Rassegna stampa 9 giugno 2016 · essere un oggetto per l’altro e non accetta un copione...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 9 giugno 2016 SOMMARIO Sulla Nuova il prof. Vittorino Andreoli commenta l’ennesimo tragico evento di “femminicidio” (ieri accaduto in provincia di Pordenone ed oggi ce n’è stato ancora un altro in provincia di Verona…): “«Perché gli uomini odiano le donne? Perché è come se la società tutta intera fosse tornata indietro nel tempo. Nell’immaginario maschile, le donne sono tornare ad essere percepite come “cose” che non possono esistere se non appartengono ad un uomo. Niente è più pericoloso di questa visione del mondo. E per cambiare questa cultura serve qualcosa di più radicale di leggi anche volenterose». Il professor Vittorino Andreoli psichiatra veronese di fama mondiale, membro della New York Academy of Sciences, ha un’idea precisa di quello sta accadendo nella relazione tra uomini e donne. Un’idea drammatica che definisce «apocalisse familiare». Mariti, compagni, amanti, che si trasformano in assassini. Perché gli uomini sono diventati così incapaci di rielaborare un rifiuto? «La faticosa costruzione della libertà femminile ad un certo punto, si è improvvisamente bloccata. Così, se da un lato le donne hanno raggiunto alti livelli di emancipazione nelle professioni e nella società, nel privato sono rimaste impigliate in un modello stereotipato di famiglia e di potere. In realtà, c’è stata una regressione nei rapporti uomo-donna e picchiare una donna è tornato ad essere un segno di potere. Non è stata raggiunta una vera parità sociale e il riacutizzarsi della violenza di genere lo dimostra. Purtroppo il femminicidio non è un fenomeno che finirà presto, se non ci sarà un cambiamento soprattutto negli uomini». Ma perché uccidono solo gli uomini? «Chi uccide lo fa in balia di un impulso predatorio e si parla dell’uomo-pulsionale privo di freni inibitori che attinge la forza di compiere quel gesto spinto dal desiderio di “distruttività”. Per questo il più delle volte uccidono le loro compagne quando decidono di lasciarli. Solitudine e umiliazione sono parole che non riescono ad affrontare, hanno più coraggio ad affrontare la morte. Magari rispettano il proprio “nemico” fuori casa e vengono descritti da colleghi e vicini come persone per bene, ma sono violenti con chi condividono la vita. La donna invece ha una percezione di se stessa più definita». Sara Di Pietrantonio credeva di poter controllare la violenza di chi poi l’ha uccisa. Sono molte le donne che rimangono vittime della stessa illusione. Si può dare a loro un consiglio? «Non si possono semplificare troppo le relazioni, i sentimenti. Soprattutto i giovani tendono a considerare storie d’amore, relazioni partite magari da una conoscenza sui social. E quando quella persona la conosciamo profondamente magari è già troppo tardi»”. E sul Corriere della Sera Claudio Mencacci commenta: “L’orrore a cui assistiamo in queste giornate, legato all’aumento dei delitti contro le donne, indica come motivazione apparente la non accettazione dell’abbandono. È bene chiarire fin da subito che questi atti di violenza non hanno giustificazioni né attenuanti, né tantomeno si tratta di persone, nella stragrande maggioranza dei casi, affette da patologie mentali. Troppo spesso vengono date delle giustificazioni (inaccettabili) legate alla gelosia che purtroppo ancora e troppo spesso non consentono di riconoscere quello che c’è dietro: il senso di proprietà, il bisogno di controllo, l’ostilità, l’odio e l’invidia. Esiste un continuum tra una gelosia fisiologica e una gelosia che progressivamente si trasforma in patologica. La difficoltà sta proprio nell’individuazione della linea di demarcazione: nel non confondere l’amore con queste forme di possesso, che nulla hanno a che vedere con l’amore. Nell’eccesso di gelosia c’è egoismo, un amore con metastasi di odio. Assistiamo spesso a un’escalation della gelosia: aumentano i dubbi, si intensificano i controlli alla ricerca di una prova, la ferita narcisistica di questi uomini si approfondisce: non tollerano il dolore per un distacco, né il peso di una separazione, né l’accettazione di una realtà (il rapporto è finito). Per loro il rapporto si fonda su una sorta di proprietà intangibile, non accettano l’idea che un accordo vive e si rinnova finché entrambi lo valutano fertile. E non considerano la relazione come dialogo, scambio, rispetto, ma un rapporto tra

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 9 giugno 2016

SOMMARIO

Sulla Nuova il prof. Vittorino Andreoli commenta l’ennesimo tragico evento di “femminicidio” (ieri accaduto in provincia di Pordenone ed oggi ce n’è stato ancora un altro in provincia di Verona…): “«Perché gli uomini odiano le donne? Perché è come se la società tutta intera fosse tornata indietro nel tempo. Nell’immaginario maschile, le donne sono tornare ad essere percepite come “cose” che non possono esistere se non appartengono ad un uomo. Niente è più pericoloso di questa visione

del mondo. E per cambiare questa cultura serve qualcosa di più radicale di leggi anche volenterose». Il professor Vittorino Andreoli psichiatra veronese di fama mondiale,

membro della New York Academy of Sciences, ha un’idea precisa di quello sta accadendo nella relazione tra uomini e donne. Un’idea drammatica che definisce «apocalisse familiare». Mariti, compagni, amanti, che si trasformano in assassini.

Perché gli uomini sono diventati così incapaci di rielaborare un rifiuto? «La faticosa costruzione della libertà femminile ad un certo punto, si è improvvisamente bloccata.

Così, se da un lato le donne hanno raggiunto alti livelli di emancipazione nelle professioni e nella società, nel privato sono rimaste impigliate in un modello

stereotipato di famiglia e di potere. In realtà, c’è stata una regressione nei rapporti uomo-donna e picchiare una donna è tornato ad essere un segno di potere. Non è stata raggiunta una vera parità sociale e il riacutizzarsi della violenza di genere lo dimostra. Purtroppo il femminicidio non è un fenomeno che finirà presto, se non ci sarà un cambiamento soprattutto negli uomini». Ma perché uccidono solo gli uomini?

«Chi uccide lo fa in balia di un impulso predatorio e si parla dell’uomo-pulsionale privo di freni inibitori che attinge la forza di compiere quel gesto spinto dal desiderio

di “distruttività”. Per questo il più delle volte uccidono le loro compagne quando decidono di lasciarli. Solitudine e umiliazione sono parole che non riescono ad

affrontare, hanno più coraggio ad affrontare la morte. Magari rispettano il proprio “nemico” fuori casa e vengono descritti da colleghi e vicini come persone per bene,

ma sono violenti con chi condividono la vita. La donna invece ha una percezione di se stessa più definita». Sara Di Pietrantonio credeva di poter controllare la violenza di chi poi l’ha uccisa. Sono molte le donne che rimangono vittime della stessa illusione.

Si può dare a loro un consiglio? «Non si possono semplificare troppo le relazioni, i sentimenti. Soprattutto i giovani tendono a considerare storie d’amore, relazioni

partite magari da una conoscenza sui social. E quando quella persona la conosciamo profondamente magari è già troppo tardi»”. E sul Corriere della Sera Claudio Mencacci

commenta: “L’orrore a cui assistiamo in queste giornate, legato all’aumento dei delitti contro le donne, indica come motivazione apparente la non accettazione

dell’abbandono. È bene chiarire fin da subito che questi atti di violenza non hanno giustificazioni né attenuanti, né tantomeno si tratta di persone, nella stragrande

maggioranza dei casi, affette da patologie mentali. Troppo spesso vengono date delle giustificazioni (inaccettabili) legate alla gelosia che purtroppo ancora e troppo spesso non consentono di riconoscere quello che c’è dietro: il senso di proprietà, il bisogno

di controllo, l’ostilità, l’odio e l’invidia. Esiste un continuum tra una gelosia fisiologica e una gelosia che progressivamente si trasforma in patologica. La difficoltà sta proprio

nell’individuazione della linea di demarcazione: nel non confondere l’amore con queste forme di possesso, che nulla hanno a che vedere con l’amore. Nell’eccesso di

gelosia c’è egoismo, un amore con metastasi di odio. Assistiamo spesso a un’escalation della gelosia: aumentano i dubbi, si intensificano i controlli alla ricerca di una prova, la ferita narcisistica di questi uomini si approfondisce: non tollerano il dolore per un distacco, né il peso di una separazione, né l’accettazione di una realtà (il rapporto è

finito). Per loro il rapporto si fonda su una sorta di proprietà intangibile, non accettano l’idea che un accordo vive e si rinnova finché entrambi lo valutano fertile. E non considerano la relazione come dialogo, scambio, rispetto, ma un rapporto tra

chi domina e chi è sottomesso, non riescono neppure a concepire la condizione di diventare un ex. La risposta è la rabbia, violenza nei confronti di chi dimostra di non

essere un oggetto per l’altro e non accetta un copione fallimentare. Questa non accettazione è parzialmente spiegabile con il fatto che questi uomini non sono

attrezzati, né vogliono acquisire strumenti, per tollerare la perdita. La vita è un susseguirsi di perdite (si perdono la giovinezza, i genitori, i figli quando crescono, il

lavoro invecchiando, ecc.) e occorre attrezzarsi per superare quelle che sono inevitabili demoralizzazioni, tristezze e depressioni. Le domande da porsi oggi sono le seguenti: fino a che punto è tollerabile la gelosia? Perché continuiamo a confondere l’amore passionale con la gelosia passionale? Cosa fare per avviare un’educazione

sentimentale e affettiva in grado di condannare l’eccesso di gelosia, come avviene in altri campi, con l’omofobia o la xenofobia? Gli uomini devono essere educati fin da giovani a rispettare e a non usare violenza verso le donne, ma parallelamente le

donne devono imparare a difendersi e a denunciare queste violenze riconoscendo fin dall’inizio che un partner che manca loro di rispetto, che eccede nel controllo, che

alza le mani, non va accettato e andrebbe lasciato senza paura. I sentimenti si modificano nella società e nella cultura che li animano, è arrivato ora il tempo di

bandire moralmente ed eticamente l’eccesso della gelosia e di far crescere anticorpi contro la non tolleranza delle perdite e delle separazioni. La gelosia, che Shakespeare chiamava «il mostro dagli occhi verdi», va differenziata dall’invidia e va controllata nelle sue manifestazioni con grande attenzione. Sia gelosia sia invidia sono legate a

una bassa autostima spesso mascherata da emozioni sgradevoli come rabbia, rancore, ostilità. Entrambe, se non tenute a bada, possono sfociare in violenza. La frase «né con me né senza di me» premedita la possibilità di un omicidio spesso seguito dal

suicidio di chi lo commette. Come scrive Paul Müllen «la gelosia è un sentimento da sfuggire se possibile, da controllare se non si riesce a sfuggirne, da curare se non

riesce a controllare»”.

Su www.patriarcatovenezia.it è disponibile il testo integrale dell’omelia pronunciata questa mattina dal Patriarca Francesco Moraglia nella basilica della

Salute, a Venezia, in occasione della Messa per i Giubilei sacerdotali (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXVI Il Cristo restaurato ritornerà in chiesa di Vettor Maria Corsetti E’ quello di Cavazuccherina che sarà visitabile per 4 mesi LA NUOVA Pag 23 Gite e pellegrinaggi sicuri, intesa Brusutti – Patriarcato di Nadia De Lazzari Siglato un protocollo Pag 36 Torna nella “sua” Jesolo il Crocefisso del Trecento di Giovanni Cagnassi CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Torna a Jesolo il crocefisso di “Cavazuccherina” di A.D’E. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Al lavoro per la riforma del processo matrimoniale Il Pontefice affida il coordinamento alla segreteria generale della Conferenza episcopale italiana Pag 8 Il vino buono della famiglia All’udienza generale Papa Francesco commenta l’episodio evangelico di Cana. E ringrazia

per la belle testimonianza chi celebra le nozze d’oro AVVENIRE Pag 3 La riforma della Chiesa? Sono le opere di misericordia di Stefania Falasca Oltre i piccoli gesti: il Papa chiede di agire con efficacia Pag 18 Nullità delle nozze, tavolo alla Cei di Mimmo Muolo Lettera del Papa. Il coordinamento affidato al segretario generale. Un aiuto concreto ai vescovi: in tempi brevi un testo per l’attuazione della riforma WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT O tutti o nessuno. La sinodalità che fa naufragare il Concilio di Sandro Magister A pochi giorni dalla sua apertura, il Concilio panortodosso rischia di fallire. I patriarcati di Bulgaria, di Georgia e di Antiochia annunciano il ritiro, e Mosca dà loro man forte. A seminare discordia l'abbraccio tra Kirill e papa Francesco 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 25 La gelosia è egoismo, non c’entra con l’amore di Claudio Mencacci CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Le assunzioni e il picco del 2015, più della metà grazie agli sgravi di Gianni Favero LA NUOVA Pag 5 Il prof. Andreoli: “Donne come cose. Non c’è niente di più pericoloso” di Fiammetta Cupellaro 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ AVVENIRE Pag 11 Oltre 11 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi di Alessia Guerrieri IL GAZZETTINO Pag 1 Se il cittadino per risparmiare non si cura più di Silvio Garattini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III Canal Grande a rischio col record di incidenti di Tomaso Borzomì e Tullio Cardona La principale via d’acqua della città in 6 anni ha fatto registrare 68 scontri, con un morto. Gondole, come evitare le tragedie. I gondolieri: “In troppi corrono e se ne fregano” Pag V Sfratti, da 504 a 643 in un anno di Roberta Brunetti Fenomeno in crescita, altri 2.300 in attesa di esecuzione. La Curia stanzia 50mila euro CORRIERE DEL VENETO Pag 8 Oltre tremila sfratti per morosità. Accordo per aiutare le famiglie di Gloria Bertasi La Curia mette 50mila euro, il Comune ha pronto il nuovo bando per le case pubbliche LA NUOVA Pag 18 Emergenza sfratti, nove casi su dieci in comune di Venezia di Giacomo Costa In città sono 643 gli inquilini messi alla porta nel 2015. Il Patriarcato stanzia 50mila euro per le situazione critiche

8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 4 – 5 Ammazza l’ex fidanzata, lo scrive agli amici e si spara di Cristina Antonutti, Mauro Favaro, Paola Treppo e Maria Santoro Tragedia a Spilimbergo. Ritratto del carnefice e della vittima. Il sociologo: “Un gesto studiato: internet ha scandito i suoi passi” CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il crimine e le ragioni di Stacchio di Massimiliano Melilli 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 23 di Gente Veneta in uscita venerdì 10 giugno 2016: Pagg 1, 6 – 7 Quattro sì per Dio e per i fratelli di Lorenzo Mayer Ritratto dei quattro giovani che sabato 18 saranno ordinati sacerdoti dal Patriarca Francesco. Controcorrente ma ammirati: chi sono i nuovi preti Pag 1 Non votare, come lasciare le chiavi di casa ad altri di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 3 Patriarcato, fondo di 50mila euro anti-sfratto di Serena Spinazzi Lucchesi Firmato un protocollo con la Prefettura, il Comune, l’ordine degli avvocati e le associazioni inquilini e proprietari. Andrà alle famiglie che a causa della crisi non riescono a pagare l’affitto Pag 11 Il Patriarca e l’attualità di Caburlotto: «La sfera educativa per risanare la società» di Francesca Catalano Martedì scorso la messa di ringraziamento a un anno dalla beatificazione. «Se la fede non si accorge della realtà, non è la fede del Vangelo». Nicola Gori: «Se Caburlotto fosse vissuto nella nostra epoca avrebbe individuato nuove periferie in cui portare la carità e il Vangelo» Pag 14 Il Patriarca: «Nelle collaborazioni pastorali aspetto un coinvolgimento forte soprattutto dei genitori» di Giulia Busetto Mons. Moraglia alla liturgia che avvia la collaborazione pastorale fra le parrocchie di Dese, Sant’Andrea, San Leopoldo Mandic e San Pietro di Favaro Pag 15 Via al cantiere del rustico: Casa di Anna avanza di Giorgio Malavasi Sabato 11 festa per la consegna del cantiere: il fabbricato del ’700 diventerà entro l’anno il cuore della fattoria solidale. Piero Pellegrini: «Questo non è un luogo per soli disabili: sta diventando uno spazio bello per tutti. Ed è anche un’azienda» Pagg I – VIII L’antico Crocifisso di Cavazuccherina torna a Jesolo: la storia di una riscoperta. Cinque secoli di arte e devozione (a cura di Pierpaolo Biral) Nel supplemento GV automobili: imposte e accise pesano sull’auto e frenano la sicurezza … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Quel vizio del voto a dispetto di Antonio Polito Elezioni nelle città Pag 3 La resa dei conti si consuma dietro gli schieramenti di Massimo Franco

Pag 19 Altro che Brexit, è la Francia la più antieuropea di Stefano Montefiori e Paolo Lepri L’Italia Paese più favorevole dopo la Polonia e l’Ungheria: a noi l’Unione piace (ma non così tanto) anche perché Bruxelles ci ha lasciati soli Pag 32 Germania, il leader mancato d’Europa di Federico Fubini e Wolfgang Münchau Pag 33 La Russia di Putin avversario strategico dell’Occidente? di Ricardo Franco Levi LA REPUBBLICA Pag 1 Il populismo lega-stellato di Ilvo Diamanti Pag 1 L'eterno ritorno del Grillo-Vaffa di Francesco Merlo Grillo fisicamente non c'è. Non partecipa alla campagna elettorale perché "lo rende stanchino". Ma mentre concede la libertà, esibisce il vecchio manganello e la prosa malata LA STAMPA La politica prigioniera di vecchi schemi di Luigi La Spina AVVENIRE Pag 1 Senza tregua di Maurizio Patriciello Ciò che serve contro la camorra Pag 7 Altri frutti amari della non integrazione LA NUOVA Pag 1 Dalle urne la palla passa a Grillo di Ferdinando Camon Pag 6 Spezzata la barriera culturale di Alberto Flores d’Arcais

