovi. Ieri hanno deciso a maggioranza che il servo di Dio Eugenio Pacelli ha effettivamente esercitato le virtù cristiane a un grado «eroico». Le loro conclusioni sono state notificate a Benedetto XVI dal cardinale prefetto José Saraiva Martins. Ora la parola spetta al Papa che dovrà firmare il decreto sulla eroicità delle virtù. Impossibile fare previsioni sui tempi della decisione, ma è probabile che qualche idea sull'orientamento personale del Papa lo si possa avere già stamane, dal momento che per le 11 ora italiana è prevista una sua conferenza stampa a bordo dell'aereo che lo porta in Brasile. Le polemiche che hanno accompagnato negli anni il lento procedere della causa — a partire dall'accusa di «silenzio» sull'Olocausto lanciate a papa Pacelli da Rolf Hochhut nel dramma «Il Vicario» — si sono fatte sentire nella riunione di ieri. Non c'è stata quell'unanimità che caratterizza spesso questo voto e che speravano il postulatore padre Paolo Molinari ed il

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relatore della causa padre Peter Gumpel. La «positio», sei volumi per un totale di tremila pagine, consegnata alla congregazione nel 2004, è stata approvata a maggioranza. Diversi cardinali e vescovi hanno raccomandato «prudenza» e «tempi lunghi» in attesa di un clima più favorevole. E' del mese scorso la polemica sul commento posto sotto l'immagine di Pio XII nel Museo della Shoah a Gerusalemme: una «didascalia» molto critica sull'operato di Pacelli, che aveva indotto il nunzio in Israele ad annunciare che non avrebbe partecipato all'annuale commemorazione dello «sterminio», minaccia poi rientrata grazie alla «disponibilità» a rivedere quel testo dichiarata dal direttore del Museo. Il Papa non potrà che tener conto delle raccomandazioni espresse nel corso della plenaria che autorizza voti accompagnati da pareri. Le sue origini tedesche non gli facilitano il compito, almeno sul piano psicologico. A differenza di papa Giovanni XXIII, di Madre Teresa e del fondatore dell'Opus Dei Escrivà de Balaguer, a Pio XII non è stata comunque aperta alcuna scorciatoia verso la santità. La «positio» presentata dal postulatore ha aspettato pazientemente il suo turno prima di essere esaminata dalla commissione dei sei consultori storici e dalla commissione dei consultori teologi i quali hanno risposto «affermative» al «dubium» sulla eroicità delle virtù di papa Pacelli, almeno con una maggioranza di due terzi. E' impensabile che Benedetto XVI possa non dare ascolto al «placet» espresso dai membri della congregazione per le cause dei santi. Potrebbe però riservarsi di firmare il decreto dopo un attento esame degli atti. La sua firma darà inizio a un nuovo processo su un miracolo attribuito all'intercessione di Pio XII: miracolo che dovrà essere esaminato da una consulta medica e da un'altra teologica per arrivare infine di nuovo alla «congregazione ordinaria» e al Papa che deciderà a quel punto una data per la beatificazione. Non dovrebbero esserci problemi per i miracoli attribuiti a papa Pacelli. Fin dall'apertura della causa, l'allora segretario del dicastero per i santi monsignor Mattei fece sapere che di episodi straordinari, non solo di carattere medico, non ne mancavano. Citò perfino il caso di una anziana signora di Palermo che si trovò un mese in condizione di non poter pagare l'affitto e che fu aiutata dal vicino al quale era apparso in sogno Pio XII.

Pag 25 Benedetto XVI in Brasile: “Mi aspettano tante sfide” di Luigi AccattoliDiminuisce il numero dei cattolici. L’incontro con Lula

Città del Vaticano — Quando Wojtyla andò la prima volta in Brasile, nel 1980, aveva sessant'anni. Papa Ratzinger ci va a ottanta. Allora c'era il regime dei colonnelli e Lula era un giovane sindacalista clandestino che incontrò il Pontefice in una saletta dello stadio Morumbi di San Paolo. Ora Lula è capo dello Stato e riceverà Benedetto XVI nel Palacio dos Bandeirantes. Allora i cattolici erano il 90% della popolazione, ora sono il 75%: l'erosione delle sette sta intaccando la comunità cattolica più numerosa del mondo (155 milioni di battezzati). Il paragone tra il vaggio di papa Wojtyla e quello di papa Ratzinger — che inizia stamani — segnala clamorose diversità ma suggerisce un punto d'incontro: il messaggio centrale del papa teologo sarà lo stesso del papa polacco e riguarderà l'impegno dei cristiani per giustizia sociale. I dodici giorni di papa Wojtyla furono tutto un grido per i diritti dei baraccati, degli «alagados», dei «campesinos», degli indios, dei lavoratori. Che anche Benedetto XVI voglia mettere al centro della sua trasferta di cinque giorni la tematica sociale — insieme a quella della difesa della vita — lo ha detto in tre successive interviste negli ultimi tre giorni il cardinale Tarcisio Bertone segretario di Stato, che ha presentato il viaggio come «un'occasione per rilanciare un grande movimento di solidarietà e di promozione della giustizia nel continente latinoamericano». Il Papa in persona domenica aveva parlato — all'Angelus — della sua «prima visita pastorale in America Latina» invitando i fedeli ad accompagnarlo con la preghiera perché «tante e molteplici sono le sfide del momento presente» per la Chiesa di laggiù. Il gennaio scorso, parlando alla Commissione per l'America Latina, aveva definito «enormi» quelle sfide e le aveva così elencate: «Cambiamenti culturali generati da media che segnano il modo di pensare di milioni di persone, flussi migratori, ritorno di interrogativi su come i popoli debbono assumere la memoria storica e il futuro democratico, globalizzazione, secolarismo, povertà crescente, deterioramento dell'ambiente nelle grandi città, violenza e narcotraffico». Il viaggio del Papa — il primo di Benedetto XVI fuori dall'Europa — è motivato dall'apertura domenica 13, ad Aparecida, della Quinta conferenza dell'episcopato latino- americano. Quell'appuntamento — che ricorda le conferenze di Medellin (1968) e Puebla (1979) e la vocazione sociale della cattolicità latino- americana, animata anche dalla Teologia della Liberazione — sarà preceduto da incontri del Papa, a San Paolo del Brasile, con il

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presidente Lula, con i giovani e con i vescovi del Paese. Tra le curiosità: una «nutrizionista» controllerà origine, qualità e trattamento dei cibi che verranno serviti al Papa; un'inchiesta segnala che il 96% dei giovani cattolici brasiliani è favorevole all'uso del preservativo per evitare gravidanze e malattie.

Pag 40 Un Papa nuovo nella Chiesa dei dubbi di Alberto MelloniIl viaggio in Brasile

A breve si apre l'assemblea del Celam, la conferenza dei vescovi d'America Latina, occasione del primo viaggio di Benedetto XVI fuori dall'Europa. L'organo che accoglie il Papa è figlio di Pio XII, che per primo sognò di restaurare laggiù una cristianità dottrinalmente romana, politicamente anticomunista e socialmente anti-Usa. Per questo Celam — di fatto un concilio continentale — s'era riunito per la prima volta a Rio de Janeiro nel 1955, sotto lo sguardo vigile di Roma. Poco dopo arriva il Vaticano II, nel quale il Celam gioca un ruolo universale e riceve impulsi straordinari. Alla sua seconda assemblea, tenuta a Medellín nel 1968, esplode così la creatività di Chiese che si fanno carico teologicamente di un Continente torturato dalla povertà, dalla repressione, dalla esclusione. Una metamorfosi suggellata dal segno del martirio: preti, laici, e vescovi uccisi non solo per la loro fedeltà agli ultimi, ma anche per aver tradito il blocco politico-militare-religioso di cui l'establishment li voleva parte. Medellín e l'opzione per i poveri suscitano a Roma favori, timori e ostilità. Alla terza assemblea, a Puebla nel 1979, Giovanni Paolo II ne è interprete: il documento finale affina la «teologia della liberazione» che adotta «mezzi evangelici» e crede alla «loro peculiare efficacia»; il Papa stigmatizza l'idea del «Cristo come un rivoluzionario». La paura che la teologia della liberazione non incarni la fede ma la contamini si fa strada. Nei primi anni Ottanta tocca a Joseph Ratzinger (convinto che il gergo marxiano dei teologi latinoamericani importi il marxismo teorico della sinistra tedesca) processare i teologi, selezionare i vescovi, firmare due documenti di condanna (« Libertatis nuntius » del 1984 e « Libertatis conscientiae » del 1986). Con tali strumenti l'esilio di una chiesa dalla Chiesa non è indolore, ma rapido: perfino monsignor Romero, il vescovo ucciso all'altare nel 1980 in Salvador, viene archiviato fra le vittime della lotta politica, anziché essere venerato come martire. La quarta assemblea di Santo Domingo nel 1992 palesa i prezzi d'una linea di misconoscimento (che Wojtyla modera facendo sua l'opzione preferenziale per i poveri): la politica e i pentecostalismi importati dagli Usa dilaniano una Chiesa cattolica in cui sospetto, delazioni, carrierismi spudorati hanno trovato insperati appigli. L'allarme contro la predicazione delle «sette» lanciato allora suona come un mea culpa afono. Alla quinta assemblea di questo 2007 arriva un Papa nuovo e noto, preceduto dalla decisione di conservare l'appuntamento (archiviando l'illusione d'una strategia cattolica panamericana) e dall'eco della quasi- condanna di Jon Sobrino. Unico scampato agli squadroni che nel 1989 macellarono i sette gesuiti dell'Università cattolica di San Salvador, Sobrino è stato condannato «d'urgenza» per un suo libro poche settimane fa: un atto che suscita dubbi per la tecnica e per i tempi, quasi che si volesse «timbrare» il Papa prima della partenza per il Brasile. E in un clima segnato da tali dubbi e su cui incombe l'entusiasmo carioca, Benedetto XVI parlerà con toni alti ed equilibrati. Ma i suoi discorsi non saranno più importanti di ciò che diranno i vescovi (specie i brasiliani, assai critici verso i materiali preparatori cucinati a Roma), i teologi (meno numerosi del solito), le folle (che la fede semplice e i movimenti aduneranno al santuario dell'Aparecida). Il cattolicesimo, infatti, è per metà una fede d'America Latina e all'Aparecida ci sarà mezza Chiesa. Se la sua voce sarà subalterna al politically traditional, se l'annuncio della verità crocifissa non sarà schietto, se non si sentirà il soffio spirituale d'una comunione viva, non sarà solo il segno che il vecchio modello postcoloniale ha riassorbito la Chiesa nelle spire d'un conservatorismo così familiare ad alcuni movimenti cattolici. Sarà anche il sintomo d'uno spegnimento dello Spirito, un assopimento della Chiesa in ciò che le è più essenziale.

LA REPUBBLICAPag 50 Se la Chiesa diventa un partito di Nello AjelloUna raccolta di scritti di Zagrebelsky

Raccogliendo sotto il titolo Lo Stato e la Chiesa un’antologia dei suoi scritti pubblicati negli ultimi sette anni su Repubblica Gustavo Zagrebelsky ha disegnato un panorama molto attuale e di grande drammaticità. Attuale, perché negli ultimi anni, Soprattutto

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dopo l’ascesa al trono pontificio di JosephRatzinger, l’interventismo della Santa Sede nelle vicende politiche italiane ha assunto un’accentuazione rilevante. Drammatico, perché sempre più di rado si levano, dall’interno delle pubbliche istituzioni, delle voci se non altrettanto combattive, almeno dissonanti in modo esplicito da questo genere di prevaricazioni. Soprattutto quando si discutono argomenti di natura etica o attinenti alla scienza la Chiesa fa irruzione trai contendenti che si misurano - o, a volte, fingono - nell’agone politico. E nonio fa soltanto come portatrice di quella «moral suasion» che si addice a una potenza di elevata dignità spirituale e di superiore portata ecumenica, ma con il linguaggio concitato, l’energia pragmatica, il tono pugnace e l’astuzia tattica di un partecipante alla contesa. Questo patrocinio esercitato sulle vicende dell’Italia trasforma l’autorità ecclesiastica - scrive Ezio Mauro nella sua prefazione al volume di Zagrebelsky - in un qualcosa che è insieme «parte e Verità assoluta, pulpito e piazza, autorità e gruppo di pressione». Il tutto, naturalmente, molto «secolarizzato» e pochissimo solenne, aldilà delle tradizioni di prudenza diplomatica che alla Santa Sede vengono di solito attribuite. Il fatto che la Chiesa stessa dia per automatica l’obbedienza dei politici cattolici alle tesi di cui la gerarchia è paladina si rivela, d’altronde, giusto: ogni sua richiesta trova chi la soddisfa nel nostro ambito parlamentare e perfino nelle file del governo, per desiderio di aderire a un conformismo che si presume imperante, o - che è un polo stesso - per la sensazione che i cattolico-clericali siano in aumento, a dispetto della effettiva scristianizzazione del nostro Paese. Va sottolineato a questo proposito il fatto che in determinate occasioni - come il referendum sulla procreazione assistita cui Zagrebelsky dedica un corposo capitolo - l’appello confessionale è stato rivolto direttamente ai partecipanti al voto, e nella forma più elementare e capziosa: quella dell’invito ad astenersi per evitare l’acquisizione del quorum. Quella volta la Chiesa ebbe facilmente partita vinta: ai «veri astensionisti», a coloro cioè che usano disertare gli appuntamenti referendari, si sommarono i “falsi astensionisti», persuasi dall’appello della Gerarchia. Qui - e non qui soltanto, i lettori potranno accorgersene - il rigore scientifico di uno studioso quale Zagrebelsky cede a un surplus di sacrosanta passionalità, avvertendo quella campagna elettorale (anzi, più precisamente, anti-elettorale) della Chiesa, e l’obbedienza che le si prestò, come una manifestazione “di prepotenza, di imposizione, di slealtà». La casistica del volume è ampia. I temi, i concetti e le discussioni che l’autore affronta scavalcano talvolta il caso-limite offerto dal nostro Paese. Affiora nelle pagine quella figura politico-culturale di conio relativamente nuovo che è «l’ ateo clericale» o il “teologo politico», o il “radicalista cristiano», la cui attitudine a strumentalizzare la religione in funzione conservatrice lo rende un eroe del nostro tempo a prescindere dalla collocazione geografica: i Dominionists ne sono un’invadente versione statunitense, mentre i restauratori delle “radici cristiane», con relativa “identità» hanno scelto come loro atelier privilegiato l’Europa e le sue istituzioni unitarie. Zagrebelsky misura con accenti severi fino a che punto, qui da noi, la condotta interventista della Chiesa rischi di travolgere lo stesso Concordato, «corrodendone le basi di legittimità». Si domanda se negli ((odierni rapporti tra Stato e Chiesa», particolarmente in Italia, si rifletta più lo spirito del Concilio Vaticano II o la dottrina di quel Cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), in virtù della quale si riteneva lecita l’ingerenza della Chiesa in ogni affare dello Stato tutte le volte che la Gerarchia “avesse invocato una ragione religiosa». Su tutto questo aleggia un pericolo, che va registrato con i accorata malinconia che in quest’opera si respira: il ritorno indietro della convivenza civile, l’impossibilità del dialogo. Il doloroso disagio, per dirlo con una citazione, di quei «cattolici fervidi» di cui scriveva Arturo Carlo Jemolo, «che conoscono la comunione quotidiana e l’adorazione notturna, che credono fermamente nei miracoli, e che invece sono dei laici». A qualcosa di molto simile allude Zagrebelsky quando esclama: “Che triste delusione per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare», il vedere “la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d’una partita».Con la politica a fare da arbitro.

Pag 51 La Bibbia sui banchi di scuola di Marco PolitiOggi l’associazione Biblia presenterà al ministro Fioroni un appello con diecimila firme per promuovere la conoscenza del Libro dei Libri

La marcia dei diecimila termina oggi in Campidoglio. Diecimila firme per un appello che sollecita il ministro dell’Istruzione (e l’opinione pubblica) a rendersi conto che senza conoscenza della Bibbia non c’è cultura europea. Diecimila firme tra cui spiccano nomi

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eccellenti come gli scrittori Umberto Eco e Claudio Magnis, lo storico Pietro Scoppola, i filosofi Massimo Cacciari e Remo Bodei, i biblisti Gianfranco Ravasi e Rinaldo Fabris, il rabbino di Ferrara Luciano Caro, il sociologo Giuseppe De Rita, il vescovo Bruno Forte, il teologo Piero Coda, il preside della Facoltà Teologica Valdese Daniele Garrone, l’astronoma Margherita Hack, il politico Vannino Chiti, il linguista Tullio De Mauro, gli ex presidenti delle comunità ebraiche italiane Tullia Zevi ed Amos Luzzatto, l’industriale Giancarlo Lombardi, il banchiere Alberto Mula, l’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky e tanti altri ancora: cattolici, laici, protestanti ed ebrei. A lanciare l’idea di raccogliere le firme è stata l’associazione Biblia, che dall’84 si batte per la riscoperta del Libro dei Libri. L’ha fondata Agnese Cini Tassinani, una tenace e amabile signora fiorentina, già dirigente Scout, interprete parlamentare e docente di storia e letteratura francese. Ci voleva una spinta protestante per dare una scossa alla pigrizia di un Paese che è cattolico al battesimo, al matrimonio, al funerale o (spesso per convenienza) sui banchi del parlamento, ma che coltiva una felice ignoranza del testo sacro del cristianesimo. “Mia madre è svedese — racconta la Cini Tassinani — e perciò avevo frequentato le scuole in Svezia. Lì la Bibbia si studia sul serio». Tornata in Italia lo shock: “Mi resi che conto che l’Italia cattolica conosceva così poco questo splendida biblioteca di libri, che è la Bibbia: tanto ricca di valori, domande, risposte». Biblia è nata così. Un’avventura fatta di conferenze, di incontri, nei quali ben presto sono stati coinvolti laici, protestanti, ebrei, musulmani, teologi e scienziati. Proprio quando si è profilato il fantasma dello scontro di civiltà, Biblia ha organizzato due importanti convegni su “Bibbia e Corano» e «Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano». L’appello è nato così, strada facendo. Nella convinzione che poco si capisce dell’Occidente, della sua storia, della sua arte, della sua letteratura e persino del suo diritto, della sua economia e della sua politica, se la Bibbia viene data per assente. La raccolta delle firme è partita sul finire del 2004, nel ventennale dell’associazione, con un proclama essenziale: «Il vasto, millenario influsso di temi e simboli, che hanno la loro origine nella Bibbia, permane nello spazio come nel tempo. E’ decisivo fino alla crisi del sacro nell’epoca moderna e resta ancor oggi fonte primaria di un processo culturale ineludibile». Ciò che l’appello mette in evidenza, in controluce si può dire, è la tragica inefficienza di quell’ora di religione—finanziata dal bilancio pubblico con l’8 per mille —che accompagna lo studente dalle elementari (a volte anche prima) fino alla maturità senza dargli uno straccio di istruzione biblica. Si chiama testualmente “Insegnamento della religione cattolica», ci lavorano oltre quindicimila insegnanti e dopo anni ed anni gli studenti escono da scuola senza conoscere il Libro che Cristo citava e su cui si basa tutta la religione cristiana. Stamane in Campidoglio l’iniziativa verrà presentata in un convegno con Pietro Scoppola, Rosario Gibellini e Antonio Paolucci. Ma subito dopo Agnese Cini contatterà il ministro Fioroni per andare a consegnargli personalmente le firme. Al Miur (Ministero dell’istruzione, università e ricerca) è già pronto nei dettagli un protocollo, che attende solo la firma del ministro, e che varerà corsi di aggiornamento per i docenti allo scopo di valorizzare il “giacimento biblico» della nostra cultura. Blblia, cui si sono aggiunte altre istituzioni interessate, ne sarà responsabile. Un protocollo simile, in verità, era già stato firmato da Tullio De Mauro, ministro dell’Istruzione nell’ultimo governo di centro-sinistra, prima che Berlusconi vincesse le elezioni del 2001. Ma, cambiato il governo, non se ne fece nulla. Ora si riparte. «Non vogliamo creare una nuova materia accanto alle altre», spiega il professor Piero Stefani, coordinatore del comitato scientifico dell’associazione. “Ciò che conta — sottolinea — è mettere in luce l’apporto della Bibbia nelle varie materie curricolari”. Con il ministero sono già state individuate quattro aree di approfondimento: Bibbia ed Ellenismo (per i Licei classici), Bibbia e Scienza (per i Licei scientifici), Bibbia ed Europa, ed infine Bibbia e America. Da scoprire c’è moltissimo. Per esempio che la matrice biblica è stata un pungolo potente nella storia della ricerca scientifica occidentale. Anche attraverso i momenti di conflitto.

IL GIORNALEL’offensiva di Benedetto XVI contro la deriva protestante di Massimo Introvigne

Benedetto XVI parte per l’America Latina, e il primo problema che gli si presenta è quello del proselitismo protestante. Uno studio della Conferenza episcopale della Bolivia sostiene che le conversioni dal cattolicesimo al protestantesimo in America Latina sono ormai più vaste di quelle della Riforma protestante nell’Europa del XVI secolo. La galassia protestante latino-americana è complessa: le denominazioni che crescono di più sono quelle pentecostali, un vasto mondo che spesso in Sudamerica va sotto il nome di

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«sette», dando però a questa parola un’accezione diversa da quella che ha di solito in Europa. Il fenomeno è cresciuto lentamente, ma ancora più lentamente è cresciuta la capacità di osservarlo e comprenderlo. Nel 1984, quando il sociologo David Martin annuncia ai colleghi che sta scrivendo un libro sul protestantesimo in America Latina, la risposta che riceve è: «Sarà sicuramente un libro molto piccolo». Quando il libro di Martin esce, nel 1990, documenta che cinquemila persone si convertono al protestantesimo ogni giorno nell’America Centrale e Meridionale. Oggi sono ottomila, e i protestanti sono arrivati a settanta milioni, oltre il quindici per cento della popolazione. Inoltre, il numero di non praticanti è basso fra i protestanti e molto più alto fra i cattolici. Sul problema delle cosiddette «sette» protestanti in America Latina circolano tre miti, completamente superati nella sociologia ma di cui si fa ancora portatore qualche vescovo locale. Il primo è che queste denominazioni siano «Chiese del dollaro», che crescono solo grazie agli aiuti degli Stati Uniti, i quali si servirebbero dei protestanti per imporre la loro egemonia. Numerosi studi dimostrano che oggi le denominazioni che crescono di più sono quelle autoctone che non hanno nessun legame con gli Stati Uniti. Il secondo mito è che i protestanti sono di destra e i cattolici di sinistra, i protestanti «borghesi» e i cattolici «popolari». Come a suo tempo aveva ben visto Giovanni Paolo II, la «teologia della liberazione» che s’ispirava al marxismo e parlava molto di lotta di classe ma poco di Gesù Cristo ha avuto esiti fallimentari. Dove ha dominato, la predicazione cattolica ha favorito le conversioni al protestantesimo. I protestanti tuttavia sono in maggioranza anticomunisti, ma non sono necessariamente «di destra» e molti di loro militano in partiti di centrosinistra. Infine, non è vero che la deriva verso il protestantesimo sia inarrestabile. Passata l’ubriacatura della «teologia della liberazione» i successi protestanti hanno spinto la Chiesa cattolica a una vigorosa campagna missionaria, e il numero di cattolici praticanti è quasi ovunque in crescita. È per continuare questa «nuova evangelizzazione» di Giovanni Paolo II che Benedetto XVI arriva in America Latina.

IL FOGLIOPag 2 Benedetto l’europeo di Jeff IsraelyUn Papa radicato nel Vecchio continente può portare all’età adulta la chiesa latinoamericana

Continueremo a ripetere che questo non è un Papa viaggiante, e continueremo a ricordare ai nostri lettori che Benedetto XVI preferirebbe certamente rimanere nella sua biblioteca a studiare, scrivere e meditare. E possiamo anche aggiungere che si tratta di un uomo di ottant’anni. Tutto vero. Ma è altrettanto vero che oggi il Papa parte per il suo sesto viaggio in due anni. Senza dubbio, alcune sono state tappe più o meno obbligate: a Colonia per la giornata Mondiale della gioventù, in Polonia per tributare omaggio alla memoria di Giovanni Paolo Il. In questi viaggi, Benedetto si è comportato più come un curioso visitatore che come un leader mondiale. In ogni caso, il suo ultimo viaggio in Turchia è stato un clamoroso successo mediatico, proprio come quelli del suo predecessore globetrotter. E ora, cinque giorni in Brasile? Per prima cosa, Benedetto dovrà affrontare il problema del fuso orario. Sarà il suo primo viaggio transoceanico dal febbraio del 1999, quando si era recato a San Francisco. Nella sua ultima visita nell’emisfero occidentale, un tour di nove giorni attraverso il Canada, il Guatemala e il Messico nel 2002, l’allora ottantaduenne Papa Giovanni Paolo Il dovette prendersi due giorni di riposo in una piccola località presso Toronto. Benedetto XVI, che gode senza dubbio di migliore salute, non avrà la possibilità di prendersi un momento di riposo. In più, la devozione dei fédeli latinoamericani non farà che aggiungere pressioni. Certamente, Ratzinger preferirebbe essere giudicato per la sua fedeltà ai principi del Vangelo o per le sue doti di esegeta; ma i viaggi del Papa sono i fondamentali momenti di verifica del progresso del suo regno. La visita di Benedetto alla Moschea Blu e la sua preghiera insieme all’imam di Istanbul sono stati il primo straordinario gesto che ha ricordato l’atteggiamento di Giovanni Paolo Il.In Brasile è prevista la visita a un centro di riabilitazione dalle tossicodipendenze e dall’alcolismo, e il Papa parlerà senza dubbio dell’enorme gap che separa i ricchi dai poveri. Ma alcuni pensano che Benedetto trarrebbe notevole vantaggio da una qualche improvvisata apparizione pubblica tra il caloroso popolo brasiliano: una visita alle favelas di San Paolo o l’offerta del suo anello papale al santuario della Aparecida. Comunque, ormai gli osservatori di cose vaticane conoscono perfettamente le trappole in cui si può cadere quando si fanno paragoni tra Benedetto XVI e Giovanni Paolo Il. Un funzionario

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della sede vaticana messicana ha detto: “Benedetto è un uomo profondamente europeo. Non ha la stessa affinità naturale con l’approccio latinoamericano al cattolicesimo che aveva Giovanni Paolo. Ciononostante, sarà conquistato dal calore con cui sarà ricevuto”. Risolvere i problemi interni - In effetti, tutte le iniziative papali sono inserite in un contesto ben preciso: il viaggio in Brasile segue quello in Turchia, a sua volta immediatamente successivo al discorso di Ratisbona. Il recente libro su Gesù di Nazareth è il cugino della “Deus Caritas est”, dato che Benedetto può essere visto più come un Papa della riflessione/conversione che come un Papa dell’impegno politico e diplomatico. E così dobbiamo chiederci che cosa abbia da offrire questo Papa profondamente europeo al Nuovo mondo. Un funzionario sudamericano della Santa Sede, favorevole all’elezione di Ratzinger, mi aveva detto che trovare la persona giusta per “risolvere i problemi interni della chiesa” era la migliore medicina per i fedeli del Terzo mondo. Secondo lo stesso funzionario, “i problemi in America Latina non sono più gravi che in Europa, ma si manifestano in modo diverso. Anche qui il cattolicesimo sta perdendo la propria identità”. A parte il fuso orario, questo viaggio potrebbe effettivamente aprire il problema dell’anzianità degli ultimi due papi. Per tutto il secolo scorso si è detto che in America Latina il cattolicesimo era forte e vibrante perché relativamente giovane. Lo stesso spirito giovanile di Giovanni Paolo H aveva scatenato un amore immediato tra il Papa e il suo gregge di fedeli. Ora il seggio di San Pietro è occupato da un uomo anziano con profonde radici nel Vecchio continente; e forse, quando Benedetto arriverà in Brasile, il cattolicesimo latinoamericano sarà finalmente pronto ad affrontare anche le difficoltà dell’età adulta.