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXVI Il Cristo restaurato ritornerà in chiesa di Vettor Maria Corsetti E’ quello di Cavazuccherina che sarà visitabile per 4 mesi Venezia - Il "Cristo di Cavazzuccherina" torna a casa. E poco importa se, nel frattempo, la località che per cinque secoli l'ha conosciuto come oggetto di devozione ha cambiato nome in Jesolo, e la chiesa dov'era esposto è stata distrutta durante la Grande Guerra. Perché il significato simbolico, devozionale e culturale dell'operazione voluta dall'Associazione "Monsignor Giuseppe Marcato" non perde di valore. Dalla sua incauta vendita a un commerciante a fine Ottocento da parte del parroco, e dal sequestro dell'opera imposto subito dopo dal Regio Tribunale di Venezia, il prezioso Crocefisso tardogotico risalente a un periodo compreso tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento (attribuito prima al veneziano Niccolò di Pietro, e più recentemente al Maestro della Madonna del Parto, suo allievo, oppure al prete pittore Niccolò Semitecolo), è parte integrante delle collezioni delle Gallerie dell'Accademia. Che, negli anni Novanta, l'ha sottoposto a uno scrupoloso restauro. E ieri, durante una breve cerimonia alla presenza del sindaco di Jesolo, Valerio Zoggia; dell'assessore, Paola Mar; della direttrice, Paola Marini e della curatrice, Valeria Poletto, l'ha fatto uscire dai depositi, acconsentendo a una sua "trasferta estiva" nella chiesa jesolana di San Giovanni Battista. "Crux. Il Crocefisso di Jesolo: cinque secoli di arte e devozione",

prevede l'esposizione dell'opera dal 10 giugno (festa del Patrono di Jesolo, che vedrà la partecipazione del Patriarca Francesco Moraglia) fino al 16 ottobre. «Il nostro figliolo è stato conservato benissimo. E ora, finalmente, torna a respirare l'aria di casa», ha commentato soddisfatto il sindaco Valerio Zoggia. Mentre l'assessore Paola Mar ha elogiato «questa rilettura della storia in chiave metropolitana». E Paola Marini, direttrice delle Gallerie dell'Accademia, ha ricordato che «una volta tornato in sede, il Cristo di Cavazzuccherina farà parte dai primi di dicembre del percorso espositivo di una mostra dedicata a Michele Giambono». LA NUOVA Pag 23 Gite e pellegrinaggi sicuri, intesa Brusutti – Patriarcato di Nadia De Lazzari Siglato un protocollo Protocollo d'intesa tra la società Brusutti e il Patriarcato di Venezia sulla fruizione dei servizi di trasporto per l'anno 2016. L'atto è stato firmato da Bruno Brusutti, legale rappresentante della società, e dal vicario episcopale e moderatore di Curia monsignor Dino Pistolato. La convenzione è stata presentata ieri mattina al Palazzo Patriarcale. Il sacerdote ha spiegato: «Il Patriarcato ha interesse a fruire dei servizi di trasporto della società Brusutti e a breve informeremo tutte le parrocchie della diocesi veneziana. Questa operazione prende avvio dai casi di cronaca nera che evidenziano i problemi in materia di sicurezza stradale legati al trasporto di persone. Nella nostra diocesi i viaggi, i pellegrinaggi, le gite anche all'estero sono frequenti. Per gli enti, le associazioni, i gruppi ecclesiali l'atto non è un obbligo è un'opportunità». Marco Brusutti, presidente dell'omonima Fondazione, ha precisato: «Assicuriamo automezzi in regola con le disposizioni vigenti. Abbiamo formato un gruppo di esperti, dai vigili del fuoco alla polizia stradale. Ad ogni categoria professionale è stata chiesa una valutazione. I nostri mezzi non sono al ribasso». Nella convenzione vengono elencati i prezzi delle specifiche tratte: euro 80 per il transfert all'interno del Comune; euro 330 per mezza giornata per massimo km 150; euro 480 in alta stagione (aprile-settembre) per la giornata intera entro i 300 km; euro 450 in bassa stagione (ottobre-marzo) per la giornata intera entro i 300 km; per uscite a Gardaland si segnala il trasporto a/r euro 15 a persona (minimo 30 pax) con promozioni dedicate per passeggeri extra. Per i servizi richiesti tra le ore 22 e le ore 6 viene applicata una maggiorazione. È di prossima uscita una pubblicazione. Pag 36 Torna nella “sua” Jesolo il Crocefisso del Trecento di Giovanni Cagnassi Torna nella sua casa a Jesolo il Crocefisso antichissimo, custodito nei depositi dell’Accademia di Venezia. Il “Cristo Crocefisso di Cavazuccherina”, opera lignea di autore ignoto del Trecento, è partita ieri dalle Gallerie dell’Accademia; da domani, e per i prossimi tre mesi, sarà esposto nella chiesa di San Giovanni Battista. A seguire le fasi di preparazione al “viaggio”, il sindaco di Jesolo Valerio Zoggia e la direttrice del Museo delle Gallerie, Paola Marini, l’assessore al Turismo, Paola Mar, Giuseppe Artesi, studioso di storia locale, autore della scoperta dell’appartenenza alla chiesa di Cavazuccherina. «Riportiamo a casa il nostro figliol prodigo», ha detto il sindaco, «poter esporre quest’opera conservata in maniera esemplare nella chiesa di San Giovanni Battista in periodo estivo e di grande affluenza rappresenta un orgoglio e anche una strada verso un tipo diverso di turismo, quello culturale e religioso». Nel 1889, a seguito di lavori di restauro e ristrutturazione, il parroco della chiesa di Jesolo vendette a un commerciante milanese il crocefisso che da secoli era stato conservato nella parrocchia di Cavazzucherina. La direttrice Paola Marini ha studiato i documenti d'archivio: l’opera fu sequestrata, poiché la vendita risultò illegale, oggetto di un procedimento del regio Tribunale che dispose di affidarla alle Gallerie. L’associazione “Monsignor Giovanni Marcato” ha chiesto di riportare a Jesolo l’opera che ha dimensione importanti: due metri e 10 di altezza per un metro e mezzo. CORRIERE DEL VENETO Pag 13 Torna a Jesolo il crocefisso di “Cavazuccherina” di A.D’E.

Un’opera trecentesca, conservata nelle Gallerie dell’Accademia perché considerata troppo importante per rimanere nella sua prima «culla»: la chiesa di san Giovanni Battista di Jesolo. E’ l’antico crocefisso di «Cavazuccherina» quello che a partire da domani verrà esposto a Jesolo per essere ammirato dai cittadini e dai tanti turisti durante l’intera estate (fino al 16 ottobre). La storia del crocefisso è particolare: se ne persero le tracce un secolo fa fino a quando lo studioso Giuseppe Artesi, ha ipotizzato che potesse essere identificato con quello conservato nei depositi delle Gallerie di Venezia. E ieri Paola Marini, direttore delle Gallerie lo ha «restituito» a Jesolo. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Al lavoro per la riforma del processo matrimoniale Il Pontefice affida il coordinamento alla segreteria generale della Conferenza episcopale italiana Papa Francesco ha istituito un tavolo di lavoro coordinato dal segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei) «per la definizione delle principali questioni interpretative e applicative di comune interesse», riguardanti la riforma del processo matrimoniale introdotta dal motuproprio Mitis Iudex Dominus Iesus. Nella lettera del 1° giugno scorso, indirizzata al vescovo segretario generale Nunzio Galantino, il Pontefice prende le mosse dal recente incontro con l’episcopato italiano, in occasione della sessantanovesima assemblea generale, per ricordare come tale appuntamento abbia «rappresentato un momento fecondo di comunione spirituale e di fraterno dialogo», nel quale «fra i temi discussi», ha assunto «particolare rilievo quello relativo alla riforma del processo matrimoniale». Di conseguenza, prosegue Francesco, i presuli avevano «preso atto delle diverse scelte fin qui maturate, che si sono realizzate sia mediante nuove strutture giudiziarie diocesane e interdiocesane, sia, ove ciò non sia apparso possibile o conveniente, mediante la valorizzazione» di quelle esistenti». E avevano «condiviso orientamenti relativi al regime amministrativo, organizzativo ed economico dei tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale». Per incoraggiare tale prospettiva, Francesco ritiene quindi «opportuno istituire un tavolo di lavoro, coordinato dal segretario generale della Cei». E ringrazia anticipatamente il prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, il decano del tribunale della Rota romana e il presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi «del contributo che offriranno, con la consueta fraternità e competenza» affinché la segreteria generale della Cei - è il suo auspicio - «avvalendosi del loro supporto nelle forme che riterrà più proficue, possa svolgere al meglio» questo «servizio di coordinamento». Pag 8 Il vino buono della famiglia All’udienza generale Papa Francesco commenta l’episodio evangelico di Cana. E ringrazia per la belle testimonianza chi celebra le nozze d’oro «Quello sì che è “il vino buono” della famiglia!»: così Papa Francesco ha voluto ringraziare per la loro «bella testimonianza» le coppie che festeggiavano le nozze d’oro all’udienza generale di mercoledì mattina, 8 giugno, in piazza San Pietro. Proseguendo nelle riflessioni sul tema giubilare alla luce di episodi evangelici, il Pontefice ha parlato delle nozze di Cana, dove si rivela «il primo segno della misericordia» di Gesù. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Prima di incominciare la catechesi, vorrei salutare un gruppo di coppie, che celebrano il cinquantesimo di matrimonio. Quello si che è «il vino buono» della famiglia! La vostra è una testimonianza che gli sposi novelli - che saluterò dopo - e i giovani devono imparare. È una bella testimonianza. Grazie per la vostra testimonianza. Dopo aver commentato alcune parabole della misericordia, oggi ci soffermiamo sul primo dei miracoli di Gesù, che l’evangelista Giovanni chiama «segni», perché Gesù non li fece per suscitare meraviglia, ma per rivelare l’amore del Padre. Il primo di questi segni prodigiosi è raccontato proprio da Giovanni (2, 1-11) e si compie a

Cana di Galilea. Si tratta di una sorta di «portale d’ingresso», in cui sono scolpite parole ed espressioni che illuminano l’intero mistero di Cristo e aprono il cuore dei discepoli alla fede. Vediamone alcune. Nell’introduzione troviamo l’espressione «Gesù con i suoi discepoli» (v. 2). Coloro che Gesù ha chiamato a seguirlo li ha legati a sé in una comunità e ora, come un’unica famiglia, sono invitati tutti alle nozze. Dando avvio al suo ministero pubblico nelle nozze di Cana, Gesù si manifesta come lo sposo del popolo di Dio, annunciato dai profeti, e ci rivela la profondità della relazione che ci unisce a Lui: è una nuova Alleanza di amore. Cosa c’è a fondamento della nostra fede? Un atto di misericordia con cui Gesù ci ha legati a sé. E la vita cristiana è la risposta a questo amore, è come la storia di due innamorati. Dio e l’uomo si incontrano, si cercano, si trovano, si celebrano e si amano: proprio come l’amato e l’amata nel Cantico dei Cantici. Tutto il resto viene come conseguenza di questa relazione. La Chiesa è la famiglia di Gesù in cui si riversa il suo amore; è questo amore che la Chiesa custodisce e vuole donare a tutti. Nel contesto dell’Alleanza si comprende anche l’osservazione della Madonna: «Non hanno vino» (v. 3). Come è possibile celebrare le nozze e fare festa se manca quello che i profeti indicavano come un elemento tipico del banchetto messianico (cfr. Am 9, 13-14; Gl 2, 24; Is 25, 6)? L’acqua è necessaria per vivere, ma il vino esprime l’abbondanza del banchetto e la gioia della festa. È una festa di nozze nella quale manca il vino; i novelli sposi provano vergogna di questo. Ma immaginate voi finire una festa di nozze bevendo thé; sarebbe una vergogna. Il vino è necessario per la festa. Trasformando in vino l’acqua delle anfore utilizzate «per la purificazione rituale dei Giudei» (v. 6), Gesù compie un segno eloquente: trasforma la Legge di Mosè in Vangelo, portatore di gioia. Come dice altrove lo stesso Giovanni: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (1, 17). Le parole che Maria rivolge ai servitori vengono a coronare il quadro sponsale di Cana: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (v. 5). È curioso: sono le ultime sue parole riportate dai Vangeli: sono la sua eredità che consegna a tutti noi. Anche oggi la Madonna dice a noi tutti: «Qualsiasi cosa vi dica - Gesù vi dica -, fatela». È l’eredità che ci ha lasciato: è bello! Si tratta di un’espressione che richiama la formula di fede utilizzata dal popolo di Israele al Sinai in risposta alle promesse dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19, 8). E in effetti a Cana i servitori ubbidiscono. «Gesù disse loro: Riempite d’acqua le anfore. E le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto. Ed essi gliene portarono» (vv. 7-8). In queste nozze, davvero viene stipulata una Nuova Alleanza e ai servitori del Signore, cioè a tutta la Chiesa, è affidata la nuova missione: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela!». Servire il Signore significa ascoltare e mettere in pratica la sua Parola. È la raccomandazione semplice ma essenziale della Madre di Gesù ed è il programma di vita del cristiano. Per ognuno di noi, attingere dall’anfora equivale ad affidarsi alla Parola di Dio per sperimentare la sua efficacia nella vita. Allora, insieme al capo del banchetto che ha assaggiato l’acqua diventata vino, anche noi possiamo esclamare: «Tu hai tenuto da parte il vino buono finora» (v. 10). Sì, il Signore continua a riservare quel vino buono per la nostra salvezza, così come continua a sgorgare dal costato trafitto del Signore. La conclusione del racconto suona come una sentenza: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (v. 11). Le nozze di Cana sono molto più che il semplice racconto del primo miracolo di Gesù. Come uno scrigno, Egli custodisce il segreto della sua persona e lo scopo della sua venuta: l’atteso Sposo dà avvio alle nozze che si compiono nel Mistero pasquale. In queste nozze Gesù lega a sé i suoi discepoli con una Alleanza nuova e definitiva. A Cana i discepoli di Gesù diventano la sua famiglia e a Cana nasce la fede della Chiesa. A quelle nozze tutti noi siamo invitati, perché il vino nuovo non viene più a mancare! AVVENIRE Pag 3 La riforma della Chiesa? Sono le opere di misericordia di Stefania Falasca Oltre i piccoli gesti: il Papa chiede di agire con efficacia In tre atti che restano miliari, tutti da meditare ancora per lo spessore, l’introspezione e la profondità che hanno espresso, papa Francesco ha sviscerato nel giorno centrale del Giubileo dei preti – giovedì scorso – tutto il senso della misericordia. Nel succo di questo senso, tutto da meditare non solo per i preti, c’è anche questa considerazione: «L’amore

va posto più nelle opere che nelle parole». Quali opere? «Quelle che il Padre 'ha preparato perché in esse camminassimo' ( Ef 2,10), quelle che lo Spirito ispira a ciascuno per il bene comune (cfr 1 Cor 12,7)». Perciò si deve desiderare e chiedere – ha detto Francesco – anche uno sguardo che impari a discernere i segni dei tempi nella prospettiva di quali opere di misericordia sono necessarie oggi per la gente, «per poter sentire e gustare il Dio della storia che cammina in mezzo a noi» e perché «nelle nostre opere il nostro popolo sa che comprendiamo il suo dolore». Quindi, senza ipocrisia, «ora si tratta di 'agire', e non solo di compiere gesti ma di fare opere, di istituzionalizzare, di creare una cultura della misericordia, che non è lo stesso di una cultura della beneficenza». E ha spiegato: «Non è questione che Dio mi usi misericordia in qualche mancanza, come se nel resto io fossi autosufficiente, o che ogni tanto io compia qualche atto particolare di misericordia verso un bisognoso. La grazia che chiediamo è quella di lasciarci usare misericordia da Dio in tutti gli aspetti della nostra vita e di essere misericordiosi con gli altri in tutto il nostro agire. Essere misericordioso non è solo un modo di essere, ma il modo di essere». Se dunque la misericordia «è il modo di essere», non un’idea, né un vago sentimento della nostra fede che galleggia a mezz’aria senza trovare quella concretezza necessaria in cui esprimersi e realizzarsi, la carità non si dice, ma si fa. E facendola la si riceve. Da qui la tradizione spirituale e catechistica che vede nelle opere di misericordia corporale e spirituale la via per esprimere e praticare l’amore che sa comprendere la miseria dell’uomo e contribuisce al suo riscatto. Opere che nel loro insieme sono infinite, perché l’oggetto della misericordia è la vita umana nella sua totalità, nei suoi bisogni in quanto carne e in quanto spirito. E non v’è dubbio che se queste fossero praticate nel loro insieme cambierebbero la società. Sono del resto lo specchio della famosa «Regola d’oro» del fare agli altri quello che vorresti fatto a te. Sono la forza propulsiva per una prassi che ha conseguenze incisive in una strutturazione umanamente degna e giusta dell’ordine sociale-politico che permetta di vivere come esseri umani e non come bestie. Basta pensare all’opera di misericordia corporale di accogliere lo straniero, nel contesto attuale della questione delle migrazioni, o alla richiesta di visitare malati, che può essere messa in relazione con l’attuale economicizzazione e conseguente anonimizzazione del sistema sanitario. E non v’è neppure dubbio che in esse si gioca anche la stessa credibilità della Chiesa. San Tommaso d’Aquino le chiama summa religionis christianae. Perché sono il segno di un’unione indissolubile, che è quintessenza, somma e compendio dell’esistenza cristiana: l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Quindi seguirle è de facto la riforma stessa della Chiesa. Perché prima di tutto esprimono la riforma operata dalla misericordia in noi stessi. «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» è perciò l’imperativo evangelico che per Francesco si è fatto pontificato, già prima della sua elezione. E già prima dell’indizione dell’anno giubilare della misericordia se n’è fatto segno e strumento. Partendo dagli ultimi, guardando cioè in particolare ai bisogni concreti dei poveri e dei sofferenti, che sono i prediletti del Vangelo, nei quali si fa incontro Cristo stesso. Tra le tante attenzioni nei confronti dei poveri, compresa quella di aprire loro le porte della Cappella Sistina, come Vescovo di Roma ha fatto realizzare le docce per i clochard, i pellegrini mendicanti e i senza tetto sotto il Colonnato del Bernini in San Pietro e ha completato il progetto di aumentare quest’opera – attraverso le parrocchie romane che vi hanno aderito – anche con la disponibilità di un servizio ad hoc per la loro cura. Così è anche per l’aiuto offerto – tramite l’Elemosinerìa apostolica – a numerose famiglie disagiate, insolventi e a rischio sfratto a pagare le bollette. Così è per i 50mila euro che ha fatto donare al Centro Astalli per il pagamento delle spese di rilascio dei documenti necessari ai richiedenti asilo. Ma è solo qualche esempio di molta altra carità operosa e discreta. A questa cultura della misericordia, che non si limita all’aiuto materiale ma tutto comprende, si affiancano gesti che lo vedono agire in prima persona, secondo il 'fuori orario' di un calendario riformato dal paradigma dell’amore, inteso proprio come l’unum necessarium. Così, proprio sul tracciato delle opere di misericordia, alla vigilia dell’apertura della Porta Santa in San Pietro, Francesco aveva annunciato che ogni venerdì del mese avrebbe anche compiuto un gesto diverso. Il 18 dicembre 2015 è infatti andato dritto all’Ostello della Caritas 'Don Luigi Di Liegro' presso la Stazione Termini di Roma dove ha aperto la Porta Santa della Carità. E a coloro che si proclamano cristiani in quell’occasione ha voluto ribadire in termini molto semplici che «Gesù, quando ci predica la vita, ci dice come sarà il giudizio nostro. Non dirà: tu vieni con me

perché hai fatto tante belle offerte alla Chiesa, tu sei un benefattore della Chiesa, vieni in cielo. No. L’entrata in cielo non si paga con i soldi. Non dirà: tu sei molto importante, hai avuto tante onorificenze, vieni. No. Cosa ci dirà Gesù per aprirci la porta del cielo? 'Ero affamato e mi hai dato da mangiare; ero senzatetto e mi hai dato una casa; ero ammalato e sei venuto a trovarmi; ero in carcere e sei venuto a trovarmi'». E ha aggiunto, tanto per essere ancora più chiari: «Nell’aprire questa Porta Santa, io vorrei che lo Spirito Santo aprisse il cuore di tutti e facesse loro vedere qual è la strada della salvezza! Non è la strada delle ricchezze, non è la strada del potere. È la strada dell’umiltà. E i più poveri, gli ammalati, i carcerati – Gesù dice di più – ci precederanno in cielo. Loro hanno la chiave. Colui che compie opere di carità è colui che si lascia abbracciare dalla misericordia del Signore». Da qui non una cultura della beneficenza ma lo stile di vita di una cultura della misericordia che rende testimoni credibili. Da venerdì 15 gennaio 2016 «i venerdì delle opere di misericordia» sono quindi entrati nella pratica a pieno ritmo, con la visita a sorpresa a una casa di riposo per anziani nella periferia di Roma e in un Centro di degenza per malati neurologici in stato vegetativo davanti ai quali il Papa si è inginocchiato. A un mese di distanza, venerdì 16 febbraio, è stata la volta di un’altra visita a sorpresa alla Comunità San Carlo, nei pressi di Castelgandolfo, sede del Centro italiano di solidarietà fondato da don Mario Picchi, sorto per prevenire e contrastare l’esclusione sociale e le tossicodipendenze. La comunità, con i 55 ospiti che stanno compiendo un percorso per uscire dalla dipendenza dalle droghe, si è vista arrivare del tutto a sorpresa il Papa che voleva trascorrere con loro il pomeriggio. Il 24 marzo è toccato al Centro di accoglienza per immigrati e rifugiati di Castelnuovo di Porto, a poca distanza da Roma. Nella cornice delle visite della misericordia si include anche il viaggio del 16 aprile nell’isola greca di Lesbo per incontrare i rifugiati del Moria refugee camp insieme ai patriarchi della Chiesa ortodossa. Il 13 maggio Francesco è invece uscito dal Vaticano per incontrare una comunità che ospita persone con grave disabilità mentale, appartenente alla grande famiglia dell’Arche fondata da Jean Vanier nel 1964 e dedicata alle persone più deboli ed emarginate della società. Papa Francesco è arrivato alle cinque del pomeriggio e si è seduto a tavola per fare merenda con i 18 disabili e i volontari. Ha ascoltato le loro semplici parole condividendone familiarmente le necessità. Tutto questo sono le opere della riforma dell’amore. Sono opere che si offrono come esempio vissuto «perché in esse camminassimo», mentre le future visite rinnoveranno ancora, attraverso gli ultimi, la sorpresa dell’abbraccio di Dio a Francesco. La prossima ha già una data: 18 giugno, al Collegio Universitario Villa Nazaret. Pag 18 Nullità delle nozze, tavolo alla Cei di Mimmo Muolo Lettera del Papa. Il coordinamento affidato al segretario generale. Un aiuto concreto ai vescovi: in tempi brevi un testo per l’attuazione della riforma Roma. Il Papa ha istituito «un tavolo di lavoro – coordinato dal segretario generale della Cei, il vescovo Nunzio Galantino – per la definizione delle principali questioni interpretative e applicative di comune interesse», relative alla riforma del processo matrimoniale introdotta dal Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus. La lettera di Francesco è da porre in diretta connessione con il «momento fecondo di comunione spirituale e di fraterno dialogo» vissuto dal Pontefice e dai vescovi italiani lo scorso 16 maggio all’apertura dell’assemblea generale della Cei. E infatti, proprio nella lettera il vescovo di Roma sottolinea che fra i molti temi discussi dall’assise vi è quello della riforma del processo matrimoniale. «I Vescovi – scrive papa Bergoglio – hanno preso atto delle diverse scelte fin qui maturate, che si sono realizzate sia mediante nuove strutture giudiziarie diocesane e interdiocesane, sia, ove ciò non sia apparso possibile o conveniente, mediante la valorizzazione delle strutture esistenti». I vescovi stessi, prosegue la lettera, «hanno quindi condiviso orientamenti relativi al regime amministrativo, organizzativo ed economico dei tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale». Di qui la decisione del Papa, che oltre a istituire il Tavolo e a stabilirne il coordinatore, assicura anche la collaborazione degli organismi giuridici e giurisdizionali della Santa Sede. «Sono grato al prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica – sottolinea infatti il Pontefice – al decano del Tribunale della Rota Romana e al presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi del contributo che offriranno, con la consueta fraternità e competenza, alla segreteria generale della Cei affinché la

stessa, avvalendosi del loro supporto nelle forme che riterrà più proficue, possa svolgere al meglio il proprio servizio di coordinamento, confidando nella mia paterna sollecitudine». Il tema dell’applicazione della riforma era stato infatti tra quelli centrali dell’assemblea dei vescovi. Già nel comunicato finale, diffuso a conclusione dei lavori, il 19 maggio scorso, si legge: «Il confronto ha reso manifesto l’impegno condiviso di attuazione nella prassi giudiziaria delle finalità della riforma - dalla centralità dell’ufficio del Vescovo all’accessibilità, alla celerità e alla giustizia dei processi -, coniugando la prossimità accogliente alle persone con l’esigenza di assicurare sempre un rigoroso accertamento della verità del vincolo ». Nell’esercizio di tale responsabilità, prosegue il comunicato, «i vescovi hanno ribadito l’importanza di poter fare affidamento sul sostegno, anche economico, della Cei; sostegno necessario per dare concreta attuazione alla riforma. Al tempo stesso, hanno espresso la volontà di garantire la valorizzazione dell’esperienza e della competenza degli operatori dei Tribunali». Anche il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, aveva affrontato l’argomento, rispondendo alle domande dei giornalisti nella conferenza stampa finale e ricordando che erano in via di acquisizione alcuni dati, tra i quali «il numero dei nuovi tribunali, che non sono quelli regionali o interdiocesani, ma quelli diocesani». Roma. Di che cosa si occuperà il Tavolo di lavoro istituito ieri dal Papa? E quali sono «le principali questioni interpretative e applicative di comune interesse»? Per inquadrare correttamente la questione, bisogna ricordare che la Cei sostiene già dal 1996 l’attività dei tribunali ecclesiastici regionali e ha varato per questo delle norme amministrative ed economiche. Mutando ora la realtà dei tribunali, c’è bisogno di cambiare anche le norme. Tra l’altro il Motu Proprio del Papa al n. 6 del Proemio affida un triplice incarico alle Conferenze episcopali: rispettare la volontà dei vescovi, stimolarli e sostenerli nel processo di attuazione della riforma del processo matrimoniale e aiutarli economicamente. Dall’8 dicembre scorso (giorno dell’entrata in vigore del Motu Proprio), dunque, i vescovi diocesani stanno assumendo le loro decisioni, molte delle quali in via provvisoria. Alcuni si sono orientati verso il tribunale diocesano, altri hanno optato per strutture interdiocesane, altri ancora per ora hanno deciso di non recedere da quelli regionali. In questo contesto si inserisce dunque l’attività del Tavolo di lavoro, la cui prima attività sarà quella di definire con chiarezza i confini dell’intervento della Cei. Ad esempio ci sono le questioni organizzative, cioè la struttura dei tribunali; oppure quelle amministrative: la disciplina del lavoro del personale addetto, minimi e massimi dei costi delle perizie, delle rogatore, gli onorari degli avvocati. E naturalmente le questioni economiche. A tal proposito bisogna ricordare che da diversi anni la Cei destina ai tribunali ecclesiastici regionali una quota dei fondi 8xmille stanziati per le esigenze di culto (fa parte, infatti di questa finalità la cura pastorale delle persone in difficoltà e l’accertamento della verità di un sacramento). Quest’anno sono 13 milioni di euro, che servono ad aiutare le parti di una causa matrimoniale in condizioni di indigenza. Nel Consiglio permanente di marzo fu stabilito in via transitoria di mettere la somma a disposizione delle Conferenze episcopali regionali, con il vincolo che fosse redistribuita tra i tribunali del proprio ambito in base al bisogno. Il Tavolo, dunque, dovrebbe soffermarsi anche su tali aspetti. Quanto alla sua composizione e alla data di avvio dei lavori, i prossimi giorni saranno determinanti. Non è stato ancora fissato un incipit, ma i tempi di inizio dovrebbero essere brevi. Inoltre si dovrà chiarire il livello di presenza. Per il momento è chiaro, come ha stabilito il Papa nella sua lettera, che il coordinamento sarà del segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, e che la Santa Sede sarà rappresentata contemporaneamente dai tre soggetti istituzionali interessati: la Segnatura Apostolica (che però in questo caso non funziona come tribunale, ma come ente di di vigilanza circa la retta amministrazione della giustizia), la Rota Romana e il Pontificio Consiglio per i testi legislativi. Il resto è tutto da decidere. Il desiderio è comunque quello di giungere al più presto a un testo che aiuti i vescovi. Il tutto in linea con l’intenzione del Papa che, dopo l’incontro con i vescovi all’assemblea generale di maggio, ha percepito il loro desiderio di attuare la riforma e di essere aiutati. Per questo ha affidato il coordinamento del lavoro al segretario generale. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT O tutti o nessuno. La sinodalità che fa naufragare il Concilio di Sandro Magister

A pochi giorni dalla sua apertura, il Concilio panortodosso rischia di fallire. I patriarcati di Bulgaria, di Georgia e di Antiochia annunciano il ritiro, e Mosca dà loro man forte. A seminare discordia l'abbraccio tra Kirill e papa Francesco Non se ne tiene uno da più di mille anni. È da sessant'anni che lo si prepara. Ed è stato finalmente convocato per i giorni della prossima Pentecoste, che per le Chiese d'Oriente cade quest'anno il 19 giugno. Ma proprio in prossimità del via, il tanto invocato Concilio panortodosso rischia di saltare all'aria. Eppure tutto sembrava muoversi nel verso giusto. A fine gennaio i capi delle quattordici Chiese ortodosse di tradizione bizantina, riunitisi in Svizzera, a Chambésy, avevano preso gli ultimi accordi circa la sede del Concilio, l'isola di Creta, la sua data d'inizio, il 19 giugno, la sua durata, fino al 26 giugno, le regole procedurali e i documenti da portare in discussione, cinque, sui seguenti argomenti: - l'autonomia delle Chiese e la maniera di proclamarla; - l'importanza del digiuno e la sua osservanza oggi; - il sacramento del matrimonio e i suoi impedimenti; - le relazioni della Chiesa ortodossa con il resto del mondo cristiano; - la missione della Chiesa ortodossa nel mondo contemporaneo in ordine alla pace, alla libertà e alla fratellanza tra i popoli. Su ciascun punto il voto era stato unanime da parte di tutte le quattordici delegazioni, eccetto che sulle regole e sul documento riguardo il matrimonio, non approvati dal solo patriarcato di Antiochia. Tutto faceva quindi ben sperare, pur sapendo che in un Concilio panortodosso vale solo ciò che è approvato all'unanimità, e anche qualsiasi modifica a una regola o a un documento deve avere il consenso di tutti. Poi però, man mano che la data d'inizio del Concilio si avvicinava, dall'una o dall'altra Chiesa sono tornate a ingigantirsi le divergenze. Un problema "a latere", ma non troppo, è il contrasto tra il patriarcato di Antiochia e il patriarcato di Gerusalemme, per la recente nomina fatta da questo di un metropolita in Qatar, nomina giudicata illegittima da Antiochia, che rivendica il Qatar come proprio territorio canonico. Il contrasto è ancor oggi insanato. E rischia di ripercuotersi pesantemente in Concilio. Il patriarcato di Antiochia ha infatti minacciato più volte il ritiro dall'assise se prima non sarà risolta la questione. E in ogni caso, avendo rotto la comunione col patriarcato di Gerusalemme e non facendone più il nome nella liturgia eucaristica, rischia di ferire la divina liturgia di Pentecoste con cui si aprirà il Concilio. Le divergenze più serie riguardano però soprattutto uno dei cinque documenti che saranno discussi in Concilio, quello sui rapporti tra la Chiesa ortodossa e il resto del mondo cristiano, in primis la Chiesa cattolica, documento disponibile anche in inglese e in francese. Il 22 aprile il patriarcato di Bulgaria ha dichiarato inaccettabili alcuni passaggi dei punti 4, 5, 6, 12 e 16 del documento che pure aveva approvato tre mesi prima. Il documento, a giudizio del patriarcato bulgaro, erra teologicamente, dogmaticamente e canonicamente là dove non riconosce che al di fuori della Chiesa ortodossa non esiste alcuna altra "Chiesa" ma vi sono solo eresie e scismi; che l'unità cristiana non è mai andata perduta, perché la Chiesa ortodossa è sempre stata unita e sempre lo sarà; che coloro che sono caduti in eresia e scisma devono ritornare alla fede ortodossa e professarle obbedienza, prima di essere accettati in quella che è l'unica vera Chiesa. Di conseguenza, il patriarcato di Bulgaria ha avvertito che approverà il documento solo se in Concilio sarà riscritto come richiesto. In caso contrario non lo firmerà e quindi farà mancare l'unanimità necessaria per la sua approvazione. In realtà, con questa presa di posizione, il patriarcato di Bulgaria ha dato voce a orientamenti molto diffusi nel mondo ortodosso, che nel suo insieme non è affatto ecumenicamente ben disposto verso la Chiesa cattolica allo stesso modo di questa verso di esso. E l'incontro del 12 febbraio tra papa Francesco e il patriarca di Mosca Kirill all'Avana non ha acquietato ma ha rinfocolato questa avversione, in larghi strati dell'ortodossia. Oltre al patriarcato di Bulgaria, infatti, hanno man mano espresso analoghe obiezioni al documento citato anche altre realtà del mondo ortodosso. Il 25 maggio il patriarcato di Georgia ha denunciato che esso contiene "errori ecclesiolgici e terminologici" che esigono una profonda riscrittura, in assenza della quale rifiuterà di firmarlo. E lo stesso giorno anche la Chiesa ortodossa di Grecia ha respinto come inaccettabile il nome di "Chiesa" applicato a confessioni cristiane diverse dalle ortodosse. E così il patriarcato di Serbia. A fine maggio una folta delegazione del patriarcato di Mosca ha visitato il Monte

Athos. E puntualmente, subito dopo la visita, anche l'insieme dei monasteri della Santa Montagna si è pronunciato contro la definizione di "Chiese" data a quelle che sono solo "denominazioni e confessioni cristiane". I monasteri dell'Athos hanno formulato il loro punto di vista in una lettera aperta al patriarca ecumenico di Costantinopoli. Non prenderanno parte al Concilio panortodosso, ma sono influenti. Di fatto, hanno dato man forte al potere di veto dei membri del Concilio che minacciano di non firmare il documento sui rapporti tra l'ortodossia e il resto del mondo cristiano. Non solo. In quegli stessi giorni il patriarcato di Bulgaria ha annunciato che non prenderà parte al Concilio se prima non saranno accolte le sue richieste di correzione. Il volo verso Creta dei suoi delegati è stato annullato e così le prenotazioni in albergo. In loro assenza, il Concilio perderebbe quindi la sua qualifica di panortodosso, invalidando gli immensi sforzi fin qui compiuti per convocarlo. In realtà, l'annuncio del patriarcato bulgaro è sembrato essere un estremo atto di pressione sull'insieme della Chiesa ortodossa, i cui primati hanno in programma una riunione il giorno prima dell'apertura del Concilio, per un'ultima messa a punto dei documenti da discutere e da votare. E infatti, il patriarcato di Mosca, che rappresenta i due terzi degli ortodossi nel mondo, il 3 giugno è parso rilanciare proprio questa sfida. In un comunicato diffuso al termine di una sessione del suo santo sinodo, ha proposto una conferenza straordinaria da tenersi urgentemente prima del Concilio e prima della prevista riunione tra i primati, per emendare soprattutto il documento sui rapporti tra l'ortodossia e il resto del mondo cristiano, in conformità alle obiezioni mosse dalle Chiese ortodosse di Bulgaria, Georgia, Grecia e Serbia, nonché della stessa Russia, e dal Monte Athos. Di questo passo del patriarcato di Mosca ha dato notizia anche "L'Osservatore Romano" del 5 giugno. Il 6 giugno, però, un comunicato del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha il primato d'onore in campo ortodosso, ha respinto la proposta del patriarcato di Mosca, rimandando direttamente al Concilio ogni eventuale modifica e correzione dei testi contestati. Con scarso effetto, a giudicare dal pronunciamento, il giorno successivo, del patriarcato di Antiochia, che ha chiesto di posporre la convocazione del Concilio e ha annunciato che comunque non vi andrà, qualora la mancata soluzione del suo contrasto col patriarcato di Gerusalemme continuerà a impedirgli di celebrare con esso la divina liturgia nel giorno di Pentecoste. Mentre da parte sua il potente patriarcato di Mosca è tornato a riproporre la convocazione urgentissima, entro il 10 giugno, di una conferenza preconciliare per risolvere le questioni pendenti. "Se tali questioni saranno risolte, il Concilio avrà luogo. In caso contrario sarà preferibile posticiparlo", ha detto il 7 giugno in un'intervista il metropolita Hilarion di Volokolamsk, presidente del dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato di Mosca. La Pentecoste si avvicina ogni giorno di più. Ma il thriller del Concilio panortodosso è sempre in sospeso. Fino all'ultimo. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 25 La gelosia è egoismo, non c’entra con l’amore di Claudio Mencacci L’orrore a cui assistiamo in queste giornate, legato all’aumento dei delitti contro le donne, indica come motivazione apparente la non accettazione dell’abbandono. È bene chiarire fin da subito che questi atti di violenza non hanno giustificazioni né attenuanti, né tantomeno si tratta di persone, nella stragrande maggioranza dei casi, affette da patologie mentali. Troppo spesso vengono date delle giustificazioni (inaccettabili) legate alla gelosia che purtroppo ancora e troppo spesso non consentono di riconoscere quello che c’è dietro: il senso di proprietà, il bisogno di controllo, l’ostilità, l’odio e l’invidia. Esiste un continuum tra una gelosia fisiologica e una gelosia che progressivamente si trasforma in patologica. La difficoltà sta proprio nell’individuazione della linea di demarcazione: nel non confondere l’amore con queste forme di possesso, che nulla hanno a che vedere con l’amore. Nell’eccesso di gelosia c’è egoismo, un amore con metastasi di odio. Assistiamo spesso a un’escalation della gelosia: aumentano i dubbi, si intensificano i controlli alla ricerca di una prova, la ferita narcisistica di questi uomini si approfondisce: non tollerano il dolore per un distacco, né il peso di una separazione, né

l’accettazione di una realtà (il rapporto è finito). Per loro il rapporto si fonda su una sorta di proprietà intangibile, non accettano l’idea che un accordo vive e si rinnova finché entrambi lo valutano fertile. E non considerano la relazione come dialogo, scambio, rispetto, ma un rapporto tra chi domina e chi è sottomesso, non riescono neppure a concepire la condizione di diventare un ex. La risposta è la rabbia, violenza nei confronti di chi dimostra di non essere un oggetto per l’altro e non accetta un copione fallimentare. Questa non accettazione è parzialmente spiegabile con il fatto che questi uomini non sono attrezzati, né vogliono acquisire strumenti, per tollerare la perdita. La vita è un susseguirsi di perdite (si perdono la giovinezza, i genitori, i figli quando crescono, il lavoro invecchiando, ecc.) e occorre attrezzarsi per superare quelle che sono inevitabili demoralizzazioni, tristezze e depressioni. Le domande da porsi oggi sono le seguenti: fino a che punto è tollerabile la gelosia? Perché continuiamo a confondere l’amore passionale con la gelosia passionale? Cosa fare per avviare un’educazione sentimentale e affettiva in grado di condannare l’eccesso di gelosia, come avviene in altri campi, con l’omofobia o la xenofobia? Gli uomini devono essere educati fin da giovani a rispettare e a non usare violenza verso le donne, ma parallelamente le donne devono imparare a difendersi e a denunciare queste violenze riconoscendo fin dall’inizio che un partner che manca loro di rispetto, che eccede nel controllo, che alza le mani, non va accettato e andrebbe lasciato senza paura. I sentimenti si modificano nella società e nella cultura che li animano, è arrivato ora il tempo di bandire moralmente ed eticamente l’eccesso della gelosia e di far crescere anticorpi contro la non tolleranza delle perdite e delle separazioni. La gelosia, che Shakespeare chiamava «il mostro dagli occhi verdi», va differenziata dall’invidia e va controllata nelle sue manifestazioni con grande attenzione. Sia gelosia sia invidia sono legate a una bassa autostima spesso mascherata da emozioni sgradevoli come rabbia, rancore, ostilità. Entrambe, se non tenute a bada, possono sfociare in violenza. La frase «né con me né senza di me» premedita la possibilità di un omicidio spesso seguito dal suicidio di chi lo commette. Come scrive Paul Müllen «la gelosia è un sentimento da sfuggire se possibile, da controllare se non si riesce a sfuggirne, da curare se non riesce a controllare». CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Le assunzioni e il picco del 2015, più della metà grazie agli sgravi di Gianni Favero Venezia. «Il fatto che nel 2015 si siano contati 36.600 posti di lavoro dipendente in più, in gran parte proprio grazie ai contratti a tempo indeterminato, è un segnale incoraggiante e dimostra che l’emorragia occupazionale sembra essersi finalmente arrestata. Questo, però, non deve farci abbassare la guardia». A parlare in questo modo è l’assessore alle politiche dell’occupazione del Veneto, Elena Donazzan, commentando i dati definitivi dell’agenzia regionale Veneto Lavoro sul 2015. Un anno contraddistinto dal grande utilizzo dell’esonero contributivo previsto dalla Legge di stabilità, ossia lo sconto sui versamenti Inps fino a 8.060 euro l’anno per il triennio successivo, a vantaggio dei nuovi assunti in pianta stabile, provenienti sia dalla platea dei disoccupati sia da personale con contratti a termine. Su un totale di quasi 212 mila assunzioni e trasformazioni, rileva Veneto Lavoro, il beneficio fiscale è stato utilizzato in oltre 117 mila casi, più della metà. Oltre 72 mila di queste assunzioni hanno riguardato persone che avevano svolto precedenti contratti con la stessa azienda o che ne erano già dipendenti ma con rapporti a tempo determinato. Un’analisi del loro profilo medio rivela che si è trattato in prevalenza di cittadini italiani, con titolo di studio superiore alla media ed impiegati soprattutto in imprese dei settori del commercio e del metalmeccanico. «Si tratta ora – prosegue Donazzan - di mettere le nostre imprese nelle condizioni di poter continuare a investire sul capitale umano, come hanno coraggiosamente dimostrato di poter fare nell’ultimo anno. E’ ancora presto per dire se gli effetti dell’esonero contributivo potranno durare nel lungo periodo. L’ipotesi più plausibile è che si siano rivelati utili per dare nuovo slancio all’occupazione. Le conseguenze positive potranno essere avvertite anche nei prossimi anni, ma da soli gli sconti Inps non bastano ed è necessario trovare un giusto equilibrio tra politiche passive e politiche attive del lavoro». L’anno scorso, in Veneto, le assunzioni con contratti di lavoro dipendente sono state complessivamente 754.500 (+12% rispetto al 2014), a fronte di 717.800 cessazioni.