IL GAZZETTINO DI VENEZIAPag III Veglia diocesana a Marghera con il patriarca Scola sulle “morti bianche” e sulla sicurezza nei posti di lavoro di Alvise Sperandio

Alla veglia diocesana sul lavoro si parla di sicurezza e morti bianche. Un tema di pressante e tragica attualità è dunque al centro del consueto appuntamento promosso attorno al primo maggio dalla Pastorale sociale e del lavoro del Patriarcato. L'incontro si svolge oggi, alle 20.45 nella chiesa di San Michele in via Fratelli Bandiera, a Marghera, alla presenza del cardinale Angelo Scola che interverrà con una sua riflessione. La veglia di preghiera e di riflessione si intitola "Lavoro è vita" per richiamare l'attenzione al tema del rispetto dell'esistenza e dell'integrità umana troppo spesso minacciata dai rischi di infortuni e morte sul posto del lavoro. «La comunità cristiana - spiega monsignor Fabio Longoni direttore dell'Ufficio - non può non interessarsi di questi aspetti. Inoltre c'è anche un dato strettamente territoriale che è interessante: infatti il Patriarcato di Venezia ha partecipato attivamente al tavolo promosso dalla Provincia, insieme a istituzioni ed associazioni, che ha dato vita al protocollo d'intesa per la promozione della sicurezza sul lavoro in particolare nei cantieri edili. Il contributo di tutti è necessario per creare e diffondere la mentalità della sicurezza». La parte introduttiva sarà dedicata alla memoria dei caduti sul lavoro e seguiranno le testimonianze: si parlerà di lavoro, sicurezza e responsabilità sociale ma anche di salvaguardia del creato e rispetto dell'ambiente. Sarà quindi proclamato un brano del Vangelo - quello che accenna alla caduta della Torre di Siloe che ai tempi di Gesù provocò la morte di 18 persone - e ci sarà la riflessione di Scola.

LA NUOVAPag 21 Sicurezza nei posti di lavoro, veglia di preghiera con Scola

Marghera. Morti bianche, dignità della vita umana, sicurezza sui luoghi di lavoro e tutela del creato sono i temi al centro della veglia diocesana di oggi alle 20.45 nella chiesa di San Michele a Marghera con il patriarca Angelo Scola. L’appuntamento, dal titolo «Lavoro è vita», è organizzato dalla Pastorale sociale e del lavoro del Patriarcato di Venezia e vuole «richiamare l’attenzione intorno al tema della vita e al rispetto dell’integrità della persona, troppo spesso minacciata dai rischi di infortuni e dalle morti nei luoghi di lavoro ed anche invitare a promuovere una cultura della sicurezza più attenta alla vita umana e all’ambiente». «Come diocesi», osserva mons. Fabio Longoni, direttore della Pastorale del lavoro, «abbiamo partecipato attivamente al tavolo promosso dalla Provincia che ha dato vita al protocollo d’intesa sulla sicurezza sul lavoro».

SIR di martedì 8 maggio 2007

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MORTI BIANCHE: MERCOLEDÌ SERA A MARGHERA SERATA DI PREGHIERA E RIFLESSIONE COL CARD. SCOLA

Una veglia di preghiera e riflessione su temi quali le “morti bianche”, la dignità della vita umana, la sicurezza sui luoghi di lavoro e la tutela del creato: questa la proposta della diocesi di Venezia per la sera di mercoledì 9 maggio a Marghera (ore 20.45, chiesa S. Michele) con il Patriarca card. Angelo Scola che guiderà le meditazioni. L’incontro è organizzato dalla pastorale sociale e del lavoro e si intitolerà “Lavoro è vita”. Il direttore dell’ufficio diocesano, mons. Fabio Longoni, spiega: “La comunità cristiana non può non interessarsi a queste cose e non metterle al centro della propria riflessione e preghiera e poi c’è anche un aspetto territoriale estremamente interessante: come diocesi, infatti, abbiamo partecipato attivamente al tavolo - promosso dalla Provincia di Venezia ed assieme a vari enti, istituzioni ed associazioni - che ha dato vita al Protocollo d’intesa per la promozione della sicurezza sul lavoro, in particolare nei cantieri edili”. Uno specifico momento di preghiera sarà dedicato ai “caduti sul lavoro” cui seguiranno riflessioni e testimonianze.

IL NOSTRO TEMPO (settim. dioces. di Torino) di domenica 6 maggio 2007 Pag 1 Dico: se i laici ripetessero il Concilio di Gerusalemme (lettere a un parroco di montagna)

Sono un vecchio lettore de «Il nostro tempo” e non voglio metterti in difficoltà..., sento un insopprimibile imbarazzo e un disagio profondo nel vedere come è stata portata avanti dai nostri vescovi la questione dei Dico. Senza entrare nel merito ho percepito una Chiesa che alza la voce e assume i toni del mondo più che del Regno... (un lettore di Torino)

Risponde don Paolo Curtaz: Mi ero ripromesso di non parlare dei Dico neppure sotto tortura. Da una parte so che la questione merita molta più attenzione e serietà di quanto io non sia in grado di esprimere, dall’altra non posso far finta di non avvertire un disagio interiore per la modalità con cui la contrapposizione laici/credenti è stata portata avanti in questi mesi. Infine l’ennesima lettera, la tua, amico di Torino, e una notte insonne mi hanno spinto controvoglia a mettere su carta alcune considerazioni che non hanno nessuna pretesa, se non quella di raccontare meglio la complessità della situazione. La Cei si è espressa in maniera piuttosto decisa sull’inopportunità di varare una legge che ampliasse I diritti delle coppie dl fatto, dicendo, credo giustamente, che basterebbe aggiungere un articolo o due all’attuale Codice Civile. Dalla parte più laicista della società (minoranza molto attiva, ci dicono i sociologi) la Chiesa è stata accusata di ingerenza e si è minacciato addirittura la revisione del Concordato (e del conseguente ripensamento dell’8 x 1OOO). Credo che ogni cittadino italiano, addirittura i vescovi, possano esprimere pubblicamente una loro opinione, anche se ciò non garba ad una parte politica che ha un approccio piuttosto aggressivo nel concepire la laicità dello Stato. Tra i credenti, credo che nessuno abbia nulla da ridire sulla sostanza della questione, cioè sui cosiddetti “valori insindacabii” del cristianesimo: la tutela della vita, dalla nascita alla morte, la famiglia basata sulla coppia eterosessuale. Personalmente mi sarebbe piaciuto aggiungere, a scanso di equivoci, i valori insindacabili emersi all’indomani dell’assemblea ecclesiale di Loreto: la tutela del più deboli, il rinnegamento della guerra; non esistono valori cristiani di destra o di sinistra, esiste solo una vita nuova che scaturisce dal Vangelo, proposta a chi diventa discepolo del Signore e che vuole essere una proposta di profonda e radicale umanità. Non sul contenuto ho avvertito un disagio, ma sul metodo. Credo, cioè, che ci sia il rischio di mettersi sullo stesso piano di chi si oppone alla visione cristiana della realtà, mostrando i muscoli e alzando la voce come se dovessimo difendere un qualunque altro interesse legittimo, come hanno fatto i tassisti e i farmacisti. Gli amici più critici mi accusano dl ingenuità (vero) e del rischio di vedere una prospettiva sociale cristiana naufragare ad opera di qualche lobby aggressiva che ha in odio tutto ciò che puzza di ditale. Può darsi e non so dare una risposta sensata a questa obiezione. Vorrei, però, che non si dimenticasse che il Vangelo ha una forza di innovazione nella società insita in se stesso che non va sottovalutata. Gesù non ha chiesto a Tiberio di fare o non fare determinate leggi, ma ha rovesciato l’Impero romano parlando dell’amore. Se dobbiamo ricorrere alle pressioni per non far passare delle leggi che ci sembrano contro l’etica cristiana significa che, forse, tutto questo cattolicesimo italiano non ha cambiato molto il cuore delle persone. Una

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seconda perplessità, più generale, è scaturita dalla sensazione di una gestione di un organismo prezioso come è la Cei, da parte del cardinal Ruini, in cui è prevalsa una profetica voglia di innovazione e di dirigenza a scapito, temo, della collegialità. L’impostazione verticistica ha senz’altro avuto dei meriti e dei risultati, ma ora, dal mio punto di vista, occorre urgentemente recuperare la bellezza della diversità delle opinioni; in gioco c’è una visione della Chiesa che è, sì, organizzata in ministeri, ma che sa anche valorizzare le diverse opinioni. A questo proposito, ed è la mia terza riflessione, sono rimasto a dir poco costernato dall’assordante silenzio che ha caratterizzato il dibattito dentro la Chiesa. Silenzio che non ho interpretato come adesione bulgara alle scelte di metodo, ma piuttosto come una fatica a trovare luoghi e spazi per esprimere opinioni diverse che arricchiscano la riflessione e aiutino i nostri vescovi ad operare in sintonia con le proprie comunità. Forse le dolorose fratture degli anni Settanta hanno scoraggiato tutti dal sedersi intorno ad un tavolo a riflettere. Quest’assenza mi preoccupa, convinto che il confronto, svolto all’interno della logica evangelica, non possa che fare del bene, come coraggiosamente hanno saputo fare gli stessi apostoli nel Concilio di Gerusalemme (in Atti 15). Sapendo sempre distinguere le cose ultime, il Regno di Dio, da quelle penultime e terzultime, auspico che la Chiesa italiana, specialmente i laici cristiani (dove sono finiti?) riprendano in mano la fatica del pensiero cristiano nel confronto col mondo. Stai sereno, amico lettore e continua a credere e a lavorare affinché «la Chiesa sia testimonianza viva di verità, di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo» (Messale Romano, Preghiera eucaristica V).

TOSCANA OGGI (settim. cattolico della Toscana) di domenica 6 maggio 2007 Pag 1 La riscossa del cristiano normale, alla faccia di monti e di circoli di Umberto Folena

Io cerco di essere un cristiano. Ci provo. Dovrebbe bastare: il nome «cristiano» è una bell’impresa portarselo in spalla così com’è, senza la zavorra di aggettivi supplementari. Eppure pare che non basti. Prendiamo Fausto Bertinotti. Le cronache solerti ci hanno ragguagliato sul suo week-end sul Monte Athos, lui comunista libertario nella repubblica monastica guidata da un abate eletto a vita, proibita al genere femminile, con i vespri cantati e la preghiera mattutina alle 5,45. Che succede? Bertinotti, ci ammoniscono, è un uomo in ricerca; come se i cristiani lisci, invece, avessero già trovato tutto quello che c’è da trovare e la verità fosse qualcosa che si acchiappa una volta per sempre e si conserva nel taschino. E Giuliano Ferrara? Rispondendo a un lettore, sul Foglio, scrive: «Noi pensatori giudaici e cristiani». E l’altro «ateo devoto», Marcello Pera? Domenica scorsa, nell’articolo (titolo: «Per l’Europa il vero nemico è la Chiesa») che segnava il suo ritorno sulla prima pagina della Stampa, scriveva: «L’odio contro la Chiesa e le sue gerarchie (...) e l’apostasia del cristianesimo è ciò su cui oggi si basa la Chiesa». Abbastanza apocalittico per un ateo, sia pure devoto. Teocon di qua, teodem di là. Ma non basta. Nel centrosinistra sessanta politici cristiani firmano un robusto richiamo alla «laicità», cosicché chi credeva di essere laico cristiano è costretto a ripensarci e, solo perché dà retta al Papa e ai vescovi, a scoprirsi l’etichetta «clericale» cortesemente appiccicata addosso: grazie di cuore. Da quelle parti c’è Romano Prodi che un dì neanche troppo lontano si definì «cristiano adulto», evidentemente per distinguersi da quelli che per lui non lo erano: saranno stati «infanti», «adolescenti», «bacucchi». Grazie bis, ne sentivamo il bisogno. Ci domandiamo: ma i cristiani normali, quelli a cui non viene in mente di diramare comunicati anche perché nessuno se li filerebbe, quelli che non avvertono la missione storica di impartire lezioni di autentica cristianità agli altri, questi cristiani miti tra cui ci iscriviamo volentieri, che devono pensare? A una cosa sola: a essere buoni cristiani e basta, sull’Athos come in parrocchia, in Parlamento come a casa nostra, nei circoli intellettuali (bolognesi e non) come nei nostri mille piccoli gruppi. Umili, ma anche orgogliosi di essere cristiani normali. E poi magari la storia la facciamo noi più di loro.

SETTIMANA (settim. di attualità pastorale) di domenica 29 aprile 2007 Pag 2 Liturgia di ieri o liturgia per il domani? (lettera di Alberto Dal Maso)

Cara Settimana, la tribù dei liturgisti è in grave apprensione. Si fanno sempre più insistenti le voci relative a un indulto pontificio che ripristinerebbe la possibilità di utilizzare liberamente il Messale tridentino di Pio 14 quale rito universale seppure “straordinario “. Secondo indiscrezioni di stampa il motu proprio parrebbe ormai di

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imminente pubblicazione. Lo spettro che si materializza di fronte agli occhi dei più attenti osservatori è quello di un’esautorazione de facto del Messale riformato di Paolo VI e di una relativizzazione dell’intera riforma liturgica voluta dall’ultimo concilio e delle più nobili istanze del Movimento liturgico, faticosamente maturate e in quella riforma recepite. Tali istanze, peraltro, verrebbero soffocate nella culla, perché sono ancora per molti versi in attesa di una piena assimilazione nella concreta prassi cultuale, complice una storica carenza nell’iniziazione liturgica (di clero e laici). È lecito, infine, temere, tra le ulteriori conseguenze “a cascata” sul medio-lungo periodo, che una tale “apertura” a ritroso scivolerebbe poi fatalmente verso una delegittimazione strisciante del Vaticano II in quanto tale — spirito e lettera —, in nome di una pretesa continuità ab-soluta con l’immutabile tradizione che precede. E sarebbe dunque l’avvio della definitiva “normalizzazione”.1. Una moneta fuori corso? Utilizzare due Messali così radicalmente diversi per teologia, linguaggio e forma sarebbe come esibire, in quanto chiesa, una doppia “carta d’identità”. La prima, scaduta, era stata convenientemente aggiornata (e la nuova fototessera adesso non la si può più sconfessare); ma, per tutta risposta, si vuol riesumare la vecchia matrice, atta a reduplicare dei tratti somatici irrealistici, quasi degni di una maschera. L’ambiguità porrebbe gravi problemi di spessore ecclesiologico, prima ancora che determinare esiti rovinosi sul piano pastorale.A dire il vero, la riforma liturgica del Vaticano II non ha mai avuto vita facile. Anche negli ultimi anni, in un triste crescendo, ha incrociato non pochi ostacoli sul proprio cammino. Non ci riferiamo all’ottusa resistenza al cambiamento attestata da vocianti gruppuscoli di dissidenti e nostalgici. Quanto piuttosto alle prese di posizione a livello ufficiale. C’è un ‘indubbia ostilità che, malcelata in alcuni interventi polemici, denotanti sospetto e risentimento, da parte di singole personalità curiali, si è talora palesemente tradotta nelle insostenibili restrizioni dettate da nuove disposizioni attuative (si pensi soltanto a Liturgiam authenticam, sulla traduzione e l’adattamento dei libri liturgici). Le sgradevoli farraginosità esibite dalle procedure di recognitio, sperimentate sulla propria pelle dalle Conferenze episcopali nazionali, stanno a testimoniare, più che le inefficienze della burocrazia vaticana, uno strisciante clima di sospetto e un ‘esagerata necessità di controllo ossessivo-compulsiva. Proprio per questo il percorso di riforma e i processi di rinnovamento, ancora tutti in divenire, gravidi di promesse, avrebbero estremo bisogno di ricevere ossigeno anziché di essere bloccati nel loro slancio.2. Lavorare per il domani! In liturgia e in pastorale i terreni di lavoro sono innumerevoli e, man mano che se ne dissoda una parte, altri fronti di intervento si mostrano nella loro urgente necessità. Proviamo in estrema sintesi a esemplificare, anche sulla scorta del recentissimo libro di Keith Pecklers, Liturgia. C’è innanzitutto una teologia della liturgia e dei sacramenti ancora ingessata negli schemi del passato, incapace di parlare all’uomo d’oggi facendosi carico di presupposti antropologici “aggiornati”. Eppure, è la storia di venti secoli di culto cristiano che dimostra quanto l’istanza pastorale (il propter nos homines) sia stata l’anima del dinamismo incessante delle forme rituali. C’è poi tutta l’ampia area “problematica” della veritas signi: l’esigente linguaggio dei simboli — rete preziosa di delicatissimi equilibri — non tollera stilizzazioni di comodo, ambiguità di basso profilo e, men che meno, talune palesi contraddizioni fra il dire e il fare. Altrimenti non si dà esperienza del mistero (mistagogia). E, ancora, c’è l’ambito dell’ars celebrandi: se “dire messa” è un ‘arte, si richiede allora prima di tutto la sapienza di chi utilizza un libro liturgico non più nella logica del ritus servandus, ma nello spirito della complessiva performance celebrativa che dà vita al testo scritto. Con la complicità di ritmi, toni, pause ben dosati, le parole pronunciate si incarnano nel gesto compiuto dì fronte alla concreta assemblea riunita per la lode. Dunque, non è più questione di perizia del singolo prete, né tantomeno di sdoganare l’uso delle chitarre in chiesa piuttosto che imporre il ritorno alla polifonia o al gregoriana. È il sapersi esprimere nel linguaggio simbolico come comunità assembleare, è il gioco di squadra nel passare dal testo al gesto, è l’affiatamento tra l’orchestra sinfonica e il suo direttore. Si scopre allora che resta ancora da affrontare tutto il capitolo del ruolo del laicato e dei ministeri non ordinati, oltre che della sempre più grave carenza di sacerdoti (soprattutto per le liturgie domenicali). Allarghiamo l’orizzonte. La liturgia soffre i ritardi e le omissioni nella delicata problematica delle relazioni, ad extra, con il mondo delle altre confessioni cristiane (ne va dei requisiti per l’intercomunione, ma anche dei progressi in un effettivo cammino ecumenico radicato nella prassi) e, se si vuole, anche delle altre religioni. E, ad intra, delle relazioni con le diverse realtà dei fedeli che, sentendosi estranei a una liturgia clericale, verbosa e fredda, riversano ogni energia nelle devozioni meno “dotte” e nelle

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forme partecipate della religiosità popolare. Ma allora salta agli occhi il vastissimo settore dei rapporti fra culto e cultura. E si sollevano pesanti interrogativi su quanto finora si è fatto o trascurato in termini di inculturazione della fede e dei riti — anche in Italia, non solo nelle lontane terre di missione... Torna a fare problema, inevitabilmente, la capacità del nostro pregare comunitario di incidere sulla vita e stilla realtà. una fede relegata alle sacrestie — una celebrazione «rubricalmente corretta», dice Pecklers —non può essere autentica. Di più: un ‘eucaristia asettica e astratta non rende culto al Dio di Gesù Cristo, perché solo il vero culto razionale, di cui parla Paolo (Rm 12,1; cf Gv 4,23s.), incarna nella storia la memoria sovversiva della passione del Signore ed è in grado di sprigionare una forza di liberazione e di speranza pasquale per l’uomo e la donna dei nostri giorni.

Pag 5 I preti italiani del nuovo millennio di Mauro PizzighiniPiù che i compiti del prete, oggi è messa in discussione la sua identità. Da uno sguardo sulla sua vita quotidiana e sul ministero l’urgenza di leggere il prete come uomo di relazioni

Ciò che è in discussione non sono soltanto i compiti del prete, le sue azioni ma, più intrinsecamente e molto più profondamente l’identità che attraverso questi compiti si vede istituita e confermata». Questa è una delle conclusioni a cui è giunta l’analisi di don Luca Bressan nel suo articolo pubblicato su La Scuola Cattolica sui “Preti del nuovo millennio”.l In questa riflessione, il teologo milanese descrive e riflette su alcuni dati di una recente inchiesta italiana sui preti e sui seminaristi,2 i cui risultati sono stati consegnati ai vescovi italiani nel corso delle loro due ultime Assemblee generali. Da questa indagine risulta che «la figura del parroco rimane dominante nel costruire l’identità del prete diocesano italiano attuale»: infatti, in Italia, il 74% di chi ha un solo incarico è parroco; il 50% di coloro che si dichiarano parroci vive solo quel ministero, senza altri uffici. Questo dato dimostra che, attualmente, alla metà dei parroci italiani è chiesto di conciliare. questo impegno ministeriale con altri incarichi (con tutte le difficoltà del caso, soprattutto nel coordinare tempi, momenti di recupero, possibilità di aggiornamento, salvaguardia dei ritmi della propria vita personale...). Inoltre, al “ruolo” del parroco si accede. in modo diverso: al Centro e al Sud più del 40% dei presbiteri è diventato parroco entro i 35 anni di età; al Nord meno deI 30%.Identità e vita del prete oggi - La figura del parroco esercita questo suo carattere “dominante” anche sul modo di immaginare la conclusione della vita ministeriale: la maggior parte dei preti si immagina di concludere la propria vita vedendo ridotto l’impegno pastorale diretto, ma senza abbandonare questo contesto. Viene ovvio concludere che «la figura del parroco sia un forte punto di identificazione, ovvero una figura istituzionale in grado di sorreggere anche da sola le singole identità personali, coprendone debolezze, fatiche e fragilità: la figura del parroco funziona come fonte di identificazione capace di dare un ruolo e una “consistenza” all’identità del singolo prete, anche in assenza di altre relazioni che la sostengano». Ci troviamo di fronte così ad un “carisma di funzione” utilizzato come fonte di legittimazione e come punto di appoggio della propria identità personale: in concreto, «ai rischi di solitudine e alle fatiche nella costruzione di reti di relazioni significative (dentro le quali condividere la propria fede), si reagisce sviluppando un’identità fortemente ancorata al ruolo che si è chiamati a rivestire». Per quanto riguarda la vita quotidiana del prete, in Italia è molto accentuato il fenomeno dei preti “soli” (quasi il 40%), anche se emerge, come fenomeno ancora minoritario, l’appello a forme di vita comune tra preti. Di fatto, le condizioni quotidiane di vita decidono molto dello stile del prete: il “dove” mangia e “con” chi mangia influenzano in concreto altri momenti della vita presbiterale e hanno ricadute sul suo concetto di presbiterio e sulla vicinanza più o meno percepita nei confronti del vescovo. I preti dichiarano che, nel costruire le reti di relazioni affettive di sostegno, c’è poco spazio per la famiglia e per il vescovo. Un prete su tre si sente appoggiato e sostenuto dai propri parrocchiani, segno che la vicinanza fisica genera anche relazioni di condivisione e di sostegno. In ogni caso, quando si tratta di impostare i ritmi della vita personale, contano di meno i legami con i parrocchiani (dal 38 al 21%) e raddoppiano i legami tra preti amici (dal 19 al 38%). Per quanto riguarda il ministero, dall’inchiesta emerge che i preti e i seminaristi mostrano in modo chiaro i punti fondamentali della loro identità presbiterale: il compito del prete consiste nel mantenere un rapporto con la gente; egli è chiamato a gestire anzitutto la dimensione religiosa di questo popolo a lui affidato, anche con strumenti semplici.