Quelle a tempo indeterminato rappresentano il 19% del totale (146.600, escluse le trasformazioni), con una crescita dell’81% rispetto all’anno precedente e un saldo annuo di 63.200 posizioni di lavoro in più. Per quanto riguarda il primo trimestre di quest’anno, come del resto ci si attendeva, Veneto Lavoro rileva una contrazione del saldo occupazionale rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (40.400 contro 45.600), collegato alla diminuzione delle assunzioni del 12,7% per la sensibile riduzione dei benefici contributivi in vigore l’anno prima. Tuttavia, viene evidenziato, il saldo tendenziale a fine marzo 2016 risulta ancora positivo e pari a 33.800 posizioni di lavoro. La crescita recente ha consentito il recupero dei livelli occupazionali persi nella seconda fase recessiva (2011-2014) ma, rispetto al 2008, la perdita occupazionale risulta ancora importante, mancando ancora 42.000 posizioni di lavoro per tornare ai livelli precedenti alla crisi. LA NUOVA Pag 5 Il prof. Andreoli: “Donne come cose. Non c’è niente di più pericoloso” di Fiammetta Cupellaro Roma. «Perché gli uomini odiano le donne? Perché è come se la società tutta intera fosse tornata indietro nel tempo. Nell’immaginario maschile, le donne sono tornare ad essere percepite come “cose” che non possono esistere se non appartengono ad un uomo. Niente è più pericoloso di questa visione del mondo. E per cambiare questa cultura serve qualcosa di più radicale di leggi anche volenterose». Il professor Vittorino Andreoli psichiatra veronese di fama mondiale, membro della New York Academy of Sciences, ha un’idea precisa di quello sta accadendo nella relazione tra uomini e donne. Un’idea drammatica che definisce «apocalisse familiare». Mariti, compagni, amanti, che si trasformano in assassini. Perché gli uomini sono diventati così incapaci di rielaborare un rifiuto? «La faticosa costruzione della libertà femminile ad un certo punto, si è improvvisamente bloccata. Così, se da un lato le donne hanno raggiunto alti livelli di emancipazione nelle professioni e nella società, nel privato sono rimaste impigliate in un modello stereotipato di famiglia e di potere. In realtà, c’è stata una regressione nei rapporti uomo-donna e picchiare una donna è tornato ad essere un segno di potere. Non è stata raggiunta una vera parità sociale e il riacutizzarsi della violenza di genere lo dimostra. Purtroppo il femminicidio non è un fenomeno che finirà presto, se non ci sarà un cambiamento soprattutto negli uomini». Ma perché uccidono solo gli uomini? «Chi uccide lo fa in balia di un impulso predatorio e si parla dell’uomo-pulsionale privo di freni inibitori che attinge la forza di compiere quel gesto spinto dal desiderio di “distruttività”. Per questo il più delle volte uccidono le loro compagne quando decidono di lasciarli. Solitudine e umiliazione sono parole che non riescono ad affrontare, hanno più coraggio ad affrontare la morte. Magari rispettano il proprio “nemico” fuori casa e vengono descritti da colleghi e vicini come persone per bene, ma sono violenti con chi condividono la vita. La donna invece ha una percezione di se stessa più definita». Sara Di Pietrantonio credeva di poter controllare la violenza di chi poi l’ha uccisa. Sono molte le donne che rimangono vittime della stessa illusione. Si può dare a loro un consiglio? «Non si possono semplificare troppo le relazioni, i sentimenti. Soprattutto i giovani tendono a considerare storie d’amore, relazioni partite magari da una conoscenza sui social. E quando quella persona la conosciamo profondamente magari è già troppo tardi». Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ AVVENIRE Pag 11 Oltre 11 milioni di italiani hanno rinunciato a curarsi di Alessia Guerrieri C’era da aspettarselo. Anche perché il passaggio è semplice. Meno risorse a disposizione in famiglia e, per tirare la cinghia, si taglia per prima cosa in cure e prevenzione. Non bastasse la crisi economica, e la conseguente disoccupazione crescente, anche le lunghe liste d’attesa nel sistema sanitario pubblico contribuiscono ad allontanare dall’ospedale i

cittadini (72%), che invece – quando possono – si rivolgono di più alle prestazioni sanitarie nel privato (+3%). Sempre le liste di attesa spiegano il ricorso all’intramoenia da parte di 7 milioni di italiani ogni anno. Sta di fatto che alla fine comunque 11 milioni di italiani nel 2016 hanno rinunciato a curarsi, cioè 2 milioni in più di quattro anni fa. E, tra loro, a soffrire sono soprattutto 2,4 milioni di anziani e 2,2 milioni di millennials, ovvero i nati tra gli anni 80 e il 2000. Va meglio a chi ha assicurazioni sanitarie integrative (57%) o le disponibilità finanziarie per rivolgersi al privato, che ormai ha attuato la politica della prestazione 'a prezzo di ticket', facendo così crescere i propri introiti fino a 34,5 miliardi di euro (in crescita al ritmo di 2 miliardi all’anno). Numeri che il premier Matteo Renzi «non sa valutare», anche se ammette che «c’è un’emergenza economica perché solo in Italia chi guadagna di più guadagna sempre di più». Certo è ovvio che «non si fanno le nozze con i fichi secchi», come ricorda il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, e perciò diventa essenziale «difendere l’aumento previsto del Fondo sanitario per il 2017-18, che intendiamo utilizzare tra l’altro per sbloccare il turn over ». La replica del capo del dicastero alla ricerca Censis-Rbm, redatta in occasione del Welfare day, serve sì a confermare «la priorità» del governo per creare una sanità con «elevati standard su tutto il territorio nazionale». Ma pure l’impegno a «una profonda riorganizzazione del sistema delle liste di attesa, soprattutto in alcune regioni italiane». Ecco perché il ministro Lorenzin ha intenzione di proporre l’inserimento, nel decreto legislativo sulla nomina dei direttori generali delle aziende sanitarie, di «una norma che imponga di valutare i manager anche in relazione agli obiettivi di riduzione delle liste d’attesa». Per evitarle, 26 milioni di italiani sono propensi anche a sottoscrivere una polizza integrativa, per poter ricorrere con maggiore tranquillità alla sanità privata. Vero è che però, denuncia il sindacato dei dirigenti medici Anaao Assomed, che «il taglio alla sanità non si è mai interrotto» e che il processo di privatizzazione del settore andrà ad aumentare le iniquità. In più, la rinuncia alle cure dei cittadini oggi, «sarà un costo aggiuntivo sul Ssn del futuro», perché senza prevenzione ci si ammalerà di più. Ora, comunque, bisogna guardare al presente. E nella sanità italiana di oggi c’è un problema di spechi e inappropriatezza, anche secondo i cittadini, che nel 45% dei casi (+2,4% rispetto al 2015) percepisce un peggioramento del sistema sanitario della propria regione. Inoltre, 5,4 milioni di italiani in un anno hanno ricevuto prescrizioni di farmaci, visite o accertamenti diagnostici che si sono rivelati poi inutili. Tuttavia, la metà dei cittadini è contraria a sanzionare i medici che fanno prescrizioni alla fine risultate superflue; un’ipotesi «che non c’è», ripete senza sosta il ministro Lorenzin. IL GAZZETTINO Pag 1 Se il cittadino per risparmiare non si cura più di Silvio Garattini Il rapporto annuale del Censis mostra una situazione di deterioramento del Servizio sanitario nazionale. In attesa di avere a disposizione l’intero rapporto può essere opportuno anticipare alcuni dati che suonano allarmanti. Ben 11 milioni di italiani hanno dovuto rinunciare alle cure per problemi economici che in altre parole significa mancanza di soldi per pagare il ticket sui farmaci, sulle analisi di laboratorio o sulle visite mediche. Sono 2 milioni in più rispetto al 2012 e riguardano soprattutto i giovani e gli anziani. Per coloro che possono pagare i ticket che sono divenuti in molti casi eccessivi perché sono eguali o addirittura superiori alle stesse prestazioni che si possono ottenere nelle strutture private. Circa 5,4 milioni di cittadini dichiarano di aver ricevuto cure inutili, ma nella maggioranza dei casi non vogliono sanzioni ai medici ritenendo che la colpa sia il decreto sulla appropriatezza degli interventi, un dato che depone per la scarsa abilità di comunicazione del Ministero della Salute. Altro punto dolente è rappresentato dalle liste d'attesa che tendono sempre di più ad allungarsi a tempi che sono certamente incompatibili con una forma di buona sanità. Ben il 72 per cento delle persone che si sono rivolte a strutture private lo hanno fatto a causa dei tempi d'attesa proposti dal servizio pubblico. Inoltre più di 7 milioni di italiani sono ricorsi all'intramoenia, l'attività privata del Servizio Sanitario Nazionale. Si tratta di una situazione scandalosa: "Devi attendere se non hai risorse economiche, ma se puoi pagare con le stesse apparecchiature, gli stessi medici e nelle stesse strutture puoi essere curato a distanza di pochi giorni". Naturalmente non bisogna dimenticare che nei giudizi non si può ignorare la grande differenza che esiste fra le varie Regioni. Basti considerare che

l'insoddisfazione passa dal 70 percento nelle Regioni del Sud al 33 percento nel Nord-Est. E' chiaro a tutti che questo non è il modello equo e universalistico, conquista sociale irrinunciabile da parte dei cittadini sancito dalla legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Piangere sulla situazione attuale non porta molto lontano. E' invece importante cercar di capire cosa si può fare tenendo conto che nessuno ha voglia di ritornare ad un sistema assicurativo parziale o totale. Per essere efficaci occorre anzitutto non guardare solo a tappare i buchi con una visione a breve termine, ma essere capaci di programmare con un occhio al futuro che sarà fatto prevalentemente di polimorbilità cronica a causa della tendenza all'invecchiamento della nostra popolazione. Non si ripeterà mai a sufficienza l'importanza di tutte le attività di prevenzione che riguardano l'intera società. Si devono ridurre le malattie che non piovono dal cielo, ma sono il frutto dei nostri cattivi stili di vita e delle influenze ambientali. Puntare sulla prevenzione vuol dire diminuire di almeno il 50 per cento le malattie croniche, quelle che richiedono il maggior consumo di risorse. In secondo luogo è importante fornire ai cittadini solo ciò che in base alle conoscenze scientifiche ha una dimostrazione di un favorevole rapporto benefici-rischi e a parità di condizioni ciò che costa meno. In questo senso occorre introdurre rapidamente il concetto di costo unitario per tutto il Paese, evitando sprechi che permettano di trovare miliardi da destinare prevalentemente al miglioramento delle liste d'attesa. Fra gli sprechi oltre ai farmaci, ai dispositivi medici, alle piccole strutture ospedaliere, non bisogna dimenticare la inutile complessità delle procedure amministrative. Occorre poi disinvestire trasferendo le risorse per interventi poco efficaci verso quelli più risolutivi. I Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) devono essere rivisti tenendo presente che spesso riguardano interessi che nulla hanno a che fare con la prevenzione, la terapia o la riabilitazione. I cittadini non hanno diritto a tutto, ma solo a ciò che è dimostrato essere utile alla salute e devono anche essere stimolati ad evitare cattive abitudini di vita. Infine non bisogna dimenticare che nel medio-lungo termine la ricerca sanitaria è la migliore spending review perché permette di identificare trattamenti e sistemi organizzativi ottimali. La ricerca serve anche per trovare le migliori vie di comunicazione. Le autorità ministeriali e regionali parlano troppo poco con i cittadini. Se spiegassero in modo chiaro e non in politichese, le ragioni e le difficoltà di condurre un'attività così complessa come quella che riguarda la salvaguardia della salute, troverebbero più facilmente la comprensione e l'aiuto dei cittadini, condizione indispensabile per la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III Canal Grande a rischio col record di incidenti di Tomaso Borzomì e Tullio Cardona La principale via d’acqua della città in 6 anni ha fatto registrare 68 scontri, con un morto. Gondole, come evitare le tragedie. I gondolieri: “In troppi corrono e se ne fregano” Immaginiamo un'autostrada dove girino camion, moto, autobus, potenti auto, ma anche motorini e bici. Nessuno penserebbe mai a una simile commistione, troppi pericoli. Invece in Canal Grande si può. Qui ogni giorno passa di tutto: taxi, vaporetti, barche a motore, barche da trasporto, gondole e altre barche a remi (sempre meno in realtà). Il risultato? È quello della cartina a fianco: il maggior numero di incidenti nautici in laguna dal 2008 al 2014 si è verificato proprio nel "Canalasso" (68 al 31 dicembre 2014), anche se uno solo è stato mortale, quello costato la vita in gondola al professor Joachim Vogel il 17 agosto 2013. In generale, se si considera l’intero bacino lagunare attorno a Venezia e i canali interni, dalle ultime rilevazioni della polizia municipale emerge che sono stati 17 gli incidenti rilevati nel 2015, due dei quali con feriti, in netta diminuzione rispetto agli anni precedenti quando erano stati 23 (quattro feriti), nel 2014 e 29 (due feriti) l'anno prima. Negli ultimi dieci anni gli incidenti sono oscillati tra i 10 del 2008 e i 33 del 2006, ma la costante diminuzione, a fronte di un traffico comunque sempre intenso, fa pensare che molti si mettano d'accordo per evitare il rincaro delle polizze assicurative,

non apparendo quindi nelle rilevazioni ufficiali. Sempre secondo le stesse statistiche, sono stati 154 gli incidenti che si sono registrati tra il 2008 e il 2014, di cui 10 mortali e 22 con feriti, mentre i restanti riguardano solo danneggiamenti. E proprio questi appaiono lungo tutto il serpentone del Canal Grande, dove le collisioni non risparmiano vaporetti, gondole e taxi e sono ben sei i ferimenti accaduti proprio qui. Ma non mancano all'appello anche situazioni anomale, come quella che ha visto coinvolto un tassista che ha urtato, il 28 settembre 2014, un vaporetto Actv durante il "corteo" matrimoniale di George e Amal Clooney. Diverso il caso delle statistiche che riguardano le tragedie dove si rischia la vita. I pericoli maggiori provengono infatti dai canali dove la velocità può essere più elevata, come quelli che portano verso il Lido. Nei pressi di San Servolo sono in due ad aver perso la vita: uno in uno schianto al buio nel 2008 e un diciassettenne nel 2007 addosso ad una briccola. Stessa modalità che ha coinvolto un altro giovane nel canale Retrogiudecca nel 2009. Ma non è esente nemmeno la laguna nord, con il canale dei Marani che in un incidente del 2011 ha registrato tre feriti e un morto in un colpo solo e l'anno successivo un decesso nel canale di Tessera. «Se i gondolieri dello stazio Ferrovia hanno proceduto in questo modo, significa che sono davvero esasperati e che in quel tratto del Canal Grande la situazione è diventata molto grave». Aldo Reato, presidente dei bancali, commenta la decisione dei colleghi dello stazio Ferrovia, che comprende anche San Marcuola e piazzale Roma, di rivolgersi alla magistratura con un esposto contro il moto ondoso, affidato al legale Costantino Fabris. «Denunciamo da anni le onde provocate dai mezzi a motore - prosegue Reato - ma senza avocare nessun diritto primario: non c'è una scala di valori fra chi esercita la professione in acqua. Venezia è di tutti e tutti hanno il diritto di lavorare. Da tempo mi sono appellato al buonsenso di chi va a motore: a parole son tutti d'accordo ma ora è necessaria una precisa presa di responsabilità, nella quale tutti devono offrire il loro contributo. L'amministrazione e le autorità sono tese a limitare il problema: da una settimana telelaser ed agenti della capitaneria stanno sorvegliando il Bacino e a situazione è visibilmente migliorata». Dalle parti della Ferrovia, invece, sembra essere ancora Far West, particolarmente nel tratto di Canal Grande che va dalla dal ponte degli Scalzi al rio Novo. «Se non si prendono provvedimenti, il prossimo incidente mortale sarà qui - ne sono certi i bancali dello stazio - troviamo sempre più difficile fare il nostro lavoro, soprattutto per l'eccessivo traffico. La situazione è quanto mai tesa, per la maggior parte a causa dei taxi che corrono, qualcuno viaggiando anche appaiato, ma pure Actv non scherza, con ben 7 linee di navigazione: 4.1, 4.2, 5.1, 5.2, 1, 2, 3, alle quali si aggiungono pure i bis». «In queste condizioni andare a remi risulta quasi impossibile, pericoloso per i 21 gondolieri dello stazio e per garantire l'incolumità dei clienti, anche disabili, ora imbarcati grazie al nuovo apparato di piazzale Roma. I mezzi a motore, poi, ci tolgono l'acqua da sotto la barca con le eliche e noi siamo costretti alle acrobazie, soprattutto in caso di bassa marea, quando fra la Stazione e gli Scalzi affiora una secca. Ci vorrebbero più controlli, maggiore buonsenso da parte di tutti, meno menefreghismo». «Il Canal Grande è un'autostrada e gli incidenti sono sottostimati, ma noi abbiamo un progetto per rendere più sicure le gondole dotandole di sacche da lancio e istruendo i gondolieri». È questo, in estrema sintesi, il pensiero di Gianluigi Da Campo, medico responsabile per l'area soccorso ed emergenze acquatiche dell'istituto di Medicina di soccorso, un ente che collabora con realtà nazionali ed internazionali come il governo italiano e l'Onu. «L'istituto - spiega Da Campo - si occupa da 40 anni di sicurezza in mare, a livello locale abbiamo operato con guardia costiera e vigili del fuoco. Da oltre un anno stiamo attendendo risposte dal Comune sulla nostra idea, che permetterebbe di salvare vite umane come sarebbe potuto accadere al professore tedesco Joachim Vogel. Vorremmo dotare le gondole di sacche da lancio progettate ad hoc, con cime da circa 15 metri, utili al recupero di chi cade in mare. E fare anche un corso Blsd (Basic life support and early defribillation) affinché i gondolieri, simbolo di Venezia nel mondo, possano imparare le tecniche di rianimazione cardiopolmonare e diventare figure qualificate per usare i defibrillatori in giro per la città». Il tutto a costo zero per il Comune: «Si tratterebbe di cento euro, una cifra bassa in relazione alle competenze che si acquisiscono, a carico del gondoliere. In maniera che il Comune non debba versare un