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Il prete e il suo futuro - Per quanto riguarda il loro futuro, i preti sono sicuri (82%) che un’eventuale riduzione del loro ministero ad un ruolo solamente liturgico-sacrale sia un impoverimento da evitare. Inoltre, nell’immaginare lo spazio di collaborazione con i laici, emerge un dato “ambivalente”: esiste un riconoscimento del ruolo teorico della collaborazione e dell’ascolto (il valore del consiglio pastorale), ma poca valorizzazione nella pratica di forme di collaborazione, dal momento che si tende a condividere con i laici le attività cui si attribuisce minore importanza. I preti mostrano di vivere il presbiterio secondo “canali affettivi”: discutono e condividono decisioni pastorali con i preti loro amici più che con il presbiterio locale o diocesano. Un dato da valutare è il fatto che il vescovo sia visto in misura molto minore anche come fonte di sostegno del ministero (dal 60 si scende all’8%). Essi sono convinti che il modello di chiesa che li ha generati continui nel tempo senza grandi scossoni. Tre preti su quattro sono convinti che tra 30 anni ci saranno ancora le parrocchie come le conosciamo oggi, anche se diminuite di numero e che il loro compito in parrocchia sarà quello di sostenere e di accompagnare tutti indistintamente, non selezionando e non creando gruppi particolari. Due preti su tre dimostrano di avere della parrocchia un’idea territoriale e popolare, anche se un prete su quattro ritiene che occorra rivedere questa convinzione, limitando la definizione di parrocchia al gruppo di coloro che si identificano con la pratica cristiana (i cosiddetti “vicini”). I preti si mostrano più incerti nel valutare la tenuta del cattolicesimo “popolare” in riferimento alla gente: il 37% dei preti ritiene che tra 30 anni i bambini saranno battezzati per la maggior parte nei primi mesi di vita come oggi; il 38% sostiene che non ci sarà più questa figura di cristianesimo; il 25% si dichiara incerto. In ogni caso i preti dimostrano una buona dose di autostima: nove su dieci sono convinti che il loro ruolo sia ritenuto utile dalla gente e che la loro figura sia anche un “buon” strumento di richiamo e di comunicazione del volto di Dio agli altri. Per i più, la figura del prete non è comparabile con alcun altro lavoro o professione, anche se sono pessimisti quando si tratta di stimare il rispetto che la gente ha nei loro confronti: quasi la metà è convinta che questo rispetto sia diminuito negli ultimi decenni. Infine, i preti italiani si dicono soddisfatti (perfino anche un po’ orgogliosi) della scelta vocazionale fatta, pur se hanno conosciuto momenti di crisi (38%): essi sono convinti che la vocazione li ha fatti maturare (80%); non vivono in modo tragico la loro scelta, ma la vedono impegnativa e difficile come altre scelte di vita. Come la maggior parte dei cattolici praticanti, i preti si mostrano piuttosto contrari ai processi di modernizzazione economica, ma sono più disponibili ad accettare elementi di modernizzazione sociale: si manifestano più aperti verso gli immigrati e preferiscono che la crisi della giustizia sia affrontata in termini di miglioramento delle procedure e non di inasprimento delle pene. Di fronte all’opinione pubblica dominante, essi si distinguono per una molto minore “fiducia positivista” nei confronti della scienza, mentre sono convinti che il modello di famiglia tradizionale per i cattolici debba essere tutelato anche dalla legislazione pubblica.Questioni da affrontare - Il fondamento cristologico del ministero e dell’identità del prete è un dato tradizionale molto diffuso tra il clero ed è in grado di mostrare molti dei suoi benefici: «uno stato di vita vissuto come vocazione, senza risparmio e senza calcoli, inteso come una forma di spiritualità; l’attaccamento del prete alla sua gente; una dedizione che non viene misurata su ritmi professionali, ma è legata all’affetto con il quale ci si lega alla causa; l’obbedienza come principale vincolo che ci lega a Cristo e alla chiesa». Questa immagine “tradizionale” del prete mostra però anche le sue fatiche e i suoi limiti: «La dimensione ecclesiale della figura presbiterale rimane eccessivamente in ombra (il prete si interpreta sempre come un “io” e mai come un “noi”, legato a quel corpo che è il presbiterio e dentro la chiesa locale); il fondamento della propria figura sul solo vincolo dell’obbedienza genera figure direttive e poco comunionali, creando eccessive dipendenze e attaccamenti; fatica ad emergere l’immagine di una chiesa che è, tutta insieme, soggetto della sua azione e del suo futuro; si corre il rischio di una fossilizzazione della pastorale in azioni che hanno il loro senso più nel peso della tradizione che le difende che non piuttosto nella loro capacità di svolgere nel presente quel compito e raggiungere quell’obiettivo per il quale erano state pensate». Da questa analisi si avverte l’urgenza di parlare di “conversione pastorale” da applicare e da declinare anche nei confronti della figura del prete. In questa situazione si intravedono. alcuni traguardi verso i quali indirizzare l’evoluzione dell’identità presbiterale, a partire soprattutto dal suo ministero: «un ministero condiviso, esercitato dentro il contesto del presbiterio; un ministero che sostiene il singolo prete, introducendolo (e mantenendolo poi) in un cammino di maturazione umana e in una dinamica di fede che lo prepara a diventare testimone di quel Cristo che è chiamato ad annunciare; un ministero che

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esalta la dimensione relazionale della figura del prete, giocata e orientata verso tre polarità costitutive (spirituale, ecclesiologica, antropologica)». Il vescovo di Piacenza, Luciano Monari, nella relazione all’Assemblea generale della Cei del maggio 2006, aveva proposto la categoria della “relazione’ come concetto a partire dal quale strutturare l’identità del prete, reinterpretando la categoria di cura animarum, intesa nella sua intenzione originaria di istituire “relazioni” attraverso le quali rendere presente Cristo, la sua Parola e la sua salvezza. Anche il Vaticano Il aveva insegnato a non considerare più la figura del prete in modo “isolato”, ma ad immaginarla dentro la chiesa e per il mondo. La chiesa italiana in questi quarant’anni dalla Presbyterorum ordinis non è stata capace fino in fondo di radicare la riflessione sull’identità presbiterale, basandola sulla dimensione ministeriale, e ha mantenuto, invece, come punto di partenza e come attenzione specifica, la persona dei ministri e la loro vita piuttosto che il loro ministero.

Pag 8 Scelta religiosa e mediazione culturale di Giordano FrosiniUna riflessione sui termini del dibattito in corso fra Chiesa e società ma anche all’interno della stessa compagine ecclesiale

Non importa spendere molte parole per dimostrare che l’attuale momento riveste una particolare importanza per la chiesa italiana. Problemi nuovi e recenti cambiamenti al vertice caricano di attese, sospensioni e speranze i nostri giorni. Un clima destinato a riaccendere e ad arroventare di nuovo anche vecchie polemiche che, per la verità, non si erano mai estinte per il semplice fatto che non erano state mai completamente risolte. Così il presente ci risospinge al passato, alla ricerca delle motivazioni di fondo della crisi che ci attanaglia e che riesce sempre più difficile nascondere. In questo contesto, non ha certamente tutti i torti chi, nella rievocazione del nostro passato, chiama in causa soprattutto il primo convegno delle chiese italiane, tenuto a Roma nell’autunno del 1976, e gli strascichi polemici che ne seguirono e che ebbero il loro momento culminante nel convegno di Loreto del 1985. Forse, in questi ultimi tempi, nessuna affermazione ha avuto tanta storia quanto quella che, in qualche modo, rappresenta il punto centrale e, se vogliamo, la tessera distintiva del convegno romano: «Il passaggio dalla fede alla prassi implica sempre una mediazione storico-culturale». Lo scontro fra la cultura della presenza e quella della mediazione che ne seguì ebbe momenti di altissima tensione negli anni 80 e, nonostante la riconciliazione solennemente celebrata a Rimini, è arrivata fino a noi. Anzi situazioni nuove, interne ed esterne alla chiesa, l’hanno caricata di ulteriori tensioni. Inutile negare, come si fa da qualche parte, che questa polemica abbia invaso anche lo stesso campo della gerarchia; perlomeno, si sono chiaramente diversificate nei due sensi le interpretazioni sulle indicazioni da essa provenienti. Basta per questo scorrere anche sommariamente le nostre pubblicazioni. Quelli che presero parte al convegno di Loreto ebbero una conoscenza diretta, e anche sofferta, della situazione in cui si trovava allora la chiesa italiana. Ne era coinvolto anche Giovanni Paolo Il che, nel suo intervento ai convegnisti, sembrava spostare di non poco l’asse del rapporto chiesa-mondo fino allora seguito anche perché ufficialmente indicato dagli stessi interventi del nostro episcopato. Ma forse più di lui ne furono convinti i fautori della cultura della presenza, che per la verità non si erano mai rassegnati alle conclusioni del convegno romano, anzi l’avevano pubblicamente ostacolato. Si cominciò allora a parlare di una corrente montiniana, a cui si stava contrapponendo una nuova mentalità, che alla chiesa chiedeva di divenire senza intermediari una vera e propria “forza sociale” capace di far sentire la sua diretta voce nelle questioni sociali, culturali e politiche che attraversavano allora e attraversano ancora oggi il nostro paese.Un duro attacco all’AC - Due interventi molto polemici. hanno richiamato di nuovo in causa l’Azione cattolica: il primo di Luigi Amicone, direttore del settimanale ciellino Tempi, pubblicato sul Foglio del 13 febbraio, e l’altro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, pubblicato sul Il Giornale del 20 febbraio. Attacchi molto duri tanto nei contenuti quanto nei modi, ai quali ha reagito con forza il presidente nazionale dell’AC Luigi Alici. Ce n’è per tutti. In particolare per i cattolico-democratici, i vescovi condiscendenti (cominciando naturalmente da Martini), lo stesso Paolo VI sotto il cui pontificato si sarebbe insinuato nella chiesa un «pensiero non cattolico», quando «un certo odore di zolfo (usò proprio queste parole Paolo VI “fumo di satana”) si andava diffondendo nei sacri palazzi e in quei grandi convegni che nel nome del Vaticano II e dell’aggiornamento e della promozione umana, scardinavano il pensiero cattolico». Sono parole di Amicone, a cui si aggiungono quelle degli altri due che, per dare man forte al loro compagno, riescono perfino a stravolgere il vero senso della scelta religiosa

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maturata ai tempi di Bachelet. Vista da un laico, dicono, questa famosa scelta «sembrerà magari la quintessenza dell’esperienza cattolica. In realtà, nei disegni di chi la concepì era la decisione di rinunciare al desiderio di costruire una società che fosse il più possibile conforme al diritto naturale e rivelato, una società permeata dagli insegnamenti della chiesa di Cristo. In altre parole, si decise che altro era la fede da praticare in forma privata o anche in associazioni, comunque private; e altro era l’impegno alla vita pubblica, dove essere cattolici contava tanto quanto non esserlo». Una scelta, si aggiunge, che l’AC pagò cara perché le sue iscrizioni passarono da tre milioni a seicentomila. “Il risultato fu una formazione sempre più intimistica e intellettuale che condusse i cattolici a pensare di poter fare ognuno per sé o per la propria parte politica: in sostanza non essere più chiesa. All’inizio, solo sul piano dell’azione; poi anche su quello della teologia e della dottrina». Non è tutto: i due scritti presentano anche altre sorprese. Certo che, a leggere queste frasi, si ha l’impressione di trovarsi di fronte non tanto a due interpretazioni possibili della stessa fede, due opzioni accettabili nell’ambito di un legittimo pluralismo, ma addirittura di fronte a due fedi, una delle quali è condannata senza possibilità di discussione e di difesa. Viene da domandarsi quanto questo modo di agire giovi alla vita della chiesa, alla sua concordia e alla sua pace, e come sia possibile che simili interventi (e più ancora la mentalità che vi è sottesa) vengano sopportati da chi di dovere. Almeno il primo degli autori che abbiamo ricordato è membro autorevole del movimento di Comunione e Liberazione, a cui forse, come da più parti si ripete da tempo, si è concessa eccessiva libertà non consentita dagli statuti alle altre associazioni ecclesiali, cominciando proprio dall’AC.La natura della “scelta religiosa” - Nella sua reazione ai due articoli citati, il presidente Alici parla di «un’interpretazione incredibile della scelta religiosa che ha caratterizzato l’Azione cattolica italiana nel suo rinnovamento postconciliare». «Tale scelta — si aggiunge — sarebbe stata un tradimento mascherato della fede e, in cambio di un intimismo ipocrita, avrebbe lasciato le mani libere per una politica di una spregiudicata doppiezza. Queste affermazioni, accompagnate da un linguaggio non proprio evangelico, che non esita ad apostrofare come “rinnegati” dei fratelli nella fede, ci feriscono profondamente e offendono il senso più elementare della verità storica sull’Azione cattolica e più ancora sulla chiesa italiana, che ha sempre autorevolmente autenticato e accompagnato il cammino dell’associazione». In realtà, la scelta religiosa aveva un significato ben preciso nel contesto storico in cui venne elaborata. Essa intanto si ispira ai principi del concilio Vaticano Il basati sulla natura essenzialmente religiosa della missione della chiesa: «La missione propria che Cristo ha affidato alla chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine infatti che le ha prefisso è di ordine religioso» (GS 42). Ciò non vuole affatto significare che la chiesa non deve interessarsi dei problemi storici di vario genere nei quali si imbatte nel corso della sua storia. Se ne deve interessare, se ne interessa, ma dal suo punto di vista, che è pastorale, morale, culturale, prepolitico (come si è soliti dire con una parola non proprio felice). Anche se nessuno ha oggi il diritto di escluderla, dalla politica tecnica (partitica), essa si autoesclude con le sue stesse mani. Come movimento ecclesiale, l’Azione cattolica segue le sorti della chiesa. E come lei dovrebbero fare (e non sempre fanno) i movimenti e le associazioni di carattere ecclesiale. Il documento della Cei Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti e associazioni parla chiaro a questo proposito. Nel nostro contesto storico, la scelta religiosa era il rifiuto della vecchia concezione del collateralismo di tipo partitico che, in qualche modo, aveva accompagnato il cammino ecclesiale dall’ultimo dopoguerra. Una scelta, se vogliamo, di libertà, che permette alla chiesa di recuperare in pienezza la possibilità di indirizzare i suoi interventi di orientamento e di critica a tutti nella stessa maniera. Per padre Sorge «la “scelta religiosa” bene intesa è condizione essenziale per poter svolgere più liberamente ed efficacemente la missione propria della chiesa. Essa fa della comunità cristiana il luogo privilegiato d’incontro, di unità e di comunione tra fratelli in Cristo, intorno alla parola di Dio, all’eucaristia e al vescovo, al di là delle legittime differenze di sensibilità culturale e di opzioni politiche diverse». Niente di più lontano dalle adirate parole che prima abbiamo ascoltato.La mediazione culturale - Se si vuole rimanere sul tema, la contesa dovrebbe essere limitata al problema della cosiddetta “mediazione”. Che non se ne accettino il principio e le applicazioni è certamente possibile e, se vogliamo, anche rispettabile. Soltanto che si dovrebbe insieme dire quali sono le conseguenze che ne derivano. Chi ne ha parlato, ha misurato bene le sue affermazioni e ha rinunciato provvisoriamente, certamente con sacrificio, alla pienezza di quei principi che pure costituiscono l’ossatura fondamentale delle sue convinzioni e della sua vita. Si tratta certamente di un’operazione rischiosa e

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difficile, che però l’attuale situazione rende non solo utile, ma anche necessaria. E la legge che salva la possibilità di una convivenza pacifica nelle società del pluralismo e, andando fino in fondo, il prezzo da pagare per un’attiva presenza del cristiano nel campo politico. Sono tre i concetti che contribuiscono a definirla: due forse senza discussione, il terzo invece oggetto di dura contesa. “Mediare” significa esprimere in linguaggio antropologico, umano, razionale i principi che il credente afferma in virtù della sua fede (è lo statuto della laicità, ormai consueto negli stessi documenti del magistero); significa anche fare i conti con la realtà in cui il principio dev’essere calato (si pensi, per es., alla scelta dei poveri: chi sono nel nostro caso i più bisognosi e, soprattutto, quali sono le cause che ne stanno alla base?); in ultimo, mediare significa prendere atto delle concrete possibilità culturali e politiche concesse dalla situazione, con l’intenzione di ottenere tutto il possibile e di impegnarsi, di conseguenza, nella società alfine di farla maturare di modo che domani sia possibile ottenere più di quanto si può ottenere oggi. Intanto, rimane chiaro a tutti che non si rinuncia al principio e che semplicemente si attendono tempi migliori, da prepararsi peraltro nella pazienza e nel sacrificio. Il metodo della pazienza, anziché dell’imposizione; della maturazione del consenso, anziché della forzatura; dell’azione pedagogica, anziché della rottura; il metodo del dialogo, anziché del monologo solipsistico e inefficace. Il card. Martini ha saputo dire tutto questo con espressioni felici e misurate nel discorso d’addio alla diocesi di Milano, al termine del suo lungo servizio pastorale: «La possibilità di vedere, nella città, il volto amico del potere dovrebbe contribuire a promuovere una politica custode di quell’amicizia che in sede civile prende il nome di concordia e che si prende cura non solo di realizzare il programma stabilito con i propri amici, ma del terreno comune che sussiste tra questi progetti e quelli dell’altro, del cosiddetto nemico Nessuna nostalgia per un trascorso, deleterio consociativismo, che era frutto di baratti di potere. Si pensa piuttosto a una proficua mediazione di valori, che ha da essere costante se si vuole che non si coltivi nella città il germe della astiosa rivincita o della conflittualità perenne». Un metodo che dalla città dovrebbe estendersi all’intera nazione. Eliminare «l’astiosa rivincita» e «la conflittualità perenne», non dovrebbe essere questo uno degli intenti fondamentali della presenza della chiesa all’interno delle società umane? Certe modalità di intervento in questi ultimi tempi non hanno per caso aggravato il rapporto del mondo cattolico con coloro che a questo mondo non appartengono o non appartengono più? Non c’è stata una sovraesposizione della chiesa (meglio: di una parte di essa) che ha messo in disparte il metodo del dialogo e del confronto, illudendosi che così la causa cattolica avrebbe trovato maggiori successi? Forse, anche edotti dagli ultimi avvenimenti che abbiamo vissuto, sarebbe il caso di rimettersi a ragionare in vista di un discernimento comunitario, di cui si è molto parlato, ma che non ha trovato ancora le vie per una sua possibile attuazione. La chiesa ha oggi bisogno della collegialità più di qualsiasi altra cosa. E’ stato anche detto che la parola “corresponsabilità”, fino a poco tempo fa perfino impronunciabile, è diventata il motivo di fondo di tutti gli interventi al recente convegno di Verona, la parola d’ordine che riassume tutte le istanze e tutte le aspirazioni emerse in quell’assise. Purtroppo, le delusioni continuano ad accumularsi sulle nostre teste e nelle nostre file. Il popolo di Dio è oggi sufficientemente maturo per passare dai propositi tante volte manifestati alla loro applicazione. Si tratta di un vero e proprio soggetto attivo, non di un oggetto destinato soltanto a essere riempito. Il giusto richiamo al fatto che esso comprende anche la gerarchia, non giustifica affatto, specialmente in certi campi, la condizione di passività della parte numericamente più cospicua della sua composizione.I limiti di ogni azione umana - «Il rischio della mediazione è il prezzo da pagare per rendere quei valori realmente partecipi della costruzione della storia umana. Chi vuole preservare puri i valori, semplicemente li relega al di fuori della storia, in un mondo delle Idee bello quanto impossibile» (Pizzolato L.F. -Pizzolato F., Invito alla politica, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 170). Parole ispirate certamente anche dalla riflessione teorica, ma soprattutto dall’esperienza di cui siamo costantemente testimoni. Sono aggiornamenti portati al pensiero di G. Lazzati dai suoi seguaci e ammiratori. Pensieri che partono da molto lontano e che il grande E. Mounier aveva già elaborato all’interno della sua teoria dell’impegno (engagement). Il polo politico e il polo profetico sono i punti di riferimento dell’azione umana in quanto tale. Due condizioni da non dissociarsi mai, le strade obbligate per l’uomo d’azione. «L’uomo d’azione completo è colui che porta in sé questa duplice polarità, e si destreggia fra un polo e l’altro, lottando, volta a volta, per assicurare l’autonomia e controllare la forza di ciascuno, e per trovare delle vie di comunicazione fra l’uno e l’altro. Invece, per lo più, il temperamento politico, che vive

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d’espedienti e di compromessi, e il temperamento profetico, che vive di meditazioni e di audacia, non coesistono nel medesimo uomo. È indispensabile, per agire di concerto, che esistano entrambi questi tipi d’uomo e che siano articolati reciprocamente: in caso contrario il profeta, lasciato a se stesso, si volge all’imprecazione inutile, e il tattico si perde nel suo manovrare» (E. Mounier, Il personalismo, Garzanti, Milano 1952, p. 106). Da queste premesse derivano le conclusioni, che il pensatore francese delinea da par suo: «Una filosofia per la quale esistano valori assoluti è tentata di attendere, per agire, cause perfette e mezzi irreprensibili: tanto vale rinunciare all’azione. L’assoluto non è di questo mondo; noi infatti non ci impegniamo che in lotte discutibili intorno a cause imperfette: rifiutare per questo l’impegno vorrebbe dire rifiutare la condizione umana. Si aspira alla purezza: ma troppo spesso si chiama purezza l’ostentazione dell’idea generale, del principio astratto, della situazione ideale, dei buoni sentimenti, come la interpreta il gusto intemperante delle maiuscole: proprio il contrario d’un eroicismo personale» (ivi). Parole alte, non tanto però da impedire al lettore di capire a fondo le intenzioni che le hanno ispirate. Se non sono proprio un’affermazione di mediazione, come la intendiamo oggi noi, sono certamente le premesse e i presupposti in cui questa può maturare e trovare la sua ultima giustificazione. In particolare, l’insufficienza e l’incapacità della politica nella soluzione dei problemi umani ha trovato molti interpreti ai nostri giorni, specialmente nel mondo cristiano. L’anelito profetico è destinato a fare i conti con le resistenze della realtà opaca, racchiusa come in un bozzolo nella sua pesantezza e grevità. Il desiderio è sempre oltre le realizzazioni del presente, l’intenzione sempre al di là della realtà. Aldo Moro, una delle menti più lucide dei politici cristiani di ogni tempo, parlava del «principio del non appagamento» e in esso ravvisava la specificità dell’impegno cristiano in politica: «Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino» (Al di là della politica e altri scritti, Studium, Roma 1982). È la riserva escatologica declinata in campo politico. Nonostante tutto, il Regno rimarrà sempre in prospettiva. Pensieri che predispongono alla mediazione e ne attutiscono la sofferenza in chi è obbligato a realizzarla. Teorico severissimo della laicità, Moro ha anche indicato l’artefice principale della mediazione politica: il laico. Per lui, «l’autonomia dalla chiesa è la nostra assunzione di responsabilità». Dalla mediazione, che è operazione complessa e difficile, specialmente nei casi in cui sono direttamente coinvolti problemi morali, non va esclusa la chiesa nel suo complesso né la gerarchia di essa, ma al laico, c’è da credere, spetta la decisione ultima, anche secondo le indicazioni del concilio: «Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti al tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la loro responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (GS 43). Queste, del resto, erano state le raccomandazioni sorte intorno al primo convegno delle chiese italiane. Si ricordano in particolare le affermazioni del suo indimenticato animatore, mons. E. Bartoletti.L’ultima questione – E’ stato soprattutto papa Benedetto XVI ad elaborare la dottrina dei cosiddetti “principi non negoziabili”. Fra di essi, nel discorso pronunciato il 30 marzo 2006 davanti ai parlamentari del Partito popolare europeo, venivano particolarmente indicati la tutela della vita, il riconoscimento della struttura naturale della famiglia, la tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli. Vita, famiglia, educazione: come la loro non negoziabilità sia compatibile con la mediazione è il problema di questi giorni. Non negoziabilità significa anche non mediabilità? oppure, si deve ancora distinguere fra il principio considerato in se stesso e le sue applicazioni nella concretezza della storia? Che senso ha per un politico di ispirazione cristiana l’assunzione o l’imposizione di principi non negoziabili, dal momento che la politica è per definizione l’arte e la pratica del compromesso e della negoziazione? Se non andiamo errati, sotto queste domande si ripropone oggi l’antica questione della presenza o della mediazione, dalla quale siamo partiti. La necessità di ulteriori precisazioni permette però già da oggi di lasciare aperta la possibilità di superare l’antica impasse. Così almeno si pensa da più parti. Così ne Il posto dei cattolici di L. Bobba (Einaudi 2007) si legge: «I cattolici che fanno politica sono chiamati sia a riaffermare i valori non negoziabili che a cercare le mediazioni possibili, sempre però testimoniando il primato della verità e dell’etica sullo stesso sistema democratico. Questa cultura della mediazione è esattamente agli antipodi di una politica manichea. E trova riferimenti espliciti e vincolanti nei valori della Carta costituzionale» (p. 73s.). Una luce maggiore forse la offre la recente esortazione post-sinodale

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Sacramentum caritatis, dove al n. 83 Benedetto XVI sembra distinguere fra il compito dei vescovi, «tenuti a richiamare costantemente» i valori non negoziabili, e quello dei politici e legislatori che «devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate» agli stessi valori. Due diverse indicazioni e due diverse finalità: richiamare e ispirarsi. La testimonianza del politico cristiano è chiamata a declinarsi nella concretezza della realtà. Il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, ha affermato in una recente intervista: «Noi abbiamo il dovere di scegliere quello che è il bene massimo per la comunità concretamente possibile da raggiungere. E agire di conseguenza». Forse, pensare diversamente significherebbe rinunciare più o meno completamente a fare politica.

IL POPOLO (settim. dioces. di Concordia - Pordenone) di domenica 29 aprile 2007 Pag 5 La messa per il defunto finisce davanti al giudice di Antonio LazzaroParroco citato per danni per aver spostato la celebrazione

Può un defunto subire un danno perché una messa in suo suffragio è stata celebrata in un orario diverso da quello indicato ai familiari? Quale rapporto sorge fra il sacerdote e le persone che richiedono la celebrazione di una messa per un defunto? Lo spostamento di orario può costituire motivo di risarcimento del danno? Se la sentenza della Corte di Cassazione del 2 marzo 2007, n. 744912007 non fosse vera, i lettori, sarebbero autorizzati a credere che Il Popolo sia diventato un periodico umoristico. Ma purtroppo è vera e dimostra, ancora una volta, come sia impossibile ottenere che in Italia che la Corte Suprèma non venga chiamata a pronunciarsi in materie così lontane dal diritto. I fatti. Due parrocchiani, componenti di una stessa famiglia, si rivolgono al parroco della Parrocchia di San Pietro Apostolo di Verona e richiedono la celebrazione di una messa in suffragio del loro genitore, concordando con il parroco l’ora della messa. Al Parroco viene fatta un’offerta di dieci euro (dagli atti non è chiaro se con Iva o senza Iva, se con fattura o in nero). Il diavolo però non gradisce che tutto si svolga regolarmente e i parrocchiani, ritenendo che il parroco non abbia celebrato la messa, lo citano davanti al giudice di pace per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale che loro assumevano di aver subito. Il giudice di pace, dopo attenta istruttoria, dispone che il parroco restituisca ai fedeli la somma di dieci euro, mentre afferma che i due richiedenti non avevano subito alcun danno, compensando le spese del giudizio, il cui ammontare non viene specificato. I due fedeli non ritengono di dover accettare una giustizia così salomonica (mentre, trattandosi di questioni di fede è forse quella che più si adatterebbe al caso!) e presentano appello davanti al tribunale di Verona. Il tribunale. il tribunale accerta che il parroco non era stato inadempiente: aveva solo spostato l’orario della messa, celebrandola alle ore 8,30 invece che alle 18,30. Il tribunale afferma anche che il parroco aveva offerto la restituzione dell’offerta dei dieci euro e che i figli non avevano subito alcun danno patrimoniale o morale. Spingendosi oltre nella motivazione, il tribunale afferma che anche il defunto non ha subito alcun danno dallo spostamento dell’orario della messa. In verità, il giudice di secondo grado non spiega come sia giunto a tale affermazione. Probabilmente avrà ritenuto, così come credevano anche le nostre sante nonne, che una messa in suffragio sia sempre efficace indipendentemente dall’orario, dalla presenza dei richiedenti e dalla loro fede. A questo punto, ottenuti in restituzione i dieci euro e giuridicamente sicuri dell’efficacia della messa per il defunto, come affermato dal tribunale degli uomini, la causa avrebbe potuto trovare la sua definizione. Ma così non è stato ed i due fedeli, molto determinati anche nello spendere i propri soldi per gli avvocati decidono di ricorrere in Cassazione, producendo documenti e memorie illustrative. Ricorso in Cassazione. I parrocchiani assumono che il contratto non è stato stipulato fra il parroco e il defunto, ma che, con la richiesta di una messa e con l’offerta di dieci euro sono essi i veri contraenti. Sostanzialmente si tratterebbe di un contratto a favore di un terzo (ma non sappiamo né se il terzo - cioè il defunto - abbia gradito di essere destinatario di questo contratto né se il Giudice Supremo abbia avuto intenzione di darvi adempimento, perché essi non sono stati rappresentati nella causa né da un curatore speciale né da un procuratore e non hanno potuto quindi esprimere il proprio parere). La Suprema Corte (degli uomini) pone fine alla vertenza ed enuncia il seguente principio giuridico che i nostri parroci farebbero bene a ricordare: è di palmare evidenza che l’impossibilità contingente di assistere a una determinata messa di suffragio in una determinata ora, per affermato inadempimento contrattuale del sacerdote che avrebbe dovuto officiarla, non lede un diritto fondamentale della persona né incide sul diritto di ognuno a praticare i riti della propria religione, in quanto si

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appalesa affatto estranea alla libertà di culto. La quale, in quanto attiene alla possibilità di praticare liberamente i riti della propria religione, non è stata in nulla conculcata dalla omessa o anticipata celebrazione di una determinata messa di suffragio da parte del sacerdote di quella medesima religione (il cui culto si assume dal medesimo impedito). Sulle spese del processo la Cassazione non si pronuncia. Ergo. Dalla vicenda credo che possa trarsi un’utile linea guida per i parroci per non incorrere in controversie con i fedeli: accertarsi che la volontà dal defunto sia stata espressa con il testamento (art. 629 codice civile, disposizioni in favore dell’anima), celebrare le messe di suffragio alle sei del mattino o rinunciare all’obolo la cui accettazione sembra far sorgere un vero e proprio contratto o farlo destinare ad opere di carità. In ogni caso assicurarsi che Lui sia d’accordo.

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4 – MARCIANUM / ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI, ISTITUTI E GRUPPI

LA NUOVAPag 24 Messa e triangolare di calcetto al Cavanis di s.b.

Sarà il Patriarca emerito, cardinale Marco Cè, a officiare questa mattina la cerimonia religiosa che si svolgerà all’Istituto Cavanis dell’Accademia. Una messa che vuole essere anche espressione di ringraziamento per i 75 anni di vita religiosa di padre Angelo Guariento e per i 60 anni di sacerdozio di padre Giuseppe Colombara, figure storiche dell’istituto religioso veneziano che ha circa 500 studenti nei diversi gradi. Gli alunni della scuola media disputeranno in mattinata anche un torneo triangolare di calcetto a partire dalle 8. Alle 10.30 nella chiesa di Santa Agnese sarà invece celebrata la messa officiata dal Patriarca emerito, con animazione dei canti affidata al coro dei Pueri Cantores Cavanis e alla formazione delle Choristes, diretti dalla maestra Paola Talamini. A mezzogiorno sarà la volta della premiazione dei partecipanti ai due tornei di calcio, essendone stato disputato uno anche mercoledì scorso. La comunità dei padri Cavanis e i docenti di tutti e tre gli ordini di scuola, incontreranno subito dopo il patriarca emerito. A concludere le manifestazioni del «maggio Cavanis», sabato 19 si terrà nella chiesa di Sant’Agnese la prima rassegna di coralità infantile. Un appuntamento previsto a partire dalle 17.

IL MESTRE di martedì 8 maggio 2007 Pag 33 Apre la scuola per badanti, si insegna l'integrazione di Alberto FacchinettiStranieri: l'iniziativa delle Acli per chi si prende cura degli anziani

Una schiera di badanti. In tutta la provincia sono circa trentamila le persone che lavorano, regolari oppure in nero, nelle famiglie veneziane, occupandosi di malati o anziani non autosufficienti. Quasi la totalità è di sesso femminile e la maggior parte arriva dall’Europa dell’est: Moldavia, Ucraina e Romania le nazioni dalle quali queste donne provengono più frequentemente. «Negli ultimi anni – dice Alessandro Sabiucciu, assessore provinciale al Lavoro - c’è stato un aumento esponenziale del numero di badanti, dovuto soprattutto alla Bossi-Fini che in pratica è stata un enorme processo di sanatoria. Negli ultimi mesi però questo dato si è stabilizzato ». Le badanti arrivate sin qui si trovano molto spesso sì con un lavoro, ma purtroppo senza un vero e proprio punto di riferimento. E così le Acli della provincia di Venezia hanno messo in piedi un progetto per dare loro un aiuto. Comincia oggi infatti il secondo modulo formativo del corso per immigrati iniziato l’11 aprile scorso. Undici nel complesso le iscrizioni: cinque uomini e sei donne, delle quali due provenienti dalla Moldavia e una dalla Romania. «Le donne dell’est che arrivano in Italia per fare il lavoro di assistenti ad anziani e malati – spiega il Presidente Provinciale Acli Cristian Rosteghin - quasi sempre non conoscono la nostra lingua. E non sanno nulla, nonostante spesso siano molto istruite, dei diritti e doveri di un cittadino in Italia. È un tipo di formazione che in fabbrica viene fatto dal sindacato, ma che queste donne non hanno la possibilità di ricevere trovandosi spesso a lavorare sole in casa». «Anche le famiglie – aggiunge Rosteghin – che danno un lavoro alle badanti hanno, secondo me, convenienza a farle partecipare a questi corsi». Il corso prevede nel complesso due moduli formativi di quaranta ore ciascuno. Il primo è quello linguistico con lezioni di grammatica, sintassi, lessico e conversazione. Ha avuto inizio l’11 aprile scorso e sta proseguendo con successo. Il secondo, quello che partirà oggi, è invece

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dedicato all’orientamento al lavoro e alla cultura generale: si toccheranno i temi della legislazione sull’immigrazione e del sistema previdenziale. «Perché la conoscenza – afferma Silvia Cavallin, responsabile per l’immigrazione delle Acli di Venezia – può consentire di superare barriere ed ostacoli più di qualsiasi altra cosa».

SETTIMANA (settim. di attualità pastorale) di domenica 29 aprile 2007 Pag 4 Dedicato all’evoluzionismo il “dies academicus” dello Studium Generale Marcianum di B. Scapin

E’ toccato al presidente dello Studium Generale Marcianum, mons. Gianni Bernardi, aprire il dies academicus 2007. Lo ha fatto fornendo innanzitutto le generalità del polo pedagogico-accademico del patriarcato di Venezia. Lo Studium Generale — ha ricordato — «raccoglie al suo interno diverse istituzioni, che vanno dalla scuola dell’infanzia alla ricerca post-grado, passando per la formazione superiore e universitaria... intende essere soggetto unitario di trasmissione ed elaborazione dei saperi, cercando di superare l’odierna frantumazione..., un centro aperto a tutti e attento alle grandi questioni dell’uomo del nostro tempo». Il Marcianum è attualmente costituito da cinque organismi: l’Istituto superiore di scienze religiose San Lorenzo Giustiniani, l’Istituto di diritto canonico San Pio X, la Fondazione Giovanni Paolo I, l’Opera Studium cattolico veneziano e il Centro internazionale di studi e ricerche Oasis. Tra le attività promosse direttamente dallo Studium Generale, mons. Bernardi ha ricordato la prima edizione del Master d’eccellenza in etica e gestione d’azienda, promosso in collaborazione con la Bocconi di Milano. La seconda edizione, in progettazione, avrà una particolare attenzione alle dinamiche degli enti pubblici e della cooperazione internazionale. In collaborazione con la Fondazione di Venezia è stato inoltre promosso il Progetto triennale di formazione e ricerca uomo-polis-economia che si propone la formazione di un nucleo di giovani ricercatori e docenti i quali sviluppino una scuola di pensiero attraverso il metodo interdisciplinare.L’intervento del patriarca Scola - Il breve intervento del card. Scola, patriarca di Venezia e Gran cancelliere dello Studium Generale Marcianum, ha preso avvio da un’affermazione del filosofo tedesco Lessing circa il ricercare e il possedere la verità. Alternativa piena di fascino, ha sottolineato il cardinale, ma, soprattutto se radicalizzata, sì annida in essa «un rischio mortale per la ragione». Infatti — ha proseguito il porporato — «optare per una indefinita ricerca della verità, anche in nome dell’umile riconoscimento dei limiti dell’umana ragione, conduce all’orgogliosa affermazione del proprio cammino come verità assoluta», fino «ad enfatizzare la tensione stessa». Come uscire da questa impasse? Evitando «la secca alternativa proposta dal pensatore illuminista», dal momento che «non c’è opposizione tra l’umile “possesso” della verità e la sua instancabile ricerca». Lo Studium Generale Marcianum, forte della convinzione che «il reale è intelligibile e il soggetto può ospitarlo», insiste sull’unità del soggetto (personale e comunitario) quale carattere distintivo di ogni istituzione che si dedichi alla ricerca, alla comunicazione e all’apprendimento dei saperi.La relazione del card. Schönborn - L’interrogativo se la nascita dell’universo sia da attribuire a un destino “cieco” o ad un progetto saggissimo e buono”, è stato affrontato nell’ampia relazione dell’arcivescovo di Vienna, card. Christoph Schönborn, dedicata al tema dell’evoluzionismo. A chi tocca rispondere a quell’interrogativo: alla scienza o alla religione? Se la scienza giungesse alla conclusione che tutto si può spiegare come risultato di un gioco cieco di caso e necessità, la fede sarebbe un atto “irragionevole”, un credo quia absurdum. Ma «una fede che si basi su un fondamento assurdo — ammonisce il porporato — non sarebbe una fede, ma soltanto un’illusione». Può esistere “una dimostrazione cosmologica dell’esistenza di Dio”? Non ci sono nella natura dei segni che facciano pensare a un “disegno intelligente”? Leggere le tracce di Dio nel creato, è cosa che compete alla scienza? Molti antichi scienziati ne erano convinti, dal momento che «Dio parla nel linguaggio del suo creato e il nostro spirito, che è anch’esso sua creazione, riesce a percepirlo, ad ascoltarlo, a comprenderlo». La teoria dell’evoluzione oggi diffusa afferma, invece, che ogni mutazione e selezione è nata da «un gioco privo di orientamento». Inoltre, man mano che vengono colmate le lacune del sapere, il posto di Dio sembra sempre più rimpicciolirsi, fino a fare del Creatore un’ipotesi superflua. Darwin, padre della “teoria dell’evoluzione”, era sicuro di poter dimostrare che l’origine delle specie potesse fare a meno dell’atto creativo di Dio e che a tutto si potesse dare una spiegazione “intramondana”. Purtroppo, nel suo argomentare, si sovrappongono in maniera deleteria la scienza e l’ideologia, tanto - che Schönborn propone di «separare

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Darwin dal darwinismo». Parlando esplicitamente del rapporto fra evoluzione e creazione, secondo il cardinale, «è una caricatura ridurre tutto a un conflitto fra evoluzionisti e creazionisti», dal momento che la posizione “creazionista” si basa su un’interpretazione della Bibbia «che la chiesa cattolica non condivide», perché «la prima pagina della Bibbia non è un trattato cosmologico sull’origine del mondo in sei giornate». Per cui «la possibilità che il Creatore si serva anche degli strumenti dell’evoluzione, è accettabile per la fede cattolica». Torniamo alla domanda se il mondo è guidato da un “disegno”, oppure no. Darwin dichiara di «non riconoscere alcun tipo di disegno nei dettagli della sua ricerca sulla natura». Gli risponde Martin Rhonheimer, docente di etica e di filosofia politica presso la Pontificia università Santa Croce: «La natura si comporta secondo un fine (come se agisse secondo un progetto e in modo intelligente); ma, poiché. nella natura stessa non si possono individuare cause intelligenti e agenti a livello intenzionale, tale causa intelligente deve risiedere al di fuori della natura». Schönborn afferma che, aver affrontato la realtà nella sua dimensione quantificabile, numerabile e misurabile, ha reso possibili gli enormi successi delle scienze della natura, ma ritiene altamente problematico dichiarare come semplicemente non esistente ciò che è stato escluso da quella analisi, «a cominciare dalla ragione e dal libero arbitrio che rendono possibile tale scelta». Senza dimenticare un corollario di capitale importanza: ammettere l’esistenza di un Creatore, significa ammettere «anche un dovere, un ordinamento etico». Il porporato si pone, quindi, un ulteriore interrogativo. Perché l’evoluzionismo, con il suo materialismo ideologico, è divenuto ormai una sorta di surrogato della religione, nonostante le obiezioni avanzate: le forme intermedie mancanti fra le specie; la mai dimostrata evoluzione da un’unica specie ad un’altra; l’impossibilità che un sistema vivente, mediante innumerevoli mutazioni di minima entità, possa essere trasformato in un altro sistema? Perché, nonostante queste difficoltà, l’evoluzione è ancora affermata come teoria scientifica? «Perché — risponde — finora non ne esiste un’altra migliore e perché, come teoria scientifica, è semplice e attraente». Il guaio è che essa viene caricata di ideologia e di dottrina materialista. C’è un altro argomento che il darwinismo tenta di fare plausibilmente suo: come si fa — si chiede —ad aver fede in un Creatore buono e nel suo “progetto intelligente” del cosmo, quando il cosmo stesso presenta una serie infinita di distruzioni, di catastrofi e di crudeltà? Non è più semplice prendere atto di tutto questo, dicendo: è così e basta? Il cardinale esorta a non entrare nel dibattito sul “disegno intelligente” con atteggiamento apologetico, perché sul dolore abbiamo soltanto la risposta di Dio nel suo Figlio diventato cittadino del mondo. «Il Logos, attraverso il quale e nel quale tutto è creato, è divenuto carne e con essa ha assunto l’intera storia dell’universo, la sua evoluzione, con i suoi lati grandiosi e orribili. Ha assunto su di sé l’intera negatività del dolore, della distruzione e soprattutto del male morale.., il Logos della croce è l’ultima saggezza divina». E la croce, oltre ad aver riconciliato il mondo, è la porta della risurrezione. Schönborn chiude il suo intervento con una pertinente citazione dell’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato nella veglia pasquale del 2006: «La risurrezione di Cristo — ha detto il pontefice —, se possiamo usare per una volta il linguaggio della teoria dell’evoluzione, è la più grande “mutazione”, il salto assolutamente più decisivo verso una dimensione totalmente nuova che mai si sia avuta nella lunga storia della vita e dei suoi sviluppi.., un salto di qualità nella storia dell’ “evoluzione ... verso una nuova vita futura». «Se la risurrezione di Cristo — commenta l’arcivescovo di Vienna — è “la più grande mutazione”..., allora possiamo dire: questo è il traguardo dell’evoluzione».

LA CITTADELLA (settim. diocesano di Mantova) di venerdì 20 aprile 2007 Pag 14 Il Dio della fede e il Dio dei filosofi di Federico AdinolfiIl giovane Ratzinger su uno dei temi cruciali della modernità in un libro di Marcianum Press

No, qui non si tratta del tanto atteso libro di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret. Ciò di cui ci si occupa è una pubblicazione più modesta, che, avendo la sfortuna di uscire proprio in concomitanza al grande best-seller, rischia di passare ingiustamente inosservata. Si tratta di un’inedita prolusione che nel 1959 tenne all’Università di Bonn l’allora giovane professore Joseph Ratzinger sul tema “Il Dio della fede e il Dio dei filosofi”. Un argomento che, oggi come allora, rappresenta uno dei nodi cruciali per la teologia e per l’identità stessa del cristianesimo nel contesto del mondo moderno: quale rapporto tra fede e ragione, tra Dio dei credenti e Dio dei filosofi? Ecco che immediatamente il pensiero va a quel “Fuoco. Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e degli

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scienziati” che il grande Blaise Pascal teneva cucito dentro la fodera della propria giacca. La contraddizione vissuta da Pascal — nel suo caso come reazione di rigetto al dio cartesiano quale mero “garante” dell’oggettività scientifica - sarebbe esplosa definitivamente un secolo e mezzo più tardi, quando, in seguito alla demolizione kantiana della metafisica scolastica, la religione sarebbe venuta confinandosi in un ambito del tutto extra-razionale, sentimentale e intimistico, mentre alla ragione sarebbe stato negato ogni accesso a Dio. Di fronte a questo fossato tra fede e ragione spalancato dalla modernità, il pensiero teologico ha reagito procedendo lungo due principali direzioni. Una è quella tipicamente cattolica, la quale, proseguendo lungo la linea della tradizione classica e del pensiero di Tommaso d’Aquino, si propone come negazione del conflitto: il Dio della fede è anche il Dio dei filosofi. La filosofia in quanto religio naturalis rappresenta la Suprema possibilità dello spirito umano, trascesa unicamente dalla rivelazione cristiana, la quale eleva e perfeziona la ragione arricchendola di quelle verità che essa non avrebbe mai potuto trovare da sola. In alternativa al paradigma “cattolico” si pone invece quello che potremmo definire “protestante”, il quale assume in pieno il conflitto fede-ragione aperto dalla modernità e lo saluta come possibilità di recupero dell‘autentica dimensione evangelica della fede.LA FILOSOFIA COME TRADIMENTO DEL VANGELO? Ratzinger esemplifica tale posizione attraverso il teologo protestante Emil Brunner. Secondo questi, il processo di inculturazione della fede cristiana attraverso le categorie filosofiche ellenistiche, quale è stato portato avanti dagli apologisti e dai padri della Chiesa, ha rappresentato un profondo e catastrofico tradimento nei confronti della fede biblica. Il Dio della Bibbia è infatti un Dio che ha un nome, un Dio che chiama e nel fare ciò si rende a sua volta interpellabile. Ma la filosofia non può accettare il nome, la parola che si fa evento: tali categorie sono troppo legate all’ambito del particolare, e in ciò rasentano l’antropomorfismo, sicché bisogna andare oltre, verso ciò che essendo più universale, più si addice a Dio: il concetto. Ecco allora che il tradimento si rende eclatante nel caso della traduzione del nome che Dio rivela in Esodo 3,14: “Io sono colui che sono” viene ora reso come “Io sono colui che è”. Da un nome che vuole rendere interpellabile Dio mantenendolo nel suo mistero, si passa a una definizione concettuale con cui si pretende di comprendere e possedere l’essenza divina. Con ciò, i Padri e gli Scolastici, secondo Brunner, hanno rinnegato la rivelazione biblica in favore dell’auto-sufficienza della ragione. E qui – scrive Ratzinger – la questione diventa quella circa l’essenza del cristianesimo, circa la legittimità della sintesi tra pensiero greco e pensiero biblico che dà forma al cristianesimo”. Tuttavia, se Brunner ha ragione a sottolineare la natura dialogica della rivelazione, la sua visione del processo d’inculturazione filosofica del cristianesimo non è del tutto corretta.UNA CONVERGENZA MISSIONARIA - Ratzinger osserva infatti come già all’interno dell’Antico Testamento, in particolare nel periodo post-esilico, la confessione monoteistica di fede in Dio andasse confluendo verso quell’Assoluto che è il Dio dei filosofi. In maniera sempre più evidente si cerca di mostrare che il Dio di Israele non è una divinità nazionale come le altre, bensì il Dio Unico e trascendente di fronte al quale tutte le nazioni con i loro dèi non sono nulla. Il “Dio del cielo” di cui si parla nei libri di Esdra e Daniele, e, dal punto di vista della storia delle religioni, proprio la denominazione di quel Dio-Assoluto che tanto si avvicina a quello dei filosofi. Soprattutto è da notare che “l‘elemento filosofico nel concetto biblico di Dio è cresciuto a mano a mano che questo si trovò costretto a dichiarare la propria peculiarità di fronte al mondo delle nazioni in un linguaggio che fosse comprensibile al di fuori del proprio ambiente interno”. Il sodalizio tra fede e filosofia non è dunque qualcosa di accidentale ed estrinseco, bensì appartiene necessariamente alla religione nella misura in cui essa si pone come universale e missionaria. Evidentemente nel caso del giudaismo la spinta missionaria era molto ridotta. Al contrario i cristiani - convinti com’erano che la risurrezione di Cristo avesse inaugurato il tempo escatologico in cui Dio offriva la salvezza anche alle Genti - si trovarono di fronte all’esigenza di rendere comprensibile il loro annuncio in contesti estranei alla tradizione biblica. L’appropriamento della filosofia da parte degli apologeti cristiani non fu dunque altro che il necessario risvolto dell’annuncio missionario del Vangelo al mondo delle nazioni. E questo è qualcosa che vale oggi tanto quanto allora: infatti, “se è essenziale, per il messaggio cristiano, essere non una dottrina segreta esoterica per una cerchia di iniziati, ma il messaggio di Dio rivolto a tutti, allora è essenziale, per esso, anche il tradurlo verso l’esterno nel linguaggio comune della ragione umana”.

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LE DUE ALI DELLO SPIRITO UMANO - Il legame tra “Dio della fede e Dio dei filosofi” non è quindi un tradimento, né un impossibile “ferro di legno”, per dirla con Heidegger, bensì l’indispensabile sinergia delle “due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità” (Giovanni Paolo II, Fides et ratio). Dunque complementarità tra fede e ragione. Ma, a mio avviso, non solo e non tanto nel senso per cui la fede integra la ragione fornendo quei contenuti di verità che essa da sola non saprebbe trovare. La complementarità è piuttosto una questione di sguardi, di vie differenti d’accostarsi al mistero. Da un lato si guarda ai colori dell’ordine, del senso, dell’unità e della perfezione; dall’altro al volto dell’amore, che chiama e chiede d’essere seguito per sé stesso, prima e più a fondo di ogni ragione. Gli occhi della ragione mirano Dio nel suo essere sempre e ovunque, quelli della fede lo accolgono nel suo venire proprio qui, ora e per me. In quelli risplende l’infinita maestà di Colui che ha creato il mondo; in questi brilla l’umiltà di Colui che ha voluto esservi di casa fino a lasciarsi buttare fuori. La ragione parla la lingua dell’analogia entis: dalle perfezioni del creato alla perfezione del Creatore, in modo però che, quanto più essa coglie la somiglianza, tanto più è sopraffatta dall’infinita differenza del Dio “Totalmente Altro”. Nell’analogia fidei si ha invece l’inverso: pur senza negare la differenza, Dio è qui pienamente visibile proprio in ciò che da lui è apparentemente più lontano, nella realtà stessa del mondo, nella piccolezza e nell’ovvietà del quotidiano. Questa lingua dell’analogia fidei è quella che Gesù parlava nel suo dire il Padre e il Regno attraverso parabole (vedi ad es. la parabola del Padre misericordioso) e nel suo essere egli stesso “parabola di Dio” nella concretezza del proprio agire (il banchettare coi peccatori). Qui Dio non è più il silenzio che sta alla fine delle nostre più alte e tremanti parole, ma è proprio ciò che è più facile da raccontare: una perla preziosa per comprare la quale si vende ogni altra cosa, un grano di senape che cresce e diventa un grande arbusto ove gli uccelli possono nidificare, un padre che abbraccia il figlio ritornato e gli fa festa, un uomo che lascia tutte le sue pecore sui monti per cercare l’unica smarrita. Dio è come tutto questo, Dio è in tutto questo. Se per la ragione il mistero di Dio è qualcosa da cercare oltre l’orizzonte del mondo, la fede accoglie invece Dio come autentico “mistero del mondo”(Eberhard Jüngel), e il mondo come suo sacramentum. Entrambe le cose sono vere, entrambe le prospettive vitali e irrinunciabili, al loro posto e nel loro tempo: l’analogia entis e l’analogia fidei, il Dio dei filosofi e il Dio della fede.