soldo». Un progetto che trova la sua spiegazione come risposta alla tragedia del docente tedesco in Canal Grande, ma anche perché, secondo Da Campo, gli incidenti sono sottostimati: «I dati sul traffico ufficiali non tengono conto delle situazioni in cui i condudenti si mettono d'accordo tra loro (nel 2015 le fonti della polizia municipale hanno rilevato 17 incidenti, in diminuzione rispetto ai 23 dell'anno precedente, ndr)». Da Campo quindi precisa come dall'amministrazione non sia mai pervenuta una risposta: «Abbiamo proposto il progetto più di un anno fa, peccato che nessuno ci abbia mai risposto, né sindaco né dirigenti, anzi, siamo stati rimpallati da più parti. C'è stato il deserto da parte delle istituzioni». E il valore aggiunto lo si spiega anche dal grande apporto di "venezianità": «La ditta che potrebbe creare le sacche è Nicolaj, veneziana, gli istruttori per i corsi in parte sarebbero veneziani e in parte dal resto d'Italia, si tratterebbe di una bella riscossa per la città». Sulla stessa scia anche il presidente dell'Ims Giovanni Manganiello: «Si tratta di un progetto per portare avanti la filosofia del nostro istituto, mettendo in sicurezza Venezia e prevenendo i rischi». La sacca da lancio è uno strumento che permette il recupero di un naufrago cosciente mediante il lancio di una cima di vari metri e, spiega Da Campo: «Abbiamo brevettato un modello ad hoc per le gondole di circa 30cm da custodire a poppa. Abbiamo fatto sì che non impatti visivamente, ma che possa essere usata in condizioni di necessità». Oltre a questo, i gondolieri dovrebbero però imparare le tecniche di lancio: «Abbiamo trovato anche uno spazio idoneo, come quello di San Trovaso, dove potremmo spiegare ai gondolieri come lanciare correttamente la cima, permettendo di fare prove anche nel campo dietro lo squero». L'Istituto di medicina del soccorso ha previsto anche un corso di cinque ore Blsd, che, spiega Da Campo: «Serve per sfruttare i tempi di attesa del soccorso medico limitando l'aggravamento clinico, imparare ad utilizzare i defibrillatori, entrando a far parte di un progetto dinamico di ricerca interuniversitario, ottenendo l'attestato riconosciuto a livello europeo Irc, della durata biennale». Pag V Sfratti, da 504 a 643 in un anno di Roberta Brunetti Fenomeno in crescita, altri 2.300 in attesa di esecuzione. La Curia stanzia 50mila euro Sempre più sfratti in città: erano stati 504 quelli eseguiti nel 2014, sono saliti a 643 nel 2015, con altri 2.300 in attesa di esecuzione. Per lo più inquilini che non pagano l’affitto. Spesso perché hanno perso il lavoro, a causa di una crisi che non finisce mai. Sono i cosiddetti "morosi incolpevoli": chi non paga perché non ce la fa più. Una legge nazionale li ha riconosciuti dal 2013, stanziando dei fondi per aiutarli. E a Venezia, ieri, è stato sottoscritto un protocollo d’intesa per rendere più efficace il sistema. Firmatari, con la Prefettura, il Comune di Venezia, il Tribunale e la Corte d’appello, i rappresentanti di inquilini e proprietari, l’Ordine degli avvocati. Tutti, per la loro parte, si impegneranno a dare una mano perché queste famiglie, diventate "morose" loro malgrado, possano accedere a questi fondi - fino a 5mila euro (7mila se sarà stipulato un nuovo contratto a canone concordato) - in una prospettiva di recupero dell’autonomia. «É un fenomeno che sta interessando fasce sempre più estese della popolazione - ha sottolineato il prefetto vicario, Vito Cusumano - Ecco l’importanza della prevenzione». In tutta la città metropolitana, stando ai dati della Prefettura, nel 2014 ci sono state 3.184 richieste di sfatto (di cui 3.037 a Venezia) e 549 esecuzioni (504 a Venezia); nel 2015 le richieste sono scese a 3.122 (2.989 a Venezia), ma le esecuzioni sono salite a 691 (643 a Venezia). Con il nuovo accordo toccherà al Comune valutare i casi da aiutare e studiare i percorsi di autonomia, ma tutti i soggetti coinvolti faranno rete. «Questo non è assistenzialismo - ha precisato il vicesindaco, Luciana Colle - É aiutare le persone perché si aiutino». E un primo aiuto consistente è già arrivato dalla Curia patriarcale che, per questa iniziativa, ha stanziato 50mila euro. «Mi ha telefonato la presidente del Sunia, Ivana De Rossi. Ho chiesto al patriarca che ha aderito immediatamente» ha raccontato don Dino Pistolato. «Perdere la casa crea effetti montanti - ha sottolineato -. Difficoltà enormi che ricadono sui servizi. In questi anni abbiamo fatto di tutto per salvare la casa alle famiglie». Ringraziando la Curia, De Rossi ha raccontato la sua esperienza: «Questa crisi economica è lunga come una guerra. Vedo giornalmente drammi spaventosi. Ci sono storie che non puoi dimenticare, come quelle due persone che vennero nei nostri uffici il sabato, disperate. Il giorno dopo venni a sapere che si erano uccise».

CORRIERE DEL VENETO Pag 8 Oltre tremila sfratti per morosità. Accordo per aiutare le famiglie di Gloria Bertasi La Curia mette 50mila euro, il Comune ha pronto il nuovo bando per le case pubbliche Venezia. Oltre tremila domande di sfratto e tutte per morosità. Da almeno due anni in tribunale non arrivano altre richieste sul fronte casa, nessun proprietario di appartamenti chiede l’uscita dell’inquilino per fine locazione, come succedeva una volta e nemmeno per altri motivi che non siano l’affitto non pagato. «È però un’emergenza - ha detto ieri in Prefettura Antonella Magaraggia, presidente della seconda sezione del Tribunale civile -. Mi occupo di sfratti da 25 anni e non ho mai visto una situazione simile». Il problema è così serio che Prefettura, Comune, Patriarcato, ordine degli avvocati, sindacati degli inquilini e dei proprietari di case hanno deciso di trovare un modo per evitare che intere famiglie finiscano per strada firmando un protocollo di intesa che prevede l’erogazione di 5 mila euro per evitare lo sfratto e di 7 mila quando viene sottoscritto un nuovo contratto di locazione a canone concordato. Primo a mettere a disposizione un tesoretto di 50 mila euro per l’emergenza è stata proprio la Curia di Venezia. «Il nostro non è assistenzialismo ma un modo d’innescare percorsi virtuosi di uscita dal bisogno», ha detto don Dino Pistolato, vicario del patriarca Francesco Moraglia. Il Comune invece si impegna a reperire fondi. Nel 2015 a bilancio c’erano 600 mila euro per l’emergenza abitativa e 180 mila sono stati usati per 80 famiglie morose. Grazie ai finanziamenti statali sono poi arrivati 487 mila euro di cui 300 mila già usati (entro fine anno dovrebbero arrivarne altri 400 mila). Per accedere ai fondi pubblici le famiglie devono rispondere a requisiti molto rigidi e così a fronte di 150 domande solo 50 hanno ottenuto adeguato sostegno. «Abbiamo chiesto a Roma di rivedere le norme», ha spiegato il capo di gabinetto del Prefetto ed ex sub-commissario a Venezia Natalino Manno. Nel 2014, in tutta la provincia, le richieste di sfratto sono state 3.184 e 549 i provvedimenti eseguiti. Nel 2015, si scende a 3.122 con 691 rilasci di alloggio. Il dato che però colpisce è che oltre il 90 per cento delle richieste provengono dal Comune di Venezia: nel 2014 erano 3.037 (e gli sfratti eseguiti 504), nel 2015 sono diminuite a 2.989 (con 643 esecuzioni). Chi si trova in una situazione difficile, perché ha perso il lavoro o si è separato dal coniuge, o ancora è una precaria incinta senza maternità e non ha i soldi per l’affitto, ora ha una strada per evitare di precipitare in una situazione drammatica. Unica condizione, l’iter legale per il rilascio della casa non deve essere ancora partito. In questo caso, attraverso la Direzione comunale Casa, gli interessati potranno accedere agli aiuti per appianare la cosiddetta morosità incolpevole. Il reddito Isee non deve superare i 14 mila euro, vige l’obbligo di almeno tre anni di residenza nel territorio comunale e la morosità non deve superare i 12 mesi. «Siamo impegnati a prevenire in ogni modo questo fenomeno - ha detto Vito Cusumano, vicario del Prefetto -. Speriamo che questo protocollo porti qualche risposta positiva». Drammatici i racconti di Ivana De Rossi, Sunia. «Mi sembra quasi di essere in guerra, ogni giorno vivo drammi spaventosi, un sabato sera non sono riuscita ad aiutare due coniugi, il giorno dopo uno si era suicidati - racconta -. Quest’accordo ci dà più forza». Giorgio Chinellato, avvocato di Asppi, i piccoli proprietari, ieri ha dato piena disponibilità a collaborare definendo l’intesa «un passo importante». Ca’ Farsetti nel frattempo ha quasi pronto il nuovo bando per l’assegnazione di case pubbliche. «Conto di pubblicarlo prima dell’estate», dice la vicesindaco Luciana Colle. LA NUOVA Pag 18 Emergenza sfratti, nove casi su dieci in comune di Venezia di Giacomo Costa In città sono 643 gli inquilini messi alla porta nel 2015. Il Patriarcato stanzia 50mila euro per le situazione critiche Padri di famiglia separati e finiti in mezzo a una strada, ultra quarantenni rimasti senza un lavoro ma con un affitto da pagare, famiglie svantaggiate che da un giorno all'altro si trovano chiuse fuori dal proprio appartamento, le serrature cambiate in un blitz mentre erano a fare la spesa: le situazioni di sofferenza abitativa sono ormai diventate comuni.

In un simile scenario si moltiplicano ogni anno i casi di "morosità incolpevole", ovvero di inquilini impossibilitati a pagare il canone mensile a causa di imprevedibili e improvvisi cali di reddito (separazioni, perdite di impiego, cassa integrazioni, malattie, eventi tragici). Protocollo. Per fornire un aiuto concreto a queste categorie ieri mattina, nella sede della Prefettura a Ca' Corner, i rappresentanti del Comune di Venezia, Curia Patriarcale, Tribunale Ordinario, Corte d'Appello, ordine degli Avvocati, sindacati e associazioni di affittuari e proprietari hanno firmato un nuovo protocollo d'intesa finalizzato ad assistere queste persone, possibilmente precedendo gli avvisi di sfratto e riuscendo così anche ad alleggerire il carico burocratico degli uffici dell'amministrazione e della magistratura. I numeri. Le cifre parlano da sole: nel 2015 in tutto il territorio sono state registrate ben 3.122 richieste di provvedimenti esecutivi e 691 sfratti effettivamente portati a termine; i dati seguono da vicino quelli del 2014 (3184 richieste e 549 provvedimenti eseguiti), ma è andando a confrontare le cifre dell'intera Città metropolitana con quelle del solo capoluogo che si ricava la dimensione strettamente locale del fenomeno: l'anno scorso, solo tra laguna e terraferma, gli inquilini con un contenzioso aperto erano 2989, quelli effettivamente messi alla porta 643. In pratica nove morosi su dieci risiedono nel Comune di Venezia. Il nuovo accordo prende le basi dalla legge del 2013, ma cerca al contempo di superarla, ampliando le casistiche e soprattutto anticipando la notifica di sfratto. Gli interventi possibili. In concreto, nel corso di un primo anno di sperimentazione, l'amministrazione si impegna a mettere a disposizione risorse proprie (attingendo principalmente ai 160mila euro che Ca' Farsetti destina alle sofferenze abitative di ogni tipo), cui si aggiungono 50mila euro messi a disposizione dalla Diocesi, per aiutare chi non si può più permettere l'affitto. Bisognerà risiedere nel territorio comunale da almeno tre anni, presentare un reddito Isee di massimo 14mila euro e aver accumulato una morosità pregressa non superiore alle dodici mensilità; le famiglie che accederanno alla sperimentazione potranno ricevere fino a 5 mila euro, che diventeranno 7 mila in caso di stipula di un contratto di locazione ex novo a canone concordato e questi soldi serviranno a coprire al massimo il 30% del nuovo canone per un anno. Le associazioni di categoria, invece, avranno il compito di mediare tra inquilini e proprietari per abbassare almeno del 15% la quota mensile. Finora ad assorbire l'urto di centinaia di sfrattati ci hanno pensato le associazioni e le realtà del territorio che ieri hanno raccontato le loro esperienze. «Il Patriarcato è impegnato nell'accoglienza con tutto il proprio patrimonio immobiliare» ha spiegato il vicario episcopale don Dino Pistolato «ospitiamo famiglie in difficoltà anche in centro storico per la cifra simbolica di 150 o 200 euro al mese, e il nostro centro ricovero da 34 posti letto è sempre pieno». Anche i responsabili di Insula hanno parlato delle loro 400 abitazioni destinate al social housing. «Servirebbe però un aiuto con la manutenzione: non abbiamo i soldi neppure per gli interventi più banali: ci sono appartamenti che vengono lasciati vuoti quando basterebbe la buona volontà di qualche cittadino per dare una mano». Ivana De Rossi, presidente di Sunia: «La tempestività è importante e la firma di tante realtà ci permetterà di essere più rapidi nelle emergenze: in passato mi sono trovata a rispondere a richieste di aiuto il sabato sera, quando nessuno poteva intervenire; la mattina seguente c’era chi si era tolto la vita per la disperazione». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 4 – 5 Ammazza l’ex fidanzata, lo scrive agli amici e si spara di Cristina Antonutti, Mauro Favaro, Paola Treppo e Maria Santoro Tragedia a Spilimbergo. Ritratto del carnefice e della vittima. Il sociologo: “Un gesto studiato: internet ha scandito i suoi passi” Ha confessato di aver ucciso l’ex compagna con un messaggio su WhatsApp, poi si è suicidato con un colpo di pistola. Manuel Venier, 36 anni, cresciuto a Beano, alle porte di Codroipo, martedì sera ha creato un gruppo sul social network, vi ha inserito amici e parenti più stretti presenti nella rubrica del suo cellulare. L’ha chiamato "Addio" e, dopo

aver sparato due colpi contro Michela Baldo, 29 anni, addetta alle vendite al supermercato Lidl di Spilimbergo, ha inviato il lungo messaggio. «Eccomi qua, scrivo queste righe chiedendo scusa per quello che ho fatto, ma che nessuno capirà mai...». Sono le 21.24. La sua confessione ha raggiunto la madre Alda Flumignan che stava assistendo il marito Luigino Venier gravemente malato, il fratello Patrick e gli amici più cari. «Mi dispiace per il dolore che recherò - continua - Se cercate un capro espiatorio prendete me». Dà la colpa al suo «amore folle per Michela», spiega di aver ucciso per «non perderla». Dopo aver chiesto perdono, ha rivolto la sua pistola Glock alla tempia e ha esploso l’ultimo colpo. La coppia conviveva da tre anni e si era divisa da meno di una settimana, tre giorni prima lui era tornato dai suoi. Tra i primi a leggere il messaggio c’è una cugina di Michela: sono figlie di due gemelle e il loro legame è fortissimo. Poche ore prima ha incontrato Manuel a Travesio. Michela sapeva dell’incontro, ma non voleva vedere l’ex compagno, tanto che aveva chiesto alla madre, Annamaria Sguerzi, che vive con il marito Flavio Baldo nello stesso caseggiato di via della Repubblica, di consegnargli una busta con alcuni effetti personali. È la cugina a dare l’allarme ai Carabinieri di Spilimbergo. Michela non risponde al telefono. Inutile suonare il campanello. «Non risponde - ripete alla zia sempre più preoccupata - È chiuso a chiave». Sono le 21.50. Poco dopo arrivano i Carabinieri, che usano una scala per raggiungere l’ampio terrazzo: da una finestra scorgono due sagome sul pavimento. Non c’è bisogno di chiamare il 118. Lei è sul pavimento della cucina e non dà segni di vita, accanto c’è il corpo dell’ex compagno. Le ferite sono di arma da fuoco, ma la pistola non c’è. È sotto il corpo di Venier, ci vorrà un po’ di tempo per escludere l’ipotesi di duplice omicidio. Quello che da lì a poche ore ricostruiranno i Carabinieri ha i contorni di un agguato. Venier, addetto al reparto ortofrutta dell’Ipercadoro di Basiliano ed ex guardia giurata, ha raggiunto Spilimbergo portandosi la pistola in tasca e il caricatore pieno (15 colpi). La sua Seat Ibiza è stata trovata lontano dall’abitazione, nascosta dietro un muretto. Aveva restituito le chiavi di casa, ma sapeva dove trovare quelle di riserva. Per aprire il cancelletto bastava pigiare un bottone dall’interno. Ha manomesso la lampadina della cucina e aspettato Michela al buio. Lei è tornata dal lavoro alle 21.15. Ha salutato la madre che l’aspettava sul terrazzino ed è entrata in casa. È probabile che si sia diretta verso la cucina senza accorgersi della presenza dell’ex compagno. Lui l’ha colpita alle spalle: un colpo tra le scapole che potrebbe averla uccisa all’istante per choc emorragico. Il secondo colpo lo ha esploso puntando al petto, quando la giovane era già a terra. Nessuno ha sentito gli spari, perché ha messo il cuscino del divano davanti alla canna della pistola per attutire i colpi. Dopo aver inviato il messaggio, si è sparato: il colpo alla tempia destra lo ha trafitto da parte a parte. I Carabinieri della sezione rilievi hanno recuperato sul pavimento tre bossoli e tre proiettili inesplosi (probabilmente in preda al panico ha cominciare a scarrellare l’arma). Quando ha visto che il cassetto in cui il figlio conservava la pistola era vuoto, Alda Flumignan ha avuto un presentimento: «Ho capito che sarebbero morti tutti e due». Per il figlio era un periodo nero, come la foto che aveva postato su Facebook il 2 giugno: completamente nera. «Ricorda - gli scriveva la madre - che chiusa una porta si apre un portone e che dopo la tempesta il sole è più luminoso. Noi famiglia ti amiano». Ma a Manuel voleva solo Michela. Nessun altro. E per questo l’ha uccisa. «Non è un omicidio-suicidio - precisa il procuratore Marco Martani - ma un femminicidio-suicidio». Il secondo in provincia di Pordenone nel giro di due anni. Treviso - «Le relazioni di coppia vengono vissute ormai come possesso dell'altro. Questa vicenda è l'ennesimo caso di morte annunciata attraverso i social». Francesco Pira, sociologo ed esperto dei nuovi media, docente di comunicazione all'Università Salesiana di Venezia e all'Università di Messina, analizza così l'omicidio-suicidio di Spilimbergo. Manuel Venier aveva inserito alcuni amici in un gruppo WhatsApp chiamato tragicamente «Addio». Professore, cosa può spingere a condividere con gli altri un atto del genere attraverso l'applicazione di messaggistica istantanea? «L'omicida-suicida ha voluto creare un gruppo su WhatsApp per scandire i suoi passi e codificare un modus operandi. Avvisare le persone con cui era in connessione attraverso le nuove tecnologie annunciando quanto avrebbe fatto, senza però rivelare particolari che avrebbero potuto fermarlo nel suo intento omicida». Anche il nome del gruppo può essere stato pensato con questo intento?