Joseph Ratzinger, Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, Marcianum Press, euro 8,50

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO

LA REPUBBLICAPag 1 Le coppie assenti dal Family Day di Natalia Aspesi

La famiglia si autocelebra tra qualche giorno con il Family day, una festa che si annuncia immensa, con immensa partecipazione, immenso palcoscenico, immensi schermi, distribuzione di cappellini, ombrellini, magliette, e cantanti, e testimonianze e giochi per bambini e, secondo il sito ufficiale della manifestazione, almeno duemila posti riservati alle autorità plaudenti. Una bella grandiosa festa di maggio che si sarebbe annunciata altrettanto radiosa se si fosse chiamata, dato il suo scarso appeal internazionale, più semplicemente “giorno della famiglia”. Un giorno del resto costosissimo, tino a i milione di euro, che, fossero stati gli organizzatori meno pii, potevano essere spesi in aiuti a migliaia di famiglie moribonde nel Darfur. Se ne parla da così tanto tempo che come capita per ogni evento, problema o progetto (vedi, per esempio il famoso tesoretto, e lupus in fabula, i Dico), quotidianamente martellato, se ne è perso il filo, l’origine e lo scopo, anzi certe volte si pensa che sia già avvenuto. Ma più o meno, anche guardandone i manifesti briosi, con pupazzetti che rappresentano apparentemente un babbo maschio, una mamma femmina e un paio di piccini maschio e femmina, lo scopo del family day pare quello di ribadire il fatto che possono fregiarsi del titolo di famiglia odi family, con allegati gli scarsi vantaggi legislativi e sociali del ramo, soltanto un uomo e una donna regolarmente sposati (anche solo civilmente!), con figli, ma forse anche senza, non è chiaro. Se invece l’uomo e la donna, pur con dodici figli, non si sono sottoposti alle forche caudine delle nozze, essi non possono chiamarsi famiglia: e a maggior ragione due signore o due signori che hanno deciso di vivere insieme per loro

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ragioni addirittura sessualsentimentali, non potranno aspirare non solo al family day, ma neppure a un minimo riconoscimento civile, anche se disposti a rinunciare a chiamarsi famiglia e a inventarsi un nuovo termine che plachi le ansie ecclesiastiche. Il giorno della famiglia serve soprattutto a festeggiare e ribadire la curiosa teoria per cui la vecchia e malconcia istituzione verrebbe minacciata dalle cosiddette unioni di fatto; quindi, dalle fumose discussioni che da mesi dilagano tra impermaliti rappresentanti di opposte tendenze politico-religiose-sociali, si ricava l’idea che se a una coppia monosesso si concede di potersi visitare in ospedale, in Italia (ma non in altri paesi europei) la famiglia nata dal matrimonio va in pezzi, misteriosamente, un genitore di qua, uno di là e i bambini piangenti chissà dove. Ma in questi ultimi affannosi giorni che precedono l’evento epocale, si sono persi di vista sia la famiglia che la coppia di fatto, sotterrate dall’infuriare della battaglia politica: le penultime notizie danno scontri tra ministri che non vanno o vanno ai family day, scontri tra ministri che vanno o non vanno alla conferenza nazionale sulla famiglia, che ha invitato le associazioni di genitori con figli gay ma non le associazioni dei (figli?) gay, cosicché le prime si sono ritirate dalla conferenza stessa, sinceramente un casino che non fa bene né alla famiglia né alla coppia di fatto, ammesso che interessino ancora a qualcuno. Quando la politica e l’ideologia si impossessano della famiglia e anziché provvedere ad asili, aiuti agli anziani, case accessibili, sostegno alle madri lavoratrici (non ci sono i soldi!) si passa il tempo in accesi scontri astratti, non si tiene conto che la famiglia, qualsiasi famiglia, anche la più santa, è prima di tutto uno coppia. Senza coppia la famiglia non nasce e in questo sta la sua grande fragilità: infatti il primo vero pericolo per la famiglia non è esterno (o se tale, si tratta di ben altro che gli innocenti omoaccoppiati), ma interno: a tutti i livelli sociali, culturali, economici, ed e qui la grande fregatura di chi organizza conferenze nazionali o convegni (altro denaro buttato al vento!) dedicati allo spinoso tema: a) ci si accontenta di immaginare la famiglia come diseredata, bisognosa di aiuti finanziari, i cui problemi saranno risolti da un assegno; b) si immagina il nucleo familiare come composto da genitori e figli, e non da una coppia innamorata (magari all’inizio) che si è trovata forse impreparata, ad essere genitore. Ma bisogna chiedere agli psicologi, ai consulenti matrimoniali, agli avvocati matrimonialisti anche ai confessori e se non si è schizzinosi pure a chi tiene rubriche del cuore e riceve migliaia di lettere singhiozzanti da persone massimamente civili, quanto, e spiace dirlo a chi non se lo vuoi sentire dire, siano secondari i figli, quindi la famiglia, quando sorgono problemi di coppia. Quando si smette di capirsi sopportarsi amarsi, quando si ama un’altra persona, quando la donna si sottrae alla sottomissione o l’uomo alla responsabilità paterna, quando lui è troppo fragile e lei troppo autonoma, o lui troppo autoritario e lei troppo poco paziente quando ci si tradisce per caso o per passione, quando il letto (oggetto innominato dal family day come del resto la parola amore) diventa un arido deserto, quando è proprio l’arrivo dei figli a sconvolgere ogni equilibrio personale, quando si finisce a vivere insieme come in un inferno, e nessuno dei due sa come sia cominciato. Saranno responsabili di tutto questo dolore le coppie di fatto? Anche gli ideologi del giorno della famiglia, impegnati in una nuova prova di forza in attesa di altre, sanno benissimo che no. Le famiglie si rompono da sole, poi si ricompongono, la famiglia sembra morta e risorge sempre, sarà il centro delle nostre vite anche, anzi soprattutto senza i family day o analoghe iniziative. E intanto si suggerisce come massimo testimonial della storica giornata lo storico ventennale “Beautiful”, in cui tutto avviene all’interno di casa Forrester: tradimenti, incesti, figlie incinte del marito della madre ma anche madri incinte del marito della figlia, fratelli e fratellastri che sposano la stessa bella signora che sposa anche il loro babbo, ecc. Purché si salvi la famiglia.

IL FOGLIOPag 1 Famiglia a due piazzeA San Giovanni vogliono fare una festa, la prima manifestazione unitaria del laicato cattolico. Il “dies familiare”, la scommessa di cambiare la vecchia immagine sparagnigna e difensivista del mondo cattolico

Mille, forse duemila torpedoni pronti a partire. Alla fine, c’è da scommettere, spunterà persino qualcuno pronto a lamentarsi che il Dies Familiae inquina pure. Lo dissero già del Grande Giubileo, del resto. Ma al quartier generale del Forum delle famiglie, e in quelli sparsi in tutta Italia delle oltre trecento associazioni e movimenti che promuovono la gran giornata del 12 maggio a San Giovanni, si respira solo entusiasmo. E nessuna voglia di farsi condizionare dai tentativi di buttarla in polemica, dai “voodoo laici”, come dice

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qualcuno, scatenati dai promotori della contromanifestazione di piazza Navona nel tentativo di guastare la più grande festa mai organizzata in Italia dal laicato cattolico. Perché quella che ufficialmente si intitola “Più famiglia” sarà certamente una manifestazione per dire no ai Dico, lo ha ribadito ancora ieri Savino Pezzotta, ma intende essere soprattutto una festa delle famiglie italiane, coi bambini e i palloncini, i clown e trampolieri e le mongolfiere che volano. Con niente vip (che invece abbondano nelle adesioni alla manifestazione di piazza Navona), pochi slogan, le testimonianze e le “dip” sui maxischermi (otto sulla piazza, oltre al grande palco di trenta metri che già si inizia ad allestire) per dare voce alle famiglie: quelle vere, quelle “normali”. Perché a farsi vedere e sentire siano soprattutto loro, le famiglie, le grandi escluse censurate dall’individualismo laicista, le grandi ignorate dalle politiche (a)sociali. Niente slogan, ma qualche messaggio molto chiaro. A darli saranno gli unici tre interventi programmati, oltre ai brevi saluti di alcuni esponenti delle associazioni coinvolte: quello del presidente del Forum delle famiglie, Giovanni Giacobbe, e quelli dei due portavoce Eugenia Rocceila e Savino Pezzotta, alla cui voce di vecchio sindacalista sarà affidato il compito di chiedere alla politica sostanziosi interventi a favore della famiglia. L’organizzazione sta marciando per il meglio, il comune di Roma, dopo qualche tiramolla, ha assicurato che metterà a disposizione tutte le aree di parcheggio pullman della capitale, le Ferrovie hanno messo sui binari già sette treni speciali e confermano che il tasso delle prenotazioni è su livelli quasi ferragostani. Dalla Sicilia è in partenza anche un traghetto, organizzato dal Movimento cristiano lavoratori. La guerra dei numeri si è già scatenata. E già il fatto che l’organizzazione abbia dichiarato di mettere sul campo millecinquecento volontari per l’accoglienza, di aver predisposto diciotto punti informazione nei punti nevralgici della città (Termini, fermate della metropolitana), lascia intendere che il numero di centomila partecipanti che per il Forum segnerebbe il successo è solo scaramantico: c’è chi parla del doppio, anche del triplo. “Siamo Davide contro Golia”. Enrico Boselli continua a paragonare la manifestazioni del “Coraggio laico” a quella di San. Giovanni in Laterano, nel tentativo, ampiamente strumentale, di spostare la questione sul piano delle forze, della presunta e ingerente macchina da guerra manovrata dalla Cei e dal Vaticano. La questione, però, è profondamente differente. E’ una questione culturale. L’entusiasmo che si registra in queste ore tra i promotori del Dies Familiae non è legato ai numeri di una non necessaria prova di forza. Nasce piuttosto dalla consapevolezza che quella che si sta realizzando a Roma è la prima manifestazione in Italia di tutto il laicato cattolico, non un evento religioso o liturgico. Ma, propriamente una manifestazione del popolo cattolico. E ci assomiglierà anche, a una manifestazione di popolo. Per vari motivi, non riducibili soltanto ai palloncini, alle canzoni dei bambini “che fanno oohh” di Povia o agli scaldavivande e ai fasciatoi per cambiare i pannolini. Che pure ci saranno, come in una gigantesca scampagnata tra famiglie amiche. Resistenze nell’elettorato cristiano-democratico - Ci assomiglierà perché la scommessa del Dies Familiae sta riuscendo a travolgere quell’immagine vecchia e stantia, sparagnina e difensivista, del mondo cattolico. Insomma per una (una) Rosy Bindi che si arrovella su come marcare la propria adesione e non partecipazione, per qualche sparuta sacca di resistenza segnalata nell’elettorato cattolico-ulivista, c’è invece, per la prima volta, l’emersione del mondo cattolico vero, “profondo”, dice qualcuno, per una volta senza intenzione di offendere nessuno. Anzi un’esplosione, si può dire. Non sono solo i quindicimila annunciati della Coldiretti, o gli altrettanti delle Acli (evidentemente Pezzotta ha lavorato bene), non saranno le migliaia di aderenti dei movimenti “abituati” a riempire le piazze della Repubblica, come Comunione e liberazione che dagli esercizi spirituali della sua Fraternità a Rimini ha fatto sentire il suo forte endorsement. Questa sarà, forse soprattutto, la prima volta dei movimenti come i Neocatecumenali. O come il Rinnovamento nello Spirito, che quindici giorni fa ha riunito a Rimini quasi trentamila persone, e Pezzotta era tra gli ospiti d’onore, che hanno deciso di far sentire pubblicamente la loro voce su un tema cruciale per la chiesa. E poi ancora, dicono gli organizzatori, sarà il giorno delle parrocchie, dell’Italia cattolica non organizzata, non metropolitana. Quella che di solito non si conta, ma che ha deciso di farsi sentire.

Pag 3 Non è bizzarro celebrare un divorzio?Auguri ma radicali, libertini e laicisti per il 12 maggio. La Bindi e i gay

La lobby gay, e nella parola lobby spesso equivocata non c’è alcuna ironia, non deve risentirsi se il ministro per la Famiglia Rosy Bindi, che ha scritto una legge di loro

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gradimento, non considera “famiglia” le coppie omosessuali, e dunque non le invita alla conferenza nazionale che discute il tema. Non è questione di formalismo odi lettura meschina della Costituzione. A un convegno sui diritti civili e la tutela delle minoranze i rappresentanti politici e sociali dei gay devono obbligatoriamente esserci, chiaro, ma lì no. Forse, con sensibilità politica, la Bindi dovrebbe chiamare le associazioni gay a un confronto parallelo, aperto, in cui spiegare le sue idee, che ci sembrano non ben chiare, sul tema dell’allargamento del concetto di famiglia ad altre forme di convivenza, e ascoltare le loro con simpatia e, forse, dissenso. Ma la questione riguarda anche i celebranti del 12 maggio che si riuniranno a Piazza Navona (auguri). Per un dibattito pubblico leale, bisognerebbe che, così come fa la parte laica e cattolica in marcia verso il Dies Familiae, anche la parte laicista gettasse la maschera dei diritti e dicesse quel che davvero vuole. Diciamocelo schiettamente, celebrare un divorzio è un po’ ridicolo, mentre celebrare un matrimonio è normale. E’ vero che il 12 maggio è un anniversario fatale, vero che il divorzio loro lo considerano un diritto civile che ha liberato la società da una schiavitù confessionale, privando però il matrimonio di uno dei suoi significati e non il minore: la definitività, l’unicità, l’irripetibilità. In realtà celebrano la possibilità, come si dice con linguaggio un po’ triviale, di “rifarsi una vita”: un secondo matrimonio, magari un terzo e un quarto, con figli sparpagliati anche quando siano molto amati e teneramente accuditi nella retorica della famiglia allargata e seriale. Niente di moralistico, non si va in galera per debiti e nessuno può essere prigioniero dei propri giuramenti, e il libertinismo, che difenderemmo a costo della vita come comportamento personale, è ormai legge, e non costa niente (se non gli alimenti al coniuge più debole e forse qualche sofferenza inevitabile anche con la separazione sénza divorzio). Vabbè, celebrate pure il divorzio, ma con questa formula: vi sciolgo dal giuramento reciproco che vi siete fatti, e nella buona e nella cattiva sorte vi augurò di farne tanti altri ancora, di giuramenti. E’ l’etica moderna, bellezza, e non puoi farci niente.

AVVENIREPag 2 Ci battiamo per la famiglia, quella rinnovata nella modernità di Lucetta ScaraffiaCostituisce la massima acquisizione della civiltà

La famiglia che affermiamo con il Family day non è solo quella naturale, formata da una donna e un uomo che possono procreare, ma anche quella costruita storicamente, il laboratorio dove abbiamo sperimentato il problema fondamentale della modernità: cioè il conflitto fra diritti individuali e importanza dei legami sociali e affettivi per la vita umana e la società, fra desideri e necessità. Questa famiglia, infatti, ha salvato gli individui dalla cancellazione che le dittature del Novecento avevano provato a mettere in atto, costituendo una rete di protezione che ha funzionato - come racconta l'autrice del bellissimo romanzo Cigni selvatici - perfino nella rivoluzione culturale, atrocemente pervasiva, della Cina maoista. Dall'altra parte, la famiglia, con le sue leggi e i suoi legami, ha impedito finora che gli individui si riconoscessero solo in ciò che consumano e nell'immagine di sé che rimandano all'esterno. La famiglia è il luogo dove impariamo, fin da piccoli, a limitare le nostre esigenze e i nostri desideri di fronte ai desideri e ai bisogni degli altri, cioè a contenere la nostra onnipotenza in nome di legami affettivi, e a fare fronte alle dure esigenze della vita. Proprio per questo, nell'ultimo secolo, la famiglia è stata oggetto di un incessante lavoro di aggiornamento, prima sociale e culturale, poi legislativo. Così, per esempio, si è tolto al padre il potere nei confronti della moglie e dei figli, e in parte anche la responsabilità nei loro confronti, che oggi è condivisa con la moglie, come impone giustamente una società nella quale le donne hanno raggiunto l'eguaglianza con gli uomini. Diversi esperti - in primo luogo psicanalisti e psicologi - le offrono consulenze nei momenti di difficoltà, mentre il welfare, se pure non sempre efficiente, la solleva dalla cura dei malati gravi e dalla paura del futuro, garantito dalle pensioni. Tutto ciò, che è stato acquisito nella seconda metà del XX secolo, ha alleggerito la famiglia dai doveri più pesanti, e permesso che i rapporti familiari, liberi dalla necessità, si sviluppassero in senso affettivo e personale: ami di più tuo padre e sei più interessato a lui come persona se non sei costretto a lavorare per mantenerlo, e lo stesso succede con i figli che vanno alla scuola materna, o con i malati accuditi in ospedale. Ma questa nuova realtà, cioè tutto ciò che permette alla famiglia di essere liberata da molti pesi e la fa riscoprire come nucleo educativo e affettivo, ma soprattutto come scelta libera e non imposta, non sembra averne migliorato la sorte. Sembra quasi che, una volta liberi, troviamo meno interessante raccogliere la sfida di valorizzare

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quanto c'è di buono e di indispensabile nell'istituzione familiare per innestarlo nella libertà moderna. La scelta di fuggire dalla famiglia, scegliendo tipi di relazioni più "moderne" come le coppie di fatto, significa infatti abbandonare la sfida, e dimenticare con cecità e ingratitudine il nostro passato. Questo è il momento, invece, e il Family day lo afferma, di vivere appieno la famiglia rinnovata nella modernità, e di godere di quella che costituisce la massima acquisizione della società occidentale: essere individui liberi. Che sanno però difendere e valorizzare i legami sociali importanti, anche se - o proprio perché - questi non sono più imposti, ma costituiscono una scelta libera e consapevole.

CORRIERE DEL VENETOPag 6 Si separa, ora dorme in garage: “Dopo il matrimonio la miseria” di Alessia Pirolo e Francesca VisentinCosti, alimenti, casa: quando il fallimento “raddoppia”. Le coppie dall’avvocato, spunta l’accordo “post crisi”: dividiamo le spese, non la vita

Padova — Fino a ieri aveva un grande casa e una famiglia, oggi l'unico spazio riservatogli è quello di un garage: un posto- auto diventato la sua residenza dopo la separazione gli è stato lasciato solo questo. Una vita da sfollato a fianco di quella che era la sua abitazione (ad Agugliaro nel Vicentino) comprata con i risparmi degli anni di lavoro e con un mutuo acceso perché era lì che sperava di invecchiare. Daniele C., 49 anni, è stato rovinato dalla separazione, coperto da debiti e ingiunzioni del Tribunale perché non riesce a pagare gli alimenti. Col suo lavoro di camionista non ce la fa, quella che era una crisi familiare è diventato un dramma economico riducendolo a simbolo della nuova povertà. La sentenza di separazione emessa dal giudice Giuseppe Bozza il 26 ottobre 2005 addebita a suo carico un mantenimento di 400 euro per il figlio, di 300 per la moglie, 700 euro da pagare per il mutuo mensile della casa. Già 1.400 euro difficili da tirar fuori dai guadagni di un camionista, la cui cooperativa di trasporto negli ultimi tempi è in crisi. Ma la mazzata finale è la decisione che sia lui a pagare le spese di casa, tutte le bollette finiscono intestate a lui e iniziano a lievitare. Botte da centinaia di euro, fino ai 1.467 pretesi di telefono nel gennaio 2006: tra i numeri composti tanti che iniziano con 166, 899, chiamate che arrivano a costare 12 euro per pochi minuti. Tutto sul conto di Daniele C., che si tinge sempre più di rosso, finché l'uomo non ce la fa più, ridotto in miseria. Qualcosa il giudice ha lasciato pure a lui, « la porzione di edificio sul lato destro della casa, adibita alla sistemazione degli automezzi ». Un garage dove lui si riduce a vivere. « Io sono costretto ad abitare qui — spiega l'uomo — perché è solo questo che mi è stato assegnato. Le spese mensili superano i 2.000 euro e di quel che guadagno non mi rimane niente, continuo ad abbassare il conto in banca, cos'altro posso fare? ». La vita diventa impossibile, pensare di cercare un appartamento, con che soldi? Un uomo che di pretese non ne aveva tante, ma era riuscito a comprare la casa per la sua famiglia, ora si trova costretto a stare nel posto macchina, privo di tutto. Continua a lavorare, viaggia con il camion e per mangiare si arrangia, aiuto di amici, qualche panino. « Per farmi una doccia devo fare 70 chilometri, vado fino a casa di un'amica, se no c'è una canna dell'acqua esterna, uso quella ». Due figli, oggi entrambi maggiorenni, una vita normale, poi inizia la crisi con la moglie, come in tante famiglie. « Avevo comprato la casa nel 2000, anticipando 300 milioni di lire e facendo un mutuo — ricorda Daniele — Nel 2004 mia moglie ha iniziato a lavorare. Ed è lì che è cominciato tutto, non le avevo fatto mancare niente in 23 anni, ma lei ha iniziato a farsi una sua vita e mi ha trattato come uno straccio, mi ha rovinato ». Di fronte al giudice è stato accusato di essere assente, sempre in giro, normale nel lavoro da camionista. « Qualsiasi cosa lei ha chiesto l'ha ottenuta, io non ho avuto nulla » chiarisce l'uomo. Un piccolo successo è stato ottenuto in questi giorni dal suo nuovo legale, Fabio Targa: il giudice gli ha tolto dalle spalle almeno il mantenimento del figlio appena diventato maggiorenne che ha trovato un lavoro. Ma le spese di casa continuano comunque, sempre tutte sulle sue spalle. « Posso solo sperare che si risolva qualche problema legale, ma i tempi sono lunghi — conclude il camionista — Devo andare avanti così, non ho più nulla e non so più che cos'altro fare».

Venezia — Battaglie infinite, separazioni feroci, ex coniugi ridotti in miseria. In Veneto il bilancio delle nozze che si sfasciano lascia una lunga scia di « nuovi poveri »: signore bene costrette a rimboccarsi le maniche a cinquant'anni e a proporsi come colf per sopravvivere o dirigenti che si affannano anche in tripli lavori per fare fronte a spese raddoppiate. Un fallimento ogni due matrimoni nel Veneto, secondo il rapporto Eures 2006 « Finché vita non ci separi », colloca la regione al decimo posto in Italia per numero

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di separazioni e divorzi. E tra coniugi che si scannano e matrimoni a pezzi, la prospettiva per tanti «ex » diventa sempre più spesso la povertà. Tanto che il nuovo fenomeno veneto sono i contratti « post matrimoniali »: niente divorzio, ma un accordo reciproco sottoscritto davanti agli avvocati in cui marito e moglie che non sosterrebbero economicamente una rottura sancita dal tribunale, accettano di continuare a dividere le spese, ma non la vita di coppia. « Separazioni e divorzi impoveriscono sempre - fa notare Alessandra Moretti, avvocato matrimonialista di Vicenza - ho visto moltiplicarsi i casi di sposi che arrivano nel mio studio dicendo: " Con separazione o divorzio non ce la facciamo ad arrivare a fine mese, mettiamo nero su bianco un contratto per continuare a dividere le spese, ma non la comunione spirituale e affettiva". Così subentra l'accordo. Naturalmente è possibile solo se tra i due c'è un rapporto civile ». Il magistrato Sandro Merz della Corte di Appello di Venezia, specializzato in diritto di famiglia, ha analizzato 500 sentenze nel « Manuale dei rapporti patrimoniali nella separazione e nel divorzio ». Le conclusioni? « La soluzione per evitare battaglie infinite, liti violente, lunghe guerre legali e drammi è l'accordo prematrimoniale. Un patto in cui ogni eventualità viene decisa prima delle nozze. Come giudice della famiglia ho sperimentato la più atroce conflittualità tra ex coniugi - racconta - La legge attuale, che andrebbe modificata, favorisce i ricatti e spesso porta a innescare una serie di altre cause civili e denunce penali ». Elisabetta Alberti Casellati, padovana, matrimonialista da 32 anni, prima donna avvocato del triveneto ad occuparsi anche di annullamenti al tribunale ecclesiastico, rivela che già dal '94 aveva tentato di introdurre le convenzioni prematrimoniali. « Ma il nostro ordinamento esclude questo tipo di accordi - spiega -. Ho visto circa diecimila casi nella mia carriera, a volte sono vere tragedie. Qualche esempio? Ricordo una moglie cinquantenne abituata a lusso e agi che dopo la separazione si è trovata a sopravvivere chiedendo in pratica la carità ai figli ». L'avvocato Alessandra Moretti cita il caso di una signora vicentina dell'alta borghesia ridotta a scaricare pacchi per tirare avanti. Renea Nardari Rocchino, legale di Treviso, esperta in diritto di famiglia, è promotrice di una proposta di legge già arrivata in Commissione Giustizia: chiede che nei tribunali vengano istituite sezioni specializzate esclusiva mente nel diritto di famiglia. « E' l'unico modo per evitare che a causa della mancanza di magistrati si faccia carico delle cause di divorzio chi non ha una competenza specifica - fa notare l'avvocato Nardari - . Negli ultimi 5 anni i casi sono quadruplicati. Tante le storie estreme che ho incontrato: un camionista era disperato, è venuto da me dicendo che voleva spararsi. E c'è chi mi chiede: ma dove vado ad abitare? Sono completamente senza soldi… ». Marina Larice, avvocato matrimonialista di Treviso condivide la tesi dell'accordo prematrimoniale: « Sono assolutamente d'accordo - dice - eviterebbe i lunghi conflitti. Ma sta alla bravura del legale riuscire ad arrivare ad accordi consensuali ed evitare di fomentare lo scontro ». Nello studio dell'avvocato Larice passano almeno una ventina di coppie spezzate al mese. « Qualche storia? C'è l'ex moglie di un medico riuscito ad occultare i suoi guadagni e a non passarle praticamente nulla, che si è trovata a quarant'anni a cercare lavoro come colf. E un dirigente d'azienda con due figli, che oltre a pagare gli assegni di mantenimento, privato della casa ha dovuto saldarne pure il mutuo. Per sopravvivere ha cercato un secondo lavoro ».

IL GAZZETTINO DI VENEZIAPag III In milleduecento al Family Day di Roma di Alvise SperandioNon c’è unanimità nel mondo cattolico sulla partecipazione. Fabio Poles: non è una marcia contro i Dico. Perplesso il presidente dell’Ac diocesana Gastore Fusaro: “E’ un’esibizione”. Sospese in diocesi tutte le attività previste sabato

Si annuncia una partecipazione massiccia al Family Day in programma sabato pomeriggio (alle 15) a Roma in piazza San Giovanni. Sono circa 1200 tra veneziani e mestrini coloro che hanno risposto all'invito lanciato dal Forum della famiglia provinciale per prendere parte all'iniziativa per la quale è nato il manifesto "Più Famiglia" ed il motto "Ciò che è bene per la famiglia, è bene per il Paese". "Diciamo subito che sarà una grande manifestazione per qualcosa, non contro qualcosa o qualcuno" - spiega Fabio Poles, segretario generale dello "Studium generale marcianum", il polo pedagogico e culturale del nostro Patriarcato e direttore della Scuola diocesana di formazione all'impegno socio politico, che, con il presidente del Forum Maurizio Colangelo, sta definendo i dettagli organizzativi. "Occuperemo uno spazio pubblico per rimarcare l'urgenza delle politiche di sostegno alla famiglia, da intendersi secondo il dettato costituzionale di società naturale fondata sul matrimonio (art.29)". Cioè, un legame

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coniugale che si contraddistingue per tre elementi distintivi: la differenza sessuale, il dono totale di sé, l'apertura alla vita. "Anche la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 definisce la famiglia come un nucleo fondamentale della società e dello Stato - dice Poles - Una cellula senza la quale non è possibile costruire il futuro nostro e dei nostri figli e che dunque è necessario più che mai difendere, tutelare e promuovere. Se dal punto di vista privato nulla si può dire per quel che riguarda l'aspetto affettivo, pubblicamente, invece, va detto che non tutti i legami hanno lo stesso valore. E la famiglia intesa nel senso tradizionale del termine è il più importante". Nulla, comunque, contro i Dico - acronimo di diritti dei conviventi - di cui molto si sta dibattendo. "Questa manifestazione era stata convocata ancora prima che nell'opinione pubblica se ne parlasse. Piuttosto sabato saremo a Roma per testimoniare la bellezza e l'importanza del legame tra l'uomo e la donna indissolubile, fedele e fecondo. D'altronde quando ricorrono i tre elementi distintivi è lo Stato che chiede una pubblica assunzione di responsabilità dei coniugi con le pubblicazioni prima e la cerimonia pubblica poi, oltre al rispetto del dettato costituzionale e delle norme del codice civile. Lo stesso divorzio è un istituto giuridico che tenta di gestire al meglio la rottura del legame evitando danni per i figli". Poles respinge al mittente anche l'obiezione che sarà una manifestazione di parte. "Il tema è talmente fondante che non può che essere trasversale e in piazza infatti ci saranno politici d'entrambi gli schieramenti. Mi pare molto più importante sottolineare la grandissima mobilitazione dei laici che in queste settimane si sono dati da fare per dire che è necessario sostenere la famiglia". Alla giornata romana assieme ai fedeli sono liberi di partecipare i parroci mentre i vescovi che pure hanno espresso sostegno all'iniziativa non ci saranno: c'è da dire che la distinzione tra l'opportunità d'adesione dei primi e l'astensione certa dei secondi non convince proprio tutti tra i nostri sacerdoti. Da registrare anche la voce contraria del presidente dell'Azione cattolica diocesana Gastone Fusaro, che al settimanale Gente Veneta si è detto perplesso preferendo la testimonianza nel vissuto di ogni giorno all'esibizione di piazza. Interpellato, al nostro giornale non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

Sono dieci i pullman già prenotati: sette partiranno da Mestre dal parcheggio di Auchan alle 5 (il rientro è previsto in nottata), tre andranno in giro per la provincia a raccogliere gli aderenti. Ai 500 partecipanti se ne aggiungeranno altrettanti che andranno nella capitale in treno, auto, aereo. E' ancora possibile dare la propria iscrizione contattando il call center di via Querini 19 al numero 041.972234, dalle 17 alle 20. Il coordinamento logistico è stato affidato alla Scuola di formazione all'impegno sociale e politico del Patriarcato che ha schierato per l'occasione la propria segreteria. Il costo della trasferta è di 35 euro. Sono previsti anche moltissimi bambini, che viaggeranno gratis. Intanto, proprio per favorire la partecipazione alla giornata per la famiglia, la diocesi ha deciso di rinviare tutti gli appuntamenti in agenda per sabato. Salterà, così, il Consiglio pastorale diocesano, la manifestazione legata all'evento "Insieme per l'Europa" di Stoccarda, il dialogo dei giovani con il patriarca Scola previsto nel teatro tenda del parco San Giuliano, mentre la veglia della pastorale del lavoro è stata anticipata a oggi.

LA NUOVAPag 1 Famiglia, diritto naturale e cellula sociale di Gilberto Muraro

È difficile capire perché vari esponenti cattolici, tesi a difendere la famiglia contro i danni ad essa derivanti dall’eventuale riconoscimento delle unioni di fatto, abbiano invocato il diritto naturale. La famiglia come luogo privilegiato della riproduzione biologica è ovviamente un dato di natura. Ma il dibattito concerne la famiglia come istituzione e cellula sociale; e sotto tale profilo, la famiglia risulta certamente e interamente un prodotto della storia: mutevole quindi nello spazio e nel tempo, in continua evoluzione e sempre alla ricerca non già di un inesistente modello naturale bensì della forma più congrua in un dato contesto di valori e di bisogni. Cosa ha a che fare l’odierna famiglia italiana e più in generale occidentale, anche se nata da un matrimonio religioso e non solo civile, con quella esistente, ad esempio, un secolo e mezzo fa nel neonato regno d’Italia? La famiglia era allora l’unione diseguale tra una donna sottomessa e un uomo che era dominus rispetto a lei e ai figli. Lui doveva mantenerla e proteggerla e lei aveva il dovere dell’obbedienza. Addirittura regredendo rispetto al diritto di famiglia che l’Austria aveva introdotto nel Lombardo-Veneto, la moglie italiana diventava soggetta alla potestà maritale: era incapace perfino di stare in giudizio a difesa dei suoi diritti e interessi senza l’autorizzazione del marito. L’organizzazione sociale e la cultura politica,

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che si alimentavano a vicenda, esaltavano la diversità dei ruoli e quindi rafforzavano la famiglia così strutturata, dando alla donna una minore educazione e nessun lavoro autonomo. Questa famiglia gerarchica era blindata all’interno e isolata da ogni contaminazione. L’adulterio, di fatto quello femminile, era reato. Il divorzio non esisteva. I figli illegittimi non avevano in pratica diritti. Tutto ciò era visto come la famiglia secondo natura. E il primo emancipazionista italiano, Giuseppe Mazzini, era accusato di voler sfasciare la famiglia con la sua predicazione «contro natura» sulla parità tra uomo e donna (come del resto voleva sfasciare lo Stato con le sue idee sulla democrazia). Da lì parte la lunga marcia verso la famiglia odierna, all’insegna di un’unione tra persone aventi parità di diritti e doveri, reciprocamente e verso i figli; dove la fedeltà nasce dall’amore e dal rispetto e non dalla paura di sanzioni; dove la durata del patto è una quotidiana conferma, poiché esisterebbero le condizioni giuridiche e culturali, e sovente anche quelle economiche, per lasciarsi e fare una nuova famiglia; dove i figli naturali trovano almeno parziali diritti (e con una prossima legge, nata da un accordo generale in Parlamento, troveranno anche l’intera parentela naturale e non solo il genitore). Ogni tappa di questo processo è stato il frutto di confronti sociali aspri, in cui le voci pacate sulle speranze e sulle paure del cambiamento erano spesso soverchiate dalle condanne senza misericordia, dalle affermazioni perentorie sulle verità di natura, dai richiami minacciosi all’obbedienza verso chi deteneva in via esclusiva tali verità. Forse la maggior parte dell’umanità non ha ancora fatto tale percorso e chissà se mai lo farà. Nell’Islam la famiglia naturale di oggi è quella che, poligamia a parte, era naturale per noi circa un secolo fa; ed essa è difesa da sanzioni legali e da costumi che noi giudichiamo feroci e che per fortuna non fanno parte nemmeno del nostro passato. Al di là delle differenze ideologiche, io sono convinto che in realtà noi tutti siamo fieri dell’evoluzione della famiglia nella nostra società. Una famiglia carica di problemi, con la natalità bassa e la percentuale di separazioni alta. Una famiglia alle prese con il precariato economico, con la carenza di servizi sociali, con l’estesa insicurezza dei luoghi pubblici e privati, con un rapido mutamento tecnico e culturale che complica il rapporto tra generazioni. Una famiglia che richiede quindi estrema attenzione sociale e molte risorse pubbliche. E tuttavia una famiglia costruita da persone di pari dignità e all’insegna di quella libertà che rende tutto più difficile ma anche più bello. Non sappiamo cos’altro ci attende sul fronte della famiglia. Importante è costruirci il futuro attraverso un confronto sereno, dove tutti cerchiamo con umiltà e reciproco rispetto di capire cosa sia bene e cosa sia male: lasciando perdere gli scontri caricaturali tra chi è pro natura e chi è contro natura.

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6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ

IL GAZZETTINOPag 10 Ticket, un’esenzione su tre è falsa di Daniela BoresiRegione in campo per individuare chi nasconde redditi o dichiara patologie inesistenti

Venezia. L'esercito dei furbetti è ben più nutrito di quanto si possa pensare. L'esenzione dai ticket sulla farmaceutica o sulla diagnostica è un diritto per tutti coloro che hanno patologie particolari o redditi sotto una certa soglia. Ma c'è chi questo diritto se lo crea, trovando curiosi escamotage o addirittura inventandosi di sana piante esenzioni che non esistono. Il 33% degli esenti in Veneto è falso. E pare essere solo la punta dell'iceberg. Del resto trasformarsi in esente non è poi così difficile. A dare una mano a questi disinvolti pazienti ci ha pensato la legge che permette l'autocertificazione. Basta dichiarare di avere un reddito inferiore alla soglia o di essere affetti da una particolare patologia per non pagare neppure una lira. Scoprirli non è facile. La percentuale che ad oggi è balzata alla luce è frutto di una vera e propria opera di "intelligence" a cui sono state sottoposte le amministrazioni delle unità sanitarie locali. Calcolare quanto costa alle pubbliche casse questo disinvolto atteggiamento, per non parlare di truffa vera e propria, non è molto facile. La cifra dovrebbe aggirarsi su qualche decina di milioni di euro. Ma c'è chi assicura che sono solo le briciole. E in un momento di vacche magre, in cui anche le cifre a meno zeri possono fare la differenza, era indispensabile correre ai ripari. Il Veneto, tramite l'assessorato alla Sanità, ha predisposto dei protocolli operativi che verranno trasmessi alle Unità sanitarie locali per verificare la veridicità delle autocertificazioni che riguardano il reddito. Ma non solo, a breve saranno pronti anche altri protocolli che consentiranno controlli a tappeto sulle autocertificazioni legate alle

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patologie. Le Unità sanitarie locali già tengono monitorata la situazione e cercano di smascherare le situazioni più macroscopiche, ma a campione e su una fetta sottilissima della popolazione. Le conseguenze di questo nuovo provvedimento sono immaginabili: chi verrà scoperto a truffare potrà anche essere denunciato e contro di lui potrà partire un procedimento penale. «Inevitabile che questo accada - spiegano all'assessorato - Si tratta di un falso in atto pubblico e come tale va sanzionato». Entro fine mese i due provvedimenti dovrebbero essere sottoposti all'attenzione della giunta. Gli strumenti, così come sono stati studiati, dovrebbero aiutare non poco il lavoro di controllo da parte degli uffici delle Aziende ospedaliere, anche se in alcuni ambiti non sarà facile scoprire i furbi: se infatti quando si parla di reddito attraverso le dichiarazioni è facile risalire agli introiti reali, un po' più complicato si presenta smascherare chi invece dice di avere patologie inesistenti. «Ma il protocollo che abbiamo messo a punto con i nostri uffici - spiegano in assessorato - ci offre strumenti che ci possono essere davvero utili». Per quanto riguarda l'esenzione per reddito si deve prendere in considerazione quello complessivo del nucleo familiare, riferito all'anno precedente, dato dalla somma dei redditi dei singoli membri del nucleo. Per nucleo familiare si deve intendere quello rilevante a fini fiscali (e non anagrafici), costituito dall'interessato, dal coniuge non legalmente separato e dagli altri familiari a carico. La cifra non deve essere superiore a 36.151,98 euro. Per quanto riguarda invece l'esenzione per patologia, la richiesta deve essere presentata all'Azienda sanitaria di residenza, presentando un certificato medico che attesti la presenza di una o più malattie incluse nel decreto ministeriale del 28 maggio 1999, n. 329 e successive modifiche. Il certificato deve essere rilasciato da un presidio ospedaliero o ambulatoriale pubblico. Ma si possono presentare anche: la copia della cartella clinica rilasciata da una struttura ospedaliera pubblica; la copia del verbale di invalidità; la copia della cartella clinica rilasciata da una struttura ospedaliera privata accreditata, previa valutazione del medico del Distretto sanitario dell'Azienda di residenza; i certificati delle Commissioni mediche degli Ospedali militari; le certificazioni rilasciate da Istituzioni sanitarie pubbliche di Paesi appartenenti all'Unione europea. Una volta ottenuta l'invalidità è comunque possibile, quando si richiede al medico la ricetta, comunicarlo direttamente.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINOPag 9 Calatrava: “I ritardi del ponte non sono colpa mia” di Michele FullinL’architetto valenciano a Marghera davanti alla sua creazione: “Amareggia il fatto che in una città eccezionale si costruisca con procedimenti amministrativi normali”. In cinque anni triplicati i costi e i tempi di realizzazione

Venezia. Il quarto ponte sul canal Grande che unirà piazzale Roma alla ferrovia, sarà posato tra giugno e luglio e sarà di un colorrojo fuego, rosso fuoco. A dirlo non è più il sindaco o l'assessore ai Lavori pubblici, che sulle date di quest'opera non osano più sbilanciarsi, ma lo stesso progettista Santiago Calatrava. C'è da fidarsi? Diamogli credito un'ultima volta, poiché l'artefice della cantierizzazione è il professor Giorgio Romaro, lo stesso che ha contribuito alla realizzazione della cittadella olimpica di Atene, firmata dall'architetto valenciano. Sul colore rosso, invece, c'è la certezza non solo perché nel cantiere in banchina dell'Azoto di Porto Marghera si presenta con questo aspetto, ma perché è stato uno dei dettagli su cui il progettista si è impuntato fin dall'inizio. Per i puristi della venezianità ciò potrà essere forse una delusione, ma è anche vero che nessuno ha sollevato obiezioni durante i numerosi passaggi che il progetto ha avuto prima dell'approvazione definitiva. In verità, a vederlo montato, questo ponte suscita una certa ammirazione. Molto più grande di come lo si possa immaginare, sembra lo scheletro di un grande animale preistorico lungo quasi 100 metri, che con le sue 74 "vertebre" in acciaio, faceva apparire insignificanti il progettista e il sindaco che ci camminavano sopra. Una volta allestito e illuminato con la giusta luce sarà quell'opera d'arte del ventesimo secolo che a Venezia mancava. Chi credeva di avere finalmente una spiegazione sulla moltiplicazione dei tempi e dei costi ancora una volta non ha avuto soddisfazione. Nonostante le domande precise, anche questa volta non si è capito a chi debbano risalire le responsabilità di un lavoro durato così a lungo rispetto al previsto. Sia Cacciari che Calatrava hanno rimarcato l'handicap derivante dalla legge Merloni che non

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consente a chi appalta un'opera pubblica di scegliere il migliore sul mercato. «Sono felice ed emozionato - ha detto Calatrava - di vedere quest'opera conclusa. Per me è un onore fare qualcosa in una città straordinaria come Venezia, ma sono anche convinto che questo ponte servirà molto a Venezia, aprirà una nuova via».Avrebbe pensato di trovare difficoltà simili quando propose questo progetto, nel lontano 1996?«Un po' me l'aspettavo che avrei trovato difficoltà, sapevo che il procedimento amministrativo sarebbe stato lungo e laborioso. Sono però amareggiato per il fatto che in una città eccezionale si costruisca con procedimenti amministrativi normali. Non riesco a comprendere come per Venezia non abbiano trovato gli strumenti tecnico-amministrativi per scegliere i migliori costruttori. Sarebbe stato necessario fare una preselezione delle imprese: in questo caso è stata scelta l'impresa generale che a sua volta ha scelto l'impresa di carpenteria metallica. Io non ho avuto voce in capitolo in tutto questo».Ma qual è il suo ruolo in questo progetto?«Il mio compito è stato quello di ingegnere nella fase della progettazione, ma la direzione dei lavori l'hanno avuta altri e poi la mia missione è diventata di consulenza artistica e architettonica alla direzione lavori. Mi sono state date ingiustamente delle responsabilità che non ho».Tra il 2005 e il 2006 la Lorenzon (carpenteria metallica) ha dovuto riprogettare e ricostruire da capo i conci che si trovano alle estremità perché "sottodimensionati"...«Non lo sapevo, ma le ripeto, non ho fatto io il direttore dei lavori».E le polemiche relative alle fondazioni che non sarebbero abbastanza solide?«Le fondazioni le ho progettate io personalmente e i calcoli sono stati verificati da tre studi d'ingegneria diversi. Tranquilli, non sono appoggiate sul fango, ma su uno strato duro e non possono cedere. Quanto alla proposta del tunnel sottomarino suggerita dal mio amico Creazza, non fu il Comune a rifiutare la soluzione perché ritenuta troppo costosa. La rifiutai io, perché le fondazioni erano sufficienti».E sulla polemica legata all'ovovia per i disabili? Si dice che fu Calatrava a prevedere che le carrozzine andassero in vaporetto.«Guardi, io faccio questo lavoro da 28 anni e il 90 per cento delle mie costruzioni sono opere pubbliche. All'epoca secondo le indicazioni del Comune sembrava che si volesse che i disabili si servissero del vaporetto, tanto che erano previste inizialmente anche delle aree attrezzate. Anche in questo caso non è una questione che mi riguarda, perché è una fase successiva alla progettazione. Adesso vorrei solo tirare una linea su tutte queste cose che non sono andate per il verso giusto e pensare a questo ponte finalmente al suo posto».

Venezia. La posa della prima parola di un gigantesco monumento all'inefficienza risale a undici anni fa, ma il cantiere fu impiantato solo il 3 settembre 2002 con l'impegno a terminare il lavoro in 456 giorni e con una spesa di tre milioni 876mila 488, 88 euro. Siamo al 9 maggio 2007 e i giorni di lavorazione si sono triplicati, così come i costi. Quella che era considerata nel 2000 dall'allora sindaco Paolo Costa "un'occasione da non perdere" si è rivelata al momento una formidabile macchina mangia soldi. E per giunta soldi pubblici, in gran parte provenienti dalla legge speciale sulla salvaguardia di Venezia che teoricamente era stata concepita con altri obiettivi.IL TEMPO - In ogni caso, una volta realizzato, il quarto ponte sarà un'opera architettonica da fotografare, anche in una città come Venezia dove i soggetti si sprecano. Ma perché è stato impiegato così tanto tempo e i politici di turno si sono sprecati in tante dichiarazioni trionfalistiche sulla fine dei lavori? A questa domanda nessuno sembra voler rispondere, anche perché qualche responsabilità ci sarà se un cantiere che doveva durare un anno e mezzo, è ancora aperto ai nostri giorni. Nell'addossare le responsabilità all'"altro" tutti sono bravi, mentre nessuno si è mai assunto una piccola parte di colpa, almeno indiretta. Nelle sue ultime dichiarazioni, il sindaco Massimo Cacciari se l'è presa - e non a torto - con il perverso sistema della legge Merloni che prevede come regola base per gli appalti pubblici le gare al massimo ribasso. «Non si può affidare il "cupolone" di Michelangelo - aveva detto un mese fa - al primo che passa». Il guaio è che le imprese costruttrici non sono proprio "il primo che passa", perché entrambe hanno molta esperienza nel campo della costruzione di opere anche ardite. Forse, però, non abbastanza in questo genere di ponti, a sesto ribassato, la cui spinta si riversa in gran parte lateralmente. Gli archi a tutto sesto, quelli normali, scaricano invece verticalmente il peso della struttura. Neppure i progettisti, anche togliendo il grande Calatrava, non

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sono gli ultimi arrivati. Eppure si è arrivati per una serie di incomprensioni a dover rifare di volta in volta il lavoro appena finito mentre i problemi affioravano solo durante l'esecuzione invece che in sede progettuale.VALENCIA - Chi dice che il quarto ponte sul canal Grande è un progetto arditissimo probabilmente non sbaglia, ma dovrebbe spiegare allora come mai la Ciudad de las ciencias y las artesdi Valencia (350mila metri quadri di architetture arditissime) sia stata cominciata quando il quarto ponte veniva presentato e oggi sia diventata una delle attrazioni della città natale dell'architetto, un'attrazione perfettamente fruibile e funzionale. Forse, ragionando da semplici, verrebbe da dire che in Spagna sanno lavorare meglio che in Italia sia dal punto di vista tecnico, che amministrativo. D'altronde, la stessa città che ospita le gare di Coppa America, è stata capace di adattare in due anni e mezzo il suo vecchio porto e di costruire due grandi marina e un canale di uscita in mare in pochi mesi. Tutto questo senza "ammazzare" il porto merci che tra qualche anno promette di diventare il secondo scalo d'Europa dopo Rotterdam. C'è da crederci. Tornando al ponte, i lavori per la sua costruzione sono stati tribolatissimi, tanto da richiedere la bellezza di cinque perizie. Si partì fin dall'inizio con la polemica delle sponde, che alcuni importanti professionisti ritenevano insufficienti a controbilanciare la poderosa spinta del ponte (1.500 tonnellate). Il compianto professor Giuseppe Creazza, più volte consulente di Calatrava, suggerì di una variante che sarebbe costata poco più di un miliardo: un tunnel sottomarino che avrebbe fatto da tirante bilanciando le forze in gioco. La proposta fu scartata perché l'esecutivo era già stato approvato e, a Venezia, ogni progetto passa attraverso un fittissimo setaccio di procedimenti.I "CONCI" - Poi, con la costruzione della struttura in acciaio venne alla luce la difficoltà oggettiva nella fusione, saldatura e assemblaggio dei "conci", le sezioni in acciaio formate complessivamente da 74 "vertebre" tutte diverse tra loro. Un lavoro immane, che ha sofferto anche di carenze progettuali. Lo aveva rivelato due anni fa una consulenza disposta dalla Procura regionale della Corte dei conti commissionata all'ingegnere Francesco Steffinlongo e all'architetto Gianfranco Roccatagliata. Le conclusioni avevano evidenziato carenze sia dal punto di vista della progettazione che del procedimento amministrativo. Non è stato ancora chiarito se le irregolarità progettuali cui si riferisce la consulenza si riferiscano al progetto iniziale, eseguito dallo studio Calatrava, oppure a quello esecutivo o strutturale, portato avanti dai tecnici comunali. Usando un po' la logica, se i problemi sono saltati fuori durante il montaggio dei conci (le "vertebre" metalliche del ponte che ne costituiscono la struttura portante) e riguardano la collimazione di superfici differenti, la causa potrebbe essere un'imprecisione dell'esecutivo. Il progetto di massima, infatti, non contiene le caratteristiche costruttive definitive né le misure al millimetro. Altre irregolarità sarebbero poi emerse nel procedimento amministrativo. Un procedimento cominciato in modo anomalo, con il "dono" del progetto alla città e non con un concorso pubblico e continuato tra autorizzazioni e controlli sia in sede di progettazione e scelta delle imprese esecutrici che di realizzazione dell'opera. Quei "paletti" che la legge Merloni fissa per gli appalti pubblici non sarebbero insomma stati perfettamente rispettati.LE RIVE - Infine, il recentissimo sospetto che le "spalle" del ponte non possano sopportare la spinta del ponte durante la posa. Per questo il professor Giorgio Romaro, autore dell'ultima perizia, ha suggerito il "varo in bianco" dell'arcata in banchina dell'Azoto a Marghera e l'applicazione alle spalle di sedici martinetti idraulici per controbilanciarne lo spostamento nel caso questo fosse superiore ai due centimetri. Questo ultimo dettaglio costerà al Comune due milioni 475mila 411,22 euro, che si aggiungono a quanto speso in precedenza per arrivare al totale odierno di 10 milioni 701mila 547 euro.

CORRIERE DEL VENETOPag 8 Cacciari: “Tir su due file, è necessario” di Martina ZambonTangenziale, il sindaco si schiera con la Provincia contro il Governo per chiedere la sperimentazione

Mestre - Il giorno dopo la bocciatura della sperimentazione in tangenziale Massimo Cacciari riapre una partita che sembrava ormai chiusa. « Per noi i camion disposti su una doppia fila sono una misura assolutamente necessaria. Per questo convocheremo urgentemente una nuova riunione ». Il messaggio è chiaro e pure i destinatari. Regione, Polstrada e Governo che per bocca del viceministro ai Trasporti Cesare De Piccoli hanno

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detto un no secco alla sperimentazione proposta dalla Provincia e appoggiata dal Comune dovranno tornare sulla questione. « E' indubbio che tutto il lavoro che è stato fatto non deve e non può essere messo da parte - spiega l'assessore alla Mobilità Enrico Mingardi. Come si fa a lavorare su di un progetto per oltre un anno e poi accantonarlo così. Dovremmo dire ai cittadini che abbiamo scherzato? Invece è evidente a tutti che un'emergenza in tangenziale c'è e continua ad aggravarsi sia sul fronte del traffico che dell'inquinamento ». Ca' Farsetti fa sapere che c'è tutta la disponibilità a rivedere parte della sperimentazione con l'aiuto dei tecnici del Comune per ulteriori verifiche da fare sul nodo più contestato, quello della sicurezza. Il progetto, elaborato dall'Università di Padova su richiesta della Provincia di Venezia prevede due settimane a inizio giugno con una nuova viabilità in tangenziale. Camion che possono correre non soltanto sulla corsia di destra come ora ma anche su quella centrale. Obbiettivo della sperimentazione: fluidificare il traffico ormai collassato dal muro di mezzi pesanti che impediscono immissione e uscita. Fra le misure previste c'è anche l'abbassamento dei limiti di velocità. Idea bocciata, nonostante il sì tecnico del tavolo sulla sicurezza, pochi giorni fa in Prefettura. Ma il Comune non si dà per vinto. « Aspettiamo che tutti prendano visione del progetto in modo più approfondito », specifica Mingardi e sembra quasi una stoccata a De Piccoli che è intervenuto con un veto solo all'ultima riunione in Prefettura lo scorso sabato. Intanto sabato 12 maggio è già stato fissato un incontro di ordine tecnico. E poi, rilancia il Comune, non tutto in quell'ipotesi di accordo era da buttare. Fra le priorità c'è anche il gestore unico dell'informazione all'utenza attraverso i pannelli a messaggistica variabile. « Questo è un capitolo - conclude Mingardi - che dobbiamo assolutamente chiudere nelle prossime settimane. Quanto alla sperimentazione vera e propria restiamo in attesa di un suggerimento dal Governo visto che il viceministro De Piccoli se ne sta interessando. Ognuno, certo, la vede a suo modo ma questo studio, voluto da tutti, è stato fatto da un organismo super partes, l'Università di Padova che ha ottenuto un risultato scientifico di valore ».

Venezia - In questo ultimo anno non ha mai voluto commentare le critiche crescenti al modello di fluidificazione del traffico elaborato dal Laboratorio Trasporti in cui lavora, ora, però, l'ingegner Riccardo Rossi, fra gli autori dello studio consegnato lo scorso settembre alla Provincia di Venezia, dice la sua. Rossi, 38 anni, ricercatore del laboratorio dei Trasporti del dipartimento di Costruzioni e Trasporti alla facoltà di Ingegneria di Padova è un esperto di trasporti e mobilità. « Siamo partiti da un modello americano che si può applicare solo entro certi limiti alla particolarissima situazione della tangenziale di Mestre - spiega - abbiamo raccolto dati, filmati delle code che si formano, e il tutto è stato implementato in un software che ha simulato le soluzioni possibili. La Provincia, poi, ha sviluppato il modello di microsimulazione usando i nostri dati ». Nella simulazione hanno trovato spazio anche alcuni parametri legati ai comportamenti di automobilisti e autisti dei tir. Troppo poco specifico, però, il taglio sulla sicurezza, per fornire uno scenario attendi bile della pericolosità della sperimentazione. « Non rientrava fra ciò che si è stato chiesto - spiega l'ingegner Rossi - eventualmente si potrebbe pensare a un nuovo studio basato proprio su questo principio ma non sarebbe facile da realizzare, molte le variabili di cui tenere conto, dalle 12 ore di viaggio sulle spalle di un autista che arriva dai Balcani, all'esasperazione dei pendolari veneziani ». E così, come in una sorta di videogame, il software elaborato dagli esperi dell'università ha simulato cosa potrebbe succedere se i tir potessero viaggiare disposti su due file anziché su una soltanto. Non bisogna immaginarsi un miracolo però. « E' un po' il principio dei vasi comunicanti - spiega Rossi - nella simulazione migliora l'intasamento all'altezza dell'uscita di Marghera, ma si addensa il traffico subito dopo, sulla Miranese, paradossalmente proprio a causa dello snellimento a Marghera da cui arriverebbero più mezzi. La tangenziale è un sistema complesso, il bilancio delle code però alla fine è positivo ».