«È stato studiato dall'assassino per alimentare l'ansia e la paura di chi era in contatto con lui». In casi del genere si parla spesso si parla di «amore malato». «Non basta chiamarlo così. Siamo parte di una società che non riesce più a dare valore alla vita come un dono e non come un numero in più o in meno di abitanti sul pianeta». É possibile intervenire in qualche modo? «Non vi è dubbio che il gran parlare di "femminicidio", ormai avvertito come i grandi casi di cronaca più a livello numerico che di danno alla persona, stia creando una spaventosa abitudine nel registrare un fenomeno su cui è necessario lavorare ora dopo ora». Fin da giovanissimo il suo sogno era quello di diventare un tutore dell'ordine, di proteggere e aiutare le persone in difficoltà. Nato a San Vito al Tagliamento il 25 novembre del 1979, dopo le scuole dell'obbligo Manuel Venier aveva fatto il corso a Fossano, in provincia di Cuneo, e di seguito era stato destinato come carabiniere ausiliario ad Aurisina, in provincia di Trieste. La sua «vera» carriera, però, ha cominciato a costruirsela dopo, altrove, all'Italpol di Udine, dove ha lavorato con rigore per sei anni. Quindi un nuovo cambio d'occupazione, come commesso in alcuni negozi, tra cui la catena di ortofrutta «Trischitta» e, negli ultimi tempi, da due mesi a questa parte, l'assunzione all'«Iper Cadoro», un supermarket che fa parte del complesso commerciale «Arcobaleno», a Basiliano, a poca distanza dalla casa dove era cresciuto, al civico uno di via Ferrovia, nella vicina Codroipo, nel Medio Friuli. Era diventato un ragazzo forte, attorniato dall'affetto della madre, Alda Flumignan, di 64 anni, di Beano, responsabile per molti anni della catena di abiti Bernardi, e del padre Luigino, 70 anni, di Gradisca di Sedegliano, stesso mestiere, che lo ha portato a girare in tutta Italia. Poi il suo «fratellone» inseparabile, Patrick, 44 anni, orafo che lavora in un negozio a Codroipo. Manuel, dopo le scuole, non aveva fatto molta vita di paese: viaggiava per lavoro e gli piaceva. Ma il suo amore più grande era Michela con cui era andato a convivere, a Spilimbergo, 3 anni fa, nella casa di lei. «Com'era Manu? Bello, buono, come Michela. Una coppia che si amava, da tre anni contenti insieme, con qualche litigio, certo, ma come tra tutti i fidanzati; poi facevano sempre la pace» ricorda la mamma. «Brave persone anche la famiglia di lei che era venuta a trovarci tante volte a casa. Poi qualcosa si è rotto e lui non ce la faceva a uscirne: piangeva e si sfogava con noi, non la voleva perdere. Gli dicevamo di tirarsi su, che il dolore avrebbe lasciato posto a un nuovo amore». Prostrato il fratello: «Manuel era un ragazzo solare e generoso, pieno di voglia di vivere. È un dramma per tutti». Avrebbe conquistato il mondo con il suo sorriso, Michela Baldo aveva solo 29 anni, figlia unica e amatissima di Flavio e Annamaria, spenta per sempre dal folle gesto del suo ex fidanzato Manuel. È stato lui a toglierle la vita e tutti i sogni di essere felice, un giorno, accanto a qualcun altro. Lei si era diplomata all'Istituto Stringher nel 2006, in pochissimo tempo aveva iniziato a lavorare e dal 2008 era stabilmente impiegata al supermercato Lidl di Spilimbergo. «Una lavoratrice irreprensibile - l'hanno descritta i colleghi e la stessa azienda - ricorderemo per sempre la sua gentilezza e la disponibilità». Doti che contraddistinguevano la sua personalità, solare e contagiosamente ottimista: «Aveva un sorriso angelico - hanno ricordato gli amici più intimi - delicato, genuino, proprio come lei». Una ragazza d'altri tempi, Michela pensava a lavorare, mettere da parte i soldi per costruire il suo futuro indipendente. Le uniche occasioni di svago erano le ore trascorse in palestra con la sua migliore amica Stefania Bonutto, istruttrice di fitness: «Amava anche ballare - ricordano - era una delle sue grandi passioni». Michela e Stefania facevano praticamente tutto assieme e le due famiglie erano legatissime: «Non si sono mai separate dall'infanzia, - hanno sottolineato le persone più vicine a Michela - si confidavano i segreti più intimi». E forse proprio l'amica Stefania che ascoltava le confessioni di Michela le avrà consigliato di interrompere la relazione. In realtà Michela stava già meditando la fine del rapporto con Manuel, troppe le incomprensioni, le sue stranezze, l'ansia che faceva a pezzi la loro storia d'amore. I familiari della ragazza non avevano colto però tutti i segnali del suo malessere profondo, lo hanno descritto come una persona meticolosa, un uomo desideroso di renderla felice: «la riempiva di regali, la aiutava nei lavori di casa -

riferiscono alcuni conoscenti - non era così facile intuire quale funesto progetto stesse pianificando». A pochi giorni dal femminicidio di Sara Di Pierantonio a Roma si registra l’omicidio di un’altra donna colpevole solo di aver voluto finire una relazione sentimentale. nel caso di Spilimbergo c’è stato anche il suicidio dell’omicida, un evento che nell’ultimo anno ha avuto numerosi precedenti. Eccone alcuni, focalizzando i casi del Nordest: 12 agosto 2015: Claudio Rampanelli uccide a coltellate la compagna, Laura Simonetti, e la figlia della donna, Paola Ferrarese, poi si suicida gettandosi dalla finestra. Il dramma a Trento. 20 ottobre 2015: un uomo uccide la moglie sparandole e poi rivolge l'arma contro di sè: succede all'ingresso dell'ospedale di Mestre. L'uomo viene inizialmente ricoverato in gravi condizioni, ma poi muore in ospedale per le ferite riportate. 4 marzo 2016 a San Giorgio delle Pertiche, Padova, vengono trovati cadaveri Karl Christian Neumeyer, tedesco, 33 anni e Mariana Caraus, rumena, 25 anni, abitante a Padova. Lui ha ucciso lei e poi si è sparato al cuore. 4 aprile 2016: un 37enne uccide una donna di 47 anni, madre di tre figli, in una villetta a Pojana di Granfion, nel vicentino. L'uomo non si rassegnava alla fine della relazione. 16 aprile 2016: un anziano di 73 anni uccide la moglie con un colpo di pistola e poi tenta il suicidio sparandosi. Accade a Mira, nel veneziano. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il crimine e le ragioni di Stacchio di Massimiliano Melilli Ha ragione (da vendere) Graziano Stacchio nel dirsi «sollevato». Già a metà aprile la procura di Vicenza aveva chiesto l’archiviazione del procedimento a suo carico. Ora il giudice Stefano Furlani ha accolto la richiesta, firmando il decreto di archiviazione. Ovvero la parola fine alla vicenda giudiziaria che ha diviso l’Italia con l’inevitabile schieramento sul campo di due fazioni: innocentisti e colpevolisti. Il tutto, accompagnato da crociate, interrogazioni in Parlamento, manifestazioni, campagne stampa. Oggi questa sentenza ha il sapore della giustizia «sociale», proprio per il significato stesso di comunità e dell’impatto (fortissimo) che il caso ha avuto sulla pelle del territorio. Anche tutti i veneti, possono legittimamente sentirsi «sollevati» dopo una sentenza su un fatto di cronaca che ha scosso profondamente. Il benzinaio di Ponte di Nanto, fu accusato di eccesso colposo di legittima difesa, per aver imbracciato il fucile contro i banditi che il 3 febbraio 2015 assaltavano la vicina gioielleria Zancan e per aver tentato di difendere la commessa del negozio. Stacchio riuscì a schivare le raffiche di mitra dei banditi e ne colpì uno alla gamba, il nomade Albano Cassol, uccidendolo. Secondo la Procura aveva aperto il fuoco solo per difendersi, linea seguita anche dal giudice con l’archiviazione del procedimento. Atto non scontato che sancisce la fine di un caso lancinante. Dal benzinaio osannato come eroe da politici e cittadini, elevato a vessillo della legittima difesa, anche stavolta è arrivata una lezione di moderazione ed equilibrio. Nel frattempo, in questi mesi, abbiamo fatto i conti con nuove rapine, furti, reati. Da una parte, la piccola e media criminalità, dall’altra noi, la società. E un principio che trascuriamo: chi impugna un’arma e decide di delinquere, oggi, è disposto a spingersi oltre. Cioè anche uccidere. In tale scenario, forse è giunto il momento di riflettere (e rivedere) lo stesso concetto di legittima difesa. Una dimensione che ci riporta ad un altro fatto di cronaca che fa discutere: uccise un ladro per difendersi, condannato a 2 anni e 8 mesi e a risarcire la famiglia del bandito con 325mila euro. E’ la storia di Franco Birolo, tabaccaio di Civè di Correzola: la notte del 22 aprile 2012 sparò a un ladro moldavo che lo stava rapinando. La decisione del giudice del Tribunale di Padova, inoltre, va in controtendenza con la richiesta di assoluzione per il tabaccaio avanzata ad ottobre dal pm. “È legittima difesa” aveva detto allora il pubblico ministero. Ma il giudice ha deciso diversamente. Restano tanti (troppi) gli interrogativi senza risposta del caso Birolo. C’è il danno: una vita rovinata in una notte. C’è la beffa: il risarcimento danni a favore della famiglia del bandito. C’è lo sgomento davanti a una giustizia che non chiude ma apre una nuova stagione di delusione e veleni. E facciamo i dovuti scongiuri: speriamo che nel frattempo altre tentate rapine o furti non finiscano nel sangue.

Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Quel vizio del voto a dispetto di Antonio Polito Elezioni nelle città Pensate all’Inghilterra: l’isolamento può essere splendido, come nell’Ottocento imperiale, o molto rischioso, per esempio dopo una Brexit. Lo stesso vale per il Pd di Renzi. Il nuovo leader l’ha costruito per essere solo e vincente, autosufficiente fino all’arroganza: finché vinci sembra una bella idea, ma poi arrivano momenti in cui se sei solo puoi perdere. Il ballottaggio è uno di questi momenti. Al secondo turno ti serve il voto di qualcuno che non ha votato per te al primo. E se oggi il Pd si guarda intorno, non trova molti potenziali amici. La Dc aveva i partiti laici, il Pci aveva il Psiup e nei Comuni il Psi, l’Ulivo aveva Bertinotti, Berlusconi la Lega. Movimenti diversi, ma non ostili, pronti dunque a convergere contro il nemico comune. Il Pd ha intorno a sé solo nemici, a destra e a sinistra. È anzi più probabile che tutti i suoi nemici diventino amici tra di loro per inimicizia a Renzi. Se avvenisse, Roma è persa, Milano pure, Torino e Bologna rischiano, e il referendum chissà. La camicia di nesso bipolare in cui Renzi ha voluto stringere la politica italiana con l’Italicum potrebbe insomma strapparsi in assenza di un sistema di alleanze un po’ più articolato di Denis Verdini. Naturalmente gli avversari del premier lo sanno e rispolverano il più italico (altro che Italicum) dei vizi: il voto a dispetto. Di solito nel mondo democratico gli elettori tendono a scegliere il candidato più vicino, o al massimo l’astensione, quando il proprio candidato non è più in lizza. Da noi, complice l’estrema politicizzazione della vita pubblica, c’è ancora una discreta quota di elettori disposti a premiare anche il candidato più lontano purché sia in grado di battere chi si ha in odio. Che cosa c’entrano i grillini con Parisi a Milano? O gli ex missini con la Raggi a Roma? O i leghisti con l’Appendino a Torino? Niente. Solo che coalizzandosi possono battere Renzi. Questa tendenza, accentuata dal cinismo dei capi partito che sperano di utilizzare i loro elettori come massa di manovra, non è sana. Distoglie l’attenzione dal vero tema del voto (oggi il governo dei Comuni, a ottobre la Costituzione) e aggrava una certa tendenza faziosa e belluina della vita politica italiana. E non basta riconoscere che Renzi ci ha messo del suo per negare che sia un problema. Tentare di indirizzare gli elettori dove più conviene ai partiti può del resto trasformarsi anche in un boomerang. Chissà, per esempio, se gli elettori della sinistra radicale milanese, dopo aver rotto con Sala, accetterebbero mai di fargli un favore ora che ha bisogno dei loro voti. In assenza di una legge elettorale alla francese, che giustamente consente tra i due turni, anche alle Politiche, apparentamenti e coalizioni alla luce del sole, meglio dunque astenersi da ammiccamenti sotto banco e da appelli al dispetto. Anche perché, molto probabilmente, a decidere i ballottaggi non saranno i voti in più che arriveranno ai candidati rispetto al primo turno, ma quanti voti in meno prenderanno causa caldo, noia, e astensione . Pag 3 La resa dei conti si consuma dietro gli schieramenti di Massimo Franco Lo scontro più vistoso è quello tra Pd e Movimento 5 Stelle. Ma quello più tossico, sebbene meno appariscente, si sta consumando all’interno degli schieramenti. E potrebbe condizionare i ballottaggi del 19 giugno quanto il primo: anche nel centrodestra. È una conseguenza delle sconfitte o semplicemente delle delusioni al primo turno, da Roma a Milano a Napoli, dove tra l’altro la sede del Pd è stata perquisita ieri in seguito a un’inchiesta per corruzione elettorale. Matteo Renzi ha fatto sapere che almeno formalmente non si spenderà più di tanto nei ballottaggi, coerente con la tesi di una tornata amministrativa e non politica. Ma quando si delinea la prospettiva di una coalizione di «tutti contro i candidati di Renzi» nelle grandi città, il premier lascia capire che lo schema è meno semplice e meno a senso unico. È vero che il Pd è percorso da tensioni profonde tra la minoranza e il segretario. Ma la stessa maggioranza renziana resiste alla strategia di Palazzo Chigi sulle riforme costituzionali e il referendum. Ci sono settori della sinistra che non vedrebbero male una sconfitta tale da ridimensionare

fortemente Renzi. I contrasti all’opposizione tra Forza Italia e Lega, tuttavia, riproducono uno schema simile sul loro fronte. Il fatto che a Roma Silvio Berlusconi sia accusato di avere diviso il centrodestra per impedire la vittoria dell’asse tra il leghista Matteo Salvini e Giorgia Meloni, candidata di FdI, fa temere contraccolpi a Milano. La figura di Stefano Parisi, designato da Berlusconi, promette di assumere contorni politici di rilievo, se vince come sindaco. Di fatto diventerebbe anche un concorrente per la leadership nazionale del centrodestra, scavalcando le ambizioni di un Salvini uscito malconcio dalle Amministrative. Per questo, si teme un impegno del Carroccio in tono minore. Lo stesso vale per il Campidoglio, dove i voti delle destre potrebbero essere in parte dirottati verso l’astensione; in parte dividersi tra la candidata del M5S Virginia Raggi (quelli della Meloni); in parte verso il dem Roberto Giachetti (quelli di Alfio Marchini). Si tratta di scenari tutti da verificare, ma che testimoniano le linee di frattura interne agli schieramenti. La prospettiva di Renzi rimane il referendum. Sarà quello a decidere il suo futuro, non il voto del 19 giugno: in tv ha ribadito che non si dimetterà se il Pd perdesse i ballottaggi nelle maggiori città. «Abbiamo già detto che la mia permanenza al Governo è legata all’esito del referendum», è stata la sua risposta. E ha voluto anche sottolineare che se si votasse oggi con il sistema dell’Italicum, si affermerebbero Pd e FI, non M5S e Lega. Il problema è che tra nemmeno due settimane al ballottaggio ci saranno anche i candidati di Grillo; e che rischiano di prendersi Roma. Pag 19 Altro che Brexit, è la Francia la più antieuropea di Stefano Montefiori e Paolo Lepri L’Italia Paese più favorevole dopo la Polonia e l’Ungheria: a noi l’Unione piace (ma non così tanto) anche perché Bruxelles ci ha lasciati soli Parigi. Che i britannici il 23 giugno scelgano di restare o di lasciare, in questi giorni stanno passando per i responsabili della delusione europea, colpevoli di sabotare l’integrazione dall’interno e magari di scatenare l’effetto domino uscendo dall’Unione. Europeisti troppo timidi, o euroscettici troppo determinati, i cittadini del Regno Unito hanno sulle spalle il peso del grande chiarimento che il continente attende: ora basta, decidetevi, o dentro o fuori. Come se i fallimenti e i ritardi delle istituzioni europee, finora, siano dipesi da loro. C’è però uno studio americano, del Pew Research Center di Washington, che suggerisce un’altra realtà: il popolo che guarda all’Unione europea con più sfavore, dopo i greci rovinati dalla crisi finanziaria, non sono i britannici ma i francesi. Una netta maggioranza, il 68 per cento, ha un’opinione negativa dell’Unione europea. Tendiamo a dimenticarlo ma non è una novità ed è la prossima sfida che aspetta gli europei, visto che tra neanche un anno in Francia sono in programma le elezioni presidenziali che vedono favorita, almeno al primo turno, la nemica dichiarata della Ue, Marine Le Pen. Le percentuali del Pew Research Center ci ricordano che l’attuale impasse europeo trova le sue radici anche nel no espresso dai francesi al referendum del 2005 sulla Costituzione europea. Un trauma dal quale la classe politica non si è più ripresa: bocciata l’idea di cedere sovranità a Bruxelles, da allora Parigi ha praticato un europeismo di facciata, ma il presidente François Hollande nel 2012 ha scelto come primo consigliere politico e come ministro degli Esteri Aquilino Morelle e Laurent Fabius, due convinti esponenti del «no» alla Costituzione. In questi anni la sfiducia nei confronti della Ue si è solo approfondita, e non secondo la prevedibile divisione tra populisti nazionalisti e élite filo-europea. Non poche voci influenti nel dibattito pubblico auspicano il ritorno a una Francia totalmente sovrana: dal più celebre scrittore francese vivente Michel Houellebecq al filosofo di sinistra Michel Onfray nemico dell’«Europa liberale», al polemista neoreazionario Eric Zemmour. In un anno, il tasso di fiducia nei confronti dell’Unione si è abbassato di 17 punti. E se andiamo più indietro, nel 2004 i francesi a favore della Ue erano il 69%: oggi sono solo il 38%. Come negli altri Paesi presi in esame, i motivi di scontento sono soprattutto la gestione della crisi dei migranti e l’economia, e i più euroscettici sono i cittadini oltre i 50 anni. L’Italia resta il Paese più europeista con il 58% di pareri positivi, dietro a Polonia (72%) e Ungheria (61%). Dopo il voto in Gran Bretagna, andrà affrontata la questione francese. Dice l’eurodeputata Sylvie Goulard, autrice del libro dall’eloquente titolo Goodbye Europe : «Cerniera tra il Nord e il Sud, tra mondo latino e germanico, la Francia ha vocazione a

occupare il centro del gioco europeo. Ed è proprio perché la Francia ha largamente rinunciato a tenere questo posto, negli ultimi anni, che l’Europa va così male». Pag 32 Germania, il leader mancato d’Europa di Federico Fubini e Wolfgang Münchau Si passa molto tempo nell’area euro in questo periodo a discutere se la Germania debba o meno essere il Paese leader. È un dibattito inutile, per quanto affascinante. Se non altro per carenza di alternative pronte, il Paese più grande dell’area sembrerebbe anche la guida più plausibile di un esperimento monetario che rimane ancora in bilico. La Francia si è arenata nella sua interminabile traversata del deserto, resa ancora più dura dai continui ostacoli a qualunque riforma. E malgrado tutto il suo attivismo, Matteo Renzi resta il primo ministro di un’economia incatenata dal debito e da una competitività debole. La Germania, almeno in apparenza, ha l’economia e il sistema politico meno in difficoltà e nel tempo si è dimostrata persistente nelle sue politiche europee. Non sorprende che Berlino pesi tanto nelle decisioni dell’area, o che tanti dall’estero guardino al governo tedesco per cercare di capire dove sta andando la zona euro. Resta fuori un dettaglio, però. La Germania non ha mai presentato domanda per quel tipo di ruolo da leader. Non lo voleva quando rinunciò al marco nel 1999, e psicologicamente oggi non è più preparata dell’Italia o della Francia a rivestirlo. La Germania, costituzionalmente, non è un leader. Quasi sempre il suo dibattito politico o economico nazionale è orientato in senso domestico almeno tanto quanto quello di qualunque altro Paese dell’area euro. Gli economisti tedeschi considerano l’enorme surplus esterno del Paese sulle partite correnti come una questione di orgoglio nazionale o, nel migliore dei casi, un residuale dettaglio: una visione completamente incompatibile con qualunque ruolo di àncora del Paese in un’unione monetaria da 10 mila miliardi di euro di prodotto lordo. Immaginiamo per un secondo la Germania nelle vesti di leader incontrastato dell’area euro. Poiché non ne avrebbe alcuna legittimazione democratica, gran parte delle persone detesterebbe quest’idea. Dato il dogma economico che predomina all’interno del Paese, una leadership tedesca in politica economica equivarrebbe a una posizione mercantilista del complesso della zona euro, imposta attraverso la moderazione salariale in tutta l’area e non con una svalutazione della moneta. Se la Germania fosse il leader incontrastato, i suoi seguaci dovrebbero accettare un conflitto molto più acuto con la Banca centrale europea. La Germania non ha mai veramente riconosciuto la definizione dell’obiettivo d’inflazione vicino al 2% come mandato per la stabilità dei prezzi. Per la Germania, un tasso d’inflazione fra zero e uno per cento rientra nella definizione di stabilità dei prezzi. Finirebbe per esportare disinflazione nel resto dell’area euro e per rendere impossibile agli altri Paesi di ridurre l’eccesso di debito. Se un Paese così fosse il solo vero leader, il Quantitative easing della Bce dovrebbe fermarsi oggi. Cosa comporterebbe una scelta del genere per l’Italia? Quantomeno, la obbligherebbe a un’applicazione stretta delle regole del «fiscal compact» da subito, e neanche quello riuscirebbe a rassicurare i mercati finanziari. Il risultato di un simile pacchetto di politiche d’ispirazione tedesca sarebbe un surplus delle partite correnti che cresce a vista d’occhio in tutti i Paesi dell’area euro, e investimenti interni perennemente depressi. Con la Germania leader incontrastato, non ci sarebbe mai alcuno strumento comune di debito e nessuna unione bancaria oltre quella che abbiamo già oggi con regole comuni, vigilanza comune, una cascata di attivi bancari da colpire con il bail-in - dalle obbligazioni ai depositi - e nessuna assicurazione comune. Ma appunto: la Germania non ha mai fatto domanda per quel posto da leader. Ed è un bene, perché finirebbe per distruggere l’euro. Sospettiamo anche che il governo tedesco lo capisca. Il problema di queste discussioni sulla leadership tedesca è che gli altri magari vorrebbero che la Germania la esercitasse, dato che le sue performance restano insuperate; ma preferirebbero che Berlino guidasse nella direzione che vogliono loro. Vorrebbero che l’economia più grande assumesse la responsabilità dell’equilibrio generale della zona euro ed esercitasse «soft power», il potere di far sì che gli altri Paesi vogliano ciò che vuole il Paese leader. Purtroppo, questa combinazione non è sul mercato. Non è mai stato inteso che lo sarebbe stata. Al cuore del progetto dell’euro si trova una colossale carenza di leadership politica con cui bisogna fare i conti, se si vuole che l’unione monetaria sopravviva nel lungo periodo. Un’alternativa alla leadership tedesca potrebbe essere un direttorio informale composto

da Germania, Francia e Italia; purtroppo però queste costruzioni sono per loro natura instabili, soggette ai capricci di politici egocentrici e ai loro appuntamenti elettorali. Per il momento nessuno dei tre leader nazionali è in condizioni di contribuire granché a un’efficace leadership comune. Per questo, l’unica possibilità di assicurare la sopravvivenza della zona euro nel lungo periodo è una qualche forma di unione politica che non dipenda dalla Germania. È essenziale che l’unione monetaria vada verso istituzioni e politiche comuni, e dipenda di meno dalla cooperazione fra governi nazionali. La direzione dovrebbe essere l’unione politica. Ciò implica che gli italiani (e i francesi, e gli spagnoli) la smettano di parlare con magniloquenza del sogno di un Europa federale e accettino la realtà: la netta perdita di sovranità, o di controllo da parte delle élite locali, che qualunque unione politica implica. A quel punto l’Italia dovrebbe tenere la rotta e mantenere l’impegno anche quando i gruppi d’interesse all’interno del Paese gridano all’ingiustizia e accusano l’«Europa», non appena le loro rendite di posizione vengono sfidate. Se rifiutiamo l’unione politica, con le sue implicazioni reali, l’alternativa immediata è già chiara: una Germania che esercita l’influenza maggiore nell’area euro, che ci piaccia oppure no. Pag 33 La Russia di Putin avversario strategico dell’Occidente? di Ricardo Franco Levi «Dietro alla scrivania, sotto l’aquila dorata a due teste della Russia su uno scudo rosso, sedeva il Presidente: pallido, il volto esangue, gli zigomi alti, gli occhi freddi, minacciosi, di un azzurro chiaro… “Il mio primo dovere è difendere la Russia impedendo l’accerchiamento da parte della Nato. E il modo per farlo è di impadronirci dell’Ucraina orientale e degli Stati baltici”». «Una dura donna d’affari salita al vertice in un mondo di uomini, era stata l’anno prima la sorprendente vincitrice delle elezioni presidenziali. Elegantemente vestita, i capelli tinti di biondo, sottolineava la propria femminilità indossando una gonna. “Questa non è la prima volta nella storia che la libertà dell’Europa dipende dalla determinazione del presidente degli Deputy Supreme Allied Commander Europe Stati Uniti… Potete fare affidamento su di me. Ma anche la Nato deve fare la propria parte”». Raccontata col piglio di un thriller di Frederick Forsyth o di Tom Clancy, 2017, War with Russia , appena pubblicato in Inghilterra da Coronet, è la storia di una catastrofica guerra resa possibile dall’incapacità della Nato e dell’Occidente di resistere a un’aggressione della Russia con l’invasione prima dell’Ucraina, poi dei Paesi baltici. Un romanzo giallo come tanti altri, si dirà. Se non che l’autore è sir Richard Shirreff, un generale britannico a quattro stelle, sino a due anni fa il militare europeo più in alto in grado nella Nato, secondo al solo comandante supremo e, come tale, testimone e partecipe delle riunioni di più alto livello dove si decidevano le politiche di sicurezza e difesa dell’Occidente. E per quanto in 2017, War with Russia gli scontri e i combattimenti siano scritti e descritti con l’immediatezza, la precisione e il pathos che solo chi li ha vissuti in prima persona possiede (i duelli aerei tra russi e americani valgono il migliore dei film di guerra), sono proprio le pagine sulle riunioni nel quartier generale della Nato a Bruxelles, al numero 10 di Downing Street, al Pentagono, alla Casa Bianca che offrono i più penetranti elementi di interesse, di curiosità, di conoscenza. Lasciamo al lettore - è difficile pensare che il libro possa sfuggire all’attenzione degli editori italiani - il piacere di scoprire la trama del romanzo. Qui merita di riportarne e sottolinearne la tesi di fondo. L’invasione e la successiva annessione della Crimea, il sostegno della Russia ai separatisti della regione orientale e poi l’invasione dell’Ucraina, l’annuncio nel marzo 2014 dell’intenzione di riunire le popolazioni russofone sotto le bandiere della Madre Russia, fanno della Russia il nostro avversario strategico, in rotta di collisione con l’Occidente. Di fronte a questa minaccia è essenziale mantenere forze militari - carri armati, aerei, artiglieria, navi, uomini sul terreno - in grado non solo di respingere ma, prima ancora, di scoraggiare un eventuale attacco. È solo il possesso e il mantenimento in piena efficienza di robuste forze convenzionali - il contrario di quanto segnalato con il ritiro dell’ultimo carro armato americano dalla Germania un mese dopo l’invasione della Crimea - che offre la speranza di non dover mai ricorrere all’opzione finale: l’arma nucleare. Ma, se siamo arrivati a questo punto, la responsabilità - ricorda lo stesso Sir Richard Shirreff - non è solo della Russia di Vladimir Putin, è anche nostra, dell’Occidente. Dopo avere allargato la Nato ai

paesi dell’Europa Centrale, ai Balcani e ai Paesi baltici, con la promessa di un ingresso nell’Alleanza estesa all’Ucraina abbiamo reso concreta la possibilità e acuito la storica paura di un accerchiamento militare in una Russia che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il caos degli anni Novanta, stava ricostruendo la propria potenza e recuperando il proprio orgoglio nazionale. Ricercando, in un arco che può andare dal Baltico sino alla sponda sud del Mediterraneo, le ragioni, le occasioni e gli strumenti di un dialogo e di una collaborazione con Mosca, spettano, dunque, alla politica il compito e il dovere di rendere meno angosciosa la prospettiva di una sicurezza affidata al solo equilibrio degli arsenali militari. Intanto, leggiamo con attenzione questo libro coraggioso, tempestivo e importante. LA REPUBBLICA Pag 1 Il populismo lega-stellato di Ilvo Diamanti In vista dei ballottaggi che si svolgeranno nelle principali città, si delinea una convergenza fra i principali soggetti politici anti-renziani. Questa, almeno, sembra la principale logica che ispira le scelte della Lega e del M5S. Remare contro i candidati del PdR. Votare per l'avversario del Capo e del partito di governo, chiunque esso sia. Di qualunque partito. In questo modo, ha osservato Ezio Mauro, nei giorni scorsi, M5S e Lega, gli antagonisti più determinati di Renzi, si apprestano a celebrare le "nozze del caos". Che stabiliscono un rapporto stretto fra gli opposti populismi. A Roma e a Torino, in particolare, l'indicazione di Salvini a sostegno di Virginia Raggi e Chiara Appendino è netta. Ed esplicita. Così come a Milano Lega e M5S si sono espressi, entrambi, per Parisi e, soprattutto, contro Sala. Il candidato di Renzi. Cioè: il comune nemico. Il "tripolarismo imperfetto", di cui avevo parlato nei giorni scorsi, commentando i risultati del primo turno, in questa occasione, si ricompone e si bipolarizza. Spinto, in questa direzione, dalle regole del gioco elettorale. Ma anche dai reali orientamenti degli elettorati. Infatti, se guardiamo le indagini condotte da Demos (ma non solo) negli scorsi mesi, le affinità elettive fra gli elettori di questi partiti, peraltro molto diversi, appaiono evidenti. Palesi. In particolare, quasi 3 elettori della Lega su 10 si dicono (molto o abbastanza) vicini al M5S. Un legame, dunque, più stretto che con ogni altro partito. In particolare, rispetto al Pd (16%). Si tratta, peraltro, di una relazione reciproca, visto che fra gli elettori del M5S viene espressa una preferenza particolarmente intensa per la Lega, oltre che per i FdI. Vale la pena di osservare che questa attrazione Lega-stellata era già emersa in passato. In occasione delle elezioni politiche del 2013. Allora, nei comuni a forte radicamento leghista, si erano verificati rilevanti flussi elettorali a favore del M5S. "Restituiti", in gran parte, l'anno seguente, in occasione delle elezioni europee. Cosa spinge gli elettori dei due partiti gli uni verso gli altri, appassionatamente? Anzitutto, la comune insofferenza verso le istituzioni dello Stato e verso i partiti. In quanto tali. Si tratta, cioè, di attori politici dell'antipolitica. Poi, i comuni bersagli polemici. Per prima, l'immigrazione. Quindi, l'Unione Europea. In altri termini, le due facce della globalizzazione. La perdita di sovranità politica ed economica a favore di entità sovranazionali, perlopiù controllate da burocrati. E condizionate dagli interessi dei mercati e dell'economia globale. In secondo luogo, le migrazioni che provengono dal Sud del mondo. E aumentano il nostro senso di vulnerabilità. E di spaesamento. Lega e M5S, per quanto abbiano una sociologia e una geografia diverse, condividono questi sentimenti. E ciò spiega le tendenze al reciproco soccorso, in occasione dei prossimi ballottaggi. Dalle indagini condotte nelle scorse settimane da Demos, in particolare, a Roma oltre metà degli elettori di Giorgia Meloni, sostenuta dalla Lega di Salvini, sembra orientata a favore di Virginia Raggi. Mentre un altro terzo potrebbe astenersi. Pressoché identici i movimenti possibili - e probabili - a Torino. Dove, nel ballottaggio, oltre metà della base elettorale del "leghista" Morano sembra intenzionata a votare per la candidata dei 5 Stelle. Un terzo ad astenersi. A Bologna, dove, a sfidare il sindaco in carica, Merola, del PD, sarà la leghista Lucia Borgonzoni, invece, queste tendenze appaiono meno marcate, ma, comunque, coerenti. Circa il 40% degli elettori di Bugani, del M5S, propendono, infatti, per la candidata della Lega. Gli altri si dividono, in egual misura, fra Merola e l'astensione. Così, nelle città al voto, sta prendendo forma un'opposizione lega-stellata, che, in alcune zone, si allarga ad altri soggetti politici, di destra più estrema. Questa sorta di "terra di mezzo" canalizza e coagula sentimenti inquieti e risentimenti

anti-istituzionali. Antieuropei, antigovernativi. Che riflettono e amplificano l'insicurezza. Si tratta di alleanze e intese ispirate e dettate dagli specifici contesti e confronti in cui avvengono. Elezioni amministrative, che presentano confini locali e territoriali definiti. Eppure è difficile non immaginare - e prevedere - che si tratti di esperienze e di esperimenti che potrebbero riprodursi e proiettarsi altrove. Su scala più ampia. Soprattutto, in ambito nazionale. Dove l'opposizione populista lega-stellata minaccia di divenire la principale opposizione a Renzi e al suo PdR. Pag 1 L'eterno ritorno del Grillo-Vaffa di Francesco Merlo Grillo fisicamente non c'è. Non partecipa alla campagna elettorale perché "lo rende stanchino". Ma mentre concede la libertà, esibisce il vecchio manganello e la prosa malata Insulti e pizzini. Incappucciato come il mafioso Malpassotu, Beppe Grillo blog-scaracchia sugli avversari politici. Si è infrattato nella sua villa sarda, fra le acacie e i cavi usb, proprio come si infrattava quel Malpassotu che, da un buco della campagna siciliana, masticando odio e cicoria, scagliava i suoi pizzini per sfregiare i nemici e umiliare gli innocenti. Ovviamente Grillo non è mafioso. Ma la tecnica, al tempo stesso vile e d'assalto, è quella del capocosca che, nascosto nella macchia e protetto dalla Rete, organizza scorrerie. Dunque Renzi "il bomba" è "un cialtrone", e il pensiero più o meno debole di Orfini è prima deformato e poi oltraggiato. Grillo fisicamente non c'è. Non partecipa alla campagna elettorale perché - spiegò lui stesso - lo rende "stanchino", gli scarica cioè le pile, lo manda in luna calante che per un comico è crisi creativa. E però, mentre dice "non c'è più bisogno di me", "ormai comanda il Direttorio", "Di Maio è il leader", dalla tenda nera mostra e agita il bastone del comando. E mentre concede la libertà - "dopo che ho mandato affanculo tutto il mondo, ora fatelo voi e il Movimento diventerà vostro e basta, senza nomi e cognomi" - esibisce il vecchio manganello e la prosa malata. Solo apparentemente non c'è nessuna novità. Perché è vero che è stata questa, sin dall'origine, la missione del Movimento 5 stelle: ridurre il Paese a un cortile dove, come le lavandaie di una volta, i garzoni della Rete contagiano e costringono tutti a sbraitare contro tutti. E infatti ieri anche Orfini grilleggiava. Di sicuro rispondeva all'insulto con l'insulto. "Mi fai schifo, pensi solo ai soldi" è arrivato a replicare. Imitando il suo esegeta Travaglio, Grillo aveva ritagliato e manipolato le vecchie dichiarazioni di Orfini e le aveva messe a confronto con quelle di oggi, anch'esse ritagliate e manipolate. E dunque ne aveva deriso l'incoerenza e lo aveva insolentito spostandogli i pensieri, deformandoli e ricucendoli con fili diversi: parodia, chirurgia estetica, adulterazione, contraffazione...: banalità di un certo giornalismo. Ma Orfini ha perso la testa e alla fine non si capiva più chi fosse Grillo e chi fosse Orfini. E però, guardando con attenzione, nell'antichità del vecchio teppismo politico c'è qualcosa di diverso. È come se Grillo insultasse la nuora per svegliare la suocera. Non è solo con Renzi e con Orfini che ce l'ha. Ce l'ha soprattutto con i suoi ex burattini che da un po' di tempo si strappano le orecchie d'asino e si impratichiscono con la sintassi, con l'educazione, con il decoro estetico, con le giacche e le cravatte, con qualche libro persino. Pensate a quanto è diversa questa Virginia Raggi dalle erinni della prima ora, da quella Paola Taverna che diceva "se incontro Berlusconi gli sputo" e denunziava "il complotto per farci vincere" o, ancora più indietro nella civiltà, da Roberta Lombardi e da Vito Crimi, i due simpatici tontoloni che elogiavano il fascismo, si addormentavano in aula, si perdevano a Roma attorno al Parlamento e non trovavano la porta della Camera, o ancora da quel Massimo De Rosa che affrontò due deputate così: "Voi donne del Pd siete qui perché siete brave sol a fare p...". Ebbene, non dico che sia finito il tempo degli squinternati d'assalto, ma Virginia Raggi si era spinta sino a immaginare nella sua eventuale giunta degli esperti normali e veri, non più i professor paperino alla Becchi, ma urbanisti, economisti... E tutti abbiamo pensato che forse stava davvero tramontando l'era Casaleggio quando veniva elogiato lo Zeitgeist di un tal Peter Jospeh ed evocate le scie chimiche, i microchip sotto la pelle, e i grillini dichiaravano guerra ai "vaccini inutili", spiegavano che "il tumore si cura con il limone e la cacca di capra" e che "l'aids è la più grande bufala del secolo". Ecco, mentre noi ci facevamo quasi quasi conquistare, Grillo ha avuto un travaso di umore dinanzi a tanta buona creanza. Davvero ha temuto di ritrovarsi con politici di normale scienza e sapienza al posto di tutti quei mattoidi della controcultura