Pag 9 Agenzia degli eventi, i primi soci sono sei di Massimiliano CortivoNomine: conferme ai vertici di Actv, Veritas e Pmv

Venezia — Agenzia degli eventi al rush finale. Il Casinò sta chiudendo in questi giorni il piano economico della nuova società di cui dovrebbe avere la maggioranza. E il quadro dei soci è praticamente completato. Oltre alla casa da gioco dovrebbero far parte della nuova istituzione Massimo Calearo, presidente degli industriali di Vicenza, Elio Dazzo per l'Aepe, l'Associazione veneziana degli albergatori, l'imprenditore Vincenzo Marinese, la

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Venezia Terminal Passeggeri e Televenezia. All'incirca un milione e mezzo di euro, quasi l'intera cifra del capitale sociale che è stato fissato sui due milioni. SOCI — Tempi dunque che corrono veloci per l'istituzione che a partire dal prossimo capodanno (con più probabilità dal prossimo carnevale) dovrebbe gestire tutti i grandi eventi a Venezia. Ma qualche nodo rimane. In primis quello della nomina del direttore generale. Se infatti per il presidente sono in molti a fare il nome di Alessandro Danesin (commercialista veneziano in area Forza Italia), sulla figura del direttore non ci si sbilancia anche se i giochi sembrano fatti pure in questo caso. Di certo si inizia ad avere un quadro più chiaro sugli investimenti che, come detto, toccano già quota 1,5 milioni di euro. A questi si sommerà la quota maggioritaria del casinò e poi, via via tutti gli sponsor (Amici di Venezia esclusi, pare) che dovranno garantire all'amministrazione un'entrata di 4 o 5 milioni euro, tanto infatti costano le grandi manifestazioni di una stagione. La quota più alta sembra essere quella garantita dall'Aepe di Elio Dazzo con 400mila euro, poi Vincenzo Marinese con 300mila e a seguire Calearo, Ava, Vtp e Televenezia con 200mila. Si parla anche di un interessamento della società Milano Concerti che quest'anno organizza l'Heineken Jammin' Festival al parco di San Giuliano ma nessun contatto diretto c'è ancora stato tra loro e il casinò. In ogni caso il Cda sarà snello come ha sempre dichiarato il sindaco Cacciari. Cinque al massimo i consiglieri, tre quelli scelti dal Casinò (tra questi si fa anche il nome di Renato Morandina dell'Apt) e due tra i privati. NOMINE — A proposito di consigli di amministrazione e di nomine, questi sono giorni decisivi per le aziende partecipate del Comune che hanno visto rinnovare i propri vertici. Confermatissimo alla testa dell'Actv Marcello Panettoni, e così pure per Pmv con Antonio Stifanelli; al vertice di Venezia Spiagge va Luciano De Nardo mentre Statis Tsuroplis rimane presidente e viene anche nominato amministratore delegato di Ames (senza nessun aumento di stipendio), la società che gestisce le farmacie comunali. Questi due ultimi soggetti (Venezia spiagge e Ames) hanno chiuso la stagione con utili che hanno permesso per la prima volta di dare dei dividendi al Comune, 70mila per i primi e 130mila per i secondi. Ca' Farsetti da bilancio prevede di incassare 2 milioni e 300mila dalle società e al momento, visto anche il milione e 670mila di Save, tocca già quota due milioni. Se i vertici delle società, come si diceva, sono già stati decisi, qualche piccola questione rimane però aperta, sia tra i consigli di amministrazione che agli stessi piani alti. Apertissima per esempio la partita per il presidente della futura multiservizi Veritas, partita che dovrebbe chiudersi tra un mese. Voci danno Armando Zingales in partenza e al suo posto tra i nomi che circolano c'è quello di Renato Martin (Margherita) impegnato fino ad ieri nel confronto tra candidati sindaco con Michele Carpinetti (Ds) e Roberto Marcato (Ds) anche se per il dl della riviera è forse più probabile un posto in Cda. Sicuro partente, in Actv però, c'è Gigi Giordani (Sdi) arrivato al secondo mandato. Ieri intanto sono stati regolati i crediti pregressi che Vesta aveva con il Comune. I 4 milioni e 700mila euro sono stati coperti dalla cessione di un terreno in via Porto di Cavergnago a Mestre (valore 3 milioni e 700mila) e dai magazzini del centro storico attualmente occupati dalla stessa società.

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8 – VENETO / NORDEST

LA STAMPATreviso vieta le lanterne rosse di Ferdinando Camon

Treviso ha dato dieci giorni di tempo ai ristoranti cinesi per togliere dai loro ingressi le lanterne rosse. «È in ballo il decoro della città - dichiara l’assessore all’Edilizia -: le lanterne rosse non c’entrano niente con Treviso». E il pro-sindaco Gentilini: «Treviso è una città veneta e padana, non è una città orientale». La stampa nazionale tratta Gentilini come una macchietta, ma sbaglia: Gentilini è molto amato dalla popolazione, conquista la maggioranza da solo. Lui ha una precisa idea di Treviso: deve superare in ricchezza Verona, Vicenza, Padova, disoccupazione zero, stazione ferroviaria pulita come e più delle altre piazze, niente islamici in bivacco davanti alle chiese, gli alpini sono la nostra gloria militare, tutte le nostre battaglie, vinte o perse, sono il nostro onore, guai a chi tocca la tradizione, i lavoratori stranieri possono entrare ma senza portare con sé pezzi delle loro civiltà. Il punto debole di questo sistema è la tradizione. Tradizione vuol dire che quello che saremo domani deve derivare da quello che siamo oggi. Un bel problema. L’ordine e il decoro regnano a Treviso, e non sono cose da poco. Ho visto,

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nella stessa settimana, Roma, Firenze e Treviso: beh, Roma e Firenze sono sporche che più sporche non si può, non c’è rispetto per niente, per entrare a Santa Maria Novella tu fendi gruppi di persone di tutto il mondo che han l’aria di non sapere niente di quel che c’è lì, e se entri alla stazione Termini trovi bivacchi di ogni genere, gente che non è scesa da nessun treno e non sta prendendo nessun treno. A Treviso non è così. Con i suoi metodi «scandalosi», al limite del codice, Gentilini è riuscito a mantenere alla sua città una mirabile pulizia. Meglio di Verona, meglio di Vicenza, molto meglio di Padova, dove la sozzura invade il centro risalendo dalla periferia per le vie Belzoni e Altinate. Ma questo è l’ordine. La tradizione è un’altra cosa. Non puoi avere lavoratori islamici e impedire che vestano, uomini e donne, alla islamica. Eppure Gentilini ha proibito «i camicioni» ai marocchini. Non puoi avere ristoranti cinesi, in regola con le licenze, senza che espongano le lanterne rosse. A Padova ci son ristoranti turchi, greci, arabi, indiani. In un ristorante indiano, subito dopo il cavalcavia della stazione, una ragazzina di 18-20 anni balla la danza del ventre: tu ceni, e lei viene a strusciare l’ombelico contro il tavolo. È carina, ma leggermente grassa: in India la grassezza fa parte della bellezza. Le lanterne rosse splendono a Padova, Verona, Vicenza, come in tutto il mondo, davanti a ogni ristorante cinese: dicono che lì è Cina, sono il marchio doc. I ristoranti cinesi a Treviso sono tre: «Bambù», «Grande Muraglia» e «Nuova Cina». Fuori hanno le lanterne rosse, e nell’atrio leoni e draghi. Anche questi saranno proibiti, l’ordinanza è già pronta. Si de-orientalizza l’ingresso, poi l’atrio, ma l’ideale sarebbe venetizzare anche la cucina: e negli involtini primavera avvolgere il radicchio trevigiano. Ai tempi del grande boom, quando Vicenza si vantava di produrre ed esportare più del Portogallo, Treviso rispondeva di produrre ed esportare più della Grecia. Ci domandavamo: perché la Grecia? Vuol forse diventare un’Atene, chiederà di avere una sua università? (Qui ogni città si fa un pezzetto d’università, magari con due sole facoltà). Ora è chiaro: nel caos multietnico del Nord-Est, Treviso vuol conservare la purezza razziale e presentarsi al mondo come una nuova Sparta.

CORRIERE DEL VENETOPag 1 Dimenticare il Nord Est di Giovanni CostaPer una nuova leadership

« E' possibile, e attraverso quali percorsi, colmare il più preoccupante deficit del Nord Est di oggi, quello di classe dirigente? ». Questo interrogativo ricorrente nel dibattito politico costituisce il perno del libro di Francesco Jori « Di Nordest non ce n'è uno. Materiali di lavoro per le nuove classi dirigenti » (Nordesteuropa. it, Marsilio editori), presentato lunedì all'università di Padova. Prima di cercare le possibili risposte, è il caso di verificare se esista davvero il deficit su cui si fonda la domanda di Jori, che arriva alla fine di una lucida e documentata analisi che in poche decine di pagine riesce a spiegare chi sono, da dove vengono e dove potrebbero andare le genti del Nord Est. Ho già sostenuto in altre occasioni che nel Veneto non mancano i leader, che sono numerosi almeno quanto gli imprenditori e i campanili, ma mancano i follower . E' vero che tanti leader senza follower sono una specie di ragazzi della Via Pal e non fanno la classe dirigente di cui Jori denuncia la mancanza. Ma è un buon punto di partenza per capire che formare i follower è ancora più urgente che formare i leader. Nell'economia della conoscenza, i follower non sono dei pecoroni che seguono a testa bassa, come potrebbe suggerire una traduzione letterale del termine inglese. Sono invece soggetti con i loro obiettivi e le loro competenze, in grado di contribuire alla messa a punto di un disegno strategico, di riconoscere, selezionare e legittimare i leader capaci di realizzarlo. Detto in altri termini, una buona leadership dipende oggi in eguale misura dai leader e dai follower. Se si prende per buona questa affermazione, c'è da rifondare tutta la cultura del Nord Est, non solo quella dei leader. I materiali con cui costruire si trovano anche nel libro di Jori. Cominciamo a parlare meno di Nord Est e più d'Europa, un sacco di problemi non saranno più tali. Ne sorgeranno di nuovi e molto più sfidanti. Guardando all'Europa, si vedrà che il Nord Est non è poi così speciale e che il fiorire di una copiosa letteratura maniacalmente autoriflessiva, di cui non esiste l'equivalente in altre regioni italiane o europee, ha contribuito più a creare il problema che a risolverlo. Si vedrà, per esempio, che la concentrazione di Pmi, cavallo di battaglia dei teorici della specialità del Nord Est, non è molto diversa da quella di altre regioni europee. E anche quando la differenza raggiunge una decina di punti percentuali non modifica l'impatto sociale e politico di questa tipologia d'imprese. La vera differenza è che a noi mancano le grandi imprese non meno che i grandi progetti. Guardare fuori, ibridarsi, aprirsi, dimenticare (per un po')

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il Nord Est... ecco un percorso formativo per la nuova classe di leader e di follower. Il perché lo ricaviamo dalle parole di Jori « ... non è che oggi i figli, a Nord Est, non vogliono condividere i valori dei padri; è che proprio non possono ».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERAPag 9 Il progetto del Partito democratico minato dalle diffidenze reciproche di Massimo Franco

Il fatto che il segretario del maggior partito di governo scriva a Romano Prodi accusando qualcuno di «intossicare e sporcare» il progetto del Pd è, in se, piuttosto singolare. Significa che gli untori vanno cercati nel centrosinistra. Di più: nel recinto fra palazzo Chigi, Ds e Margherita, contenitore di «veleni e veline» evocati da Piero Fassino con toni fra l'allarmato e l'affranto. Il leader diessino aggiunge che venerdì, quando finalmente il premier riunirà gli alleati, bisognerà «decidere con chiarezza e in modo definitivo» come si arriverà al Pd. Segno che anche questo rimane nebuloso, sebbene Prodi gli risponda di essere d'accordo. Dopo i colpi tra Francesco Rutelli e lo stesso Fassino, la fondazione del nuovo partito sta diventando un campo minato dalle lotte interne. Non dipende soltanto dalle voci su un asse fra palazzo Chigi e Ds, opposto alla Margherita. La sensazione è che esistano pezzi di ciascuna delle due forze, protesi verso obiettivi in concorrenza fra loro. È come se l'annuncio della successione alla guida del centrosinistra avesse liberato i fantasmi di ambizioni tenute a freno per anni dall'alibi della leadership prodiana. Ora che per forza di cose il Professore è destinato a cedere il primato, al massimo nel 2011, eccoli rispuntare dietro la disputa su tempi e modi del progetto. Perfino la figura tecnica del coordinatore del futuro Pd sta assumendo le dimensioni di una questione vitale. Nessuno vuole regalare un'oncia di vantaggio ai potenziali concorrenti interni. Si è parlato di Fassino. Ma si parla anche di un tandem o di un gruppo ancora più largo, per tacitare Ds e Margherita, chiamati a preparare le prossime tappe. È rivelatrice la reazione di chi qualche giorno fa aveva cominciato ad avanzare la propria candidatura, come il ministro Pierluigi Bersani. Di colpo, ieri si è cucito la bocca, facendo capire che non vuole entrare nella diatriba: come se sapesse che si sta incanagliando e può bruciare qualunque ambizione dichiarata. C'è chi ritiene che le divisioni finiscano per rafforzare Prodi come unico elemento di mediazione fra alleati divisi e litigiosi. Ma si tratta di una tesi controversa, liquidata da chi teme che le tensioni possano scaricarsi sul governo; e rendere irto di diffidenze il percorso del Pd. Anche perché finora il resto dell'Unione ha osservato le manovre dei Ds e della Margherita, senza intervenire troppo. Ma la scissione a sinistra del partito di Fassino ed i contrasti che fanno capolino nell'antagonismo, trasmettono un'immagine di frantumazione crescente: come se si fosse messa in moto una dinamica che nessuno è in grado di controllare. Di questa confusione, il dibattito lunare sul Pd è solo una spia. Come sono sintomi gli scontri fra Ds e Margherita, e dentro quest'ultima, sulle coppie di fatto e il «family day» del 12 maggio; i contrasti con palazzo Chigi sull'Ici; e le zuffe sul significato della sconfitta socialista e centrista alle presidenziali francesi. Più il momento della fusione fra i due partiti si avvicina, più aumenta la sensazione che le identità vengano esasperate, invece di mescolarsi. Qualcuno sostiene che venerdì Prodi riuscirà a creare l'armonia dal caos. Il suo «sì» a far presto, come chiede Fassino, sarebbe un indizio. Pochi, tuttavia, scommettono su un lieto fine in tempi rapidi.

Pag 11 Gay, scontro nel governo. Ferrero attacca la Bindi di Monica Guerzoni e M. Antonietta CalabròLa titolare della famiglia: posizioni strumentali. Gli omosessuali minacciano una controffensiva. Dico, slitta l’esame a Palazzo Madama. Berlusconi: io al Family Day? vedremo

Roma — Non ha cambiato idea e non la cambierà. Perché dovrebbe, Rosy Bindi, quando ha «solo» detto quello che pensa? Le coppie omosessuali resteranno fuori dalla porta della Conferenza sulla famiglia, ma non saranno sole. La presa di posizione della ministra ha spaccato l'Unione e anche il governo, Paolo Ferrero ed Emma Bonino dal 24 al 26 maggio si terranno alla larga dall'ottocentesca Villa Vittoria di Firenze, dove invece

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andranno il presidente della Repubblica e Romano Prodi. «La mia partecipazione non è opportuna» ha dato forfait il ministro della Solidarietà sociale. E la responsabile degli Affari europei ha voluto dirglielo di persona: «Non sono d'accordo Rosy e non verrò, peccato». La bufera inattesa che si è abbattuta su Palazzo Chigi ha messo in grave difficoltà il premier, il quale non si aspettava problemi da un appuntamento ideato per placare i bollori dopo il Family Day e per lanciare il «nuovo welfare» targato centrosinistra. Nel pomeriggio, a Milano, Prodi ha sperato in una domanda sul «caso Bindi» per poterci mettere una pezza, ma poi a sera ha deciso che era meglio tacere, forse per non dover scegliere tra Ferrero e Bindi. Se il capo del governo opta per un prudente silenzio, la ministra non fa che spiegare la «coerenza» della sua esternazione. Non si difende. Anzi, contrattacca. «Hanno preso un granchio grosso come una casa». Ferrero, avrebbe preso il granchio? «La sua posizione è strumentale e lo stesso vale per la Bonino». Fabio Mussi si è detto «stupefatto», trova sconcertante che «all'alba del terzo millennio» si discuta ancora degli omosessuali come nel Medioevo... «Mussi parla così perché deve fare il partito delle sinistre». E Prodi, l'ha chiamata? «Non ce n'è bisogno, va tutto bene». Così bene le cose non devono andare, se anche Barbara Pollastrini ha bacchettato la coautrice dei Dico: «Io non avrei mai escluso alcuno». Alt. Rosy non ci sta. E alla responsabile delle Pari opportunità manda a dire quanto segue: «Pollastrini convochi una conferenza nazionale sui diritti degli omosessuali. Sbaglia a pensare che il luogo della difesa dei diritti delle persone sia la Conferenza sulla famiglia». Le associazioni dei gay ringraziano Ferrero. Bindi «maleducata e disumana» è il complimento più gentile che le rivolge Franco Grillini di Arcigay. «Arrogante, vuole passare alla storia come il ministro delle discriminazioni» la omaggia il presidente della medesima associazione, Sergio Lo Giudice. E poiché certe volte è impietoso pure il calendario, sabato a Milano si apre il congresso di Arcigay dove si faranno vedere Fassino, Giordano, Pollastrini e pure Bonino. Ghiotta occasione per il centrodestra, che invita Prodi a mettere alla porta o Bindi o Ferrero. «Polemiche stupefacenti», difende la Bindi Pierluigi Castagnetti e anche la presidente dei senatori dell'Ulivo, Anna Finocchiaro, scende in campo per sostenere la ministra dalle frecce della sua coalizione: «La sua è una decisione istituzionale, attaccarla così duramente è un errore politico». Se di errore si tratta lo commettono in tanti, nell'Unione. Katia Zanotti, Sinistra democratica, denuncia la «discriminazione inaccettabile». Il ds Gianni Cuperlo non vede dove sarebbe la «coerenza» di una ministra che «si fa carico di cercare un accordo» e poi dice che le coppie di fatto «nulla c'entrano con la famiglia». Potrebbe bastare. Ma i gay annunciano una controconferenza a Firenze in contemporanea. «Bindi ministro del Vaticano» è il biglietto d'invito della Lega italiana nuove famiglie (Linfa), che animò la manifestazione pro Dico a marzo. Chi ci andrà? Pecoraro Scanio, Luxuria, Arcigay, Arcilesbica e forse anche la ministra Pollastrini. E per provare «a smorzare polemiche inutili e dannose», il rabbino Di Segni ha voluto incontrare Grillini.

Roma — La Commissione Giustizia del Senato non è riuscita ieri a chiudere la discussione generale sui Dico e sugli altri disegni di legge presentati per regolamentare le unioni di fatto. Di venticinque iscritti a parlare (tra i quali tutti i senatori teodem della Margherita) solo sei hanno potuto svolgere il loro intervento. Il dibattito che si doveva chiudere ieri così come era stato già stabilito dal presidente della Commissione e relatore, Cesare Salvi, dovrà continuare. Oggi la Commissione si riunirà due volte, mattino e pomeriggio. Ma non è detto che i lavori finiscano prima di sabato, giorno del Family Day. Potrebbero slittare ancora. Anche perché la teodem Paola Binetti ha chiesto a Salvi di prevedere l'audizione di gruppi e associazioni che hanno un'opinione da esprimere sulla materia, tra cui i promotori del Family Day. «Salvi — ricorda Binetti — ha detto che intende ascoltare le due piazze del 12 maggio, ma il Parlamento non ascolta le piazze, fa delle audizioni». Naturalmente questo implicherà un'ulteriore dilatazione dei tempi. «Vero è — ha detto Massimo Brutti (Ds) — che non c'è una fretta particolare e non consideriamo questi interventi come un inciampo visto che non c'è ostruzionismo». In commissione è intervenuta anche l'azzurra Burani Procaccini, la quale si è scagliata anche contro il disegno di legge presentato dal collega di partito Alfredo Biondi. In mattinata, il Comitato promotore e i due portavoce della manifestazione per la famiglia si sono recati dal leader della Margherita, Francesco Rutelli, presenti il coordinatore Antonello Soro, Franco Monaco e i teodem Carra e Bobba. «È stato un incontro franco e cordiale» ha commentato Eugenia Roccella, «in cui sono emerse le due anime del partito». Tutti i dl hanno detto di condividere l'indicazione della priorità da dare alla famiglia. Soro e Monaco hanno cercato di spiegare che non c'è contraddizione con i Dico,

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ma su questo non sono riusciti a convincere gli interlocutori, cui è anche stata richiesta, in ogni caso, vigilanza per evitare strumentalizzazioni da parte del centrodestra. «Sappiamo che dopo due settimane si vota», li ha rassicurati Savino Pezzotta, l'altro portavoce. Per Rutelli (che non andrà a San Giovanni) le politiche familiari saranno un elemento strutturale della legislatura, quanto ai Dico, valuterà il Parlamento. La prima organica proposta di legge per rimettere la famiglia in cima alle priorità dell'agenda politica, una vera e propria legge-quadro (a firma Buonfiglio, Napoli, Mazzocchi)è stata presentata da Alleanza nazionale nel corso di un incontro organizzato dal dipartimento pari opportunità del partito, coordinato da Barbara Santamartini. «Il compito della buona politica è sottolineare la funzione sociale della famiglia», ha detto Gianfranco Fini (presenti Alemanno, Ronchi, Gasparri) chiudendo la manifestazione. «Sarebbe un modo barbaro e infame di pensare,ha detto ancora, quello per cui chi va sabato a piazza San Giovanni lo fa in ossequio alle gerarchie cattoliche e chi va a piazza Navona lo fa per difendere la laicità delle istituzioni». Dopo accese discussioni il Consiglio regionale del Piemonte, ha approvato, con i voti della Margherita, un ordine del giorno del centrodestra per aderire al Family Day. Questo avveniva mentre, a Bruxelles la presidente della Giunta, Mercedes Bresso, dichiarava di appoggiare i diritti dei gay e dei loro bambini. La Regione Liguria ha aderito, ma il Gonfalone in piazza non ci sarà. «Forza Italia parteciperà al Family Day, io vedremo» ha detto, infine, a Monza Berlusconi.

LA REPUBBLICAPag 7 “Accuse sbagliate e strumentali” di Giovanni CasadioRosy Bindi contrattacca: “Ho sempre sostenuto il riconoscimento dei diritti per i gay ma i Dico non sono famiglie di serie B riservate a loro”

Roma - Chiamano dal Quirinale. Il presidente Giorgio Napolitano sarà all’inaugurazione della Conferenza sulla famiglia di Firenze e bisogna accordarsi con il cerimoniale. Rosy Bindi dimentica per un attimo la bufera politica scatenata dal suo “no” alle associazioni gay. «Che bufera? Qualcuno ha le idee confuse, o è in mala fede — contrattacca il ministro della Famiglia — Abbiamo sempre sostenuto il riconoscimento dei diritti delle persone conviventi anche omosessuali, ma altresì abbiamo affermato che i Dico non erano matrimoni di serie B, non rappresentavano un altro tipo di famiglia. Ora non si può pretendere che nella Conferenza nazionale del governo sulla famiglia ci sia confusione. La famiglia è quella dell’articolo 29 della Costituzione)).Ministro Bindi, non potrebbe ripensarci?“Perché dovrei? Allora va ripensato il programma di governo».Il ministro della Solidarietà, il comunista Paolo Ferrero non sarà a Firenze per protesta. Né ci sarà Emma Bonino. L’Unione è divisa persino sugli Stati generali della famiglia?«Il ministro Ferrero non può permettersi di non venire, il suo mi sembra un atteggiamento strumentale. Ha un dovere istituzionale come responsabile della Solidarietà sociale, molte delle richieste che saranno rivolte al governo interessano in particolare il suo ministero, quindi non deve sottrarsi”.Barbara Pollastrini, autrice con lei della legge sui Dico, afferma che le porte vanno aperte, non chiuse. Cominciate a litigare anche voi due?“Barbara convochi, come ministro dei Diritti e delle Pari opportunità, una Conferenza sui diritti degli omosessuali. Ma io sono ministro della Famiglia. Fare politiche familiari non è in contrapposizione con i diritti delle persone, però le carte non si possono mischiare. Sono critica nei confronti di chi ha convocato il Family day, e lì ci si accusa di avere confuso tra convivenze e famiglia. Non è così e sono coerente”.Come risponde alle associazioni gay che l’accusano di discriminazione e le dicono: “Cara Bindi, fattene una ragione, noi siamo famiglie”?“Da un punto di vista sociologico, affettivo, saranno pure famiglie, ma giuridicamente non lo sono. Dopodiché, il governo fa una politica che non discrimina. Inoltre, le associazioni dei genitori omosessuali sono state invitate, anche se adesso annunciano che non verranno”.Lei vuole conquistare la benevolenza dei cattolici?“Casomai quello che sta accadendo mette in evidenza la contraddizione di chi si ostina a fare del Family day, sabato prossimo, solo una manifestazione contro i Dico”.È un nuovo braccio di ferro tra laici e cattolici?“Questa non è distinzione tra cattolici e laici, bensì tra chi legge la Costituzione e chi non la legge. Io non sto sostenendo queste cose perché sono cattolica, ma perché così c’è scritto nella Carta”.