della buonanima che, secondo Grillo - come dimenticarlo? - "è stato ucciso dai giornalisti". Dunque accade che Grillo si spaventa che i suoi davvero facciano politica, scelgano un progetto di governo che non sia l'odio sistematico a tutti i governi, si confrontino, crescano e facciano crescere il Paese che li vota. No, lui vuole le insolenze, lo sberleffo e lo sbeffeggiamento da canaglia come destino. Perciò fa sabotaggio. Pretende il ritorno ai rutti e ai vaffa della prima ora. E scrive sul suo giornale di riferimento addirittura l'elogio di Berlusconi che, arriva a dire, lui sì aveva una grandezza, non Renzi che è peggiore perché è minore, ma solo nel senso del più miserabile. Che dire? Forza ragazzi, tenete duro, disobbeditegli, liberatevi e liberateci dall'incubo del potere del vaffa che diventa vaffa al potere; fate che si trasformi in un brutto ricordo quel rabbioso malumore che ha ridotto i blog, la Rete e la politica come i muri di certe latrine, dove il primo che arriva scrive le proprie porcherie. LA STAMPA La politica prigioniera di vecchi schemi di Luigi La Spina La sorpresa non è arrivata dall’esito del primo turno per le amministrative di domenica, perché, questa volta, i sondaggi ci hanno sostanzialmente azzeccato. La sorpresa, e la delusione, è venuta dalle interpretazioni della nostra classe politica e dirigente sui risultati del voto, sintomo quanto mai significativo di quel preoccupante distacco dalla realtà delle cosiddette «élite» del Paese, pervicacemente ostinate a guardare con gli occhiali del Novecento le tumultuose trasformazioni sociali di questo inizio del nuovo secolo. Perché stupirsi ancora che, sul consueto asse destra - sinistra del panorama politico italiano gli schieramenti sociali si siano, da tempo, rivoluzionati, non più nel binomio conservatori-progressisti, ma in quello integrati-esclusi? Con l’ovvia inversione delle tendenze elettorali nei quartieri delle nostre città. Perché ritenere che abbia ancora validità la tradizionale divisione socio-politica tra lavoratori dipendenti che votano a sinistra e autonomi che scelgono la destra, quando gli effetti della globalizzazione dell’economia e della finanza li hanno accomunati in un nuovo tipo di proletariato, precario e sfiduciato? Perché non accorgersi che l’improvvisa mobilità elettorale degli italiani, dopo decenni di assoluta impermeabilità tra gli schieramenti, è il segnale di una disperata, frammentata e occasionale domanda politica che non trova mai una offerta, adeguata alle necessità concrete e convincente nella promessa di soddisfarle? Ecco perché, a sinistra, si immagina nostalgicamente che sia ancora possibile ricostruire una alleanza politica che rifletta quella soluzione, chiamiamola socialdemocratica o laburista, che non ha più una base sociale di riferimento. Come, peraltro, dimostrano le convulsioni culturali e politiche persino dei Paesi scandinavi, esempi classici di tale modello, davanti alle sconvolgenti novità sia dei fenomeni migratori, sia di quelli finanziari di questi tempi. Così, a destra, si invoca, altrettanto nostalgicamente, la ricomposizione di un centro cosiddetto «moderato», in caccia di quegli elettori che sono diventati tutt’altro che «moderati», perché spinti, dalla devastante crisi del ceto medio, alle estremità più radicali dello schieramento partitico. La prigione mentale di schemi interpretativi obsoleti, paradossalmente, induce anche coloro che avvertono l’impossibilità di perpetuare ipotesi di soluzione di nuovi problemi con antiche ricette a proporre rimedi insufficienti o illusori. Se è vero, ad esempio, che le novità tecnologiche riducono pesantemente il mercato degli attuali lavori, ricorrere al cosiddetto «reddito di cittadinanza» come innovativa soluzione all’impossibilità di garantire il sistema tradizionale di welfare costituisce un sostegno, per di più senza speranze, alla sopravvivenza di tanti giovani e meno giovani e non l’offerta di occasioni per un progetto di vita o di «nuova vita». Alle difficoltà italiane, del resto molto simili a quelle di quasi tutte le società occidentali, purtroppo non esistono rimedi con efficacia immediata, proprio perché i mutamenti sociali, economici, culturali avvenuti dall’inizio del secolo sono stati troppo rapidi per la comprensione delle conseguenze da parte di classi dirigenti arroccate nel privilegio di non doverle subire. Ma il loro isolamento dalla realtà produce, per limitarci alle cronache di queste ore, effetti grotteschi, come gli appelli dei leader politici agli elettori perché, al ballottaggio, seguano le loro indicazioni, quando è ormai chiaro che i cittadini le ignorano e decidono solo con la propria testa. Quei partiti che i presunti capi-partito pensano di guidare, infatti, non esistono più da parecchi anni, trasformati, nei casi migliori, in comitati elettorali a seguito di un più o meno

improvvisato leader e, nei casi peggiori, in clan personali e affaristici di potentati locali. O come le volenterose e improbabili trasposizioni del voto di domenica su quello del 19 giugno e, nella foga profetica, i calcoli sulle prossime scadenze elettorali o referendarie alla luce di risultati che hanno, nelle variabili locali, indecifrabili significati nazionali. Meglio sarebbe, alleggeriti dai pur rispettabilissimi fardelli dei libri di Adamo Smith o di Carlo Marx , andare, con liberatoria curiosità, alla scoperta di tanti fenomeni nuovi che hanno cambiato la nostra vita e, soprattutto, quella delle più giovani generazioni. Ci accorgeremmo, allora, che la scuola e l’università, una volta deputati ascensori della mobilità sociale, sono diventate, tranne qualche eccezione, istituzioni che perpetuano una feroce conservazione di classe nei destini dei loro studenti. O che il sistema di welfare familiare che negli anni passati consentiva, con il patrimonio dei risparmi accumulati dal lavoro di nonni e padri, di mantenere figli precari o disoccupati per lunghi anni, incomincia a franare. I minimi tassi di remunerazione di quei capitali, piccoli o meno piccoli che siano, non consentono più ai tesoretti depositati in banca dalle vecchie generazioni di far fronte alle necessità di un sostegno supplementare ai magri guadagni, quando ci sono, dei giovani d’oggi. Ci accorgeremmo, forse, che la prossima rivoluzione non verrà dai poveri che troviamo all’aperto, agli angoli delle strade, ma da quelli che stanno al chiuso, dentro le loro case e si vergognano di esserlo diventati. AVVENIRE Pag 1 Senza tregua di Maurizio Patriciello Ciò che serve contro la camorra Il mondo politico italiano è in subbuglio dopo le recente tornata elettorale. Si fanno i conti. Quasi nessuno ammette ferite da leccare, ma solo mani da stropicciare. Anche a Napoli è del tutto logico che l’attenzione sia orientata verso il grande ballottaggio del 19 giugno. Intanto a Ponticelli, in un agguato, vengono trucidate due persone: il capo di una delle mille gang di camorra e un incensurato. È normale che due giovani, di 25 e 19 anni, vengano massacrati? No. Anche se avevano scelto di mettersi contro il vivere civile. Se il quartiere dove l’agguato avviene, poi, è ancora e sempre Ponticelli, la cosa diventa più preoccupante. Non è la prima volta infatti che in quella difficile periferia di Napoli si ammazza anche in pieno giorno e sotto gli occhi dei bambini. Mentre Napoli si prepara per la grande sfida, prepotente, impietosa, drammatica riemerge la vera emergenza di questa città. La camorra non è un’opinione, ma una terribile realtà. Non è morta e nemmeno moribonda, ma è viva e vegeta. La camorra porta all’esasperazione la gente perbene, le rende la vita impossibile. Sa di poter contare sulla tolleranza di uno Stato che, fino a oggi, non ha voluto dichiararle guerra, come fece con il terrorismo. La camorra è la vera nemica della nostra preziosa gioventù. Ma neanche un trafiletto sui giornali merita l’ennesimo agguato mortale a Ponticelli. Eppure non è una semplice notizia di cronaca. Troppe persone pensano che 'finché si ammazzano tra loro possiamo stare sereni'. Non è vero. Non è così. Questo modo di pensare è una trappola nella quale non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo cadere. Questi giovanissimi criminali si ammazzano per le strade. Dunque, la vita degli innocenti, a cominciare dai bambini, è sempre in pericolo. Nessuno può dirsi al sicuro. Questi criminali hanno preso in ostaggio interi quartieri, rendendo la vita della povera gente un inferno. Lo fanno apposta per spingerli ad andare via. Ma dove potrebbero andare? Approfittiamo di questo articolo per confermare piena solidarietà al parroco della diocesi di Nola che al primo accenno di un altro insopportabile, blasfemo, pericolosissimo 'inchino' della statua della Madonna verso la casa del boss di turno ha ripiegato la stola e ha lasciato la processione. 'Loro' si nutrono di quei gesti. Li caricano di un significato simbolico. Loro vogliono convincere gli ingenui che la camorra non è 'altro' dalla società, ma è funzionale a essa. Che dappertutto ci sono imbrogli e malaffare. Che dappertutto c’è gente corrotta e collusa. E quando nel mondo politico, civile, amministrativo, religioso vengono a galla reati e soprusi, 'loro' sono felicissimi. È la prova che avevano ragione. Il mondo è questo e tu, ingenuo, vorresti cambiarlo? Ecco perché non temono nemmeno le pattuglie della polizia. Conoscono le leggi. Sanno quanto rischiano commettendo quel reato. Sanno di poter contare su una schiera innumerevole di aspiranti malviventi. Veri postulanti alla ricerca di una 'casa'. La povertà cronica, in questi anni si è trasformata per centinaia di famiglie in vera e propria miseria. La miseria è devastante. Orripilante. La miseria

ottunde la mente e il cuore. Li indurisce. E quando a trascinarsi nella miseria nera sono i tuoi genitori e i tuoi fratelli, i tuoi bambini, è probabile, molto, molto probabile che alla fine si ceda. La prossima amministrazione di Napoli deve ripartire da Ponticelli, da Forcella, dalla Sanità, dai Quartieri spagnoli, da Scampia. E se i napoletani colti e benestanti hanno davvero compreso la gravità della situazione non possono non dar man forte a questo nobile progetto. Troppo sangue giovane, anche se non innocente, è stato versato a Napoli. E mentre a Ponticelli si continua a uccidere con le pistole, a Casal di Principe le ruspe della Forestale tornano a scavare nei luoghi indicati venti anni fa dal camorrista, poi collaboratore di giustizia Carmine Schiavone. Nei luoghi individuati dall’eroico poliziotto Roberto Mancini. Luoghi conosciuti e volutamente dimenticati. Per decenni. E da quelle terre, riaffiorano i veleni occultati. Veleni che non potevano, e non possono che avvelenare i cittadini. Checchè ne dicano coloro che vorrebbero chiudere in fretta questa vergognosissima pagina di storia che vede camorristi, industriali disonesti e politici corrotti o collusi andare a braccetto. Occorre chiudere con la camorra. Per farlo non bastano gli eroi isolati o improvvisati. Non bastano piccole soluzioni e buona volontà. Per farlo occorre un’ azione di forza congiunta e senza tregua. Occorre che la politica locale, regionale e nazionale metta in agenda – e inchiodi in prima pagina – la lotta a questa emergenza antica e sempre nuova. E non la cancelli più, fino alla vittoria. Pag 7 Altri frutti amari della non integrazione Prima o poi poteva succedere. Ma non doveva. L’avevamo scritto che nella tendopoli/baraccopoli di San Ferdinando prima o poi ci sarebbe scappato il morto. In realtà, morti di freddo e di stenti ce ne sono già stati. Ci sono stati incendi con persone salve per un pelo. E ripetute e insensate aggressioni per provocare la reazione violenta dei migranti. A tutelare i lavoratori africani sono perciò arrivati carabinieri e poliziotti. Ieri, uno di loro ha ucciso. Per difendersi da un’aggressione, come hanno confermato i migranti stessi. Ma questa aggressione, pur frutto di un momento di follia, è soprattutto figlia della non-soluzione del caso Rosarno: degrado, sfruttamento, abbandono non generano mai prole sana. Quante volte abbiamo parlato con quei ragazzi, ascoltando civilissime proteste. Quante promesse abbiamo sentito dalle istituzioni. Quante passerelle abbiamo visto tra le baracche. Certo, qualcosa si è mosso: dalla lotta al caporalato a un solenne 'protocollo'. È l’ora dei fatti concreti, non delle polemiche interessate e delle basse speculazioni politiche. Non è l’immigrazione o la reattività delle Forze dell’ordine che crea drammi, ma la mancata vera integrazione. Che invece serve. Non ridarà vita a Sekine Traore, ma la salverà a tanti altri. LA NUOVA Pag 1 Dalle urne la palla passa a Grillo di Ferdinando Camon Gli italiani avevano una fiducia gigantesca in Renzi, Renzi raccoglieva personalmente, su di sé, una montagna di voti. Prometteva molto, e noi avevamo bisogno di un uomo nuovo con nuove promesse. Alla domanda: “Ci riuscirà Renzi?” anche i politici più scettici rispondevano: “Dobbiamo crederci, perché è l’ultima spiaggia, se fallisce Renzi non c’è più nessuno che possa subentrargli”. Quella gigantesca fiducia in Renzi si sta sbriciolando, perché di tutto quello che prometteva non c’è niente che sia diventato realtà. Ripeteva: “È la volta buona, è il verso giusto”…: ma non era mai vero. La crisi aumenta, il lavoro cala, le tasse crescono, l’immigrazione irrompe, l’Europa ci snobba… Siamo in giugno, mese in cui si pagano le tasse: compiliamo il modello di quest’anno e lo confrontiamo con quello dell’anno scorso, non c’è sistema migliore per capire se le tasse calano o crescono. E vediamo che non calano, né quelle nazionali né quelle locali. I dati della crisi sono allarmanti quando escono dagli istituti di ricerca, diventano dolci in bocca ai governanti, specialmente a Padoan: ma non è vero che stiamo uscendo dalla crisi e che questa è la volta buona, purtroppo la crisi è come le sabbie mobili, più ci agitiamo più sprofondiamo. Sul lavoro ci si arrampica sugli specchi, si disaggregano i dati per trovarne qualcuno di confortevole ed esibirlo, ma nella sostanza la disoccupazione resta un problema terribile per le famiglie, un problema anche esistenziale: è lì la causa maggiore della nostra denatalità, e un popolo in denatalità è un popolo che non è contento di vivere, non ama la vita e non vuole trasmetterla. Si

lascia morire. Inutile girarci intorno. L’immigrazione la subiamo, non la governiamo. E l’Europa se ne lava le mani. Anche il muro al Brennero lo subiamo. Non ci sentiamo garantiti in niente. Neanche nei nostri risparmi. A questo punto è chiaro a tutti, anche ai governanti, che le banche che sono fallite sono fallite perché concedevano agli amici dei dirigenti prestiti a rischio che erano regali, ma passano i mesi e gli anni, nessuno viene punito e i soldi spariti non saltano fuori. L’insicurezza dei nostri risparmi diventa insicurezza delle nostre famiglie, perché noi siamo un popolo di risparmiatori. Renzi fallisce anche “personalmente” nel salvataggio delle banche (“ci metto la faccia”), perché ha nel suo staff ministri con la famiglia coinvolta in una gestione incauta di prestiti bancari. Da due anni in qua, la disintegrazione della fiducia in Renzi è il fatto più negativo (vorrei dire catastrofico) della nostra politica: sprecato Renzi, non ci resta che Grillo. È quel che dicono le recenti votazioni amministrative. Il popolo cerca uomini che governino “da soli”. Il popolo è diventato ormai anti-sistema, e sente Renzi e Grillo come eversivi del sistema. Renzi e Grillo sono i nostri Trump, i nostri Le Pen. La nostra anti-politica. La politica ha fallito, il popolo ha deviato verso l’anti-politica: lo ha fatto con Renzi, si prepara a rifarlo con Grillo. Non abbiamo la più pallida idea di cosa possa fare Grillo, perché Grillo ha rifiutato (sbagliando) di entrare nel governo, e non ha affrontato “governativamente” nessuno dei nostri problemi. La politica è in macerie, se va in macerie anche l’antipolitica ci troveremo con gli stessi problemi ma aggravati. Il tempo non lavora per noi. Stiamo male, staremo peggio. Pag 6 Spezzata la barriera culturale di Alberto Flores d’Arcais Con l’ultimo super-martedì delle primarie alle spalle, Hillary Rodham Clinton - 68 anni, ex First Lady, ex Senatrice al Congresso Usa ed ex Segretario di Stato - ha ottenuto di fatto la nomination del partito democratico per contendere a Donald Trump la Casa Bianca. Superando il numero magico (2.382) dei delegati necessari (ne ha 2.755) può adesso (ma il suo staff ha iniziato da tempo) dedicarsi a strategia e tattica per neutralizzare il ciclone Trump nel voto finale dell’8 novembre. Ha dovuto aspettare otto anni (tanti ne sono passati da quella primavera 2008 in cui un poco conosciuto Barack Obama le tolse a sorpresa ogni speranza) per vedere realizzato il primo dei due sogni “impossibili” della sua lunga vita politica in attesa di coronare quello ancora più difficile: essere la prima donna a entrare dalla porta principale alla Casa Bianca, diventare il Commander in Chief della più grande superpotenza del nostro pianeta. Ha spezzato il “soffitto di vetro”, quella invisibile barriera (culturale, psicologica, economica e via dicendo) che ostacola la carriera (non solo politica) di tante donne ad ogni latitudine del mondo, compresi gli Stati Uniti dove il termine è nato nell’ormai lontano 1979 (a coniarlo furono due manager, donne, della Hewlett-Packard). L’ha avuta vinta contro Bernie Sanders, vecchio volpone del Congresso (è senatore del Vermont), ebreo di Brooklyn che non ha avuto paura di scendere in campo con richiami a valori socialisti che l’americano-tipo considera al pari di Satana. Partito senza alcuna chance, dopo alcuni inaspettati e clamorosi successi “zio Bernie” (come lo chiamano simpaticamente i suoi giovani fans) ha creato nello staff della ex First Lady momenti di panico e l’incubo di una ripetizione delle primarie 2008. Non è stato così, troppo forte l’ascendente di Hillary su una parte rilevante della constituency democratica (donne e minoranze afro-americane e ispaniche) ma adesso - se vuole evitare brutte sorprese a novembre - l’ex Segretario di Stato deve conquistare cuori e voti dei milioni di giovani che si sono avvicinati alla politica grazie a Sanders e dei milioni di uomini (bianchi della working class) che in zio Bernie hanno visto un paladino che lotta contro i poteri forti di Wall Street e i palazzi politici di Washington. Come prima cosa dovrà convincere proprio Sanders a farsi da parte subito, a riconoscere la sconfitta e possibilmente anche a impegnarsi per sostenerla pubblicamente. Al momento lui tiene duro, aveva promesso ai suoi elettori che avrebbe combattuto fino alla Convention di Filadelfia (25-28 luglio) e lo ha confermato ancora ieri subito nonostante la netta sconfitta in California, New Jersey e altri tre Stati. Una posizione poco comprensibile al grande pubblico che lui motiva con la necessità di tenere alta la discussione sui temi “di sinistra” cari a lui (e al suo comunque vasto elettorato) e come ripicca per la vicenda dei super-delegati, quei “funzionari” di partito che scegliendo in massa Hillary lo avrebbero penalizzato. Sanders non tiene conto che nel voto popolare Hillary lo ha superato di circa tre milioni di voti ed è su

questo punto che Barack Obama (che oggi lo riceve alla Casa Bianca) insisterà per provare a convincerlo a rinunciare ai suoi bellicosi progetti. Per diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti d’America deve però fare i conti con due suoi punti deboli. Il primo è il suo carattere, la ex First Lady è percepita dalla maggioranza degli americani come una persona arrogante e antipatica (e anche un po’ bugiarda), il secondo riguarda invece la sfera etico-morale. La Clinton Machine, detta anche Billhary (termine coniato nel 2008), lei e l’ex presidente, sono una formidabile macchina di potere e di soldi, cioè le cose che i protagonisti dell’ondata anti-politica del 2016 (vedi successi di Trump ma anche di Sanders) odiano di più. E poi c’è quella legge non scritta per cui quasi sempre dopo due mandati di un partito si cambia. Dal dopoguerra ad oggi solo in due casi (Bush padre dopo Reagan, Truman dopo Roosevelt) non è accaduto. Se ci riuscirà una donna il miracolo sarà duplice. Torna al sommario