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Il Partito democratico nasce con fibrillazioni sui diritti civili.“Non credo. In questo paese si va avanti per fazioni: da un lato, ci sono le tentazioni neoclericali, che vedono nel riconoscimento dei diritti delle persone un attentato alla famiglia; dall’altro c’è chi, anche nella mia coalizione, ritiene il riconoscimento dei diritti sia l’equiparazione alla famiglia. No. Chi sta scatenando questa bufera forse ha nascosto prima la realtà a se stesso».Fatto sta che si trova sotto un fuoco incrociato di critiche.“Vuoi vedere che ho ragione? Qui c’è qualcuno che è stato in malafede, ha giocato sull’equivoco dei Dico: sbaglia chi li legge contro la famiglia come chi li ritiene una forma di famiglia surrettizia. Paradossalmente rischiano di darsi ragione a vicenda. Se avessero ragione gli organizzatori della giornata del 12 maggio, dovrei invitare gli omosessuali alla Conferenza e chi mi critica perché non li invito dà ragione alla piazza del Family day secondo cui i Dico sono un attentato alla famiglia”.Perché ritiene che i ministri non debbano manifestare al raduno cattolico?«I ministri non devono andare. E’ buffo che alcuni non vengano alla conferenza del governo e altri vadano alla manifestazione contro il governo o comunque contro un atto del governo. Mastella, che da ministro della Giustizia ha firmato il provvedimento sulle unioni civili, evidentemente si dissocia da quella parte di sé che fa il Guardasigilli. Fioroni è in contraddizione con se stesso, dal momento che non ha mai criticato i Dico. Dal Family day mi aspetto serie proposte per la politica della famiglia, e quella è la parte della manifestazione che ascolterò e con cui entrerò in sintonia, ma dal mio posto di ministro”.

Pag 28 "Madonne al posto delle croci, rispettiamo tutte le religioni" di Laura AsnaghiMilano, rivoluzione alla Mangiagalli, clinica degli aborti. Il crocefisso esposto solo su richiesta: "Abbiamo tutte le etnie"

Milano - Via i crocifissi e, al loro posto, ecco l'immagine della Madonna che non discrimina nessuno. Succede alla Mangiagalli, il tempio dell'ostetricia milanese ma anche il centro di tante battaglie laiche in difesa dell'aborto. In questa clinica, dove i parti hanno raggiunto la cifra record di settemila all'anno, la presenza delle straniere è in continuo aumento. I parti delle donne extracomunitarie sono arrivati al trenta per cento. E così, per prevenire contestazioni di tipo religioso, la direzione sanitaria ha iniziato a sostituire i crocifissi con l'immagine della Madonna. "Con più di due mila donne, di etnie e religioni diverse, musulmane comprese, che frequentano la Mangiagalli, questa iniziativa ci sembrava doverosa", spiega Basilio Tiso, il direttore santario che ha dato il via a questa "rivoluzione cultural-religiosa". Con molta discrezione, ha iniziato a sostituire i tradizionali crocifissi, che ci sono in tutte le stanze d'ospedale, con immagini della Madonna. La motivazione? "Ripeto, occorre avere rispetto per tutte le religioni - spiega Tiso - le nostre corsie sono diventate multietniche e proprio per evitare contestazioni o forme di discriminazione, abbiamo deciso di mettere, al posto del crocefisso, l'immagine della Madonna, gradita anche alle donne musulmane". La rivoluzione è partita dal reparto di patologia della gravidanza, quello dove le donne che rischiano di perdere il bambino restano ricoverate più a lungo. E lì, il crocifisso ha lasciato quasi del tutto il posto al ritratto della Madonna. "La nostra è una operazione fatta senza fretta e che non vuole sollevare clamori - assicura il direttore sanitario - nel giro di qualche mese arriveremo a mettere le immagini della beata in tutto l'ospedale". Ma così la Mangiagalli non rischia di discriminare le donne cattoliche che preferiscono il tradizionale crocifisso? "Abbiamo pensato anche a questo - ammette il direttore sanitario - e laddove ci sarà una richiesta esplicita, siamo pronti a esporre la croce". Come dire, massimo rispetto per i crocefissi che non vengono certo mandati in cantina. Anzi, restano a disposizione delle pazienti, anche se d'ora in poi, la clinica sarà messa sotto l'ala protettiva della Madonna con il bambino, immagine gradita anche dalle donne di religione non cattolica. La Mangiagalli finisce sotto i riflettori per una iniziativa di carattere religioso. E questo solleverà, inevitabilmente, polemiche e prese di posizioni. Ma, intanto, a Milano, Abdelhamid Shaari, uomo di dialogo e di confronto, capo del centro islamico di viale Jenner, dice a proposito della scelta fatta dalla Mangiagalli: "È certamente un segno di rispetto per la nostra religione che apprezziamo enormemente. Però sarebbe ancora meglio un muro bianco, perché lo Stato italiano è uno stato laico, e i bambini sono angeli per qualunque religione. Noi chiamiamo Maria la Nostra Signora ed

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è una figura che rispettiamo e veneriamo. E ringraziamo la Mangiagalli per questo segno di attenzione. Anche se si potrebbe fare meglio".

IL FOGLIOPag 3 Come si “dice” sicurezza a sinistra Veltroni inizia un piccola battaglia culturale? Bene, servono parole e fatti

Quando a distanza di poco tempo Blair e Sarkozy attaccano per accantonarlo lo spirito del ‘68 dimostrano di aver capito che quella per ottenere più sicurezza nelle nostre società è innanzitutto una battaglia culturale, fatta anche di parole. Questa considerazione vale ancora di più in un paese come il nostro che dell’insicurezza, con relativo giustificazionismo sociologico, ha fatto quasi un vanto, un po’ come fosse un atout letterario. E vale ancora di più per una sinistra come la nostra che dietro a termini come “autorità”, “educazione”, “doveri” scorge sempre il lupo del criptofascismo. Salvo poi accorgersi, nel governo delle città, che i Penati, i Cofferati, i Chiamparino sono costretti ad agire in modo non molto differente rispetto ai colleghi di centrodestra. Bene dunque ha fatto ieri il sindaco di Roma Walter Veltroni, rispondendo su Repubblica a un lettore di sinistra spaventato da retropensieri intolleranti, a dire che la sicurezza non è un concetto né di destra né di sinistra, ma un diritto. Può essere l’inizio di una battaglia culturale, fatta anche di parole. Poi, certo, le parole non bastano, anche per questo Blair ha governato a Londra per dieci anni e il “poliziotto” Sarkozy è stato eletto presidente dai francesi. Sui temi della sicurezza — lo ha capito anche Zapatero — le sinistre europee si giocano gran parte della loro credibilità di governo ed è più probabile che il futuro leader del Partito democratico nasca da un serio piano di idee nuove su questo fronte che dalle trattative sul coordinatore ragioniere.

AVVENIREPag 2 Quel “guardare” la realtà che convince sulle sfide di Marina CorradiE’ capitato al sindaco di Torino sulla droga

Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, Ds, è andato a farsi un giro in quello che nella sua città è chiamato "Tossic park", un'area della periferia che è un grande mercato al dettaglio della droga. Ha visto, racconta al Corriere, professionisti, ragazzi e operai coi seggiolini per i bambini montati sulla Panda, tranquillamente venire a rifornirsi di coca. Ha visto coi suoi occhi la "normalità" e l'ampiezza di un mercato che, stando alle statistiche, riguarderebbe oltre il 20% di giovani e quarantenni, e dopo una vita passata a sostenere l'antiproibizionismo ha cambiato idea: «È ora di punire chi si droga. La modica quantità è una ipocrisia». E propone, per i consumatori di coca, sanzioni non penali: giornate di lavoro, a pulire le strade e a tener compagnia ai vecchi nelle case di riposo. Non il carcere, ma tempo speso a fare qualcosa di utile per gli altri. Chiamparino dice che «bisogna mettere un argine al messaggio che drogarsi non è un problema». Che non si può chiudere gli occhi, se ormai è normale che sempre più persone abbiano bisogno di una sostanza, per vivere. È un'idea che non piacerà ai vecchi compagni di strada della battaglia antiproibizionista. Ma ciò che è più interessante, di questa inversione di rotta, è che è accaduta quando l'uomo di partito, il politico è andato, e ha "visto" quella periferia. In incognito, presumiamo, giacché l'auto blu avrebbe disturbato il mercato. Come un qualsiasi cittadino, Chiamparino è sceso in strada. E il numero, e l'aspetto da gente del tutto "regolare" degli acquirenti lo ha impressionato. Dopo anni di ideologia sulla droga, in quella piazza come un pugno - l'insostenibile urto della realtà. Non si può accettare, si è detto il sindaco, che sempre più in tanti trovino normale consumare stupefacenti. Non si può continuare in quella logica del "consumo personale, della "modica quantità", insomma di quel privato "farsi", di cui da anni si afferma da pulpiti mediaticamente forti che non dev'essere un reato, e nemmeno un problema. Il sindaco che è andato a vedere ha scoperto che la sua rotta era sbagliata. Gli è venuto un dubbio: la droga alimenta sì un mercato criminale, ma non è autorizzandolo che si risolve il problema. Ciò che viene detto "legale" tende facilmente a diventare sempre più "normale". E il fatto che sempre più in tanti abbiano bisogno di coca, la droga della lucidità, la droga che rende brillanti, è il segno di una collettiva crescente impotenza sulla vita reale, che la politica non può permettersi di ignorare. Ma questa presa d'atto è avvenuta solo quando l'amministratore è andato, e ha visto. L'ideologia, diceva la filosofa ebrea Hannah Arendt, è ciò che impedisce di vedere la realtà. Ideologia è avere già deciso a priori, in rigida coerenza con le proprie astratte teorie, che cosa è giusto e

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cosa sbagliato. C'è chi è così profondamente ideologico nella sua struttura mentale da negare l'evidenza del dato. Anche un bambino riconosce in un embrione di poche settimane il principio di un uomo: ma non chi a priori ha stabilito che quello "non è" un uomo. Ciò che cambia lo sguardo, è guardare senza avere comunque già deciso. È il farsi attraversare dalla realtà; con l'onestà di lasciarla parlare.

Pag 33 Uomini o scimpanzè? di Luigi Dell’AglioSulla Terra e nell’universo, spiega il genetista americano Francisco Ayala, non esiste nulla di paragonabile alla nostra specie

L'uomo è unico, sulla Terra e nell'Universo. La scienza, il pensiero, l'arte, la tecnologia, le opere di solidarietà non derivano da una sua necessità biologica di rispondere alle richieste dei suoi geni, ma dalla sua personalità, genialità e sensibilità. Lo afferma uno dei maggiori genetisti viventi, Francisco J. Ayala, professore di biologia e filosofia all'Università della California, a Irvine, che è stato presidente dell'American Association for the Advancement of Science, e membro del President's Committee of Advisors of Science and Technology, cioè consigliere scientifico dei presidenti Usa. All'Università di Roma, Ayala ha partecipato ieri al convegno "Etica e altruismo nella storia evolutiva dell'uomo".Professore, lei da scienziato evoluzionista ritiene che l'etica e la morale dell'uomo siano frutto dell'evoluzione biologica, come i comportamenti dei primati?«Il genoma umano è fatto di 3 miliardi di "lettere". E così pure il genoma delle scimmie bonobo. Il 99% del genoma è identico nell'uomo e nei bonobo; le due specie lo hanno ereditato dal loro ultimo antenato, un primate vissuto circa sette milioni di anni fa. Il genoma dell'uomo e quello del bonobo differiscono soltanto nell'uno per cento delle "lettere"».Trenta milioni di "lettere". E quanto contano?«Moltissimo. Certo siamo simili ai bonobo per non poche caratteristiche. Per esempio, gli enzimi cellulari responsabili della maggior parte dei processi vitali, sono identici o quasi. Ma siamo diversi dai bonobo (e dagli altri primati) per alcuni aspetti fondamentali, che ci distinguono nettamente come umani. Il peso del nostro cervello (circa un chilo e 300 grammi), che è quattro volte quello dei bonobo (soli 300 grammi). Il bipedismo (la possibilità di camminare eretti su due gambe). L'opponibilità del pollice alle altre dita, che permette la presa di precisione. La capacità di manipolare gli oggetti più svariati. Decisiva infine l'ovulazione criptica (o occulta), t ipica della femmina della specie umana; un aspetto essenziale perchè facilita la formazione della famiglia molecolare, fondata sulla coppia. Negli scimpanzè e nei bonobo, il maschio sa quando la femmina è fertile, perciò può lasciarla e andare in cerca di altre femmine. Nella specie umana, invece, il maschio non sa quando la femmina è fertile. Di conseguenza, l'uomo non abbandona la donna, vuole essere certo che sono suoi i figli che lei metterà al mondo. E resta con lei a formare la coppia».Si discute sulle forme di «altruismo» fra i primati.«Intendiamoci: non è un comportamento propriamente "morale". È governato dal calcolo dei geni. La costituzione genetica dei primati li induce a comportarsi in maniera da favorire il successo riproduttivo e la sopravvivenza. L'altruismo umano è invece un comportamento morale perché attuato "in considerazione degli altri" (una persona sceglie di rischiare la vita o di sopportare certi "costi", a beneficio di un'altra), indipendentemente dai vantaggi che se ne possono ricavare ai fini di una maggiore sopravvivenza. L'altruismo umano è reso morale dall'intenzione e dalla motivazione del comportamento. Grazie all'intelligenza, l'uomo è in grado di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. I codici morali dell'uomo sono determinati dalla storia culturale, non dagli interessi dei suoi geni».Per questo l'uomo è unico?«Le specie si adattano all'ambiente per mezzo della selezione naturale. Solo gli uomini cambiano l'ambiente perché risponda alle loro esigenze. Gli uomini non sono stati ad attendere che una mutazione genetica facesse loro crescere le ali e li mettesse in grado di volare: hanno conquistato il cielo con gli aerei. Non hanno atteso di avere gli apparati di locomozione marina dei pesci: hanno costruito navi e solcato i mari. Non hanno sperato che l'evoluzione permettesse loro anche di "galleggiare" senza gravità: si sono lanciati nello spazio per colonizzarlo. Questa è l'evoluzione, come la vedo io. E, aggiungo, non contrasta affatto con l'insegnamento della Chiesa».

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Quando si ha l'evidenza scientifica che l'uomo primitivo sta passando «dalla natura alla cultura»?«La prima evidenza di cultura si ha con l'Homo Habilis, circa due milioni di anni fa. L'Homo Habilis realizza e usa rudimentali oggetti di pietra. Nei primi milioni di anni di evoluzione degli ominidi, il cervello resta piccolo (è paragonabile a quello dei bonobo), ma gradualmente cresce. Anche la cultura è più sofisticata: gli oggetti di pietra sono più elaborati; più tardi ci saranno pitture, piccole sculture, linguaggio, che portano a uno straordinario esercizio della fantasia, tale da tradursi nelle diverse tecnologie dell'uomo moderno».E quand'è che l'uomo acquista coscienza di sé?«Gli strumenti di pietra dell'Homo Habilis, la sua cultura semplice possono già indicare un'incipiente consapevolezza della propria intelligenza. In ogni caso, esiste già una coscienza di sé quando i nostri antenati ominidi cominciano a seppellire i morti. L'autocoscienza implica la consapevolezza di dover morire, come individui. Ne deriva il rituale della sepoltura del defunto. L'Homo Habilis (e anche l'uomo moderno) trattano i defunti con rispetto perché desiderano essere trattati con la stessa pietas quando toccherà a loro».L'uomo è unico anche nell'Universo?«L'uomo è apparso sulla Terra dopo miliardi di anni di evoluzione, durante i quali erano nate più di un miliardo di specie. Più del 99% di queste, però, si erano estinte. Inoltre, per l'evoluzione della nostra specie, sono stati necessari molti milioni di eventi, indipendenti e altamente improbabili. Una tale concatenazione di circostanze ha zero probabilità di ripetersi (e di essersi ripetuta) in un'altra parte dell'universo».

IL GAZZETTINOPag 1 La stanca classe politica italiana e la lezione di Sarkò e Ségolène di Riccardo Calimani

«Non vi mentirò mai» ha dichiarato ai francesi Sarkozy nel suo discorso in occasione della recente vittoria. C'è da credergli. Si tratta di una promessa terribilmente impegnativa per un capo politico sul quale sicuramente i riflettori saranno puntati per cercare di cogliere ogni minima contraddizione e al quale molti sarebbero felici di dare del bugiardo. Nel corso di tutta la campagna elettorale Sarko, come lo chiamano i francesi, ha manifestato le proprie opinioni su numerosi temi con grande chiarezza e determinazione spiegando che quelle erano le sue idee e che gli elettori potevano sceglierlo se le condividevano. Ritengo che sia stata questa, al di là dei contenuti, la sua vera arma per vincere e convincere. Al contrario, la sua rivale Royal ha affermato che su svariate questioni sociali le forze politiche avrebbero dovuto mettersi d'accordo dopo un dialogo e che lei si sarebbe attenuta alle loro decisioni. Questa apparente democraticità è stata interpretata da molti francesi come vaghezza e indecisione ed ha colpito negativamente anche elettori che avrebbero potuto essere dalla sua parte. "Da Sarkozy so cosa mi posso aspettare -mi ha detto un amico di sinistra -dalla Royal non lo so". Un leader politico deve tracciare la via o deve soltanto mediare e rendere operative le conclusioni collegiali prese da altri? I francesi hanno dimostrato chiaramente che preferiscono qualcuno che indichi con decisione la via da seguire. Le recenti elezioni hanno anche mostrato in modo inequivocabile che la Francia desidera voltar pagina e agire, rinnovando radicalmente la propria classe dirigente. L'affluenza alle urne è stata altissima e la sfida ha suscitato nell'opinione pubblica francese una passione e un entusiasmo molto forti, quasi un tifo da stadio. Il dibattito tra i due sfidanti è durato ben due ore e quaranta e oltre venti milioni di telespettatori vi hanno assistito, tant'è che le strade erano deserte, come era accaduto prima soltanto durante le partite di calcio che avevano vista impegnata la nazionale francese. È ben vero che nel citare le cifre entrambi i contendenti sono caduti in grossolani errori, immediatamente messi in risalto il giorno dopo dalla stampa: significativo è stato quello relativo alla percentuale dei consumi di energia di origine nucleare in Francia. La Royal ha parlato di una percentuale del 17%, Sarkozy del 50%. In realtà si trattava di un 68%. La questione non è secondaria perché l'ecologia è stata una dei temi centrali della campagna elettorale. Ciò nonostante, i due contendenti hanno dato vita ad un dibattito politico estremamente concreto, centrato sui temi della vita politica e sociale, senza indulgere troppo a divagazioni ideologiche. E noi in Italia? Abbiamo qualcosa da imparare? Purtroppo sì, senza esitazione. Abbiamo una classe politica vecchia e i cinquantenni come Sego e Sarko sono un vero miraggio. Da noi le fumisterie e le mediazioni sono all'ordine del

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giorno e la chiarezza delle idee è un pio desiderio. Le incrostazioni sociali e politiche sono tenacissime e la gabbia che ci opprime impedisce al nostro Paese non solo di diventare più serio e competente, ma anche di impedire quella decadenza che sarà inevitabile senza una ventata di aria fresca. I dibattiti tra i nostri politici sono dei minuetti privi di passione nei quali prevalgono clientelismo ed individualismo e in cui i protagonisti si scambiano accuse reciproche e stigmatizzano gli errori degli avversari piuttosto che esporre i loro programmi. Gli elettori, sprofondati nel loro sacrosanto torpore, non partecipano, non hanno uno scatto di orgoglio e di fierezza nazionale, non si sentono un popolo e sembrano rassegnati o indifferenti. Non dico che dovremmo giocare come fanno qualche volta i francesi alla rivoluzione, ma, caro lettore, credimi, dopo una settimana vissuta in Francia alla vigilia delle elezioni, il ritorno in Italia appare una gita ad un lago stagnante.

LA NUOVAPag 4 Legalità e chiacchiere di Mino Fuccillo

Sarà la ventesima volta in dieci anni che Veltroni dice che la legalità è un valore per tutti, altro che destra e sinistra. E lo hanno detto nel tempo D’Alema e Prodi, Rutelli e Fassino, Violante e, qua e là, anche Bertinotti. Non c’era bisogno di Sarkozy per riscoprire l’acqua calda. Il problema è che la «gente», di destra, di sinistra e di niente, ostinatamente continua a pensare che la legalità sia una cosa di destra. E’ singolare che questo accada in un paese dove la «cultura di destra» da un paio di decenni carezza, scusa, quando addirittura non rivendica con orgoglio, l’illegalità quotidiana. Evasione fiscale, voto di scambio, comparaggio negli affari, lavoro nero... ce ne sarebbe da organizzare un festoso “Illegal Day”. Ma un motivo c’è per cui alla sinistra legalitaria la gente non crede. Provate infatti ad accompagnare alla parola legalità quella che ne è l’ineliminabile corollario e cioè: repressione. Al risuonar di queste sillabe la «cultura di sinistra» si defilerà irrigidita e scontrosa. La legalità a sinistra non prevede repressione e quindi cammina zoppa. Ma il paese, la gente, vuole legalità e repressione? Certo! Anzi, certo per niente. La richiesta, assordante, è quella di una «legalità lottizzata». Un blocco stradale è un diritto se lo fanno oggi i taxisti e ieri i produttori di latte ed è invece reato se lo fanno i cassaintegrati di una fabbrica. Oppure viceversa, dipende. L’abusivismo edilizio è reato e l’occupazione di case è diritto. Oppure viceversa, dipende. Ogni parte politica e ogni parte della società sottrae le «sue» eccezioni alla legalità. E, in caso di repressione, grida al sopruso. E’ cultura diffusa e «trasversale», va in onda ogni giorno in tv: giusta è la giustizia che ti dà ragione, ogni imputato, oltre che un avvocato, ha il suo comitato. E la legalità invocata è una «legalità territoriale»: pochi in piazza contro lo schiavismo, tutti in strada perché le prostitute minorenni vadano in un’altra strada, diversa da quella sotto casa. Ed è tutta una piazza vociante questo paese. Napolitano dice l’ovvio: che la galera dovrebbe essere per i reati gravi. I detenuti fiutano l’occasione televisiva e rilanciano «Amnistia!». Chiamparino va in prima pagina sotto il titolo: «Punire chi si droga». Poi leggi che non si sogna sanzioni per chi fuma spinelli, ma per chi tira cocaina. Nulla è stato più impopolare dell’indulto, ma prova a dar galera a una banda da stadio o a chi blocca una discarica e si opporranno sindaci, deputati, sindacalisti e parroci. E ogni stupratore è sempre, per mamma sua, una vittima di «quella». E ogni scippatore è sempre, per la sua tribù, creditore di «dialogo». E ogni sicurezza reclamata è sempre un diritto e mai un dovere. Quindi, quando Berlusconi e Fini diranno che sono illegali e da reprimere gli evasori, quando Veltroni e Prodi diranno che è illegale e da reprimere il picchettaggio No Tav, quando la gente considererà illegale la colf al nero e non considererà un infame il vigile che ti multa l’auto in doppia fila, solo allora la legalità sarà bisogno di massa e non stizza di gruppo e non avrà padrini né di destra né di sinistra. Fino ad allora invece, come diceva De Niro-Al Capone, sarà solo «chiacchiere e distintivo». Poi arrivavano gli «Intoccabili». Ma era un film.

VITA NUOVA (settim. dioces. di Trieste) di venerdì 4 maggio 2007 Pag 17 Le vongole de Marghera di GrazielaL’angolo del dialetto

L’altro venerdì go visto sul banco de la pescheria rional un cesto pien de vongole. Le costava bastanza, ma go volù cavarme la voia de una bela pastassuta condida con quele. Una volta la preparavo spesso, come el risoto de caperozoli o de scampi, che ghe piaseva a mio marì, ma per mi sola no bazilavo, no me meritava perder tanto de quel

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tempo per camibiarghe almeno cinque volte l’aqua col sal per esser sicura che le butassi fora tuta la sabia. Iera l’ocasion per invitar a zena i fioi. Coss’ che me piasi averli tuti per casa... In fondo la pasta cussì condida se fa presto: intanto che se scalda l’aqua per i spagheti, se meti in una larga farsora oio, aio, persemolo e un fià de pangratà. Col comincia a ciapar color se buta dentro i moluschi, se bagna co un fu de viti bianco e se coverzi. Sai solo se ocori. Co la pasta xe cota al dente, se la meti in farsora, girandola in modo che la se inzumbi nel sugheto e se zonta una impeverada co la xe nei piati. Qualche volta la servo cussì, qualche altra cavo tute o solo un poche de scorze, e fa alegria solo veder sto piaton profumà de mar. E po’ venerdì magnar pesse xe una sana tradizion. ‘Ssai ben xe andà, me pareva de esser tornada ai veci tempi. Domenica matina, però, un articolo de un giornal nazional me ga fato gelar el sangue ne le vene: le vongole che noi compremo le saria per la magior parte velenose, per via che pescadori de frodo — no quei de mestier — le ingruma nei canai dove la Petrolchimica de Marghera scaniga i sui veleni e, co la complicità de altri disonesti, fa certificati falsi che le fa passar per sane. E invece le contien un livel de pericolosità per la salute 45 volte più alto dei limiti! E ne le pescherie nissun pol acorzese e noi, tranquii, le magnemo. Pan, secondo el giornal che fruti ‘ssai soldi: in un’ora de lavor un pescador de frodo guadagna fitta a duemilacinquecento euro. La guardia de finanza ghe fa guera continua, ma qualchedun scampa sempre. Ei bei xe che, co lego comprade, me gaveva dispiasso de no aver trovà quele bele grosse, le ‘veraci’, ma — iera scrito sul giornal — quele grandi xe le pezo, le cressi tanto perché col caldo de le aque de scarigo le se svilupa de più e le xe ancora più velenose. Sarà stada la sugestion, ma subito za co legevo me xe vignù mal de panza. Go telefonà ai fioi per sentir come che i se sentiva, ma ancora prima che podessi parlar me son sentida dir: «Ah, mama, che bona la vongolada de l’altra sera. Te ne farà presto un’altra?». No go avù coragio de dir gnente. Me son racomandada a tuti i santi che ne vardi la salute e go deciso... Anzi, no, no go deciso de no leger più nissun giornal per no saver gnente o viver senza preocuparme più de gnente. E vado a far la spesa cantando (sotovose, che no i me ciapi per mata) «Voglio una vita spericolata». Che bravo Vasco Rossi!

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